Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2017

 

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE 

 

 

 

 

  

 

ITALIA ALLO SPECCHIO

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2017, consequenziale a quello del 2016. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

COS’E’ LA POLITICA OGGI?

L’ITALIA DELLE RIFORME IMPOSSIBILI.

IL PARTITO DELL'ASTENSIONE.

LO "IUS SOLI" COMUNISTA.

ITALIANI SENZA INNO NAZIONALE.

ITALIANO: UOMO QUALUNQUE? NO! SONO TUTTI: CETTO LA QUALUNQUE.

DEMOCRAZIA: LA DITTATURA DELLE MINORANZE.

ANTROPOLOGIA SINISTROIDE. VIAGGIO NEL CERVELLO PROGRESSISTA CHE “HA SEMPRE RAGIONE”.

ITALIANI: VITTIME PATOLOGICHE.

L'ITALIA DEI SOCIAL. QUELLO CHE LA GENTE PENSA E SCRIVE...

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

AI MIEI TEMPI...AI MIEI TEMPI...

PARLAR MALE DELL'ITALIA? LA GODURIA DEGLI ITALIANI.

L'ITALIA DEI CAMPANILI.

L'ITALIA DEL PREGIUDIZIO E DEL PRECONCETTO.

GLI ITALIANI NON SANNO PERDERE.

ITALIANI RANCOROSI.

ITALIANI: POPOLO DI TRADITORI.

FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.

L’IPOCRISIA DELLA RICONOSCENZA.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

ITALIA. IL PAESE DEI CAFONI.

ITALIANI: UN POPOLO DI ASOCIALI.

L’ITALIA DEGLI INVIDIOSI.

ITALIANI SCROCCONI.

ITALIA. IL PAESE DEI LADRI.

LADRI DI BICICLETTE.

IL COMUNE SENSO DEL PUDORE.

GLI ITALIANI ED IL TURPILOQUIO.

L’ITALIA DEL TRASH (VOLGARE).

ITALIANI: UN POPOLO DI STUPIDI ODIOSI.

GLI ITALIANI E LA STUPIDITA’.

L’ITALIA DELLA SCARAMANZIA.

L’ITALIA DEI PAZZI.

L'ITALIA DEI FAVORITISMI (ANCHE IN FAMIGLIA).

CONCORSO INFINITO: CONCORSO TRUCCATO!

IL FASCINO DEL CONCORSO PUBBLICO E DEGLI ESAMI DI STATO (TRUCCATI).

LA REPUBBLICA DEI BROCCHI NEL REGNO DELL'OMERTA' E DEL PRIVILEGIO.

LA FINE DI UNA VITA FATTA DI BOCCIATURE.

VERONICA PADOAN ED IL RIBELLISMO DEI FIGLI DI PAPA’.

IL FAMILISMO AMORALE ED IL COOPTISMO AMORALE.

CERVELLI IN FUGA.

NON SIAMO STOICI.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

VIVA GLI ANTIPATICI.

ITALIA. PAESE DI GIOCATORI D’AZZARDO.

ITALIA. PAESE DI SANTI, NAVIGATORI E...POETI.

EDITORIA A PAGAMENTO.

ITALIA PAESE DI SCRITTORI CHE NESSUNO LEGGE.

LA SCUOLA AL FRONTE.

ITALIANI: POPOLO DI IGNORANTI LAUREATI.

L'ITALIANO: LINGUA MORTA, ANZI, NO!

L’ITALIA DEI SACCENTI. TUTTI PARLANO. NESSUNO ASCOLTA.

L’ITALIA DEI GENI.

IL CALENDARIO CIVILE VISTO DALLA SINISTRA.

IL GIORNO DEL RICORDO…DIMENTICATO.

PADRI DELLA PATRIA: LA NOSTRA ROVINA.

FRATELLI D’ITALIA? MASSONI ITALIANI.

ABOLIAMO LA MASSONERIA?

DA DE GASPERI A RENZI. COME L'ITALIA SI E' VENDUTA AGLI AMERICANI.

MISTERI E DEPISTAGGI DI STATO.

LA MAFIA GLOBALIZZATA.

I DIECI COMANDAMENTI DELL’ANTIMAFIA.

L’ANTIMAFIA IMPLACABILE.

LE VITTIME DELL’ANTIMAFIA ED IL REATO CHE NON C’E’: IL CONCORSO ESTERNO.

PENTITI E PENTITISMO. LA LINGUA BIFORCUTA.

LA MAFIA NON ESISTE, ANZI, E' DI STATO!

MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.

MAFIA COMUNISTA. IL RACKET DELLE OCCUPAZIONI ABUSIVE DEGLI IMMOBILI.

IL RACKET DEI TURISTI NORDISTI.

ITALIANI. MAFIOSI PER SEMPRE.

MAFIA. CACCIA ALLE STREGHE? NO! CACCIA ALLE ZEBRE...

L'ANTIMAFIA SPA E PARTIGIANA.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

L'ITALIA CERVELLOTICA DEGLI SPRECHI ASSURDI.

IL PAESE DEI COMUNI FALLITI.

IL PAESE DEGLI AMMINISTRATORI PUBBLICI MINACCIATI.

IL FENOMENO DELLA BLUE WHALE, OSSIA DELLA BALENA BLU (GIOCO).

QUELLI…PRO SATANA.

UN BUSINESS CHIAMATO GESU'.

PEDOFILIA ECCLESIASTICA.

L'ISLAMIZZAZIONE DEL MONDO.

TERRORISMO ISLAMICO. IL 2017 INIZIA COL TERRORE.

2016. EUROPA, UN ANNO DI TERRORE.

PARLIAMO DI LEGALITA'. LA REPUBBLICA DI ZALONE E DI FICARRA E PICONE.

ONESTA' E DISONESTA'.

DUE PESI E DUE MISURE.

LA SETTA DEI 5 STELLE.

LA MORALITA' DEGLI UOMINI SUPERIORI.

A MIA INSAPUTA. QUELLI CHE NON SANNO.

CERCANDO L’ITALEXIT.

MORIRE DI CRISI.

L’ITALIA E LE RIVOLUZIONI A META’.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

UNA COSTITUZIONE CATTO-COMUNISTA.

C'ERA UNA VOLTA LA SINISTRA. LA SINISTRA E' MORTA.

LA DIFFERENZA TRA LA POLITICA DEI MODERATI E L'INTERESSE PRIVATO DEI COMUNISTI.

IL TRAVESTITISMO.

C'ERA UNA VOLTA LA DESTRA.

CUORI ROSSI CONTRO CUORI NERI.

C’ERANO UNA VOLTA I LIBERALI.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DA TENCO A PASOLINI, DA TOTO’ A BONCOMPAGNI.

E POI C’E’ ALDO BISCARDI.

1977: LA RIVOLUZIONE ANTICOMUNISTA.

FASCISTI-COMUNISTI PER SEMPRE.

L'ITALIA ANTIFASCISTA. 

MALEDETTO 25 APRILE.

PRIMO MAGGIO. FESTA DEI LAVORATORI: SOLITA LITURGIA STANTIA ED IPOCRITA.

I GIORNALISTI SON TROPPO DI SINISTRA.

LA TRUFFA DELL'ANTIFASCISMO.

DEMOCRATICI: SOLO A PAROLE.

QUELLI CONTRO...IL SUFFRAGIO UNIVERSALE.

LA DEMOCRAZIA DEI TIRANNI INTELLETTUALI.

MAI DIRE BEST SELLER. LA CULTURA COMUNISTA E L’INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

I NEMICI DELLA LIBERTA DI STAMPA? QUELLO CHE NON SI DEVE E NON SI PUO’ SCRIVERE.

DIRITTO DI CRONACA E DIRITTO DI STORIA VITTIME DEL DIRITTO ALL'OBLIO.

DIRITTO ALL'OBLIO, MA NON PER TUTTI.

L'ITALIA DELL'ACCOGLIENZA.

LA LUNGA STORIA DEI POPULISMI.

LA SINDROME DI MEDEA.

L’ITALIA ANTICONFORMISTA.

NON SONO TUTTI ...SANREMO.

C'ERA UNA VOLTA...CAROSELLO.

L’ITALIA DELL’ACCOZZAGLIA RESTAURATRICE. TUTTI CONTRO UNO.

GLI ITALIANI...FANTOZZI!

QUELLI CHE...REGIONANDO E PROVINCIANDO, TRUCCANO.

MALEDETTA ALITALIA (E GLI ALTRI).

L’ITALIA DELLE CASTE.

L’ITALIA DELLE LOBBIES.

CHI MANGIA SULLE NOSTRE BOLLETTE.

L'ITALIA ALLO SBANDO.

SOLDI E COMPLOTTI NELLO SPORT.

LA FIDAL ED I VERI ATLETI.

L'ITALIA IN GUERRA.

QUELLI CHE...SONO RAZZISTI INTERESSATI.

QUELLI CHE…SONO RAZZISTI CON ARTE, SENZA PARTE.

QUELLI CHE...SONO RAZZISTI E BASTA.

QUELLI CHE SONO RAZZISTI...A RAGIONE.

 

INDICE TERZA PARTE

 

GLI ULTIMI 25 ANNI DEGLI ITALIANI.

TROPPE LEGGI = ILLEGALITA’.

IL LIMBO LEGISLATIVO. LE LEGGI TEORICHE.

L'INSICUREZZA PUBBLICA E LA VIDEO SORVEGLIANZA PRIVATA.

L'INSICUREZZA PUBBLICA ED IL PARTITO DEI CENTRI SOCIALI.

L'ITALIA E L'ILLEGALITA' DI MASSA.

L’ITALIA DEI CONDONI.

LEGGE ED ORDINE.

PARLIAMO DELLE CELLE ZERO.

TANGENTOPOLI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

DEVASTATI DA MANI PULITE.

I GIORNALISTI. I KILLER DELLA PRIMA REPUBBLICA.

LA FINE DELLA DEMOCRAZIA.

IL COMUNISMO, IL FASCISMO ED I 5 STELLE: LA POLITICA COL VINCOLO DI MANDATO.

LA VERITA' E' FALSA.

IL TURISMO DELL'ORRORE.

IL GIORNALISMO DELLA MALDICENZA.

GIORNALI E PROCURE.

STEFANO SURACE E I MONDI DELL’INFORMAZIONE.

FINALMENTE LA TV DIVENTA GARANTISTA. 

I MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI.

IL CARCERE UCCIDE: TUTTO MORTE E PSICOFARMACI.

IL PARTITO DELLE MANETTE COL CULO DEGLI ALTRI.

GIUSTIZIA CAROGNA.

L'IMPRESA IMPOSSIBILE DELLA RIPARAZIONE DEL NOCUMENTO GIUDIZIARIO.

LA STORIA DELL’AMNISTIA.

L'ITALIA DEGLI APPALTI TRUCCATI.

NOTIZIE FUGACI E TRUCCATE.

LE SPECULAZIONI ELITARIE.

PARENTELE TOGATE.

LA REPUBBLICA GIUDIZIARIA, ASPETTANDO LA TERZA REPUBBLICA.

IL 2016 ED I FLOP GIUDIZIARI.

L’ITALIA SPORCA AL CINEMA: SESSO, DROGA E CORRUZIONE.

IL PROIBIZIONISMO E LO STATO PATERNALISTA.

2016 FATTI E NOMI PIU’ IMPORTANTI.

I DESAPARECIDOS ED IL PIANO CONDOR.

LE PEGGIORI CAZZATE VIP DETTE NEL 2016.

EI FU: IL CORPO FORESTALE.

FIGLI DI TROJAN. HACKER E CYBERSPIONAGGIO.

A COSA SERVONO...

 

INDICE QUARTA PARTE

 

UN POPOLO DI NON IDENTIFICATI. I CORPI SENZA NOME.

FUNERALE LAICO. SENZA DIRITTI ANCHE DA MORTI!

LA GERMANIA: AL DI LA' DEI LUOGHI COMUNI.

REGENI, PUTIN, TRUMP E LE FAKE NEWS (BUFALE/FALSE VERITA').

LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.

IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.

SINISTRISMO E RADICAL-CHIC.

LA NORMALIZZAZIONE DI TRUMP SULL’ASSE PRO TERRORISTI.

I MURI NELL'ERA DI INTERNET.

IL RAZZISMO IMMAGINARIO.

RAZZISMO E STEREOTIPI.

TRADIZIONI E MENZOGNE.

QUELLI CHE...SON SOLIDALI.

PARLIAMO DI IMMIGRAZIONE SENZA PARTIGIANERIA.

QUELLI CHE...COME I SINDACATI.

QUELLI COME…I PARLAMENTARI.

QUELLI…PRO GAY.

QUELLE CHE…SON FEMMINISTE.

L'ITALIA DEGLI IMBOSCATI.

L'ITALIA DEI CORROTTI.

CORROTTI E CORRUTTORI. UN POPOLO DI COMPRATI E DI VENDUTI. L’ITALIA DEI BONUS E DEI PRIVILEGI.

LA SANITA’ MALATA.

REATO DI ANZIANITA'. ADOTTABILITA' DEI FIGLI: NEGATA AGLI ANZIANI, MA PERMESSA A GAYS E LESBICHE.

GENITORIALITA' MALATA.

FILIAZIONE MALATA.

PARENTICIDI: OMICIDI FAMILIARI.

ABRUZZO. GIUSTIZIERI, TERREMOTO E VALANGHE. HOTEL RIGOPIANO. I MORTI SONO STATI UCCISI.

PARLIAMO DELLA BASILICATA.

PARLIAMO DELLA CALABRIA.

PARLIAMO DELLA CAMPANIA.

PARLIAMO DELL’EMILIA ROMAGNA.

PARLIAMO DEL LAZIO.

PARLIAMO DELLA LIGURIA.

PARLIAMO DELLA LOMBARDIA.

PARLIAMO DEL PIEMONTE E DELLA VALLE D’AOSTA.

PARLIAMO DELLA PUGLIA.

PARLIAMO DELLA SARDEGNA.

PARLIAMO DELLA SICILIA.

PARLIAMO DELLA TOSCANA.

PARLIAMO DELL’UMBRIA.

PARLIAMO DEL VENETO.

 

 

 SECONDA PARTE

 

 

L'ITALIA CERVELLOTICA DEGLI SPRECHI ASSURDI.

Toh, la burocrazia ci costa più dell'evasione. Gli sprechi della Pa valgono quasi 150 miliardi contro i 110 sottratti alle imposte, scrive Gian Maria De Francesco, Martedì 15/08/2017, su "Il Giornale". Gli sprechi e le inefficienze della pubblica amministrazione costano ai cittadini quasi 150 miliardi di euro all'anno, ben più dei 110 miliardi a cui, secondo le stime, ammonterebbe l'evasione fiscale. È quanto sostiene l'Ufficio studi della Cgia di Mestre che ha cercato di aggregare tutti i dati relativi al malfunzionamento della macchina burocratica valutandone l'impatto negativo sull'economia del nostro Paese. L'analisi si basa sugli effetti prodotti da talune criticità sul sistema-Italia. In primo luogo, il deficit logistico-infrastrutturale incide per un importo di 42 miliardi di euro l'anno. È la stima contenuta in uno studio Confcommercio-Isfort del 2015 sul maggiore valore aggiunto che genererebbe l'Italia se vantasse lo stesso indice di performance della Germania. I debiti della pa nei confronti dei fornitori, desumibili dalle ultima relazione annuale di Bankitalia, ammontano a 64 miliardi di euro dei quali 34 miliardi ascrivibili ai ritardi nei pagamenti. Il peso della burocrazia grava sulle pmi per un importo di oltre 30 miliardi di euro l'anno, cifra certificata sia da una relazione del 2013 del dipartimento Funzione pubblica che da un più recente studio del Cer del 2015. Sprechi e corruzione nella sanità pesano per 23,6 miliardi l'anno (secondo le stime dell'Ispe del 2014), mentre tanto Bankitalia quanto altre basi di dati imputano nelle lentezze della giustizia tanto penale quanto civile quanto amministrative un effetto negativo pari a circa un punto di Pil (16-17 miliardi). Sommando questi valori relativi a diversi sottoinsiemi (che in alcuni casi potrebbero intersecarsi tra loro) si ottiene un valore lordo di circa 146,6 miliardi. Eventuali elisioni interne, però, dovrebbero comunque restituire una cifra superiore al mancato gettito determinato dall'evasione fiscale e contributiva, stimato appunto in 110 miliardi dalla Commissione per la redazione della Relazione annuale sull'economia non osservata, presieduta dall'ex ministro Enrico Giovannini. Questa «cattiva coscienza» dello Stato nei confronti della pubblica amministrazione è testimoniata anche dai dati di bilancio. Il segretario della Cgia, Renato Mason, ha ricordato che «al netto degli interessi sul debito, nel 2017 la spesa pubblica dovrebbe attestarsi sui 773 miliardi di euro» e che «i risultati della spending review, seppur importanti, ma non ancora sufficienti» perché «a fronte di risparmi strutturali per 30,4 miliardi di euro, la spesa corrente al netto degli interessi è aumentata di 31,8 miliardi». È in massima parte il Nord a scontare gli effetti negativi della cattiva gestione della pa, sottolinea il coordinatore dell'Ufficio studi degli artigiani mestrini, Paolo Zabeo, in quanto «avendo un'economia orientata all'export, questi territori avrebbero bisogno di contare su servizi e infrastrutture migliori per competere con maggiore successo nei mercati internazionali». La seconda, perché la propensione all'evasione fiscale del settentrione è nettamente inferiore che nel resto del Paese. In secondo luogo, il ministero dell'Economia aveva osservato come le regioni del Sud registrino livelli di intensità di evasione che sfiorano il 60%, mentre la media del Nord è del 27 per cento. Nei rapporti tra Stato e contribuente, prosegue la Cgia, appare evidente che i dati riportati più sopra dimostrano che il soggetto maggiormente leso non è il primo, ma il secondo. «Se si recuperasse buona parte dell'evasione, la macchina pubblica funzionerebbe meglio e costerebbe meno», ha concluso Zabeo, ma questo non esime coloro che hanno responsabilità di governo dall'imperativo ormai categorico di riuscire «a tagliare sensibilmente la spesa pubblica».

Porno, calcio e scommesse online: lo scandalo dei telefonini di Stato. Dai cellulari in dotazione alle amministrazioni pubbliche sono partite migliaia di chiamate verso numeri ben poco istituzionali. Con un danno di quasi 8 milioni di euro. Lo studio sul traffico di oltre 400 mila sim card Coppola (Pd): "Molte potrebbero essere truffe". Donazioni via sms a carico del contribuente, biglietti per eventi e abbonamenti a oroscopi, scrive Fabio Tonacci il 7 agosto 2017 su "La Repubblica". Siamo sicuri che tra gli 840 dipendenti pubblici che hanno attivato l'abbonamento a "SexyLand" sul telefono di servizio, pagato coi soldi degli italiani, ci sia qualcuno che lo ha fatto per sbaglio. E siamo anche ragionevolmente certi che tra i 665 funzionari, assessori e dirigenti statali che risultano abbonati a "Le porno Erasmus", ci sia chi è soltanto vittima di una truffa telefonica. Così come se andiamo a frugare tra i 564 abbonamenti attivati tra aprile e giugno di quest'anno a "Video hard casalinghi", i 12.000 abbonamenti a "Serie A Tim", i 630 a "Dillo alle Stelle" e i 260 a "Pronto a tavola", troveremo certamente chi ignora di avere questa roba nelle bollette. Ma che c'entra il televoto con l'uso del cellulare "per ragioni di servizio"? Cosa c'entrano le telefonate ai call center per i biglietti dei concerti, o le donazioni via sms addebitate allo Stato? Quel che ha scoperto la Commissione parlamentare d'inchiesta sulla digitalizzazione (e gli sprechi) dell'Amministrazione pubblica analizzando i 401.839 cellulari a carico dello Stato è un quadro assai poco edificante, di sciatteria e di consapevole sperpero. Tanto, appunto, paga lo Stato. La Commissione si è fatta mandare da Telecom Italia il prospetto con il traffico - telefonate, sms e dati Internet - di tutte le sim dei cellulari consegnati ai dipendenti pubblici. Rientrano nelle due distinte convenzioni Consip (Telefonia mobile 5 e Telefonia mobile 6) che hanno rifornito circa 4.400 amministrazioni centrali e locali. L'obiettivo era capire quanto si può risparmiare se si eliminano i consumi che niente hanno a che fare con il lavoro di un sindaco, di un assessore, di un funzionario ministeriale, di un dirigente statale. Sono quindi andati a vedere quanto è stato speso, dal 2012 al 2017, per chiamate a numeri speciali con addebito (i call center), per servizi di intrattenimento via sms e mms, per i servizi interattivi sulla Rete. Risultato: 7,7 milioni di euro sprecati. Una media di quasi due milioni all'anno, con picchi tra il 2013 e il 2015. Non sono cifre che sconvolgono il bilancio di un Paese, ma dicono molto dei suoi costumi. "Basterebbe fare i controlli sulle bollette, smettendola di complicare le norme, e non ci troveremmo di fronte a questo spreco", osserva il deputato del Pd Paolo Coppola, presidente della Commissione.

Andiamo con ordine. Per avere un'indicazione statistica dei consumi abusivi è stato chiesto alla Tim il dettaglio del traffico di tutte le sim pubbliche nei mesi tra aprile e giugno 2017. In numeri speciali spendiamo 39mila euro non dovuti per colpa di 1.382 chiamate al call center di Trenitalia (11.500 euro), 1.108 a quello di Alitalia (8.754 euro), 267 al desk di Ticketone per avere informazioni su biglietti e concerti (1.907 euro), 120 telefonate al call center di Sky (293 euro) e altro. Piccole cifre, ma che non dovrebbero esistere visto che l'uso del cellulare è consentito solo nell'ambito dell'incarico svolto.

Un po' di più, 132 mila euro, è stato buttato via con gli sms per comprare prodotti bancari e promozioni di natura sociali. Si contano 15.000 messaggini (costati 52.390 euro) ricevuti da Banca Intesa per le comunicazioni di home banking che, ovviamente, non dovrebbero essere attivate col telefono di servizio. Facendolo, furbescamente il possessore carica la commissione della banca su una bolletta non sua. Ci sono anche alcune voci che si riferiscono ad acquisti con Mediaset e altre televisioni. Pure un migliaio di euro in sms di beneficenza, perché è facile essere generosi con i soldi di tutti. Per non parlare di chi ha entusiasticamente partecipato con gli sms (altri 1.000 euro) al televoto di Sanremo e Miss Italia. Ripetiamo: piccole cifre, ma esemplari.

Arriviamo al tasto più doloroso e oneroso, da mezzo milione di euro in tre mesi: le transazioni sulla Rete per contratti con strani provider. Qui, a voler stare al prospetto della Tim, si entra nella fiera del futile. Dunque: 6.976 abbonamenti mobilepay a Beengo Tuk Tuk (in Rete si trovano decine di utenti che si lamentano per l'attivazione non voluta); 9.176 a Mobando; 6.438 a TimGames, 12.000 circa a Serie A Tim, migliaia e migliaia di servizi per entrare nelle chat erotiche e ricevere e materiale pornografico, oroscopi, ricette, scommesse sportive. "Credo che la maggior parte di questi abbonamenti siano stati attivati involontariamente, frutto di truffe telefoniche", sostiene Paolo Coppola. "Se chi lavora nella pubblica amministrazione ci casca così facilmente, chissà quanti utenti privati vengono fregati".

Rimangono però un paio di punti da chiarire. Pure in presenza di truffe, c'è da chiedersi perché non vengano rilevate da chi controlla i bilanci di comuni, province, regioni, ministeri. Basterebbe avvertire il dipendente, disattivando il servizio, e risparmieremmo tutti. Non solo. Gli sms per il televoto a San Remo, le chiamate ai call center a pagamento, l'home banking, la beneficenza farlocca: tutto ciò assomiglia più al reato di peculato che a un inconsapevole errore. "Ci penserà la procura, nel caso", dichiara Coppola. "Più avanti consegneremo la relazione finale complessiva al Parlamento, e immagino che i magistrati saranno interessati. Sull'immediato, come commissione di inchiesta, daremo l'indicazione perché nella convenzione Consip sia inserita una clausola per mettere automaticamente nella black list questo tipo di servizi".

I tagli mai fatti: ogni giorno una società pubblica in più. Lo studio Ires-Cgil: sono quasi 9mila, 5mila nate solo tra il 2000 e il 2014. Gli enti locali assumono beffando le leggi. Record in Val d’Aosta con una partecipata ogni 1.929 cittadini. E una su 5 è inattiva, scrive Sergio Rizzo il 13 luglio 2017 su "La Repubblica". La società delle Terme di Salsomaggiore è in rosso dal 2008. La pioggia delle società pubbliche, indifferente al clima politico e ai rovesci dell’economia, non si è mai fermata. Una al giorno, ne è nata. Per anni e anni, fino ad allagare Regioni, Province, Comuni. La fotografia scattata dalla Cgil con il suo centro studi Ires in un approfondito studio di 60 pagine, ci consegna oggi un’immagine mostruosa. Uno scenario popolato da 8.893 società partecipate dalle pubbliche finanze e cresciute a un ritmo impressionante: circa 5mila nel solo periodo compreso fra il 2000 e il 2014, fino a raggiungere uno spettacolare rapporto di una ogni 6.821 abitanti. Con i suoi amministratori, i suoi revisori, i suoi dirigenti: spesso soltanto quelli. E punte inarrivabili. Come nel Trentino Alto Adige, dove si sono contate 498 scatole societarie create con i soldi dei contribuenti. Ovvero, una ogni 2.126 residenti. Ma ancor più in Valle D’Aosta, la Regione più piccola d’Italia che detiene il record di società pubbliche in rapporto ai propri residenti. Una per ogni 1.929 valdostani. La riforma delle autonomie La Cgil dice che l’inondazione è cominciata negli anni Novanta con la riforma delle autonomie locali. Da lì è partita la febbre che sempre più rapidamente ha contagiato gli enti locali, con la scusa di rendere più efficienti i servizi pubblici vestendoli con un abito privatistico. Ma è dal decennio successivo che il termometro ha preso a salire senza più controllo, complici i vari blocchi delle assunzioni di personale pubblico. E grazie pure ad alcune mosse legislative a dir poco discutibili, come la famosa riforma del titolo V della Costituzione voluta da un centrosinistra all’inseguimento forsennato della Lega Nord, che ha ampliato a dismisura le prerogative della politica locale alimentandone le tentazioni più inconfessabili. Le poltrone ai trombati Le società pubbliche sono così diventate un comodo strumento per aggirare i divieti a gonfiare gli organici delle amministrazioni, per giunta senza dover fare i concorsi: con il risultato che oggi il numero dei loro dipendenti ha raggiunto 783.974 unità, più degli abitanti di Bologna e Firenze messi insieme. Non soltanto. Soprattutto questo sistema ha consentito di dare una poltrona a politici trombati o in pensione, onorare impegni elettorali, garantire segretaria e auto di servizio agli amici. Qualche anno fa la Corte dei conti ha stimato in 38 mila il numero delle figure apicali in quelle società. Talvolta in proporzione perfino superiore a quello degli stessi dipendenti. Questo spiega perché risultano inattive ben 1.663 delle 8.893 società partecipate. Il 18,7 per cento di scatole vuote. Con vette in Molise (31 per cento), Calabria (38 per cento) e Sicilia, dove si supera il 40 per cento. Persino in Trentino Alto-Adige è inattiva una su dieci. Per non parlare di quante, pur apparendo formalmente attive, non hanno neppure un dipendente. Sono 1.214 di cui, precisa il documento, 1.136 partecipate esclusivamente dagli enti locali, con una concentrazione nelle Regioni a guida leghista, quali Veneto (106) e Lombardia (136), ma anche in quelle considerate tradizionalmente rosse come Toscana (114) ed Emilia Romagna (122). Ce ne sono poi 274 con più amministratori che dipendenti, 234 che nei quattro anni compresi fra il 2011 me il 2014 hanno chiuso i conti in perdita e 1.369 che hanno un fatturato inferiore a 500 milioni. La proliferazione del fenomeno. La giungla ha tratti geografici assai variegati, capaci anche di sovvertire alcuni luoghi comuni. Per esempio, non è affatto vero che la densità di società sia maggiore al Sud, come la qualità di certe amministrazioni lascerebbe immaginare: in Campania se ne trova una ogni 14.554 abitanti, il valore minimo in assoluto. Circa metà rispetto alla Lombardia, dove è possibile contarne una ogni 7.419 residenti. Va detto che neppure la crisi, né i vari provvedimenti presi a partire dal 2007 e tesi a scoraggiare la proliferazione di questo fenomeno l’hanno potuta frenare. Perché se è vero, come argomenta la Cgil in questo dettagliato dossier, che fra le società non attive bisogna considerare le 828 congelate o messe in liquidazione a partire dal 2010, è anche vero che da quell’anno e fino a tutto il 2014 ne sono state costituite 1.173 nuove di zecca. E il ritmo delle nascite si è appena rallentato. Eppure è da molti anni che nella normativa i governi di turno cercano di infilare qualche pillola avvelenata. La quale subisce però sempre il medesimo destino, quello di venire immediatamente sterilizzata. Le ragioni sono facilmente intuibili. La politica locale rischia di dover rinunciare a muovere potenti leve clientelari. Pratica, ahinoi, assai diffusa. Qualche anno fa si scoprì che presso i gruppi politici del consiglio regionale della Campania erano distaccati 150 dipendenti di società pubbliche. Pagati dai contribuenti ma al servizio di partiti e loro capicorrente. La mancata spending review Come stupirsi, allora, del fatto che qualunque tentativo di cambiare finisca nelle sabbie mobili? La legge 190 del dicembre 2014 prevedeva che gli enti locali predisponessero piani di razionalizzazione delle partecipate entro il marzo dell’anno seguente: ebbene, la Corte dei conti ha rilevato che due mesi dopo quella scadenza soltanto 3.570 soggetti sugli 8.186 interessati dalla disposizione l’avevano osservata. Quanto agli affondi della spending review, il processo di revisione della spesa pubblica avviato formalmente ormai da tempo, sono rimasti del tutto inefficaci. A questo proposito bisogna ricordare che l’ex commissario Carlo Cottarelli nel suo rapporto presentato all’inizio del 2014 aveva stimato in 2 miliardi l’anno i possibili risparmi derivanti dal disboscamento di tale giungla. Auspicando una strage: il numero delle partecipate si sarebbe dovuto ridurre a non più di mille. Né minori difficoltà ha avuto la riforma di Marianna Madia, ideata per mettere in funzione finalmente una tagliola efficace. Ma prima si è incagliata alla Corte Costituzionale, quindi è finita nel tritacarne di una estenuante trattativa fra governo e poteri locali. Mentre i sindacati l’aspettano al varco insieme alle regole per la mobilità del personale. Un’altra rogna in vista della partita che si apre a settembre, quando vedremo se ancora una volta la realtà avrà più forza della legge. Dopo almeno dieci anni di indecente melina. Il miraggio del Ponte sullo Stretto Avendo ben chiaro un particolare non indifferente, che se pure tutto dovesse andare per il verso giusto mettere mano al taglio delle società partecipate sarà un’opera immane. La durata delle liquidazioni nel nostro Paese, da questo punto di vista, parla chiaro. Le procedure possono durare decenni, e anche quando è la legge a fissare i paletti, quelli servono davvero a poco o nulla. Valga per tutti l’esempio della società pubblica Stretto di Messina, controllata dall’Anas, che avrebbe dovuto gestire la realizzazione del ponte fra Scilla e Cariddi opera miseramente archiviata da un lustro. Il governo di Enrico Letta aveva fissato il 15 aprile 2013, per la sua liquidazione affidata all’ex capo di gabinetto di Giulio Tremonti, Vincenzo Fortunato, il limite massimo di un anno. Di anni ne sono passati invece già più di quattro e siamo ancora a carissimo amico. Con il conto già arrivato a 13 milioni.

I giornali di partito ci sono costati 238 milioni di euro (e sono falliti lo stesso). Un'analisi di OpenPolis svela quanti soldi lo Stato ha investito per sovvenzionare le testate dei diversi movimenti. Ma nonostante le cifre spese, solo due sono ancora in attività, scrive il 17 luglio 2017 "L'Espresso". Finanziare i giornali di partito non è servito a mantenerli in vita. Lo rivela un’analisi di Openpolis sulle dieci testate di partito che hanno avuto più soldi dallo Stato nel periodo dal 2003 al 2015: solo due di esse continuano a uscire in edizione cartacea (La Discussione, che appartiene a una delle tante diaspore democristiane, e Zukunft in Südtirol della Svp), mentre il Secolo d’Italia di Italo Bocchino sopravvive solo su internet. Di tutte le altre non c’è più traccia: dall’Unità alla Padania, da Europa a Liberazione. Complessivamente, nel periodo preso in considerazione sono stati spesi 238 milioni di euro pubblici per 19 quotidiani. Al primo posto per incassi proprio l'Unità, che ha ricevuto oltre 62 milioni, seguita dalla Padania con 38 milioni.

Il ritorno delle auto blu: in un anno novemila in più, il primato va a Oristano. Nonostante gli annunci riprendono ad aumentare, in particolare nei Comuni delle regioni meridionali, scrive Roberto Petrini il 6 luglio 2017 su "La Repubblica". La valanga delle auto di Stato non si arresta. Anni di polemiche e denunce hanno solo scalfito un sistema che continua a proliferare nonostante la spending review e la necessità di moralizzare la vita pubblica. A conti fatti parlare di riduzione è stato un bluff. I dati sono pubblici, ma nessuno ha fatto le somme: l'ultimo censimento sulle auto della Pubblica Amministrazione, concluso il 28 febbraio del 2017, ha prodotto un immenso tabellone in pdf. Repubblica ha chiesto alla società di data management Twig, guidata da Aldo Cristadoro, di trattare e confrontare le cifre con il precedente censimento chiuso nel febbraio dell'anno scorso. Ebbene: il risultato è che nel 2016 sono emerse 8.791 auto di servizio in più, si è passati da quota 20.891 a 29.682. L'emersione di circa 9.000 auto in più dipende per buona parte dalla maggiore accuratezza del censimento e dal numero di risposte pervenute dove si dichiara il possesso di almeno una auto di servizio: ciò significa che basta fare una rilevazione più approfondita per scoprire che le auto di servizio in Italia sono molte di più di quanto si pensi. Eppure, nel comunicare i dati del 2016, il governo sottolineò una riduzione di 1.049 auto, pari al 3,3 per cento rispetto al 2015. Invece secondo la rielaborazione e il riallineamento dei dati fatta da Twig per quei due anni, anche per via della maggiore partecipazione al censimento delle amministrazioni, sarebbero emersi quasi 2.000 veicoli in più. Ma la vicenda delle auto di servizio, per le quali lo Stato spende una cifra considerevole ogni anno, e che si tenta di prendere di petto dal 2012, quando fu varato il primo decreto di contenimento, si presta ad altre sorprese. Quando Matteo Renzi annunciò, nei primi mesi del 2015 di voler vendere su eBay le Maserati blindate di Stato, la mastodontica platea delle auto di servizio italiane era già stata più che dimezzata. Peccato che era avvenuto solo sulla carta: alla fine del 2014 un decreto del ministero della Funzione pubblica aveva infatti cambiato i criteri del censimento, cancellando dall'insieme delle auto censibili circa 40 mila veicoli con un colpo di bacchetta magica. Il decreto infatti eliminava le auto destinate al contrasto delle frodi alimentari, alla manutenzione della rete stradale Anas, alla difesa, alla pubblica sicurezza e ai servizi sociali e sanitari. Così si è scesi da quota 60 mila a quota 20 mila sulla quale oggi ragioniamo: cambiando i criteri del censimento sono sparite circa 20 mila auto delle Asl e in genere della sanità regionale. La domanda è: ma se si tratta di semplici auto al servizio della collettività e non di scandalose auto blu con autista, perché non censirle? Contare non vuol dire, mettere all'indice. Il vero boom delle auto di servizio e blu è nei Comuni: si moltiplicano man mano che i censimenti si fanno più approfonditi. Nel 2016 siamo arrivati a quota 16 mila, quasi il doppio rispetto all'anno precedente e al numero dei municipi che sono circa 8 mila. Senza contare che il panorama dell'auto di servizio non è ancora tutto delineato perché i municipi sono riluttanti e quelli che hanno denunciato il numero delle proprie auto è ancora solo il 60,6 per cento. La posizione di testa nella classifica dei Comuni che denunciano il maggior numero di auto blu (cioè con annesso autista) è occupata da Oristano: ce ne sono 20 (il che significa 63,2 ogni 100 mila abitanti). Seguono - con netta prevalenza del Sud - Trapani, Brindisi, Messina, Cosenza e Matera. In termini assoluti, e con riferimento alle semplici auto di servizio (cioè senza autista dedicato), in testa c'è Torino con 294 auto, seguita da Roma con 146 auto. Spicca Sassari con 106 auto (83,1 ogni 100 mila abitanti). Paradossali i casi di Roccasecca dei Volsci (Latina) che denuncia 10 veicoli con autista (sarebbero 872,6 auto su una ipotetica platea di 100 mila abitanti). E delle tre regine dell'auto di servizio: Roseto degli Abruzzi (Teramo), Monopoli (Bari) e Bagheria (Palermo), Comuni con più di 50 vetture a disposizione. A Pietracamela (Teramo) invece, con 271 abitanti, ci sono 4 auto di cui 3 con autista. Forse l'unico settore dove qualche sforzo è stato fatto è quello dei ministeri. La ministra della Funzione Pubblica, Marianna Madia, disse la verità quando nel febbraio 2016 affermò che le auto delle amministrazioni dello Stato l'anno precedente si erano dimezzate scendendo, come risulta, a quota 274. I conteggi di Twig dicono che il processo è andato avanti e nel 2016 siamo scesi a quota 212. Ma anche in questo caso ci sono problemi di rilevazione statistica che possono trarre in inganno. L'ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, che aveva avviato un serio intervento di riduzione, nel suo libro "La lista della spesa", le valutava prima del decreto di riduzione in 1.800, tenendo conto che mancano all'appello del censimento le auto del ministero dell'Interno e le auto fornite ai vari dicasteri dai cinque principali corpi di polizia. Tanto per fare un esempio: il "car pool" britannico per i dicasteri conta di solo 80-90 auto. Ma noi siamo lontani.

Ponte di Messina, beffa infinita. Ora lo Stato fa causa allo Stato. La concessionaria, controllata dall’Anas, chiede al ministero delle Infrastrutture un indennizzo di 325 milioni di euro (più eventuale risarcimento). E i soldi chiesti sono già stati abbondantemente pagati per mantenimento della società e progettazione, scrive Sergio Rizzo il 22 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Ci dev’essere un virus che infetta la nostra burocrazia. Così potente da arrivare a mettere lo Stato contro lo Stato davanti a un giudice dello Stato. Per averne la prova è sufficiente leggere l’ultima relazione della Corte dei conti sulla vicenda forse più incredibile che abbia attraversato gli ultimi quarant’anni di storia italiana: quella del ponte sullo Stretto di Messina. Morto, sepolto e resuscitato a più riprese, era stato riesumato da Matteo Renzi. Uscito di scena lui, è tornato serenamente nel sepolcro nel quale l’aveva spedito Mario Monti. Ma il cadavere continua a puzzare. Si racconta, infatti, nelle 67 pagine di quella relazione che descrive il groviglio dei contenziosi in cui siamo precipitati, perfino di una causa giudiziaria che oppone la società Stretto di Messina allo Stato italiano. Nella quale la concessionaria già incaricata della realizzazione del ponte, chiede un indennizzo di 325 milioni 750.660 euro. Più un eventuale risarcimento. La ragione? «Il pregiudizio — sottolinea la stessa società — scaturente dalla mancata realizzazione dell’opera, indotta dal venir meno della convenzione di concessione». La richiesta di indennizzo è stata presentata al ministero delle Infrastrutture, sottolinea la Corte dei conti, ancor prima della messa in liquidazione della Stretto di Messina. E da allora non c’è stato verso di farle cambiare idea. A quanto pare, anzi, non ci hanno nemmeno provato. Scrivono i giudici contabili: «Non risultano iniziative intraprese dal ministero, oltre quelle di resistenza in sede giudiziaria, al fine di superare il contrasto con la concessionaria. Nell’adunanza del 24 novembre 2016 la posizione conflittuale delle parti si è confermata ancora una volta». Sarebbe uno dei tanti episodi legali in cui l’amministrazione pubblica finisce invischiata per non aver rispettato i patti. Se non fosse per un particolare: che la società Stretto di Messina è dello Stato italiano, esattamente come il ministero delle Infrastrutture e Trasporti. Il suo capitale è per l’81,85% in mano all’Anas, la società pubblica delle strade, e il restante 18,15% è suddiviso fra le Ferrovie dello Stato italiane (13%), la Regione Calabria (2,575%) e la Regione siciliana (2,575%). Dunque è lo Stato che fa causa allo Stato. Ma c’è di più. E cioè che la Stretto di Messina è già costata per il suo mantenimento in vita e le progettazioni, i 300 e passa milioni richiesti ora come indennizzo. Denari, precisa la Corte dei conti, versati con «gli aumenti di capitale deliberati nei precedenti esercizi e finanziati esclusivamente con risorse pubbliche». I soldi chiesti, dunque, sono stati già abbondantemente pagati. E pagarli di nuovo costituirebbe quindi «una mera duplicazione di costi, con ulteriore aggravio sui saldi di finanza pubblica». Una situazione surreale, nella quale com’è del tutto evidente, i contribuenti possono soltanto rimetterci ancora più soldi. Oltre a quelli chiesti dal general contractor Eurolink: circa 700 milioni, di cui 301 per le spese sostenute e 329 per danni. C’è poi la causa con il project management consulting, l’americana Parsons Transportation, che rivendica 90 milioni. Quindi quella con il monitore ambientale, per cifre più modeste (dell’ordine del milione). Già ballano, dunque, 800 milioni. Senza contare, ovviamente, spese legali che immaginiamo astronomiche, il tempo perso, il costo delle insidie burocratiche e i denari necessari per mantenere la liquidazione in vita. E qui si apre un altro bel capitolo. La società Stretto di Messina è stata messa infatti in liquidazione il 15 aprile 2013 dal governo di Enrico Letta, affidando l’incarico a un pezzo da novanta della burocrazia: Vincenzo Fortunato, ex capo di gabinetto di Giulio Tremonti. Ma con una legge che stabiliva una durata tassativa della procedura. Un anno preciso. Questo per evitare le lungaggini che sempre accompagnano le liquidazioni con l’obiettivo di mantenerle in vita più a lungo possibile. Ebbene, quell’anno è scaduto da quasi tre e siamo ancora a carissimo amico. Con la società che dal 2013 al 2015 è costata poco meno di 13 milioni. Considerando i tempi con cui procedono le liquidazioni in questo Paese, il rischio che la faccenda vada avanti ancora per svariati anni è molto consistente. Tanto che la Corte dei conti, nell’evidenziare questa anomalia, non può fare a meno di sollecitare a darsi una mossa. Senza trascurare la necessità di «un’incisiva iniziativa da parte delle strutture ministeriali affinché si riapproprino delle proprie competenze». Già, perché è stata eliminata anche la struttura del ministero che seguiva l’operazione. Il risultato è che ora si naviga a vista. Mentre gli unici che ci vedono bene sono coloro che hanno tutto l’interesse a incassare e quelli che vorrebbero far durare il più possibile questa assurda agonia.

IL PAESE DEI COMUNI FALLITI.

Comuni, in 5 anni triplicati i dissesti. Il record nelle piccole città del Sud. De Caro (Anci): sempre meno risorse dallo Stato. L’allarme della Fondazione commercialisti, scrive Isidoro Trovato il 15 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Fine crisi mai. I Comuni italiani non vedono la luce in fondo al tunnel e da 27 anni vivono sull’orlo del baratro economico. A certificarlo è un’indagine della Fondazione nazionale dei commercialisti che ha raccolto i dati dal 1989 al 2016: ne viene fuori un’istantanea sconfortante di un’Italia a due velocità in cui dei 556 dissesti complessivi, 450 si sono verificati nel Meridione. In pratica, più del 70 % dei fallimenti registrati dagli enti locali si registra al Sud, con un numero di default dichiarati negli anni 2011-2015 quasi triplicato rispetto agli anni precedenti. «Uno scenario inevitabile – commenta Antonio De Caro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci –, il Meridione da anni è dotato di minori risorse, ha meno gettito fiscale e quindi meno Irpef e adesso ha una percentuale altissima di morosi che non pagano le tasse locali. Come se non bastasse, i Comuni del Sud hanno fatto da ammortizzatori sociali assumendo precari e Lsu che hanno pesato sui bilanci. Abbiamo subìto i tagli dello Stato e non siamo in condizione di riscuotere abbastanza dai nostri cittadini». Qualcuno potrebbe obiettare che, se esiste tanta differenza tra Nord e Sud, è anche perché c’è stato qualcuno più virtuoso e qualche altro meno. «Ma ormai parliamo di danni procurati venti o trent’anni fa – protesta il presidente dell’Associazione dei Comuni italiani –, con i controlli attuali nessuno potrebbe tornare agli sprechi del passato, pensi che io, in un Comune come Bari, ho a bilancio un’unica consulenza da 25 mila euro l’anno. Adesso la missione è portar fuori dal pantano i Comuni in difficoltà per non penalizzare i cittadini a cui si tagliano i servizi. Lo Stato dovrebbe concedere tassi praticabili ai Comuni che chiedono mutui per uscire dalla crisi». L’identikit dei commercialisti va più nello specifico e rileva che più del 60%degli enti in situazioni di deficitarietà è concentrato dove la popolazione è inferiore a 5.000 abitanti, si tratta dunque per la maggioranza di Comuni di piccole dimensioni (di cui circa il 40% sono enti con popolazione fino a 2.000 abitanti). Il restante 40% è concentrato nelle classi demografiche tra i 5.000 e 60.000 abitanti. «In questo caso – continua De Caro – bisognerebbe chiedersi il perché dei tagli dei fondi anche a Comuni così piccoli: si tratta di realtà che incidono in maniera infinitesimale sulla spesa pubblica ma che sono finiti subito in difficoltà a causa di un gettito ridotto che non riescono più a compensare, specie se si trovano su un tessuto sociale impoverito». E allora come vedere la fine del tunnel? Secondo i commercialisti (che svolgono funzione di revisori dei conti) servirebbero controlli più stringenti e un monitoraggio più efficace sulle realtà più a rischio e già in regime di sofferenza o predissesto. «Non credo serva altro controllo – obietta il sindaco di Bari –, servirebbero strumenti più efficaci: il nuovo ordinamento contabile risulta troppo complesso e poco incisivo. Sarebbe auspicabile una riforma della riscossione locale: noi sindaci fronteggiamo una morosità crescente e non abbiamo gli strumenti adatti per riscuotere il dovuto. Non si può pensare a fare solo perequazione orizzontale, così lo scenario può solo peggiorare». E infatti la Fondazione dei commercialisti segnala che la curva dei dissesti è di nuovo in crescita. «Alle Regioni - ricorda De Caro - sono state concesse condizioni economiche favorevoli per sanare bilanci altrettanto disastrati, i Comuni devono fronteggiare la crisi senza poter aumentare le tasse, per effetto del blocco della leva fiscale, senza condizioni di credito favorevoli. Come scalare una montagna a mani nude».

Province in lotta per la sopravvivenza ma è boom degli enti intermedi. Mancano i soldi per garantire servizi essenziali su strade e scuole, mentre è esploso il numero di consorzi, autorità, ambiti territoriali. Dopo la vittoria del No al referendum che doveva abolirle la situazione è peggiorata, scrive Antonio Fraschilla il 16 luglio 2017 su "La Repubblica". Una riforma rimasta a metà e impantanata nelle sabbie mobili dopo l’esito del referendum costituzionale. La legge Delrio che doveva semplificare il Paese, riducendo gli organismi intermedi tra Regioni e Comuni e ridisegnando le ex Province, si sta trasformando in un boomerang. Gli organismi intermedi sono cresciuti: la norma ne prevedeva al massimo una novantina, oggi sono quasi cinquecento. Perché da un lato non sono stati aboliti gli ambiti territoriali, dall’altro le Regioni a Statuto speciale invece di applicare la riforma hanno fatto di testa loro: ad esempio Sardegna e Friuli Venezia Giulia hanno sì ridotto le Province, salvo creare e tenere in vita insieme 60 Unioni comunali, mentre la Sicilia sta tornando al passato rimettendo anche i gettoni d’oro. Ma c’è di più. Nel caos adesso sono anche le regioni a statuto ordinario, che rivendicano aiuti perché non riescono a garantire i servizi essenziali su strade e scuole. Dalla semplificazione alla complicazione. Più di enti e più burocrazia In Italia oggi sono in vita 76 Province, 10 città metropolitane e 350 organismi intermedi tra Ato (ossia Ambito territoriale ottimale) rifiuti, Ato idrici, autorità di bacino e consorzi di bonifica. La Delrio prevedeva al massimo una novantina di organismi intermedi, mentre conti alla mano questi enti sono aumentati addirittura a quota 496 considerando le regioni autonome, con costi di milioni di euro tra spese di funzionamento e stipendi per revisori contabili e dipendenti. Ecco così che una riforma nata con buoni intenti ma rimasta inapplicata rischia di aumentare le spese e di andare contro qualsiasi semplificazione: «Chiediamo al governo di applicare subito la parte della legge che dava alle Province le competenze di tutti gli ambiti territoriali e delle stazioni appaltanti – dice il presidente dell’Unione province italiane, Achille Variati – e dobbiamo evitare la proliferazione degli enti come avviene nelle regioni a statuto autonomo». Le Regioni speciali sprecone La bocciatura del referendum costituzionale in Sicilia è stata vista come una grande occasione per tornare al passato e rimettere in piedi le vecchie Province. Così in commissione affari istituzionali è passata una norma che reintroduce l’elezione diretta e lo stipendio per i futuri consiglieri provinciali. «Ma non potevamo fare altrimenti, se prevediamo l’elezione diretta non possiamo poi non pagare gli eletti, lo prevede la legge nazionale», dice il presidente della commissione Salvatore Cascio. Nell’Isola del tesoro dei costi della politica la legge nazionale Delrio non si applica ma per dare i gettoni ci si appella alle norme statali: costo dell’operazione, 10 milioni di euro in più all’anno se sarà votata dall’aula. In Friuli Venezia Giulia la Delrio nemmeno l’hanno presa in considerazione e hanno colto la palla al balzo per quintuplicare gli organismi intermedi. Da un lato hanno abolito le Province, ma subito hanno istituito 18 unioni comunali: solo per i revisori contabili la spesa è di oltre 26 mila euro all’anno che, moltiplicata per 18, fa 500 mila euro all’anno. La Sardegna dieci anni fa aveva raddoppiato le Province da 4 a 8. Lo scorso anno ha applicato la riforma: le Province sono scese a cinque, con quella di Cagliari che però si è sdoppiata in Città metropolitana e Provincia Sud Sardegna. Tutto bene? Certo, se non si considera che nell’Isola vi sono ben 42 Unioni dei Comuni che ricevono ogni anno 20 milioni di euro per servizi e spese di funzionamento. «Abbiamo un territorio e una cultura molto particolari – dice l’assessore agli Enti locali, Cristiano Erriu – con la riforma abbiamo risparmiato eliminando elezioni e gettoni nelle Province». Le Province abbandonate Nel frattempo nel resto del Paese la riforma Delrio è stata applicata e oggi vi sono 76 Province e 10 città metropolitane che rivendicano risorse perché, nonostante abbiano trasferito il 50 per cento del personale a Regioni e Comuni, hanno ancora in gestione 130 mila chilometri di strade e 5.200 scuole nelle quali studiano 2 milioni di ragazzi. Nelle Finanziarie del 2015 e del 2016 hanno subìto un taglio di risorse pari a due miliardi, ma adesso chiedono aiuto: «Abbiamo applicato la riforma ma con questi tagli come possiamo garantire la manutenzione delle strade e delle scuole?», dice Variati. Il governo Gentiloni per il 2017 ha bloccato il taglio e stanziato 350 milioni. Ma i fondi non bastano: la Provincia di Piacenza sta vendendo gli immobili pur di fare cassa. «Il problema vero è l’applicazione definitiva della legge – ripete Variati – che prevedeva l’accorpamento nelle Province di tutte le funzioni degli ambiti territoriali e anche delle stazioni appaltanti». La riforma a metà della Delrio ha invece aumentato gli enti: oggi abbiamo le Province e centinaia di organismi intermedi che si occupano di rifiuti, acque e bonifiche. Per non parlare dei circa 3 mila enti tra consorzi e partecipate e delle 30 mila stazioni appaltanti. Altro che riduzione della burocrazia e spending review.

Ben 84 amministrazioni in dissesto finanziario, altri 146 enti locali a un passo dal crack. E' la mappa drammatica delle amministrazioni pubbliche rimaste con le casse vuote. Sindaci che per decenni hanno messo a bilancio entrate virtuali, perché impossibili da riscuotere. O che hanno creato società dello sperpero. Una gestione allegra che si è spenta con la spending review e le regole imposte da Bruxelles un anno fa. Ma cosa accade quando un municipio fallisce?  E davvero potrebbe fare default una metropoli come Roma, dove il disavanzo, malgrado tutti gli aiuti ricevuti in passato, è cresciuto di 853 milioni in 8 anni? Inchiesta de "La Repubblica" del 12 ottobre 2016.

Dai bilanci allegri al disavanzo tecnico, scrive Alberto Custodero. "Too big to fail", dicono gli americani a proposito delle banche talmente grandi che possono farsi beffe della solidità dei bilanci grazie al fatto che un salvataggio sarà comunque sempre più conveniente di un devastante crack. Una massima che si può applicare all'infinito anche a enti pubblici strategici come, ad esempio, il comune di Roma? Davvero la Capitale, già al centro di una operazione di salvataggio, e destinataria di eccezioni, misure ad hoc e finanziamenti extra, rischia ora di fallire, come ci raccontano le ultime cronache dal Campidoglio? Un crack della Capitale, con tutto il danno di immagine che questo comporterebbe per il Paese, è già stato evitato una volta otto anni fa, grazie all’escamotage di commissariare il debito (13,7 miliardi, 20 compresi gli interessi, che pagheranno tutti gli italiani per trent'anni) anziché il Comune, come avrebbe dovuto succedere. Ma ora lo spettro di un default dell'ente amministrato da Virginia Raggi riappare a un orizzonte neppure tanto lontano con un deficit che, crescendo dal 2008 a una media di 125 milioni l'anno, è già arrivato a sfiorare il miliardo. Se a Roma lo Stato ha risparmiato l'onta del dissesto (incapacità di pagare i debiti con le entrate correnti e di assicurare l’erogazione dei servizi pubblici), per ovvi motivi di realpolitik in quanto il fallimento della Capitale sarebbe stato una figuraccia internazionale, ben 84 Comuni italiani - stando ai dati aggiornati all'8 giugno 2016 - quell'onta l'hanno amaramente subita. Una questione meridionale. I problemi della finanza allegra interessano i Comuni in quanto sono gli unici, tra gli enti pubblici, ad essere dotati di autonomia finanziaria contabile. Da un'analisi della distribuzione geografica sul territorio nazionale delle amministrazioni dissestate realizzata da Ifel, l'Istituto per la Finanza locale dell'Anci, emerge con prepotenza una "questione meridionale" 2.0. Su 84 Comuni in crisi finanziaria, infatti, ben oltre la metà (60,7%) si concentra in due Regioni, Calabria (25 enti) e Campania (24 enti, di cui 16 nella sola provincia di Caserta). Ancora più significativa in termini numerici è la questione degli enti che hanno aderito alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale. Al 28 giugno 2016, risultano infatti in pre-dissesto 146 enti locali, di cui 10 Province. Anche nel caso del pre-dissesto, gli enti che hanno fatto ricorso alla procedura sono concentrati prevalentemente nelle regioni meridionali, con picchi in Calabria (29), Sicilia (25) e Campania (18). Ma il Settentrione non ne è certo immune: le regioni interessate da casi di pre-dissesto sono infatti 15, a fronte delle 11 in cui sono localizzati gli enti dissestati. Il caso Sicilia e il Nordest virtuoso. Con 16 casi, la Sicilia sembra vivere una preoccupante situazione a sé. Non solo per le dimensioni demografiche degli enti coinvolti, ma anche alla luce di una situazione di squilibrio finanziario di lungo corso e che sembra essersi cronicizzata nel corso degli anni. Tra i Comuni siciliani con i conti in rosso, figura perfino Taormina, la ‘perla dello Ionio’ scelta dal governo Renzi per il G7 del prossimo maggio, che sta sprofondando verso il dissesto sotto il peso di 13 milioni di euro di debiti. Diverso il quadro al Settentrione. Secondo i dati dell'Ifel, i Comuni più virtuosi si trovano nel Nordest. In Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Veneto non risulta neppure un caso di dissesto, mentre due crack sono avvenuti in Piemonte. Ammettere il dissesto non basta. Nonostante la legge preveda che la procedura del dissesto si completi entro cinque anni dalla dichiarazione didefault, sono ben 16, secondo l'Ifel, i casi di enti che hanno deliberato il dissesto prima del 2011. Tra questi, due Comuni risultano non aver ancora terminato il risanamento, nonostante sia trascorso addirittura un quarto di secolo dalla dichiarazione di fallimento. E il trend è in crescita. Dal 2011 al 2014, il numero degli enti che hanno deliberato il dissesto finanziario è costantemente aumentato: dai 3 che l'hanno dichiarato nel 2011 si è arrivati ai 21 nel 2014, passando per i 14 nel 2012 e i 20 nel 2013. Deficit tra tagli e malagestione. Negli anni passati il debito è stato la grande leva che ha permesso ai sindaci di poter disporre di notevoli entrate aggiuntive per finanziare, tra l'altro, propagande elettorali e clientelismi. Disponibilità di cassa – priva di reali coperture - che ha consentito di presentare ai propri elettori, di volta in volta, bilanci allegri e immaginifici, lasciando in eredità alle amministrazioni successive l'onere di dover far fronte ai deficit che man mano si accumulavano. A onor del vero, ma non certo a difesa dei tanti casi di malagestione amministrativa, va ricordato che i Comuni italiani hanno subito pesanti tagli alle entrate da parte dei governi durante gli anni dell'austerity. Nel periodo 2010-2015 la sforbiciata alle loro entrate è stata pari complessivamente a 8,6 miliardi di euro. Un'ulteriore riduzione della capacità di spesa per 2,5 miliardi è stata determinata poi dall'istituzione del "Fondo crediti di dubbia esigibilità". Una coppia diabolica. Bilanci gonfiati da crediti di dubbia esigibilità e tagli alle entrate: poggia su questo combinato disposto dall'effetto tutto negativo lo scenario politico amministrativo nel quale è maturata la crisi contabile dei Comuni italiani. Il dissesto, per un municipio, è l'equivalente, per un'impresa, del fallimento. Poiché, però, non è pensabile che l'ente territoriale in stato di insolvenza interrompa l'erogazione di servizi pubblici ai cittadini (le imprese invece portano i libri in tribunale e fermano la produzione), il governo lo commissaria per sottrarlo alle mani dei politici e dei funzionari locali che non hanno saputo amministrarlo. Questa è la regola. Ma la storia della contabilità allegra dei Comuni italiani è un'altra e sembra ispirata al motto "fatta la legge, trovato l'inganno", in un clima di mancanza di controlli, di complicità istituzionali e di indifferenza generale. Chi lo paga il conto? Per tanti, troppi anni, gli enti locali hanno potuto redigere bilanci inserendo tra le entrate delle voci inesigibili (o quantomeno di dubbia esigibilità) che servivano a coprire le uscite. Soprattutto ricchi incassi da multe che in realtà era evidente l'amministrazione non avrebbe mai avuto la capacità di riscuotere. E così, approfittando di una normativa ambigua sui bilanci, tanti Comuni – Roma compresa - hanno potuto accumulare nel tempo una montagna di deficit. Per capire ancora meglio il meccanismo che permetteva di gonfiare i bilanci è possibile fare un esempio: cento euro di crediti per multe – secondo la norma in vigore prima del 2015 - erano considerati dai Comuni, nei bilanci preventivi, come se fossero tutti incassabili nell'esercizio in corso. Era quella voce di 100 nell'attivo a dare loro la copertura necessaria per poter sostenere spese di pari importo. Un padre di famiglia non spenderebbe mai dei soldi senza averli sul conto corrente, ma solo sulla base di un credito che sa benissimo che non riscuoterà se non in minima parte. I sindaci, invece, per decenni hanno speso soldi senza averli effettivamente in cassa. In altre parole, pur sapendo che a fronte di ogni 100 euro di credito per le multe solo 20 sarebbero entrati davvero, gli amministratori hanno continuato a spenderne cento. Generando, di fatto, ogni anno un buco di bilancio legalizzato. Con buona pace di chi avrebbe dovuto controllare: revisori dei conti, Corte dei conti, prefetture, ministro dell'Economia, ministro dell'Interno. La svolta del 2015. I nodi ad un certo punto sono venuti però al pettine. Dal 2015 il ministero dell'Economia, che fino a quel momento aveva tollerato il fenomeno, ha deciso, anche su pressione dell'Unione Europea, di porre fine al sistema dei falsi in bilancio legalizzati e ha imposto ai Comuni un'operazione di ripulitura dei conti. Il nuovo regime ha introdotto in particolare il principio della "competenza finanziaria potenziata o a scadenza", un istituto molto simile al bilancio di cassa, che obbliga l'ente a spendere solo quei soldi che hanno effettivamente incassato. Se riscuote contanti, può spenderli. Se vanta crediti, no. I crediti non esigibili vengono sterilizzati in un fondo svalutazione crediti e ora l'equilibrio di bilancio è dato dal pareggio tra tutte le entrate reali e tutte le spese. Se malgrado ciò le uscite sono maggiori di quanto si riscuote e di conseguenza si viene a creare uno stato di dissesto, sindaco, assessore al Bilancio e ragioniere capo vanno incontro a sanzioni penali, tra cui il falso in bilancio e il falso ideologico. E, sanzione ancor più temuta dai politici nel caso in cui la Corte dei Conti accerti la loro responsabilità nel dissesto, all'ineleggibilità per cinque anni. La giustizia contabile, infatti, non dovrà più dimostrare come accadeva prima che il dissesto ha provocato un danno erariale attraverso un faticoso procedimento giudiziario. La nuova norma prevede che il dissesto sia di per sé sufficiente ad infliggere le sanzioni. I salvataggi di Roma e Reggio Calabria. Cosa sarebbe successo se, sotto il peso di quasi 13 miliardi di debito accumulato durante le giunte di centrosinistra Rutelli (assessore al Bilancio Linda Lanzillotta) e Veltroni (assessore al Bilancio Marco Causi), fosse stato dichiarato lo stato di dissesto di Roma? La Corte dei conti (all'epoca era in vigore la vecchia normativa), avrebbe dovuto accertare un eventuale danno erariale e contestarlo ai politici e agli amministratori individuati come responsabili del dissesto. La storia, però, è andata diversamente: anzichè il Comune, s'è preferito commissariare il debito. E così il problema di un eventuale danno erariale contestato a carico di qualche politico non s'è posto. Diverso ancora il caso di Reggio Calabria - sciolto nell'ottobre del 2012 quando era già in vigore la nuova normativa sulla ineleggibilità in vigore dal 2011 - comune infiltrato dalla 'ndrangheta ma soprattutto devastato da bilanci in rosso. "In questo caso specifico - spiega il sociologo Vittorio Mete, studioso del fenomeno dei Comuni commissariati per mafia - il governo ha optato per la più facile soluzione dello scioglimento per infiltrazioni mafiose che, essendo un provvedimento di natura preventiva, riguarda solo l'amministrazione in carica. Per Reggio Calabria il governo evitò dunque di avventurarsi lungo la strada del dissesto che avrebbe portato a conseguenze diverse e più devastanti per il ceto politico locale, visto che la responsabilità della malagestione era stata attribuita anche alla precedente amministrazione guidata da Giuseppe Scopelliti, all'epoca governatore della Regione". A Reggio Calabria, insomma, si è verificato uno strano paradosso: anche se in piazza si stracciavano le vesti, lo scioglimento per mafia potrebbe aver salvato – temporaneamente, come poi si è visto - la carriera a più di un politico. Il disavanzo tecnico. Poiché non sarebbe stato possibile passare da un anno all'altro a un diverso sistema di contabilizzazione, nel 2015 è stata prevista un'operazione ponte. L'anno scorso gli enti pubblici hanno redatto due bilanci, uno secondo le vecchie regole, l'altro secondo quelle riformate per far sì che a partire dal 2016 entrassero in vigore i nuovi bilanci. Nell'anno ponte 2015, dunque, ai Comuni è stato imposto di redigere due contabilità: una autorizzativa (vecchio sistema) e l'altra conoscitiva (nuovo sistema). L'anno seguente la conoscitiva è diventata autorizzativa, e da quel momento è partito il nuovo regime. Ma non tutto è filato liscio. Riscrivendo i bilanci secondo le nuove regole (e non considerando più i crediti inesigibili alla stregua di veri e propri attivi), moltissimi Comuni hanno evidenziato un disavanzo che, per l'occasione, è stato chiamato "tecnico". Tecnico in quanto risultato di una nuova normativa. Poiché questo passaggio è stato incentivato dalla circostanza che un eventuale deficit non avrebbe comportato responsabilità di alcun tipo, di fatto da molti la normativa del 2015 è stata considerata una vera e propria sanatoria contabile. Con le nuove regole quasi tutti gli enti hanno dichiarato due bilanci con numeri diversi (uno dei due, in teoria, falso). Una rivisitazione contabile che ha fatto emergere un buco complessivo nazionale compreso tra i 12 e i 15 miliardi di cui per ben 853 milioni è responsabile la sola Roma. A tanto è risultato infatti ammontare il disavanzo tecnico della Capitale dove il bilancio è passato da 6,5 miliardi a 5,7, con una variazione di poco inferiore al 10%, in linea con la media nazionale. Rate trentennali. Poiché, però, il legislatore si è reso conto che quel disavanzo tecnico non è stato (questa volta) colpa degli amministratori, ma imposto dalla legge (una sorta di buco legalizzato?), è stato deciso di scorporarlo dai bilanci consentendo ai Comuni di rimborsarlo in 30 anni, imputando nel passivo corrente di ogni anno soltanto una quota fissa di un trentesimo. Roma, ad esempio, per un trentennio dovrà rimborsare una rata di circa 26 milioni. La speranza è che con la nuova normativa, che rende più difficile e rischioso per gli amministratori truccare i conti, sindaci e assessori procedano ad una maggiore programmazione, gestendo il denaro pubblico con una cautela sino ad oggi spesso ignorata. In teoria, dovrebbe essere stato quindi scongiurato il rischio di nuovi e futuri dissesti. Ma, visto l’andamento della politica italiana, si tratta appunto di speranze e teoria. La gravità delle difficoltà in cui si trovano i bilanci di Comuni e Province è indicata con due termini diversi: pre-dissesto e dissesto. Qualcuno, utilizzando un termine mediato dal linguaggio finanziario internazionale, sostituisce alla parola dissesto il termine default, ma la sostanza non cambia. "Sono da considerarsi in condizioni strutturalmente deficitarie gli enti locali che presentano gravi ed incontrovertibili condizioni di squilibrio", dice il Testo unico degli Enti locali (Tuel). Se il deficit è in qualche modo recuperabile con un piano di sacrifici che la Corte dei conti approva si può accedere alla "procedura di riequilibrio finanziario pluriennale", il pre dissesto. Ma se "l'ente non può garantire l'assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili" o se i creditori vantano crediti cui non si può far fronte con mutui o entrate proprie, allora scatta il dissesto, come il Tuel indica all'articolo 244.

L'unica cura: meno servizi al massimo prezzo, scrive Alessandro Cecioni. Se le parole chiave nel linguaggio tecnico dei traballanti bilanci comunali sono dissesto e pre-dissesto, due termini che corrispondono a fasi diverse della crisi la cui differenza non è di semplice comprensione per i non addetti ai lavori, molto più facili da capire sono le due parole che segneranno la vita di tutti i giorni dei residenti nei municipi con i conti in rosso: tagli e tasse. In entrambi i casi, pre-dissesto o dissesto, la strada che si apre davanti agli amministratori, siano il sindaco o il presidente della Provincia, per ben cinque anni non prevede infatti alternative: da una parte risparmi sulla spesa corrente, sui servizi, sulla manutenzione delle strade, sugli asili, sull'illuminazione, sul personale negli uffici, con una conseguente riduzione negli orari di apertura al pubblico e vari altri disagi. E poi ancora: dismissione degli scuolabus, meno servizi sociali, meno acquisti di libri della biblioteca. Sul fronte delle tasse ecco invece una tariffa rifiuti alle stelle, addizionale Irpef all'aliquota massima consentita, tasse comunali sulla casa al massimo. Obbligo per la tassa rifiuti di coprire completamente il costo del servizio, così come per quanto riguarda l'acquedotto. Aumento anche delle rette della mensa scolastica e di quelle dell'asilo perché deve essere completamente coperta l'aliquota prevista per legge, che può variare di anno in anno ma che certo non è mai inferiore a un terzo del costo del servizio. Lacrime e sangue insomma, ma anche debiti che si accumulano sulla testa di ogni cittadino da qui a trent'anni. Basti pensare che il "Fondo rotativo a cui Comuni e Province" possono attingere per far fronte ai debiti in scadenza da subito, prevedono 300 euro di prestito per ogni abitante del Comune (diventano 20 se a chiedere i soldi è una Provincia) che si devono restituire in 30 anni con gli interessi. Già, gli interessi. Oltre a questi ci sono quelli dei mutui che sono stati accesi con la Cassa depositi e prestiti e con le banche. Altre centinaia di euro che gravano su ogni abitante insieme ai debiti con i fornitori che non sono stati onorati, siano imprese di pulizia, compagnie telefoniche, imprese petrolifere che hanno fornito il carburante per le auto o metano per il riscaldamento delle scuole, degli asili, o le società elettriche che fornivano l’energia per le strade e ancora per le scuole, gli asili, gli uffici. Altri debiti che si sommano a cui si farà fronte cercando prestiti, magari per coprire quel disavanzo cronico fra previsioni di entrate e incassi reali. Rinegoziare i mutui è la parola d’ordine per gli amministratori, ma la legge qui è tutta a favore delle banche e non dei cittadini. Perché i mutui con gli istituti di credito non si possono rinegoziare, mentre quelli con la Cassa depositi e prestiti sì. L'auspicio è che a partire dalla prossima legge di stabilità le cose possano cambiare, ma per ora gli interessi corrono e spesso sono pesanti. Gli unici che possono sperare di ottenere un vantaggio dal riconoscimento dello stato di crisi, sia pre-dissesto o dissesto vero e proprio, sono i creditori. Nel primo caso possono finalmente incassare i soldi delle loro fatture e, magari come a Pescara, ottenere il saldo con tempi più umani (nel capoluogo abruzzese in un anno si è passati da 146 giorni di attesa a circa la metà). Nel secondo, invece, se la dovranno vedere con l’Organo straordinario di liquidazione (Osl), struttura nominata dal presidente della Repubblica, cui fanno capo tutti i debiti dell’ente in dissesto. L'Osl invierà ai creditori delle proposte di transizione per chiedere di rinunciare a una parte dei soldi in cambio di un pronto pagamento: "pochi, maledetti e subito", diceva un vecchio film. Qui pare che il "pochi", una volta che l'ente è tornato in pareggio, possa essere rimesso in discussione, evitando la rinuncia tombale. Ma dopo cinque anni, tanti ne sono previsti per il salvataggio, chi ha voglia di tornare a mettere in mezzo gli avvocati?

Alessandria, 1000 euro a testa il conto del crack, scrive Paolo Griseri. Vittorio racconta che il momento più difficile "è stato nel 2013, quando le persone entravano nel mio negozio di abbigliamento e si sfogavano: ‘Non ce la faccio più non ho nemmeno i soldi per fallire'". Storie che sembrano ormai di un'altra epoca e certamente di un'altra parte d'Italia. Alessandria è l’unico comune del Nord ad aver alzato bandiera bianca. Ha dichiarato il dissesto nel 2012: "Abbiamo percorso una lunga strada di sacrifici. In questi quattro anni ogni alessandrino ha dovuto pagare in media mille euro per uscire dal pozzo del debito", riassume Rita Rossa, sindaco del Pd, eletta tre settimane prima della certificazione della bancarotta comunale. Nessuno pensava che una città di grande tradizione industriale sarebbe stata costretta a quattro anni di calvario. Oggi la crisi è superata: "Nell’ultimo anno il vento è cambiato", sospira Vittorio. Da cinque mesi Vittorio Ferrari è il nuovo presidente dell’associazione commercianti: "Vuole sapere quando è iniziata la riscossa? Ce ne siamo accorti seguendo la favola calcistica dell'Alessandria fino alla semifinale di coppa Italia contro il Milan". Destini incrociati: da giovane nella squadra locale aveva giocato Gianni Rivera, uno degli alessandrini più noti insieme a Umberto Eco e Giuseppe Borsalino. Nessuno in realtà è così matto da pensare che si possa uscire dal dissesto con una semifinale di coppa Italia. Nel 2012 la situazione era difficilissima: "Quando siamo entrati in municipio – dice l'attuale sindaco – ci siamo trovati con un buco di 300 milioni. E dopo tre settimane ci è arrivata la lettera della Corte dei Conti che imponeva di dichiarare lo stato di dissesto. Così abbiamo fatto". Come si è arrivati alla voragine? "Drammaticamente semplice: ogni anno e per molto tempo il Comune ha speso 110 milioni e ne incassava 95. Il bilancio era come un lavandino da cui esce più acqua di quella che entra". Gestione irresponsabile? Il principale accusato è il penultimo sindaco, Piercarlo Fabbio, Forza Italia, recentemente condannato in appello per falso ideologico. È colpevole di aver aggiustato il bilancio consuntivo 2010 per farlo rientrare nel Patto di stabilità. Mette i puntini sulle "i": "Il buco non era di 300 milioni ma di 80-90". Non un bel vedere, in ogni caso. Nell'aneddottica locale ci sono le rose comperate in Croazia per i giardini pubblici e un tartufo regalato a Berlusconi. Le accuse più di sostanza riguardano gli introiti delle società partecipate contabilizzati tutti nello stesso anno: "Mettere a bilancio cinque anni di tassa raccolta rifiuti prima di vedere il denaro non è stata una grande idea", dice Rossa. Fabbio replica: "Avevo dei consulenti e hanno presentato delle perizie prima di compiere certe scelte. La decisione di dichiarare il dissesto non era per nulla obbligatoria". Il risultato è stato comunque deprimente. Lo dice il commerciante e lo confermano i sindacalisti. "Lo stato di dissesto è arrivato insieme alla crisi finanziaria mondiale, una tempesta perfetta. Per tre anni la gente ha comperato solo il pane e pochi generi di prima necessità", racconta Ferrari. Tonino Paparatto è il segretario generale della Cgil alessandrina: "Difficile distinguere gli effetti delle due crisi nella perdita dei posti di lavoro. Ma il rapporto con l’attuale amministrazione non è stato semplice. Tagliare nelle partecipate è stata una tentazione che abbiamo cercato in tutti i modi di contrastare. C'erano a rischio 400 posti di lavoro che alla fine siamo riusciti a salvare". Il lieto fine è nella grande festa del 9 settembre scorso, casualmente coincidente con la fine dello stato di dissesto: cene in piazza, lo slogan "Alessandria è viva" e la decisione di decorare i negozi ancora vuoti con opere e installazioni degli artisti locali. Perché il grosso della crisi è passato ma qualche cicatrice si vede ancora.

"Fondi scarsi, ma i sindaci facciano mea culpa", scrive Alessandro Cecioni. Marco Alessandrini, 46 anni, avvocato, è sindaco di Pescara dal 2014. Appena insediato ha dovuto chiedere di poter accedere alla "procedura di riequilibrio finanziario pluriennale" che il "Testo unico degli enti locali prevede" per i Comuni in pre default, quelli che stanno andando verso il fallimento, ma possono ancora sperare di salvarsi. Per dare un'idea della drammaticità della situazione cita il titolo di un'opera di Rimbaud, "Il battello ubriaco" ("Le bateau ivre"), ma dice anche che l'ideogramma cinese di crisi è lo stesso di opportunità. E comunque aggiunge, "la ristrutturazione del debito è per i nostri figli" perché le scelte di oggi hanno un orizzonte di 10 anni per certi aspetti e di 30 per altri.

Sindaco, bisognerà spiegarlo però ai cittadini che pagheranno l’aliquota massima di Imu, Tasi e Tari, che le buche per strada non saranno coperte e che i servizi sociali saranno tagliati...

"Noi i servizi alla persona non li abbiamo toccati, è stato un impegno preciso. Con la crisi che c'è non potevamo eliminare la nostra funzione nel sociale, abbiamo anche pensato esenzioni per le fasce più deboli. Certo il cittadino che protesta perché c'è una buca per strada, o perché il giardino pubblico è devastato può sentirsi rispondere che le priorità sono altre. Bisogna comunicare bene cosa sta accadendo. Sono andato molto in televisione, sui giornali, alle assemblee, agli incontri. Ma il vergogna, vergogna non me lo ha risparmiato nessuno. Nemmeno in consiglio comunale, dove me lo gridano quelli che fino al 2014 hanno speso senza ritegno e poi non hanno voluto approvare il loro stesso bilancio".

Aveva un’altra scelta? I sindaci che si trovano con il comune sull'orlo del fallimento che possono fare?

"Se la situazione è irrecuperabile si va alla procedura di dissesto. Si tira una linea: di qua c’è la nuova amministrazione, senza debiti, con tagli, blocco del turnover, tasse aumentate, zero investimenti. Di là la bad company, il Comune fallito con tutti i suoi debiti e una commissione di nomina ministeriale che la gestisce, come si farebbe in un fallimento, quindi con offerte ai creditori, transazioni".

Se la situazione è recuperabile, invece?

"Dal 2012 c'è l'altra possibilità: programma pluriennale di riequilibrio. L'amministrazione cambia strada, aumenta le tasse, taglia la spesa, blocca il turnover, non fa investimenti, ma può rifondere tutti i soldi ai debitori. E dato che questi sono nella maggior parte dei casi imprese del territorio non uccidi l'economia, il tessuto produttivo del tuo Comune. Io ho scelto questa strada per questo motivo, non potevamo tradire le nostre imprese. Alzare Imu, Tasi e Tarsi all’aliquota massima è doloroso, ma permette di accedere subito al fondo di rotazione che dà fino a 300 euro per abitante da restituire in 30 anni, soldi che permettono di pagare i creditori. Noi abbiamo preso 33 milioni e 480mila euro. Poi c'è l’opportunità".

L’opportunità?

"Certo, la crisi come momento delle scelte coraggiose, del cambio repentino di strada. I cinesi hanno un ideogramma solo per crisi e opportunità. Le faccio due esempi di cui vado orgoglioso. Abbiamo aumentato la Tari, tariffa rifiuti, ma già il secondo anno è calata dell'8% perché la differenziata è passata dal 30 al 34% (arriveremo al 57% nel 2019) facendo calare i costi di smaltimento, inoltre paghiamo quanto dovuto alla partecipata in anticipo così non chiede soldi in banca e risparmia 1,9 milioni di interessi. Secondo esempio, l'efficienza dell'illuminazione. Nelle scuole abbiamo messo le lampadine intelligenti che non significa solo che si accendono quando entri in classe, tipo le toilette dei ristoranti, ma che a seconda della luce che entra dalla finestra abbassano o alzano l'intensità. Sa quanto si risparmia? Il 75% delle spese di illuminazione. Per me è eccezionale".

Una bolletta della luce più leggera non può bastare però a risanare il bilancio.

"No, aiuta, ma i risparmi si fanno altrove. Nelle gare d'appalto unificate per le mense degli asili, con i dieci milioni in meno di spesa corrente: auto blu, cancelleria, pulizia. E poi il personale che diminuisce. Mille dipendenti dieci anni fa che oggi, col blocco del turn over, sono meno di 800. Ah, la telefonia. Non si possono più fare chiamate intercontinentali dall'ufficio, perché succedeva, mi creda".

Lei il disastro lo ha toccato con mano nel 2014. Il 9 giugno viene eletto, apre la porta del Comune e non c’è il pavimento.

"Non è che non conoscessi cosa mi aspettava, ma una cosa è immaginarlo, una cosa è vederlo. Ho passato il mio primo pomeriggio a guardare le carte. Non c'è voluto molto per scoprire che la situazione era gravissima. C'erano oltre 32 milioni di fatture da pagare, con mandato già firmato ma niente soldi; 13 milioni e 300mila euro di fondi vincolati agli investimenti erano stati destinati alla spesa corrente, mentre la banca ci aveva già anticipato 26 milioni e 400mila euro su cui pagavamo un interesse annuo del 4%. In cassa c'era un milione, nemmeno i soldi per gli stipendi".

Come può accadere che un Comune si ritrovi in una situazione del genere?

"Intanto – mi scusi il francese – i Comuni italiani hanno tutti o quasi le pezze al culo. Dal 2010 al 2015 i trasferimenti dallo Stato sono stati quasi azzerati. A Pescara, per esempio, sono passati da 30 a 3 milioni. Ma il problema è un altro. Vista questa situazione si sarebbero dovute prendere le contromisure, razionalizzare la spesa, pensare a risparmi strutturali. Invece si è continuato a spendere e a far quadrare i conti con una previsione gonfiata di entrate. E qui è arrivata la nuova disciplina di bilancio che prevede che tu debba togliere dalla spesa quei crediti che dubiti di incassare".

Pescara avrebbe dovuto gestire il bilancio con i nuovi criteri fin dal 2013, era un’amministrazione pilota.

"Il teatro dell'assurdo. Non solo non lo ha fatto, ma sa quando ha approvato il bilancio preventivo del 2013? A dicembre, ovvero quando il preventivo era di fatto un consuntivo".

Il dissesto dei Comuni arriva solo da previsioni sbagliate e mancati trasferimenti?

"No, certo, arriva da spese fuori controllo, da lavori pubblici gonfiati perché si avvicinano le elezioni, dalla pletora dei consulenti, dalle spese correnti per stipendi, luce, acqua, telefoni, auto blu. E dalla incapacità dei Comuni di esigere i crediti, far pagare le tasse e i servizi, si arriva anche al 50-60% in meno. Poi ci sono i mutui accesi con le banche che non sono rinegoziabili, mentre quelli con la Cassa depositi e prestiti sì. Per noi averlo fatto vuol dire un risparmio di 20 milioni di euro di interessi in 5 anni. Ma, ripeto, occorre che la spesa sia razionalizzata, tagliata, e le tasse incassate. Noi siamo riusciti a incrementare del 20% la riscossione. E poi ci sono le trappole".

Le trappole?

"Vai a vedere bene i crediti che hai in bilancio, le somme che pensi di riscuotere, e ti accorgi che quei soldi non li avrai mai. Debitori morti, aziende fallite, scomparse. Noi a Pescara abbiamo dovuto portare il fondo per i crediti di dubbia esigibilità da 7 milioni a 51, adeguandolo alla realtà. Per avere un'idea la Soget, la società di riscossione, ha cancellato 36 milioni prescritti. A questo si aggiunge il monte di nostri debiti per i quali non c'è nulla da fare se non pagare. Quelli, come si dice in linguaggio da avvocati, dove siamo soccombenti. Anche lì fondo da istituire per prepararci al peggio: altri 12 milioni".

E ora?

"Il cammino è segnato, i frutti già si vedono. La somma fra residui attivi e passivi, quel parametro che il cuore della nuova contabilità nel 2014 era 300 milioni, oggi siamo arrivati a 140. Oltre la metà dei 160 milioni di differenza sono stati pagati o riscossi. Il piano di riequilibrio funziona. In cassa ci sono 6 milioni e mezzo di euro e se prima i creditori incassavano in 6-7 mesi oggi avviene in 75 giorni. Il debito per abitante era 1344 euro nel 2013, oggi è 1134 euro. Altra strada non c'era. Non c'è futuro senza solidità ed equilibrio finanziario".

In Sicilia i debiti scatenano l'incubo precari, scrive Claudio Reale. Nel precipizio, in fondo al baratro del default, ce ne sono già 17. Ma a rischiare sono molti di più: i Comuni siciliani non riescono più a far quadrare i propri conti, tanto che all’inizio di settembre erano 250 quelli che ancora non avevano approvato il bilancio del 2015. Effetto del braccio di ferro fra Regione e amministrazioni locali sui finanziamenti, ma anche delle nuove regole contabili entrate in vigore da quest’anno: adesso, infatti, i sindaci sono costretti a ripulire i documenti finanziari dagli artifici usati negli anni scorsi, e uno dopo l’altro stanno scoprendo buchi impossibili da coprire. Voragini le cui radici affondano nella storia. Ad Agrigento, ad esempio, la giunta che si è insediata quest’anno ha trovato un extra-deficit da 34 milioni: nel bilancio, secondo l’amministrazione guidata da Lillo Firetto, c'erano vecchi crediti che non è più realistico tenere in considerazione. Soldi che il Comune attende anche dal 1989, e che a questo punto non arriveranno più. Così, da gennaio ad agosto di quest’anno, gli enti locali siciliani sono caduti uno dietro l’altro, e all’elenco di undici centri già in default si sono aggiunti Acate, Barrafranca, Carini, Casteltermini, Mussomeli e Scaletta Zanclea. Sei fallimenti in otto mesi. La lista, però, è destinata a crescere. Anche perché almeno tre centri sono davvero sull'orlo del precipizio: oltre ad Agrigento, a rischio ci sono due cittadine vicine, Porto Empedocle e Favara. Proprio quest'ultima è il teatro della storia più curiosa: la giunta a "5 Stelle" guidata da Anna Alba, subito dopo le elezioni di giugno, ha avviato la procedura per il dissesto a causa di un buco da 40 milioni, ma quando ha ricevuto dal ministero degli Interni un piano con venti punti per evitare la bancarotta ha risposto "picche". "Un programma del genere – ha detto l’assessora al Bilancio Concetta Maida – sarebbe peggio del default". Il fallimento di Favara, però, "regalerebbe" alla Regione un pacchetto da 205 precari. Ed è qui che si innesta il sospetto. Agitato da un deputato della maggioranza che sostiene Rosario Crocetta: "Proclamare il dissesto – spiega il democrat Giovanni Panepinto, che è anche sindaco di un piccolo centro dell’Agrigentino, Bivona – per alcuni amministratori è liberatorio, un rito quasi tribale che scarica il peso dei lavoratori sulla Regione". Già, perché se i Comuni vanno in default il costo dei lavoratori a contratto passa a carico della giunta Crocetta. Che all'inizio di settembre ha dovuto trovare in fretta e furia tre milioni per pagarne 779. Ma che potrebbe trovarsi sul groppone un pacchetto più consistente: i precari degli enti locali, in Sicilia, sono in tutto 13.787 e costano ogni anno 187,5 milioni di euro. Una bomba a orologeria per i già risicati conti della Regione.

IL PAESE DEGLI AMMINISTRATORI PUBBLICI MINACCIATI.

Oltre 500 amministratori minacciati dalle mafie: il rapporto shock. Solo nel 2016 sono stati 562 gli atti intimidatori rivolti nei confronti di sindaci, assessori, consiglieri comunali e municipali, amministratori regionali, dipendenti della Pubblica amministrazione, funzionari pubblici e agenti della polizia municipale. Uno ogni 18 ore. Il rapporto shock di Avviso Pubblico, scrive Lia Quilici il 26 giugno 2017 su "L'Espresso".

A Licata, c’è un sindaco che riceve quasi quotidianamente minacce. Un’amministrazione comunale alle prese con una difficile battaglia per la legalità sul tema dell’abusivismo, un argomento molto delicato che vede contrapporsi il concetto di legalità alla necessità di centinaia di famiglie di avere un tetto sulla testa. Una situazione di cui lo Stato dovrebbe farsi carico ma che al momento ricade tutta sul primo cittadino della città e sulla sua giunta.

A Livorno, il primo cittadino è stato vittima di reiterati atti di intimidazione. Nel giro di una settimana gli sono state tagliate le gomme della sua auto, qualcuno si è introdotto nella sua abitazione e ignoti hanno preso di mira la sua vettura, sfasciandola e rubando ogni oggetto al suo interno. Tre mesi dopo gli è stata recapitata in Comune una lettera protocollata, col disegno di due proiettili e l’intimazione ad autorizzare una discarica.

A Vittorio Veneto, una cittadina in provincia di Treviso, quattro molotov sono state lanciate nella notte contro la facciata del Municipio e dopo qualche settimana una lettera con all’interno due proiettili e un messaggio di chiaro intento minatorio è stata recapitata al Sindaco: “Via i profughi, o ti facciamo fuori”.

Questi sono solo tre dei 562 atti intimidatori che nel 2016 sono stati rivolti nei confronti di sindaci, assessori, consiglieri comunali e municipali, amministratori regionali, dipendenti della Pubblica amministrazione, funzionari pubblici e agenti della polizia municipale. Uno ogni 18 ore. Dalla Sicilia all’Emilia Romagna, donne e uomini impegnati nel servizio della loro comunità, funzionari integerrimi ma in certi casi anche politici che non mantengono “i patti con il diavolo” fatti in campagna elettorale. È un mondo grande e variegato quello fotografato da Avviso Pubblico, associazione nata nel 1996 con l’intento di collegare e organizzare gli Amministratori locali che concretamente si impegnano a promuovere la cultura della legalità democratica nella politica, nella Pubblica Amministrazione e sui territori da essi governati. Numerose le tipologie di minacce ed intimidazioni subite dagli amministratori italiani. Incendi, lettere contenenti minacce e proiettili, spari alle abitazioni ed esplosivi lasciati in bella vista, auto incendiate, gatti sgozzati lasciati sull’uscio delle abitazioni, cani impiccati agli alberi delle ville. E ancora aggressioni verbali, fisiche e tentati omicidi. Si viene picchiati con calci, pugni e pietre, si è minacciati con coltelli e punteruoli. La forza ha ceduto il passo alla ragione. Anche i social network, ed in particolare Facebook, sono diventati uno strumento per lanciare minacce, divulgare fake news e gettare discredito sull’onorabilità delle persone che ricoprono un incarico pubblico di tipo politico-amministrativo. Questo è quanto si legge nel Rapporto 2016 “Amministratori sotto tiro” presentato alla LUISS, proprio nel giorno in cui la Camera dei deputati ha votato il provvedimento di legge per l’inasprimento delle pene per chi minaccia gli amministratori locali. La sesta edizione di questo rapporto rappresenta la punta dell’iceberg di un fenomeno dalle proporzioni allarmanti. Dal 2011, anno della prima edizione del rapporto, gli atti intimidatori sono infatti più che raddoppiati. E’ bene precisare che i casi riportati sono quelli di cui Avviso Pubblico ha avuto notizia. Per esperienza, è lecito immaginare che le minacce e le intimidazioni accadute siano in numero maggiore. Infatti, non sempre e non tutti coloro che vengono colpiti, anche più volte, denunciano quanto accade. Questo o per paura o per evitare di accendere l’attenzione degli investigatori su situazioni illegali o criminali.

In testa alla classifica, come di consueto, c’è il Sud Italia e le immancabili Isole. Si tratta di 345 casi censiti, il 4% in più rispetto al 2015. “Il Mezzogiorno, quindi, come per gli anni scorsi, si conferma la parte d’Italia dove è più rischioso svolgere l’attività di amministratore pubblico”. Con 87 atti intimidatori è la Calabria la regione che nel 2016 ha fatto registrare il maggior numero dei casi: il 19% del totale delle minacce censite. Al secondo gradino dell’amaro podio c’è la Sicilia (86 casi), già ai vertici della classifica negli scorsi due anni. A differenza della Calabria, dove Reggio e Cosenza si impongono sulle altre città, in Sicilia la distribuzione delle minacce risulta essere maggiormente diluita tra le 9 provincie. Terzo e quarto posto: Campania (64 atti intimidatori) e Puglia (51 casi). E ancora la Sardegna (42): “Una terra rischiosa per gli amministratori locali”. E mentre il Lazio vede affievolirsi il dato, l’Emilia Romagna passa da 9 a 19 casi, balzando alla settima posizione della classifica nazionale.

Avviso Pubblico ha provato a tracciare un identikit dell’amministratore sotto tiro. Nella maggior parte dei casi si tratta di un maschio che ricopre la carica di Sindaco di un Comune medio - piccolo del Sud, con una popolazione fino a 50mila abitanti, a cui ignoti bruciano nottetempo l’auto parcheggiata in una via pubblica situata nei pressi dell’abitazione o nel cortile di casa. Il Sindaco intimidito governa generalmente un territorio ad elevata densità criminale, perlopiù in regioni in cui sono nate le mafie. Il profilo dell’amministratore minacciato al Centro-Nord – area in cui si registra un caso di intimidazione su quattro – cambia solo in parte rispetto a quello del Sud Italia. È sempre un maschio che amministra un Comune medio - piccolo, ma il mezzo più utilizzato per intimidirlo è la lettera minatoria – con o senza invio di proiettili – anche se non mancano tipologie di minacce più “tipiche” del Sud. Circa il 10% delle intimidazioni censite da Avviso Pubblico nel 2016 è stato rivolto nei confronti di donne che rivestono il ruolo sia di amministratrici locali che di dipendenti della pubblica amministrazione.

A minacciare non sono solo le mafie ma, in particolare, singoli soggetti o gruppi di persone che si dimostrano insofferenti al rispetto delle regole, che considerano i politici come individui non degni di fiducia, che sentono la politica non come uno strumento per il cambiamento ma, al contrario, come uno strumento per il mantenimento di situazioni di privilegio. Persone che individuano negli amministratori locali e nei dipendenti pubblici l’obiettivo da colpire, il più facilmente raggiungibile, per esprimere un disagio che è spesso rivolto alla politica nel suo insieme. Il disagio sociale e la crisi economica intervengono quindi con prepotenza incrementando questo drammatico fenomeno.

IL FENOMENO DELLA BLUE WHALE, OSSIA DELLA BALENA BLU (GIOCO)

Emulazione o bufala?

Blue Whale o Balena blu (gioco). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il Blue Whale Game (russo: Синий кит , translit Siniy kit ), noto anche come "Blue Whale Challenge", è un fenomeno della rete sociale del ventunesimo secolo che si afferma di esistere in diversi paesi, a partire dal 2016. Il gioco si dice di una serie di compiti assegnati ai giocatori dagli amministratori in un periodo di 50 giorni, con la sfida finale che richiede al giocatore di suicidarsi. La "balena blu" è stata promossa nel maggio del 2016 attraverso un articolo sul quotidiano russo Novaya Gazeta, che ha collegato molti suicidi di suicidio non associati all'adesione al gruppo "F57" della rete sociale VKontakte. Un'ondata di panico morale spazzava via la Russia. Tuttavia il pezzo è stato poi criticato per aver tentato di creare un nesso causale in cui nessuno esisteva e nessuno dei suicidi è stato trovato come risultato delle attività del gruppo. 

Struttura. Mentre molti esperti suggeriscono che "Blue Whale" fosse originariamente una truffa sensazionalizzata, ritengono che sia probabile che il fenomeno ha portato a casi di gruppi imitativi auto-dannosi e di copia, lasciando i bambini vulnerabili a rischio di cyberbullying e shaming online. La balena blu è descritta come basata sulla relazione tra i partecipanti (o gli sfidanti) e gli amministratori. Gli amministratori prescrivono una serie di doveri che i giocatori devono completare, di solito uno al giorno, alcuni dei quali coinvolgono l'auto-mutilazione. Alla fine del 2017, la partecipazione a Blue Whale sembra essere receding; tuttavia, le organizzazioni di sicurezza internet in tutto il mondo hanno reagito fornendo un consiglio generale ai genitori e agli educatori per la prevenzione del suicidio, la consapevolezza della salute mentale e la sicurezza in linea prima della prossima incarnazione di meme informatiche. Nel 2016, Philipp Budeikin, un ex ex- psicologo di 21 anni espulso dalla sua università, ha affermato di aver inventato il gioco nel 2013. Ha detto che la sua intenzione era di pulire la società spingendo le persone a suicidio che riteneva di non avere valore. Budeikin è stato arrestato e tenuto in prigione di Kresty, San Pietroburgo, e nel maggio 2016 ha dichiarato colpevole di "incitare almeno 16 ragazze adolescenti per suicidarsi". È stato successivamente condannato in due contratti di incitamento al suicidio di un minore. Nel giugno del 2017, il postino Ilya Sidorov è stato arrestato a Mosca, accusato anche di istituire un gruppo di "Blue Whale" per incoraggiare i bambini a danneggiarsi e, in ultima analisi, suicidarsi. Ha sostenuto di aver persuaso 32 bambini ad aderire al suo gruppo e seguire i comandi. 

Argentina. Nella provincia di San Juan, in Argentina, un ragazzo di 14 anni è stato ammesso alla terapia intensiva dopo aver affermato sui media sociali che partecipava a Blue Whale. 

Bangladesh. Molte notizie hanno pubblicato sui media del Bangladesh riguardo al tentativo di suicidio relativo al gioco. Un adolescente è stato commesso suicidio presumibilmente dalla dipendenza del gioco nell'ottobre 2017.

Brasile. Diversi rapporti di notizie sono comparsi sui media brasiliani che collegano casi di autolesionismo e suicidio con la Blue Whale. La polizia ha svariate indagini in corso, anche se ancora nessuno è stato ufficialmente confermato. Complessivamente, otto Stati brasiliani avevano casi di suicidio e di auto-mutilazione sospettati di essere collegati al gioco. 

Bulgaria. Le prime notizie su Blue Whale sono comparse in Bulgaria alla metà di febbraio 2017. Il Safer Internet Center, istituito nell'ambito del programma Safer Internet plus della Commissione europea, ha risposto rapidamente. "(T) la sua storia sensazionalistica è stata gonfiata da una serie di siti web di clickbait che creano un'ondata di panico tra i genitori", ha riferito il Centro Coordinatore Georgi Apostolov. "Abbiamo deciso di non avviare contatti direttamente con i media, in quanto ciò avrebbe attirato ulteriori interessi e potrebbe indurre in errore il pubblico a credere che la storia sia in qualche modo vera. Poiché il hype è stato ingrandito da migliaia di persone che condividono la storia sui social network, abbiamo appena pubblicato un avvertimento sul nostro sito web e diffondere il link in commenti sotto tutti condivisi in articoli e post di Facebook. Poi i media mainstream stessi hanno iniziato a chiederci di interviste e citando le nostre conclusioni che evidentemente era una truffa ". Due gruppi di discussione sul suicidio sono stati aperti su Facebook, ma sono stati rapidamente segnalati e cancellati. La diffusione delle notizie virali è stata interrotta entro due settimane. Più tardi, quando un pezzo sensazionalista del giornale rumeno Gandul ha portato a pubblicare altri cinque articoli pubblicati in Bulgaria che hanno segnalato la sfida come reale, i media hanno nuovamente diffuso le posizioni della SIC e la frode è stata interrotta immediatamente.

Chile. I media in Cile hanno riportato tre casi di bambini sospettati di coinvolgimento con "Blue Whale". A Antofagasta, una madre ha riferito alla polizia che la sua figlia di 12 anni aveva 15 tagli sul braccio che formavano il disegno di una balena. Dopo essere stato intervistato dagli agenti di polizia, la ragazza ha confessato di seguire le istruzioni del gestore del gioco durante la riproduzione di questo gioco. Una bambina di 13 anni a Padre Las Casas ha sostenuto di aver giocato la partita insieme a tre altri amici. La ragazza ha raggiunto la decima tappa, facendo anche dei tagli tra le braccia. Un ragazzo di 11 anni a Temuco ha accettato un invito a partecipare al gioco su Facebook nel 2017 da una donna non identificata, ma ha rifiutato di partecipare dopo essere stato contattato da un profilo denominato "Ballena Azul".

Cina. Un gruppo di suicidi è stato fondato da una ragazza di dieci anni a Ningbo, Zhejiang ; che ha pubblicato alcune foto della sua auto-mutilazione legata alla balena blu. Da allora le autorità hanno iniziato a monitorare le menzioni del gioco sui forum e sulle trasmissioni in diretta. 

India. Nel corso del 2017 i media in India hanno riportato diversi casi di suicidio, autolesionismo e tentativi di suicidio suicida come risultato di Blue Whale anche se nessun caso è stato ufficialmente confermato. L' agosto del 2017, il ministero dell'India per l'elettronica e la tecnologia dell'informazione ha chiesto che diverse società internet (tra cui Google, Facebook e Yahoo) eliminino tutti i collegamenti che dirigono gli utenti al gioco. Alcuni commentatori hanno accusato il governo di creare un panico morale. Il guardiano internet indiano del Centro per Internet e Società ha accusato la copertura di un efficace diffusione e di pubblicità di un "gioco" per il quale non esistono poche prove. In India il suicidio è stato la seconda forma di morte più comune dei bambini, secondo una relazione del 2012. 

Italia. In Italia, la rivista di stampa di "Blue Whale" è apparsa per la prima volta il 3 giugno 2016, sul quotidiano La Stampa, che ha descritto la sfida come "una cattiva battuta". Il sito di demolizione BUTAC ha riportato la totale mancanza di prove per affermare l'esistenza del gioco. Il 14 maggio 2017, una relazione televisiva di Le Iene su Blue Whale sul canale nazionale Italia 1 ha collegato la sfida a un suicidio non collegato a Livorno, in Italia. Il rapporto ha mostrato diverse scene di suicidio, principalmente da video su LiveLeak che descrivono adulti non correlati alla sfida. Ha descritto in modo errato il filmato come prova di adolescenti che giocano il gioco. Il rapporto ha intervistato un compagno di scuola dell'adolescente di Livorno, due madri di ragazze russe che presumibilmente hanno partecipato al gioco e il fondatore del Centro russo per la sicurezza dei bambini da crimini del Internet. Dopo la relazione, la copertura della sfida nei media italiani è aumentata, con molti punti vendita che lo descrivono come reale. C'era un forte aumento nelle ricerche di Google per la sfida e qualche panico. Il 15 e 16 maggio i giornali hanno annunciato l'arresto di Budeikin, senza dire che è accaduto mesi prima. Le sue dichiarazioni non confermate riguardo alle sue supposte vittime sono "rifiuti genetici". Paolo Attivissimo, giornalista e dibattente di truffe, ha descritto il gioco come "un mito di morte pericolosamente esagerato dal giornalismo sensazionalista". La polizia ha ricevuto le chiamate da genitori e insegnanti terrorizzati, e ci sono stati rapporti di adolescenti che hanno partecipato alla sfida. Questi includono diversi casi di auto-mutilazione e tentativo di suicidio. La maggior parte delle relazioni è stata considerata falsa o esagerata. I partecipanti sono stati segnalati da tutta Italia: Ravenna, Brescia e Siracusa. Il 22 maggio 2017 la Polizia Postale ha dichiarato di aver ricevuto 40 allarmi. Il 24, questo numero è stato aumentato a 70. Sul suo sito Internet la Polizia Postale definisce Blue Whale come "una pratica che sembra forse provenire dalla Russia" e offre consigli ai genitori e agli adolescenti. Molti casi sono stati descritti da giornali. 

Kenia. Nella contea di Nairobi uno studente nella contea di Kiambu aveva giocato la sfida di balena blu. Ha commesso suicidio il 3 maggio presso l'hotel di proprietà del nonno nel centro della città. 

Pakistan. Il 13 settembre 2017, il Pakistan ha riportato le prime due vittime della provincia di Khyber-Pakhtunkhwa (KPK). 

Polonia. Tre alunni di una scuola elementare in Pyrzyce si sono danneggiati, presumibilmente sotto l'influenza della sfida "Blue Whale". 

Portogallo. Una ragazza di 18 anni è stata ammessa in ospedale con mutilazioni sul suo corpo a Albufeira dopo che si è buttata da un cavalcavia alla linea ferroviaria. Polizia, genitori e amici hanno detto che la ragazza era stata motivata a farlo da una persona su Internet chiamata "Blue Whale". In un'intervista con RTP, ha detto che si sentiva da solo e priva di affetto. 

Russia. Nel marzo del 2017, le autorità russe hanno indagato circa 130 casi separati di suicidio relativi al fenomeno. A febbraio, un 15-year-old e 16 anni si sono buttati fuori dall'alto di un edificio a 14 piani a Irkutsk, in Siberia, dopo aver completato 50 compiti inviati a loro. Prima di uccidersi, hanno lasciato messaggi nelle loro pagine sui social network. Anche nel mese di febbraio, un 15enne era in condizioni critiche dopo aver gettato fuori da un appartamento e cadendo su un terreno coperto di neve nella città di Krasnoyarsk, anche in Siberia. L'11 maggio 2017, i media russi hanno riferito che Philipp Budeikin "si è dichiarato colpevole di incoraggiare gli adolescenti al suicidio", avendo descritto le sue vittime come "spreco biologico" e sostenendo di "pulire la società". È stato tenuto alla prigione di Kresty in San Pietroburgo con accuse di "incitamento di almeno 16 ragazze adolescenti per uccidere se stessi". Il 26 maggio 2017, la Duma russa (parlamento) ha adottato una legge che introduce la responsabilità penale per la creazione di gruppi pro-suicidi sui social media, a seguito di 130 morti per adolescenti legate alla sfida suicida di Blue Whale. Il 7 giugno 2017 il presidente Putin ha firmato una legge che impone sanzioni penali per indurre i minori a suicidarsi. La legge impone una punizione massima di sei anni di carcere.

Arabia Saudita. Il 5 giugno 2017, un ragazzo di 13 anni si è suicidato nella sua stanza, dove il suo corpo è stato scoperto da sua madre. Il ragazzo usava i suoi fili PlayStation per suicidarsi. La sua morte è stata legata a Blue Whale. 

Serbia. Un ragazzo di 13 anni in Velika Plana ha ferito la sua mano, dicendo ai suoi genitori che lo aveva fatto a causa di Blue Whale. I genitori hanno riportato la causa alla polizia. 

Spagna. In Spagna, un adolescente è stato ammesso ad un'unità psichiatrica di un ospedale di Barcellona dopo che la sua famiglia ha detto che ha iniziato a giocare a Blue Whale.

In Turchia, una famiglia ha presentato una denuncia penale dopo il suicidio di suo figlio e ha chiesto ulteriori indagini sull'incidente. La famiglia ha detto ai funzionari che dopo che il figlio ha iniziato a suonare "il gioco", il suo comportamento è cambiato rapidamente. 

Stati Uniti. Nella città di San Antonio, Texas, il corpo di un ragazzo di 15 anni è stato trovato l'8 luglio 2017. Un cellulare aveva trasmesso il suicidio teenager, che si crede correlato al gioco. Si afferma inoltre che il gioco era legato a una morte della ragazza adolescente ad Atlanta, in Georgia. Lo sceriffo della Contea di LeFlore, Oklahoma, ha dichiarato che l'esistenza di un ragazzo di 11 anni ha commesso suicidio nell'agosto 2017 mentre partecipa al gioco.

Uruguay. Nella città di Rivera, a 450 chilometri da Montevideo, una bambina di 13 anni è stata ricoverata in ospedale dopo che i dipendenti della scuola hanno partecipato alle ferite riportate al braccio sinistro. Gli adolescenti vittime del gioco della balena blu sono oggetto di indagine in sei reparti: Montevideo, Canelones, Colonia, Río Negro, Salto e Rivera. 

Reazioni.

Nel marzo 2017, il ministro rumeno dell'interno, Carmen Dan, ha espresso profonde preoccupazioni sul fenomeno. Sindaco di Bucarest Gabriela Firea ha descritto il gioco come "estremamente pericoloso".

In Brasile, in risposta al gioco, un designer e un agente di pubblicità di São Paulo ha creato un movimento chiamato Baleia Rosa (Pink Whale), che è diventato virale. Si basava sulla collaborazione di centinaia di volontari. Il movimento si basa su compiti positivi che valorizzano la vita e combattono la depressione. Anche in Brasile, Sandro Sanfelice ha creato il movimento Capivara Amarela (Yellow Capybara), che propone di "combattere il gioco delle balene blu" e di guidare le persone che cercano qualche tipo di aiuto. I partecipanti sono separati tra gli sfidanti, che sono le persone che cercano aiuto e i guaritori, che sono dei padrini di queste persone. Una scuola avventista nel sud di Paraná, in collaborazione con altre reti di istruzione, ha anche cercato di invertire la situazione proponendo un altro gioco di beneficenza, la " Sfida Jonas " (riferendosi al carattere biblico Jonah, vomitato da un grande pesce tre giorni dopo essere stato inghiottito da esso). Altri giochi creati in Brasile in risposta alla balena blu erano la Baleia Verde (Whale Verde) e la Preguiça Azul (Blue Sloth).

Negli Stati Uniti, un sito, chiamato anche "Blue Whale Challenge", non identifica come uno sforzo per combattere il gioco, ma offre 50 giorni di sfide che promuovono la salute mentale e il benessere. L'autore Glória Perez ha dichiarato il 21 aprile 2017 che intende includere il gioco Blue Whale nella sua nuova telenovela A Força do Querer. I media hanno anche sottolineato che il fenomeno ha coinciso con la controversia che circonda la serie televisiva Netflix 13 Motivi per cui, che affronta la questione del suicidio teen. Nelle aree metropolitane di Belo Horizonte e Recife in Brasile, molte scuole hanno promosso conferenze per parlare del gioco Blue Whale. La polizia specializzata nella repressione del crimine tecnologica (Dercat) a Piauí sta preparando un primer digitale per avvisare i giovani sui pericoli del gioco. 

Nel maggio 2017, Tencent, il più grande portale di servizi Internet in Cina, ha chiuso 12 gruppi sospetti di Blue Whale relativi alla sua piattaforma di social network QQ. Ha detto che il numero di questo tipo di gruppi è in aumento. I risultati di ricerca delle parole chiave correlate sono stati bloccati anche in QQ. Nell'agosto del 2017, il ministero dell'India per l'elettronica e la tecnologia dell'informazione ha indetto una richiesta formale a diverse società internet (tra cui Google, Facebook e Yahoo) per rimuovere tutti i collegamenti che dirigono gli utenti al gioco. 

Il Fenomeno Blue Whale dal portale della Polizia di Stato. Il Blue Whale è una discussa pratica che sembrerebbe provenire dalla Russia: viene proposta come una sfida in cui un così detto “curatore” può manipolare la volontà e suggestiona i ragazzi sino ad indurli al suicidio, attraverso una serie di 50 azioni pericolose. Ad oggi capita anche che bambini e adolescenti si contagino fra di loro, spingendosi ad aderire alla sfida su gruppi social dopo aver facilmente rintracciato in rete la lista delle prove ed essersi accordati sul carattere segreto di questa adesione. Le prove prevedono un progressivo avvicinamento al suicidio attraverso pratiche di autolesionismo, comportamenti pericolosi e la visione a film dell’orrore e altre presunte “prove di coraggio”, che vengono documentate con gli smartphone e condivise in rete sui social. La Polizia Postale e delle Comunicazioni sta osservando il fenomeno: le nostre indagini si concentrano sull’identificazione di adulti, giovani o gruppi di persone che inducono via web bambini e ragazzi ad esporsi ad un rischio concreto per la loro vita. Poniamo molta attenzione a quanto i cittadini ci segnalano su casi di rischio associati a questa pratica. Ogni informazione utile contribuisce a potenziare la nostra azione di protezione dei bambini e dei ragazzi in rete.

Consigli pratici per gli adulti:

Chi aderisce alla sfida del Blue Whale viene indotto a tenere ostinatamente all’oscuro gli adulti significativi, insegnanti e genitori in primis, adducendo giustificazioni e scuse per spiegare ferite, cambi di abitudini, comportamenti inusuali: approfondite sempre quello che non vi convince;

Aumentate il dialogo sui temi della sicurezza in rete: parlate con i ragazzi di quello che i media dicono e cercate di far esprimere loro un’opinione su questo fenomeno;

Prestate attenzione a cambiamenti repentini di rendimento scolastico, socializzazione, ritmo sonno veglia: alcuni passi prevedono di autoinfliggersi ferite, di svegliarsi alle 4,20 del mattino per vedere video horror, ascoltare musica triste, salire su palazzi e sporgersi da cornicioni.

Se avete il sospetto che vostro figlio frequenti spazi web sul Blue Whale, parlatene senza esprimere giudizi, senza drammatizzare né sminuire: può capitare che quello che agli adulti sembra “roba da ragazzi” per i ragazzi sia determinante;

Se vostro figlio/a sta passando un periodo di forte fragilità, non esitate a confrontarvi con gli specialisti che lo seguono, chiedendo loro quali strategie potete adottare per ridurre il rischio che si lasci coinvolgere nella sfida Blue Whale;

Se vostro figlio/a vi racconta che c’è un compagno/a che partecipa alla sfida Blue-Whale, comunicatelo ai genitori del ragazzo se avete un rapporto confidenziale, o alla scuola, se non conoscete la famiglia; se non siete in grado di identificare con certezza il ragazzo/a in pericolo, recatevi presso un ufficio di Polizia;

Indurre qualcuno a compiere azioni dolorose e pericolose, così come dichiarare emergenze che non esistono, può essere reato: quello che sembra uno scherzo può diventare un rischio grave per chi è fragile o troppo giovane;

Consigli pratici per i ragazzi:

La sfida del Blue Whale non è un gioco né una prova di coraggio, è qualcosa che attraverso i social può far leva sulla fragilità di alcuni bambini e ragazzi, inducendoli a mettersi seriamente in pericolo: non contribuire a diffondere questo rischio;

Nessuna sfida con uno sconosciuto o con gruppi di amici sui social può mettere in discussione il valore della tua vita: segnala chi cerca di indurti a farti del male, a compiere autolesionismo, ad uccidere animali, a rinunciare alla vita;

Ricorda che anche se ti sei lasciato convincere a compiere alcuni passi della pratica Blue Whale, non sei obbligato a proseguire: parlane con qualcuno, chiedi aiuto, chi ti chiede ulteriori prove cerca solo di dimostrare che ha potere su di te;

Non credere che pressioni a compiere prove sempre più pericolose siano reali: chi minaccia te o la tua famiglia vuole dimostrare di poterti comandare, non lasciarti ingannare; 

Se conosci un coetaneo che dice di essere una Blue Whale parlane subito con un adulto: potrebbe essere vittima di una manipolazione psicologica, di una suggestione e il tuo aiuto potrebbe farlo uscire dalla solitudine e dalla sofferenza;

Se qualcuno ti ha detto di essere un “curatore” per la sfida Blue Whales sappi che potrebbe averlo proposto ad altri bambini e ragazzi: parlane con qualcuno di cui ti fidi e segnala subito chi cerca di manipolare e indurre dolore e sofferenza ai più piccoli;

Se sei stato aggiunto a gruppi whatsapp, Facebook, Istagram, Twitter o altri social che parlano delle azioni della sfida Blue Whale, parlane con i tuoi genitori o segnalalo subito;

Indurre qualcuno a compiere azioni dolorose e pericolose così come dichiarare emergenze che non esistono può essere reato: quello che sembra uno scherzo può diventare un rischio grave per chi è fragile o troppo giovane;

In rete come nella vita aiuta sempre chi è in difficoltà;

Blue whale e tentati suicidi, parla il vicequestore, "Così si batte la balena". Gioco suicida sul web. Come riconoscere i segnali, scrive Lucia Agati il 24 maggio 2017 su "La Nazione". Lo sapevano. I bambini della scuola primaria lo sapevano cos’era la «balena blu», il diabolico gioco su internet con il quale gli adolescenti vengono istigati al suicidio dopo una serie di prove disseminate in cinquanta giorni e in orari inverosimili. Ma che bambini così piccoli fossero già a conoscenza di un così mostruoso meccanismo della rete è stato uno choc anche per il vicequestore aggiunto Paolo Cutolo, capo di Gabinetto della questura di Pistoia e da alcuni anni dedicato alla prevenzione delle insidie nascoste nel web attraverso incontri (e ormai con un fitto calendario), con i bambini, gli adolescenti e i genitori, a scuola e nei luoghi di aggregazione. Iniziative che sono sempre molto partecipate e applaudite da chi viene assillato dai dubbi e dal timore di non saper fronteggiare questi fenomeni.  E nell’ultimo di questi incontri, pochi giorni fa, in una scuola elementare della prima periferia, l’amara constatazione che i bambini erano a conoscenza dell’esistenza dell’orribile gioco che ha fatto vittime all’estero mentre, proprio in Toscana e proprio in questi giorni, due ragazzine sono state trascinate via da questa trappola. 

Come difendersi allora?

«L’unico vero filtro, come spiego sempre – ci dice il dottor Cutolo – siamo noi genitori. Non è possibile non accorgersi che qualcosa di strano sta accadendo ai nostri ragazzi quando si alzano alle quattro di notte per ascoltare una certa musica perchè qualcuno dice loro, dalla rete, che devono superare una certa prova fino a quando, dopo essersi anche feriti, arriva il “messaggio” che dice loro che è arrivato il giorno in cui possono “riprendersi la vita”. Certo, c’è anche chi gioca per ricevere i “like” ma ci sono comportamenti che non possono sfuggire ai genitori e il primo grosso segnale d’allarme è l’isolamento in casa».

Ci si chiede spesso se è giusto dotare i bambini di un cellulare...

«Tanti di loro hanno il telefono illimitato. A casa a piedi da soli non si va, ma col cellulare in mano fissi sì, e fissi davanti al computer fino a raggiungere l’assoluta mancanza di percezione di esposizione al rischio. E quando, in rete, sono ormai nella trappola, nessuno mi aiuta e il virtuale è diventato assolutamente reale. Quanto al blue whale a Pistoia non ci sono state segnalazioni, ma la situazione è attentamente monitorata. Mentre altri “giochi”, sempre alimentati dalla rete e dai social sì, quelli, negli anni ci sono stati: attraversare i binari in corsa quando sta per arrivare il treno, rubare nei grandi magazzini, spintonare all’improvviso gli anziani per strada e tutto, naturalmente, rigorosamente ripreso. C’è stata anche la nomination a bere un litro di superalcolici fino a che qualcuno, interruppe la catena con lo “zuppone” di latte al posto della wodka. La mia raccomandazione a ogni incontro con i genitori è sempre la stessa: password condivisa. La privacy, quando si parla di minori, non esiste. E profili chiusi dei ragazzi sui social, esattamente come i vostri, e regole, regole da rispettare. Il prezzo è la perdita del contatto con la realtà».

Naturalmente gli scettici non mancano…

Blue Whale, cosa è e cosa (non) sappiamo davvero finora. È quasi psicosi sulla "sfida" che spingerebbe gli adolescenti all'autolesionismo. Nonostante numerose segnalazioni, l'esistenza del fenomeno in Italia non è - al momento - verificata. Ma non è escluso che, proprio sull'onda dell'emulazione, online ci siano o possano nascere gruppi di istigatori, per cui è utile prestare attenzione. Anche sui media, scrive Rosita Rijano il 31 maggio 2017 su "La Repubblica". Blue Whale, la sfida social che spingerebbe i ragazzi ad affrontare cinquanta prove estreme in cinquanta giorni, fino al suicidio. Sono decine le segnalazioni di casi sospetti arrivati alla Polizia postale, e altrettanti i messaggi di allerta inviati su WhatsApp, anche da parte di genitori preoccupati. È quasi una psicosi collettiva. Eppure la storia ha molti punti non verificati, e altri impossibili da verificare. Ecco un riassunto di cosa sappiamo con certezza e cosa no. In che cosa consiste. Innanzitutto capiamo cos'è. È stato inopportunamente chiamato gioco e consisterebbe nel compiere una serie di gesti al limite, come camminare sull'orlo dei binari, da immortalare e condividere online. L'ultima prova è togliersi la vita. Si verrebbe ingaggiati tramite social network: Instagram, WhatsApp, Facebook, chat. Ad orchestrare le operazioni, quello che è stato definito "curatore": sarebbe lui a guidare i ragazzi psicologicamente vulnerabili prova dopo prova, dopo averli convinti di possedere informazioni che possono far male alla loro famiglia. Chi partecipa alla sfida si provocherebbe, prima di tutto, dei tagli alle braccia e pubblicherebbe post contrassegnati dall'hashtag #f57. Le origini. Il primo a riportare la vicenda è stato Novaya Gazeta, il quotidiano di Mosca fondato da Anna Politkovskaja, giornalista investigativa uccisa nel 2006. In un'inchiesta pubblicata a maggio dello scorso anno, il giornale collega almeno 80 delle 130 morti avvenute in Russia tra il novembre 2015 e l'aprile 2016 a delle comunità virtuali su VKontakte, l'equivalente di Facebook in Russia, dove i ragazzi verrebbero istigati a togliersi la vita. Il lavoro è stato duramente criticato e un'altra investigazione condotta da Radio Free Europe dice: nessuna connessione provata tra i suicidi e le chat. Tra l'altro, è da notare che si parla di generici "gruppi della morte": alcuni hanno preso a simbolo le farfalle, altri le balene. Quindi il nome Blue Whale (tradotto come balena blu o azzurra) è, in realtà, una montatura mediatica. Perché Blue Whale? Per via dell'abitudine delle balene a spiaggiarsi e morire, senza motivo. I protagonisti. C'è da dire che i gruppi, tuttavia, sembrano esistere come riporta anche il sito di fact checking Snopes. La loro comparsa è successiva al suicidio di una ragazza, Rina, diventata una sorta di figura simbolo di un culto non meglio identificato. E l'unico che risulta incriminato per via delle chat è uno dei primi amministratori: il 21enne Phillip Budeikin, noto come "lis" ("volpe") che, al momento, pare incarcerato in Russia. Secondo gli inquirenti di San Pietroburgo, avrebbe istigato al suicidio 15 teenager in 10 diverse regioni russe tra il dicembre 2013 e il maggio 2016. Il processo, però, è ancora in corso. Inoltre, se da un lato lui sembra confermare l'accusa vantandosi di aver contribuito a eliminare della "spazzatura biologica" in un'intervista che risale al novembre 2016, dall'altro c'è da considerare quanto dice More Kitov, creatore su VKontakte della comunità "Sea of Whales": parlando al sito Lenta.ru, Kitov sostiene che l'amministratore della comunità #f57, cioè Phillip, voleva solo accrescere il numero di membri della propria pagina per attirare pubblicità usando una storia popolare tra i ragazzi e lanciando il mito di Rina. "Questa storia - conclude Snopes - è stata ripresa inspiegabilmente dai giornali mesi dopo, ma rimaniamo non in grado di verificarla". Come mai tutto nasce in Russia? Per capire le origini della storia, può essere utile partire da alcuni fatti. Il primo è che di hashtag associati alle "chat suicide" sui social russi ne appaiono almeno 4mila al giorno, dicono le stime diffuse il 20 gennaio scorso dal Rotsit, il Centro pubblico russo sulle tecnologie internet. Il secondo: il numero di minori che decidono di togliersi la vita in Russia è uno dei più alti al mondo. Con 720 vittime nel 2016, secondo i dati presentati alla Duma: tre volte sopra la media europea. Ma, stando a quanto annota La Stampa, i dati non risultano in aumento per via di questi gruppi online e il tasso di ragazzi che si tolgono la vita è molto più alto nelle città di provincia, poco digitalizzate. Situazione in Italia. A portare il fenomeno all'attenzione del pubblico italiano è stata la trasmissione televisiva Le Iene che ha raccolto le testimonianze di quattro mamme russe di ex "giocatori". Il servizio apre legando al "Blue Whale", presentato come il tremendo gioco social del suicidio, la morte di un giovane livornese: si è ucciso a 15 anni, lanciandosi da un grattacielo. Secondo la Polizia postale non risulta alcun collegamento. Sono, invece, al vaglio circa una cinquantina di casi sospetti in varie regioni. Come ha detto a Repubblica una fonte della Postale, non ci sono prove per stabilire se si tratta di un fenomeno emulativo o se dietro questi episodi ci sia una mente criminale che spinge i giovani al suicidio. Solo l'analisi dei computer dei ragazzi, attualmente in corso, potrà chiarire questi aspetti.  Non è escluso che online ci siano gruppi che istigano all'autolesionismo e al suicidio, nati anche per via del clamore mediatico, per cui è utile prestare attenzione. Ma l'esistenza di un "gioco" strutturato di nome Blue Whale nato in Russia e dietro il quale ci sarebbe, per di più, una mente criminale non è - al momento - verificata.

Blue Whale, tutto quello che c’è da sapere sul gioco del suicidio.

Una storia vecchia torna d’attualità in Italia a seguito del servizio fatto in tv da Le Iene. Più che una vicenda da «Internet cattiva» sembra una «fake news» rimbalzata e fatta rimbalzare i cui effetti rischiano però di diventare reali, scrive Lorenzo Fantoni il 17 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera”. 

Cos’è Blue Whale. Dopo il servizio de Le Iene su molte pagine web italiane si è ritornati a parlare del caso «Blue Whale». Con quale grado di correttezza di informazioni cercheremo di scoprirlo con questo servizio. Intanto le basi: con il nome «Blue Whale» si identifica una sorta di assurdo rituale che ha lo scopo di condurre qualcuno, prevalentemente un giovane, debole e depresso, verso il suicidio. Una sorta di gioco online a cui si decide di partecipare volontariamente postando un messaggio con l’hashtag #f57 che porta all’immediato contatto in forma privata con un «master» che sottopone un elenco di prove ben precise. Il master sarebbe in possesso di informazioni personali che in caso di disobbedienza porterebbero a ritorsioni violente sulla famiglia del «giocatore». Le presunte, ma decisamente tutte da confermare, morti dovute a questo assurdo gioco sarebbero oltre 130, con casi che si concentrano in Russia, ma si estendono anche al resto del mondo. A rinvigorire la storia ci sarebbe anche l’arresto di Philiph Budeikin, ragazzo russo che si sarebbe dichiarato colpevole di aver portato al suicidio un numero imprecisato di persone. Il nome Blue Whale si ispira ovviamente alle balene e alla loro pratica di spiaggiarsi e morire senza alcun apparente motivo. Come detto, in questi giorni Blue Whale è sulla bocca di tutti a seguito del programma Le Iene in cui i conduttori dichiaravano di aver fatto luce sulla vicenda. Tuttavia di Blue Whale si parla da almeno un anno, forse di più e la verità è decisamente più complessa di una psicosi da «Internet cattivo» e riguarda più le leggende metropolitane che una presunta setta che incita al suicidio. Oltre a tutto questo, nel 2016 è uscito un film, «Nerve», che per certi versi riprendeva le tematiche di Blue Whale, e si è innescato quindi una sorta di cortocircuito in cui è difficile capire se un caso isolato è diventato leggenda metropolitana, se la leggenda è stata imitata dalla realtà o se è entrata di mezzo anche una strana storia di marketing virale. Ciò che cercheremo di fare in queste schede è gettare una luce su questo fenomeno, dimostrando che si tratta in gran di un caso, quantomeno in partenza, montato su leggende metropolitane che qualcuno ha cercato di rendere vere per puro calcolo personale. L’unica certezza in questi casi è l’incertezza data dalle dinamiche della rete.

Dove nasce la leggenda. Blue Whale galleggia nel mare di storie dell’orrore e leggende metropolitane che vengono narrate e conservate in quegli angoli della rete più inclini a mostrare immagini violente e disturbanti. Di solito vengono chiamate «creepypasta». Il nome è una crasi storpiata “cut and paste”, ovvero l’atto di copiare e incollare un testo per diffonderlo nei forum e «creepy» che in inglese vuol dire «inquietante». Fondamentalmente non sono altro che la versione web, e quindi ancora più esagerata, delle storie del terrore che si raccontano in campeggio. Alcune di esse, col tempo, si sono poi diffuse a tal punto da arrivare al grande pubblico, come nel caso di «Slender Man», e quindi entrare nell’immaginario collettivo e trasformarsi in film dell’orrore, fumetti o videogiochi. Il destino di Blue Whale non è molto diverso. Per iniziare Blue Whale bisognerebbe frequentare forum o gruppi dedicati al suicidio o al gioco, di solito hanno nomi che riguardano le balene, e scrivere un messaggio usando l’hashtag #f57. A quel punto si verrebbe contattati da un «master» che, non si sa bene come, convincerebbe la vittima di essere in possesso di informazioni personali che possono essere usate per far del male alla sua famiglia. Poi il malcapitato deve sottostare a una serie di prove che prevedono l’ascolto o la visione di film e canzoni proposte dal master, ferite autoinflitte o sostare per un po’ di tempo sul bordo di un palazzo molto alto o sui binari di una ferrovia. Ovviamente tutto dev’essere tenuto segreto, pena la morte dei familiari.

Il primo contatto. Blue Whale emerge per la prima volta nel 2016 in un articolo del sito russo Novaya Gazeta a cui si rifanno tutti i siti che ne parlano oggi, che racconta di decine di ragazzi che si sarebbero suicidati nell’arco di sei mesi. L’articolo è perfetto per una condivisione poco attenta ed estremamente virale: le informazioni sono in russo, quindi difficilmente verificabili e contengono un grado di morbosità che ne aumenta le letture, dunque si diffonde a macchia d’olio. Secondo il sito alcuni dei suicidi facevano parte di gruppi su VKontakte, il più diffuso social network russo. Novaya Gazeta parla di almeno otto morti legate a questo gioco, tuttavia una successiva inchiesta di Radio Free Europenon ha trovato riscontri fondati a questa affermazione. I suicidi ci sono stati e VKontakte sarebbe pieno di gente che posta immagini di ferite autoinflitte e chiede di poter giocare a questo gioco, ma paradossalmente sembra tutta una vicenda che si autoalimenta basandosi sulla suggestione. In molti hanno criticato l’articolo di Novaya Gazeta, sia per la mancanza di dati verificabili, sia perché scambia la causa per l’effetto. Stando a quanto dichiarato infatti molti ragazzi si sarebbero ammazzati seguendo i gruppi su VKontakte che trattano l’argomento, ma è molto più plausibile invece che una persona con tendenze suicide segua forum o comunità online che discutono dell’argomento, piuttosto che lo diventi dopo averle seguite. Insomma, varrebbe la stessa regola di qualunque altro interesse: non si diventa pescatori leggendo un forum di pesca, si legge un forum di pesca perché lo si apprezza come sport o passatempo.

Il mito di Rina Palenkova. Internet è piena di gruppi dedicati al suicidio, alcuni cercano di aiutare i proprio iscritti a non commetterlo, altri sono invece luoghi di incontro per chi cerca consigli su come renderlo indolore o persino qualcuno con cui commetterlo. Purtroppo è difficile capire quanto questi luoghi possano rappresentare una risorsa per evitare il suicidio o piuttosto una riserva di caccia per personaggi poco raccomandabili che non vedono l’ora di accanirsi su soggetti vulnerabili. Scorrendo le pagine di questi forum si fa riferimento a Blue Whale, ma più come leggenda metropolitana legata all’articolo di Novaya Gazeta che come movimento organico e organizzato. Di fronte a casi come questo è sempre molto difficile separare mitomani, emulatori e impostori che rimbalzano tra Reddit, Tumblr, social network, forum, catene su Whatsapp. Un modo per comprendere l’assurdità di questa storia è riflettere sulla figura di Rina Palenkova. Col nome di Rina Palenkova si identifica una ragazza che si sarebbe uccisa dopo aver postato una sua foto su VK.com e che avrebbe fatto parte di una specie di culto mai identificato. La sua figura è stata montata e ricondivisa sul social network russo, con tanto di foto scioccanti, video dal sapore esoterico fino a trasformarla in una sorta di oscuro meme del suicidio, perfetto per plagiare persone più deboli e creare sottoculture nocive. Il dubbio che il personaggio di Rina Palenkova sia montato ad arte viene quando nei suoi video notiamo strani simboli che poi si sono rivelati, secondo Meduza, essere il logo di una marca di lingerie.

Gli Arg. Sempre secondo Meduza, a complicare ancora di più la situazione c’è l’uso di Blue Whale e della figura della Palenkova per creare degli ARG, ovvero giochi in realtà alternativa, estremamente criptici che mescolano filmati da decifrare, luoghi reali e messaggi in codice e che tendono a calamitare attorno a sé gruppi di appassionati ansiosi di risolverli. C’è quindi il rischio che in alcuni casi le community legate a questi giochi vengano scambiate per gruppi di persone che promuovevano il suicido e Blue Whale.

Farsi pubblicità. Lenta.ru ha svelato un altro dei motivi per cui in Russia sono nati alcuni gruppi legati al suicidio. More Kitov, creatore della community «Sea of Whales», ha dichiarato che gli amministratori del gruppo non avevano nessuna intenzione di spingere i ragazzi al suicidio, cercavano solo di far decollare le proprie pagine. Anche Filip Lis, amministratore della pagina f57, cercava solo un modo per creare velocemente un gruppo con molti iscritti. Del resto in VKontakte, proprio come su Facebook, le pagine molto seguite hanno un grande valore commerciale. E proprio come nascono pagine fan subito dopo la morte di una persona famosa, così Kitov aveva intercettato questa leggenda metropolitana, ne aveva compreso il valore e aveva utilizzato i simboli di riferimento, comprese foto e documenti che sarebbero appartenuti alla Palenkova, per creare pagine da rivendere a miglior offerente.

I suicidi in Russia. Ma come mai la Russia si è dimostrata un terreno fertile per Blue Whale, tanto da generare imitatori che, forse, ne sono rimasti tanto affascinati da utilizzarla come ispirazione per fare o farsi del male? Innanzitutto un dato importante: secondo i dati ufficiali russi il 62% dei suicidi giovanili avvengono per conflitti con membri della famiglia, amici, insegnanti, insofferenza all’indifferenza altrui o paura di violenza da parte degli adulti. Se analizziamo meglio i dati, il tasso generale di suicidi in questo Paese decresce, ma con una forte impennata di quelli giovanili, con un picco nel 2013 di 461 casi. Questo non vuol dire che Blue Whale si una cosa nata in Russia, ma lì il suo mito ha senza dubbio trovato il terreno di coltura adatto per impiantare delle suggestioni, seppure alimentate da motivazioni spesso più profonde.

Philip Budeikin. Ogni mitologia per alimentarsi ha bisogno di un mito, come Rina Palenkova, ma anche di un cattivo. In questo caso parliamo di Philip Budeikin, un ragazzo arrestato nel 2016 che ha confessato di aver spinto al suicidio persone che riteneva «rifiuti biologici». La sua intervista risale all’anno scorso, il motivo per cui questa notizia sia spuntata fuori oggi come se fosse recente è legato ai meccanismi «virali» dell’informazione moderna che rende importanti avvenimenti dopo molti mesi solo perché un media si accorge improvvisamente che esistono e cerca di sfruttarne la morbosità e la carenza di fonti verificabili per costruirci una bella storia. Budeikin ha dichiarato di aver spinto al suicidio 17 persone e che f57 non ha alcun significato nascosto, sono semplicemente la prima lettera del suo nome e le ultime due del suo numero di telefono. Al momento accertare la veridicità della vicenda e l’eventuale svolgimento di un processo a carico di Budelkin non è facile, ciò che è certo è che la notizia non è di queste ore.

In conclusione. La vicenda Blue Whale è il classico esempio di quanto la cautela sia necessaria nel riportare una notizia presa dal Web, che una volta fatta circolare rischia di trasformarsi in un boomerang (vedi il primo caso di intervento della polizia a Ravenna). Le fonti sono spesso confuse, contraddittorie o volutamente criptiche perché fanno parte di un gioco e di una sottocultura volta a creare un alone di mistero attorno a qualcosa che ha basi molto meno solide di quanto pensiamo, in cui una vera tragedia può confondersi con una foto piena di sangue finto. La parte più surreale della vicenda è come da una leggenda metropolitana si sia passati allo sfruttamento commerciale, rendendo verità un mito di Internet e portando i media di tutta Europa a parlare di un presunta nuova moda tra i giovani. D’altronde le caratteristiche c’erano tutte: disagio giovanile, l’Internet cattiva, notizie difficili da verificare. La verità molto probabilmente è che in Blue Whale c’è molto meno di ciò che siamo portati a credere e che purtroppo la suggestione e l’emulazione giocano un ruolo fondamentale in questi eventi mediatici che esplodo all’improvviso. Ci troviamo di fronte a uno di quei casi in cui il racconto si è fatto verità grazie alla voglia di alcuni di giocare con la mente di persone particolarmente vulnerabili, per questo è importante parlarne con correttezza e senza giungere a facili conclusioni e senza ammantare il fenomeno di un fascino proibito che potrebbe attrare emulatori e malintenzionati. Ormai qualunque cosa può essere o non essere Blue Whale, ma rimane una parola, e le parole hanno potere solo se glielo diamo noi.

Blue Whale, il video di Alici come prima che smonta il servizio de Le Iene, scrive l'8 Giugno 2017 "Libero Quotidiano”. La "Iena" Matteo Viviani, nel primo e ormai celeberrimo servizio dello scorso maggio, ha mostrato a tutti cosa sia il Blue Whale challange, il gioco della "balena blu" che termina con il suicidio di ragazzini ed adolescenti. Nel video si vedevano più casi di ragazzini russi, che si filmavano nei momenti in cui si toglievano la vita. Viviani legava tutto al nuovo assurdo gioco che sta terrorizzando tutti i genitori d'Italia. Ma era la verità? Pare di no: prima le conferme in un'intervista a Il Fatto Quotidiano, dunque un video su canale youtube Alici come prima. Un filmato in cui viene smontato punto per punto il servizio de Le Iene: secondo la teoria del video, la vicenda della Blue Whale sarebbe tutta una roboante "fake news". Il video è molto puntuale: non tutti i casi erano in Russia, così come invece affermava Viviani nei primi secondi del filmato. È bastato risalire alla fonte, il sito Liveleak, per scoprire inoltre che le immagini risalivano a svariati anni fa, molto prima dell'esplosione del fenomeno Blue whale. In più, alcune immagini erano dei veri e propri tarocchi, fotomontaggi di ragazzine, creati probabilmente per ottenere più like. I suicidi mostrati, dunque, non erano affatto legati al nuovo gioco. Restano però le numerose segnalazioni di casi sospetti piovute in Italia nelle ultime settimane.

Speculare sulla paura. "Sono colpitissimo di una notizia di ieri, parla di Blue Whale e del fenomeno di emulazione da parte degli adolescenti", scrive Filomena Fotia il 9 giugno 2017. “Si tratta di stare sul web in modo diverso dagli altri. Noi non ci stiamo urlando, raccontando frottole, bugie. Non è facile, perché non è facile occupare il web da parte della ragionevolezza. Sono colpitissimo di una notizia di ieri, parla di Blue Whale e del fenomeno di emulazione da parte degli adolescenti. Suggerirei a tutti di leggerla e di rendervi contro di quanto sia atroce creare un clima di paura, tensione, per alimentare finte notizie. A forza di gridare al lupo al lupo, accade che qualcuno ci crede… Se ci pensate, in piccolo è quello che accaduto in piazza a Torino durante la partita della Juve”. Lo ha detto Matteo Renzi su Ore Nove.

Blue Whale, gli effetti del servizio fake delle Iene: emulazione, boom di ricerche “suicidi” e finti “curatori”. Il fenomeno della Blue Whale in Italia è esploso il 15 maggio, giorno dopo la messa in onda di un servizio de Le Iene che spacciava per veri video falsi. “Il problema – secondo Carlo Freccero, membro di Vigilanza Rai – è che, quando queste notizie vengono date da media generalisti, diventano vere automaticamente”. Nella video inchiesta di Fanpage.it gli effetti di questo “fake”, scrive il 4 luglio 2017 Giorgio Scura su "Fan Page". "Il fenomeno della Blue Whale in Italia è arrivato grazie un servizio delle Iene". Lo ha detto a Fanpage.it, Carlo Freccero, uno dei massimi esperti di media in Italia e membro della Commissione di Vigilanza Rai. "Le Iene – continua Freccero – hanno preso per buono quanto circolava in rete sul presunto fenomeno della Balena Blu. Il web però ha subito sviluppato il suo antidoto e i debunker hanno dimostrato che i video dei presunti suicidi legati alla Balena Blu, che hanno dato al servizio enorme forza, erano falsi". "Il problema – aggiunge l'ex direttore di RaiDue e di palinsesti Mediaset – è che, quando queste notizie vengono date da media generalisti, diventano vere automaticamente. Il fatto poi che abbiano un'audience fortissima spinge i giornali ad accodarsi". Perfino l'autorevole Der Spiegel arriva a pubblicare dentro un documentario gli stessi video (falsi) delle Iene accostandoli alla Blue Whale. Il fenomeno Blue Whale nasce così. Per dimostrare quanto detto basta guardare i dati di ricerca di Google: ebbene prima del 15 maggio (il servizio delle Iene è andato in onda la sera del 14 maggio), praticamente nessuno manifestava un qualsiasi tipo di interesse verso questo gioco. Il 15 maggio, improvvisamente, l'indice esplode, arrivando a 100, massima quota di crescita di una "parola chiave". Insomma la "notizia", supportata da video falsi spacciati per veri, diventa virale. Tutti alla scoperta di questo strano "gioco del suicidio". Ma che effetti avrà avuto quest'ondata mediatica, basata su documenti falsi per stessa ammissione nell'autore del servizio Matteo Viviani, sugli adolescenti on-line? Un reporter di Fanpage.it si è finto una ragazzina interessata a voler partecipare al gioco: volevamo capire quanto l'ondata mediatica avesse messo in moto realmente il perverso gioco di cui nessuno in Italia conosceva l'esistenza, prima del servizio di Italia Uno. I risultati sono stati inquietanti: immediatamente, su Twitter, siamo stati intercettati da un sedicente "curatore", colui che dovrebbe gestire i cosiddetti Gruppi della Morte, all'interno dei quali si gioca alla Blue Whale, che ha iniziato via chat a introdurci in questo assurdo gioco, fino a minacciare i nostri cari se a un certo punto ci fossimo voluti ritirare dal gioco. I dati del profilo di questo curatore, che è stato disattivato poco dopo la chat che vi raccontiamo, sono stati trasmessi alla Polizia Postale. Ancora più inquietanti i contatti che sono giunti al nostro reporter quando si è finto curatore. Siamo stati contattati da decine di utenti che chiedevano, in un caso imploravano, aiuto per togliersi la vita. Fanpage.it non è potuta risalire a chi si celava dietro ogni singolo profilo, non sappiamo quindi se dietro di questi ci fossero adolescenti in grave crisi oppure dei burloni, altri giornalisti o poliziotti oppure adulti malintenzionati e desiderosi di stringere rapporti con minorenni. Quello spetterà alle forze dell'ordine alle quali abbiamo girato il materiale raccolto. Abbiamo però toccato con mano come, solo a partire dal 15 maggio, data del servizio de Le Iene, in Italia compaiono i profili di questi "curatori" e gli hashtag sotto cui inizia il gioco che poi prosegue in chat private dove entrano adolescenti con istinti suicidi, cyberbulli, pedofili e perdigiorno. E quello che accade lì dentro può diventare davvero pericoloso. Purtroppo, però, non è finita qui. Come dice Marco Cervellini, portavoce della Polizia Postale, il problema di questa tempesta mediatica è stato l'immediato effetto emulazione che ha creato un'ondata casi reali di cronaca in cui ragazzini hanno realmente messo in pratica questo gioco che, va ripetuto ancora una volta, prima del 15 maggio in Italia non esisteva. Qui alcuni casi: Senigallia, Ravenna, Pescara, Milano, Roma, Moncalieri, Fiumicino, Palermo, Catania. La nota positiva, in questo viaggio nell'inferno virtuale dei nostri ragazzi, è che abbiamo trovato anche delle "sentinelle". Si tratta di persone che, da quando è scoppiato il fenomeno in Italia, grazie ai video fake de Le Iene, si sono messe online per cercare di intercettare adolescenti in difficoltà per dare loro supporto. Tra loro anche una mamma di 35 anni, che chiede che venga rispettato l'anonimato, e che a Fanpage.it ha raccontato: "Sto provando ad aiutare questi ragazzi contattandoli su Twitter. Sono entrata in contatto con una ragazza che si autolesionava, ho contattato anche la mamma. Ho il terrore che qualcosa di brutto possa capitare loro".

Blue Whale, Matteo Viviani: «Falsi i video del servizio delle Iene», scrive Mercoledì 7 Giugno 2017 "Il Messaggero". Blue Whale, dopo il servizio denuncia de Le Iene non si parla d'altro: il drammatico gioco virale, diffuso tra gli adolescenti, che li spingerebbe a fare prove estreme fino a suicidarsi. La Iena Matteo Viviani aveva raccontato dei pericoli di questo gioco documentadoli con video e interviste delle mamme russe, perché proprio la Russia avrebbe dato origine a questo fenomeno. Oggi però, Selvaggia Lucarelli, con un articolo su Il Fatto Quotidiano, mostra qualcosa di inaspettato sul servizio mandato in onda su Italia Uno, perché secondo lei, come avave anche anticipato sulla sua pagina Facebook, il Blue Whale "puzzava di bruciato". La Iena Viviani nell'intervista ammette che le conversazioni con le mamme russe che avevano appena perso i figli e i video dei suicidi sono false. «Me li ha girati una tv russa su una chiavetta e ammetto la leggerezza nel non aver fatto tutte le verifiche, ma erano comunque esplicativi di quello di cui parlava il servizio». Il servizio è diventato però virale, e come spesso accade l'emulazione è la prima fonte del problema, ma Viviani si è detto sereno: «Ieri sono andato in una classe e ho chiesto quanti conoscessero il Blue Whale prima del mio servizio. La metà degli alunni ha alzato la mano. Noi adulti ignoriamo parte del web, specie quella popolata dai giovanissimi. La polizia ha salvato una ragazzina che era quasi al cinquantesimo (e ultimo) giorno del gioco, quindi aveva iniziato prima della puntata». Molti sono stati i ragazzi salvati da questo gioco dalla polizia, e la iena respinge le accuse di aver innescato un meccanismo di emulazione con il suo servizio: «Non posso praticare l'omertà su un argomento e se ho contribuito a salvare anche una sola persona, il mio è stato un lavoro prezioso».

Blue Whale, parla Matteo Viviani de Le Iene: “Sì, i video russi sono falsi ma il pericolo c’è”. Parla l’autore delle “Iene” che ha raccontato il gioco del suicidio. Prima del servizio zero casi, dopo forse sì. Soltanto emulazione? Scrive Selvaggia Lucarelli il 7 giugno 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Sai che sul web in molti definiscono il tuo servizio sul Blue Whale la nuova bufala de Le Iene, paragonandolo al caso stamina? “Ma per favore. La gente guarda il dito anziché la luna”. Matteo Viviani si difende con le unghie dalle accuse che molti giornali e siti gli hanno mosso negli ultimi giorni: aver parlato di suicidi giovanili legati al web in maniera imprecisa, senza prove, con video falsi e con un sensazionalismo pericoloso per via dei rischi di emulazione. Il 14 maggio Viviani ha svelato in un servizio di grande impatto emotivo il fenomeno del Blue Whale: una sorta di gioco psicologico che attraverso il superamento di 50 prove in 50 giorni istigherebbe gli adolescenti al suicidio. Si inizia con l’autolesionismo (tagli su pancia e braccia), per poi passare alla visione di film horror fino a buttarsi dal palazzo più alto della città il cinquantesimo giorno (possibilmente ripresi da una videocamera). Nato in Russia, dove tale Phillip Budeikin è stato arrestato perché accusato di essere l’inventore del gioco e di aver istigato alcuni ragazzi al suicidio, il fenomeno, secondo Viviani, si starebbe espandendo ovunque, Italia compresa. Il servizio di Viviani era confezionato con maestria: un inizio d’effetto con le immagini di adolescenti in cima a palazzi che non esitano a lanciarsi e corpi schiantati. Viviani intervistava poi due mamme russe le cui due figlie si sarebbero suicidate per questo gioco. La sera in cui il servizio è andato in onda, sul web c’è stata una reazione forte. Da quel momento, caso strano, sono cominciati casi su casi di Blue Whale in Italia.

Matteo, perché quei video bufala?

«Me li ha girati una tv russa su una chiavetta e ammetto la leggerezza nel non aver fatto tutte le verifiche, ma erano comunque esplicativi di quello di cui parlava il servizio».

Erano sconvolgenti, ma erano un falso.

«Era solo il punto di partenza, cambiava qualcosa se mettevo un voice over di 4 secondi in cui dicevo che quei video non erano collegati al Blue whale?»

Direi di sì. Come documentato dal sito “Valigia blu” nessuno in Italia prima del 14 maggio cercava “Blue Whale” su Google e dopo c’è stato un picco di ricerche. Non hai paura di aver diffuso tu il fenomeno?

«Ieri sono andato in una classe e ho chiesto quanti conoscessero il Blue Whale prima del mio servizio. La metà degli alunni ha alzato la mano. Noi adulti ignoriamo parte del web, specie quella popolata dai giovanissimi».

Come mai la polizia ha cominciato a sventare suicidi legati a Blue Whale solo dopo il tuo servizio?

«La polizia ha salvato una ragazzina che era quasi al cinquantesimo giorno del gioco, quindi aveva iniziato prima…»

Di dov’è questa ragazzina?

«Non si può dire per una ragione di privacy.

Leggo altri casi di interventi della polizia tutti successivi al servizio. E prima?

«La polizia non aveva mai sentito parlare di Blue Whale».

Sai che il ragazzino di Livorno citato nel tuo servizio, secondo le indagini, non si è suicidato per il Blue Whale?

«Ma noi abbiamo premesso che il legame col Blue Whale era la versione del suo amico e che era solo il punto di partenza del servizio».

Un punto di partenza falso.

«In Russia i suicidi ci sono stati, in Ucraina ne sono stati accertati 4. Lo dice la polizia».

In Russia l’arrestato per il Blue Whale era collegato a una sola istigazione al suicidio delle 130 che gli erano state contestate.

«È difficile fare indagini quando i server sono sparsi nel mondo e si utilizza Tor per navigare…»

Però non si può spacciare un sospetto per una notizia.

«La polizia italiana ha confermato l’esistenza di un allarme sociale e mi ha ringraziato per l’attenzione che ho portato sul fenomeno».

Non ti sei posto il problema di aver innescato tu l’emulazione?

«Allora non dobbiamo dare più notizie neppure sul bullismo o sul femminicidio?»

L’emulazione nel campo dei suicidi giovanili è un fenomeno accertato.

«Non posso praticare l’omertà su un argomento e se ho contribuito a salvare anche una sola persona, il mio è stato un lavoro prezioso».

L’Oms ha fornito regole ai media su come trattare l’argomento suicidio giovanile per evitare il rischio emulazione. Punto primo: evitare il sensazionalismo. Ma quei finti video di suicidi erano sensazionalismo puro.

«Le Iene hanno questo tipo di narrazione. Ti potrei mostrare tanti altri servizi confezionati così, scegliamo di raccontare la verità in modo crudo. Abbiamo eliminato immagini trovate sul web di tagli sul corpo mostruosi».

L’autolesionismo è sempre esistito, anche se non si chiamava Blue Whale.

Mica giochi al Blue Whale solo se ti suicidi.

È lo scopo, in teoria, altrimenti si parlerebbe di gioco che istiga.

«Cercare le debolezze nel servizio o certi titoli tipo “Le Iene incastrate nella loro falsità dal web” abbassano l’allerta su questo fenomeno che, secondo me, è anche più grave di come l’ho raccontato».

Sarà. Però la sensazione è che si sia passati da “Le iene portano bene” a (in questo caso) “Le iene non ne escono bene”.

“Le Iene” torna a parlare di Blue Whale. Persone che affrontano seriamente il tema del suicidio giovanile, scrive il 9.10.17 3 Paolo Attivissimo su Disinformatico. Se non leggi altro, leggi almeno questo: non è vero che se non finisci il Blue Whale Challenge uccideranno i tuoi genitori; quelli che si spacciano per “curatori” sono solo dei bulli malati che vogliono fregarti. Puoi batterli con un clic: bloccali. Le Iene vogliono spaventarti con il Blue Whale per fare soldi. Non farti fregare: spegni la TV. Se sei finito nel Blue Whale o in qualche “sfida” simile, o conosci qualcuno che ci è finito, parlane con gli amici, con i genitori, con un docente. Troverai aiuto. Nella puntata andata in onda domenica sera su Italia 1 , il programma Le Iene è tornato a parlare del cosiddetto Blue Whale Challenge (BWC): una sfida online che spingerebbe tantissimi giovani al suicidio tramite le istruzioni fornite via Internet da un cosiddetto “curatore”.

Riassumo le puntate precedenti della vicenda: Le Iene aveva già parlato del BWC il 14 maggio scorso, suggerendo che questa sfida avesse già fatto vittime in Italia e creando così un panico mediatico enorme nel paese ma generando anche molte proteste e critiche (per esempio Valigia Blu) per la carenza di prove e il sensazionalismo esasperato. Andrea Rossi di Alici Come Prima aveva poi dimostrato (video) che i video di suicidi mostrati in maniera così drammatica da Le Iene erano falsi: non si riferivano affatto al Blue Whale Challenge. Il 7 giugno, Matteo Viviani (de Le Iene) aveva poi ammesso sul Fatto Quotidiano che non aveva verificato la provenienza di quei video: una leggerezza assolutamente imperdonabile, specialmente su un tema delicatissimo come il suicidio giovanile. Dopo qualche giorno di clamore, tutti i media italiani hanno smesso di parlare di Blue Whale, come ha notato Wired.it (“Che fine ha fatto Blue Whale?”, 29 settembre). La paventata ondata di suicidi che sarebbero stati istigati in Italia da questa sfida non c’è stata. Il ritorno de Le Iene sull’argomento domenica sera è stato molto meno sensazionalista rispetto alla prima puntata: ha presentato documentazioni e interviste ad autorità in mezzo mondo, dando l’impressione di dimostrare di aver avuto ragione. Ma guardando il nuovo servizio con attenzione emerge che in realtà la redazione del programma ha tentato furbescamente di spostare i paletti della discussione per scagionarsi, attribuendo ai suoi critici cose che non hanno mai detto o scritto.

Primo paletto spostato: Matteo Viviani sostiene ripetutamente che chi ha criticato il primo servizio de Le Ienesul BWC avrebbe detto che questa sfida non esiste ed è una bufala. È falso: i critici (me compreso) in realtà hanno detto che il concetto di BWC esiste, che i suicidi giovanili esistono e in particolare in Russia sono molto numerosi, ma mancano prove ufficiali che colleghino BWC e suicidi, specialmente in Italia (BBC; The Globe and Mail; Il Post). In particolare, i 130 casi di suicidio giovanile in Russia citati da molti giornali di tutto il mondo non sono affatto collegati specificamente al BWC. Inoltre Blue Whale Challenge è semplicemente una delle tante sigle usate nei gruppi online dedicati al suicidio; è quella, fra le tante, che i giornalisti hanno preso e pompato. Concentrarsi su una sola sigla invece di occuparsi del problema dei suicidi e degli istigatori online è solo sciacallaggio ingannevole; è come parlare di incidenti stradali raccontando solo quelli causati dalle Peugeot arancioni. Mi verrebbe da dire che è pigrizia giornalistica, ma Le Iene non è un programma giornalistico, è un varietà. Insomma, i critici non hanno detto che il BWC è una bufala: hanno invece detto che parlarne in maniera sensazionalista e irresponsabile come aveva fatto Le Iene avrebbe ispirato emulatori e avrebbe reso reale un fenomeno che forse inizialmente era solo un meme e un mito di paura come Slenderman. Chi, come me, va spesso nelle scuole a parlare di informatica agli studenti e ha figli in età scolare sa benissimo che se ne mormorava ben prima del primo intervento de Le Iene: ma abbiamo preferito parlarne responsabilmente, caso per caso, invece di ingigantire il problema, creare falsi allarmi e seminare il panico. 

Secondo paletto spostato: nel nuovo servizio, Viviani chiede ripetutamente agli esperti e inquirenti intervistati se sia giusto o no parlare pubblicamente del Blue Whale Challenge e tutti gli rispondono che se ne deve assolutamente parlare. Questo sembra dare ragione a Le Iene per averne parlato. Ma è falso che i critici abbiano detto che non se ne deve parlare: hanno detto invece che è importantissimo come se ne parla. Non si parla di suicidio giovanile fra un frizzo e un lazzo e una pubblicità in un programma di varietà come Le Iene. Non si mostrano video di suicidi (oltretutto falsi). Non si mette la musica struggente. Non si spaccia un dramma di famiglia per un caso italiano di Blue Whale intervistando e imbeccando un bambino. Se ne parla al telegiornale e nei programmi di approfondimento giornalistico serio; se ne parla nelle scuole con i docenti e con gli esperti della polizia; si rispettano le linee guida sviluppate dall’OMS per non peggiorare il problema. La cosa assurda è che Matteo Viviani si contraddice e si sbufala da solo quando tenta di dimostrare che l’allerta Blue Whale è un problema serio mostrando come è stato gestito negli altri paesi: tramite le autorità, i telegiornali, i programmi TV giornalistici, le forze di polizia, gli psicologi e i docenti, andando anche nelle scuole a fare prevenzione e informazione competente, responsabile e sensibile. Appunto: se è un problema serio, e il suicidio giovanile lo è, non lo si tratta mandando in TV uno vestito di nero col cravattino e la barba di tre giorni a mostrare video farlocchi fra una battutina e l’altra.

Visto che questa nuova sparata de Le Iene probabilmente risolleverà la questione Blue Whale, segnalo alcuni link con le informazioni di base sulla vicenda, utili per discuterne per esempio in famiglia o in classe:

– I consigli della Polizia Postale per gestire questo allarme, che la Polizia non conferma (usa parole come “eventuale”, “sembrerebbe”). La pagina risale al 22 maggio 2017; ho linkato la versione su Archive.org perché il sito della Polizia Postale in questo momento sembra sovraccarico, e aggiungo una copia su Archive.is.

– L’indagine di Davide Bennato, docente di Sociologia dei media digitali all’Università di Catania, maggio 2017: “delle oltre 40 segnalazioni su cui sta indagando la Polizia Postale, al momento nessuna sembra essere connessa al fenomeno del Blue Whale...Attraverso il processo di cassa di risonanza dei social media – alimentato pesantemente dai mass media – un fenomeno controverso si sta trasformando in una realtà fattuale giocando sulla paura delle persone”.

– L’indagine del celebre sito antibufala Snopes, che classifica il Blue Whale Challenge come “non dimostrato“e ne ricostruisce le origini in Russia.

– L’indagine di Know Your Meme, che definisce il BWC “leggenda metropolitana” notando che “nonostante si asserisca che oltre 100 suicidi di adolescenti siano collegati” a questa sfida “non sono state trovate prove dirette”.

– La ricerca di Sofia Lincos Blue Whale: storia di una psicosi.

– La ricerca di David Puente.

– La ricerca di Bufale un tanto al chilo.

– Le raccomandazioni dello UK Safer Internet Centre, che definisce il BWC “una falsa notizia sensazionalizzata”.

– Il mio articolo di maggio 2017, che contiene molti rimandi a fonti, indagini e linee guida per parlare correttamente di un dramma che è molto reale e non va assolutamente ridotto a una sigla.

Blue Whale a Le Iene solo l’Italia l’ha considerata una bufala, Matteo Viviani spiega, scrive il 9 ottobre 2017 Maximo su Tutto uomini. Blue Whale a Le Iene solo l’Italia l’ha considerata un bufala, Matteo Viviani spiega. Matteo Viviani nell’ultima puntata de Le Iene torna a parlare del gioco macabro chiamato Blue Whale e delle sue tremendo 50 regole. E precisa che solo l’Italia, e i suoi giornali online, l’hanno considerata una bufala. Ma la Blue Whale bufala […] Blue Whale a Le Iene solo l’Italia l’ha considerata un bufala, Matteo Viviani spiega. Matteo Viviani nell’ultima puntata de Le Iene torna a parlare del gioco macabro chiamato Blue Whale e delle sue tremendo 50 regole. E precisa che solo l’Italia, e i suoi giornali online, l’hanno considerata una bufala. Ma la Blue Whale bufala non è e bisogna parlarne per arginare il più possibile il problema. La Blue Whale non è una bufala, ha spiegato Matteo Viviani andando ad intervistare organizzazioni a difesa dei minori, ragazzi coinvolti in giro per il mondo, tra Spagna, Francia, Argentina, Albania e Russia. Solo i giornali italiani hanno fatto passare il fenomeno come fake, compreso l’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi che in un video trasmesso da Le Iene dice chiaramente che non bisogna creare allarmismi inutili. In realtà la Blue Whale è allarmante perchè porta al suicidio bambini e adolescenti sfruttando le loro fragilità psicologiche. In pratica la redazione de Le Iene è stata accusata di aver montato tutto ad arte e di aver anche ingaggiato attori professionisti per realizzare interviste false. Matteo Viviani precisa che tutto questo è follia!

BLUE WHALE, IL SERVIZIO DELLE IENE PER RISPONDERE ALLE ACCUSE DI FAKE NEWS, scrive Giornalettismo il 09.10.2017.  Le Iene, nel corso della puntata di ieri, hanno mandato in onda un servizio per rispondere alle accuse di fake news. Il caso era scoppiato lo scorso 14 maggio, con il racconto della Blue Whale, la ‘balena blue’, macabro gioco diffuso tra adolescenti in rete, che consiste in una lunga serie di regole che i ragazzi cominciano a seguire fino a farsi del male, fino a togliersi la vita. L’inchiesta firmata da Matteo Viviani aveva suscitato grande stupore, e tanta preoccupazione o allarme tra i genitori, ma aveva anche sollevato interrogativi sulla reale portata del fenomeno descritto. Alcuni giorni dopo siti web e pagine dei social network avevano poi dimostrato come i filmati di suicidi contenuti nel servizio delle Iene fossero in realtà dei fake o comunque non avessero nulla a che fare con la tabella delle terribili 50 regole da seguire in 50 giorni. Il servizio delle Iene che oggi risponde alle accuse di bufala è un lungo reportage di 35 minuti che racconta un giro del mondo di Viviani effettuato per capire come i Paesi vicini e lontani dall’Italia abbiano affrontato il fenomeno Blue Whale. L’inviato mette in fila tutti gli articoli sulla ‘balena blu’ che erano stati pubblicati prima dell’inchiesta delle Iene e riporta degli allarmi che sono stati lanciati anche negli ultimi mesi da associazioni e forze dell’ordine italiane e straniere incaricate di raccogliere testimonianze e denunce. Si parla degli articoli giornalistici sulla Blue Whale pubblicati nel nostro Paese già a marzo, dei video caricati in quegli stessi giorni su YouTube e di alcune segnalazioni ricevute via mail dalla redazione. Nel servizio anche un’intervista ai responsabili dell’associazione francese E-enfant. Ma si parla anche dei casi di Portogallo, Spagna, Albania, Russia, Sudamerica. «I Paesi vicino a noi da subito hanno preso seriamente in considerazione l’alta rischiosità di questo fenomeno», è il messaggio delle Iene. Il pubblico sembra comunque essere ancora diviso sul servizio fornito dalle Iene. In un’intervista rilasciata a Selvaggia Lucarelli per Il Fatto Quotidiano a inizio giugno Viviani ammetteva che i video dei suicidi pubblicati erano falsi. Oggi l’intervistatrice dopo l’ultimo video sulla Blue Whale commenta: «In pratica il modo di discolparsi dai video fake de Le Iene è dire ‘La cazzata non l’abbiamo detta solo noi’». Ma i pareri differenti spuntano soprattutto sui social, e in particolare nelle risposte ai tweet delle Iene. «Questo è servizio pubblico e soprattutto una risposta alle malelingue che cercano soltanto di infangarvi», ha scritto qualcuno. «Adesso vediamo cosa si inventa il web per screditare il servizio…», ha aggiunto un altro. Poi c’è chi considera ancora il vecchio reportage un esempio di cattiva informazione: «Ma basta con queste putt…! Non vi è bastato trasmettere quella boiata raccogliticcia a maggio? Perseverate ancora? Ma finitela».

Come il mondo affronta la blue whale: Matteo Viviani raccoglie documenti e testimonianze, scrive Filomena Procopio il 9 ottobre 2017 su "Ultime Notizie Flash". Quando per la prima volta, nel mese di marzo scorso, a Le Iene si è parlato del fenomeno Blue Whale, le critiche non sono mancate. Lo ricorda anche Matteo Viviani nel servizio in onda nella puntata de Le Iene dedicata proprio a questo argomento. La Iena era stata criticata per una leggerezza nel raccogliere dati e informazioni su questo fenomeno e molti avevano puntato il dito contro il programma di Italia 1. L’accusa era semplice: prima che se ne parlasse in tv, nessuno in Italia, era a conoscenza di questo fenomeno e la cosa strana è che i casi di sospetta blue whale, si verificarono proprio a cavallo tra marzo e giugno, i mesi nei quali anche altri programmi tv si occuparono della questione. E’ abbastanza chiaro che ci fu un picco di ricerche sui social e sui motori di ricerca in quel periodo perchè molte persone non conoscevano il fenomeno. E’ anche chiaro che il fenomeno esisteva ma che alla base di esso, c’era appunto il silenzio di chi iniziava a giocare, e l’omertà di chi sapeva ma aveva paura di parlare. In ogni caso Matteo Viviani aveva promesso che si sarebbe tornato a parlare di questo fenomeno per fare chiarezza, per cercare risposte ed è iniziato quindi in estate il suo giro del mondo per andare a caccia di documenti, testimonianze, informazioni. Tutto verificato questa volta, tutto a prova di accuse e di smentite. Come il mondo affronta la blue whale: è questo il titolo del servizio che Le Iene hanno mandato in onda nella puntata dell’8 ottobre 2017 con particolare attenzione, questa volta, anche ai minori. Oggi infatti il video del servizio è stato pubblicato sul sito ufficiale del programma ma occorre verificare i proprio dati per vederlo (non dovrebbe essere accessibile ai minori anche se sappiamo che non è difficile entrare in un sito on line senza verificare la nostra reale età, basti pensare a Facebook). Detto questo, Viviani, ha deciso di fare il giro del mondo per raccogliere testimonianze e storie sulla blue whale. E lo ha fatto intervistando genitori di ragazzini morti a causa di questo gioco, dagli Stati Uniti all’America Latina passando per l’Asia. Ogni luogo affronta in modo diverso questo fenomeno, soprattutto facendo prevenzione. Ma in molti casi non basta. Matteo Viviani, come potrete vedere nel servizio e nel video alla fine del nostro post, ha cercato di capire come il mondo affronta la Blue Whale e anche come tutto questo viene percepito in Italia. 

Blue Whale: caso sospetto a Siracusa La Polizia «salva» un minorenne. I familiari avevano notato dei comportamenti strani da parte del minorenne e si sono rivolti al commissariato di Polizia di Pachino. Quando sono intervenuti gli agenti, coordinati dalla procura di Siracusa, il ragazzo aveva effettuato le prime due prove, scrive Alessio Ribaudo il 6 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Avevano notato comportamenti così strani e improvvisamente aggressivi del proprio figlio. I genitori si erano confrontati con i nonni e la sensazione combaciava. Quindi, la conferma è arrivata dal ritrovamento in casa di uno scritto in cui il minorenne manifestava una sua profonda sofferenza esistenziale e dai risvegli inusuali in piena notte del ragazzo. Una tale irrequietezza che i familiari non hanno avuto dubbi e si sono rivolti agli agenti del Commissariato di Pachino, nel Siracusano, che sono subito intervenuti. Le indagini hanno messo in luce come il minore, avrebbe iniziato il percorso del blue whale. Un assurdo rituale — ispirato alle balene (whale in inglese) e al loro spiaggiarsi e morire senza alcun apparente motivo — che prevederebbe una serie di prove autolesionistiche che potrebbero culminare nel suicidio. In particolare i poliziotti hanno accertato che il ragazzo, forse a causa di una crisi di identità e di una delusione amorosa, aveva già attuato le prime due prove del gioco: incidersi con una lametta il disegno di una balena su un braccio e svegliarsi in piena notte per seguire, su un canale YouTube, video con contenuti psichedelici e horror. Una sequenza interrotta dagli inquirenti e dalla procura che, adesso, ha disposto che il ragazzo sia supportato da una psicologa.

Blue whale, ecco tutte le 50 regole del "gioco" dell'orrore. Il "gioco" dell'orrore ha già ucciso 157 adolescenti in Russia. La Blue whale, che letteralmente significa balena blu, dura 50 giorni e ha regole ben precise, scrive Anna Rossi, Lunedì 15/05/2017, su "Il Giornale". Dopo il servizio de Le Iene sulla Blue whale andato in onda ieri sera, Google e i siti d'informazione sono stati presi d'assalto per saperne di più su questo "gioco" dell'orrore. Oltre ad avere maggiori dettagli su questo macabro rituale, il pubblico ha iniziato a cercare quali sono le 50 regole del "gioco". Il blog Higgypop, dopo aver trovato sul social Reddit le regole della Blue whale, è entrato in contatto con un curatore (il tutore che dà le regole agli adolescenti che decidono di giocare alla Blue whale, ndr). Ecco le regole del "gioco" mortale:

1- Incidetevi sulla mano con il rasoio "f57" e inviate una foto al curatore;

2 - Alzatevi alle 4.20 del mattino e guardate video psichedelici e dell'orrore che il curatore vi invia direttamente;

3 - Tagliatevi il braccio con un rasoio lungo le vene, ma non tagli troppo profondi. Solo tre tagli, poi inviate la foto al curatore;

4 - Disegnate una balena su un pezzo di carta e inviate una foto al curatore;

5 - Se siete pronti a "diventare una balena" incidetevi "yes" su una gamba. Se non lo siete tagliatevi molte volte. Dovete punirvi;

6 - Sfida misteriosa;

7 - Incidetevi sulla mano con il rasoio "f57" e inviate una foto al curatore;

8 - Scrivete "#i_am_whale" nel vostro status di VKontakte (VKontakte è il Facebook russo, ndr);

9 - Dovete superare la vostra paura;

10 - Dovete svegliarvi alle 4.20 del mattino e andare sul tetto di un palazzo altissimo;

11 - Incidetevi con il rasoio una balena sulla mano e inviate la foto al curatore;

12 - Guardate video psichedelici e dell'orrore tutto il giorno;

13 - Ascoltate la musica che vi inviano i curatori;

14 - Tagliatevi il labbro;

15 - Passate un ago sulla vostra mano più volte;

16 - Procuratevi del dolore, fatevi del male;

17 - Andate sul tetto del palazzo più alto e state sul cornicione per un po' di tempo;

18 - Andate su un ponte e state sul bordo;

19 - Salite su una gru o almeno cercate di farlo;

20 - Il curatore controlla se siete affidabili;

21 - Abbiate una conversazione "con una balena" (con un altro giocatore come voi o con un curatore) su Skype;

22 - Andate su un tetto e sedetevi sul bordo con le gambe a penzoloni;

23 - Un'altra sfida misteriosa;

24 - Compito segreto;

25 - Abbiate un incontro con una "balena";

26 - Il curatore vi dirà la data della vostra morte e voi dovrete accettarla;

27 - Alzatevi alle 4.20 del mattino e andate a visitare i binari di una stazione ferroviaria;

28 - non parlate con nessuno per tutto il giorno;

29 - Fate un vocale dove dite che siete una balena;

dalla 30 alla 49 - Ogni giorno svegliatevi alle 4. 20 del mattino, guardate i video horror, ascoltate la musica che il curatore vi mandi, fatevi un taglio sul corpo al giorno, parlate a "una balena";

50 - Saltate da un edificio alto. Prendetevi la vostra vita.

QUELLI…PRO SATANA.

Sette sataniche: in aumento tra gli adolescenti quelle "fai da te". Il satanismo, organizzato e no, è diffuso soprattutto al Nord: i riti, i luoghi, le musiche e le droghe di un fenomeno in crescita, scrive Nadia Francalacci il 17 febbraio 2017 su Panorama. Scritte che evocano il demonio, resti di altari all’interno di case abbandonate, circondati da candele nere e croci capovolte. In Italia il satanismo è un fenomeno in aumento al pari delle psico-sette, che ogni anno contano migliaia di nuovi appartenenti. Secondo il dottor Luigi Corvaglia, esperto di satanismo e membro del Comitato scientifico della Federazione Europea dei Centri di ricerca e informazione sul settarismo (Fecris), l’adorazione di Satana non conosce età anche se, attraverso l'utilizzo dei social network come Facebook, sono sempre più gli adolescenti che si avvicinano per la prima volta al culto di Satana. In Italia, secondo lo studioso, sono circa 10 le sette sataniche organizzate e censite, ciascuna con una media di circa un centinaio di adepti. Ma l’aspetto più inquietante è l’aumento di gruppi disorganizzati, in pratica "fai da te", di cui è impossibile un censimento corretto e che spesso sono responsabili di fatti di sangue, mutilazioni di animali e atti di vandalismo. L'area geografica di maggior diffusione del satanismo giovanile è soprattutto quella del Nord, in particolare il Piemonte, con le principali sette organizzate che si trovano invece a Torino, Bologna e Napoli.

Dottor Corvaglia, ma cos'è esattamente il satanismo?

"Per satanismo si intende tanto il culto del diavolo descritto dalle scritture quanto un atteggiamento di ribellione contro i valori morali incarnati dal cristianesimo, per il quale Satana è solo il simbolo delle forze del progresso, metafora dell'autodeterminazione dell'uomo. La prima accezione descrive il satanismo 'spiritualista' e 'tradizionale', rappresentato da Il tempio di Set e Ordine dei Nove Angoli, la seconda quello 'razionalista', rappresentato dalla Chiesa di Satana. Queste due correnti, più quella 'luciferiana' (che è di fatto una variante del primo tipo) costituiscono il satanismo organizzato".

Si sa che l'iniziazione è il passaggio fondamentale per l'ingresso in una setta, ma come avviene?

"L'iniziazione ha una forte valenza psicologica e simbolica. Nel caso del satanismo, comporta uno scritto con cui l'adepto si affida a Satana e che verrà siglato col suo sangue per poi essere bruciato. Questa sorta di auto-iniziazione non è tuttavia necessariamente legata all'ingresso in un'organizzazione, che in genere prevede invece ulteriori riti collettivi, magari durante una Messa Nera. I novizi assumono spesso nuovi nomi a simbolo della rinascita spirituale. Al di là dell'aspetto scenografico, però, l'adesione a un gruppo satanico organizzato ha anche connotati molto più prosaici. Ad esempio, per associarsi alla Chiesa di Satana la procedura è il riempimento di un form di richiesta di adesione addirittura rinvenibile sul Web".

Quali sono le principali differenze tra satanismo organizzato e disorganizzato?

"Definiamo 'organizzato' il satanismo dotato di una sua struttura e coerenza dottrinale, i cui rituali sono definiti da una qualche tradizione, i cui capi e le cui sedi siano identificabili. Esiste poi un supposto satanismo costituito da gruppuscoli di giovani, spesso minorenni, che è definito 'satanismo acido' per via della sua frequente associazione con il mondo delle droghe. Questo satanismo giovanile è legato a una subcultura gotica e necrofila, spesso affascinata dal paganesimo nordico, che è tipica di certa musica Heavy Metal. Questi sedicenti satanisti sono privi di una continuità organizzativa, mancano di una cornice filosofica e rituale di riferimento e quelle che mettono in scena sono spesso cerimonie da horror anni Settanta, fra il grandguignol e il pecoreccio".

Quale tra i due risulta essere più pericoloso e perché?

"Non vedo grandi fonti di pericolo nel fenomeno 'organizzato', che conta poche centinaia di adepti in Italia e che per di più si limitano a pratiche rituali nei loro luoghi di culto. Paradossalmente, se proprio si vuol vedere qualche rischio che vada oltre le ripercussioni psichiche su alcuni soggetti predisposti, è più preoccupante il satanismo 'fai da te' dei ragazzi. Vandalismo, incendi, profanazione di tombe, mutilazione di animali e così via sono azioni frequenti in chi coniughi personalità antisociale, desiderio di onnipotenza e ribellione adolescenziale. Inoltre, non è corretto fare un'associazione diretta tra satanismo 'organizzato' e atti di violenza estremi: il caso della suora uccisa a Chiavenna nel 2000 da tre ragazzine così come quello degli omicidi avvenuti nel Varesotto per mano delle 'Bestie di Satana' (un gruppo di sbandati metallari) sono stati il cattivo frutto di una patologia sociale e individuale 'nobilitata' dal culto di Satana, ma non da esso innescata. Quasi tutti i crimini gravi attribuibili al satanismo possono invece essere ricollegati ai gruppi giovanili, meno controllabili per conformazione e struttura cellulare, e meno aderenti a prevedibili stili filosofici condivisi appunto dal satanismo organizzato".

Qual è la fascia d'età nella quale è più facile "cadere" in queste sette?

"Il satanista difficilmente 'cade' nel satanismo, che invece viene generalmente ricercato. Secondo Anton LaVey 'satanisti si nasce, non si diventa'. Ad ogni modo, se la risposta sull'età di accesso è facile per il satanismo giovanile, essendo chiaramente l'adolescenza, è più difficile rispondere riguardo al satanismo 'adulto', perché le differenti forme di satanismo rispondono a bisogni che si inquadrano in differenti stadi della vita. Ad ogni modo, la prima età adulta è quella più tipica del neo-adepto".

In età adolescenziale ci sono atteggiamenti che possono essere captati da genitori o amici come sintomatici dell’appartenenza a sette sataniche?

"Non esiste un unico profilo dell'adolescente satanista e ciò che più gli si avvicina, non si discosta troppo da quello classico dell'adolescente in crisi fisiologica. Esasperando il concetto, arriverei a dire che quello del satanismo giovanile è una delle tante possibili via di fuga della crisi adolescenziale. Al bisogno di appartenenza, di riconoscersi in simboli di gruppo, alla solitudine adolescenziale e al bisogno di trasgressione comuni a quell'età può affiancarsi un desiderio di onnipotenza e di rivalsa dalla frustrazione. Tratti definibili come schizoidi e 'antisociali' possono giocare un ruolo estremamente importante. Un figlio che aumenta il suo isolamento fisico e psichico dalla società normativa e manifesti comportamenti antisociali (vandalismo, furti, violenza eccetera) e abusi di alcol e droga, merita senz'altro attenzione anche rispetto alla possibile adesione a una seta; ma la meriterebbe comunque, indipendentemente dalla eventuale soluzione satanica. Certo, anche la propensione per l'occulto, il gotico e la necrofilia sono segni che vanno tenuti d'occhio, ma bisogna stare molto attenti a non dare a ciò il senso che spesso gli osservatori religiosi gli danno, ossia di essere strumenti del demonio e segno che il maligno sta già operando". 

Nei casi sospetti, come si deve comportare un genitore?

"Come già detto, è necessario essere attenti all'evoluzione della crisi del figlio adolescente. Chi entra in un gruppo satanista, ha già dato segni. Pertanto un genitore dovrebbe fare quello che è valido per prevenire qualunque altra manifestazione del marasma giovanile: instaurare un tipo di relazione che aumenti la fiducia in sé del figlio in un contesto emotivo sano e sereno. Insomma, assolvere al compito più difficile del mondo, satanismo o meno...".

Si può "uscire" dalle sette sataniche o sono una strada senza ritorno?

"Nel caso di un giovane satanista 'acido', possiamo immaginare che le possibilità vadano dalla fisiologica risoluzione del turbamento giovanile all'evoluzione nel delirio psicotico. I segni ci diranno se e come intervenire. Nel caso del satanista spiritualista o razionalista, devo invece rispondere in termini laici: quelli dei satanisti sono gruppi come altri, dai quali in teoria si entra e si esce a piacimento. Sono però sempre gruppi 'settari', in cui può vigere una qualche forma di persuasione indebita e dipendenza psicologica che porta alla difficoltà di sganciarsi. Anche questo, tuttavia, non è esclusivo dei gruppi satanisti, ma è tipico di qualunque culto fra quelli considerati 'ad alta richiesta'. Qualora si sappia che l'adesione al culto sia stata frutto di manipolazione e/o comporti abusi, violenze e vessazioni - eventualità non rara in congreghe dedite a riti sessuali - amici e familiari dovrebbero chiedere l'aiuto di associazioni come il CeSAP o la Favis che forniscono supporto psicologico e legale". 

UN BUSINESS CHIAMATO GESU'.

Un business chiamato Gesù. Quella dei pentecostali è la religione che cresce di più al mondo dopo l’Islam. In Italia ha già 600 mila adepti. A cui promette la guarigione da ogni male e la ricchezza materiale. In cambio di un decimo del loro stipendio, scrive Francesca Sironi il 21 ottobre 2016 su "L'Espresso". Il braccio di un ragazzo di vent’anni, di Milano, che frequenta Sabaoth". Succederà, stasera, succederà, signore, c’è grande attesa, stasera, il miracolo per te, signore, lode a te, spirito di Dio, Gesù, signore". La sala è una cantilena sovrastata a stento dalla musica. C’è chi cammina, chi aspetta, chi piange. Uomini in polo e bermuda militari, piangono. Donne con le mèches, piangono. Famiglie rom, piangono. Bianchi, neri, indiani. Alzano le mani, pregano e ripetono: il miracolo accadrà. Come ogni volta. Ci saranno almeno 600 persone sedute e in prima fila, solenne, pure il senatore Domenico Scilipoti. Dopo ore di lodi il pastore chiama i malati sul palco, impone le mani, loro cadono a terra. Il primo dice: «Sono appena guarito dal cancro», una donna da un’artrite. Applausi fragorosi. Altre preghiere, quindi la benedizione delle buste: chi vi metterà 120 euro ne riceverà da Gesù 10 volte tanti. Si alzano per donare in più di cento. È lunedì 19 settembre, il giorno di San Gennaro. Ma qui al Teatro Palapartenope di Napoli il miracolo non è per il sangue del santo, bensì per lo spirito servito dal pastore americano Benny Hinn, invitato in Campania da una chiesa locale. Chiesa cristiana pentecostale. I pentecostali sono oggi nel mondo 644 milioni. Si tratta della religione in maggiore, tumultuosa, crescita dopo l’Islam, con masse ormai consolidate in Brasile, America Latina, Africa e Asia. Il “Pew Reseach Center” stima che in una generazione supereranno il miliardo. Sono il cristianesimo del futuro, dicono gli esperti. Anche in Italia, sottotraccia, raramente raccontati dai media, crescono. E adesso contano, secondo gli studi, oltre 600 mila fedeli, di cui 300 mila italiani, gli altri immigrati. Divisi al loro interno da posizioni spesso inconciliabili, i cristiani pentecostali e carismatici sono accomunati da alcuni elementi. Primo: rifiutano la struttura cattolica; il rapporto con il trascendente è personale; le comunità gemmano di continuo nuove chiese, nuovi pastori. Secondo: la Bibbia «non erra mai», è l’unico testo, il solo fondamento, e va considerata per intero, dal Levitico agli Atti. Terzo: i doni dello Spirito Santo funzionano ancora. Per cui lo Spirito può scendere, far parlare le persone “in lingue”, curarle e liberarle dal demonio (che esiste, è concreto, gli esorcismi frequenti). Dalle convention miliardarie alle messe in periferia di alcuni pastori-eroi, il pentecostalesimo si presenta così come una fede che sa tenere strette le persone, che forma leader, fa cantare, divertire e commuoversi, una fede che promette di guarire, liberare dai debiti e dal malocchio, oltre che di benedire, secondo alcuni, anche la prosperità economica. È la religione del momento, insomma, un’oasi dalla crisi di prospettive. «Una risposta al bisogno di senso e di identità che unisce benestanti e emarginati perché offre soluzioni olistiche», spiega Paolo Naso, professore a La Sapienza: «Una fede che soddisfa bisogni, dà certezze, afferma valori perentori». È individualista e collettiva al tempo stesso: uno vale uno, ma in molti è meglio. «È nata all’inizio del Novecento negli Stati Uniti per il desiderio di molti cristiani di mettere le mani, personalmente, dentro il sacro», aggiunge Enzo Pace, sociologo dell’Università di Padova. Alla base del successo pentecostale, poi, c’è l’intrinseca solidità economica delle chiese. Tutti i fedeli versano infatti una decima, ovvero il 10 per cento dello stipendio. «È scritto nella Bibbia», ripetono. Bastano così 200 fedeli che guadagnano 1.500 euro al mese per avere una rendita da 30 mila euro da destinare ad altari, missioni, orologi al pastore o nuove sedi. L’espansione continua. Dio non solo non è morto, ma trascina nuove greggi. Milano. Priscilla ha trent’anni, gli occhi verdi, siciliana, fa la commessa in centro. «Da “fuori sede” facevo la vita delle mie coetanee: la sera andavo alle Colonne, bevevo, fumavo, finivo a letto con gente di cui non mi importava molto». Poi, l’incontro con Gesù. Ora è fidanzata con un rapper che ha tatuato sul braccio un verso del Vangelo. Entrambi trascorrono il sabato sera al “ministero Sabaoth”, un maxi-auditorium da 900 posti, attrezzature da grande cinema, aperto dalla pastore Roselen Faccio. «Ho iniziato a predicare da piccola, in Brasile. Ero considerata un bambino prodigio», racconta lei il giorno dopo dal camerino, dopo aver cantato lodi e spiegato testi per tre ore accompagnata da una rock band: «Ho fondato in Italia il movimento 25 anni fa. Oggi abbiamo 57 chiese». «Lei è la Martin Lutero del 21esimo secolo», dice Diana, una fedele, entusiasta. «Noi non dobbiamo dare la nostra opinione. Noi abbiamo bisogno di una generazione convinta», urla dal palco pastore Punto, un grafico di 33 anni che predica ai giovani e ha creato con la moglie “Purex”, una corrente che insiste per la verginità fino al matrimonio. «Cosa leggo, oltre alla Bibbia? Libri di leadership», dice. Sabaoth è la chiesa pentecostale che ha trascinato Ornella Vanoni, «abbiamo calciatori, imprenditori, manager, ma anche senza tetto, e ho convertito un capo ’ndrangheta, che ora sta con noi», dice la predicatrice: «Altri vip? Sono passati di qui Albano e Mara Venier». Roselen Faccio si è impegnata anche in politica: in passato ha sostenuto la candidatura di Letizia Moratti sindaco, invitando al voto dal pulpito. «È una donna di preghiera. Oggi seguo Magdi Cristiano Allam», aggiunge. Il giovane pastore Punto ha idee diverse: «Mi ritrovo in molte battaglie dei 5 Stelle, ma fonderei un partito nuovo». Con i giovani organizza missioni di evangelizzazione ogni estate: si paga 800 euro per andare un mese in tour a portare la parola di Cristo.«Il nostro obiettivo è cambiare la storia religiosa d’Italia», dice. Fare proseliti è uno dei cardini dei movimenti pentecostali. Portare il verbo, intercettare adepti, è ritenuto un mandato fondamentale. Remo Blasio ha un’agenzia immobiliare a Porta Romana. «Ero una persona aggressiva, ora sono un agnello», racconta. Dopo la conversione ha fondato “Rem - rete evangelica in missione”: tre pullman comprati per offrire messaggi dalla Bibbia, con la scusa di un caffè. A novembre faranno partire da Civitavecchia anche la crociera evangelica (190 euro per partecipare): «L’ultima volta abbiamo raccolto 200 iscritti. Saremo un bel gruppo sulla nave, predicheremo ai festaioli». Napoli. Martedì, ore 19. La chiesa di cui è pastore Davide Di Iorioporta la messa fuori, in piazza. Per due ore i passanti ascoltano il coro, le donne con la gonna al ginocchio, gli uomini in cravatta, mentre il predicatore prega con le mani sul volto dei fedeli. Di Iorio è la guida dell’Assemblea di Dio di via Fra Gregorio Carafa, un tempio maestoso, ristrutturato da poco. Le “Assemblee di Dio” (Adi) sono una delle realtà pentecostali più antiche del paese. Hanno 1.180 sedi, un accordo con lo Stato per l’otto per mille, una storia che risale ai primi emigrati italiani che dagli Stati Uniti portavano al rientro il rito dello Spirito. Per l’intervista, Di Iorio si presenta con Alessandro Iovino, pentecostale da generazioni, segretario particolare del senatore anti-unioni civili Lucio Malan, una tesi di laurea introdotta da Giulio Andreotti, vari titoli pubblicati fra cui un libro-intervista a Licio Gelli in cui gli chiede: «Quale pensa sia stato il merito più grande della P2?», e lui risponde: «Grazie a noi i comunisti non sono arrivati al potere». Le Adi sono una realtà consolidata, e conservatrice. Le donne a messa indossano il velo. «Hanno libertà di parola e di testimonianza», spiega Di Iorio, ma il pastore può essere solo uomo, qui. Silvio Romano è un bel ragazzo. Si è convertito con l’Adi pochi anni fa, e da allora, insiste, «la mia vita è cambiata. Ho trovato lavoro. Sono stato lontano dai giri sbagliati». Racconta del padre, arrestato per traffico di stupefacenti, ora pentecostale anche lui, in carcere. Tutti ci tengono a testimoniare il miracolo, sempre. Un miracolo individuale, personale: il modo proprio con cui Gesù li ha salvati. «Non avevo soldi, pregavo. Chiamano dall’Inps: un Tfr non ritirato da 3mila euro»; «Sono ancora pieno di debiti, ma non ho più ansia: so che grazie a Cristo riuscirò». Fino alle guarigioni, le cui memorie sono onnipresenti: «Mi avevano diagnosticato il cancro. Ho pregato. Quando sono tornata non c’era più niente», «La notte ho sentito la mano di Cristo. Il giorno dopo il tumore era scomparso. I medici non ci credevano». È grazie a una guarigione di questo tipo e al proselitismo fra colleghi di Jacqueline, cassiera a un supermercato di Monza, che Angela è qui: quartiere Isola, Milano, “Prima chiesa unita pentecostale internazionale” della città. Il pastore è siciliano, i fedeli italiani e peruviani. Dal pulpito, chiede a chi vuole di esprimere un bisogno per la preghiera. Una donna sudamericana allora racconta del figlio, che ha rubato una macchina la sera prima, un’altra parla di malattia. C’è chi ricorda i carcerati, chi un’amica depressa. Castel Volturno, Caserta: sulla via Domitiana si susseguono decine di sedi pentecostali. Nigeriani, ghanesi. La domenica si riuniscono in chiesa. Nel pomeriggio festeggiano il compleanno di un bambino. Milano, periferia Nord: in una sola palazzina di tre piani, ci sono cinque chiese pentecostali, una per porta. La domenica mattina alzano lodi. Una pastora ecuadoregna porta l’anziana signora di cui è badante. Rimane seduta in prima fila. «Per gli immigrati, la chiesa diventa un pezzo di patria fuori dalla patria», spiega il sociologo Paolo Naso. Un’àncora di senso e identità, anche qui, contro la mancata integrazione. Ma anche il rischio, al contrario, di continuare a stare separati tra fratelli. Pastore Vladimir è un uomo serio. È scappato dal Salvador, 15 anni fa, per le minacce ricevute da una gang. In Italia combatte le piaghe che affliggono i suoi connazionali: alcolismo, degrado, criminalità. Ha salvato diversi giovani dalle bande dei latinos. E aperto la chiesa, la “Parola viva”, in una ex discoteca dove era stato accoltellato un peruviano, in una via dello spaccio di Milano. «Nel mio paese ero un funzionario di sicurezza d’alto livello, qui lavoro in un’impresa di pulizie, come molti di noi», racconta: «Lavoro, sì. Sono contrario ai pastori per professione. A quelli che lucrano sulle decime. Che si approfittano dei fedeli. Noi usiamo i fondi per le iniziative comuni». È l’unico che dà dettagli sui conti. Il mercoledì sera sono in una sessantina. Dopo la cerimonia, mangiano tutti insieme. «Spesso facciamo la veglia, fino al mattino». Anche la domenica uniti. «Dovete dedicare il vostro tempo al signore», invita, poi aggiunge: «Cantando: noi siamo un popolo allegro». Non lontano, alla “Comunità cristiana dello Spirito Santo”, il clima è diverso. In mezz’ora il pastore, brasiliano, chiede le offerte due volte. In cambio, i presenti prendono una rosa da portare a casa come voto. «Non parliamo ai giornali», frena alla fine della predica. Il suo aiutante si avvicina, «Louis, vieni qui». «La prima volta che mi hanno chiesto soldi, mi sono allontanato. Certo, non mi obbligavano, ma era una induzione quasi forzata. Come con lo svenire: anch’io mi ero fatto suggestionare, e cadevo». Gianluigi ha 29 anni, è laureato in architettura, vive in provincia di Salerno. Con la moglie gestisce un B&B: «Sono io il capo della famiglia. Quando l’uomo non ha più un suo ruolo, comincia a diventare donna», sentenzia. Anche lui è «rinato pentecostale», anche lui «è stato cambiato». Si è allontanato però dalla prima congregazione: «Il “parlare in lingue”? lì lo facevano a comando», racconta. Ora studia la Bibbia, frequenta un’altra chiesa, «e ogni volta a tavola ringraziamo per il cibo tenendoci per mano». Razionalità, fede, morale, confusione. Carmine Napolitano è presidente della “Facoltà Pentecostale”, in Campania, oltre che pastore di una piccola comunità. Ha uno sguardo triste. «Bisogna evitare di sfruttare la debolezza psicologica di chi è malato», dice, parlando delle guarigioni imposte con le mani: «Non dobbiamo vendere illusioni». A spiegarlo, agli altri. Sull’interpretazione rigida della Bibbia, poi, ricorda: «Dare troppa enfasi a “quello che è scritto” a volte è facile, diventa una delega della responsabilità». Certo, funziona: «Il pentecostalesimo è l’ala marciante della cristianità», riconosce. È sera, a Scampia. La chiesa dipinta di fresco. Come altrove, nessuna immagine: è iconoclastia. Non ci sono madonne, o affreschi, non ci sono aureole o santi. Il pastore ha i capelli bianchi. L’aiutante una cicatrice sul volto. Una ragazza coi capelli rossi, le sopracciglia disegnate, inizia a piangere durante la funzione. Piangono quasi tutti. Cantano, e piangono. Alla fine si avvicina una donna: «Sai, picchiavo i miei genitori», dice: «A una mia amica hanno ammazzato il figlio, ma ha perdonato l’assassino. Perché anche lui si è convertito».

I pentecostali? "Sono i talebani della Bibbia". Per il teologo Alberto Maggi, la lettura dei testi sacri di alcuni gruppi di evangelici carismatici e non solo è «fondamentalista». Ma a questo nuovo cristianesimo va riconosciuta la capacità di rendere la messa un momento di gioia e non un rito stantio, scrive Francesca Sironi il 21 ottobre 2016 su "L'Espresso". Teologo, biblista, Alberto Maggi è una delle voci più contemporanee del cattolicesimo italiano. Il suo “Vangelo della Domenica” viene trasmesso su YouTube e a Montefano, vicino a Macerata, dirige il Centro Studi Biblici “G. Vannucci”. «Cerco di proporre una liturgia diversa per dare vita alla parola di Dio, non tenerla imbalsamata in quel rito funebre in cui sembrano ridotte alcune messe», afferma.

Cosa pensa dei pentecostali?

«La lettura della Bibbia promossa dai alcuni gruppi pentecostali è una lettura fondamentalista».

Fondamentalista?

«Sì. Non tengono conto dei diversi generi letterari in cui sono espresse le Scritture. Non pongono gerarchie fra una norma del Levitico e un versetto del Vangelo. Di ogni cosa affermano: “È scritto, quindi è così”».

E questo cosa significa?

«Significa accettare come parola di Dio anche certe pagine tremende: punizioni, guerre, omicidi. E prendere per fatti storici episodi che invece non lo sono».

Ad esempio?

«Il miracolo del profeta Eliseo narrato nel Secondo Libro dei Re, dove Eliseo maledice nel nome del Signore alcuni bambini che lo avevano preso in giro per la calvizie, e “due orse sbranarono quarantadue di quei ragazzini”». 

Anche alcuni pastori pentecostali affermano che quelle pagine buie vanno interpretate alla luce del “Vangelo dell’amore” di Gesù.

«È Gesù con il suo messaggio d’amore universale il criterio per interpretare tutta la Scrittura, sia per l’antico sia per il nuovo testamento».

Lei si è mai confrontato con delle chiese pentecostali sull’analisi testi?

«Spesso mi hanno chiamato a parlare, e molti usano i miei commenti sul Vangelo».

Cosa pensa del loro successo?

«Penso che abbiano una liturgia più viva di quella cattolica, che abbiano restituito alla preghiera il suo carattere gioioso, non di piagnisteo, e questo è molto positivo. Anche la loro vita di comunità è più intensa. Però c’è anche altro».

Prego.

«L’atmosfera di fanatismo di alcuni gruppi pentecostali, la forza di attrazione che esercitano sulle persone deboli. Riescono spesso a manipolare le folle, parlando alla pancia della gente: garantendo attraverso la preghiera il loro benessere».

C’è poi il tema delle guarigioni. 

«Altro problema: promettere la liberazione dalle malattie con la preghiera piacerebbe a tutti. Chiuderebbero gli ospedali. Ma purtroppo non è così».

PEDOFILIA ECCLESIASTICA.

Sesso, incesti, lussuria e prostitute. Quando i papi erano Re del peccato. Da Benedetto IX a Giovanni XII: quando i Papi si sono distinti per i peccati, i vizi, i rapporti col demonio e il sesso, scrive Rachele Nenzi, Martedì 17/01/2017, su "Il Giornale". Non sempre i Papi si comportarono come Santi in Vaticano. Negli ultimi mesi a far discutere è stata la serie Tv di Paolo Sorrentino, "The Young Pope" in cui l'attore Jude Law viene più volte immortalato nudo. Ma anche nel passato la Santa Sede ha conosciuto personaggi che oggi non definiremmo certo degni di entrare in Paradiso. O almeno così narrano alcuni libri e resoconti più o meno storiografici. A raccogliere un elenco delle avventure papali più particolari è stato Steven Blum per Vice.com. Papa Benedetto IX, per esempio, era minorenne quando è stato incoronato con la tiara e visse a sufficienza per essere definito da San Pier Damiani come "un diavolo venuto dall'Inferno travestito da prete". Non male. Uno che, secondo altre biografie, aveva "una vita così peccaminosa, così esecrabile, che rabbrividiamo al pensiero". Si vocifera pure sia lui il primo pontefice gay della storia e che alle orge col Papa partecipassero pure animali. Non solo. Secondo il libro Absolute Monarchs, infatti, l'elezione di Benedetto IX sarebbe stata truccata dal padre. Un regno durato 12 anni, fino a quando i romani, forse stufi delle sue avventure, lo cacciarono dalla città rimpiazzandolo con Giovanni Graziano, Silvestro III. Dopo due mesi tornò però di nuovo Benedetto IX che, secondo le leggende del tempo, avrebbe pure fatto avvelenare i suoi successori. Finì i suoi giorni da eremita a Grattaferrata pentendosi per i suoi molti peccati. Sulla stessa lunghezza d'onda ci sarebbe stato pure Papa Giovanni XII, che secondo il libro "La grande apostasia" - scrive Vice - "trasformò il Laterano in una "scuola di prostituzione"". Pare apprezzasse le vergini e le vedove e che alle pellegrine venisse consigliato di non visitare San Pietro per evitare di "essere violate dal suo successore". Forse anche lui, come Benedetto IX, fu colpito dal fatto di essere stato eletto alla giovane età di 18 anni. Di certo c'è che durante una inchiesta pubblica fatta dopo la morte di Giovanni XII venne rivelato che fece più volte sesso con sua nipote. Incesto papale. Non solo. Tra le sue imprese vantava quelle di aver accecato il suo padre spirituale (poi morto), di aver castrato e ucciso il suo segretario e di essere un fan dei demoni. Furono gli stessi cardinali a chiedere al re Otto di Sassonia di allontanarlo "dalla Santa Romana Chiesa". Quando però Giovanni, aiutato dai romani, riuscì a riconquistare il trono, pare abbia punito severamente i congiurati, strappando lingue e nasi. La morte lo prese tra le sue mani mentre faceva sesso con una prostituta. L'ultimo, ma non per stranezze realizzate, è Stefano VI. Il quale per annullare tutti gli editti del suo predecessore, Formoso, lo riesumò e mise in piedi un processo per accusarlo di spergiuro e tradimento. L'inquisito, ovviamente, non si difese e così i suoi editti risultarono nulli. Ad avere la peggio, alla fine, fu però lo stesso Stefano VI, morto in prigione dopo che sul Vaticano si abbattè un terremoto considerato da molti una punizione divina per i suoi peccati. Stefano venne deposto e chiuso in carcere.

"Ecco i 200 preti pedofili d'Italia", lo scandalo che imbarazza la Curia. Dagli abusi in parrocchia alle coperture dei vescovi e dei porporati: nel nuovo libro di Emiliano Fittipaldi la mappa della piaga che ancora affligge la Chiesa, scrive Emiliano Fittipaldi il 16 gennaio 2017 su "La Repubblica". Mettendo sotto la lente d'ingrandimento cronache di provincia degli ultimi mesi, carte giudiziarie fresche di cancelleria e documenti parrocchiali si scoprono tanti tasselli. Guardando il mosaico da una certa distanza, il disegno diventa più chiaro. Partiamo prendendo un treno verso la punta del tacco d'Italia. In Calabria, vicino a Reggio, c'è don Antonello Tropea, già padre spirituale del seminario di Oppido Mamertina, che nel marzo 2015 viene trovato dalla polizia in un'auto con un diciassettenne conosciuto grazie alla app Grindr usata per incontri gay. Venti euro il costo della prestazione. Indagato per prostituzione minorile, il don continua a fare il prete, confidandosi di tanto in tanto con il suo vescovo, monsignor Francesco Milito. "Evita di parlare con i carabinieri di queste cose" gli suggerisce il superiore senza sapere di essere ascoltato. Sempre in Calabria, nella diocesi di Locri, c'è il vescovo Francesco Oliva, nominato da Francesco nel 2014: è lui che nel 2015 manda in una parrocchia a Civitavecchia un suo sacerdote, don Francesco Rutigliano, che la Congregazione per la dottrina della fede ha in passato sospeso per quattro anni, nel 2011, per "abuso di minore con l'aggravante di abuso di dignità o ufficio, commesso nel periodo tra il 2006 e il 2008" obbligandolo alla "celebrazione di 12 Sante Messe con cadenza mensile a favore della vittima e della sua famiglia ". A Ostuni, c'è Franco Legrottaglie, condannato nel 2000 per atti di libidine violenta su due ragazzine, mai sfiorato da processi canonici, e in seguito designato nel 2010 dal vescovo emerito Rocco Talucci cappellano dell'ospedale e prete in una chiesa del paese: nel maggio 2016 è stato pizzicato con 2.500 immagini pedopornografiche conservate sul computer in cartelle con i nomi dei santi. Ha lanciato una moda: anche don Andrea Contin, indagato a Padova per induzione alla prostituzione, etichettava i filmini hard a cui partecipavano le sue amanti con i nomi dei papi. A Catania c'è un sacerdote che ad agosto 2016, già sospeso dalla curia dalle attività pastorali, avrebbe minacciato con un coltello alla schiena un quindicenne costringendolo a rapporti sessuali. Poi c'è don Siro Invernizzi, che nel 2013 è stato mandato dal vescovo di Como a fare il viceparroco a Cugliate, vicino Varese, nonostante i due anni con la condizionale patteggiati per aver approcciato in strada un ragazzino rom di tredici anni che si prostituiva. E ancora: a Grosseto c'è un sacerdote rinviato a giudizio nel luglio 2016 per molestie a tre ragazzine, a cui avrebbe rivolto "attenzioni troppo intime". A Pietrasanta, in Versilia, dalla scorsa estate c'è un'altra indagine (ancora in corso) su un prete straniero appartenente all'ordine dei Carmelitani: la curia generalizia di Roma è stata citata in sede civile come responsabile dei danni per non aver esercitato il controllo sul religioso [...]. Negli ultimi due lustri, contando solo i condannati e gli indagati, sono oltre 200 i sacerdoti italiani denunciati per atti di lussuria con adolescenti. Molti di più di quelli che hanno scoperto i cronisti del Boston Globe che diedero il via all'inchiesta Spotlight del 2002... Eppure in Italia lo scandalo non è mai esploso, a differenza che negli Stati Uniti, in Australia, in Irlanda o in Belgio in tutta la sua gravità. "Ciò che mi preoccupa qui è una certa cultura del silenzio", disse monsignor Charles Scicluna quando faceva il promotore di giustizia della Congregazione della dottrina della Fede. Una tendenza all'acquiescenza che sembra coinvolgere le vittime, le famiglie dei credenti, le gerarchie e anche parte dei media: secondo alcuni osservatori non è un caso che siano proprio i paesi tradizionalmente più cattolici - come l'Italia, la Spagna e quelli del Sud America - quelli in cui il fenomeno della lussuria sui più piccoli sembra avere, nei pochissimi dati ufficiali disponibili, dimensione contenuta. In realtà, il "sistema" che copre e protegge gli orchi e le casse della Chiesa funziona anche qui. Ancora oggi. E meglio che altrove. Un esempio su tutti: se l'arcidiocesi di Los Angeles qualche anno fa ha pagato, in un accordo extragiudiziario, 660 milioni di dollari a 508 vittime di molestie da parte di preti (il periodo delle violenze ipotizzate va dal 1950 al 1980) come indennizzo per gli atti di libidine, a Verona i 67 ex allievi dell'Istituto Provolo, sordomuti che hanno denunciato alla curia i mostruosi soprusi di cui sarebbero stati oggetto da parte di venticinque religiosi dal 1950 al 1984, non hanno ricevuto nemmeno un euro. Per la legge italiana i reati sono prescritti e una causa legale è tecnicamente impossibile. La commissione d'inchiesta "indipendente" non ha creduto ai loro racconti. Sarà un caso, ma qualche giorno fa uno dei sacerdoti indicati dai testimoni come presunti aguzzini, don Nicola Corradi, è stato arrestato in Argentina nella sede sudamericana dell'istituto dove si era trasferito qualche tempo fa, con l'accusa di "abuso aggravato " e "corruzione di minori ". Ancora oggi il Vaticano non prevede che sacerdoti e vescovi abbiano l'obbligo di denunciare i colleghi maniaci alla giustizia ordinaria. E i casi gestiti dalla Congregazione preposta restano segretissimi. A Cremona don Mauro Inzoli, potente monsignore di Comunione e Liberazione, nel 2016 è stato condannato in primo grado a 4 anni e nove mesi di carcere. Spretato da papa Ratzinger, nonostante il processo penale contro di lui ha fatto appello alla Congregazione e l'ha vinto: Francesco l'ha riammesso nel clero. Non è tutto: il magistrato ha chiesto al Vaticano le carte del processo canonico, e dopo mesi d'attesa s'è visto rifiutata la domanda: "Gli atti processuali e istruttori sono "sub segreto pontificio"", è stata l'unica, laconica spiegazione. Stessa dinamica accaduta a Palermo pochi mesi prima. Gli insabbiamenti o le difese d'ufficio coinvolgono pezzi da novanta della gerarchia come il vescovo di Brescia, quello di Como, quello di Castellaneta, il vescovo emerito di Palermo, cardinale Paolo Romeo, quello di Savona, cardinali di peso come Antonelli, Bertone e Domenico Calcagno. Quest'ultimo ha fatto carriera con Benedetto XVI, e anche Francesco l'ha confermato sulla poltrona di presidente dell'Apsa, l'ente che gestisce l'immenso patrimonio della Santa Sede. Nonostante una macchia grave, quella di aver spostato nel 2003 da una parrocchia all'altra un prete su cui erano già arrivate pesanti segnalazioni. Uno spostamento a cui non seguirono provvedimenti: peccato che due anni dopo, il sacerdote, don Nello Giraudo, poté molestare in un campo scout un altro ragazzino.

Così il Vaticano protegge i preti pedofili. Alti prelati del Vaticano, italiani e stranieri. Molto vicini a papa Francesco. Che per anni hanno insabbiato le violenze sessuali sui minori da parte degli orchi con la tonaca. Lo rivela "Lussuria", il nuovo libro del giornalista processato dalla Santa Sede per Vatileaks. Che fa luce su responsabilità, silenzi e omertà, scrive Emiliano Fittipaldi il 16 gennaio 2017 su "L'Espresso". Tre cardinali che hanno protetto sacerdoti pedofili sono stati promossi nel C9, il gruppo di nove alti prelati che assistono papa Francesco nel governo della Chiesa Universale. Altre quattro porpore italiane e straniere che non hanno denunciato predatori seriali e che hanno cercato di proteggere le casse della Chiesa dalle richieste di risarcimenti alle vittime, sono ascesi sulla cima della scala gerarchica della Santa Sede. In Italia, Spagna, Francia, Belgio e Sud America altri vescovi insabbiatori sono stati premiati con incarichi importanti, o graziati di recente con sentenze canoniche discutibili. Insomma, se il Vaticano ha dichiarato da tempo guerra aperta ai crimini sessuali dei suoi preti nei confronti di bambini e ragazzine («una battaglia cruciale, che va vinta ad ogni costo», ha detto e ripetuto papa Francesco fin dall’inizio della sua elezione al soglio petrino) a quasi quattro anni dall’inizio del pontificato di Bergoglio la lotta mostra più di una crepa. Non solo per alcune nomine che appaiono sorprendenti, ma anche perché il fenomeno degli orchi in tonaca continua ad avere numeri impressionanti: tra il 2013 e il 2015 fonti interne alla Congregazione per la dottrina per la fede spiegano che sono arrivate dalle diocesi sparse per il mondo ben 1200 denunce di casi “verosimili” di predatori e molestatori di minorenni. Un numero praticamente raddoppiato rispetto a quelli rilevati nel periodo che va dal 2005 al 2009: il trend dimostra come il cancro non è stato affatto estirpato. Se delle denunce, delle vittime e dei carnefici non si sa praticamente nulla (ancora oggi i processi canonici sono sotto segreto pontificio, e chi tradisce la regola del silenzio rischia pene severissime, scomunica compresa), e se la commissione antipedofilia voluta da Francesco si è riunita in sede plenaria solo tre volte dalla sua nascita nel 2014 senza essere riuscita nemmeno a inserire nelle norme vaticane l’obbligo di denuncia alla magistratura ordinaria, in “Lussuria”, il libro che uscirà per Feltrinelli giovedì 19 gennaio, si raccontano storie inedite di insabbiamenti di altissimi prelati in tutto il mondo, di scandali sessuali coperti dal Vaticano per timore di ripercussioni mediatiche, del sistema di protezione messo in piedi in Italia e di lobby ecclesiastiche unite dagli interessi economici e dalle medesime inclinazioni sessuali. La storia di George Pell è emblematica. Il cardinale australiano è stato chiamato da Francesco a Roma con l’intento di “moralizzare” la corrotta curia romana. Pell, oggi, è il capo della potente Segreteria dell’Economia. Di fatto, il numero tre del Vaticano. Leggendo le carte della Royal Commission che sta indagando sui preti pedofili, i documenti riservati della vecchia diocesi della porpora, i bilanci della chiesa australiana e alcune lettere firmate dal prelato e dai suoi avvocati, non sembra che Bergoglio abbia puntato sull’uomo giusto. Non solo perché da qualche mese è accusato da cinque persone di aver commesso lui stesso abusi sessuali tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta (il cardinale smentisce ogni responsabilità, con sdegno), ma perché troppe volte, di fronte a crimini sessuali di sacerdoti, negò alle vittime giustizia e compassione pur riconoscendo la veridicità delle loro denunce. Come scrive la commissione d’inchiesta, «mancò di agire equamente da un punto di vista cristiano». È certo che Pell cercò di minimizzare le violenze e di proteggere in ogni modo la cassaforte della sua diocesi dalle richieste di risarcimento dei sopravvissuti. I documenti dei giudici dell’organismo voluto dal governo australiano sono un pugno nello stomaco. Partiamo dal caso della famiglia Foster. Davanti alla tragedia dei genitori Anthony e Christine, le cui figlie Emma e Katie sono state violentate da bambine dal preside della loro scuola cattolica don Kevin O’ Donnell, Pell ha prima tentato di evitare ogni incontro faccia a faccia («se incontro la famiglia Foster poi dovrò incontrare anche le altre. Il mio tempo è molto limitato. Perché sono diversi dagli altri casi?», si chiede nel 1996 in una lettera spedita ai suoi avvocati), poi ha provato a chiudere la faccenda con un risarcimento di appena 50 mila dollari australiani, pari a 30 mila euro. La signora Foster ha raccontato ai giudici che durante il primo incontro a casa loro, Pell - di fronte alle rimostranze del marito che accusava l’allora arcivescovo di voler proteggere il portafoglio della Chiesa - rispose secco: «Se non ti va bene quello che siamo facendo, portaci in tribunale». «In un secondo incontro con altri genitori di piccoli abusati da padre O’ Donnell» si legge negli atti della commissione «la signora Foster ricorda che davanti a una domanda su perché alcuni noti pedofili servivano ancora nelle parrocchie di Melbourne, l’arcivescovo Pell rispose: «È tutto un pettegolezzo, finché non ci sono prove in tribunale; e io non do ascolto ai gossip». Il 26 agosto del 1998 Pell spedisce finalmente una lettera di scuse ai Foster, accompagnandola con l’offerta formale di risarcimento a favore della piccola Emma, formulata dall’avvocato di fiducia dell’arcidiocesi Richard Leder. Trentamila euro. «L’indennizzo è offerto dall’arcivescovo a Emma nella speranza che possano aiutare il suo recupero e fornire un’alternativa realistica a un contenzioso legale. Nel quale, altrimenti, ci difenderemo strenuamente». Ai genitori delle piccole, leggendo la missiva, sale la rabbia: sia per la cifra umiliante, sia per la minaccia - in caso di mancata accettazione della proposta - di «difendersi strenuamente». «Ammetto che sia stata un’espressione poco felice, ma credo che certe espressioni vadano lette in maniera non offensiva», ha detto Pell in un interrogatorio del 2014. I Foster, alla fine, si rassegnano. I soldi sono davvero pochi, ma li prendono. Serviranno a poco: nel 2008 Emma si è infatti suicidata con una dose letale di eroina, che le farà dimenticare per sempre le mani e gli occhi del suo vecchio preside. Trentamila euro, o meglio 50 mila dollari australiani, sono in realtà l’offerta massima consentita dal sistema di risarcimento creato dal braccio destro di Francesco, il cosiddetto “Melbourne Response”. Un tetto innalzato a 75 mila euro nel 2008. Analizzando i dati contabili dell’arcidiocesi della città si scopre che tra il 1996 e il marzo del 2014 le circa trecento vittime che hanno chiesto i danni per le violenze dei sacerdoti hanno ottenuto in media 32 mila dollari a testa, circa 20 mila euro. Il prezzo di una Fiat 500 accessoriata. Una miseria, anche perché l’arcidiocesi guidata fino al 2001 da Pell (nel marzo di quell’anno fu promosso vescovo di Sydney) è ricchissima. Controlla infatti due società, la Roman Catholic Trust Corporation e la Catholic Development Fund, che hanno in pancia contanti, proprietà immobiliari come appartamenti e palazzi, e fanno investimenti azionari e obbligazionari a sette zeri. Sommando il valore delle entrate, solo nel 2013 sono stati incassati, tra profitti finanziari e beneficenza dei fedeli, oltre 108 milioni di dollari australiani, mentre gli asset attualmente controllati dall’arcidiocesi valgono quasi 1,3 miliardi. Esatto: 1,3 miliardi di dollari. In pratica, per chiudere i fastidiosi contenziosi sulla vicenda pedofilia dei preti della città, Pell e i suoi successori hanno rinunciato a una cifra complessiva di appena 10 milioni di dollari australiani, pari allo 0,7 per cento del patrimonio della diocesi. Qualche anno dopo aver accettato i soldi per le cure di Emma, i Foster decidono però di capire se la giustizia terrena sia meno avara di quella divina, e aprono un procedimento civile di fronte allo Stato di Victoria. Che capovolge la filosofia del Melbourne Response, riconoscendo come le cifre dei risarcimenti debbano essere molto più alte: alla fine della causa la Chiesa è costretta ad accettare una mediazione pagando i Foster ben 750 mila dollari. Quello di Emma non è l’unico caso che imbarazza Pell. Tra le decine di migliaia di carte della Royal Commission ci sono anche i documenti e i verbali che provano come la sua diocesi, mentre lesinava aiuto alle vittime, non faceva mancare sostegno ai prelati pedofili usciti di prigione. Il successore di Pell, l’arcivescovo Denis James Hart famoso in Australia per aver scacciato una donna che voleva denunciare un’aggressione sessuale di un prete con l’epiteto «Vai all’inferno, cagna!», in un interrogatorio ha ammesso che la diocesi di Melbourne ha speso centinaia di migliaia di dollari per aiutare ex preti pedofili pagando loro sia lo stipendio sia l’affitto, la pensione, l’assicurazione sanitaria e persino quella dell’automobile. Un documento interno del 2 ottobre 1996 segnala come Pell abbia presieduto una riunione dove lui e alti prelati discussero come poter aiutare tre preti (tra cui don Michael Glennon) dopo il loro rilascio dalla prigione. «Punto 15. Ipotesi su come aiutare i preti che stanno uscendo di galera» si legge nel verbale dell’incontro «Possibilità di un posto (appartamento indipendente) nel palazzo di Box Hill. Padre McMahon ha parlato di cure mediche necessarie, ed è stato invitato dall’arcivescovo Pell a far presente cosa serve alla loro assistenza». Se padre Wilfred Baker, che ha molestato 21 bambini, ha ricevuto dalla curia tra pensione e spese per l’affitto 21 mila dollari l’anno fino al 2014, (il massimo della pensione possibile, ha notato il giornale “The Age”), Desmond Gannon e David Daniel, anche loro condannati per crimini sessuali, hanno subito una semplice decurtazione della busta paga. I giudici hanno poi scoperto che una serie di giroconti finanziari per aiutare il pedofilo Gannon fu orchestrata in modo tale che «difficilmente la notizia dell’aiuto sarebbe diventata di dominio pubblico». Per la cronaca, i denari per aiutare i preti australiani caduti in disgrazia sono stati prelevati dal Fondo pensione del clero, che è per gran parte finanziato dai contributi dei parrocchiani. Tra loro, paradossalmente, c’erano anche alcune famiglie degli abusati. Ma il cardinale promosso da Francesco ha altri scheletri nell’armadio: ha protetto l’orco seriale Gerald Risdale (suo ex coinquilino, negli atti della Royal Commission spunta una foto che ritrae Pell a braccetto con il maniaco: nonostante le pesanti accuse aveva deciso di accompagnarlo alla prima udienza del processo; è un fatto che né Pell né altri vescovi cattolici abbiano mai accompagnato in tribunale le vittime dei loro colleghi predatori), né ha voluto ascoltare un ragazzo che lo avvertì come un sacerdote, Edward Dowlan, avesse abusato di alcuni ragazzini di un collegio cattolico di Ballarat, la città natale del cardinale («Mi disse: “Non essere ridicolo”, uscendo dalla stanza senza degnarmi di altre attenzioni» mette a verbale il testimone Timothy Green, «la sua reazione mi ha dato l’impressione che lui conoscesse fratello Dowlan, ma che non potesse o volesse fare nulla a riguardo»). Non è tutto. Il ministro economico del Vaticano avrebbe anche tentato di corrompere una vittima («mi chiese cosa volessi per tenermi tranquillo», racconta il nipote abusato di padre Risdale. «Chiamai sconvolto mia sorella dicendogli: Il bastardo ha cercato di corrompermi»), e ha mentito per iscritto almeno su un altro caso di pedofilia, in modo da evitare di pagare risarcimenti alla vittima. Nonostante accuse circostanziate, decine di testimonianze durissime e documenti che dimostrano insabbiamenti e leggerezze, Pell è stato sempre protetto dal Vaticano, e fa tuttora parte del C9, il gruppo dei nove cardinali nominati dal pontefice in persona per aiutarlo nel governo della Chiesa Universale. Il suo non è l’unico caso di promozioni discutibili. Strettissimo collaboratore del papa è infatti Francisco Errazuriz, anche lui chiamato a far parte dell’inner circle del pontefice. Ex arcivescovo di Santiago del Cile e oggi pezzo da novanta della Santa Sede, è stato protagonista, insieme al suo successore Ricardo Ezzati e al nuovo vescovo di Osorno Juan Barros Madrid, dello scandalo di padre Fernando Karadima. Un prete, per stessa ammissione del cardinale, che ha formato tre generazioni di prelati cileni. Una sorta di “santo vivente” per quasi tutta l’alta borghesia e il clero di Santiago che però, secondo le accuse di quattro uomini, dei giudici ordinari e perfino della Congregazione per la dottrina della Fede, nascondeva dietro l’aureola un’altra faccia. Quella di un criminale seriale che ha distrutto vite di giovani adolescenti. L’inchiesta del giudice istruttore Jessica Gonzales è sintetizzata in un documento di 84 pagine dove vengono ricostruite le fasi dell’inchiesta interna della curia cilena, e mostrano il tentativo - da parte di Errazuriz - di evitare lo scandalo allungando a dismisura i tempi dell’istruttoria: nonostante il cardinale fosse stato avvertito delle violenze di Karadima già nel 2003, Errazuriz manderà il fascicolo a Roma solo nel 2010, quando ormai le vittime - che non erano riuscite ad ottenere giustizia dal loro vescovo - avevano deciso di raccontare le violenze pubblicamente. Errazuriz spiega a verbale di non aver mai creduto alle accuse, ma schernisce chi lo indica, in patria, come un insabbiatore. Di certo nel 2006, dopo aver “sospeso” l’inchiesta interna che altri pezzi della sua curia volevano portare avanti, chiese a don Karadima di farsi da parte. Ma solo per raggiunti limiti di età. «Caro Fernando» si legge in una missiva privata pubblicata da un giornale cileno «la celebrazione per i suoi cinquant’anni di sacerdozio sarà un grande anniversario, nessuno potrà dire che non sia stato celebrato come si conviene...». Il giudice penale alla fine dell’istruttoria ha confermato le violenze, ma ha dovuto prescrivere i reati. La Congregazione ha condannato Karadima «a una vita di preghiera». Nel 2013 si è aperta una causa civile contro l’arcidiocesi di Santiago su cui pendono richieste di risarcimento da parte di quattro vittime pari a 450 milioni di pesos. Insieme a Pell e ad Errazuriz, nel C9 c’è anche Oscar Rodriguez Maradiaga, coordinatore del gruppo e uno dei cardinali più ascoltati dal papa. In pochi sanno che tra il 2003 e il 2004 la porpora ospitò in una delle diocesi sotto il suo arcivescovado di Tegucigalpa, in Honduras, un prete incriminato dalla polizia del Costarica per abusi sessuali. Un latitante, don Enrique Vasquez, braccato dall’Interpol fin dal 1998: dopo una fuga tra Nicaragua, New York, Connecticut e una casa di cura per preti in Messico, don Enrique si rifugerà per qualche mese anche a Guinope, dove diventa parroco di una parrocchia sotto il controllo dell’arcivescovado di Maradiaga. Il reporter Brooks Egerton, racconta che riuscì al tempo ad intervistare il segretario di Maradiaga per il Dallas Morning News, che non negò affatto la presenza del pedofilo, ma minimizzò solo il ruolo pastorale. L’attuale cardinale, invece, non volle mai rispondere alle sue domande. «Secondo un agente dell’Interpol che intervistai, i funzionari della diocesi si resero conto di avere un problema con don Enrique, e così si liberarono di lui», azzarda Egerton. Maradiaga però è uno che non si nasconde, e non hai mai avuto sul tema alcun pelo sulla lingua: un anno prima dell’arrivo di Vasquez nella sua diocesi, in una conferenza pubblica a Roma spiegò che lui, anche di fronte a un sacerdote accusato di pedofilia, sarebbe stato «pronto ad andare in prigione piuttosto che danneggiare uno dei miei preti... Per me sarebbe una tragedia ridurre il ruolo di pastore a quello di poliziotto. Non dobbiamo dimenticare che siamo pastori, e non agenti dell’Fbi o della Cia». Tra le porpore che hanno fatto strada “Lussuria” racconta anche le contraddizioni di Timothy Dolan, arcivescovo di New York che come capo della Conferenza episcopale statunitense che ha dato l’ok ha pagare dal 2007 al 2015 parcelle da ben 2,1 milioni di dollari a favore di importanti società di lobbying con l’obiettivo - ovviamente non dichiarato - di bloccare, o quanto meno modificare, l’approvazione di una proposta di legge dello Stato che prevede l’abolizione della prescrizione per le vittime della pedofilia. Ma omertà e i silenzi hanno caratterizzato anche il comportamento del cardinale francese Philippe Barbarin e dell’italiano Domenico Calcagno, e fedelissimi di Francesco come monsignor Godfried Danneels, arcivescovo emerito di Bruxelles messo da Bergoglio in cima alla lista dei padri sinodali: possibile che il papa non conoscesse le imbarazzanti intercettazioni (mai pubblicate in Italia) con cui il porporato tentava di proteggere un vescovo lussurioso? È un fatto che documenti originali e testimonianze dimostrano come nell’anno di grazia 2017 il sistema attraverso cui la gerarchia ecclesiastica protegge le mele marce, nonostante qualche blando tentativo di scardinarlo, funziona ancora a pieno regime.

L'ISLAMIZZAZIONE DEL MONDO.

La storia di Gerusalemme e le menzogne dell'Unesco, scrive Fiamma Nirenstein, Mercoledì 3/05/2017, su "Il Giornale". È una qualche consolazione che stavolta l'Italia non solo abbia votato contro, ma l'abbia anche annunciato per prima: almeno uno può camminare senza vergognarsi per le strade di Roma o di Firenze. Il disgusto è tuttavia sovrastante, viviamo in un mondo che nega la verità storica per motivi di odio e di vantaggio: l'Unesco, che è una grande, importante, danarosa organizzazione dell'ONU, quella che dovrebbe misurare, determinare, definire la bellezza del mondo come lo crea l'uomo, cioè la cultura, l'arte, la natura, ha di nuovo scelto di imboccare la strada della persecuzione degli ebrei, semplicemente perché la sua maggioranza è islamica, araba, oppure ispirata da interessi legati a quel mondo. Noi ebrei siamo dei tipi strani: quando ci sposiamo invece di dire solo «ti amerò e ti sarò fedele per sempre» giuriamo fedeltà a Gerusalemme: «Se ti dimentico Jerushalaim così mi dimentichi la mia mano destra», diciamo da tremila anni nel momento più importante della vita, e lo giuriamo di fronte al rabbino. I Falasha etiopici quando attraversavano a piedi il deserto verso il Sudan in fuga verso Israele, cantavano «Yerusalem» pieni di speranza: baciarono il pavimento dell'aereo (non ne avevano mai visto uno) credendo che fosse già Gerusalemme. David Ben Gurion subito la nominò capitale d'Israele come il re David tremila anni fa. Mai gli ebrei se ne sono andati anche quando sono stati cacciati via: nell'Ottocento erano di nuovo la maggioranza. Gerusalemme oggi sembra un giardino, la città vibra di modernità e di tradizione insieme: accanto a tutti gli uffici del governo, vicino alla Knesset dove siedono con i partiti ebraici anche quelli arabi, da prima della fondazione dello Stato vivono nel pluralismo l'università, gli ospedali dove gli arabi lavorano e vengono curati, le industrie, le scuole, una rete stradale e di trasporti stupefacente, la Città Vecchia col Monte del Tempio e la Spianata delle Moschee, il Santo Sepolcro dove solo la gestione Israeliana, nella storia, ha consentito la piena libertà di movimento. La città che sanguina per gli attacchi terroristi ogni giorno reagisce con determinazione, col sorriso e vincendo sempre. Ieri le celebrazioni del 69esimo anniversario della nascita dello Stato, ha festeggiato solo Gerusalemme. Ed ecco la menzogna dell'Unesco, lo schiaffo in faccia: una risoluzione che stabilisce che la sovranità degli ebrei è cancellata, che tutto appartiene ai palestinesi, che la realtà, la storia, l'amore, non esistono. 20 Paesi hanno votato a favore, 22 si sono astenute (la beffa complice del delitto) e 10 si sono opposte. L'Italia, gli Usa, l'Inghilterra, l'Olanda, la Lituania, la Grecia, il Paraguay, l'Ucraina, il Togo la Germania. Questa lista, per i vostri prossimi programmi di viaggio. Si va a trovare solo chi se lo merita. Si, anche in Togo, perché no.

Perché Renzi è contro l'Unesco su Gerusalemme. A tre giorni dal voto che nega i legami fra la storia dell'ebraismo e i luoghi sacri, il presidente del Consiglio ha definito "allucinante" la vicenda e ha ordinato un'inversione di rotta della nostra diplomazia, scrive il 21 ottobre 2016 Panorama.  Secondo Mattero Renzi la risoluzione dell'Unesco sui luoghi santi di Gerusalemme è una vicenda allucinante.  "Occupied Palestine", il titolo del documento, secondo Israele nega i profondi legami storici fra i luoghi santi di Gerusalemme e l'ebraismo. La risoluzione era stata approvata dall'executive board dell'Unesco martedì 18 ottobre, sollevando proteste e rabbia in Israele e fra gli ebrei di tutto il mondo. Difficile che il voto del consiglio Unesco possa avere un impatto concreto sull'uso dei luoghi sacri a Gerusalemme, anche se ha un fortissimo valore simbolico che si sta traducendo in numerose schermaglie diplomatiche. Del resto da parecchi anni Israele vede nelle misure dell'Unesco una sorta di esemplificazione di un pregiudizio anti-israeliano dell'Onu, dove Israele e i paesi che lo sostengono sono sempre in minoranza rispetto ai paesi arabi e a il loro alleati. Nel 2011 la Palestina è stata ammessa come membro dell'Unesco. L'Italia si è astenuta sulla risoluzione. E oggi, a tre giorni dal voto, Matteo Renzi è ritornato sulla questione, correggendo pesantemente il tiro e definendo "incomprensibile, inaccettabile e sbagliato" l'utilizzo nel testo della sola definizione araba per il sito che i musulmani chiamano "Spianata delle Moschee", mentre per gli israeliani è il "Monte del Tempio", comprendente, tra l'altro, il Muro del Pianto. In Israele hanno gradito la presa di posizione di Renzi: "Ringraziamo e ci felicitiamo con il governo italiano per questa importante dichiarazione", ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri, Emmanuel Nahshon. Sul quotidiano Haaretz fonti governative che hanno voluto mantenersi anonime hanno inoltre elogiato "la comprensione da parte di Renzi della verità storica, e del tentativo che è stato fatto di eliminare una parte della storia del giudaismo e della cristianità a Gerusalemme". Il premier italiano non si è peraltro fermato alle critiche nello specifico ma, alludendo al mancato voto contrario dell'Italia espresso invece da altri Stati occidentali e comunitari (Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Paesi Bassi, Lituania ed Estonia) ha adombrato anche un nuovo atteggiamento generale sulla questione mediorientale. Al momento di decidere "la Farnesina e il governo sono andati in automatico", ha spiegato nel corso della conferenza stampa tenuta a Bruxelles al termine del vertice Ue. Si tratta di "una posizione che abbiamo preso per tanti anni", però "questo non vuol dire che non sia arrivato il momento di cambiare", ha sottolineato. "Non può esistere un giudizio come quello che è stato dato". Renzi ha quindi reso noto di aver impartito direttive al personale diplomatico affinché "intervenga" e chiarisca meglio che cosa se ne pensa a Roma. Lui stesso intende discuterne di persona con il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. E "se su questo c'è bisogno di rompere l'unità europea, si rompe", ha tagliato corto. Soddisfatta di tali puntualizzazioni si è subito detta la Comunità Ebraica italiana, che aveva manifestato il proprio sconcerto per l'astensione italiana. Anche se l'agenzia Onu ormai ha adottato il documento, peraltro con un numero di pareri positivi inferiore a quello delle astensioni (24 a 26 rispettivamente), il fronte dei sostenitori mostra più di un cedimento: il Messico vorrebbe addirittura che si tenesse un'altra votazione mentre il Brasile, pur confermandosi favorevole, non ha nascosto delusione per il contenuto e lo stile del testo definitivo, e per l'avvenire ha escluso di appoggiarne altri simili. La risoluzione Unesco indica, tra l'altro, Israele come "un potere occupante", condanna "le crescenti aggressioni di Israele, in particolare degli estremisti di destra", disapprova "le restrizioni imposte da Israele all'accesso ai luoghi sacri", si rammarica "per il rifiuto di Israele di concedere i visti agli esperti dell'Unesco", si duole "per i danni causati dalle Forze armate israeliane", deplora il progetto israeliano di costruire due linee tranviarie nella città vecchia di Gerusalemme e un "visitor center" a sud della Spianata. La risoluzione riafferma altresì che la porta di Mughrabi è "parte integrante della moschea Al Aqsa e della Spianata delle Moschee", che le tombe dei patriarchi a Hebron e quella di Rachele a Betlemme sono "parte integrante della Palestina". L'Unesco, infine, deplora "con forza il blocco israeliano della striscia di Gaza e l'intollerabile numero di vittime tra i bambini palestinesi".

L'Unesco ratifica la vergogna. "Il Muro del Pianto è arabo". Confermato a maggioranza l'antistorico voto di giovedì scorso. E l'Italia contribuisce astenendosi, scrive Fiamma Nirenstein, Mercoledì 19/10/2016, su "Il Giornale". È un bagno di realtà il voto di ieri all'Unesco, in cui si è stabilito che secondo la maggioranza del mondo gli asini volano, che Roma non è mai stata la sede del papato, ovvero che la luna è fatta di formaggio, cioè che Gerusalemme è un sito solo musulmano e in particolare lo è il monte del Tempio col Muro del Pianto, chiamato nella risoluzione votata solo «complesso della Moschea»: la risoluzione, purtroppo reale, che è stata votata ci dice infatti che le decisioni e le opinioni espresse dall'Onu e dai suoi succedanei su Israele sono pura menzogna, veleno distillato sui principi stessi della conoscenza, negazionismo pari a quello della negazione della Shoah, distruzionismo pari a quello dell'Isis su Palmira. Da questo momento dunque, per chi ha un cervello, forse ci sarà più attenzione a non bersi senza discutere le mille risoluzioni contro Israele dell'Assemblea dell'Onu, del Consiglio di Sicurezza, del Consiglio per i Diritti Umani. La maggioranza che vota è sempre la stessa; gli stessi sono i Paesi occidentali che non sanno dire di no a un'assurdità come quella che ieri è stata statuita. Ma che cosa può avere portato la Russia e la Cina a votare per l'arabizzazione di Gerusalemme se non la fame di potere e l'interesse? Che cosa ha condotto l'Italia, che ospita a Roma l'arco di Tito con i bassorilievi degli ebrei in catene con la Menorah, prova provata della loro appartenenza a Gerusalemme; che cosa ha spinto la Grecia, che mai vorrebbe veder discussa la sua eredità storica, ad astenersi? Ma tant'è: 24 nazioni spudorate, per la maggior parte islamiche, hanno votato a favore; 26 pusillanimi fra cui l'Italia si sono astenute; 6 coraggiose hanno votato contro, Stati Uniti, Gran Bretagna, Lituania, Olanda, Germania, Estonia. Si cerca qualche consolazione nell'idea che oggi il voto è meno unanime di quello che sarebbe stato in passato. Ma è poca roba. Le polemiche che lo hanno accompagnato vedono il gesto notevole dell'ambasciatore del Messico Andres Roemer che ha lasciato la sala e ha tentato di cambiare il voto negativo del suo Paese, ed è stato poi licenziato; il tentativo del presidente tedesco del direttivo Michael Worbs che ha espresso opposizione e ha tentato di posporre il voto e poi è stato costretto a autosospendersi; e infine il capo dell'Unesco Irina Bokova, che si era espressa contro e che ha ricevuto quindi minacce di morte e il rafforzamento della scorta. È un paradigma indispensabile: la violenza accompagna sempre il furioso odio antisraeliano e anticristiano. Le minacce di morte vengono insieme alla difesa di Israele e dei cristiani. Gesù Cristo è l'icona perfetta della storia ebraica a Gerusalemme: era ebreo, anche lui non c'è mai stato per l'Unesco? O ha salito lo scalone del Tempio di Erode e ha predicato ai mercanti? Flavio Giuseppe ha descritto minuto per minuto la presa di Gerusalemme da parte dei Romani, nei secoli fino a Beniamino di Tudela, Mark Twain, Winston Churchill, chi non ha testimoniato l'amore totale del suo popolo per quel luogo? Persino Giuseppe Verdi l'aveva ben capito, come si canta in «Va' pensiero». L'aggressione dell'Unesco non è nuova, esso è sempre stato uno dei corpi più estremisti e corrotti delle Nazioni Unite. Ma stavolta la sua funzione può essere utile. Questo è di prima categoria: si tratta della distruzione culturale di un pilastro della storia, quello della fondazione delle religioni monoteiste. L'attacco agli ebrei ha sempre avuto il segno della distruzione del Mondo Occidentale, della guerra, del terrorismo. Non c'è nulla di strano nel fatto che i Paesi occidentali si siano astenuti nella buona parte: si sono sempre girati dall'altra parte di fronte all'odio degli ebrei accompagnata dalla denigrazione di Israele.

Gerusalemme, l'Unesco fa il bis. "Ebrei e cristiani non c'entrano". Dopo il Muro del pianto, mercoledì si vota un'altra folle risoluzione. L'Italia non partecipa ma può farsi sentire, scrive Fiamma Nirenstein, Lunedì 24/10/2016, su "Il Giornale". Una volta portato a casa il bel risultato antisemita del Comitato Esecutivo dell'Unesco, adesso, a una sola settimana di distanza, mercoledì, avanti l'World Heritage Commitee dello stesso organismo per rafforzare la menzogna si va a votare di nuovo la risoluzione più «allucinante» (parola di Matteo Renzi) che ci sia: quella per cui ebrei e cristiani non hanno nulla a che fare con Gerusalemme, e col suo patrimonio culturale e archeologico. «Come se si affermasse che il sole crea il buio», ha detto Netanyahu. La luce che accende l'Unesco è di nuovo psichedelica: solo i musulmani, secondo il board e adesso secondo il comitato, potranno vantarne l'eredità culturale e quindi gestirne anche, ovviamente, l'aspetto istituzionale e statale. Perché per l'Unesco la Palestina è uno stato: l'ha votato, primo nel mondo, nell'ottobre del 2011 per poi, indovinate, passare l'anno successivo alla consegna al nuovo membro dell'Unesco del... Se cercavate di indovinare di quale sito ebraico si tratta dobbiamo disilludervi. Non di un'eredità ebraica si tratta, ma della Chiesa della Natività di Betlemme, quella della mangiatoia e del bue e l'asinello. La portavoce dell'Autorità palestinese Hanan Ashrawi dichiarò subito che si trattava di un'affermazione della sovranità palestinese. Ed è appunto questo il punto. Tutte queste mosse tendono a un'affermazione politica che non ha niente a che fare con la cultura, ma solo con la politica che prevede la criminalizzazione e la negazione di ogni diritto del popolo ebraico alla sua terra. Una strategia programmata che prevede una guerra diplomatica mortale, sin dai tempi di Arafat. Adesso, mercoledì, la nuova risoluzione non metterà alla prova l'Italia perché il comitato che vota è formato da 21 stati di cui l'Italia non fa parte. Ed è sicuro, se si guarda la lista, che non ci saranno neppure quelle consolazioni che aveva sottolineato l'ambasciatore israeliano all'Unesco, Carmel Shama-Hacohen per la precedente deliberazione: il Monte del Tempio viene chiamato nella nuova risoluzione col nome musulmano e basta «Al Aqsa Mosque e Al Haram al Sharif», e definito «un luogo santo musulmano di preghiera». Almeno la settimana scorsa nel testo c'era un passaggio (periferico) che parlava dell'«importanza della Città Vecchia di Gerusalemme per le tre religioni monoteiste». Adesso questo passaggio è sparito. Il Messico e il Brasile che si sono anch'esse pentite di aver votato «si», oltre all'Italia, astenuta, non sono membri del comitato. Netanyahu che dopo la decisione di Renzi gli ha telefonato per esprimergli apprezzamento, ha aggiunto che se i Palestinesi continuano a scegliere questo «pericoloso sentiero, cioè una jihad diplomatica contro il popolo ebraico, si dovranno accorgere che le sorprese dell'ultima settimana da parte del Messico e dell'Italia non sono che l'inizio». In effetti, tutto il palcoscenico approntato dall'Unesco è una finzione, che nasconde ormai una crescente impazienza fra gli antichi sostenitori di Abu Mazen perché l'ideologia palestinese che loda il terrorismo e non lascia posto alla trattativa. Sia l'Egitto che l'Arabia Saudita che i Paesi del Golfo, per non parlare della Cina e dell'India, partigiani della causa palestinese tout court, stanno rivedendo il rapporto con Israele in nome della comune guerra contro l'islamismo e il terrore e per lo sviluppo tecnologico e economico. L'Unesco vuole rimanere la casamatta della scelta di distruggere lo Stato Ebraico che somiglia molto, però, a una tecnica suicida. Commentando la posizione di Renzi, Netanyahu ha anche detto che «il cambiamento delle istituzioni dell'Onu prenderà qualche anno ma ecco i primi segni di un cambiamento molto benvenuto». Sarebbe bello se l'Italia, pronunciandosi sulla prossima seduta di mercoledì, invitasse i colleghi a una nuova presa di posizione.

Siamo assuefatti all'islamizzazione del nostro mondo. In Italia ci stiamo assuefacendo all'islamizzazione assumendo il comportamento di chi sceglie di suicidarsi inalando un gas letale a piccole dosi, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 21/08/2016, su "Il Giornale". Il fatto che il governo, la Chiesa, la sinistra, le femministe, più in generale i cultori del relativismo che è la fede egemone condivisa trasversalmente nell'Europa che fu cristiana, convergano sulla legittimazione del burkini, una gabbia di stoffa che imprigiona il corpo delle donne musulmane che fanno il bagno al mare o in piscina, significa che in Italia ci stiamo assuefacendo all'islamizzazione assumendo il comportamento di chi sceglie di suicidarsi inalando un gas letale a piccole dosi, assimilandolo al punto da poterlo tollerare il più a lungo possibile, fino all'ineluttabile morte che proprio perché voluta ci immortalerà con il sorriso sulle labbra. Abbiamo rapidamente legittimato il velo islamico semplice, perché tutto sommato anche le nostre nonne lo indossavano. Poi abbiamo legittimato il velo islamico integrale con una circolare del ministero dell'Interno del 2005, nonostante violi in modo flagrante l'articolo 5 della legge 152 del 1975. In parallelo abbiamo legittimato l'islam come religione, nonostante non sia considerato una religione «ugualmente libera davanti alla legge», non ottemperando all'articolo 8 della Costituzione che esige sia la stipula di un'intesa con lo Stato sia che il proprio statuto non contrasti con l'ordinamento giuridico italiano. Ciononostante abbiamo legittimato la proliferazione sul territorio italiano delle moschee, delle scuole coraniche, di macellerie e alimentari halal, di associazioni ed enti assistenziali islamici, di «comunità islamiche». Il nostro vero problema è che siamo a tal punto fragili dentro che solo quando siamo costretti alla dolorosa conta dei nostri morti colpiti dalla ferocia del terrorismo islamico, scopriamo l'onestà intellettuale di guardare in faccia alla realtà dell'islam e riscattiamo il coraggio umano di denunciarne l'intrinseca violenza, a cominciare dalla riduzione della donna a schiava sessuale («Le vostre spose per voi sono come un campo. Venite pure al vostro campo come volete». Corano - 2, 223). È il caso della Francia, il Paese più colpito dalla ferocia islamica, il cui capo di governo Manuel Valls ha correttamente detto che «il burkini è la traduzione di un progetto politico, di contro-società, fondato tra l'altro sull'asservimento della donna. Dietro il burkini c'è l'idea che per natura le donne sarebbero impudiche, impure, che dovrebbero dunque essere completamente coperte. Di fronte alle provocazioni la Repubblica deve difendersi». Ebbene nell'Italia disinvolta che è stata finora risparmiata dalle stragi che hanno insanguinato la Francia solo perché consentiamo ai terroristi islamici di entrare senza documenti, senza essere identificati e li ospitiamo gratuitamente, il ministro dell'Interno Alfano ha legittimato il burkini sia perché formalmente non violerebbe la legge sia soprattutto perché vietarlo sarebbe una provocazione che potrebbe «attirare reazioni violente». Possibile che mentre per la Francia la provocazione è indossare il burkini, per l'Italia sarebbe il vietarlo? D'accordo con Alfano è la Chiesa, che attraverso il vescovo Nunzio Galantino, segretario della Conferenza episcopale italiana, ha tagliato corto: «Trovo paradossale che ci allarmi una donna troppo vestita mentre sta facendo il bagno al mare». Ed è così che stiamo inalando man mano il gas letale dell'islam con cui ci stiamo suicidando. Non abbiamo capito che il velo semplice, il velo integrale, l'islam, le moschee, il burkini, l'auto-invasione di clandestini islamici, il terrorismo islamico autoctono ed endogeno, sono tappe della crescente islamizzazione. Con le loro divise, le loro fortezze, i loro giovanotti nel pieno della fertilità maschile, le loro donne che sbarcano incinte, con i loro «martiri» che aspirano a conquistare le 72 vergini massacrandoci in quanto «miscredenti», occupano spazi fisici, spirituali, giuridici, demografici, politici e finanziari. È solo questione di tempo prima che ci sottomettano del tutto all'islam. A meno che non ci svegliamo dal sonno della ragione, riscattiamo la certezza e l'orgoglio di chi siamo, ritroviamo il coraggio di combattere per vincere la guerra scatenata dall'islam.

Ci siamo arresi all'islamizzazione. Da sabato in edicola con il Giornale, a 8,60 euro più il costo del quotidiano, il volume Islam. Siamo in guerra, scrive Magdi Cristiano Allam, Venerdì 18/09/2015, su "Il Giornale". Nel mio nuovo libro Islam. Siamo in guerra (da domani in edicola con Il Giornale e in libreria), evidenzio come in parallelo al Jihad, la guerra santa islamica, scatenata dal terrorismo islamico dei tagliagole, che ci sottomettono con la paura di essere decapitati, e dei taglialingue, che ci conquistano imponendoci la legittimazione dell'islam, del Corano e delle moschee, l'arma vincente della strategia di islamizzazione dell'Europa è l'invasione demografica. Su circa 500 milioni di abitanti dei 29 Paesi membri dell'Unione Europea, solo il 16 per cento, pari a 80 milioni di abitanti, hanno meno di 30 anni. Viceversa su circa 500 milioni di abitanti della sponda orientale e meridionale del Mediterraneo, sommando le popolazioni dei 22 Stati arabofoni più quelle della Turchia e dell'Iran, ben il 70 per cento ha meno di 30 anni, pari a 350 milioni di abitanti. Quando si mettono su un piatto della bilancia 80 milioni di giovani europei, cristiani in crisi d'identità con una consistente minoranza musulmana, e sull'altro 350 milioni di giovani mediorientali, al 99 per cento musulmani, convinti che l'islam è l'unica «vera religione» che deve affermarsi ovunque nel mondo, il risultato indubbio è che gli europei sono destinati ad essere sopraffatti demograficamente e colonizzati ideologicamente dagli islamici. A un certo punto i musulmani non avranno più bisogno di farci la guerra o ricorrere al terrorismo. Potranno sottometterci all'islam limitandosi ad osservare le regole formali della nostra democrazia, che premia il soggetto politico più organizzato e influente, in grado di condizionare e di accaparrare il consenso della maggioranza, astenendosi dall'entrare nel merito dei contenuti delle ideologie e delle religioni, soprattutto dell'islam. Già nel 1974 il presidente algerino Boumedienne previde che l'Europa sarà conquistata con il «ventre delle nostre donne». Nel 2006 il leader libico Gheddafi disse che «50 milioni di musulmani in Europa la trasformeranno in un continente musulmano in pochi decenni». Ebbene sconvolge che, a fronte dell'evidenza della conquista demografica da parte degli islamici che costituiscono la stragrande maggioranza dei clandestini che ci invadono a partire dalla Libia e dalla Turchia, l'Onu, l'Unione Europea, l'Italia e la Chiesa concordano sul fatto che dobbiamo spalancare incondizionatamente le nostre frontiere. Il presidente della Commissione Europea Juncker il 9 settembre ha detto: «Gli europei devono prendersi carico di queste persone, abbracciarli e accoglierli». Papa Francesco il 14 settembre ha esaltato questa invasione: «Gli immigrati ci aiutano a tener viva la nonna Europa». Il capo dello Stato Mattarella il 16 settembre ha qualificato l'invasione come «un fenomeno epocale (…) che richiede una gestione comune dell'Unione». Emma Bonino l'8 settembre ha chiarito: «L'Europa vive un calo demografico importantissimo, per il 2050, cioè domani, avrà bisogno di 50 milioni di immigrati per sostenere il proprio sistema di welfare e pensionistico». Di fatto stiamo subendo la strategia di genocidio eugenetico profetizzata dal conte Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi (1894 - 1972), sulla cui lapide ha voluto essere tramandato come il «Pioniere degli Stati Uniti d'Europa»: «L'uomo del lontano futuro sarà un meticcio. Le razze e le caste di oggi saranno vittime del crescente superamento di spazio, tempo e pregiudizio. La razza del futuro, negroide-eurasiatica, simile in aspetto a quella dell'Egitto antico, rimpiazzerà la molteplicità dei popoli con una molteplicità di personalità». Ecco perché è fondamentale conoscere la verità di ciò che sta accadendo dentro e fuori di casa nostra. Soprattutto è vitale essere consapevoli che siamo in guerra, che o combattiamo per vincere o saremo sottomessi dall'islam.

Musulmani fanatici e moderati: il fine è lo stesso, l’islamizzazione del mondo, su Italians del Corriere della Sera del 29 novembre 2015. "Caro Severgnini, mi permetta di dissentire dalle riflessioni contenute nel suo “La tentazione di una guerra sbagliata”. L’America di Bush (destra) reagì ad un attacco terroristico esterno che fece 3mila morti; la Francia di Hollande (sinistra) sta reagendo in modo identico ad un attacco interno che ha fatto 130 morti e ha rivelato lo spaventoso livello organizzativo dei fanatici assassini di casa nostra, l’Europa. Bush fece l’errore di non pensare al “dopo Saddam Hussein”, un dittatore “gassatore” ben più crudele di Assad. Europa ed America insieme, ispirati dall’ingenuo pacifismo di Obama, hanno fatto l’errore di applaudire alle Primavere Arabe contro dittatori laici per aprire la strada a nuovi dittatori ispirati dal Corano. Hanno fatto l’errore (Francia per prima) di assassinare Gheddafi senza pensare al “dopo Gheddafi”. Insieme stanno facendo l’errore di imbarcare la nuova Turchia musulmana di Erdogan (più pericoloso di Assad) nella guerra contro l’Isis… Per farla breve abbiamo e stiamo sbagliando tutto. Viene allora da chiedersi se l’Islam, quello terroristico e quello “moderato”, possa essere affrontato in modo intelligente e razionale. Io credo di no, e mi allineo sulle posizioni di chi sostiene (come il “Corriere”, però a giorni alterni) che Oriana Fallaci aveva perfettamente ragione. Lei dice che, “esasperata”, Oriana commise l’errore di non dividere gli islamisti assassini dai musulmani pacifici. Nient’affatto: conosceva benissimo l’Islam, e aveva capito che assassini e pacifici avrebbero trovato un punto di contatto e di intesa indipendentemente dagli errori dell’Occidente commessi nell’affrontare i problemi dell’Islam, inclusa la guerra tra Sciiti e Sunniti con milioni di morti. Lei e altri pensate che dobbiamo evitare una saldatura tra assassini e moderati. Ma non volete vedere che la saldatura già esiste. Da sempre. Ed è scritta nel Corano. Qualunque sia il modo di interpretarlo. Perchè il fine è lo stesso: l’islamizzazione pacifica o violenta del mondo. Giuseppe Maselli.

Egitto. Nasser disse che i Fratelli Mussulmani volevano imporre il velo e ciò sembrò una cosa comica. Nell'Egitto laico del 1953 il presidente Gamal Abd el-Nasser si faceva beffa del movimento islamista dei Fratelli Musulmani e si ironizzava sulla possibilità che le donne potessero essere obbligate a portare il velo. Eppure...

L'islamizzazione del mondo si compie grazie alle donne. Giovedì 25 agosto 2016. Fonte: Islamicamentando. Nell’Egitto laico del 1953 il presidente Gamal Abd el-Nasser si prendeva gioco del movimento islamista dei Fratelli Musulmani e ironizzava sulla possibilità che le donne potessero essere obbligate a portare il velo. È il 1953 quando il presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser pronuncia questo discorso davanti ad una platea numerosa. Nasser, che governò l’Egitto dal 1956 al 1970, racconta il suo incontro con il consigliere generale dei Fratelli Musulmani, al quale aveva chiesto quali fossero le sue richieste. Nel video si vede che la richiesta di «imporre il velo a tutte le donne» da parte dei Fratelli Musulmani provoca grandi risate e battute da parte di tutti i presenti. Questo video ci deve far riflettere, perché ci fa capire che il più grosso errore che si possa fare con l’islam e le organizzazioni che si impegnano per diffonderlo è quello della sottovalutazione. Un tale divertimento di fronte alla proposta di obbligare le donne a portare il velo ci fa capire che in quegli anni, in Egitto (come in molte altre parti del mondo), l’Islam non veniva percepito come una vera minaccia, giacché le regole della sharia sembravano lontane dai costumi della società. Eppure, la storia ce lo dimostra, le cose sono andate come non ci si aspettava. La “guerra del velo” é da sempre uno dei principali punti programmatici dell'“Islam politico”. Come ebbero a dire i Fratelli Musulmani: “La nostra marcia per il governo è iniziata quando abbiamo fatto velare le nostre colleghe all’università”. Nei paesi dove oggi la maggior parte delle donne indossano lo chador, il niqab o addirittura il burqa, fino a vent’anni fa, per parecchio tempo, questo tipo di abbigliamento era una cosa rara, mentre invece l’abbigliamento occidentale era il più comune. Tutti i casi di stravolgimento della cultura dominante in favore dell’Islam ci rimandano alla strategia dell’ “islamizzazione silenziosa”. La prima fase di questo tipo di islamizzazione (necessaria là dove la jihad armata non è praticabile) passa attraverso la sottomissione della donna, con le buone (in maniera subdola) o con le cattive (attraverso la legge o con la violenza). Ovviamente, non c’è islamizzazione della donna se non c’è la sua sottomissione, e non c’è sottomissione se non c’è il velo. In uno Stato a maggioranza musulmana, obbligare le donne a coprirsi (come vuole qualsiasi musulmano praticante) è molto più semplice, perché nel tempo è possibile sfiancare la loro volontà, annullandone la personalità, e così convincerle che quella sia davvero la cosa giusta. Il motivo per cui l’islamizzazione della donna è una priorità è semplice: le donne sono le principali educatrici dei bambini, quindi se loro sono buone musulmane anche i bambini lo saranno. Se loro sono sottomesse all’uomo, anche i bambini saranno timorati di Allah. Se molti bambini cresceranno timorati di Allah una volta adulti si avrà una ummah (comunità musulmana) forte e numerosa, la quale potrà applicare la sharia. É per questo motivo che gli uomini musulmani sono terrorizzati dall’idea che le “loro” donne possano avere contatti con il “mondo esterno” senza un mahram (accompagnatore obbligatorio) sempre al loro fianco per tenerle sott’occhio: sanno benissimo che se le donne abbracciano i valori di libertà ed emancipazione occidentali la loro società si indebolisce.

TERRORISMO ISLAMICO. IL 2017 INIZIA COL TERRORE.

Istanbul, attentato al night club: morti e feriti. Un killer armato di fucile automatico vestito da Babbo Natale ha fatto una strage al Reina: 39 le vittime. Incertezza sul numero di stranieri, scrive il 2 gennaio 2017 Panorama. Il killer nel Reina di Istanbul non indossava il costume di Babbo Natale, come riferito in precedenza da alcune testimonianze. Avrebbe lasciato la pistola prima di fuggire. E nel Paese è caccia all'uomo dopo che la polizia ha diffuso la sua foto. L'attacco non è stato ancora rivendicato ma l'attentatore, secondo le testimonianze di alcuni dei sopravvissuti, avrebbe urlato "Allah Akbar" mentre apriva il fuoco dentro il locale. Si pensa alla matrice dell'ISIS. Sono almeno 39 i morti e oltre 60 i feriti nell'attentato. Gli stranieri sarebbero, secondo le ultime testimonianze, 29. Non risultano finora italiani coinvolti. Tra le vittime turche, c'è anche una guardia di sicurezza che era sopravvissuta il 10 dicembre scorso al duplice attentato dinamitardo al vicino stadio di calcio del Besiktas. Per il resto, sono ancora molti i punti da chiarire sulla dinamica dell'attacco. Non si sa con certezza se il terrorista abbia agito effettivamente da solo. Pare sia entrato vestito di nero e incappucciato con un fucile automatico in braccio con cui ha sparato ad un agente di guardia al locale, che all'interno era vestito di bianco con un cappello a pon-pon bianco, che si è cambiato dopo aver massacrato le persone all'interno del locale, "sparando ovunque, come un pazzo", ed è riuscito a fuggire nella notte, scatenando una gigantesca caccia all'uomo estesa a tutta la Turchia alla quale partecipano almeno 17.000 agenti. Le poche certezze sono quelle suggerite dalle immagini catturate dalle telecamere di sicurezza, ma alcuni testimoni sopravvissuti alla strage hanno raccontato di aver sentito sparare più di una persona, forse due o tre terroristi. L'unico uomo armato ripreso dalle telecamere è entrato in azione intorno all'1.30 locale (le 23.30 in Italia), mentre nel locale si trovavano circa 700 persone. Ha ucciso l'agente all'ingresso prima di entrare e iniziare a sparare sui clienti. Per sfuggire alla strage, alcuni dei clienti si sono lanciati nelle acque gelide del Bosforo e sono poi stati tratti in salvo, anche se non c'è certezza che tutti siano stati salvati. I testimoni sopravvissuti sono concordi su una cosa: i terroristi "sparavano a casaccio", sparavano su tutti, sulla folla. "Sparavano ovunque, come dei pazzi", ha raccontato alla Cnn turca una donna, ferita a una gamba da un proiettile. Un altro testimone afferma che le forze speciali sono intervenute portando via i sopravvissuti. "Ero di spalle e mio marito ha urlato: Buttati giù!. Eravamo vicino a una finestra e ho sentito due o tre persone che sparavano. Poi sono svenuta", ha raccontato una donna. L'ambasciata americana ad Ankara ha negato le notizie comparse su alcuni social media secondo cui l'intelligence avesse avvertito le autorità turche di imminenza di attentati a Istanbul. Ancora un strage a Istanbul. In un famoso locale notturno del distretto di Ortakoy, il Reina Club, un uomo vestito da Babbo Natale ed armato di fucile automatico è entrato e ha fatto fuoco uccidendo almeno 39 persone e ferendone 69 tra cui almeno 15 stranieri. Secondo una parlamentare del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (al governo), Selina Dogan, sarebbero invece 24 gli stranieri morti nell'attentato. Dogan lo ha affermato dopo aver visitato ospedali e obitori. Lo riferisce il Guardian. I morti accertati di nazionalità turca sono 11 mentre non si conosce ancora la nazionalità di quattro vittime, ha aggiunto Dogan. Delle 39 vittime, 25 sono uomini e 14 donne. Nel locale c'erano tra le 500 e le 600 persone. L'assalto è avvenuto alle 23:30 circa ora italiana, l'1:30 del 1 gennaio a Istanbul. L'uomo è ancora in fuga ed è ricercato in tutta la Turchia. Secondo la BBC la natura dell'attacco potrebbe essere di matrice terroristica ad opera di ISIS. Sul numero degli assalitori, vestiti con costumi da Babbo Natale, ancora non c'è certezza: solo uno, secondo fonti ufficiali; fino a tre, secondo testimoni e media locali. L'uomo avrebbe prima ucciso un poliziotto e una guardia giurata all'ingresso, per poi entrare nel locale e iniziare a sparare a caso sulla folla. Delle immagini che circolano sui media mostrano il terrorista - l'unico di cui si sappia con certezza - mentre si toglie l'abito bianco e il berretto con pon-pon tipo Babbo Natale prima di fuggire. Si tratta di fermi immagine da una telecamera di sicurezza. Molte delle centinaia di persone del night club Reina si sarebbero gettate nelle acque dello stretto del Bosforo per tentare di sfuggire all'attacco, secondo testimoni.

"A nome del Governo, del popolo italiano e mio personale le esprimo le più sentite condoglianze per il vile e brutale attacco terroristico che ha colpito Istanbul questa notte". Così il presidente del consiglio Paolo Gentiloni nel messaggio al presidente turco Erdogan dopo la strage di Capodanno a Istanbul. "Il nostro pensiero - scrive Gentiloni - va alle vittime innocenti la cui vita è stata spezzata da ferocia inumana proprio nella normalità della condivisione di un momento di festa. L'Italia si stringe tutta intorno alle famiglie e piange con loro. Signor Presidente, in questo momento doloroso le confermo la solidarietà piena del governo italiano e la determinazione assoluta a combattere insieme contro la piaga del terrorismo".

"Purtroppo, la violenza ha colpito anche in questa notte di auguri e di speranza. Addolorato sono vicino al popolo turco". Lo ha detto il Papa all'Angelus commentando quanto accaduto stanotte a Istanbul e assicurando le sue preghiere per quanti colpiti. Il Papa ha poi assicurato il suo sostegno "a tutti gli uomini di buona volontà che si adoperano" contro il terrorismo e contro questa "macchia di sangue" che getta ombre e sconforto.

Il presidente francese Francois Hollande ha ribadito oggi il suo sostegno alla Turchia. Presidente dello Stato europeo che ha subito le maggiori perdite a causa di attentati sin dal 2015, ha denunciato "con forze e indignazione l'atto terrorista" e ha garantito "solidarietà" alla Turchia oltre a confermare l'impegno di Parigi a "continuare la lotta implacabile contro questa piaga (del terrorismo) con i suoi alleati.

"Stanno cercando di creare caos, demoralizzare il nostro popolo, destabilizzare il nostro Paese con attacchi abominevoli che prendono di mira i civili. Manterremo il sangue freddo come nazione e resteremo più uniti che mai e non cederemo mai a questi sporchi giochi": questo il primo commento a caldo alla strage da parte del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, affidato a una nota ufficiale diffusa dai media. "Come nazione - ha aggiunto Erdogan nella nota - lotteremo fino alla fine non solo contro gli attacchi armati dei gruppi terroristici e le forze che stanno loro dietro, ma anche contro i loro attacchi economici, politici e sociali".

Il primo capo di Stato ad esprimere personalmente la sua vicinanza al presidente turco Recep Tayyip Erdogan per l'attentato di stanotte a Istanbul e stato l'omologo russo Vladimir Putin: "Non si può immaginare un crimine piu sfacciato che l'assassinio di persone pacifiche al culmine della festa di Capodanno. Ma i terroristi sono completamente privi di sentimenti umani" ha detto Putin ribadendo "il dovere comune di combattere il terrorismo ed in questo la Russia è stata e sarà un alleato affidabile per la Turchia".

Ancora nessun gruppo terroristico ha rivendicato l'attentato, ma secondo la Bbc la natura dell'attacco ed i precedenti fanno propendere per una responsabilità di Isis. Il servizio pubblico britannico ricorda infatti come nella lunga serie di attentati che hanno insanguinato la Turchia negli ultimi anni i gruppi curdi come il Pkk o la frangia irriducibile del Tak hanno sempre colpito soldati o agenti di polizia, Isis ha preferito uccidere civili, meglio se turisti stranieri. Il tutto coinciderebbe anche con una possibile rappresaglia al cambio di fronte - ufficioso ma sostanziale - del governo turco che dopo aver nei primi anni del conflitto (marzo 2011) aiutato Isis pur di far cadere Bashar Assad, nel corso del 2016 ha cambiato fronte arrivando negli ultimi 4 mesi a colpire direttamente i jihadisti sunniti in Siria. È ancora sotto shock Mehmet Dag, 22 anni, che ha visto uccidere una guardia e una passante di fronte al night club da parte di un uomo armato che poi è entrato nel locale teatro della strage di Capodanno. "Ha preso di mira l'agente di sicurezza e poi ha sparato e l'uomo ed una donna che passava di lì sono caduti a terra", ha raccontato il ragazzo. L'assassino poi è entrato nel locale. "Una volta entrato, non so cosa sia successo. Si udivano colpi di arma da fuoco e dopo due minuti, il suono di un'esplosione'', ha raccontato il testimone. I filmati girati da Dag con il suo IPhone ed ottenuti dall'Associated Press mostrano un poliziotto steso a terra fuori dal club e poi una donna. Il ragazzo ha raccontato che la donna, è caduta a terra a faccia in giù e giaceva in una pozza di sangue. "Sorella mia, vedrai starai bene", sono le parole di conforto che Dag ha detto alla donna prima di chiamare un'ambulanza. Il filmato mostra le ambulanze e le luci di un ponte di Istanbul, mentre il rumore degli spari risuona dall'interno del club. Secondo un corrispondente di Sky Tg 24, i servizi segreti americani avevano avvertito le autorità locali dell'imminenza di un attentato a Istanbul per questa notte. Condanna dell'attacco e solidarietà alla Turchia da parte di Stati Uniti, Ue e Nato: la Casa Bianca ha offerto ad Ankara l'aiuto degli Usa, mentre il dipartimento di Stato ha espresso solidarietà "all'alleato turco"; l'alto rappresentante europeo per gli Affari esteri Federica Mogherini ha sottolineato come si debba "lavorare per prevenire tali tragedie"; il segretario generale dell'alleanza atlantica Jens Stoltenberg ha parlato di "tragico attacco".

Tutti gli attentati che hanno sconvolto la Turchia, scrive Chiara Degl'Innocenti il 2 gennaio 2017 Panorama. Dalla fine del 2015 a oggi la Turchia è stata colpita da feroci attacchi terroristici. Un bilancio che ha assunto i toni più cupi nel 2016 con otto attentati avvenuti negli ultimi sei mesi, di cui tre solo nel mese di giugno con un bilancio, purtroppo provvisorio, di quasi 250 vittime e centinaia di feriti. Ecco quali sono.

Istanbul, 1 gennaio 2017: un uomo armato di kalashnikov entra nel night club reina dove erano in corso i festeggiamenti per il Capodanno e apre il fuoco uccidendo 39 persone e ferendone altre 69. Urlava "Allah Akbar".

Istanbul, 10 dicembre 2016: 44 persone, la maggioranza agenti di polizia, vengono uccisi, e 166 ferite dall'esplosione di due ordigni al termine di una partita nello stadio del Besiktas a Istanbul. Altro attacco rivendicato dal Tak.

Semdinli, 9 ottobre 2016: l'esplosione di un pulmino imbottito di esplosivo davanti ad un commissariato di polizia nella provincia sud-orientale di Semdinli ha causato 18 morti. Attacco attribuito da Ankara al Pkk.

Cizre, 26 agosto 2016: 11 agenti sono uccisi da un kamikaze che fa saltare in aria in un'autobomba a Cizre, città prevalentemente curda. Azione rivendicata dal Pkk.

Gaziantep - 20 agosto 2016: 57 persone, 34 dei quali bambini, muoiono in un attentato dinamitardo rivendicato da Isis ad un matrimonio curdo a Gaziantep, vicino al confine con la Siria.

Instanbul- 28 giugno 2016: Attentato all'aeroporto Ataturk, l'ultimo di una serie di attacchi terroristici che hanno colpito la Turchia. Per il momento 41 sono le persone uccise, di cui una decina turisti, e oltre 239 i feriti.

Instanbul - 7 giugno 2016: Perdono la vita 11 persone nello scoppio di un'autobomba con un autobus della polizia del centro storico della città.

Midyat - 8 giugno 2016: Un veicolo imbottito di esplosivo salta all'esterno del quartier generale della polizia a Midyat, nel sud-est a maggioranza curda. Morte 5 persone, una trentina i feriti. L'attentato è attribuito al PKK. 

Istanbul - 19 marzo 2016: Cinque morti, di cui due americani, e 36 feriti è il bilancio di un attentato in una centralissima via di Istambul, nella strada Istiklal, dove un kamikaze si è fatto esplodere contro i turisti. I sospetti sono stati ricondotti all'Isis.

Ankara - 13 marzo 2016: Un gruppo armato TAK lascia a terra 37 i morti e 125 i feriti in un attentato suicida con un'autobomba nel centro di Ankara.

Ankara - 17 febbraio 2016: Un attentato suicida contro un convoglio militare turco provoca 28 morti e 61 feriti attribuito al gruppo siriano kurdo YPG, coordianto con la guerriglia kurda del PKK.

Istanbul - 12 gennaio 2016: vicino alla Moschea Blu un suicida del EI provoca la morte di 12 turisti.

Ankara - 10 ottobre 2015: Due kamikaze, vicini all'Isis, si fanno saltare in aria nella piazza centrale della capitale dove dove si sta tenendo un corteo per la pace con i curdi, in opposizione alle politiche del presidente Tayyip Erdogan. Il bilancio finale è pesante: 103 morti e oltre 245 feriti.

Soru - 20 luglio 2015: Muoiono 32 persone e più di 70 saranno quelle ferite in un attentato suicida da parte di una giovane donna simpatizzante dello Stato islamico, che si fa esplodere a nella città di Suru, a 10 chilometri dal confine siriano.

2016. EUROPA, UN ANNO DI TERRORE.

L'attentato al mercatino di Natale di Berlino è l'ennesimo atto terroristico che colpisce il cuore dell'Europa in un anno, scrive Luca Romano, Domenica 25/12/2016, su "Il Giornale". L'attentato al mercatino di Natale di Berlino (19 dicembre 2016, 12 morti 48 feriti) è l'ennesimo atto terroristico che colpisce il cuore dell'Europa in un anno, facendo ripiombare nella paura il Vecchio continente. Dalla Francia alla Germania, il 2016 è infatti stato segnato da un'escalation di terrore, che ha lasciato una scia di sangue che sembra non fermarsi. Questa la cronologia degli attentati che hanno insanguinato l'Europa nel 2016:

7 GENNAIO - Nel giorno in cui la Francia celebrava l'anniversario dell'attentato al settimanale satirico, Charlie Hebdo, un uomo, che indossava un cintura esplosiva, armato di coltello e gridando "Allah Akbar", si lancia contro alcuni poliziotti, ferendone uno, per vendicare i morti in Siria. L'uomo viene ucciso dagli agenti davanti al commissariato di Goutte-d'Or a Parigi.

22 MARZO - Una raffica di attentati, rivendicati dall'Isis, colpisce Bruxelles provocando 32 morti e circa 300 feriti. Le prime due esplosioni avvengono nell'aeroporto Zaventem, dove due kamikaze si fanno saltare in aria devastando la sala partenze internazionali. Poco dopo esplode un ordigno piazzato nel vagone centrale di un convoglio della metropolitana in viaggio tra le stazioni di Maelbeek e Schuman, nel cuore del quartiere che ospita le istituzioni Ue. Tra le vittime anche l'italo-belga Patricia Rizzo.

13 GIUGNO - A Magnanville, vicino a Parigi, un uomo uccide un poliziotto e sua moglie, anche lei agente di polizia, nella loro abitazione. L'attentatore, il 25enne Larossi Abballa, ne rivendica la responsabilità su twitter in nome dell'Isis. Viene ucciso dalle forze speciali.

14 LUGLIO - Un camion piomba sulla folla radunata sul lungomare della Promenade del Anglais di Nizza per i festeggiamenti della festa nazionale francese. Le vittime sono 86, tra cui 6 italiani, i feriti oltre 300. L'attentatore, Mohamed Lahouaiej-Bouhlel, nato a Sousse in Tunisia, era già noto alla polizia per piccoli casi di criminalità minore, in particolare violenze e uso di armi, ma nessun fatto legato al terrorismo. Il 16 luglio, lo Stato Islamico rivendica la responsabilità dell'attentato, affermando che l'attentatore era un suo "soldato", che ha eseguito l'attacco in risposta agli appelli del gruppo di "colpire i cittadini dei Paesi della coalizione che combatte lo Stato Islamico".

18 LUGLIO - Un ragazzo di 17 anni proveniente dall'Afghanistan e richiedente asilo in Germania, Muhammad Riyad, viene ucciso dopo aver ferito cinque persone a colpi d'ascia su un treno regionale tra Wurzburg e Heidingsfeld, nella Germania meridionale. L'Isis rivendica l'attacco, in un video in cui il ragazzo, Muhammad Riyad, dice di essere un soldato del califfato.

22 LUGLIO - Nove persone rimangono uccise e 16 ferite nell'attacco condotto da un 18enne tedesco, di origine iraniane, nel centro commerciale Olympia a Monaco di Baviera. Il killer si suicida davanti agli agenti. Sembra da escludersi la matrice terroristica islamica.

24 LUGLIO - Un richiedente asilo siriano di 21 anni uccide a colpi di machete a Reutlingen, nel sud della Germania, una donna incinta e ne ferisce due. Anche in questo caso si esclude la pista terroristica, privilegiando quella di un delitto passionale.

24 LUGLIO - Ad Ansbach, in Germania, un uomo di origine siriana muore dopo essersi fatto esplodere all'ingresso di un concerto, dove c'erano oltre 2500 persone. Restano ferite 15 persone di cui 4 in modo grave.

26 LUGLIO - A Rouen, in Francia, due giovani fanno irruzione durante la messa del mattino nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, al grido di "Allah Akbar". Prendono cinque ostaggi (tra cui due suore) e sgozzano il sacerdote Jacques Hamel, 84 anni. I due aggressori, entrambi cittadini francesi, vengono poi uccisi dalla polizia. Uno di loro, identificato come Adel Kermiche, per due volte aveva tentato di raggiungere la Siria. L'Isis ha rivendicato l'attacco affermando che è stato compiuto da due 'soldati' del gruppo.

6 AGOSTO - Due poliziotte vengono ferite a colpi di machete nel centro di Charleroi, in Belgio. Un individuo, al grido di "Allah Akbar", ferisce due agenti di polizia, una delle quali riporta ferite profonde all'altezza del viso, prima di essere ucciso da una collega. L'aggressore era di origine algerina.

19 DICEMBRE: L'attentato di Berlino è stato un attacco terroristico avvenuto a Berlino, Germania, il 19 dicembre 2016, in un mercatino di Natale, provocando 12 morti e 56 feriti. Un autoarticolato con targa polacca, proveniente dall'Italia, ha investito la folla al mercatino di Natale del quartiere berlinese a Breitscheidplatz, nelle vicinanze della Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche di Charlottenburg. Nella notte del 22 dicembre 2016, il sospetto attentatore Anis Amri è stato ucciso in Italia a Sesto San Giovanni (Milano) durante un controllo di polizia all'esterno della stazione ferroviaria. Il cosiddetto Stato Islamico ha rivendicato la responsabilità dell'attentato attraverso l'agenzia di stampa Amaq.

PARLIAMO DI LEGALITA'. LA REPUBBLICA DI ZALONE E DI FICARRA E PICONE.

Checco Zalone, La prima Repubblica è la colonna sonora di Quo Vado? Scrive Giulio Pasqui lunedì 21 dicembre 2015. Checco Zalone non solo ci ha aiutati a film sbanca-botteghino, ci ha abituati anche a colonne sonore, scritte e cantate dallo stesso, degne di nota. E Quo Vado?, il nuovo film prodotto da TaoDue e distribuito da Medusa, poteva farne a meno? Ovviamente no. Domenica 20 settembre, in occasione dell'ospitata a Che tempo che fa, il comico barese ha presentato La prima Repubblica. "E' una canzone che ho scritto per Adriano Celentano - ha detto, scherzando - è il mio mito di sempre. Ma c'è un problema: lui non lo sa. Ha un ritornello orecchiabile...". E in effetti alcuni passaggi del brano/colonna sonora ricordano tanto lo stile del Molleggiato e Fatti mandare dalla mamma. La Prima Repubblica viene definito come "un brano apocrifo che racconta con nostalgia quello che era il modo di vivere in Italia negli anni ‘80. Lo stile di vita di un paese che durante la Prima Repubblica viveva spensierato, godendo di un modo di fare diffuso in tutta la penisola. E’ un coro di persone felici che cantano allegramente la bellezza di quei momenti passati, non potendo scordare le consuete modalità che per un ventennio hanno caratterizzato l’Italia, diventando così il DNA del nostro Paese. Perché tutto cambia, ma in realtà nulla cambia veramente".

Checco Zalone, La prima Repubblica, Lyrics

La prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

tu cosa ne sai

Dei quarantenni pensionati 

che danzavano sui prati 

dopo dieci anni volati all'aeronautica 

e gli uscieri paraplegici saltavano 

e i bidelli sordo-muti cantavano 

e per un raffreddore gli davano 

quattro mesi alle terme di Abano 

con un'unghia incarnita 

eri un invalido tutta la vita

La prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

tu cosa ne sai

Dei cosmetici mutuabili 

le verande condonabili 

i castelli medioevali ad equo canone 

di un concorso per allievo maresciallo 

sei mila posti a Mazzara del Vallo 

ed i debiti (pubblici) s'ammucchiavano

come i conigli 

tanto poi 

eran cazzi dei nostri figli

Ma adesso vogliono tagliarci il Senato 

senza capire che ci ammazzano il mercato 

senza Senato non c'è più nessun reato 

senza reato non lavora l'avvocato 

il transessuale disperato 

mi perdi tutto il fatturato 

ed al suo posto c'è un Paese inginocchiato

Ma il Presidente è toscano 

ell'è un gran burlone 

ha detto “eh, scherzavo” 

piuttosto che il Senato 

mi taglio un coglione

La prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

era bella assai 

la prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

tu che ne sai 

Ma davvero Quo Vado di Checcho Zalone racconta l'Italia di oggi? Il 1° gennaio arriva l'attesissimo nuovo film di Checco Zalone, "Quo vado?", atteso dai fan ma anche dagli esercenti dal momento che il suo ultimo film ha incassato la cifra record di 51 milioni di euro. Il nuovo film racconta la storia di Checco, un ragazzo che ha realizzato tutti i sogni della sua vita: vivere con i suoi genitori evitando così una costosa indipendenza, rimanere eternamente fidanzato senza mai affrontare le responsabilità, un lavoro sicuro ed è riuscito a ottenere un posto fisso nell’ufficio provinciale caccia e pesca. Un giorno però tutto cambia: il governo vara la riforma della pubblica amministrazione che decreta il taglio delle province, Checco viene trasferito al Polo Sud. Il regista e attore barese ha scelto però di non fare promozione tradizionale e al posto del trailer sta diffondendo sulla sua pagina Facebook dei piccoli spot ironici autopromozionali. Il film comico spiega il Paese meglio degli studiosi secondo alcuni osservatori. Abbiamo chiesto a uno di loro, Ilvo Diamanti, che ne pensa, scrive Ilvo Diamanti il 15 gennaio 2016 su "L'Espresso". Ho assistito con attenzione “professionale” alla proiezione di “Quo vado?”, il film di Checco Zalone, diretto da Gennaro Nunziante. Naturalmente, io non sono un critico cinematografico. E neppure un esperto. Lo ero, di più, da giovane, quando seguivo e, a volte, conducevo i cineforum, nella provincia veneta. Ma, poi, il lavoro e i viaggi (per lavoro: insegno in sedi universitarie diverse, lontane da dove risiedo) hanno preso il sopravvento. E ho ripiegato sui dvd e sugli streaming. Che ti seguono nei viaggi e in ogni trasferta. Anche se i film vanno guardati nelle sale cinematografiche. Al buio, in silenzio. Così, da qualche anno, anzi, da molti anni, al cinema ci vado saltuariamente. Spinto da mia moglie. Perlopiù, a vedere film diretti o interpretati da amici. Io, peraltro, ho perfino partecipato all’ultimo film di Carlo Mazzacurati. Amico carissimo (e indimenticato). “La sedia della felicità”. Dove, per venti secondi, ho recitato la parte di… me stesso. L’esperto che analizza la società (del Nordest). Così, ho accettato di vedere e commentare il film di Zalone con l’occhio dell’analista sociale. E politico. Come di fronte a un ritratto dell’italiano medio, dei suoi miti, dei suoi desideri, dei suoi valori. D’altronde, com’è noto, è già avvenuto in passato. La commedia all’italiana: ha raccontato l’Italia della ricostruzione e del miracolo. Con realismo e ironia. Ma ciò è avvenuto anche in tempi recenti. Basti pensare a Paolo Villaggio e al suo personaggio più noto: Fantozzi rag. Ugo. Io stesso, nell’ambito del mio corso di Comunicazione Politica, all’Università di Urbino, ho organizzato un seminario intitolato: “Politica e spettacolo”. Anzi, “Politica è spettacolo”. Dove ho invitato, fra gli altri, Antonio Albanese. Inventore e attore di alcune straordinarie maschere del nostro tempo. Delineate, oltre che interpretate, con la cura del sociologo. O dell’antropologo. Penso a Ivo Perego, idealtipo del piccolo imprenditore della provincia lombardo-veneta. O, per altro e diverso “verso”, a Cetto La Qualunque. Maschera esemplare del politico-politicante del Sud (ma non solo), buffo e un po’ buffone. Al proposito, Albanese rivelò ai miei studenti, che «nessuna parola e nessuna frase è mia. Ho raccolto registrazioni in occasione di diverse elezioni locali. Nel Sud. La sceneggiatura è loro. Dei Cettilaqualunque presenti sul nostro territorio». E che dire di Neri Marcorè (anch’egli invitato ai miei corsi). Autore di “imitazioni” di successo, imitate dagli stessi imitati. Come Maurizio Gasparri. Ma lo stesso discorso, oggi, vale per Maurizio Crozza. Come dimenticare l’indimenticabile maschera di Bersani? Più efficace dell’originale, purtroppo per l’interessato. Mi accorgo, ora, che il tentativo di spiegare il motivo per cui un in-esperto di cinema, come me, venga invitato a commentare un film, per quanto “eccezionale”, per numero di spettatori e volume di incassi, mi ha portato lontano. Tanto lontano, che ora rischio di perdermi. D’altronde, Francesco Anfossi, su “Famiglia Cristiana”, ha scritto che «Zalone e il regista Nunziante spiegano l’Italia meglio di Ilvo Diamanti o Giuseppe De Rita». Naturalmente, De Rita non ne ha bisogno, ma io ci tengo a imparare dai maestri. Tanto più se realizzano analisi di successo, come “Quo Vado?”. Così ho guardato il film cercando di capire quanto l’Italia di Nunziante e Zalone coincida con le mie rappresentazioni. E interpretazioni. Premetto che mi sono divertito. Ho riso molto. E ho provato a riflettere. Su quanto sia realistica e attuale «l’Italia malinconica e meschina di Checco Zalone», come la definisce Goffredo Fofi su “Internazionale”. L’Italia fondata sul “posto fisso”. («Cosa vuoi fare da grande»? Chiede il maestro al giovane Checco. E lui, prontamente: «Il “posto fisso”»). L’Italia che, mira, anzitutto, al pubblico impiego, nei servizi dello Stato. Checco Zalone, impiegato alla Provincia (chiusa per legge), disposto a girare per il mondo, fino in Norvegia, fino ai ghiacci del Polo Nord, pur di non rinunciare al “posto fisso”. Come gli ripete e gli “raccomanda” il suo amico e protettore politico, interpretato da Lino Banfi. L’Italia fondata sulla mamma e sulla famiglia. Ebbene, la prima impressione è che questa raffigurazione è, forse, puntuale, ma caricaturale. Ancora: valida soprattutto per alcuni settori sociali e territoriali (gli adulti, il Mezzogiorno). E, comunque, datata. Perché l’Italia dei giovani, è “precaria”. Non si ferma in un “posto fisso”. I giovani, appena possono, se ne vanno dalla famiglia. Si trasferiscono altrove. In Europa, nel mondo. Non per imposizione. Nessuno li caccia. In un Paese di figli unici, figurarsi... Partono per scelta e necessità. Perché 7 italiani - e 8 giovani - su 10 ritengono che, per fare carriera, per trovare un impiego adeguato alle loro aspirazioni, i giovani debbano andarsene. All’estero. Tuttavia, a guardare i sondaggi realizzati da Demos, che utilizzo regolarmente per le mie ricerche, l’Italia di Nunziante e Zalone pare meno manierista e fantastica di quel che si potrebbe pensare. Proviamo a scorrere alcuni dati. Fra le caratteristiche che orientano la scelta del lavoro, secondo gli italiani (aprile 2015), la più importante è (appunto…) «che sia sicuro, senza rischio di perderlo e rimanere disoccupati». La prima, per il 39% degli intervistati. La seconda, per un altro 22%. Se sommiamo i due principali requisiti del lavoro, dunque, oltre il 60% degli italiani attribuisce effettivamente al “posto fisso” un ruolo importante. Anche se tra i giovanissimi (15-24 anni) conta di più la “soddisfazione”. Potendo scegliere un’occupazione per sé o i propri figli, inoltre, il 29% preferirebbe «un lavoro alle dipendenze di un ente pubblico». (La quota sale a circa il 32% nel Sud.) Anche in questo caso, si tratta della scelta più apprezzata. Seguita dal «posto in una grande impresa» (22%). E dal lavoro in proprio o da libero professionista (18%, in entrambi i casi). Di nuovo, però, la gerarchia delle preferenze cambia fra i giovanissimi. Attirati soprattutto dalla libera professione. Infine la famiglia. Secondo il 36% degli italiani, è ancora il soggetto che tutela maggiormente i lavoratori. Più dello stesso sindacato, indicato dal 16% del campione. D’altronde, «cosa distingue maggiormente gli italiani dagli altri popoli»? Naturalmente la famiglia (28%). Poi, «l’arte di arrangiarsi» (17%). Anche perché, agli italiani, è possibile “arrangiarsi”, soprattutto grazie alla famiglia. È interessante osservare che il ruolo della famiglia è riconosciuto anche dai giovani. E dai giovanissimi. In misura maggiore della media. Il profilo che emerge da questi dati, dunque, rende il “ritratto dell’italiano medio” secondo Zalone meno caricaturale del previsto. L’Italia appare ancora ispirata dal mito del lavoro fisso, nei settori pubblici, statali. Attaccata alla famiglia. Soprattutto se facciamo riferimento alle generazioni adulte e, ovviamente, anziane. A maggior ragione (ma non solo) del Sud. Questo modello, però, si adatta molto meno ai più giovani. Abituati alla flessibilità, alla precarietà. Al nomadismo. Per motivi di studio e lavoro. Ma, ormai, anche per passione. Eppure anch’essi possono sperimentare la condizione di “professionisti dell’incertezza” perché alle spalle hanno una famiglia. Un genitore o (meglio) due con lo stipendio fisso. Impiegati, magari, nel settore pubblico. Un nonno o una nonna con la pensione. Con una casa di proprietà. L’Italia di Zalone riflette, dunque, i valori e i riferimenti economici e sociali che hanno accompagnato la nostra società, nel dopoguerra. Oggi erosi dall’incertezza e dalla crisi. Ma ben piantati nella nostra storia. E ancora resistenti. Appigli necessari per vivere e sopravvivere. A chi resta - i più anziani. E a chi se ne va - i più giovani. I quali sanno, comunque, di poter tornare. A casa. Dove c’è sempre qualcuno ad attendere.

L'Ora Legale. Scrive il 27.12.2016 Pierpaolo Festa. Ficarra e Picone ritornano nei cinema con L'ora legale, la commedia che hanno diretto e interpretato attesa in sala per gennaio. Possiamo adesso vedere il primo trailer del film appena lanciato in rete: Si tratta della sesta collaborazione cinematografica del duo di attori siciliani dopo Nati stanchi, Il 7 e l'8, La matassa, Anche se è amore non si vede e Andiamo a quel paese. L'ora legale è anche interpretato da Leo Gullotta, Vincenzo Amato, Tony Sperandeo, Sergio Friscia, Antonio Catania, Eleonora De Luca, Ersilia Lombardo, Alessia D’Anna, Francesco Benigno e Alessandro Roja. Questa la trama del nuovo film: In un paese della Sicilia, Pietrammare, puntuale come l'ora legale, arriva il momento delle elezioni per la scelta del nuovo sindaco. Da anni imperversa sul paese Gaetano Patanè, lo storico sindaco del piccolo centro siciliano. Un sindaco maneggione e pronto ad usare tutte le armi della politica per creare consenso attorno a sé. A lui si oppone Pierpaolo Natoli, un professore cinquantenne, sceso nell'agone politico per la prima volta, sostenuto da una lista civica e da uno sparuto gruppo di attivisti per offrire alla figlia diciottenne, Betti, un'alternativa in occasione del suo primo voto. I nostri due eroi Salvo e Valentino sono schierati su fronti opposti: il furbo Salvo, manco a dirlo, offre i suoi servigi a Patanè, dato vincente in tutti i sondaggi; mentre il candido Valentino scende in campo a fianco dell'outsider Natoli a cui è legato, come peraltro Salvo, da un vincolo di parentela in quanto cognato. Al di là della rivalità, però, entrambi mirano ad ottenere un “favore” che potrebbe cambiare la loro vita: un gazebo che permetterebbe di ampliare la clientela, e quindi gli incassi, del piccolo chiosco di bibite posto nella piazza principale del paese. Il Popolo vive, o meglio si lascia vivere, in un perenne stato di precarietà e di illegalità. Le macchine in doppia fila, l'immondizia sparsa per strada, ambulanti e parcheggiatori abusivi, le buche, e, su tutto, l'assenza di controlli che rendono le giornate dei cittadini una costante via Crucis da affrontare con l'unica arma a loro disposizione: la lamentela. A poche ore dal voto, però, arriverà il fato, il caso, o forse il destino a dare al popolo la forza di reagire, consentendo ai cittadini uno scatto d'orgoglio che li porterà a ribaltare alle urne tutti i sondaggi pre elettorali. Pierpaolo Natoli verrà eletto a furor di popolo e con lui verrà eletta la legalità.

Sapranno però i nostri concittadini fare i conti con la tanto attesa legalità? "L'Ora legale", l'ultimo film di Ficarra e Picone, scrive Teresa Marchesi su "L'Huffington Post" il 28/10/2016. Pietrammare è un paese come tanti del Sud. Aduso a sindaci disonesti e intrallazzoni come Patanè (Toni Sperandeo) che si ricandidano al grido di “Vota Patané senza chiederti perché”. Ma se un bel giorno alle amministrative trionfasse la lista civica di un professorino che dichiara guerra a ogni forma di illegalità, senza distinzione? Chi ha votato per l’onestà è pronto a praticarla in proprio? L'Huffington Post è andato sul set di “L’ora legale”, che Salvo Ficarra e Valentino Picone stanno girando a Termini Imerese, guarda caso Comune commissariato. Il film esce a Gennaio e c’è da scommettere che non farà soltanto ridere. Vi mostriamo in esclusiva su HuffPost le primissime immagini di questo minikolossal (scusate l’ossimoro) che ha mobilitato più di 500 comparse e 105 “ruoli parlanti”, rigorosamente locali. Solo i molto distratti non hanno notato che anche l’ultimo film della coppia palermitana, “Andiamo a quel Paese”, era un’idea coi fiocchi, esente dal qualunquismo che affligge tante commedie ‘sociali’ italiane. L’idea stavolta è di piazzare sul banco degli imputati non i votati ma i votanti. “Perché tutti tuoniamo contro soprusi, intrallazzi e storture – sostengono - ma quando mai facciamo i conti con la nostra piccola dose quotidiana di illegalità e di soprusi, da cui puntualmente ci autoassolviamo?” Come dice Ficarra, “abbiamo deciso di indagare su noi stessi, che siamo parte e dalla parte del popolo, ma senza paraocchi”. Che siano popolo è chiaro dal viavai di civili che da due mesi costantemente si infila tra un ciak e l’altro, chiamandoli sempre Salvo e Valentino, mai per cognome. Sui social cazzeggiano proclamando che il loro segreto “è la disistima reciproca”, ma sul set, dopo quattro film da registi, sembrano un mostro a due teste, perfezionisti che neanche Kubrick, due entusiasti col montaggio già in mente. Per “L’ora legale” hanno rivoluzionato Termini Imerese, scelta simbolicamente come una delle potenziali meraviglie turistiche devastate da fallimentari insediamenti industriali. Qui la Fiat ha lasciato a spasso un buon 8 mila addetti. Hanno inventato fontane, aiuole, piste ciclabili, spazi inediti di civiltà che i pensionati locali hanno adottato davvero. Quando scompariranno si rischia l’insurrezione. Non c’è modo di cavargli di bocca la sorpresa finale del film, ma il messaggio, anticipa Picone, è che “non solo la legalità ma la ragionevolezza è una dura lezione”, perché noi cittadini “razzoliamo male anche davanti all’evidenza che ci converrebbe razzolare bene”. Nella storia Ficarra e Picone sono entrambi cognati del nuovo sindaco “onesto” (Vincenzo Amato), schierati però su fronti opposti, perché Salvo gestisce la danarosa e prepotente campagna per il sindaco uscente. Costretti alla convivenza dal loro comune chiosco in piazza, proprio come Stanlio e Ollio costruiscono la loro dialettica comica fisicamente e caratterialmente. Ma ci sono anche i siculissimi Leo Gullotta e Antonio Catania. E a co-firmare la sceneggiatura non ci sono esattamente dei Pinco Pallino di passaggio: l’Edoardo De Angelis appena consacrato da “Indivisibili”, il Nicola Guaglianone in piena ascesa dopo “Lo chiamavano Jeeg Robot”, l’inseparabile Fabrizio Testini di “Zelig”. Non tirano via, nemmeno sulla scrittura. Fortuna che “L’ora legale” esce ben dopo l’esito del Referendum. Si potrà ridere in pace senza fare illazioni di parte e senza litigare all’uscita. Perché di come votano loro il 4 dicembre certo non ne fanno mistero. Se sono bravi, dal film non si capirà.

L'ora legale, Ficarra e Picone con un film civile: "Noi vogliamo far ridere", scrive Chiara Ugolini il 13 gennaio 2017 su "La Repubblica". Il duo di comici siciliani firma una commedia che racconta la rivoluzione di un piccolo paesino del Sud dove un professore si candida per offrire un cambiamento dopo anni di corruzione. I suoi compaesani lo eleggono ma le cose non andranno come loro si aspettavano. "Con questa crisi che c'é, l'Italia l'onestá non se la può permettere". É una delle battute più amare della nuova commedia di Salvo Ficarra e Valentino Picone L'ora legale, dal 19 gennaio in sala in 650 copie. Un film che racconta la "rivoluzione" che avviene in un piccolo paese siciliano dove, dopo che per anni un politico locale corrotto Gaetano Patané (Tony Sperandeo) ha amministrato con un sistema di clientelismo, un professore di liceo (Vincenzo Amato) decide di candidarsi nel segno del cambiamento. Sembra una missione impossibile vincere eppure, complice un'inchiesta che colpisce Patané, il professor Natoli viene eletto e - nello stupore generale - comincia a mettere in pratica tutte le cose che aveva promesso in campagna elettorale: lotta all'abusivismo, alla corruzione, all'assenteismo. Tutti finiscono in qualche modo nel mirino: chi prende una multa, chi vede la cartella esattoriale crescere, chi - come il parroco del paese- si vede per la prima volta nella sua vita recapitare una lettera per il pagamento dell'Imu per il bed and breakfast che gestisce. Nel giro di poco una fronda anti Natoli si forma nel paese persino i suoi cognati, Ficarra e Picone (che firmano il film come registi), finiscono per passare dall'altra parte della barricata e diventeranno complici di quel gruppo di compaesani pronti a tutto pur di costringere Natoli alle dimissioni. "Siamo partiti dalla volontà di fare una fotografia di quello che vediamo - dice Salvo Ficarra - e di mettere in difficoltà i nostri personaggi perché, come accade sempre in commedia, i comici danno il meglio di sé quando sono in difficoltà. La grande difficoltà di questo film è il rispetto della legalità e delle regole. Io e Valentino interpretiamo due del popolo, due di una coralità di un centinaio di personaggi che vengono mostrati nel film perché il film racconta proprio la difficoltà dell'onestà". E onesto è sicuramente il candidato interpretato da Vincenzo Amato, il cui "percorso verso la legalità" è un percorso agli ostacoli. "È un percorso difficile perché il candidato diventato sindaco ha promesso la legalità e la applica - dice Valentino Picone - i cittadini rimangono increduli perché dicono non si è mai visto qualcuno che realmente fa quello che ha promesso in campagna elettorale e qui ogni personaggio reagirà in modo diverso a questa ventata di legalità". Seppur il gioco a trovare riferimenti al Movimento 5 stelle, all'ex sindaco di Roma Ignazio Marino e ad altre vicende di cronaca e politica nazionale è un gioco a cui non ci si può sottrarre, il duo di comici siciliani si sfila dal "chi è chi". Sebbene ammettano che la storia della fabbrica che inquina ricorda quella dell'Ilva "ma anche il petrolchimico di Gela" (ricorda Picone), che il personaggio di Salvo con la felpa con la scritta "cognato" è un riferimento a Salvini "che dopo aver invocato la secessione della Padania è arrivato in Sicilia con la scritta Sciacca" (dice Ficarra), gli attori-registi assicurano che hanno fatto di tutto per essere il meno possibile legati alla cronaca stretta. "Il fatto è che la realtà ci ha superato a destra, facendo le corna e col telefono in mano - scherza Ficarra - noi abbiamo lavorato due anni a questo film per cui nel momento in cui sono accaduti dei fatti che ricordavano le vicende del nostro film sembravano viaggiare in parallelo con la sceneggiatura. Per cui anzi ci siamo trovati a fare cambiamenti, mettere dei paletti perché a noi interessava il disegno finale non singoli eventi". La struttura della storia che avevano in mente era molto semplice, "tutti invochiamo la legalità - dice Picone - ma poi quando arriva questa legalità ci sta stretta perché dentro ognuno di noi c'è una parte di illegalità a cui ci siamo abituati e che abbiamo pure dimenticato di avere. Lo schema era talmente semplice che qualunque cosa accadesse nella realtà non andava a toccare il progetto iniziale". Una commedia distribuita da Medusa in 650 cinema e una trasmissione, Striscia la notizia con cui ripartono a febbraio, che raccoglie 8 milioni di spettatori. Gli ex comici di Zelig Ficarra e Picone sentono la responsabilità di parlare a così tanta gente? "Noi ci mettiamo noi stessi: semplicità e divertimento - dice Salvo Ficarra - chi ci vuole ascoltare ci ascolta". "Intanto non bisogna ricordare che sei di fronte a 8 milioni di spettatori perché altrimenti ti tremano le gambe - prosegue Valentino Picone - meglio non pensarci, essere naturali". "A dire la verità - conclude Ficarra - quando siamo a Striscia abbiamo la sensazione di essere noi quattro, noi due e un paio di cameraman". Del lavoro di Ficarra e Picone i critici parlano come "cinema civile" sebbene i due rivendicano principalmente la loro ricerca della risata, dell'umorismo. "Noi la risata la cerchiamo ad ogni costo - assicura Picone - il fatto è poi che dietro ad una qualunque risata, fosse pure uno che scivola su una buccia di banana, ci saranno i parenti di quello che sono dispiaciuti perché magari si è rotto una gamba, ma ci saranno tutti gli altri che guardano e che ridono. Il nostro obiettivo è sempre quello di far ridere poi se dietro c'è qualcosa che provoca sofferenza è quasi involontario".

ONESTA' E DISONESTA'.

Lecce, arrestato l'avvocato dello Sportello dei cittadini: è accusato di truffa e riciclaggio. Il provvedimento riguarda Francesco D'Agata insieme con Graziano Garrisi. Ai due legali, il primo condotto in carcere e il secondo ai domiciliari, sono anche stati sequestrati i conti correnti bancari, scrive Chiara Spagnolo il 12 ottobre 2016 su "La Repubblica". Due noti avvocati di Lecce sono stati arrestati con le accuse di autoriciclaggio, truffa aggravata, falso in atto pubblico e patrocinio infedele. Si tratta di Francesco D’Agata e Graziano Garrisi (di 38 e 37 anni). D’Agata, in particolare, è stato in passato referente provinciale di Italia dei valori e attualmente risulta particolarmente impegnato nella tutela dei cittadini tramite lo Sportello dei diritti, che non risulta coinvolto nell'inchiesta in quanto i reati ipotizzati dalla Procura sarebbero stati commessi nell’ambito dell’attività professionale svolta a titolo personale. L’indagine è stata condotta dai finanzieri del Nucleo di polizia giudiziaria, coordinati dal colonnello Francesco Mazzotta, a partire dalla denuncia di una donna che aveva versato a D'Agata 4mila euro per pagare un ricorso in Cassazione in realtà mai depositato e per il quale la condanna era diventata definitiva. La signora ha fornito ai finanzieri gli estremi di un conto corrente che è risultato intestato a una donna senegalese, vittima principale della mega-truffa che sarebbe stata realizzata dai due avvocati. La donna era rimasta sfigurata in un incidente stradale e, tramite D'Agata, aveva ottenuto un maxirisarcimento da 600mila euro dal Fondo vittime della strada. Di tutti quei soldi, però, aveva visto appena 60.000 euro: gli altri erano transitati su un conto di cui D'Agata e Garrisi avevano la disponibilità, ovvero detenevano bancomat e carta di credito. Con quei mezzi prelevavano soldi a iosa, utilizzandoli per comprare viaggi, mobili e perfino l’abbonamento in uno stabilimento balneare del Salento, ma anche per pagare somme dovute nell'ambito dell'attività professionale. Da qui l'accusa di autoriciclaggio, aggravata dall'attività svolta, che - ha spiegato il procuratore Cataldo Motta, "prevede una pena fino a 15 anni di reclusione". Per rendere l'imbroglio ancora più convincente, i due indagati avrebbero confezionato anche una sentenza falsa, con cui il tribunale di Trieste (competente a liquidare il risarcimento per l'incidente alla donna senegalese, in quanto in Friuli ha sede il Fondo vittime della strada) disponeva il versamento di soli 300mila euro a fronte dei 600mila effettivamente liquidati. Anche la seconda vittima, dopo essere stata ascoltata dalla finanza come intestataria del conto corrente incriminato, ha sporto denuncia. Una serie di accertamenti bancari ha consentito ai finanzieri di verificare che i due avvocati effettuavano spese con i soldi prelevati proprio da quel conto corrente, di cui la gip Cinzia Vergine (che ha firmato le ordinanze di custodia cautelare, in carcere per D’Agata e ai domiciliari per Garrisi) ha disposto il sequestro. Alle perquisizioni negli studi professionali dei due legali hanno partecipato il magistrato che ha coordinato l'inchiesta, Massimiliano Carducci, e un consigliere dell'Ordine degli avvocati, così come previsto dalla legge.

Lecce, “shopping coi soldi di una vittima della strada”. Arrestato l’avvocato dello Sportello diritti. Francesco D'Agata, già coordinatore dell'Italia di valori in Salento e paladino dei consumatori in diverse trasmissioni tv nazionali, è accusato di aver truffato una donna senegalese, trattenendo 283mila euro su un risarcimento di oltre 600mila riconosciuto dal Fondo vittime della strada, scrive Tiziana Colluto il 12 ottobre 2016 su “Il Fatto Quotidiano". Si è fidata. Perché lui da sempre è stato al fianco dei più deboli, dei consumatori, dei migranti. Lei, ambulante senegalese, il sospetto di poter essere truffata lo ha anche avuto, una volta, ma è stata rassicurata con tanto di sentenza, poi risultata falsificata. Nella bufera finisce Francesco D’Agata, avvocato leccese di 39 anni, noto in tutta Italia per essere attivo nello “Sportello dei diritti” fondato dal padre Gianni, oltre che per essere stato ospite non di rado di trasmissioni televisive sulle reti nazionali e già coordinatore provinciale dell’Italia dei Valori nel Salento.  Per lui, il gip Cinzia Vergine ha disposto l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Ai domiciliari l’ex collega di studio, l’avvocato Graziano Garrisi, 38 anni. Non è detto che il cerchio sia già chiuso, perché le indagini vanno avanti e molto potrebbe emergere dai documenti sequestrati nelle scorse ore durante le perquisizioni. “D’Agata ha potuto usare il suo background di assistenza nei confronti dei più deboli, approfittando della condizione di minorata difesa della vittima” è l’atto di accusa lanciato in mattinata dal procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta. Un porto sicuro lo studio legale di Francesco D’Agata, nella stessa sede dello Sportello dei diritti, in città. La 34enne senegalese, residente nel Salento, non ci ha pensato due volte, anche perché a presentarglielo è stato un connazionale, cognato dell’avvocato. L’uomo giusto, insomma, a cui affidare il suo caso, decisamente serio: nell’aprile 2010, a San Cesario di Lecce, è stata travolta da un’auto, riportando lesioni gravissime. Il responsabile di quel terribile incidente non è mai stato scoperto. Ha intentato, dunque, la causa per il risarcimento danni: il 22 giugno 2015, il Tribunale Civile di Trieste ha imposto al Fondo vittime della Strada di versare a suo favore la somma di 636mila euro, comprensivi di spese. Allianz, la compagnia designata, lo ha fatto in due tranche, con bonifici su un conto corrente intestato alla donna, con domiciliazione presso lo studio legale e sul quale Francesco D’Agata, secondo gli inquirenti, ha operato “a insaputa della signora e senza informarla delle numerose operazioni e movimentazione di denaro”. Alla vera vittima è arrivata solo una parte di quei soldi: 353mila euro. Anche a lei dev’essere sembrato poco, a fronte dei danni patiti. “A richiesta della medesima e per comprovare la bontà del suo operato, D’Agata ha esibito copia conforme all’originale della sentenza falsificata, in quanto alterata negli importi”, è ricostruito nell’ordinanza di custodia cautelare. Nel provvedimento che sarebbe stato ritoccato, la cifra riportata è di 335.565 euro, oltre 22.800 di compensi e 3mila di spese. Stando alle indagini, condotte dalla sezione di polizia giudiziaria della Guardia di finanza, D’Agata ha taciuto “la effettiva liquidazione della somma di 636mila euro in favore dell’assistita trattenendo per sé la restante parte di 283mila euro”. Di questi, 160mila euro erano già stati incassati e 122mila euro “bloccati in extremis”, dopo che la vera titolare del conto corrente lo ha congelato in seguito ad un primo colloquio con la polizia giudiziaria. Al caso, infatti, si è giunti indagando su altro. A carico di D’Agata, come di altri due avvocati leccesi ora indagati, è arrivato un anno fa un esposto. Una donna torinese, la cui storia ha fatto il giro d’Italia per gli episodi di mobbing denunciati, lamentava l’infedele patrocinio: nonostante le rassicurazioni e 4mila euro già versati, il suo ricorso in Cassazione non è mai stato depositato. È stata lei a fornire il numero di conto corrente, che ha fatto da filo d’Arianna. “Abbiamo capito che c’era sotto qualcosa quando abbiamo visto che quel conto era intestato alla signora senegalese, che ha dichiarato di non saperne nulla”, ha spiegato il pm Massimiliano Carducci. I movimenti bancari ricostruiti dagli investigatori hanno consentito di tracciare il corso dei soldi: acquisti di mobili, viaggi, la cabina al mare. Ma a pesare non è questo shopping, bensì quello residuale, 43mila euro impiegati in spese professionali. È per questo che si contesta il reato più grave, quello di autoriciclaggio, che si affianca a quello di truffa aggravata continuata, falso in atto pubblico e infedele patrocinio aggravato dall’aver approfittato delle condizioni personali, di disagio culturale e sociale della vittima. “Francesco D’Agata è sereno”, ribadisce il suo legale Luigi Rella. Risponde di concorso negli stessi reati Graziano Garrisi, assistito dall’avvocato Giancarlo Dei Lazzaretti. Al primo sono stati sequestrati conti correnti e beni per il valore complessivo di 203mila euro; al secondo, invece, 15.500 euro, soldi che avrebbe speso utilizzando indebitamente la carta prepagata rilasciata alla donna senegalese, presentandosi al bancomat opportunamente incappucciato.

Nuovo Statuto M5s. Manca il quorum ma Grillo esulta, scrive Rocco Vazzana il 28 ottobre 2016 su “Il Dubbio”. Il comico: «Codici e codicilli non possono fermarci. Faremo in modo che il voto venga rispettato in ossequio alle leggi attuali: i nostri avvocati sono già al lavoro». Non sono serviti a nulla gli inviti a votare arrivati via sms, email e Blog. Il quorum per cambiare il Non Statuto il Regolamento del Movimento 5 stelle non è stato raggiunto. Sulla piattaforma Rousseau si sono espressi 87.213 attivisti al M5s su un totale di 135.023 iscritti, il 64,4 per cento degli aventi diritto. Per la prima volta, dunque, viene ufficializzato il numero dei "tesserati" ma la percentuale dei votanti è abbondantemente al di sotto della soglia del 75 per cento, l'unica in grado di mettere al riparo il risultato da eventuali ricorsi in Tribunale. Il quorum richiesto dal M5s era in realtà di un terzo degli iscritti, ma secondo Lorenzo Borré, l'avvocato che ha già portato il partito di Grillo davanti a un giudice, il Movimento deve essere considerato al pari di un'associazione non riconosciuta. E per modificare le regole interne di organizzazioni di questo tipo, il codice civile prevede che ad esprimersi debba essere almeno il 75 per cento degli associati. A sostegno di questa interpretazione Borré cita l'ordinanza del Tribunale di Napoli che ha annullato nell'estate scorsa l'espulsione di alcuni attivisti partenopei. Beppe Grillo è perfettamente consapevole del rischio e nell'annunciare l'esito della consultazione online commenta: «Processi, burocrazie, codici e codicilli non possono fermarci perché siamo uniti e compatti verso lo stesso obiettivo», scrive il leader genovese. «Il MoVimento 5 Stelle trova difficoltà a essere riconosciuto dalle leggi attuali perché la sua struttura e organizzazione è molto più innovativa e avanzata di quelle regolamentate dai codici. Proprio per questo il nostro caso è destinato a fare giurisprudenza». Per Grillo - che ha già attivato gli avvocati per far rispettare l'esito del voto - quello che conta è solo la straordinaria mobilitazione del popolo pentastellato. «Avete permesso al M5S di raggiungere quello che probabilmente è il record mondiale di partecipanti a una votazione online per una forza politica o un'associazione», prosegue. E poi, «il MoVimento 5 Stelle è sempre stato contrario alla logica del quorum. Per noi chi partecipa e si attiva conta e ha il diritto di prendere le decisioni». Discussione chiusa, dunque. Non proprio, a giudicare dalla reazione del legale dei dissidenti Lorenzo Borré: «Non basta dichiarare che processi, codici e codicilli non possono fermare il Movimento per impedire un riscontro giudiziario della validità della votazione, nessuno è al di sopra della legge», dice. «Oltre al quorum, è mancato l'elemento centrale della democrazia assembleare e cioè la discussione». Il big del Movimento giocano in difesa esaltando l'esito del voto: oltre il 90 per cento si è espresso a favore dell'aggiornamento del Non Statuto e del Regolamento e più del 70 per cento per il Regolamento nella versione con le espulsioni. E per Roberta Lombardi «non c'è nulla da temere, nessuno può fermare la nostra rivoluzione pacifica che porterà a un cambiamento epocale. Siamo pronti a difendere i nostri ideali, anche nelle Aule dei Tribunali».

Quasi certo il flop del voto on-line sullo statuto del M5s, scrive Zelinda Latini il 29 Ottobre 2016. Venerdì mattina il Movimento 5 Stelle ha annunciato i risultati delle votazioni per modificare il suo regolamento interno e il cosiddetto "Non Statuto", con l'introduzione tra le altre cose di nuove regole per le espulsioni dei membri del M5S. A stabilire che dovesse essere raggiunto il quorum del 75% - che ora Beppe Grillo e Roberto Fico definiscono "codicilli" e "cavilli" ma che il 20 luglio scorso indicavano come obiettivo da raggiungere - sono state le sentenze dei tribunali di Roma e Napoli. "Oltre il 90% di chi ha votato si è espresso a favore dell'aggiornamento del Non Statuto e del Regolamento e più del 70% per il Regolamento nella sua versione con le espulsioni", continua il blog. Per questo, il M5S specifica che gli avvocati sono al lavoro perché la "chiara volontà venga rispettata in ossequio alle leggi attuali", ma mette le mani avanti nel caso di un mancato accordo. Grillo ringrazia le "decine di migliaia di iscritti che hanno votato e i milioni di persone che ci sostengono". Nel comunicato diffuso oggi si legge: "Il M5S è sempre stato contrario alla logica del quorum". Processi, burocrazie, codici e codicilli non possono fermarci perché siamo uniti e compatti verso lo stesso obbiettivo. Del resto, il fatto che perfino qualche eletto sia stato refrattario fino all'ultimo agli appelli rilanciati da Beppe Grillo, da Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Davide Casaleggio, è una spia della difficoltà incontrata dal movimento nell'approvazione delle nuove norme. Secondo Borré Grillo disegna "una democrazia Avatar": "La questione del quorum è meramente residuale: le criticità o meglio i vizi della votazione, e nello specifico dei quesiti rivolti ai votanti, emergono dal riepilogo fatti dalla società di verifica". Dal 26 settembre al 26 ottobre sono state aperte le votazioni per cambiare molte voci del "non statuto", in particolare sul ruolo del "capo politico", sulla fine del direttorio come l'avevamo conosciuto in questi due anni, la creazione del collegio dei probi viri, e sulle sanzioni, espulsioni in primo luogo. E perché si sono tenute queste votazioni? "Finora le decisioni contro di noi sono state solo cautelari, i giudici non sono entrati molto nel merito". Avete permesso al MoVimento 5 Stelle di raggiungere quello che probabilmente è il record mondiale di partecipanti a una votazione online per una forza politica o un'associazione.

M5S, voto sullo statuto: fallimento web.  Il quorum è un miraggio stellare. Grillo tira dritto sulle espulsioni. Allarme dei big: "Perdiamo la base", scrive Elena G. Polidori il 29 ottobre 2016 su “Quotidiano.net. Avevano paura che succedesse e, alla fine, è successo. Il voto online tra gli iscritti del nuovo «Non statuto» del Movimento 5 Stelle, reso necessario dopo alcuni ricorsi degli espulsi, è stato un flop. Non solo non ha votato l’auspicato 75% degli aventi diritto, ma la certificazione della validità del suffragio, affidato a una società terza ed estranea al Movimento, ha svelato che lo zoccolo duro elettorale del primo partito italiano è composto di sole 87.213 persone, ovvero il 64,4% degli iscritti che sono 135.023. Pochissimi per un partito che aspira al governo del Paese. Il flop, non a caso, si è trasformato subito in uno psicodramma dentro il Movimento, soprattutto perché a cercare una certificazione più pesante del ‘libro delle regole’ con riferimento anche alle nuove condizioni per le espulsioni, erano scesi in campo tutti i big stellati, non solo i parlamentari e Grillo, ma anche Davide Casaleggio, solitamente dietro le quinte. Dunque, una sconfitta che brucia e che comincia ad avere il sapore dello sgretolamento se, come raccontano fonti parlamentari dentro i 5 Stelle, ieri si sono succedute telefonate concitate nell’asse Roma-Genova-Milano per analizzare il fenomeno. La lettura degli eventi, alla fine, sembra questa: «In piazza martedì contro il Pd c’erano non più di 150 persone, e adesso anche le votazioni sul blog sono andate male, perché abbiamo litigato troppo tra di noi e i nostri attivisti si sono allontanati». Grillo e gli altri ufficialmente parlano di un trionfo, cioè della più grande votazione online mai certificata, con tanto di record mondiale di partecipanti, ma la verità è un’altra. La piazza di martedì è stato un campanello d’allarme: «Stiamo perdendo attivisti, quindi la base», teme un deputato deluso. La paura è infatti di raccogliere solo il voto di protesta, che un giorno c’è e dopo no. «In pratica abbiamo una base debole – certifica un deputato –, ma molte persone che credono in noi. Almeno per ora». In vista delle politiche, però, sarà necessario cambiare registro. Qualcuno ipotizza di avviare una campagna di iscrizioni, come farebbe qualunque partito politico tradizionale, anche per evitare che, nel prossimo futuro, avvenga quel che Grillo teme, ovvero che «processi, burocrazie, codici e codicilli» possano fermare ‘l’ascesa rivoluzionaria’ del Movimento. «La base non può essere ondivaga, umorale, rispondere solo se c’è un richiamo di pancia e non di testa – ragiona un senatore stellato di rango – dobbiamo garantire l’appartenenza alla comunità e il rispetto delle regole, ma non possiamo farlo se restiamo legati solo a un popolo protestatario». Roberta Lombardi, deputata ortodossa, la vede in modo diverso: «Il M5S è un sogno politico unico al mondo, nessuno prima di noi ha permesso ai cittadini di scrivere leggi e portarle in Parlamento; se ci porteranno nuovamente in Tribunale», come accaduto prima a Roma e poi a Napoli, «ci difenderemo». Intanto, mentre il legale degli espulsi, Lorenzo Borrè, conferma di avere sul tavolo l’idea di un’azione collettiva, una sorta di class action degli espulsi, per la quale «si stanno già raccogliendo fondi» per impugnare e invalidare il nuovo ‘Non statuto’, il Pd non perde occasione di rimarcare il flop con Alessia Morani che su Twitter ironizza, «No quorum no party» e con Andrea Marcucci che aggiunge: «La democrazia interna è una cosa seria anche per gli attivisti del blog di Grillo». In ultimo, tira aria bassa anche in Campidoglio per Virginia Raggi. Ieri è emerso che il fedelissimo Raffaele Marra, capo di gabinetto, quando era al fianco di Gianni Alemanno, ha firmato contratti milionari a favore di Fabrizio Amore, un costruttore imputato anche per associazione a delinquere e turbativa d’asta nell’inchiesta di Mafia Capitale. Ci mancava solo questa.

Filippo Facci il 25 novembre 2016 su “Libero Quotidiano”, lo scandalo dei grillini è infinito. Ora il vaffa se lo beccano loro. Beppe Grillo è già a casa, non si può neanche mandarcelo. Vive lì, nel suo mondo a parte, non si è mai candidato anche perché è pregiudicato per omicidio colposo (vecchia storia del 1981) e i condannati e gli indagati lui nel Movimento non ce li vuole. Ecco perché questo giro di indagati a Palermo e a Bologna per presunte firme irregolari ha l'aria di una macchinazione (complotto non si può dire: poi crede che lo prendiamo in giro) ed ecco perché nell' house organ del suo mondo a parte - il sito di Grillo, non il Fatto Quotidiano - non se ne parla, a parte sì, ecco, ci sarebbe una notiziola da Palermo: l'ha scritta Roberta Lombardi e spiega che il Movimento non ha pagato 4mila euro a un fornitore di arancini. Fermi, no, c' è anche un post scriptum in fondo a un articolo sulla legge di bilancio; si chiede «a tutti gli indagati nell' inchiesta di Palermo di sospendersi», e meno male. Anche se, sicuramente, sono tutte sciocchezze, storie vecchie, macchinazioni di regime come questa storia di Bologna: secondo la procura ci sono quattro pentastellati che hanno autenticato firme potenzialmente false affinché il Movimento partecipasse alle elezioni regionali del 2014. Tra l'altro sarebbe una macchinazione fatta in casa, visto che a far partire l'inchiesta è stata la denuncia di due attivisti. Proprio come a Palermo, dove fioccano gli inviti a comparire dopo la denuncia di un altro attivista: i grillini fanno da soli anche in questo, è una gara di purezza con continue sorprese. Falsificare firme è un reato a tutto tondo (articolo 90 del Testo Unico 570) ma c' è da sperare che il popolo grillino sappia distinguere, insomma comprenda che si tratta di quisquilie penali: anche se né loro, né soprattutto i loro parlamentari, hanno mai fatto distinzioni quando le quisquilie capitavano agli altri. Sì, in effetti c' è il rischio che il popolo grillino fatichi a distinguere anche tra le autodifese della casta indagata e quelle dei pentastellati pure indagati: sembrano parole identiche, stesso linguaggio, forse la mancanza di un suggeritore come Casaleggio (padre) si fa sentire. Parlano di «serenità» e si dicono «assolutamente estranei ai fatti», poi però sporgono querele contro chi li ha denunciati o contro il programma Le Iene. C' è il rischio che il popolo grillino vada in stato confusionale. La regola universale era «dimissioni subito» (per chiunque, per qualsiasi cosa) ma con la giunta Raggi si è passati a un «leggeremo le carte» da Prima Repubblica: lo disse Luigi Di Maio, quello che l'altro giorno reclamava la galera per il presidente della Campania. Di Maio poi è lo stesso, a proposito di trasparenza, che ha ufficializzato la sparizione della diretta streaming degli incontri del Movimento; «Per non anticipare le nostre strategie agli avversari», ha detto. E così è svanita anche la possibilità teorica - sempre molto teorica - che un iscritto potesse intervenire. E la Raggi? Nella tempesta di giunta prese a fare dei monologhi in stile cassetta berlusconiana. Eh no, non è mica facile capire i grillini e star dietro loro proprio in tutto. Prendete Filippo Nogarin, sindaco di Livorno indagato per concorso in bancarotta e abuso d' ufficio e falso in bilancio: non è stato sospeso né espulso, è lì. Anche Patrizio Cinque, sindaco di Bagheria finito nei guai per una casa abusiva in un'area protetta, è lì. Invece la grillina Diletta Botta, eletta nel 2012 in Consiglio circoscrizionale a Genova, è finita dentro per droga. E ciao. Ma Andrea Defranceschi, capogruppo del M5S in Emilia Romagna, nel 2013 è stato accusato di utilizzo improprio di fondi dei gruppi regionali e alla fine l'hanno assolto: ma il Movimento intanto l'aveva mollato. Come funziona, dunque, questo garantismo grillino? Anche Davide Bono e Frabrizio Biolè, consiglieri regionali in Piemonte indagati per rimborsopoli, ne sono usciti assolti: mollati anche loro. Insomma: non è solo il popolo grillino che fatica a comprendere, ci capiamo poco anche noi. A Bassano del Grappa i grillini stavano per candidare un ragazzo accusato di rapina aggravata, sequestro di persona e tentativo di estorsione; a Vicenza il consigliere Daniele Ferrarin è stato indagato per bancarotta fraudolenta, in Abruzzo il consigliere regionale Riccardo Mercante è stato condannato a restituire le commissioni ricevute da un cliente, in Piemonte il capogruppo e candidato sindaco di Torrazza è stato accusato di aver rubato in un centro commerciale, ad Alessandria il capogruppo grillino Angelo Malerba è stato arrestato per furto dopo aver scassinato un armadietto in palestra. Credete che non potremmo continuare? Capite bene che un po' di rabbia nell' elettore grillino - di solito così pacato e riflessivo - potrebbe infine montare. Ci preoccupiamo per loro, anche se, appunto, è un problema loro. E pensare che c' è chi, tra noi, di dubbi non ne ha mai avuti, e si è fermato alle apparenze. Da mesi. Da anni. E le apparenze hanno sempre restituito questi ragazzetti o giovanotti dall' aria severa e ottusa, futile e inconsistente, goffa e imbarazzante. Le apparenze, con la scusa dell' aria nuova, ci consegnano da anni gente che ignora i regolamenti e i galatei anche minimi, che spara cavolate generiche di bassa demagogia, che nell' emiciclo parlamentare fa gestacci e provoca, interrompe, urla, spinge, fa il pagliaccio con bavagli e striscioni, blocca i lavori, grida - ricorderete - «siete solo merda» ai parlamentari e «sapete solo fare pompini» alle parlamentari, gente che accusa come niente di «assassinio» e che grida «la mafia è nello Stato» anche se si sta parlando di agricoltura biodinamica. Gente che avalla dietrologie complottistiche da tara psichica e però assume sempre, sempre, sempre quell' aria da personcine superiori. A noi. A voi. Tutta gente, i grillini, che per ora ci ha insegnato solo una cosa: che il professionismo della politica non è un pericolo, è una necessità. Filippo Facci

La piramide: il "Fatto" ordina, Bindi trasmette, il Pm esegue, scrive Francesco Damato il 28 novembre 2016 su "Il Dubbio". La vicenda del governatore della Campania Vincenzo De Luca ha evidenziato l’esistenza di una sorta di rapporto malato tra giornalismo, politica e giustizia. L'ultimo caso di Vincenzo De Luca - ultimo per ora, naturalmente - rende superata la sarcastica proposta dell'ex vice presidente della Camera Luciano Violante di separare le carriere dei giornalisti e dei pubblici ministeri, essendosi sinora rivelato impossibile separare quelle dei pubblici ministeri e dei giudici. Vanno finalmente separate anche le carriere, chiamiamole così, dei giornalisti e dei politici per evitare l'uso distorto della giustizia, e relativi uffici, ai fini della lotta fra i partiti, e anche al loro interno. Diversamente continueremo ad avere un triangolo micidiale fra editoria, politica e giustizia. Le cronache della vicenda in corso riguardante il verboso - ahi lui - governatore della Campania sono una dimostrazione di questa triangolazione perversa, che danneggia l'immagine sia del giornalismo, sia della politica, sia della magistratura. Tutto comincia a metà novembre, quando De Luca incontra in un albergo napoletano circa trecento sindaci della sua regione incoraggiandoli con il suo stile più folcloristico che altro a mobilitarsi per il referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale. Mobilitarsi, nel senso di promuovere riunioni, incontri, convincere gli indecisi e spingerli ad apprezzare la riforma e votare per il Sì, che fino a prova contraria non dovrebbe essere un reato. Mobilitarsi, sino a ravvivare gli incontri con qualche frittura di pesce, che non mi risulta neppure essa un reato. È francamente difficile pensare che si possa scambiare seriamente un Si, ma anche un No, con un calamaro o una triglia fritta. In base alle ultime e penultime esperienze referendarie mi era venuto il sospetto che stesse diventando un reato, se già non lo fosse, un incitamento a non votare, visto che c'è una vecchia norma da tutti dimenticata che rende punibile l'astensione consigliata o propagandata da un pubblico ufficiale. De Luca, certamente, lo è ma ha radunato i sindaci per invitarli a votare e far votare, non a disertare le urne. Per tornare al raduno del governatore campano, non se ne può onestamente parlare come di una setta, per quanto festosa, tra risate e applausi. Penso che fra i sindaci o i loro accompagnatori ce ne siano stati anche di poco convinti del Sì referendario e del calore di De Luca. E persino della sua presunzione che la salute del governo in carica sia un affare anche per i Comuni e le loro popolazioni, visti gli stanziamenti già decisi o possibili per realizzare opere e garantire servizi. Neppure questo mi sembra francamente un reato, se non mi è sfuggita qualche legge nel frattempo approvata in questa direzione. Ebbene, a qualche dissidente o accompagnatore di quel maledetto raduno il sospetto deve essere venuto a tal punto da registrare tutto e mandare audio e video, o entrambi, al capofila del fronte giornalistico e politico del No: Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. Che ne ricava legittimamente e felicemente uno scoop per mettere alla berlina De Luca, ma anche sperando -e questo meno legittimamente, credo- di poter dare uno spunto a qualche ufficio giudiziario. Per un po' di giorni però, dell'adunata dei sindaci campani si ride più che indignarsi. E poiché non arrivano notizie di indagini, che possano spostare le cronache dalle pagine della politica o del costume a quelle della cronaca giudiziaria, i componenti del fronte referendario del No partecipi della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi, che notoriamente non è proprio un'estimatrice di De Luca, naturalmente ricambiata, cercano di portare la vicenda all'esame del loro consesso. Persino la presidente Bindi non ritiene praticabile un simile percorso, ma non può sottrarsi alla richiesta di parlarne in una riunione dell'ufficio di presidenza, dove il Pd, il partito cioè suo e di De Luca, è rappresentato solo da Lei. Che alla fine qualche ragione mostra di trovarla negli argomenti degli altri se, forte di un'annunciata unanimità dell'ufficio, scambiata da qualcuno per unanimità della Commissione, chiede alla Procura di Napoli di mandarle atti di eventuali indagini per poter valutare se vi sono aspetti che possano riguardare anche le competenze antimafiose del consesso parlamentare. Nella Procura napoletana, nonostante i tanti giorni trascorsi dal raduno dei sindaci, indagini non risultano avviate, non potendosi promuovere a tanto un fascicolo predisposto da un sostituto per raccogliervi ritagli di giornali, a cominciare naturalmente da quelli del Fatto Quotidiano. Qualcuno fra i commissari antimafia estranei all'ufficio di presidenza, dove finalmente grillini, berlusconiani, leghisti e sinistra radicale sono riusciti a diventare maggioranza, anzi unanimità, comincia a preoccuparsi. E a chiedersi se l'iniziativa della Bindi non possa prestarsi, a torto o a ragione, ad essere scambiata per una pressione sulla Procura di Napoli perché si decida a muoversi e a farsi sentire. "Così la Commissione muore", si lamenta un'estimatrice. Marco Travaglio, collegato con Lilli Gruber, che ha nel suo studio di Otto e mezzo come ospite il renzianissimo sindaco di Firenze, reagisce con quel suo inconfondibile sorriso sarcastico alla notizia della conduttrice che non risultano indagini giudiziarie in corso sulla nuova vicenda di De Luca. Il quale intanto a Napoli gioca ancora con le parole e le immagini dicendosi curioso di conoscere il "reato di battuta" ed eventualmente difendersene. Smesso il sorriso sarcastico, il direttore del Fatto Quotidiano fornisce però una notizia in diretta. Fa cioè un altro scoop, o procura un altro buco alla concorrenza, come si dice in gergo giornalistico. Egli annuncia, in particolare, che guardie della Finanza, presumibilmente in funzione di polizia giudiziaria, si sono presentate in mattinata nella redazione del suo giornale per farsi consegnare le registrazioni del discorso di De Luca ai sindaci ed altro ancora su quel raduno. Vedremo -ammonisce all'incirca Travaglio gesticolando al suo modo- se davvero non vi sono indagini. Il triangolo ora è completo. Ognuno ha fatto la sua parte: i giornalisti, i politici e i magistrati. Non resta che attendere gli sviluppi e i risultati di questo intreccio di iniziative, prima e dopo il voto referendario del 4 dicembre. Vedremo anche se la cassetta della posta, diciamo così, della Commissione antimafia rimarrà vuota. Ed eventualmente di che cosa si riempirà.

Vittorio Sgarbi: «Ma il vero spirito mafioso è quello di Bindi», scrive Giulia Merlo il 25 novembre 2016 su "Il Dubbio". "La presidente approfitta del suo ruolo per fini personali nella sua crociata contro Vincenzo, che peraltro considero un mio discepolo". «Rosy Bindi usa la commissione antimafia, approfittando del ruolo per fini personali nella sua crociata contro Vincenzo De Luca». Vittorio Sgarbi, grande estimatore del governatore della Campania, bolla così l'iniziativa della commissione antimafia di richiedere preventivamente informazioni urgenti alla Procura della Repubblica di Napoli in merito a eventuali indagini in corso contro "lo sceriffo". L'ennesimo capitolo del duro confronto tra De Luca e la commissione antimafia, iniziata nel 2015 quando il suo nome venne inserito nella lista dei 16 "impresentabili" alle elezioni regionali.

Professore, partiamo dalle dichiarazioni di De Luca che hanno acceso la polemica. Non le ha trovate un po' forti?

«Tutte cose già viste e sicuramente non tali da scandalizzare».

Eppure qualcuno si è scandalizzato ugualmente, non le sembra?

«Sono state parole provocatorie, un'arte che posso dire di aver insegnato io ai vari Francesco Cossiga, Silvio Berlusconi e Vincenzo De Luca. Li considero tutti un po' miei discepoli nel modo di essere delle voci fuori dal coro del politicamente corretto. De Luca è lo stesso che ha detto in televisione «Che vi possano ammazzare tutti» riferito ai 5 Stelle e anche lì si sollevò il putiferio. Dal mio punto di vista, essere estremi è tutt'altro che sconveniente».

Rientra nel personaggio, insomma. Eppure la mafia è un tema piuttosto serio...

«Anche a me è successo di essere indagato per mafia in Calabria: per questo considero intollerabile chi usa la mafia per attaccare gli onesti e per questo difendo Vincenzo De Luca, che mafioso non è».

Quindi come si spiega la decisione della commissione antimafia degli ultimi giorni?

«Me la spiego a partire dal fatto che è stata Rosy Bindi per prima, con quella sua lista degli impresentabili resa nota poco prima delle elezioni, a utilizzare per fini personali il sigillo dell'antimafia. Quella è stata un'azione autonoma tutta sua in quanto presidente, che la commissione non ha potuto che ratificare. E ora questo nuovo attacco».

Nel caso della lista degli impresentabili la reazione di De Luca fu tutt'altro che posata...

«Fu una reazione più che normale ad un'azione esecrabile».

Perché esecrabile?

«Perché la Bindi, con quella lista, approfittò del suo ruolo per appicciare addosso a De Luca un'etichetta che lo infangava. Un'azione violenta in piena regola: quello di Rosy Bindi sì è stato uno spirito mafioso, altro che De Luca».

Le ultime esternazioni del governatore della Campania, contro le quali si è sollevato praticamente tutto il mondo politico, sono state decisamente forti («Rosy Bindi è un'infame, da uccidere ndr). Anche queste rientrano nel personaggio?

«De Luca ha uno spirito colorito. Del resto non mi sembra che Beppe Grillo utilizzi termini più educati, quando dice che il premier è una «scrofa ferita» e molti altri appellativi che ha dispensato nell'arco degli ultimi anni. Rimane il fatto che il panorama politico italiano non è nuovo a voci dissacranti, per così dire. Le parole sono una cosa, le azioni come quelle della Bindi sono un'altra, soprattutto quando si usa la parola mafia e tutto ciò che evoca».

E veniamo quindi alla commissione antimafia. Trova che si sia mossa al di fuori del suo alveo di competenza?

«Io onestamente non so a che serva questa commissione antimafia, visto che si occupa solo di scontri politici interni che riguardano la presidente e per nulla di mafia. Mi piacerebbe capire dove hanno visto la mafia nelle esternazioni di De Luca, al netto del suo modo di esprimersi».

Il tutto nasce dalla denuncia di Luigi di Maio di questo supposto voto di scambio di De Luca, che avrebbe fatto pressioni sindaci campani perché facciano campagna per il sì al referendum per avere fondi in Campania.

«Ma che c'entra la mafia? La mafia è tutt'altro, quello che voleva dire De Luca è che i cittadini hanno bisogno di un riferimento politico. Le sue parole sono frutto di un suo modo di fare politica sul territorio e che di mafioso non ha assolutamente nulla».

E quindi la commissione antimafia che cerca?

«E' l'ennesima crociata personale di Rosy Bindi contro De Luca e io lo difendo totalmente contro questo utilizzo personale dell'antimafia. Le battaglie politiche si combattono in un altro modo».

Elogio del funzionario di partito, scrive Francesco Damato il 28 ottobre 2016 su “Il Dubbio”. Mi ricordo quando un certo Leonello Raffaelli, "burocrate" del Pci, senza titoli accademici, faceva tremare di paura i professoroni dell'economia. Oggi ci sono i Cinque Stelle perlopiù impreparati. Piero Sansonetti, commentando il progetto grillino del dimezzamento dell'indennità parlamentare, che peraltro non è il solo emolumento dei deputati e dei senatori perché ci sono altre voci di entrata, ha giustamente indicato nella demagogia "la forma peggiore e più rozza dell'opportunismo politico". Essa procura voti grattando gli umori più viscerali del momento. Nel caso dei grillini, o come diavolo preferiscono essere chiamati quelli del Movimento 5 Stelle, temo tuttavia che ci sia anche dell'altro, e non solo della demagogia. Poiché essi aspirano addirittura a governare da soli, cioè conquistando la maggioranza assoluta del Parlamento, mi preoccupa il tipo di Parlamento, appunto, che perseguono. E che dovrà riguardare anche la minoranza, o le minoranze. Un Parlamento fatto di candidati scelti col sistema delle primarie elettroniche, al computer, da poche migliaia o centinaia di adepti e poi eletti col sistema delle liste bloccate o dei collegi uninominali, che considero personalmente una variante, anche se più presentabile perché quanto meno l'elettore trova stampati i nomi sulla scheda. Sarebbe un Parlamento completamente docile al Grillo o al Casaleggio di turno, che peraltro può attrarre, per gli scarsi emolumenti assicurati, solo persone - diciamo la verità - senza grandi ambizioni e competenze. Persone che nei partiti normali, almeno quelli tradizionali di cui come giornalisti non più giovani eravamo - ahimè - abituati a interessarci, avrebbero potuto fare, al massimo, gli uscieri, i custodi, gli autisti, gli impiegati. Non certo i funzionari, dei quali confesso di avere sempre più rimpianto ad ogni rinnovo delle Camere, cioè a ogni abbassamento del livello dei loro componenti, come impietosamente ha osservato di recente il mio disincantato amico e professore Antonio Martino. Fra tutti i partiti, sempre quelli tradizionali, era il Pci il più abituato a ricorrere ai funzionari nella preparazione delle liste dei candidati, che comunque dovevano guadagnarsi, quanto meno alla Camera, i voti di preferenza. La disciplina di partito, certo, li aiutava ma non poteva bastare. Erano comunque funzionari - vi assicuro, da giornalista che non ha mai votato per il Pci - di tutto rispetto, che facevano la loro bella figura accanto ai parlamentari, diciamo così, eccellenti che il partito portava a Montecitorio e a Palazzo Madama, scegliendoli tra professori, intellettuali, avvocati eccetera. Erano funzionari selezionati con serietà, passati per scuole di partito dove la disciplina era superiore a quella delle scuole statali o private dove mandavamo i figli a studiare o eravamo passati noi stessi. Funzionari che individuavi subito, all'inizio di ogni legislatura, per il rispetto col quale accedevano alle istituzioni: altro che la sfrontatezza, la supponenza, l'aggressività, lasciatemelo dire, di tanti delle ultime legislature, specie l'ultimissima. Che per correre dalla buvette di Montecitorio all'aula dove sono in corso votazioni ti danno spintoni di tale forza da mandare a terra il telefonino o l'ipad che avevi in mano, e non si sentono nemmeno in dovere di chiederti scusa. Erano funzionari, infine, ai quali il partito poteva chiedere e ottenere di destinare buona parte dell'indennità al suo funzionamento. Fra tutti quei funzionari, che mettevano la loro qualifica orgogliosamente nella cosiddetta Navicella alla voce della professione, ne ricordo uno con particolare nostalgia: il toscanissimo Leonello Raffaelli. Era un mostro di bravura nel settore affidatogli dal Pci: quello economico e soprattutto fiscale. Vi erano eccellenti ministri delle Finanze, del Tesoro e del Bilancio, con nomi che da soli ti mettevano soggezione, terrorizzati però all'idea di dovere rispondere nelle varie commissioni, o aule, alle osservazioni o critiche di Raffaelli. Che entrava ogni giorno a Montecitorio di prima mattina con quattro, cinque giornali sotto braccio che aveva già letti. Diavolo di un uomo, non sono mai riuscito a pagargli un caffè alla buvette, dove spesso proseguivamo le chiacchierate cominciate nel cosiddetto Transatlantico. Mi diceva che non poteva farsi pagare una consumazione da un giornalista "borghese", pur spiegandomi che non lo dovevo prendere per un aggettivo offensivo. E così continuò a chiamarmi anche quando si accorse, piacevolmente, che ero un estimatore e amico di Aldo Moro: "borghese" pure lui, "senza offese", aggiungeva con un sorriso. A questo mondo e tipo di Parlamento i grillini pretendono di sostituirne un altro di pasta non solo demagogica, come la definisce il mio amico Piero Sansonetti, ma primitiva. Il buon Emanuele Macaluso ha ragione quando lamenta le difficoltà che mostra il Pd ad opporsi a quest'orgia di demagogia, anche se i piddini hanno appena avuto il coraggio di rimandare in commissione il progetto grillino. Ma ancor più mi ha stupito l'inseguimento dei pentastellati da parte dei forzisti, che anche per non abbandonare il fronte del no referendario alla riforma costituzionale, hanno votato con leghisti, destra e grillini, appunto, contro il rinvio del progetto in commissione. Lo spettacolo dei forzisti nell'aula di Montecitorio mi ha un po' ricordato quello di un telegiornale dell'allora Fininvest il cui direttore aveva mandato in postazione fissa, durante gli anni delle inchieste chiamate Mani pulite, davanti al Palazzo di Giustizia di Milano, un inviato. Che avendo alle spalle i tram che sferragliavano e gli coprivano la voce, elencava con compiacimento come bollettini di guerra gli avvisi di garanzia appena notificati o gli arresti appena eseguiti, e ne preannunciava di nuovi per le successive edizioni. Era una penosa rincorsa degli ammiratori di Antonio Di Pietro, di cui una volta mi lamentai con un pezzo da novanta dell'azienda sentendomi dire che era la bellezza di una televisione "popolare". Come le cosiddette democrazie dell'est che nel frattempo erano cadute.

Lo stipendio dei parlamentari e la demagogia pura e senza idee, scrive Piero Sansonetti il 27 ottobre 2016 su "Il Dubbio". I parlamentari italiani sono i più pagati d'Europa, ma medici, professori universitari, dirigenti della pubblica amministrazione, dirigenti della Rai e magistrati viaggiano sulle stesse cifre...È giusto dimezzare lo stipendio dei parlamentari? E potrebbe questa misura risolvere i problemi del costo eccessivo della politica, e di conseguenza rendere inutile la riforma costituzionale voluta da Renzi? Naturalmente mi riferisco alla proposta di legge avanzata dal gruppo di Cinque Stelle alla Camera e patrocinata direttamente e con grandi squilli di tromba da Beppe Grillo e da Marco Travaglio (manca stavolta il terzo abitué del trio, che è Matteo Salvini, il quale però probabilmente, se aderisse, si troverebbe contro tutti i parlamentari della Lega). Naturalmente la questione non è del tutto infondata. Abbiamo pubblicato ieri su questo giornale le tabelle dalle quali risulta che i parlamentari italiani sono i più pagati d'Europa. E dunque non ci sarebbe niente di male se si limassero i loro stipendi. Che attualmente si aggirano attorno ai 5500 euro netti al mese più un bel pacchetto di integrazioni e di rimborsi. Gli stipendi dei francesi, dei tedeschi, dei britannici sono decisamente più bassi, anche se un paragone è sempre difficile, perché il sistema dei rimborsi e dei servizi a disposizione è molto diverso da Stato a Stato, e solitamente è più vantaggioso nei paesi dove gli stipendi sono più modesti. E' giusto, allora, chiedere il dimezzamento degli stipendi dei parlamentari (e cioè una riduzione da 5500 a circa 2750 euro)? A me sembra di no. Per due ragioni. La prima è che un parlamentare, chiamato a svolgere un incarico delicatissimo, e cioè l'esercizio del potere legislativo, deve poter vivere godendo di una certa sicurezza economica. Si tratta di stabilire qual è il livello di questa sicurezza. Può darsi che sia - come propone Grillo - 2750 euro al mese, più le spese e i benefit, visto che molti lavoratori italiani vivono discretamente anche con stipendi più modesti. Bisogna però tenere conto anche del fatto che fare il deputato, per cinque o dieci anni, può significare l'abbandono della professione o del mestiere precedente, e la difficoltà, successivamente, a reinserirsi. Ma soprattutto bisognerà tener conto di un altro elemento: il livello degli stipendi degli altri funzionari dello Stato di "prima fascia": per esempio medici, professori universitari, dirigenti della pubblica amministrazione, dirigenti della Rai e magistrati. Sono andato a spulciare i loro stipendi. Ve li riporto tenendo conto solo dello stipendio lordo, perché è un dato più sicuro. Un deputato riceve un lordo di circa 140 mila euro all'anno. Un professore universitario (ordinario) tra i 50 e 60 anni, guadagna 120 mila euro. Un primario ospedaliero a tempo pieno 100 mila euro (ma può integrare con il lavoro privato intra-moenia). Un caporedattore o un alto dirigente della Rai, circa 140/150 mila euro (un vicedirettopre o un direttore, di più). Un magistrato con una discreta anzianità guadagna qualcosa più di 150 mila euro lordi all'anno. Sono stipendi eccessivi? Possiamo decidere di abbassarli. Di abbassarli tutti, però, tranne forse quello del medico, che francamente è piuttosto contenuto, soprattutto in relazione alla funzione sociale del medico. Tutti: non solo quelli dei deputati. Siamo d'accordo? Non mi pare però che esista un movimento di massa che chiede di abbassare gli stipendi dei magistrati o dei professori universitari o dei capiredattori della Rai. Il movimento di massa, largamente alimentato dai giornali e dal alcuni partiti politici, è sempre e solo rivolto alla "punizione" dei parlamentari, in quanto politici, e dunque in quanto responsabili di tutti i mali del mondo (ed effettivamente i politici sono responsabili di molti mali: non di tutti i mali, però). In larga misura la campagna contro gli stipendi dei deputati è guidata da giornalisti che guadagnano molto di più dei deputati stessi, e che trovano indecenti le paghe dei deputati e assolutamente dignitose, invece, le loro paghe milionarie. E' questo livello altissimo d'ipocrisia che mi colpisce. La richiesta di ridurre le paghe dei deputati, a occhio e croce - almeno, nel sentimento popolare - è alimentato da una passione in qualche modo egualitaria, o comunque da una spinta alla equità sociale. La domanda popolare è: perché un deputato deve guadagnare più del doppio, o del triplo di quello che guadagno io? Non si capisce però il motivo per il quale questa spinta egualitaria si realizza solo nei confronti dei politici. Il motivo in realtà è semplicissimo. Si definisce con una parola di origine greca: "demagogia". La demagogia è un fenomeno politico che è sempre esistito, e che -in una certa misura - sempre esisterà ed è giusto che esista. Specie nei partiti popolari la demagogia fa parte di una tecnica di comunicazione, di consolidamento del consenso, di definizione del senso di appartenenza che non può essere cancellata. Il problema è se la demagogia è accompagnata da una linea politica, da una idea di società, o se è pura e semplice tecnica, spinta fino all'esasperazione, e dominata dal culto dell'ipocrisia. In quel caso la demagogia non è più un propellente per la lotta politica, ma diventa un surrogato della lotta politica, utile solo a impedire ogni cambiamento, e utile a mascherare un deficit di pensiero politico. La demagogia pura è la forma peggiore e più rozza dell'opportunismo politico.

DUE PESI E DUE MISURE.

Tra pugni chiusi e saluti romani, scrive Luigi Iannone il 17 marzo 2017 su “Il Giornale”. Mettere a ferro e fuoco una città, devastare parchi pubblici, fare danni ad auto parcheggiate e a vetrine di privati negozi, per impedire ad un leader politico nazionale (Matteo Salvini) di incontrare al chiuso di un teatro iscritti e simpatizzanti, e oltretutto farsi furbescamente fomentare dal masaniello di turno che, di solito, a Napoli viene pure eletto sindaco, è spettacolo urticante. Osservare ventenni impettiti nel mostrare il pugno chiuso, forti di simboli e slogan che definirli antichi è puro eufemismo, significa mettere in scena per una platea nazionale una disperazione culturale e sociale che è loro ma indirettamente anche nostra. Perché non vi è alcuna strategia in quelle proteste se non millantare uno spirito ribellistico sistemato in bella vista a beneficio di fotografi e telecamere e, in realtà, utile paravento per sbraitare una serie infinita di luoghi comuni che si mescolano a straripante vigliaccheria. Innanzitutto perché questi rivoluzionari da week end celano il volto sotto caschi da motociclisti. E poi perché tanto pusillanimi quanto i loro avi che infestarono le nostre città negli anni settanta, ma ancor più vili e impalpabili, in quanto partigiani di una proposta politica inesistente. Una lotta vetusta sotto ogni profilo e anche strabica visto che, esattamente 24ore dopo, i bus e la metro di Napoli si sono fermati per uno sciopero durato tutta la giornata e indetto da varie sigle sindacali. Cittadini imbufaliti per i disagi e caos urbano mentre agli atti non risulta nemmeno un flebile ed evanescente comunicato dei Centri sociali, un pallido riverbero di lotta di questi sedicenti comunisti del Vomero o di Via di Mille; nulla di nulla. Perché il nemico è sempre un altro, quello ideologico. Tuttavia è un garbuglio nazionale dove resta però inalterato un assioma, quello dei due pesi e delle due misure rispetto agli opposti estremismi, o finti tali. Lo dimostra il fatto che nella stessa giornata, sul fronte giudiziario romano, prendeva contemporaneamente forma la confessione di Salvatore Buzzi in merito alle losche trame su cui si sarebbe organizzata ‘Mafia capitale’. Dichiarazioni che, certo, dovranno essere avvalorate da prove e riscontri visto che i soggetti in questione sono pure facili alla millanteria ma che, tuttavia, dal punto di vista della gravità rappresentano (e rappresenteranno) pur sempre un pugno nello stomaco per chi volesse dipanare una ad una le vicende capitoline dell’ultimo decennio. E invece cosa accade? Accade che il ‘compare’ di Buzzi, Massimo Carminati, collegato in video conferenza, faccia un saluto romano in direzione della telecamera e nel volgere di pochi minuti, siamo invasi da articoli e approfondimenti sull’estremismo di destra, sulla Banda della Magliana, sul neofascismo, sulla strategia della tensione, su Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, financo sul razzismo strisciante e sul populismo. Sì, finanche sul populismo. Riparte cioè quel vortice irrefrenabile di castronerie in parte storiografiche, ed alcune anche politiche, che di fronte ad episodi di poco peso sembra invece spingerci indietro in una spirale soffocante e spietata. Siamo consapevoli che, per molti, l’esegesi del radicalismo di destra è stato solluchero irrinunciabile; anzi, forse, non ha mai cessato di esserlo perché rappresenta fonte di guadagni professionali. E infatti ‘ospitate’ televisive e libri sul tema non mancano mai. Eppure, il gesto di Carminati, pur nel contesto di una inchiesta enorme per dimensioni e livelli di corruttela, sta ottenebrando ogni altra analisi imponendo sulla scena consumati commedianti pronti a rammentare a tutti noi il pericolo di un fascismo da terzo millennio quando invece trattasi solo di anticaglie varie. Basterebbe ripetere loro che Carminati faceva affari criminali. Punto. Senza far prevalere i mille rivoli sociologici di una operazione goffa ed anche capziosa. Perché ritorniamo sempre indietro nel tempo, a due pesi e due misure per fatti che hanno in tutta evidenza ripercussioni diverse. Da una parte c’è infatti la vicenda ‘Napoli’ che per l’ennesima volta mostra l’esistenza di un vasto fronte cultural-ideologico capace di emergere periodicamente da cavità carsiche, perché può godere di consensi da parte di intellettuali e pennivendoli di varia natura; dall’altra, la questione ‘Roma’, dove un enorme giro di affari e comprovato malcostume pubblico e privato vengono depotenziati della loro carica sociale esplosiva per far posto ad uno che, pur accusato di una serie infinita di reati gravi, ritorna agli onori della cronaca recente perché in cella fa il saluto romano.

Niente a me; niente a nessuno.

Beppe Grillo non si candida: "Io sono un delinquente". Il leader del M5S non vuole andare in parlamento perchè è stato condannato a 14 mesi per omicidio colposo, scrive il 21 novembre 2012 "Libero Quotidiano". Beppe Grillo è chiaro: "Io in parlamento non ci vado". In tanti glielo chiedono. Anche ad Aosta dove è andato nei giorni scorsi per dire no alla costruzione di un pirogassificatore. Ma lui resiste alla tentazione e non vuole cedere. A chi gli chiede il perchè risponde secco: "Sono pieno di carichi pendenti, sono un delinquente". Il leader del movimento cinque stelle è molto coerente con la suo credo ideologico. Chi è stato condannato non può essere eletto. Grillo quando si definisce un "delinquente", si riferisce 'alla condanna a 14 mesi di carcere (con la condizionale) per omicidio colposo relativa all'incidente d'auto nel quale, il 7 dicembre 1981, persero la vita due amici del comico, di 45 e 33 anni, e il loro figlio, di 9. Beppe non "vuole diventare come tutti gli altri". E su chi ha la tentazione di aggirare le regole del movimento Grillo ammonisce: "Dopo due mandati non ti puoi ricandidare. Queste sono le nostre regole. Se non ti stanno bene vai nel Pd o nel Pdl, mica ti tratteniamo qui". Grillo sempre da Aosta parla del futuro e delle prossime elezioni politiche: "I candidati del M5S saranno scelti online fra una lista di 1600 persone. Dobbiamo andare in parlamento perchè la politica di oggi si è divorata due generazioni. Non possiamo togliere il futuro ai nostri figli. Dobbiamo farlo per loro. E ai poliziotti che picchiano i ragazzi che sono il nostro futuro dico di smetterla ancora una volta di manganellare. Vengano con noi. Non possono andarci di mezzo sempre studenti, agricoltori, pescatori, e lavoratori". Peccato che a tenere spranghe e pietre in mano da lanciare verso le forze dell'ordine per le strade non si è visto nessun nostromo e nessun contadino. 

Un paese con un minimo di serietà, avrebbe già fatto scontare ad un soggetto del genere almeno cinque anni di carcere. Non è solo un pluriomicida colposo, ma un diffamatore seriale. CAUSE, REATI E CONDANNE.

Nel pomeriggio del 7 dicembre 1981 Beppe Grillo perse il controllo di un fuoristrada Chevrolet K5 Blazer mentre percorreva la strada militare, chiusa al traffico, che da Limone Piemonte porta sopra il Colle di Tenda. Il veicolo, sei chilometri dopo "Quota 1400" vicino al confine con la Francia, scivolò su un lastrone di ghiaccio e cadde in un burrone profondo ottanta metri. A bordo con Grillo c'erano quattro suoi amici genovesi, con i quali stava trascorrendo il fine settimana dell'Immacolata. Grillo si salvò gettandosi fuori dall'abitacolo prima che l'auto cadesse nel vuoto e, contuso e in stato di choc, riuscì a chiamare i soccorsi. Tre dei suoi amici rimasti nell'auto persero la vita. In appello il 14 marzo 1985 Grillo fu condannato per omicidio colposo a quattordici mesi di reclusione con il beneficio della condizionale e della non iscrizione. La condanna fu resa definitiva dalla IV sezione penale della Corte Suprema di Cassazione l'8 aprile 1988.

Nel 2003 Grillo patteggiò una causa per diffamazione aggravata intentata contro di lui da Rita Levi-Montalcini. Durante uno spettacolo, Beppe Grillo l'aveva definita "vecchia p u t t a n a", sostenendo che avesse ottenuto il Premio Nobel per la medicina grazie a una ditta farmaceutica che le aveva comprato il premio.

Nel 2012 in appello Grillo è stato condannato per aver diffamato a mezzo stampa la Fininvest in un suo articolo pubblicato nel 2004 sulla rivista Internazionale. Il risarcimento del danno patrimoniale, pari a 50.000 euro, oltre alle spese processuali, è stato stabilito dai giudici della prima sezione della corte d'appello del tribunale di Roma.

Nel settembre 2013 Grillo viene condannato in Corte di cassazione per avere diffamato l'ex sindaco di Asti, e parlamentare per Forza Italia, Giorgio Galvagno. Nel 2003, Grillo aveva definito l'ex primo cittadino "un tangentista", durante uno spettacolo al Teatro Alfieri di Asti. Grillo dovrà versare a Galvagno 25.000 euro e gli interessi a partire dal 2003, come risarcimento del danno, oltre al risarcimento per le spese legali.

Il 12 dicembre 2013 Grillo è stato condannato dal Tribunale di Genova in primo grado per diffamazione nei confronti di Antonio Misiani, in qualità di tesoriere del Partito Democratico. Nel maggio 2012 Grillo pubblicò sulla prima pagina del proprio blog un mosaico di immagini con fotografie in stile foto segnaletica degli amministratori di PdL (Rocco Crimi), PD (Antonio Misiani) e UDC (Giuseppe Naro), insieme con quelle degli ex di Lega Nord (Francesco Belsito) e Margherita (Luigi Lusi). Il giudice ha riconosciuto a titolo provvisorio un risarcimento di € 25.000 in favore di Misiani e un risarcimento in favore del Partito Democratico di € 5.000.

Il 14 settembre 2015 Grillo è stato condannato, in primo grado, dal Tribunale di Ascoli Piceno per diffamazione aggravata nei confronti di Franco Battaglia, professore dell'Università di Modena. La condanna consiste in un anno di reclusione con pena sospesa, 1.250 € di multa e una provvisionale di 50.000 € alla parte offesa. In quell'occasione, Grillo si paragonò a Nelson Mandela e a Sandro Pertini. 

Beppe Grillo - Wikipedia.

-"Inoltre Grillo si avvalse del condono fiscale del 2003 promosso dal governo Berlusconi e da lui più volte criticato in quanto premiava gli evasori".

-L'11 dicembre 2013 il quotidiano Libero in un articolo: due ville di Grillo sono inquadrate in categorie catastali errate, consentendogli risparmi sulla tassazione. In particolare: villa di 24 vani, 2 piscine e spazi esterni ubicata nella collina di Sant'Ilario, riferisce il giornalista, ha la categoria catastale A/7 (villino) in luogo di A/8 (villa). Lo stesso per un'altra sua villa in Marina di Bibbona da 21 vani, piscina e 5.600 metri quadrati di terreno oltre a una rimessa per barche di 70 metri quadrati, anch'essa con categoria catastale A/7".

Lotti si salva e accusa: «Il vero obiettivo è Renzi», scrive Giulia Merlo il 16 Marzo 2017. Sfiducia non passa, 161 voti contrari, 52 a favore (Sinistra italiana, Lega e Movimento 5 Stelle), gli altri gruppi escono dall’Aula. Renzi che non ha rinunciato ad una stoccata a Beppe Grillo e al M5s: "Non sto in un partito guidato da un pregiudicato, io ai miei principi ci tengo. Io ho una fedina penale diversa da Beppe Grillo". Lo ha detto l'ex premier Matteo Renzi, ospite di "Otto e mezzo", su La7 il 2 marzo 2017 commentando l'inchiesta Consip che vede coinvolto il padre Tiziano. "Io sto dalla parte dei magistrati anche quando c'è di mezzo mio padre". "Non accettiamo lezioni di moralità da un movimento fondato da un pregiudicato - aveva duramente detto il ministro Luca Lotti nel suo intervento difensivo -. Le forze politiche che chiedono un mio passo indietro sono culturalmente subalterne e politicamente scorrette. È in atto un tentativo di colpire me non per quello che sono, ministro dello Sport, delega preziosa e cruciale di cui ringrazio Gentiloni e Mattarella, ma per quello che nel mio piccolo rappresento: si cerca di mettere in discussione lo sforzo riformista di questi anni cui ho preso parte partendo da Firenze. Non si può cercare di liquidare quell'esperienza attraverso la strumentalizzazione di un'indagine giudiziaria che farà il suo corso". «Culturalmente subalterne e politicamente scorrette», così il ministro Luca Lotti ha definito le forze politiche che hanno chiesto la sua sfiducia, a partire dal Movimento 5 Stelle. Un tentativo a vuoto, in un’Aula gremita durante il dibattito e vuota durante la votazione perchè molti gruppi parlamentari hanno deciso di non rispondere alla chiama, terminata con 161 voti contro e 52 a favore, che blindano lo scranno del ministro. Lotti, circondato da quasi tutti i ministri del governo Gentiloni, ha parlato pochi minuti in un intervento tutto all’attacco: «Va respinta la voglia di trasformare quest’Aula in una gogna mediatica», e ancora «questo è un tentativo di colpire non me, ma quello che io nel mio piccolo rappresento: si vuole mettere in discussione lo sforzo progressista di questi anni». Nelle quattro pagine lette al termine delle due ore di dibattito, Lotti ha dedicato un solo passaggio all’inchiesta Consip, nella quale è indagato per rivelazione del segreto d’ufficio: «Non ho mai avvisato Marroni, nè ho passato informazioni riservate, chi sostiene il contrario dice una bugia». Nulla di più, nulla di meno. Poche battute per rispondere al durissimo intervento della senatrice 5 Stelle Paola Taverna, che ha spiegato i termini della mozione di sfiducia presentata dai grillini e teorizzato «un vero e proprio “sistema Renzi”: al centro di questa storia c’è Romeo che ha finanziato legalmente un po’ tutti, ma il nome di Lotti lo fanno due del “giglio tragico”. Qui si sta difendendo non solo un ministro, si sta blindando il fedelissimo di Renzi». Per la senatrice, infatti, «Il tema non è l’avviso di garanzia ma la gravità delle accuse, e per capirlo non abbiamo bisogno di aspettare le sentenze della magistratura: un principio che noi abbiamo fatto nostro nel Codice etico del Movimento». Parole pesanti, che hanno suscitato proteste dai manchi del Pd e bollate come «argomentazioni vouyeristiche» dal senatore di Ala, Ciro Falanga, che ha sbottato: «Siamo in un’aula del Parlamento, non di giustizia e questo è un caso fondato sulla violazione del segreto istruttorio, diventato ormai il segreto di pulcinella: qui è in gioco l’equilibrio tra poteri dello Stato». La parola che ha fatto da filo conduttore a tutti gli interventi, però, è stata «garantismo». Evocato da Gaetano Quagliariello di Area popolare come un «principio che vale sempre, per ogni ministro, e non subordinato alle convenienze del momento», ma anche da Miguel Gotor di “Articolo 1 – Movimento democratici progressisti” (gruppo che ha presentato una autonoma mozione per sospendere le deleghe a Lotti) particolarmente aspro nei confronti del suo ex compagno di partito. «Quello del Pd è un garantismo alla carta, una mera condotta opportunistica da utilizzare solo nel caso di amici potenti e compagni di partito», ha attaccato Gotor, ricordando che i ministri De Girolamo, Lupi e Guidi furono «costretti a dimettersi senza essere stati indagati, su richiesta di Renzi per ragioni di stile e opportunità». Ancora diversa la posizione del senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, che ha evocato il suo passato recente: «Anche io sono stato indagato per le stesse ragioni dallo stesso pm, Woodcock, tutto si conclude in un nulla. Noi siamo garantisti da sempre pure se avremmo forse meno ragioni per esserlo, visto il trattamento ricevuto da Silvio Berlusconi, ma voi avete commesso errori di presunzione». A difendere la posizione del ministro, dai banchi della maggioranza del Partito Democratico, è intervenuto il conterraneo Andrea Marcucci, che ha stigmatizzato la «furia giustizialista» dei 5 Stelle, perchè «un avviso di garanzia non può diventare una gogna mediatica e politica. Noi voteremo no contro questa strumentale mozione di sfiducia voluta da Beppe Grillo e dal suo blog». Al termine di una seduta incandescente, tuttavia, la novità di giornata non è il già anticipato salvataggio di Lotti, ma la formazione di un inedito fronte di Movimento 5 Stelle, Lega Nord e Sinistra Italiana.

Lotti si salva grazie anche a Verdini. Bocciata la mozione presentata dai Cinque Stelle. Ma il voto di Ala imbarazza il Pd. Il ministro interviene in aula e contrattacca: “Si vuole colpire una stagione politica”. Nell’aula del Senato in dibattito sulla sfiducia individuale al ministro dello Sport Luca Lotti si è svolto senza particolari tensioni nonostante alcuni interventi molto duri, scrive Ugo Magri il 16/03/2017 su “La Stampa”. La mozione grillina contro Luca Lotti non ha travolto il ministro, come era facile scommettere. Il braccio destro di Renzi ha raccolto al Senato perfino più fiducia di quanta ne potesse desiderare: 161 voti, oltre la maggioranza assoluta, solo 52 sì. Se fossero stati 14 sostenitori in meno non gli sarebbe dispiaciuto. Il Pd infatti ha tentato di convincere i verdiniani che del loro apporto non ci sarebbe stato bisogno, dunque meglio avrebbero fatto a scomparire per ragioni estetiche (Verdini si è ritagliato un ruolo pure nella vicenda Consip). Ma è stato tutto inutile: invece di uscire dall’aula, come ha fatto Forza Italia nel nome del garantismo, il gruppo di Ala ha manifestato aperto sostegno al titolare dello Sport, che si è difeso nel suo discorso con passione, respingendo l’accusa di avere messo sul chi vive gli indagati. Porterà in Tribunale chi lo ha calunniato, promette. Proprio ieri suo figlio ha compiuto 4 anni, e difendersi in Senato (ha voluto far intendere) non è stato il modo migliore per festeggiare. 

Lo scontro con Gotor. Chi s’immagina un duello vibrante, gonfio di pathos e dai toni elevati, sbaglia di grosso. Gentiloni non c’era perché impegnato a Pistoia «Capitale della cultura». Idem la Boschi. Padoan si è affacciato all’inizio ma poi, evidentemente, aveva altro da fare. Emiciclo pieno, molti sguardi per la ministra Lorenzin con spolverino giallo, per la Cirinnà tutta in rossa, per la Pelino borchiata d’oro. Proteste e ironie dai banchi Pd quando la grillina Taverna ha tirato in ballo le indennità che i senatori perderebbero se cadesse il governo. I Cinquestelle hanno messo a segno alcuni colpi facili, ma pure loro ne hanno incassati per via della Raggi, del loro codice etico e delle disgrazie penali di Grillo, che Lotti si è spinto a bollare come «un pregiudicato» (sui banchi M5S qualcuno faceva gestacci del tipo «dopo vengo e ti sistemo io»). Si è celebrato il trionfo dell’ipocrisia, Pd e M5S impegnati a rinfacciarsi la doppia morale del giustizialismo nei confronti degli avversari, e del garantismo peloso quando i pm indagano gli amici. Per cui a conti fatti non è semplice stabilire chi le abbia buscate di più. Idem per quanto riguarda l’altro duello pieno di rancore tra il Pd e quelli che se ne sono appena andati. 

Tra Pacciani e Cutugno. Come se mai fossero stati insieme nello stesso partito, il bersaniano Gotor ha consigliato a Lotti di dimettersi, o perlomeno di restituire le deleghe in campo economico. L’attacco è stato condito con velenosi riferimenti al «familismo amorale» renziano, al «groviglio di potere» cresciuto a Rignano sull’Arno, al «giro tosco-fiorentino degli “amici miei” in salsa governativa» (i leghisti, meno raffinati, hanno evocato addirittura il Mostro di Firenze). Mentre Gotor parlava, dai banchi del governo partivano sguardi carichi di odio verso l’esponente di Mdp. Ha provveduto più tardi Marcucci a bastonarlo, denunciandone «lo spirito vendicativo, provocatorio, insoddisfatto e minaccioso». Ma tanto è bastato per scatenare l’ironia di Gasparri, berlusconiano. «Eravate venuti da Firenze a miracol mostrare», si è rivolto ai renziani, «ma non avete innovato un bel tubo. Bervenuti nell’Italia di Toto Cutugno».

Svolta forcaiola dei bersaniani per mettere al tappeto Renzi. Garantisti con Errani, ora i fuoriusciti ex Pd diventano giustizialisti con Lotti. E Pisapia rifiuta le loro avance, scrive Laura Cesaretti, Mercoledì 15/03/2017, su "Il Giornale". Garantisti sì, ma solo a casa propria. Gli altri, in galera. Soprattutto se gli altri erano - fino a due settimane fa - i compagni di partito. La triste parabola dei fuoriusciti Pd capeggiati da Bersani e D'Alema si riassume in due nomi: Vasco Errani e Luca Lotti. Quando l'allora presidente della regione Emilia Romagna (nonché testa pensante della segreteria Bersani), venne indagato e poi rinviato a giudizio per il caso Terremerse, l'ex segretario lo difese a spada tratta, si oppose ad ogni idea di dimissioni e ricordò solenne che «un avviso di garanzia è solo un atto a tutela di un indagato». A Errani, Bersani volle pubblicamente esprimere «solidarietà e fiducia», dicendosi certo che «avrà sicuramente l'occasione per dimostrare l'inconsistenza delle accuse». E diede un mandato preciso al Pd emiliano: altro che dimettersi, «Errani deve comunque portare a termine il suo mandato: parlare di dimissioni è irresponsabile e destabilizzante, e non è neppure in buonafede», come spiegò il capogruppo in Regione dopo consultazioni al Nazareno. Errani poi venne condannato, si dimise (e Matteo Renzi, nel frattempo diventato segretario, lo pregò di restare al suo posto), e infine venne assolto. E Bersani spiegò che - anche se lo avessero condannato - «persino nella valle di Giosafat, non avrei mai creduto alla sua scorrettezza». Altri tempi. Ora, invece, per i quattro gatti che hanno seguito Pierluigi Bersani fuori dal Pd tutto è cambiato. Reclamano a gran voce le dimissioni di Lotti (che è solo indagato) per «tutelare l'immagine del governo», e presentano una mozione per ottenere che il premier gli tolga a scatola chiusa tutte le deleghe. Il loro portavoce Miguel Gotor, con mirabile sprezzo del ridicolo, argomenta: «Non c'è bisogno di attendere il lungo corso della giustizia per ricavare il convincimento che la vicenda Consip rivela uno stile di gestione del potere di carattere familistico». Chi se ne frega dei processi, insomma: Dp ha già emesso la sua sentenza, Lotti è colpevole per ragioni di «stile». E Gotor svicola così al parallelo sul caso Errani: «Lotti prenda esempio da Errani, farebbe un servizio all'Italia e alla dignità della politica». Peccato appunto che Errani, blindato dal capo di Gotor in nome di un garantismo rapidamente dimenticato, non si dimise affatto per l'avviso di garanzia, né per il rinvio a giudizio: si dimise nel 2014 dopo la condanna in secondo grado. Ma quel che vale per Errani non vale per Lotti, nel magico mondo bersaniano. E del resto la stessa musica viene suonata un po' più a sinistra, lì dove i vendoliani che ora invocano la sfiducia e le dimissioni di Lotti non aprirono bocca quando Nichi Vendola fu indagato e rinviato a giudizio per disastro ambientale. Ma si sa, quel che vale per sé stessi non deve valere per gli altri. Curioso però che i bersanian-dalemiani, tanto accaniti nell'inseguire Lotti coi forconi, oggi annuncino di voler uscire dall'aula quando si voterà la mozione di sfiducia M5s. Ma c'è da capirli: se per un tragico pasticcio la mozione dovesse passare, rischierebbero di ritrovarsi disoccupati anzitempo. Meglio evitare, coi tempi che corrono. Anche perché il futuro è molto incerto: Bersani, per rimediare un po' di posti in lista, ha provato a salire sul carro di Pisapia, proponendogli tentatore un «ticket» con lo smagliante Roberto Speranza. Ma ieri, dal pranzo (chiuso ai bersaniani) tra l'ex sindaco di Milano e alcuni ex Sel, è trapelato che - poco sorprendentemente - Pisapia non ci pensa per niente: «Ma quale ticket, l'ipotesi non esiste», spiegano i commensali.

La senatrice Pd Capacchione: "Su Minzolini era tutto molto vago e confuso, ho votato nel merito. Invidio le certezze di Di Maio". Intervista del 16/03/2017 su "L'Huffingtonpost.it" Gabriella Cerami.

“Io non aiuto nessuno, né Augusto Minzolini né qualcun altro. Penso però che le questioni di giustizia debbano rimanere al riparo da fattori esterni ed attenere solo a una questione di coscienza. Quindi ho votato nel merito”. Rosaria Capacchione è tra i 19 senatori Pd che hanno votato insieme a Forza Italia per respingere la deliberazione della Giunta per le Immunità che nel luglio scorso aveva dichiarato decaduto l'ex giornalista dal mandato di parlamentare perché condannato per peculato con sentenza passata in giudicato. La senatrice dem, attaccata duramente da Luigi Di Maio, in un’intervista con l’Huffpost replica all’esponente grillino: “Il Movimento 5 Stelle è garantista con i suoi e giustizialista con gli altri. Forse dovrebbe leggere bene la riforma del processo penale”.

Senatrice Capacchione, come mai ha votato insieme a Forza Italia per “salvare” Augusto Minzolini dalla decadenza? I 5Stelle parlano di uno scambio: ieri FI ha votato contro la sfiducia al ministro Luca Lotti e voi oggi a favore di un loro senatore.

“Io avrei votato in questo modo a prescindere dalle indicazioni Pd, che poi giustamente ha lasciato libertà di coscienza e infatti ognuno si è espresso in modo diverso: c’è chi ha votato a favore della decadenza, chi contro, chi si è astenuto e chi è uscito dall’Aula. A dimostrazione che non c’è stato alcunché di concordato. Da parte mia non c’è stata una ragione umanitaria, ma ho valutato nel merito”.

Cosa ha valutato?

“Io sono in commissione Giustizia. Ieri mattina abbiamo votato con la fiducia la riforma del processo penale che contiene una modifica del codice di procedura penale. Modifica cioè le modalità del dibattimento in Corte d’appello. Quando si fa il processo d’appello se un giudice pensa di sovvertire il primo grado di giudizio, ad esempio condannare invece di assolvere, adesso si ha l’obbligo di rinnovare il dibattimento. Minzolini è stato assolto in primo grado e condannato in appello senza che venisse rinnovato il dibattimento. Dunque io ho un problema serio di coscienza perché ieri mattina ho votato la riforma del processo penale che vieta che questo possa accadere, a prescindere dal merito se è colpevole o innocente”.

Quindi si è espressa in linea con la riforma del processo penale e non con ciò che prevede la legge Severino.

“Oggi la Cassazione, dopo l’approvazione della riforma del processo penale, avrebbe avuto l’obbligo di annullare la sentenza di condanna perché non c’è stato un rinnovato dibattimento. Ma non so se i 5Stelle hanno letto la riforma del processo penale”.

La legge Severino prevede la sospensione di un parlamentare dopo il primo grado di giudizio. A questo punto bisogna rimettere in discussione la legge?

“Infatti, con i tempi della giustizia in Italia tra la condanna in primo grado e l’assoluzione in appello possono anche passare dieci anni e non si può chiedere a una persona si sospendersi. Bisogna capire bene cosa fare. La legge Severino è una norma regolatrice della politica, poi ci sono i partiti con il loro codice etico e se un politico ha commesso un certo tipo di reato non dovrebbe essere candidato”.

Adesso Forza Italia chiede una riflessione sul caso Berlusconi e sulla decadenza, votata sempre dal Senato, dell’ex premier.

“Le mie personalissime valutazioni di oggi non hanno a che vedere con Berlusconi e tutto il resto. Io ho votato la decadenza di Berlusconi, ma stiamo parlando di un altro tipo di reato, il paragone dal mio personale punto di vista non è fattibile. Su Minzolini era tutto molto vago e confuso. Io sono molto poco politica, i retropensieri non ce li ho, come credono invece i 5Stelle”.

Di Maio si è detto sorpreso dal suo voto essendo stata una giornalista antimafia. Cosa gli risponde?

“Beato lui che sulle questioni di giustizia ha tutte queste certezze. Non mi offendo e non vogliono scendere in polemica con Di Maio, lasciamo stare, non lo trovo utile”.

"Io vittima di un'ingiustizia vi racconto il mio calvario". Il senatore: "Chi mi ha condannato è stato prima avversario politico. Bevo la cicuta e mi dimetto", scrive Augusto Minzolini, Venerdì 17/03/2017, su "Il Giornale". Alla fine di questo calvario, una premessa mi è d'obbligo. Io sono convinto che la battaglia che ho intrapreso vada al di là della mia persona. Sono persuaso che certe incongruenze, contraddizioni, meccanismi infernali, che spesso emergono nel nostro sistema giudiziario, rappresentino l'occasione per fare il punto sulla condizione della giustizia e della democrazia nel nostro paese. Proprio per questo dico fin d'ora che, qualunque sia l'esito del voto, un attimo dopo rassegnerò le dimissioni da senatore. Dopo, però, non prima: perché voglio, appunto, che il Senato si esprima su un caso che io considero, con tutto il rispetto che posso avere per la magistratura, una grande ingiustizia. Non per nulla, io continuerò a combattere la mia battaglia su questa vicenda in tutte le sedi. In Italia e in Europa.

LA STORIA. Io penso di essere vittima di una vicenda kafkiana. Arrivo in Rai nel giugno del 2009, dopo aver lavorato 30 anni in aziende private: l'agenzia Asca; Panorama; La Stampa. Accettai uno stipendio inferiore a quello del mio predecessore, Gianni Riotta, ma posi come condizione quella di poter continuare la mia collaborazione con Panorama: volevo dire la mia, al di fuori del Tg che avrei diretto. Prima mi fu detto di sì, poi il presidente della Rai di allora, Paolo Galimberti, si oppose. Mi mandò una e-mail in cui mi diceva che «era eticamente (oltre che contrattualmente) incompatibile che io continuassi». A quel punto io posi la questione della carta di credito. Dissi all'allora direttore generale Masi che volevo una carta di credito, esattamente come quella di cui disponevo a La Stampa, da inviato speciale. Ripeto da inviato speciale non da direttore: stesso budget; stesse regole, tra le quali quella di non dover indicare i nominativi delle persone incontrate o invitate (per ovvie ragioni di riservatezza delle mie fonti). La trattativa si chiuse. Per 18 mesi andò avanti tutto come previsto. A giugno del 2010 Masi inviò una circolare nella quale era previsto che le spese prive dei beneficiari dovessero essere sottoposte all'approvazione del direttore generale: avendo io l'accordo di cui vi ho parlato, pensavo di esserne dispensato. Continuò a non esserci nessuna contestazione sulle mie note spese. Nessuno mi disse niente di questo problema fino a quando uno dei consiglieri di amministrazione, Rizzo Nervo, non pose la questione al direttore generale Masi. Il quale non avendo le idee chiare in testa - in Rai capita spesso - farfugliò e si contraddisse. In due lettere diede due risposte diverse: nella prima, indirizzata a Nervo, definì la carta un «benefit compensativo» in cambio dell'«esclusiva»; nella seconda, al sottoscritto, cambiò la natura della carta in una sorta di «facility», sostenendo che tra me e l'azienda fosse insorta un'incomprensione di natura amministrativa e, riconoscendo la mia buona fede, mi chiese di reintegrare le somme. Sia pure indignato, decisi di ridare indietro all'azienda tutta la somma in questione e comunicai che mi sarei rivolto al giudice del lavoro. Restituii le somme ancor prima che ricevessi l'avviso di garanzia per peculato, per una questione di orgoglio: essere accusato di aver sperperato soldi pubblici la reputavo, e la reputo, un'offesa. Peccando d'ingenuità, ero convinto che la vicenda si fosse chiusa lì.

IL PROCESSO E L'ASSOLUZIONE. Nel frattempo un esposto presentato dall'onorevole Antonio Di Pietro aveva messo in moto la procura di Roma. Dalle indagini non emerse una prova, un episodio, una testimonianza, da cui si potesse dedurre che fossi andato a cena per fatti miei privati. Anzi, il 26 aprile del 2011 il consiglio dell'Ordine dei giornalisti archiviò la vicenda all'unanimità. Stessa cosa fece la Corte dei Conti, il 6 dicembre 2011, ma due mesi prima il Gup di Roma mi aveva rinviato a giudizio. Il processo di primo grado durò poco più di un anno. Il pm cominciò la sua requisitoria, avvertendo che non c'era una prova diretta di quell'illecito. Non c'era la cosiddetta «pistola fumante». Il processo si concluse con l'assoluzione. Pensai che il mio calvario fosse finito, invece, stava appena cominciando.

L'APPELLO E LA CONDANNA. Il 27 ottobre del 2014, ci fu l'appello. Senza riaprire l'istruttoria, assumere nuove prove, raccogliere nuove testimonianze o riascoltarmi, la sentenza di assoluzione viene ribaltata. Di più, il tribunale va oltre le richieste dei pm: mi condanna a due anni e sei mesi e all'interdizione dai pubblici uffici per lo stesso periodo della pena. Insomma, è una sentenza che mi consegna all'oblio. Resto esterrefatto. Non mi riconosce neppure l'attenuante della restituzione dei soldi che io ridiedi alla Rai addirittura prima di ricevere l'avviso di garanzia. La mia colpa sarebbe stata quella di non aver calcolato i danni. Ma come avrei potuto farlo? L'azienda all'epoca non me li chiese. Senza contare che, successivamente fui assolto in primo grado e il giudice del lavoro costrinse la Rai a ridarmi i soldi. E, paradosso nel paradosso, dopo che con la condanna definitiva ho di nuovo ridato i soldi all'azienda, quest'ultima non mi ha chiesto i danni.

I DUBBI SULLA SENTENZA. Resto sconvolto. Non mi do pace. Comincio ad analizzare quanto è avvenuto con lo stato d'animo di chi si sente tradito dalla giustizia. Scopro che nel tribunale di Appello, quello che ha capovolto l'assoluzione di primo grado, c'era un giudice che è stato in politica per venti anni. Il giudice in questione, Giannicola Sinisi, ha, infatti, avuto una lunga carriera in politica nello schieramento avverso rispetto al mio. Questo è il giudice che mi ha condannato, capovolgendo una sentenza di assoluzione e, ancora, che ha aumentato di 6 mesi la pena richiesta facendomi in questo modo incorrere nella legge Severino. Cosa direste se Michele Emiliano, politico, magistrato da 12 anni in aspettativa, e, ora, candidato alla segreteria del Pd, ritornasse in futuro al suo vecchio mestiere per giudicare in tribunale Renzi? Mi viene quasi da ridere.

GLI «AVVERSARI» E LE COINCIDENZE. Non basta. Il relatore del mio processo in Cassazione è stato Stefano Mogini, già capo di gabinetto del ministro di grazia e giustizia del governo Prodi. Ebbene, Mogini è stato consigliere giuridico della delegazione diplomatica che lo Stato italiano ha oltreoceano presso l'Onu. Lui e Sinisi erano i due magistrati che avevamo in America. Hanno lavorato gomito a gomito per cinque anni. Poi, tornati in Italia, nel giro di un anno, sono stati chiamati entrambi a giudicare il sottoscritto, in due diversi gradi di giudizio: beh, francamente, tutto questo fa una certa impressione sul piano delle coincidenze.

DIMISSIONI. C'è un vuoto politico grande come un oceano, quello di assicurare a un imputato un giudice terzo, imparziale, che non sia stato un avversario politico. La necessità che il Parlamento valuti nel merito la vicenda giudiziaria di un suo membro per evitare la minima ombra di una persecuzione. La politica è, innanzitutto, assunzione di responsabilità. E io me la sono assunta in toto fino all'ultima tappa di questo calvario. Sono pronto a bere la cicuta. Poi, qualunque sia l'esito mi dimetterò da senatore. Sicuro di avere la coscienza a posto. C'è una frase che mesi fa mi ha detto Di Pietro, il cui esposto è all'origine di questa assurda vicenda. «Magari i guai che hai avuto, li hai avuti per quest'esperienza in politica La politica porta guai». Un'amara verità. Non per me, quanto per questo Paese.

16 marzo 2017 20.42 Rai News. E' "gravissimo che un vicepresidente della Camera inciti alla violenza" e ancora di più "per le sue responsabilità istituzionali". Lo dice il presidente dei Senatori del Pd, Zanda, a proposito di quanto dichiarato da Di Maio, dopo il voto contro la decadenza di Minzolini da senatore. "Non vi lamentate se poi i cittadini manifestano in maniera violenta". "Dire voto di scambio è offensivo", dice Zanda, sono "offese provenienti da una forza che fa della criminalizzazione degli avversari la sua cifra politica".

Caso Minzolini: Luigi Di Maio giustizialista (degli altri). Luigi Di Maio contro Minzolini, scrive Giuseppe Vatinno su “Affari Italiani" Giovedì, 16 marzo 2017. Luigi Di Maio anche oggi ha esternato il suo pasticcino quotidiano. Oggi sbraitava contro i partiti che hanno permesso ad Augusto Minzolini di “salvarsi” dalla decadenza in Senato. Non vogliamo entrare nella questione di merito dell’ex direttore del Tg Rai 1 ma solo far notare come Di Maio sia il classico parolaio populista che dà fiato alle trombe ma che non ha alcun numero per farlo visto i guai che ha in casa propria ad esempio con lo scandalo politico che rappresenta Virginia Raggi a Roma. Dunque Robespierre - Di Maio non solo accusa i “partiti” entità metafisica che nell’immaginario archetipale grillino rappresenta la negatività più pur ama addirittura “minaccia” i partiti stessi di essere responsabili delle future violenze di piazza. La domanda è: è tollerabile che il vicepresidente della Camera dei Deputati di una democrazia occidentale non si dimetta dopo il pericolosissimo messaggio inviato ad una popolazione peraltro eccitata e surriscaldata dalla mancanza di lavoro e prospettive per il futuro? Ricorda Di Maio Lotta Continua quando indicava nome e cognome i personaggi “ostili al popolo” che poi come il commissario Calabresi fecero effettivamente una brutta fine. Senza dimenticare, come detto in apertura, che se qualcuno dovesse dimettersi per provata incapacità amministrativa e problemi con la giustizia è proprio quella Virginia Raggi corifea e vessillifera di questa Armata Brancaleone che sta dando la scalata al potere in Italia infangando tutto quello che trova sul suo cammino.

Tutta la verità sul pregiudicato Beppe Grillo “omicida” condannato dalla Corte di Cassazione, scrive “Il Corriere del Giorno" il 22 novembre 2016. La Corte (…) ha individuato la colpa del Grillo nell’avere proseguito nella marcia, malgrado l’avvistamento della zona ghiacciata, mentre avrebbe avuto tutto il spazio per arrestare la marcia, scendere, controllare o quanto meno, proseguire da solo”, riporta la sentenza del 7 aprile 1988 della Corte Suprema di Cassazione, che con queste parole aveva motivato così il rigetto del ricorso formulato dall’imputato e confermato la condanna emessa dalla Corte di Appello di Torino.

“Trovo Veramente ingiusto che un assassino salga sul palco a dirci cosa è giusto e cosa è sbagliato…. Si vergogni perchè lui in primis ha approfittato delle leggi ballerine di questa Italia! I soldi non comprano tre vite…” iniziava così il post di Marianna Bifulco su Facebook, commentando un servizio del quotidiano La Stampa   del 22 marzo 1984, per descrivere la dinamica dell’incidente automobilistico mortale causato da Beppe Grillo quando il 7 dicembre 1981 provocò la morte di Renzo Giberti, 45 anni, della moglie Rossana Quartapelle, 34, e del figlio Francesco, di soli 9 anni.

«Ho cercato di assecondare la marcia del veicolo all’indietro, come quando si fa retromarcia –raccontava Beppe Grillo – puntando verso una sporgenza di roccia del monte, dove speravo di fermarmi. Per disgrazia ho colpito quella sporgenza con la ruota di scorta esterna e la macchina ha ruotato verso il burrone. Istintivamente ho spalancato la portiera e mi sono lanciato fuori mentre la Chevrolet precipitava”. 

Questa la tesi del comico genovese, conducente del veicolo assassino, che convinse la corte del Tribunale di Cuneo chiamata a pronunciarsi in primo grado di giudizio (l’imputato fu assolto con formula dubitativa) ma non quelle di Appello e Cassazione, che invece si pronunciarono rispettivamente nel 1985 e nel 1988: “La Corte (…) ha individuato la colpa del Grillone nell’avere proseguito nella marcia, malgrado l’avvistamento della zona ghiacciata, mentre avrebbe avuto tutto il spazio per arrestare la marcia, scendere, controllare o quanto meno, proseguire da solo”, riporta la sentenza del 7 aprile 1988 della Corte Suprema di Cassazione, che con queste parole aveva motivato così il rigetto del ricorso formulato dall’imputato e confermato la condanna emessa dalla Corte di Appello di Torino il 12 marzo 1985 a “un anno e due mesi di reclusione con sospensione della patente di guida per eguale periodo di tempo”, sentenza poi condonata. Un condono che chiaramente Grillo accolse a braccia aperte!

“Credetemi, dobbiamo sempre avere fiducia nella giustizia e nell’operato della magistratura”, aveva commentato a caldo Grillo, come riportato dal collega Gianni De Matteis sul quotidiano La Stampa all’indomani dell’assoluzione in primo grado. “In questo momento il ricordo struggente va ai poveri Renzo, Rossana e Francesco, i miei cari amici genovesi che non ci sono più. Anche se non mi sento, e anche per la magistratura non lo sono, colpevole della loro morte, l’immagine spaventosa di quel che è accaduto quel giorno a Limone non mi abbandonerà mai più”. La sentenza di assoluzione venne accolta con un “applauso spontaneo della grande folla che dal mattino gremiva l’aula”, scriveva De Matteis. Secondo quanto scritto a firma di Franco Giliberto su La Stampa il 22 marzo del 1984, Cristina Giberti, che nell’incidente aveva perso i genitori e il fratellino, “ha ricevuto dall’assicurazione quasi 300 milioni (di lire, ndr) e altri250 da Beppe”.

Ma cosa accadde realmente quel giorno?

Lo racconta Maura, sorella di Rossana, la moglie di Giberti. “Renzo Giberti, ex calciatore del Genoa, era molto tifoso. Lui e Beppe si conoscevano e si frequentavano da tempo. Andavano insieme allo stadio, si vedevano nel tempo libero. Alla fine della trasmissione tv Te la do io L’America, e dopo le riprese del film Cercasi Gesù, mia sorella e mio cognato lo avevano invitato a fare questo week end per riposarsi un po’. Quel 7 dicembre avevano comprato tartufi, vino: loro erano fatti così, gentili e ospitali. E poi erano felici perché mia sorella adorava gli spettacoli di Grillo. Appena finito di mangiare, poiché c’era un bellissimo sole, decisero di raggiungere Baita 2000. Mio cognato conosceva molto bene quel percorso, avendo avuto la casa lì fin da piccolo, ma quella volta capitarono una serie di sfortunate coincidenze. Lui e mia sorella non salivano mai in un’automobile guidata da altri, perché non si fidavano, però Grillo aveva una nuova Chevrolet appena arrivata dall’America, e la Range Rover di mio cognato non voleva saperne di partire. Si era ingolfata. Così accettarono il passaggio. In auto, con loro e il piccolo Francesco, c’erano altri tre amici, Andrea Mambretti e Carlo Stanisci con la fidanzata Monica”.

Per raggiungere quota duemila, occorre percorrere la via Del Sale, una strada militare sterrata della larghezza media di tre metri. Sulla destra l’auto ha la parete rocciosa, sulla sinistra un burrone ripidissimo. Manca qualche centinaio di metri all’arrivo e il cane di Carlo e Monica comincia ad abbaiare, forse ha bisogno di fare una passeggiata all’aperto: i due chiedono di scendere perché vogliono proseguire a piedi.

Questo il racconto di una collega, Chiara Bruschi pubblicato in tempi non sospetti e cioè il 5 febbraio 2013. L’incidente si consumerà davanti ai loro occhi. Poco più avanti, infatti, in corrispondenza di una curva a destra e in prossimità di una grande roccia chiamata Cabanaira, la strada diventa un lastrone di ghiaccio. Grillo tenta di superare l’ostacolo ma la sua auto, invece di obbedire ai comandi, scivola e slitta all’indietro, probabilmente ingovernabile. Dopo aver urtato la parete rocciosa con la parte posteriore dell’auto, il veicolo diventò ormai fuori controllo e precipitò con il muso verso il burrone. Grillo spalancò la portiera e si buttò prima del precipizio. Il tettuccio a pressione si stacca durante uno dei primi impatti.

Mambretti si aggrappa alla carrozzeria con tutte le sue forze, e questo gli permette di non essere sbalzato fuori se non negli ultimi metri della caduta. I Giberti invece, probabilmente presi dal disperato tentativo di proteggere il figlio, vennero catapultati all’esterno quasi subito: l’auto, in caduta giù per il burrone, travolgerà prima Francesco e poi Rossana. Grillo si rialza quasi illeso e corre verso lo strapiombo.

Grillo cercò di prestare soccorso, ma trova Renzo moribondo e Rossana già morta. Di Francesco non c’è traccia. Il suo corpo sarà trovato dal soccorso alpino dopo due giorni e due notti di ricerche. Alberto è ferito, ma non è in pericolo di vita. Il fuoristrada, scrivono Maria Latella, Mario Bottaro e Renzo Parodi sul Secolo XIX, è “ridotto a un ammasso di rottami”. Per recuperarlo “è stato richiesto l’intervento di un elicottero dei carabinieri, ma questa operazione è impossibile in quanto la jeep è troppo pesante (..). Toccherà così a una ditta privata rimuovere con cavi di acciaio e verricelli la carcassa del veicolo».

A Limone, luogo dell’incidente mortale ancora oggi, le opinioni sulla tragedia sono distanti e diverse:” Poteva capitare a chiunque, non è stata colpa sua. Noi quella strada la percorrevamo sempre”, dicono in tanti. Altri sottolineano l’imprudenza di viaggiare con un’auto così pesante, in pieno inverno, senza catene, su un percorso che non si conosce e dove la presenza di ghiaccio è quasi scontata. La Via del Sale infatti, è una vecchia strada militare che unisce Limone Piemonte alla Francia. La percorriamo, con una guida esperta del luogo, a inizio inverno, prima che la neve la renda impraticabile. Superiamo quota 1400 e incontriamo una prima di due limitazioni di transito, chiuse da un lucchetto. In quel punto la strada si restringe ulteriormente. È sporca, a tratti ghiacciata e in altri innevata.

Ad un certo punto la guida scende per montare le catene: sulla destra c’è una parete rocciosa e sulla sinistra lo strapiombo, meglio non rischiare. “Solitamente a dicembre questa strada è impraticabile” spiegava, “perché questa è zona sciistica. Ci sono le piste ed è tutto innevato”. Ma il 1981 è stato un anno scarsissimo quanto a precipitazioni: quel giorno, di neve non ce n’era. C’era il ghiaccio, però. Proprio sotto la roccia chiamata Cabanaira, scorre un fiumiciattolo proveniente da una sorgente più a monte. In alcuni tratti l’acqua ricopre interamente il manto stradale: basta poco per creare una lastra micidiale. In un punto, sotto cui una targa ricorda Renzo, Francesco e Rossana, la strada si stringe e il burrone ha una pendenza pressocché verticale. Sul fondo della scarpata, quasi cento metri più sotto, ancora oggi, si intravedono ancora alcuni rottami della Chevrolet rossa e bianca.

Questa è la vera storia dell’incidente in cui Beppe Grillo sterminò un’intera famiglia, a causa della sua Chevrolet appena arrivata dall’America.

Quelli che millantano di non essere maiali, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 19/03/2017, su "Il Giornale". Peter Gomez, direttore del Fatto Quotidiano edizione on line, è un collega, amico di vecchia data. Pensandola diversamente su molte cose abbiamo preso strade diverse ma ci siamo sempre rispettati, per cui mi sento di parlarne liberamente. In queste ore è a capo, con la sua penna, del partito degli indignati per il voto del Senato contrario alla decadenza di Augusto Minzolini, condannato in via definitiva per peculato per fatti che risalgono a quando dirigeva il Tg1. «Politicamente parlando - ha scritto tra l'altro Gomez - i senatori che si sono rifiutati di applicare una legge dello Stato nei confronti di un pregiudicato loro collega sono dei maiali. Del resto era stato proprio George Orwell a insegnarci che tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». Ora, mi risulta che la legge in questione preveda appunto sulla decadenza il voto del Senato a garanzia delle non rare e documentate porcate della magistratura. E il voto, almeno per ora, nel nostro paese è libero e legittimo, altrimenti saremmo in una dittatura. L'Italia, caro Peter, ancora non è un enorme partito unico dei tuoi amici grillini, nel quale se non voti come dice il capo l'elezione è annullata (vedi primarie Cinquestelle a Genova). Da noi ancora il voto vale, non è ripetibile, e qualsiasi sia l'esito, non ci crederai, è considerato legale. Non solo: nel tuo articolo, caro Gomez, accomuni nelle maialate il caso Minzolini al caso Napoletano, il direttore del Sole-24 ore indagato per false comunicazioni sociali (si è autosospeso in attesa di chiarimenti). Ti chiedi: ma come fanno, quelli di Confindustria, a non cacciare un indagato? Già, probabilmente fanno come voi che avete tenuto e tenete tra i vostri opinionisti di punta la brava Selvaggia Lucarelli, che non solo è indagata ma è a processo per intercettazione abusiva e accesso abusivo a sistemi informatici (ai danni di Mara Venier ed Elisabetta Canalis). Io spero sia assolta, ma voi del Fatto - tenendola in squadra a mo' di casta - già vi siete comportati come i «senatori maiali». Perché Napoletano fuori e la Lucarelli dentro? E anche tu, caro Peter, nulla hai scritto - maialescamente parlando - contro un vostro amico, l'ex pm Ingroia, che accusato (esattamente come Minzolini) di peculato per le sue note spese è appena stato riconfermato nel posto e nel lauto stipendio. E no, se tutti i maiali sono uguali - per dirla alla Orwell - non è possibile che voi e i vostri amici millantiate di esserlo un po' meno o per niente. Altrimenti è solo una Caro Sallusti, la Severino deve valere per tutti. Caro Gomez, è un'odiosa legge ad personam

Peter Gomez, Lunedì 20/03/2017, su "Il Giornale. Caro Alessandro, quando il parlamento applicò la legge Severino a Silvio Berlusconi facendolo decadere il Pd spiegò che si trattava di «un atto dovuto». Lo fecero, tra gli altri, molti di quei senatori dem che invece oggi hanno salvato il forzista Augusto Minzolini, condannato definitivamente per aver sottratto, attraverso la carta di credito, 66mila euro alla Rai, un'azienda che vive grazie alle nostre tasse. Il renziano Andrea Marcucci disse: «La decadenza è un atto scontato». Massimo Mucchetti spiegò che non «bisogna utilizzare il diritto politico alla difesa come un quarto grado di giudizio». Francesco Scalia affermò che «la decadenza dalla carica non è una sanzione penale né amministrativa, ma una semplice conseguenza del verificarsi di un fatto da cui la legge fa dipendere la preclusione a mantenere cariche elettive». Rosa Maria De Giorgi sostenne che si trattava della «normale applicazione della Legge Severino, voluta e votata dallo stesso centrodestra. Si riconosce solo che la legge è uguale per tutti». Di dichiarazioni di questo tipo è possibile trovarne molte. Oggi però per una parte del Pd Forza Italia non è più un nemico politico. È invece un possibile alleato in un futuro governo se le elezioni, come appare scontato, non daranno una maggioranza. Così, all'improvviso, quella legge che con i nemici andava solo applicata, con gli amici viene interpretata. Francamente lo trovo indecente. Tu no? Anche perché l'attuale capogruppo dem al Senato Luigi Zanda, che pur votando contro Minzolini ha lasciato ai suoi libertà di coscienza, quando si trattava di Berlusconi sentenziava: «Il voto sulla sua decadenza è un nostro dovere per la legalità. Per il Pd non bisogna fa altro che prendere atto della sentenza della Cassazione». Ma non basta. Come sai Italia ci sono sindaci, consiglieri regionali e comunali che si sono visti applicare la Severino anche dopo il primo grado di giudizio. Lo stabiliva la legge e la Corte costituzionale. Si tratta di persone tutte regolarmente elette e scelte dai cittadini, al contrario dei parlamentari nominati dai partiti. Ecco perché, come scriveva George Orwell, è proprio vero che tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri (i suini, nda). Minzolini è più uguale di Berlusconi, i politici nazionali sono più uguali rispetto a quelli locali. Non la trovi una maialata? Io sì. Certo, tu vuoi che la Severino venga abolita, io chiedo che, fin che c'è, venga applicata allo stesso modo a tutti. Non farlo, per me, getta discredito sulle istituzioni, esattamente come ha minato la propria credibilità Confindustria quando (prima dell'inchiesta sul Sole 24 Ore) ha scoperto che nel suo quotidiano vi erano decine e decine di migliaia di copie fasulle e che il direttore aveva siglato una scrittura privata e segreta per ottenere una buonuscita milionaria. Allora intervenire, almeno per tutelare i piccoli azionisti e la reputazione della testata, era per me obbligatorio. E lo era anche per il nuovo amministratore delegato Del Torchio. Ma alla fine Del Torchio se ne è andato e gli altri sono rimasti. Poi è arrivata la Finanza. Ti pare giusto? A me no. Di Roberto Napolitano nel mio pezzo non ho però chiesto il licenziamento. Ho invece scritto che se le sue note spese e i suoi bonus «sono reato lo stabiliranno i giudici. Ma già ora l'indecenza è evidente». Perché le sentenze si emettono in tribunale, mentre in famiglia, nelle associazioni e nelle aziende si valutano semplicemente accadimenti e comportamenti. Esattamente quello che ha fatto Marco Travaglio quando, lette le carte e ascoltato l'interessata, ha deciso che la brava Selvaggia Lucarelli continuasse a scrivere su Il Fatto Quotidiano nonostante il processo per il presunto hakeraggio, mentre io ho a malincuore prudenzialmente preferito che la sua collaborazione non venisse estesa anche alla testata online da me diretta. Ho sbagliato valutazione? Spero proprio di sì. Ma sai qui accade spesso che, pur condividendo principi e valori, si giunga a conclusioni diverse. Perché la libertà di parola e di opinione tra noi de Il Fatto viene da sempre prima di tutto. Un suinesco saluto. ps: su Ingroia indagato abbiamo scritto più volte. La sua riconferma mi era francamente sfuggita. Grazie per la segnalazione. *direttore del Fatto quotidiano edizione on line.

Caro Peter, la tua competente ricostruzione della legge Severino sulla decadenza dei politici condannati conferma che è servita soltanto a fare fuori Silvio Berlusconi dal Senato e pensavano allora i più dalla politica. Si tratta insomma di una legge ad personam e come tale odiosa. Non si è riusciti ad applicarla, tra in tanti, neppure nei casi clamorosi del sindaco di Napoli De Magistris e del governatore della Campania De Luca. E non per volontà dei politici ma per sentenze dei magistrati dei Tar e del Consiglio di Stato. In un caso recente che riguardava un sindaco di Troia (Fg) in Puglia, un giudice ha scritto che la volontà popolare non può essere messa in discussione da una legge ordinaria. Hanno ragione queste toghe oppure anche tra di esse si annidano pericolosi «maiali»?. A te l'ardua sentenza. Alessandro Sallusti. Con immutata amicizia.

Filippo Facci il 18 marzo 2017 su “Libero Quotidiano” contro Luigi Di Maio: "Perché va ricoverato". Se un tizio paventa delle violenze di piazza, o addirittura delle masse incazzate tutte attorno al Parlamento, è perché essenzialmente le desidera. Confonde il futuro coi suoi desideri. Già sapete che il grillino Luigi Di Maio, l’altro giorno, dopo la non-decadenza da senatore di Augusto Minzolini, ha detto: «Non vi lamentate se ci saranno manifestazioni violente sotto al Parlamento», questo mentre il 22 marzo è prevista proprio una manifestazione che si propone di «circondare il Parlamento». Che dire, che fare? Non puoi neanche dire «ricoveratelo», perché è pure vicepresidente della Camera, e il punto è questo: è anche colpa nostra, l’abbiamo creato noi. A un certo punto è circolata voce che fosse il più "presentabile" dei grillini, e noi, invece di chiederci come potessero essere gli altri, quelli meno presentabili, abbiamo cominciato mediaticamente a corteggiarlo. Ora è lì che spara cazzate alla Gianfranco Miglio e noi che dovremmo fare, prendercela con lui? Io - nota personale - non ci riesco; quelli come lui, durante le scuole medie, mi facevano pena, e io li difendevo sempre. Me lo ricordo bene, l’archetipo del Luigi Di Maio: beccava sempre un sacco di botte, era una categoria anzitutto estetica, l’espressione diligente, secchione per status, studiava 10 per raccogliere cinque, il capello corto per non sbagliare, gli abiti da bancario, seduto tra i primi banchi a sorridere alle prof. Non passava mai i compiti, e, durante i compiti in classe, non ti filava neanche se gli chiedevi aiuto col megafono. Quelli come lui, in genere, a 25 anni sono già vecchi, ma in casi eccezionali possono diventare Luigi Di Maio e - credendosi qualcosa - la cazzata prima o poi la sparano. È successo l’altro giorno. Il mitico Giancarlo Perna, un paio d’anni fa, la mise così: «Beati monoculi in terra caecorum», cioè «nella terra dei ciechi anche l’orbo è re». C’è poco da aggiungere. Noi dicevamo: viva Di Maio, se gli altri ignorano i regolamenti e i galatei anche minimi, hanno quest’aria severa da ottusi convinti, fiaccano i dibattiti televisivi con sparate generiche di bassa demagogia, fanno gestacci tipo «emendami questo», dicono «boia» al Capo dello Stato, provocano, interrompono, urlano, spingono, strattonano, colpiscono e graffiano i questori, fanno i pagliacci con bavagli e striscioni, fanno ripresine in aula, inventano aggressioni dopo averle fatte, bloccano i lavori parlamentari, si avventano sui tavoli delle presidenze, occupano aule e commissioni, ne impediscono l’ingresso, disertano il Senato, gridano «siete solo merda» ai parlamentari e «sapete solo fare pompini» alle parlamentari, interrompono i colleghi mentre rilasciano dichiarazioni alle telecamere, accusano come niente di «assassinio» e gridano «la mafia è nello Stato» anche se si sta discutendo di cipolle. Sono tutte cose vere, tutte cose accadute dal 2014 a oggi: ma le hanno fatte i meno presentabili, diciamo così. Luigi Di Maio invece non è fisicamente brutto o malvestito, non ha una pettinatura imbarazzante, non parla un italiano da balera misto a burocratese come tanti suoi colleghi: anche se, come notò Lucia Annunziata, tende alla frase fatta come tutti i grillini. Basta, questo? Bastava eccome, se gli altri sono così. Da vicepresidente della Camera (uno dei quattro) sembrava quasi una persona normale. Ma ora, Di Maio, si è messo a pazziare pure lui. Evoca le manifestazioni violente attorno al Parlamento e trova sponda non in un sanatorio, ma in Marco Travaglio: che ieri, sempre a proposito della mancata decadenza di Minzolini (una cosa che si è votata: in Parlamento funziona ancora così) entro le prime 6 righe del suo editoriale è riuscito a scrivere «atto eversivo, abuso di potere e colpo di stato contro la Costituzione». Ecco, l’abbiamo detto. Sono passati un paio d’anni e Di Maio è diventato presentabile come Travaglio. Di Filippo Facci 

LA SETTA DEI 5 STELLE.

M5S: storia di un movimento duro ma impuro. Le chat della compagnia di giro di Virginia Raggi hanno svelato la guerra totale che dilania l'intestino dei grillini. E che vi raccontiamo, caso per caso, scrive Carlo Puca il 14 febbraio 2017 su "Panorama".  

10 febbraio 2008. Quel giorno, era un giovedì, sotto il titolo di "comunicato politico n° 1", Beppe Grillo pubblicava sul suo blog il primo manifesto dei 5 Stelle. Sulla home-page spiccava l'immagine del comico in versione Indro Montanelli, sguardo minaccioso e una mitica macchina da scrivere, la Lettera 22 sulle ginocchia. Insomma, dopo esperienze minori, debuttava ufficialmente il "duro e puro" moVimento grillino.

E lo faceva con propositi caparbi: lo streaming, la trasparenza amministrativa, la meritocrazia contro la partitocrazia, le iniziative di legge di proposta popolare sul Parlamento pulito, i condannati da cacciare, gli indagati (almeno) da non candidare. Cinque anni dopo, il moVimento è rimasto duro, ma si è fatto impuro. Lo streaming è completamente sparito dai radar, anzi dai wifi nazionale e internazionale. Le chat della compagnia di giro di Virginia Raggi hanno invece svelato la guerra totale che dilania l'intestino dei 5 Stelle, peggiore di quella che caratterizzò la Democrazia cristiana; allora, infatti, almeno si combatteva per correnti; oggi, tra i pentastellati, ogni singolo capataz fa da sé, mosso dall'obiettivo permanente di fregare l'altro, foss'anche il suo migliore amico. Figurarsi un nemico. È così che si è arrivati ai veleni, al presunto dossier fabbricato da tre ex consiglieri comunali contro Marcello De Vito per escluderlo dalla corsa al Campidoglio in favore di Virginia Raggi.

È sempre così che sono circolate le cattiverie sulla baby sitter assunta da Roberta Lombardi e messa a nota spese di Montecitorio. È ancora così che sono volate e volano brutte chiacchiere sul candidato premier in pectore, Luigi Di Maio.

Il 5 agosto 2016 Di Maio venne informato via mail dalla senatrice Paola Taverna delle indagini sull'allora assessora all'Ambiente di Roma, Paola Muraro. Ma poi giurò di non averla letta. Non paghi, molti parlamentari rivelano sottovoce che nelle loro riunioni riservate "Luigi difendeva calorosamente Muraro" e anche Raffaele Marra (poi arrestato), Salvatore Romeo (indagato) e la stessa Raggi (idem). "Che interesse aveva?" sussurrano i suddetti con la classica risatina da complottista. Si dirà: questo è il melmoso teatrino romano, chiunque lo calchi, prima o poi si sporca. Pensiero inesatto, i capataz cospirano ovunque. In alcuni luoghi (Ravenna, Rimini, Salerno, Caserta, Latina, la Regione Sardegna) i 5 Stelle hanno persino rinunciato a presentare le liste alle elezioni a causa degli scontri interni (dossier compresi). In altri posti, per le tensioni, si sono auto eliminati dalla corsaper la vittoria, come a Milano e a Napoli, dove il battagliare tra Di Maio e Roberto Fico si è fatto insostenibile. Il caso più pittoresco, tuttavia, rimane quello di Porto Torres, in Sardegna. Qui la capogruppo del M5s, Paola Conticelli, è stata espulsa perché "il mio compagno è un giornalista" nemico del sindaco Sean Christian Wheeler, detto "l'americano". Complimenti, manco Donald Trump sarebbe arrivato a tanto...

Tra l'altro, questo rimane l'unico episodio di espulsione per motivi parentali. Proprio i 5 Stelle, infatti, sono il gruppo politico più familistico d'Italia, a partire dai vertici. Davide Casaleggio, dopo la morte del padre Gianroberto, ha ereditato società (la Casaleggio associati) e retroguida del partito (appunto, i 5 Stelle). Grillo ha creato l'Associazione moVimento 5 Stelle e si è nominato presidente. Come vice ha scelto il nipote, l'avvocato Enrico Grillo. Segretario è invece il suo commercialista, Enrico Maria Nadasi, membro del Cda della Filse, la finanziaria della regione Liguria, nominato (va da sé) in quota pentastellata.

E se Beppe fa così, figurarsi il resto: Senato, Camera, l'Europarlamento, Regioni e Comuni pullulano di parenti, fidanzati, amici degli eletti. O di trombati alle elezioni e riciclati come assistenti, nel solco della peggiore tradizione partitocratica. Insomma, altro che "lavoratori trasparenti, onesti e volenterosi, competenti e puliti" scelti su base curriculare e meritocratica, come annunciava nel marzo del 2013 la solita Lombardi. E non parliamo di poca gente: solo i 15 eurodeputati pentastellati sommano 103 collaboratori, lo stesso numero medio di qualsiasi partito tradizionale.

Smarrita la strada della diversità politico-antropologica (qual è la differenza con gli altri?), pure la magistratura, un tempo vicina alle istanze dei 5 Stelle, ha cominciato a dubitare. E ci ha messo la testa. Ai primi avvisi di garanzia, il comico-leader ha reagito così: gli avversari politici "ci stanno combattendo con tutte le armi, comprese le denunce facili, che comunque comportano atti dovuti come l'iscrizione nel registro degli indagati o gli avvisi di garanzia". Ma i principali guai giudiziari sono tutt'altro che "denunce facili", anzi: riguardano la losca faccenda delle firme false raccolte per le comunali palermitane del 2012 e i pasticci di Virginia Raggi (e relativa corte) al Campidoglio. Per metterci una pezza, Grillo e Casaleggio hanno imposto, il 3 gennaio 2017, il nuovo Codice etico (Leggi qui cosa prevede). Stabilisce l'obbligo di dimissioni solo in caso di condanna di primo grado e, comunque, non per i reati di opinione. Inoltre, fatto più importante, l'avviso di garanzia non comporta più la sospensione o l'espulsione, tantomeno le dimissioni.

Sono tutte indicazioni, queste, che negano la storica natura grillina. Già il 10 dicembre del 2009, infatti, il comico genovese aveva diffuso il "Non Statuto". All'articolo 7 prevede, per candidati e iscritti, il criterio dell'esclusione per qualsiasi procedimento penale in corso e l'obbligo di informare il moVimento. Era quello il periodo in cui Luigi Di Maio diceva: "Non sono a favore della presunzione d'innocenza per i politici. Se uno è indagato, deve lasciare". Ancora più netto risultava Grillo: "Basta essere indagato e sei fuori". Ecco, gli indagati. Alla nascita del M5s, il comico li etichettava come "diversamente onesti". Nel corso degli anni la presunzione d'innocenza proprio non è esistita, valeva lo slogan "o-ne-stà, o-ne-stà", tanto è vero che a ogni sospiro dei pm sui politici, corrispondeva una richiesta di dimissioni. Grillo arrivava a coniare la rubrica L'indagato del giorno e a maramaldeggiare sugli avvisi di garanzia al Pd ("Sono comei rotoloni Regina, non finiscono mai..."). A volte, anche quando indagati non ce n'erano, la ghigliottina pentastellata si abbatteva lo stesso, anche per bocca dei vari Di Maio, Fico e Alessandro Di Battista contro Angelino Alfano, Maurizio Lupi, Giovanni Toti e altri ancora. Anche perché, nel frattempo, le norme etiche del moVimento si facevano sempre più stringenti. È accaduto coni regolamenti emanati nel 2013 e nel 2014 e con il codice di comportamento per i candidati a Roma, approvato nel febbraio 2016, con il quale debutta pure la multa da 150 mila euro per i renitenti alla linea di Grillo.

A ottobre 2016 l'asticella si è alzata ancora, con la modifica dell'articolo 5 del Non Statuto. Introduce una sospensione di 24 mesi costruita ad personam contro l'irriducibile sindaco di Parma Federico Pizzarotti, che perciò molla il moVimento per fondarne uno suo. Insomma, per molti anni la strategia di Grillo e dei due Casaleggio (prima Gianroberto e poi Davide) è stata chiarissima: più i 5 Stelle si impantanavano, più stringevano la forca giustizialista. E per due ragioni. La prima era mediatica: il continuo rilancio sulle manette facili serviva a distrarre l'opinione pubblica. La seconda ragione era invece interna: con le sospensioni ed espulsioni selettive, infatti, Grillo e i Casaleggio hanno potuto liberarsi delle figure per loro più scomode. I vari fulmini giudiziari che hanno investito il moVimento segnalano infatti una disparità di trattamento impressionante. Per citare un caso dimenticato, nel 2013, in Piemonte, due consiglieri regionali (Davide Bono e Fabrizio Biolè) vennero indagati per rimborsopoli, ma poi archiviati. Bono è stato ricandidato come governatore, Biolè fatto accomodare fuori dal moVimento, proprio come Pizzarotti. Nel febbraio 2016 è invece esploso il caso-Quarto. Nel paesone in provincia di Napoli, Rosa Capuozzo è stata espulsa dopo aver respinto la richiesta di dimissioni da sindaco avanzata da Grillo perché "siamo il moVimento 5 Stelle e non un Pd qualsiasi...". Il Comune era stato infatti investito da un'inchiesta su presunte infiltrazioni camorristiche partita dai ricatti del consigliere comunale M5s, Giovanni De Robbio, ai danni della prima cittadina. In questo caso, siamo all'apoteosi del procedere selettivo. Capuozzo è stata infatti ignorata dai vertici nazionali del suo movimento anche quando si addentrava in operazioni discutibili. A parte il fatto di abitare in una mansarda abusiva, la sindaca ha: mantenuto l'appalto del marito tipografo con il municipio; cancellato la convenzione comunale con la squadra anticamorra Nuova Quarto Calcio per la Legalità; revocato la pubblicazione del Puc (Piano urbanistico comunale) approvato dalla commissione prefettizia insediatasi al Comune dopo il precedente scioglimento per camorra. Soltanto dopo è spuntato il presunto ricatto. Sul quale, comunque, lo stato maggiore grillino ha inizialmente difeso, come un sol uomo, la prima cittadina. Capuozzo, per dirla chiara, è stata espulsa quando ha ammesso che al M5s sono andati "anche i voti sporchi" e ha detto che "Di Maio e Fico lo sapevano", trascinandoli nella polemica politica e giudiziaria. Altrimenti Rosa sarebbe ancora lì a esercitare le sue pratiche amministrative in nome e per conto dei 5 Stelle. Ancora: nel maggio del 2016, il sindaco di Pomezia, Fabio Fucci, ha annunciato di aver ricevuto ben due avvisi di garanzia, poi archiviati, dei quali però non ha detto nulla ai vertici del moVimento. Per un uguale silenzio, Pizzarotti è stato messo alla porta, Fucci è ancora lì, né sospeso né espulso. Così anche il sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, indagato per abuso d'ufficio per lo stanziamento di quasi 40 mila euro all'anno per rimborsare agli amministratori le spese per raggiungere il Comune. Attenzione, però: tale strategia della "doppia morale" (affettuosi con gli amici, feroci con i nemici) ha funzionato benissimo. Finora, stando ai sondaggi, a ogni crisi nei 5 Stelle è seguito un avanzamento nel gradimento degli italiani: la Medusa-Grillo è sempre stata capace di pietrificare chiunque incrociasse il suo sguardo da giustiziere, nessun Perseo è riuscito a ucciderlo. Tuttavia, il gioco ha retto finché ha potuto. Ovvero fino al dicembre del 2016, quando a Palermo, dopo un servizio de Le Iene di Italia Uno, la procura ha scoperto l'esistenza di almeno 200 firme false, indispensabili per presentare la lista del M5s alle comunali del 2012. Tredici gli indagati pentastellati, compresi due deputati regionali, Claudia La Rocca e Giorgio Ciaccio, che hanno confermato la vicenda e si sono autosospesi, e i parlamentari nazionali Riccardo Nuti, Giulia Di Vitae Claudio Mannino, poi sospesi dal moVimento.

Sospesi, appunto, non espulsi, mentre in passato altri parlamentari e sindaci erano stati cacciati per molto meno. Quanto a Raggi, è certo, però, che tra omissioni, bugie, chat, nomine, inchieste giudiziarie, avvisi di garanzia, sembra, parafrasando Grillo, "un Pd qualsiasi". Anzi peggio perché, stando alle indagini della Procura di Roma, dopo aver promesso trasparenza e onestà, avrebbe licenziato i puri (Marcello Minenna, Carla Raineri) per circondarsi di impuri, gli indagati Paola Muraro e Salvatore Romeo e l'arrestato Raffaele Marra. È evidente: difendendo Virginia ("Er sinnaco de Roma nun se tocca"), la Medusa Grillo difende anche il suo discutibile giro. E se alla fine fosse proprio Raggi l'involontario Perseo contemporaneo?

Caso polizze, Di Maio contro l'Espresso: "Quereliamo Fittipaldi". Il direttore Cerno: "Non vediamo l'ora". Il vice presidente della Camera alla trasmissione "L'Aria che tira" condotta da Myrta Merlino (La7) il 5 gennaio 2017 annuncia che il Movimento querelerà il nostro inviato Emiliano Fittipaldi dopo avere svelato per primo il caso delle polizze sottoscritte dall'ex capo della segreteria della sindaca di Roma Virginia Raggi. La risposta in video del direttore dell’Espresso il 6 gennaio: «Non vediamo l’ora che arrivi la querela. I nuovi regolamenti dei 5 Stelle vietano agli iscritti di parlare, ma se proprio Di Maio ci vuole in Procura, lì potremo avere quelle informazioni che il Movimento dovrebbe dare anziché nascondere, non foss'altro che per quella trasparenza che loro stessi invocano».

Chiedeteci scusa! Scrive Luigi Di Maio il 7 febbraio 2017. Oggi ho consegnato al presidente dell'Ordine dei giornalisti la lettera che trovate qui sotto. La campagna diffamatoria nei confronti del MoVimento 5 Stelle deve finire. Vi chiedo di reagire. Dobbiamo raccontare a tutti i nostri successi ottenuti nelle città che governiamo. Nel video vi racconto un po' di cose e vi segnalo alcuni appuntamenti imminenti. Per favore guardate fino alla fine e diffondete questo video! E' tempo di reagire! Lettera al Presidente dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, Enzo Iacopino:

"Gentile Presidente, la libertà di stampa è un valore irrinunciabile per ogni Paese democratico. Ma altrettanto irrinunciabile è il rispetto della verità a cui ogni giornalista, per deontologia ed etica professionale, dovrebbe attenersi. In questi giorni abbiamo assistito a uno spettacolo indegno da parte di certa stampa, che ha usato la vicenda di una polizza a vita intestata a Salvatore Romeo, e il cui vero beneficiario è lui stesso tranne nell'ipotesi estremamente improbabile della sua morte, per infangare e colpire in maniera brutale la sindaca Virginia Raggi e l’intero Movimento 5 Stelle. L’operazione di discredito nei confronti della Raggi è iniziata ben prima che il Movimento 5 Stelle vincesse le elezioni a Roma: lo sapevamo ed eravamo preparati a questo, ma oggi si è toccato un limite che è nostro dovere denunciare. Da osservatore attento avrà seguito la vicenda sulla polizza e saprà: 1) che la Raggi non ha mai preso un soldo; 2) che appresa dai magistrati la notizia della polizza, ha immediatamente richiesto che il suo nome venisse rimosso dal documento; 3) che la Procura stessa ha precisato che nella vicenda non si ipotizza alcun reato e che la polizza non è da considerarsi uno strumento di corruzione. Su gran parte dei Tg e dei giornali usciti il 3, il 4 e il 5 febbraio, però, gli italiani hanno letto un’altra storia, costruita non su fatti documentabili, ma su menzogne e notizie letteralmente inventate. E anche quando la Procura è intervenuta per ristabilire la verità, i giornali hanno continuato con le ipotesi, i sospetti, i dubbi e le insinuazioni. Nessuno sino ad oggi ha chiesto scusa né a Virginia Raggi, né al Movimento 5 Stelle, né ai lettori. Lei Presidente mi invita a non generalizzare un’intera categoria, ma a segnalarle i casi di comportamenti deontologicamente scorretti. Eccoli qui di seguito, con nomi e cognomi. Giudichi Lei se questa è informazione.

Emiliano Fittipaldi (L’Espresso) a L’Aria Che Tira (La7) il 3 febbraio: "Qualcuno ipotizza addirittura che i soldi di Romeo non siano soldi suoi, ma soldi in conto terzi che qualche esterno ha cercato di utilizzare per fare voto di scambio e per scalare il M5S dall'esterno".

Corriere della Sera, 3 febbraio, Fiorenza Sarzanini, titolo “La provvista da 90 mila euro e la pista che porta alla compravendita di voti”: Il sospetto è che almeno una parte di quei soldi provenissero da chi aveva deciso di puntare tutto sulla giovane avvocatessa [...] Dunque servissero a comprare voti. E siano soltanto una parte dei finanziamenti occulti giunti al Movimento 5 Stelle a Roma”.

La Repubblica, 3 febbraio, Carlo Bonini, titolo “Tesoretti segreti e ricatti, che legano il nuovo potere ai vecchi padroni di Roma”: Marra sapeva bene di come trafficasse la Raggi per conto di Romeo” [...] Se infatti quelle tre polizze erano una "fiche" puntata su una delle anime del Movimento cinquestelle romano quella "nero fumo", quella che doveva garantirsi un serbatoio di voti a destra perché prevalesse sulla cordata […] se erano la contropartita per sigillare un patto politico”.

Il Giornale, 3 febbraio, Alessandro Sallusti: “se è stata una tangente postdatata - ipotesi più probabile - parliamo di reato di una certa rilevanza”.

QN-Carlino-Nazione-Giorno, 3 febbraio, Elena Polidori, titolo "La pista dei soldi". “Si indaga su altre assicurazioni a beneficio di politici del movimento".

Il Messaggero, 3 febbraio, Valentina Errante/Sara Menafra, titolo “Una polizza inguaia la Raggi. C’è la pista dei fondi elettorali”: “La pista dei fondi coperti della campagna elettorale. (...) Spunta un conto aperto da Romeo nel 2013. L'ombra dei voti comprati". "Quel legame inspiegabile con i suoi fedelissimi, favoriti contro ogni morale grillina, adesso sembra trovare davvero una chiave di lettura. E' il peccato originale di Virginia Raggi (...). Almeno in un caso ci sarebbe stato un accordo: soldi (...)".

La Stampa, 3 febbraio, Edoardo Izzo: “Potrebbe emergere un'ipotesi di corruzione dietro le irregolarità emerse nell'inchiesta sulle nomine che coinvolge la sindaca di Roma Virginia Raggi".

Corriere della Sera, 4 febbraio, Fiorenza Sarzanini/Ilaria Sacchettoni: “Quelle [...] potrebbero dunque rappresentare una sorta di fondo concesso in garanzia a chi poi poteva concedergli favori”.

QN-Carlino-Nazione-Giorno, 4 febbraio, Elena Polidori, titolo "Raggi, l'inchiesta porta ad Ama".

Il Messaggero, 4 febbraio, Valentina Errante/ Sara Menafra: "Un meccanismo che potrebbe rappresentare un modo per tenere unita l'organizzazione a cinque stelle con un patto economico, oltre che politico”.

All’elenco si aggiungono gli articoli pubblicati oggi da Corriere della Sera e Repubblica, in cui io stesso vengo tirato in ballo, nonostante avessi già smentito tutto a dicembre 2016, con illazioni diffamatorie che non trovano riscontro nei fatti:

Corriere della Sera, 7 febbraio, Fiorenza Sarzanini: “Soprattutto quel che successe l'estate scorsa quando Marra sostiene di aver deciso di lasciare l'incarico in Campidoglio e di essere stato convinto a rimanere durante l'incontro con Luigi Di Maio. Che cosa gli disse il parlamentare grillino per fargli cambiare idea? Quali garanzie gli offrì, visto che lui stesso ha detto di averlo ricevuto alla Camera su richiesta della sindaca?”

Repubblica, 7 febbraio, Carlo Bonini, titolo la scia dei "quattro amici" porta al ruolo di Di Maio: “il garante fu l'uomo che il M5S candida a guidare il Paese, Luigi Di Maio. Già, è Di Maio il convitato di pietra di questa storia. […] Fu Di Maio a convincere Marra a non abbandonare prematuramente il suo lavoro di badante della Raggi [...] E fu ancora Di Maio, quale garante di quella scelta politica, a difendere il rapporto privilegiato ed esclusivo dei «quattro amici al bar» di cui oggi nulla resta”."

I nuovi potenti e l'informazione. Ogni volta che un potente, anche se nuovo di zecca, attacca ferocemente chi lo critica, allora bisogna preoccuparsi e non abbassare la testa, scrive Mario Calabresi l'8 febbraio 2017 su "La Repubblica". Il Potere attacca l’informazione quando è in difficoltà, quando la vive come un intralcio alla sua azione o alla sua narrazione. Succede da sempre, ma oggi i nuovi potenti, che amano comunicare direttamente con i cittadini senza fastidiose mediazioni e senza il rischio di fastidiose domande, sono più radicali e cercano di risolvere il problema all’origine: delegittimare i giornalisti. I nuovi potenti amano raffigurarsi come outsider, si chiamino Trump o Grillo, come freschi e genuini rappresentanti del popolo a cui giornalisti e giudici cercano invece di mettere i bastoni tra le ruote. Nel caso italiano la polemica contro i magistrati ancora non c’è ma è solo questione di tempo. Il Movimento non governa ancora il Paese ma ha già conquistato la sua capitale e ha capito che nella strada verso Palazzo Chigi l’informazione può essere un ostacolo. Questi nuovi potenti, che hanno costruito le loro fortune sulla critica radicale di ogni establishment e sulla promessa di trasparenza, dovrebbero essere abituati alla dialettica, dovrebbero accettare il confronto, invece appaiono, se possibile, più segreti e opachi dei loro predecessori. Guardate Trump, un uomo che manipola la comunicazione e squalifica chiunque metta in evidenza incongruenze e bestialità, siano essi i giudici o i giornali, arrivando ad accusarli di una sorta di complicità col terrorismo per cercare di silenziarli. Lo ha fatto fin dall’inizio della sua presidenza, indicando l’informazione come la vera opposizione, non per riconoscerne la funzione di cane da guardia del potere bensì per additarla come nemico. Lo stesso nemico che due settimane fa Alessandro Di Battista ha indicato agli ambulanti che manifestavano di fronte a Montecitorio, ottenendone come risultato grida in cui si prometteva di ammazzare quei servi maledetti che sono i giornalisti. Guardate Grillo: mai una conferenza stampa, mai un confronto, mai risposte limpide e chiare alle domande. Solo post sul blog, su Twitter e su Facebook in cui dispensa insulti e contumelie verso tutti coloro che disturbano il nuovo manovratore. Nessuno ha accesso alla Casaleggio, nessuno può chiedere conto di come si formino i processi decisionali (dalla nascita della giunta Raggi alla decisione, poi abortita, di lasciare Farage in Europa) e nessuno ottiene risposte se si permette di chiedere. Ieri sera Luigi Di Maio ha accusato giornali e giornalisti di aver orchestrato una campagna diffamatoria contro Virginia Raggi, di cui non si raccontano invece i successi. Si tratta dello stesso vicepresidente della Camera che per settimane la scorsa estate ha negato e tenuto nascosta la notizia dell’inchiesta sull’ex assessora Muraro. Nel merito delle accuse, ma soprattutto nel merito delle omissioni, entra con grande precisione Carlo Bonini all’interno del giornale, ma c’è qualcosa che continua a non tornare: perché il Movimento non fa chiarezza una volta per tutte sulle opacità e sugli inquietanti interrogativi di un gruppo di potere che ha circondato la sindaca di Roma accompagnandone l’ascesa e le prime mosse? Perché non indica nei dettagli idee e programmi? Ma soprattutto perché i grillini non imparano ad accettare che la conquista del potere porta ad un necessario cambio di status: da controllori a controllati o perlomeno controllabili? Non si può pensare di avere una delega in bianco soltanto perché si arriva da fuori, soltanto perché si è giovani e nuovi. Non basta. Il giornalismo italiano non gode di ottima salute e il nostro sistema di informazione paga un deficit di credibilità e fiducia. Lo sappiamo e ci sforziamo ogni giorno di migliorare per colmarlo. Quando Grillo rappresenta elegantemente questo giornale come un rotolo di carta igienica indica la fine che ci augura. Ci preferirebbe addomesticati, come si è sempre illusa di fare la politica, ridotti a cantori, intenti a raccontare le magnifiche sorti di una città come Roma che dovrebbe rinascere e invece è abbandonata a se stessa. Anche se forse converrebbe metterci dove tira il vento e non di traverso, continueremo a formulare domande ad alta voce, a pretendere risposte e a fare denunce. Lo abbiamo fatto con la Dc e i socialisti, con Berlusconi come con tutte le sigle dell’ex Pci fino all’odierno Pd, di cui abbiamo raccontato scandali e reclamato più volte dimissioni e passi indietro. E non ci battiamo per conto di qualcuno, ma solo per i nostri lettori e per i cittadini, che meritano di vivere con gli occhi aperti. Perché ogni volta che un potente, anche se nuovo di zecca, attacca ferocemente chi lo critica, allora bisogna preoccuparsi e non abbassare la testa.

La polizza da 30mila euro regalata da Romeo a Raggi. Otto mesi di tormenti per M5S, il diritto di raccontare e far domande. Non si può chiedere a un giornale di chiudere gli occhi, Raggi ha fatto tutto da sola, scrive Luciano Fontana il 6 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera". «Confezionatori seriali di menzogne», «campagna di fango contro la Raggi». Sono mesi che il blog di Beppe Grillo ed esponenti, più o meno di rilievo, del Movimento Cinque Stelle usano queste, e altre, frasi fatte per reagire alla tempesta politica e giudiziaria che investe la nuova amministrazione della Capitale. Un disco rotto, un refrain che l’Italia conosce bene: l’abbiamo ascoltato da tanti partiti, almeno dal 1992 in poi. La migliore risposta che un giornale come il Corriere può dare è continuare a fare bene il proprio mestiere. Ovvero: informare con scrupolo e obiettività i lettori, senza pregiudizi e senza distinguere tra presunti amici e nemici. C’è qualcosa però di stonato nelle dichiarazioni che arrivano ogni giorno dal M5S, con anatemi che vogliono colpire individualmente i giornalisti «nemici». Siamo arrivati alle liste di proscrizione dei mezzi d’informazione. Come se ci fosse un Eldorado politico e amministrativo dei Cinque Stelle turbato solo dai «pennivendoli». Messi ai margini questi ultimi, tutto tornerebbe perfetto.

Proviamo allora a raccontare cosa è accaduto dal giugno scorso quando Virginia Raggi è diventata sindaca di Roma con il risultato più largo dall’introduzione dell’elezione diretta nelle città. I festeggiamenti per l’incoronazione del candidato anticasta erano ancora in corso e già si avvertiva il rumore di fondo della battaglia interna al mondo grillino della Capitale, con una fronda consistente guidata dall’onorevole Roberta Lombardi. Non è un caso che mentre l’altra star dei Cinque Stelle, Chiara Appendino, forma rapidamente la giunta comunale di Torino, a Roma i giorni passano e le scelte non arrivano. E quelle che arrivano, i fedelissimi Daniele Frongia a capo di Gabinetto e Raffaele Marra a vicecapo di Gabinetto, vengono revocate in appena dieci giorni. Il primo passa al ruolo politico di vicesindaco, il secondo viene spostato alla direzione del Personale. Raffaele Marra è un personaggio che ha tutte le caratteristiche per risultare indigesto alla base grillina: dirigente con il precedente sindaco Gianni Alemanno e nell’amministrazione regionale di Renata Polverini, racchiude in sé tutti i tratti di un mondo che i Cinque Stelle avevano giurato di voler spazzare via. Ma fa parte del «raggio magico». La sindaca subisce i diktat di Grillo ma non ha alcuna intenzione di rinunciare ad averlo al suo fianco. Vita ugualmente tormentata per Daniele Frongia. Il primo passo di lato non basta. Pochi mesi dopo dovrà abbandonare anche la poltrona di vicesindaco.

La falsa partenza non si ferma però qui. L’estate riserva ancora i casi del nuovo capo di Gabinetto, la magistrata Carla Romana Raineri, che abbandona dopo che la Raggi ha chiesto un parere sul suo contratto all’Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, del superassessore al bilancio, Marcello Minenna, dell’amministratore dell’Azienda per i rifiuti Ama e del direttore generale dell’Atac (tutti dimissionari). Basta così? No, accetta e subito lascia dopo due giorni il nuovo assessore al Bilancio Raffaele De Dominicis, indagato per abuso d’ufficio (una vicenda non collegata al Comune di Roma). Esplode la vicenda di Salvatore Romeo, assunto con uno stipendio triplicato come capo della segreteria politica e rimasto in carica con una decurtazione dopo il parere del solito Cantone. Abbandona il suo incarico di assessore all’Ambiente Paola Muraro, indagata dalla Procura in un’inchiesta sulla gestione dei rifiuti. Muraro e la sindaca lo sapevano da mesi ma si erano guardate bene dal renderlo pubblico.

Purtroppo non è finita qui. Raffaele Marra, a metà del dicembre scorso, viene arrestato su richiesta della Procura per una vicenda precedente al suo ruolo nell’amministrazione Raggi. Tre dei «quattro amici al bar», la chat riservata utilizzata da Marra, Frongia e Romeo per scambiare messaggi con la sindaca e decidere incarichi e progetti del Comune, sono a vario titolo nell’angolo. Inizia la stagione degli interrogatori, dei veleni, delle battaglie sotterranee. Con la curiosa vicenda delle polizze vita sottoscritte da Romeo con beneficiaria, in caso di morte, Virginia Raggi. Nessun reato, secondo quanto avrebbero accertato gli inquirenti. Deciderà il giudice ma alcune domande sulla stranezza della cosa sono o no legittime? Oppure è vietato porsele, insieme a milioni di cittadini, come vorrebbero i grillini e qualche giornale amico? Non ci addentriamo, perché sarebbe troppo lungo, nelle guerre interne ai Cinque Stelle romani con i sospetti di un’azione di screditamento di Marcello De Vito, rivale della Raggi nella corsa alla candidatura del Movimento per il Campidoglio.

Potrebbe sembrare una telenovela, se non fosse che riguarda la Capitale d’Italia. Sia chiaro: nessun rimpianto per i precedenti sindaci e le passate amministrazioni. E tutta l’attenzione dovuta alle novità positive (come i tempi veloci con cui è stato redatto il bilancio preventivo del Comune) che la Raggi e la sua giunta sapranno mettere in campo. Ma non si può chiedere a un giornale di chiudere gli occhi davanti ai fatti. È stato così, per il Corriere e i suoi giornalisti, quando alla guida di Roma c’erano altri partiti. È stato così in tutte le indagini e le vicende politiche nazionali. Senza doppi pesi e misure e casacche di schieramento da tutelare. Virginia Raggi, la sua giunta, i suoi sostenitori hanno fatto tutto da soli, compreso immergersi in un po’ di fango. Per inesperienza, libera scelta o motivi a noi sconosciuti. Aspettiamo le prossime puntate per capire.

M5S, Di Maio: "Non ci sono liste proscrizione contro giornalisti". Video di Marco Billeci su "Repubblica Tv" dell'8 febbraio 2017. Parlando a margine di una conferenza stampa per presentare il portale sulle amministrazioni M5S, Luigi Di Maio parla della lista di articoli sul caso Roma da lui segnalati come diffamatori al presidente dell'Ordine dei Giornalisti. Di Maio torna anche sulla querela annunciata contro il cronista dell'Espresso Emiliano Fittipaldi e altri giornalisti sempre in merito alle vicende della sindaca Raggi. Nel 2009 Beppe Grillo chiedeva sul blog la depenalizzazione della querela per diffamazione a mezzo stampa perchè, scriveva, "La querela è un'arma da ricchi. Usata per intimidire. Per tappare la bocca". Eppure ora gli stessi esponenti del Movimento 5 Stelle si servono di questo strumento, come mai? "Non c'è nessuna volontà di intimidire nessuno - ribatte Di Maio -, ma c'è la necessità di tutelare l'immagine del Movimento".

Attacco alla stampa: Di Maio contro i cronisti del caso nomine, ma su Marra e polizze non dà risposte. La denuncia del vicepresidente della Camera all'Ordine dei giornalisti: "Ricostruzioni indegne, gettano discredito sul M5S". Ma restano i dubbi sul suo ruolo nella vicenda del Campidoglio, scrive Carlo Bonini l'8 febbraio 2017 su "La Repubblica". Avventurandosi su un terreno a lui non congeniale, i fatti, se non addirittura ostile, non fosse altro per il deficit di memoria che lo affligge ogni qual volta è chiamato a ricostruire circostanze e rispondere a domande che interpellano la sindaca Virginia Raggi e il suo fu "cerchio magico" (Raffaele Marra, Salvatore Romeo, Daniele Frongia), Luigi Di Maio accusa di mistificazione chi ha firmato le cronache di Repubblica sulla vicenda e ne chiede l'esemplare punizione disciplinare all'Ordine dei Giornalisti sulla base di quattro capi di incolpazione. Repubblica avrebbe scientemente omesso:

1) Che la Raggi non ha preso un soldo nella storia delle polizze sulla vita che Salvatore Romeo le aveva intestato "a sua insaputa".

2) La precisazione della Procura secondo cui nella vicenda delle polizze non si ipotizza alcun reato.

E ancora: Repubblica avrebbe falsamente dato conto:

3) Che le polizze assicurative, accese con fondi di origine non chiara, fossero una possibile contropartita per sigillare un patto politico.

4) Di illazioni diffamatorie relative a un incontro di Raffaele Marra e Luigi Di Maio che accredita il vicepresidente della Camera quale "garante politico" dell'allora vicecapo di gabinetto oggi detenuto a Regina Coeli per corruzione.

Le prime due circostanze sono semplicemente non vere. Per il semplice motivo che Repubblica non ha mai né affermato, né lasciato intendere che Virginia Raggi abbia "preso soldi". Né ha omesso di riferire, quando ne ha avuto contezza, che l'origine del denaro utilizzato per accendere le polizze fosse stata accertata come lecita.

La terza circostanza merita qualche fatto e argomento in più e si tira dietro qualche domanda a cui - Repubblica ne è certa - Di Maio vorrà rispondere pubblicamente con la stessa solenne enfasi e dovizia di particolari spesi per la sua denuncia. Che la vicenda delle polizze - come abbiamo raccontato - fosse e resti tutt'ora circostanza di interesse "penale" nell'inchiesta per abuso a carico di Virginia Raggi e che avesse, quando è emersa, due sole plausibili spiegazioni (fosse cioè l'evidenza di un "rapporto privatissimo" ma dalla ricaduta e dai costi pubblici tra la Raggi e Romeo o, al contrario, di una traccia che portava a una costituency elettorale della sindaca non dichiarata) è dimostrata da due circostanze. La prima: le polizze sono state oggetto di una contestazione alla sindaca durante il suo interrogatorio di giovedì scorso. La seconda: sono oggetto della nuova contestazione di abuso di ufficio a carico di Salvatore Romeo e della stessa Raggi perché resta da capire se possano essere state o meno il presupposto della nomina dello stesso Romeo a capo della segreteria della sindaca.

La vicenda pone dunque ancora delle domande alla cui risposta Di Maio vorrà certamente portare il suo contributo:

a) Come mai Salvatore Romeo non è stato in grado di spiegare per quale ragione avesse indicato quali beneficiari delle sue polizze vita la Raggi e altri militanti Cinque Stelle? A quel che se ne sa, in una delle due polizze intestate alla Raggi, secondo indiscrezioni di Procura, mai smentite, figurerebbe quale causale per l'indicazione della Raggi l'annotazione "relazione sentimentale". "Perché la stimavo", ha corretto Romeo, intervistato in tv.

b) Se è vero che la Raggi venne indicata come beneficiaria delle polizze "a sua insaputa", per quale motivo, una volta nominato dalla stessa Raggi capo della sua segreteria, Romeo non sentì l'urgenza di avvisarla, posto l'evidente conflitto di interesse?

c) Chi dei "quattro amici al bar", tra luglio e dicembre 2016 (il 16 viene arrestato Marra), decideva le nomine in Campidoglio? Marra "a insaputa " di Raggi, Romeo e Frongia? Marra e Romeo a insaputa di Raggi e Frongia? O, come documentano le chat estratte dal cellulare di Raffaele Marra dopo il suo arresto, almeno tre dei quattro amici - Raggi, Marra e Romeo tutti appassionatamente insieme? È un fatto che per le nomine di Renato Marra (fratello di Raffaele) e per quella di Salvatore Romeo, la Procura ipotizza l'abuso di ufficio della sindaca (in un caso in concorso con Raffaele Marra, nell'altro con lo stesso Romeo).

E veniamo quindi alla quarta e ultima incolpazione mossa da Di Maio. Il vicepresidente della Camera ci accusa di "illazioni diffamatorie" perché ricordiamo il suo incontro, nell'estate scorsa, con Raffaele Marra indicandolo come il momento in cui si fece "garante politico" della permanenza in Campidoglio dell'allora neonominato vicecapo di gabinetto investito dalle prime ricostruzioni di stampa che ne illuminavano il passato di destra. Ebbene, a Di Maio dovrà evidentemente essere sfuggita (ma non è la prima volta che confonde ciò che legge. Non comprese i messaggi Whatsapp con cui veniva avvisato dell'iscrizione di Paola Muraro, allora assessore all'ambiente, nel registro degli indagati per reati ambientali. E tenne per sé la notizia per oltre un mese) la minuta ricostruzione che, il 9 settembre 2016, il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio e la cronista Valeria Pacelli dedicano alla figura di Raffaele Marra e a quell'incontro. Una ricostruzione, converrà Di Maio, che per la fonte giornalisticamente "cristallina" può essere considerata "autentica", "ex cathedra", diciamo pure.

Vediamo: "6 luglio (2016 ndr.). Marra chiede di parlare con Luigi Di Maio, che lo riceve nel suo ufficio alla Camera. L'ex finanziere gli porta il solito valigione di documenti con tutte le sue denunce e per un'ora e mezza gli illustra la sua esperienza nell'amministrazione regionale e capitolina. "Se non l'avrò convinta - aggiunge - ho qui pronta la lettera di dimissioni". Poi, mostra anche a Raggi e Frongia una dichiarazione della Procura secondo cui non ha procedimenti penali in corso, diversamente da altri 7 dirigenti comunali (indagati o imputati, eppure ai loro posti senza alcuna polemica)". Dunque, il vicepresidente della Camera, il 6 luglio 2016, blocca le dimissioni di Marra e ne legittima il ruolo soprattutto agli occhi di quella parte del Movimento (stretta intorno alla Lombardi) che ne chiede l'allontanamento per il suo passato di "destra". Ma, del resto, a documentare la stima di Di Maio nei confronti di Marra, è anche una dichiarazione dello stesso vicepresidente della Camera del 1 luglio 2016 all'agenzia di stampa Ansa. Si legge: "Alla richiesta di un commento sulla nomina di Raffaele Marra a vice-capo di gabinetto, Di Maio risponde: "Chi ha distrutto questa città non fa parte della nostra squadra; chi in questi anni ha dimostrato buona volontà, competenze e storia personale, all'interno della macchina amministrativa, ci venga a dare una mano. L'ho detto in tempi non sospetti, la squadra non sarà legata al M5S ma sarà composta soprattutto da persone competenti che possono realizzare il programma del M5S"".

Dunque e infine: vuole, può, spiegare il vicepresidente Di Maio quale ruolo politico ha avuto e ha nelle scelte politiche e amministrative della Raggi? In particolare nella scelta di quegli "amici al bar", a cominciare da Raffaele Marra, oggi scaricati come infidi sabotatori?

Il "giornalista" Di Maio denuncia i cronisti ma non paga l'Ordine. Iscritto all'albo dei pubblicisti, da 2 anni non versa le quote. Il caso della stampa «nemica», scrive Pasquale Napolitano, Giovedì 9/02/2017, su "Il Giornale". Chi di elenco ferisce, di elenco perisce. Luigi Di Maio pubblica la lista di proscrizione dei giornalisti nemici del M5S ma finisce a sua volta in un'altra lista: quella dei giornalisti morosi. Prima di approdare ai piani alti della politica italiana, il leader pentastellato aveva intrapreso la carriera di cronista. Ora Di Maio figurerebbe nell'elenco dei morosi: sarebbero almeno due le annualità che il vicepresidente della Camera dei deputati pare non abbia ancora saldato. Sulla presunta inadempienza, Ottavio Lucarelli, presidente dell'Ordine dei giornalisti della Campania, non si sbottona: «Si tratta di dati sensibili». Di Maio è iscritto all'Ordine dei giornalisti della Campania dal 4 ottobre 2007: il parlamentare grillino ha mosso i primi passi nel giornalismo con un settimanale locale, Paese Futuro, che ha sede a Pomigliano d'Arco, dove il numero due di Montecitorio vive. Poi il richiamo di Grillo è stato più forte del primo amore. Il rigido codice del M5S impone un limite di due mandati per deputati e senatori. Una regola ferrea cui nemmeno il leader in pectore dei grillini può sottrarsi. E infatti il vicepresidente della Camera dei Deputati - intervistato da Myrta Merlino a L'Aria che tira - ha chiarito che «farà un altro mandato in Parlamento e poi ritornerà al suo lavoro». Per riprendere, però, in mano penna e taccuino, l'enfant prodige del firmamento grillino dovrà fare un salto a Napoli per regolarizzare le quote associative all'albo dei pubblicisti. Di Maio sarebbe, dunque, un giornalista pubblicista moroso. Ed è curioso che il presidente nazionale dell'Ordine Enzo Iacopino sia andato negli uffici della Camera dei deputati, e non il contrario, per farsi consegnare dal pubblicista Di Maio l'elenco dei giornalisti da mettere al bando. Una visita cui ha fatto seguito il silenzio dell'Ordine dei giornalisti sulla vicenda, almeno fino a quando lo stesso Di Maio non ha diffuso su Facebook i nomi dei giornalisti inseriti nella lista di proscrizione. «Faccio presente che la lista dei nomi dei giornalisti che secondo noi hanno danneggiato il Movimento Cinque Stelle mi era stata chiesta dal presidente dell'Ordine dei giornalisti attraverso un comunicato apposito», ha fatto sapere Di Maio. Iacopino ha quindi replicato: «Confermo, ho chiesto all'onorevole Luigi Di Maio di indicare specifiche responsabilità astenendosi da generalizzazioni che di fatto criminalizzano l'intera categoria giornalistica. Il problema non è la segnalazione all'Ordine di quanti il Movimento ritenga responsabili di un comportamento scorretto. Il problema deriva dalla diffusione dei nomi degli stessi che può, indirettamente, provocare azioni e reazioni che mi piace pensare siano estranee alla cultura del presidente Di Maio ma che i colleghi in troppe occasioni hanno potuto conoscere e hanno sofferto sulla loro pelle». Se l'Ordine nazionale ha scelto di non replicare all'affondo del leader dei Cinque stelle, l'Ordine della Campania si è invece attivato e ha convocato in audizione il «giornalista» Di Maio per il quale sta valutando l'ipotesi di un deferimento al Consiglio di disciplina. «Le liste di proscrizioni sono inaccettabili», spiega il presidente campano Lucarelli. E ancora: «Quelle del nostro iscritto Di Maio sono parole inopportune perché rappresentano una pericolosa invasione del potere politico nella libertà di informazione ma soprattutto perché arrivano da un rappresentante della nostra categoria».

Berdini: “La sindaca è impreparata. Dall’inizio si è circondata di una corte dei miracoli”. Lo sfogo dell’assessore all’Urbanistica: intorno a lei una banda. «Io sono amico della magistratura, Paolo Ielo lo conosco benissimo, è un amico, ma lei è stata interrogata otto ore. Anche lì c’è qualcosa che non mi torna», scrive Federico Capurso l'8/02/2017 su “La Stampa”. Nota Questa mattina l’assessore del Comune di Roma Paolo Berdini ha smentito di aver rilasciato delle dichiarazioni al nostro giornale sulla giunta di Virginia Raggi. “La Stampa” conferma parola per parola il colloquio con l’assessore Berdini pubblicato nell’edizione odierna a firma del giornalista Federico Capurso. Se umanamente si può comprendere l’imbarazzo dell’assessore, questo comunque non giustifica in alcun modo gli inaccettabili giudizi che Berdini ha pronunciato sul collega per cercare di smentire quanto riferito. Lo hanno chiamato «eretico», «comunista», ma Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica di Roma, è un uomo difficile da incasellare. Di certo anarchico, nel suo approccio con il Movimento 5 stelle: quasi esterno alla giunta grillina, libero dalle briglie nel dire sempre ciò che pensa e con una guerra da vincere, quella per evitare speculazioni edilizie nel progetto per lo stadio della Roma. Ora che la sua battaglia rischia di naufragare, e che la sindaca Virginia Raggi è sempre più incatenata dal commissariamento politico di Beppe Grillo e dalle vicende giudiziarie, Berdini sente il bisogno di sfogarsi, anche se non riesce a darsi una risposta, per come si sia arrivati a questo punto. «Non lo so, è stato fatto un errore dopo l’altro». Prima con la nomina di Raffaele Marra, poi la polizza di Romeo, «e se è uscita questa cosa su L’Espresso, fra qualche giorno magari ne esce un’altra. Non si può dire che sia finita la musica». Si stringe nella giacca, mentre dopo una giornata di lavoro tenta di fare il punto. «Trovo la situazione esplosiva, questa città non tiene». Ma le risposte non arrivano. Forse, c’è bisogno di tornare al principio di questa avventura, «quando i Cinque stelle mi hanno chiesto aiuto per affrontare alcune battaglie insieme. Anche per questo, non ho fatto gli esami con il direttorio. L’unico assessore, credo, ad essere entrato di diritto, ma non mi aspettavo tutto questo». Poi, forse, i volti delle persone con cui si è dovuto interfacciare in questi mesi tornano rapidi alla mente, dai consiglieri ai vertici del Movimento, fino a Virginia Raggi e a Salvatore Romeo, al centro dell’ultimo ciclone abbattutosi sul Campidoglio, e non riesce a tenersi: «Sono proprio sprovveduti. Questi secondo me erano amanti. L’ho sospettato fin dai primi giorni, ma mi chiedevo: “com’è che c’è questo rapporto?”». Mentre lo dice, il suo sguardo non è quello dell’insofferenza, ma della stanchezza, quasi arreso a certi comportamenti. «E poi, questa donna che dice che non sapeva niente, ma a chi la racconti? La sua fortuna è stata che non ci fosse nessun reato. Lei era anche già separata al tempo, e allora dillo! Ma possibile che questa ragazza non debba uscire mai?». Il problema del Campidoglio però, per Berdini non sembra quello di una eventuale relazione tra Raggi e Romeo, sulla quale peserebbe il sospetto, tutto politico, che Romeo abbia potuto approfittare della situazione per diventare capo staff della sindaca, con conseguente stipendio triplicato, in barba alle battaglie grilline contro le parentopoli, per la meritocrazia e così via. Il problema, per il professore “anarchico” di Roma, sembra essere proprio la Raggi: «Su certe scelte sembra inadeguata al ruolo che ricopre. I grand commis dello Stato, che devo frequentare per dovere, lo vedono che è impreparata. Ma impreparata strutturalmente, non per gli anni. Se vai, per dirne una, a un tavolo pubblico e dici che sei sindaco di Roma, spiazzi tutti. Lei invece…» - e nell’esitazione, Berdini si accarezza i baffi, prima di tirare un sospiro che nulla ha del sollievo - «Mi dispiace. Mi dispiace molto». «Se lei si fidasse delle persone giuste… Ma lei si è messa in mezzo a una corte dei miracoli. Anche in quel caso, io glie l’ho detto: “sei sindaco, quindi mettiti intorno il meglio del meglio di Roma”. E invece s’è messa vicino una banda». È forte il sapore del rimorso e della rabbia per non essere stato ascoltato quando, da mesi, aveva avvisato la sindaca dei pericoli che Marra e il Raggio magico portavano con sé. «Io sono amico della magistratura, Paolo Ielo lo conosco benissimo, è un amico, ma lei è stata interrogata otto ore. Anche lì c’è qualcosa che non mi torna». «Come se ne esce? Non lo so. Io questo non lo so». E si allontana nella notte romana. 

Berdini a Rainews 24: mai parlato con la Stampa, giornalista ha origliato chiacchiere private. L'assessore all'urbanistica smentisce le dichiarazioni sull'inadeguatezza della sindaca e sulla "corte dei miracoli". “Smentisco di aver mai conosciuto questo ragazzo che si è avvicinato a un gruppo di amici che parlano. Questo mascalzone ha registrato un colloquio privato. Non ho rilasciato alcuna intervista alla stampa” così Paolo Berdini assessore all’urbanistica al comune di Roma ai microfoni di Rainews 24 l’8 febbraio 2017 ha smentito categoricamente il colloquio con La stampa in cui definiva la sindaca di Roma “inadeguata e circondata da una corte dei miracoli”. “Sull’impreparazione – ha chiarito Berdini – io mi ci metto dentro. Non immaginavo il baratro che avrei trovato, siamo tutti impreparati e mi ci metto anche io. Questa città è in ginocchio e sia io che i colleghi di Giunta non immaginavamo che fosse messa così male”. Sui rapporti stretti tra Raggi e Romeo Berdini è ancora più categorico contro chi ha scritto l’articolo sul giornale: “Mai dette certe cose, è repellente ragionare su questo piano. Il ragazzo avrà contraffatto con i mezzi tecnologici a disposizione”. «Non ho mai detto queste cose. Non mi fate scendere nello scantinato in cui è sceso questo poveretto». “MI sono state messe in bocca parole inaudite da questo piccolo delinquente”.

Il giornalista della Stampa conferma: «Berdini ha detto anche banda di assassini», scrive l’8 febbraio 2017 “Il Corriere della Sera”. Un’altra «smentita della smentita» arriva da Federico Capurso, il giornalista della Stampa che ha pubblicato il «colloquio» con Berdini che ha fatto scoppiare la bufera. Intervenendo a «Un giorno da Pecora», su Rai Radio1, per dare la sua versione dei fatti, spiega: «Noi confermiamo questo colloquio, non c’era nessun bar, nessun caffè o aperitivo con gli amici, come ha detto Berdini. È stato un faccia a faccia, io e lui, io mi sono presentato come giornalista». E prosegue: «Mi ha detto che la Raggi è inadeguata e che le mancanze non sono dovute all’età, ma sono proprio mancanze strutturali». Capurso rincara la dose e sottolinea che il colloquio, così come è stato pubblicato, è stato alleggerito «di alcuni intercalari poco pubblicabili. Non c’erano attacchi più forti alla Raggi, c’erano alcune parolacce, usate come esclamazioni, ma le abbiamo tolte. E poi quando parlava di questa “banda”, che la Raggi si sarebbe messa intorno, invece di dire banda Berdini ha detto una banda di assassini».

Quello che non torna nelle dimissioni respinte di Berdini, scrive Alessandro D'Amato mercoledì 8 febbraio 2017 su "Next Quotidiano". Nel comunicato con cui Paolo Berdini afferma di aver rimesso il mandato nelle mani della sindaca Virginia Raggi, che vedete qui sotto riprodotto, ci sono da sottolineare un paio di circostanze molto interessanti che ci danno l’esatta dimensione della serietà dell’assessore: “Ho incontrato Virginia Raggi in Campidoglio: le ho ribadito la stima che merita. Provo profonda amarezza per la situazione che si è venuta a creare. Ne ho preso atto e, pertanto, ho rimesso il mandato conferitomi dalla sindaca lo scorso luglio. Una conversazione carpita dolosamente da uno sconosciuto che non si è nemmeno presentato come giornalista e durante la quale avrei persino affermato di essere amico del procuratore Paolo Ielo che non ho mai conosciuto in vita mia”. “Ci stanno massacrando, un vero e proprio linciaggio mediatico che si sta scatenando proprio nel momento in cui l’amministrazione comunale prende importanti decisioni che cambiano il modo di governare questa città – aggiunge – Da mesi il sottoscritto lavora per riportare la materia urbanistica e l’affidamento degli appalti pubblici nella più assoluta trasparenza. E’ questo il programma della nuova amministrazione: un’azione limpida che evidentemente crea problemi ad alcuni gruppi di potere”. “Non sto a raccontare di pesanti insulti e minacce che ricevo quotidianamente in rete, ora siamo passati anche alle trappole. Questo è il rischio che corrono coloro che vogliono rompere vecchi e consolidati equilibri di spartizione che non abbiamo mai accettato e non accetteremo mai”, prosegue l’assessore. “Ho incontrato Virginia Raggi in Campidoglio: le ho ribadito la stima che merita. Provo profonda amarezza per la situazione che si è venuta a creare. Ne ho preso atto e, pertanto, ho rimesso il mandato conferitomi dalla sindaca lo scorso luglio”, conclude Berdini. Federico Capurso durante il suo intervento a L’Aria che tira ha invece dichiarato di essersi presentato come giornalista a Paolo Berdini, come del resto prevede la deontologia. Ma non è questo il punto. Immaginiamo che invece Berdini abbia ragione e davanti a lui la settimana scorsa si sia presentato un quisque de populo chiedendogli cosa ne pensasse della Raggi. Berdini, come potete notare, nel comunicato non ha smentito di aver detto le frasi che ha detto sull’amministrazione. Così come la Raggi, del resto. Ebbene, Berdini nel colloquio sulla Stampa ha sostenuto nell’ordine:

– che Virginia Raggi aveva una relazione con Salvatore Romeo;

– che il problema della Raggi non era l’inesperienza, ma proprio l’incapacità;

– che non è vero che la sindaca non sapesse niente delle polizze vita di Romeo;

– che la sindaca si è messa vicino “una banda” (di assassini, ha precisato successivamente Capurso).

A questo punto la domanda sorge spontanea: ma Berdini è solito andare in giro a raccontare segreti (o per meglio dire: diffamazioni) dell’amministrazione e giudizi così netti sulle bande in Comune al primo che passa per strada? E se così fosse, visto che le sue parole sembrano abbastanza inequivocabili, è sicura la Raggi che le dimissioni dell’assessore fossero da respingere? Poi c’è un’altra questione, anche più interessante. Respingere le dimissioni con riserva è un non senso giuridico dal momento che la riserva si appone all’accettazione delle dimissioni (come quando il Presidente della Repubblica accetta con riserva le dimissioni del presidente del consiglio invitandolo a restare in carica per il disbrigo degli affari correnti), non già alla loro reiezione. La formula “Respingerle con riserva” sembra suggerire che le dimissioni siano respinte tout court ma ci si riservasse di accettarle. In realtà la riserva serve ad evitare vuoti di potere e discontinuità amministrative causate dalle dimissioni di chi svolge pubbliche funzioni. Respingere con riserva invece è anche inconcepibile dal punto di vista logico, oltre che giuridico, visto che riconfermare la piena fiducia al dimissionario (perché di questo si tratta, altrimenti le dimissioni andrebbero “accettate con riserva”) e al tempo stesso subordinare questa fiducia ad una non meglio precisata riserva violerebbe il principio aristotetelico di non contraddizione. Ma queste, nel momento in cui parliamo di un assessore che racconta a uno sconosciuto degli amanti della sindaca, sono purtroppo mere tecnicalità.

Lo sfogo di Paola Muraro: la giunta Raggi? Una corte dei miracoli, scrive "Agi" il 9 febbraio 2017. La giunta di Virginia Raggi "ha perso di vista il bene della città e lavora per altri obiettivi". A denunciarlo è Paola Muraro, il primo assessore grillino a cadere nella giostra di dimissioni che ha segnato il Campidoglio a Cinque Stelle. L'amministrazione della Capitale "non è coerente" con il programma Cinquestelle dice la Muraro in un'intervista al Messaggero, "E' una guerra tra bande e le decisioni più delicate vengino prese dai vertici del Movimento e non dalla Giunta, dove invece si combatte "a colpi di dossieraggi e veleni", spesso propagati dal "gruppetto di fedelissimi della sindaca". A meno di due mesi dalle sue dimissioni rassegnate per avere ricevuto un avviso di garanzia, l'ex responsabile all'Ambiente di Roma Capitale si dice "delusa e amareggiata" e per nulla sorpresa dal bubbone scoppiato mercoledì per le dichiarazioni dell'assessore all'Urbanistica Paolo Berdini, che ha parlato di una Raggi attorniata da una "corte dei miracoli" e soprattutto di una sindaca "inadeguata e impreparata". "Onestamente non mi stupisce, sono cose che Berdini ha sempre detto, anche in giunta davanti a tutti. Pure di me parlò in quei toni". "Sono stata coerente con il programma del Movimento" incalza la Muraro, "Più grillina di me penso che non ci sia nessuno, da questo punto di vista. E consideri che io sono ancora grillina e per questo sono molto amareggiata. In questa giunta mancano soprattutto delle risposte a chi ha votato Cinquestelle. Prima avevamo un programma che era considerato come un vangelo. Ora non mi sembra che sia più così". L'ex assessore parla anche di chi comanda in Comune: quel "Raggio magico" un "gruppetto di fedelissimi che aveva fatto la campagna elettorale con la sindaca. Si erano creati rapporti effettivamente molto stretti. E la sindaca si è appoggiata a loro. Alla fine è stato un errore". 

Ora anche per Paola Muraro la Giunta Raggi è una guerra per bande. In un'intervista al Messaggero l'ex assessora spara a zero sulla sindaca e sul MoVimento 5 Stelle: «Dipendere dai vertici, che non ho mai conosciuto, non è una bella cosa», scrive "Next Quotidiano" giovedì 9 febbraio 2017. Francamente è incredibile. Paola Muraro, che da assessora all’ambiente a Roma ha ripetutamente mentito all’opinione pubblica celando un’indagine nei suoi confronti di cui era venuta a conoscenza per mesi, dopo le dimissioni attacca la Giunta Raggi e la sindaca. Sostenendo che quella del M5S a Roma è una “guerra per bande”, che non rivoterebbe Virginia Raggi e che le decisioni più delicate arrivano “dai vertici M5S esterni al Comune. Un’intervista in cui la Muraro, che fino a qualche tempo fa si diceva pronta a ritornare in giunta, sparge veleno a trecentosessanta gradi: forse, dopo aver scoperto ieri chi era Paolo Berdini, la sindaca dopo la lettura di questa intervista riuscirà finalmente a comprendere quanto fosse assurda la sua testardaggine nel difenderla.

Amareggiata. Per quale motivo? 

«Beh, avevo votato il Movimento.»

E ora non li rivoterebbe più? 

«Beh, diciamo che me ne resterei a casa» (ride).

Addirittura. Come mai? 

«In questa giunta manca coerenza. Mancano soprattutto delle risposte a chi ha votato Cinquestelle. Prima avevamo un programma che era considerato come un vangelo. Ora non mi sembra che sia più così».

Chi comanda in Comune? Che rapporti aveva con Romeo e Marra? 

«Quando ero assessore con il cosiddetto “Raggio magico” non avevo molti contatti. Questo gruppetto di fedelissimi aveva fatto la campagna elettorale con la sindaca. Si erano creati rapporti effettivamente molto stretti. E la sindaca si è appoggiata a loro. Alla fine è stato un errore. Alla luce di questi fatti anche io non so più con chi ho parlato. Sa, a Roma si fa fatica a capire di chi ci si può fidare…».

Si è resa conto della guerra tra bande nel Campidoglio grillino? Dei dossieraggi? 

«Certo, ho capito che c’è stata una guerra sotterranea, anche su di me. Anche se all’epoca devo dire che non me ne sono accorta».

E poi parla delle sue dimissioni: Si aspettava che le respingessero?

«No, visto il clima che si era creato… Ho capito che non dipendeva nemmeno più dai consiglieri, dipendeva da altri».

Da chi? 

«Dai vertici del Movimento. E mi faccia dire una cosa: dipendere dai vertici, che non ho mai conosciuto, non è una bella cosa».

Frasi e veleni del M5S a Frasi e veleni del M5S a Roma. Intercettazioni, insulti contro il sindaco Virginia Raggi, dichiarazioni incendiarie degli assessori. Un breve catalogo, scrive l'8 febbraio 2017 Panorama.  

“Hai rotto er cazzo. Smettila de fa la bambina deficiente... Non rompere i coglioni altrimenti te appendemo pe le orecchie... anni di lotta sudore e sangue pe na testa de cazzo”. (Annalisa Taverna, sorella della parlamentare Paola Taverna, riguardo a Virginia Raggi).

“Ti sei contornata del non plus ultra della merda. Per le tue scelte del cazzo ci andiamo di mezzo soprattutto noi”. (Annalisa Taverna, sorella della parlamentare Paola Taverna, riguardo a Virginia Raggi).

"Raffaele Marra è un virus che ci ha infettati”. (Roberta Lombardi, capogruppo del M5S).

“La Lombardi faccia pace con il cervello...” (Virginia Raggi su Roberta Lombardi).

“Chiedi al nostro amico della finanza di indagare su di lei”. (Raffaele Marra e Salvatore Romeo parlando dell’ex assessore Paola Muraro).

"Ma la stronza sono io, vabbè meglio che taccia anch’io..." (Paola Taverna in un sms scambiato con l’ex capo di gabinetto Carla Ranieri).

“(Raggi) Si è messa in mezzo a una corte dei miracoli. Anche in quel caso, io gliel’ho detto: “Sei sindaco, quindi mettiti intorno il meglio del meglio di Roma”. E invece s’è messa vicino una banda”. (Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica di Roma, su Virginia Raggi in un colloquio riportato dal quotidiano La Stampa).

“Sono proprio sprovveduti. Questi secondo me erano amanti. L’ho sospettato fin dai primi giorni, ma mi chiedevo: “Com’è che c’è questo rapporto?” (Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica di Roma, su Virginia Raggi in un colloquio riportato dal quotidiano La Stampa).

Luigi Di Maio: "Posso almeno sapere se il 335 è pulito?". Paola Taverna: "No, non è pulito". (Di Maio e Taverna intorno alle indagini che vedono coinvolta l'ex assessore ai rifiuti Paola Muraro).

“Se parlo io vi rovino tutti”. (Raffaele Marra, dirigente del comune di Roma, ex braccio destro di Virginia Raggi arrestato il 16 dicembre)

Grillo, la setta dell'altrove. L'infortunio europeo conferma una mancanza di sostanza, di qualità e addirittura di significato politico, scrive Ezio Mauro il 12 gennaio 2017 su "La Repubblica". Non è esattamente una passeggiata di salute quella che Grillo e Casaleggio si sono fatti sulla Grand Place di Bruxelles. Nel breve, ridicolo e clamoroso avanti e indietro tra gli antieuropeisti di Farage e i liberali di Verhofstadt si radunano infatti tutti i demoni irrisolti di un movimento perennemente allo stato gassoso che non riesce a consolidare alcunché, perché non avendo storia e tradizione (il che non è certo una colpa) non ha nemmeno saputo costruirsi un deposito culturale di riferimento a cui ancorare le trovate estemporanee del leader, abituato ad uscire da una quinta per cambiarsi d'abito e ricomparire dall'altra con uno sberleffo. La politica è un po' più complicata, a lungo andare, soprattutto negli intervalli tra una campagna elettorale e l'altra: per fortuna non tutto è performance, blog, comizio, una volta ogni tanto bisogna trasmettere l'idea che oltre a distruggere si è capaci anche di costruire qualcosa. L'Europa, poi, è complicata ancor di più. Esistono famiglie politiche, perché esistono vicende storiche e civili che hanno selezionato interessi, valori e persino personalità producendo cultura politica (mi scuso per l'espressione fuori moda): e da quella cultura, semplicemente, sono nate le costituzioni e le istituzioni nelle quali viviamo - potremmo dire - nelle difficoltà degli uomini ma nella libertà del sistema, in questo nostro lungo dopoguerra europeo di pace. Bene, se questa è la cornice, il quadro non è solo un infortunio senza precedenti, da inserire per anni nei repertori comici in teatro, per far ridere la platea. È la conferma di una mancanza di sostanza, di qualità e addirittura di significato politico. Qui succede che un movimento nasce contro l'euro e contro l'Europa, oltre che contro tutte le inefficienze, le disfunzioni e le corruzioni della nostra democrazia indigena. Entra nel gruppo antieuropeista di Farage, campione della Brexit e dell'insularità britannica. Poi, dopo uno stage sul bordo-piscina di Briatore a Malindi, ecco la rivelazione keniota del fondatore, l'idea che per prepararsi a governare conviene abbandonare alleati così radicali, e spostarsi in un'area più tranquillizzante. I liberali? Perché no, vanno bene come qualsiasi opzione che non costringa a scegliere davvero tra destra e sinistra, per non dividere il fascio di consensi. La post-modernità della post-politica è questa: mani libere, destra e sinistra sono superate, il nuovo vive in un altrove indistinto che si può manipolare a piacere e abitare con comodo, interpretandolo come una pièce che si aggiorna di piazza in piazza, secondo l'estro del capocomico. Il fatto di aver ironizzato sui liberali per anni e di aver polemizzato ripetutamente con loro non conta, perché tanto nell'altrove non esiste un'opinione pubblica interna, cui rendere conto. Anzi, la giravolta è diversità, la diversità è libertà, e libertà significa semplicemente che il Capo fa quel che vuole. Nessuna discussione, nessun dibattito, soprattutto nessuna passione: politica, storica, culturale, capace di dare anima e corpo ai diversi apparentamenti europei del movimento, di delineare una visione, una prospettiva identitaria, qualcosa di riconoscibile e riconosciuto, un modello di riferimento. L'altrove non ha modelli, se non l'idea originaria del leader, soggetta a colpi di vento o di sole africani, ma per definizione esatta, innocente, intatta nel cerchio perfetto del carisma perenne e soprattutto autosufficiente per spiegare ogni cosa. Poi naturalmente c'è il referendum, strumento perfetto di ogni meccanismo sommario. Come chiamarlo? Confermativo? Plebiscitario? Laudativo? Io direi gregario. Un sistema di acquiescenza e ratifica che governa meccanicamente un surrogato di consenso, richiesto e ottenuto in automatico ogni volta che c'è bisogno di dare una vernice comunitaria postuma alle improvvisazioni solitarie del Supremo Garante. Un referendum convocato in quattro e quattr'otto, svolto su due piedi come al circolo nautico o al club degli scacchi, attorno alla trovata di uno solo. Senza una discussione preparatoria, un confronto di idee, un dibattito aperto che consenta agli interni e agli esterni di conoscere non solo l'esito e il saldo finale, ma le ragioni di una proposta, il percorso di una scelta, rischi e opportunità, alternative possibili e i riflessi che tutte queste diverse opzioni possono avere sulla fisionomia pubblica del movimento. Tutto questo in nome di un altro demone originario: il segreto, figlio del complotto e della grande congiura, che naturalmente è sempre in atto e con tutto quel che succede nel mondo è concentrata sempre e solamente su Raggi e su Di Maio, e li fa perfidamente inciampare sui frigoriferi, sul Cile e il Venezuela. L'ultima invenzione è la congiura dell'"establishment" che Grillo ha evocato per dargli la colpa del trappolone europeo, in realtà fabbricato in casa. Come se in Italia esistesse una classe dirigente capace di coniugare gli interessi particolari legittimi con l'interesse generale, invece di singoli network gregari, concessionari e autogarantiti. Ma la congiura e il segreto fortificano lo spirito, trasformano la politica in fede, il movimento in setta, la trasparenza in confisca. Il referendum avviene su una piattaforma software privata di una società privata che gestisce la cosa più pubblica che c'è, vale a dire la proposta politica di un movimento, e conserva nomi e password degli iscritti nella mitica fondazione Rousseau come in uno scrigno segreto. Il segreto giustifica il vulnus di trasparenza, le decisioni europee prese in Kenya alle spalle dei deputati europei, perché gli eletti nel movimento hanno nei fatti un preciso e anticostituzionale vincolo di mandato, nei confronti del partito-moloch. Lo dice su Facebook l'eurodeputato Tamburrano: "Hanno preparato un accordo schifoso sulla testa della maggioranza di noi portavoce (di chi?) europei facendo piombare una domenica mattina una votazione farlocca, prendendo per i fondelli noi, milioni di elettori e lo stesso Beppe Grillo". E la senatrice Nugnes denuncia "la scarsità della partecipazione" ai referendum, "che si attesta intorno al 30 per cento, di solito al di sotto". "Dovevamo essere il popolo dell'intelligenza critica e della democrazia diretta - spiega - invece è successo qualcosa che per il momento ha bloccato completamente il processo". Cosa? "Una democrazia carismatica con affettività malata". Naturalmente la miseria impaurita e impotente del dibattito interno al Pd dopo la clamorosa sconfitta al referendum non è una giustificazione per il M5S: se mai poteva essere uno stimolo e un'occasione politica di diversità. Invece direttorio, garanti, portavoce: tutta un'intercapedine procedurale che è il contrario della democrazia diretta, e che consente alla Casaleggio di veicolare contenuti a piacere dall'alto al basso, come memorandum aziendali, e al leader di rivoltare il calzino a piacere dalla terrazze dell'Hotel Forum ogni volta che gli serve. Nell'altrove, tutti gli eletti, tutti i dirigenti, tutti gli uomini nuovi sono in realtà semplicemente dei fiduciari del Capo: in altre epoche li avremmo chiamati portaborse, sottopancia, boiardi minori e periferici, con in più la sovrastruttura burocratico-statutaria della multa di 250 mila euro per chi dissente, come fanno le società di calcio con un qualsiasi centravanti chiacchierone o indisciplinato. Questo evidente pasticcio che parla di democrazia e pratica la teocrazia ha portato al capitombolo europeo con la ribellione dei liberali, convinti che la "cheap politics" di Grillo cozzi con tutto il loro armamentario ideale, visto che loro ne hanno uno, a cui tengono. Segue il ritorno a Canossa da Farage, le condizioni umilianti del leader Ukip per riammetterli in casa dalla porta di servizio, la velocità di Di Maio che un minuto dopo il ritorno nel gruppo antieuropeista si dice pronto a votare contro l'euro, senza nemmeno togliersi il vestito liberale che il movimento aveva indossato da due giorni per l'occasione. Ma la brutta figura davanti all'intera Europa non è ciò che conta davvero. Conta l'anomalia del grillismo, rivelata da questa vicenda. Attenzione, non la diversità, benvenuta in un sistema politico stagnante: ma l'anomalia. In sostanza, la strozzatura di un meccanismo chiuso in sé, che come rivela questa storia non è contendibile, prima e suprema condizione della trasparenza, della libertà e della democrazia. Il resto purtroppo è chiacchiera. Tanto che in Europa basta evocare un minimo di cultura liberale per scioglierla come una bolla di sapone.

Il potere soltanto per il potere, scrive Piero Sansonetti l'11 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Nel drammatico sbandamento del partito di Beppe Grillo – che in pochi giorni è passato dalle sponde giustizialiste, a quelle garantiste, a quelle liberali, e poi di nuovo a quelle giustizialiste, passando anche per idee pauperiste in parte di radice ex comunista – è intervenuto ieri Marco Travaglio, direttore di quello che è considerato il giornale dei 5Stelle. Travaglio già in altre occasioni si è assunto un compito di direzione ideologica del movimento, specie nei momenti di crisi. L’idea di Travaglio: Frattocchie a 5 stelle Non per “sapere” ma per “potere”. Stavolta Travaglio cerca di indicare una via d’uscita, sulla base di una analisi politica tutt’altro che improvvisata. Ma forse monca. Travaglio sostiene che il punto debole del movimento ( o del partito) di Grillo è l’assenza di un gruppo dirigente, e addirittura di personale politico. Mi pare difficile dargli torto. Intorno a Grillo e Casaleggio non c’è nulla, neppure l’alito di un pensiero, né gente in grado di far valere la propria esperienza politica, o la saggezza, o almeno l’intelligenza. Dice Travaglio che questa è la palla al piede che rischia di portare al crash un movimento che invece avrebbe grandi potenzialità per il solo fatto di essere l’unico movimento politico seriamente e organicamente contrapposto all’establishment. Establishment è una parola inglese molto usata in politologia. Establishment può essere tradotto con due espressioni, simili ma non uguali: gotha del potere o invece classe dirigente. Non è esattamente la stessa cosa. Travaglio osserva che è difficile opporsi all’establishment con speranza di successo se non si è in grado di indicare un nuovo assetto. Per questo tutto è perduto se non si costruisce una classe dirigente attorno a Grillo. Giusto. E a questo scopo, nell’editoriale che ha pubblicato ieri sul “Fatto Quotidiano” (dai toni molto dimessi e tristi, assai diversi da quelli baldanzosi che in genere contraddistinguono i suoi scritti), non si è limitato a ripetere alcuni degli slogan usati dalla ditta Casaleggio nelle ultime ore (tipo quello sul potere terrorizzato dalle giravolte grilline) ma ha proposto una soluzione concreta e un po’ stupefacente: organizzare le scuole di partito a 5 stelle. Chiaramente un po’ sulla falsariga delle “scuole quadri” che nel secondo dopoguerra e fino a tutti gli anni ottanta venivano organizzate dal Pci (e in parte, ma in modo meno vistoso e meno capillare, dalla democrazia Cristiana e dal partito socialista). E’ una buona idea? Beh, ha dei punti deboli. Provo a dirlo in modo molto schematico. Le scuole di partito hanno bisogno di tre cose: un partito di massa, una idea (o un’ideologia) e degli insegnanti di valore. Al momento al Movimento 5 Stelle manca un partito. Si intende per partito una organizzazione molto vasta, estesa su tutto il territorio nazionale, con dei luoghi di ritrovo e di discussione che radunano quasi quotidianamente migliaia di militanti. Con la possibilità, da parte dei militanti, di discutere, esprimersi, di contare, di eleggere dei rappresentanti, di tenere dei congressi. E’ chiaro che una chat sul web, o un indirizzo di posta elettronica o una piattaforma per votare (un po’ come fa la Gazzetta dello Sport coi sondaggi sul migliore in campo) sono qualcosa di molto più semplice di un partito, ma anche di completamente diverso. Un partito costruisce sulla sua dimensione di massa la propria cultura politica. Una chat costruisce al massimo una tecnica informatica, un buon uso del ctrl, o dell’alt, o del cmd. Secondo problema: gli insegnanti. Le scuole di partito del Pci (la più celebre era quella delle Frattocchie, vicino Roma) funzionavano anche sul fatto che gli insegnanti erano di buona qualità. Molti di loro avevano una cattedra all’università, o erano presidi di facoltà o rettori, erano conosciuti in tutto il mondo. Qualche nome appena: Lucio Lombardo Radice, Eugenio Garin, Sascia Villari, Cesare Luporini, Ernesto Ragionieri, Nicola Badaloni… Beh, è difficile immaginare una scuola di partito dove gli insegnanti sono Di Battista, o Di Maio, o lo stesso Travaglio. Eppure sono convinto che questi due problemi, in qualche modo, potrebbero anche essere superati. Il terzo problema è il più ostico: l’assenza di una idea politica. Le idee politiche sono cose piuttosto complicate, generalmente maturano dopo anni e secoli, alla loro costruzione partecipano centinaia di grandi intellettuali. E’ stato così per il liberalismo, per il marxismo e anche per il socialismo democratico, che a occhio e croce sono i tre grandi filoni di idee politiche che hanno segnato la modernità. Ma è stato così, seppure con tempi e in forme più ridotti, per movimenti recenti, come il movimento ecologista. Ed è stato così anche per la formazione dei sistemi di idee più reazionari, che oggi sono alla base del funzionamento dei movimenti europei radicalmente di destra. Il problema di fondo del grillismo – che forse Travaglio non vede – è che, al momento, è del tutto privo di un sistema di idee e quindi di una linea politica. Come è stato largamente dimostrato dalle danze di questi giorni tra Goffredo Parise, Nigel Farrage e l’europeismo liberale ispirato da tipi come Einaudi e Mario Monti. Ora la domanda è semplice: si può mettere in piedi una scuola di partito che insegni metodi di poterete del tutto privi di linea politica? E cioè, se capiamo bene, che insegni pure e semplici tecniche per la conquista e l’esercizio del potere?

Forse si può. Forse è questa la post politica. La rinuncia dichiarata ai valori, ai programmi. La dichiarazione di lotta puramente per il potere. La concezione di una politica finalmente libera dalla zavorra delle idee e che può con agilità e totale camaleontismo dedicarsi puramente al potere. E’ questa la modernità? Forse sì. E’ bella? Forse no.

Da manettari a garantisti Così i grillini archiviano la (presunta) superiorità. L'inchiesta romana è un boomerang sul M5s: adesso la Raggi governi oppure si dimetta, scrive Francesco Maria Del Vigo, Mercoledì 25/01/2017, su "Il Giornale". Boom. Alla fine il famoso botto si è sentito, come Grillo aveva - anni or sono - minacciosamente annunciato. Ma si tratta di un altro botto. Non quello elettorale. È crollata definitivamente al suolo la presunta superiorità morale dei grillini. Le stelle sono cadute. È la notte di San Lorenzo del giacobinismo a Cinque Stelle. L'iscrizione del sindaco di Roma Virginia Raggi nel registro degli indagati (è indagata per falso e abuso d'ufficio nell'ambito della nomina del fratello di Raffaele Marra, ex capo del personale del Campidoglio, poi arrestato) polverizza la verginità giudiziaria dei Cinque Stelle. Insomma: la prima cittadina della Capitale, di stretta osservanza grillina e dunque ayatollah del giustizialismo, avrebbe assunto il fratello del suo chiacchieratissimo braccio destro. Ovviamente è tutto da verificare. Ma nel colorito vocabolario pentastellato tutto sarebbe già stato metodicamente etichettato: familismo, nepotismo, abuso di potere. Diciamolo: casta. E se ci mettessimo gli occhiali del grillismo e squadrassimo dall'alto al basso la bella sindaca, dovremmo - come minimo - chiedere le sue immediate dimissioni. Seguendo alla lettera l'ottusa e rigida disciplina del Movimento 5 Stelle. Per dire: Gianroberto Casaleggio, nel suo ultimo libro testamento - spennellava un mondo ideale nel quale i dipendenti infedeli della pubblica amministrazione venivano «esposti in apposite gabbie sulle circonvallazioni delle città». E invece no. Questa volta no. I Cinque Stelle si sono accorti che il loro fondamentalismo manettaro è un boomerang che gli sta tornando dritto dritto sulla fronte. Ma il grillismo è un camaleonte che si adatta a ogni esigenza e quando il vento della giustizia gira a sua sfavore, impegna un attimo ad assumere le nuance del giustizialismo. Ben vengano, buon ultimi, dalle parti del dubbio. Se non fosse l'ennesima buffonata. Una commedia degli equivoci nella quale tutti fingono di non sapere. La Raggi si finge stupita della convocazione in procura, quando oramai era chiaro a tutti dove sarebbero andati a parare i giudici. Pure Grillo fa il pesce in barile. Anche se proprio lui, con un anticipo da indovino, si era già affrettato a fare una conversione a U da ritiro immediato della patente di circolazione politica, sostenendo che non è necessario dimettersi di fronte a un avviso di garanzia. Ma l'effetto domino di questa commedia degli equivoci è travolgente e scivola in metamorfosi esilaranti. L'ex premier Matteo Renzi, che non aspettava altro che poter inforchettare i grillini - intima ai suoi di essere garantisti e di non infierire sulla Caporetto giudiziaria dei seguaci del comico. Mai nella storia politica recente era stato sguainato tante volte lo scudo del garantismo e della - sacrosanta! - presunzione di innocenza. Persino Marco Travaglio, nel tentativo di rimanere in equilibrio tra giustizialismo e filo grillismo, si mette a parlare a denti stretti di presunzione di innocenza. Probabilmente provocandosi un eczema. Insomma la Raggi, per il momento, come sindaco non ha fatto un bel niente. Ma come politico ha già fatto un miracolo: trasformare grillini e soci in garantisti. Ora c'è da sperare che non dimentichi la lezione. E che magari inizi a governare la Capitale. Giudici nonostante.

M5s: le nomine di parenti, amici, amici degli amici. Anche i grillini in fatto di poltrone, non sono diversi dagli altri partiti. Ecco chi fa carriera. Alla faccia della trasparenza, scrive il 23 gennaio 2017 Antonio Rossitto su Panorama. "Tantissime persone vorrebbero collaborare con noi. E vi promettiamo che faremo del nostro meglio per scegliere persone adeguate all’obiettivo: lavoratori trasparenti, onesti e volenterosi, competenti e puliti" gongolava a marzo del 2013 l’allora capogruppo dei Cinque stelle alla Camera, Roberta Lombardi, di fronte ai 18 mila curriculum che avevano intasato la casella di posta elettronica del movimento. Scegliere i migliori. Rimarcare la diversità dai partiti tradizionali. Quelli con le segreterie politiche piene di amici e amici degli amici. Non è andata così. La rivoluzione pentastellata è rimasta lessicale: portavoce al posto di onorevoli, collaboratori invece che portaborse, cittadini e non galoppini. Ma le logiche di reclutamento in molti casi non sono state dissimili da quelle vituperate. Sodali, parenti, attivisti. Dai palazzi di Bruxelles a quelli romani, passando per le assemblee regionali e i consigli comunali e di quartiere, l’ormai mitologica trasparenza grillina è spesso rimasta solo uno slogan. Come a Roma, dove lo scorso giugno è stata eletta Virginia Raggi. Le ultime polemiche sono divampate qualche giorno prima di Natale per la nomina di Alessandra Manzin, assunta da Linda Meleo, assessore ai Trasporti. Manzin è fidanzata con Dario Adamo, assistente di Rocco Casalino, influente capo della comunicazione dei Cinque stelle in Senato. Simile solfa nelle care, vecchie, circoscrizioni. Il caso più dibattuto è quello di Giovanna Tadonio, moglie di Marcello De Vito, presidente del consiglio comunale di Roma, vicinissimo a Roberta Lombardi. Tadonio è diventata assessore al Personale nel Municipio III. Mario Podeschi, assistente alla comunicazione del deputato Enrico Baroni, è stato nominato vice presidente del Quinto. Veronica Mammì, fidanzata del consigliere comunale Enrico Stefano e già assistente della parlamentare grillina Federica Daga, è diventata assessore alle Politiche sociali nel Settimo. Nell’Undicesimo, la delega all’Ambiente e ai Lavori pubblici è andata a Giacomo Giujusa, consulente dell’onorevole Stefano Vignaroli, compagno della verace senatrice Paola Taverna. Nel Municipio VIII divampano, invece, i caminetti familiari. In consiglio siedono Teresa Leonardi ed Eleonora Chisena: madre e figlia. Sugli stessi banchi ci sono i Morazzano: Giuseppe è il capofamiglia, Luca è il rampollo. Da Roma, i venti del rinnovamento sono arrivati pure a Genzano, a una ventina di chilometri dalla capitale, dove i Cinque stelle hanno trionfato lo scorso giugno. Il nuovo sindaco è Daniele Lorenzon. Che, appena insediato, fa un contratto di collaborazione a Daniela Gabriele, nipote della senatrice Elena Fattori. La replica è perentoria: "Non è una parente in quanto nipote del marito, ergo un’affine". Intimissima è invece Daniela Fattori, sorella della succitata parlamentare pentastellata, eletta in consiglio comunale. Dove siedono anche Elena Mercuri e Luigi Nasoni: moglie e marito. Del resto, però, il M5s è da sempre un affare di famiglia. A partire dai vertici. Davide Casaleggio, dopo la morte del padre Gianroberto, ha preso in mano le redini. Lo stesso leader carismatico, Beppe Grillo, ha creato l’Associazione movimento cinque stelle, che controlla il partito, seguendo uguali logiche. Presidente è il comico. Suo vice è il nipote: il brillante avvocato Enrico Grillo. Segretario è il suo commercialista Enrico Maria Nadasi. Che, poco più di un anno fa è stato nominato nel cda della Filse, la finanziaria della regione Liguria, su indicazione dei Cinque stelle. Dunque: Grillo, il nipote e il commercialista detengono blog e associazione. Il cui scopo è quello di determinare la politica nazionale "attraverso la presentazione alle elezioni di candidati e liste indicati secondo le procedure di diretta partecipazione attuate attraverso la rete". È successo anche in Europa. Gli eletti erano 17. Ma, dopo il pasticcio del tentato passaggio nel gruppo dell’Alde, due onorevoli hanno abbandonato il M5s: Marco Affronte e Marco Zanni. Gli eurodeputati pentastellati sono dunque rimasti in 15. Ognuno dotato, salvo rare eccezioni, di un plotone ministeriale di assistenti. Come David Borrelli, contestato per aver perorato il mancato accordo con i liberali di Guy Verhofstadt. Tra assistenti accreditati e locali, prestatori di servizi, terzi erogatori e tirocinanti per l’onorevole vicinissimo a Casaleggio lavorano 12 persone. In totale, rivela il sito del Parlamento di Bruxelles, i 15 eurodeputati grillini hanno 103 collaboratori: una media di sette persone a testa. Così fan tutti del resto. Il blogger Claudio Messora, capo della comunicazione del movimento a Bruxelles fino al novembre 2014, spiega: "Ogni portavoce può spendere fino a 21 mila euro in contratti. E molti di loro, a dispetto dei proclami contro l’uso di fondi pubblici, li usano fino all’ultimo euro". Di certo, il numero degli assistenti è nutrito. Ex attivisti, candidati o dipendenti vengono recuperati e compensati con una poltroncina. L’eurodeputato Ignazio Corrao, già assistente all’Assemblea regionale siciliana, attivissimo e votatissimo, ha nel suo staff diversi volti noti del grillismo isolano. Come Giuseppe Lo Monaco, già in corsa alle regionali e fondatore dell’Associazione M5S Sicilia. Oppure Luigi Sunseri, militante dal 2010, candidato a sindaco di Termini Imerese, nel Palermitano, a luglio 2014. E anche Adriano Varrica: fondatore del meetup di Palermo, già collaboratore parlamentare, ha appena ritirato la sua candidatura dalle «comunarie» che sceglieranno il prossimo candidato sindaco del capoluogo siciliano. Nello staff dell’europarlamentare genovese Tiziana Beghin ha invece trovato spazio uno storico pentastellato: Simone Pennino. L’Espresso, a marzo del 2013, rivelò che il suo nome compariva accanto a quello di Walter Vezzoli, autista di Grillo, e della cognata del comico, Nadereh Tadjik, in una società estera che avrebbe dovuto costruire un "ecovillaggio" in Costarica. Le nomine di assistenti e collaboratori sono spesso avversate dalla stessa base. Spese ne ha fatto pure l’eurodeputato Marco Zullo. Le critiche per la scelta dei suoi collaboratori sono finite sul Messaggero Veneto per la scarsa pubblicità nelle selezioni. Del suo staff fa parte Andrea Busetto, ex collaboratore del Pdl e dell’Ncd. Poi Francesco Vanin, candidato senza successo alle regionali in Friuli-Venezia Giulia. E Alessandro Corazza, di Pordenone, già consigliere regionale dell’Italia dei Valori. Anche a Palazzo Madama e Montecitorio molte nomine sono state contestate. Giuseppe Rondelli è collaboratore della senatrice Vilma Moronese. Ed è pure il suo compagno. Un’altra pentastellata a Palazzo Madama, Barbara Lezzi, aveva assunto come portavoce Libera Zaminga, figlia del compagno. Le successive polemiche l’hanno però costretta alla retromarcia. La moglie del deputato Emanuele Cozzolino, Maria Grazia Sanginiti, è assessore all’Ecologia a Mira, nel Veneziano, uno dei primi comuni a guida grillina. Anche qui, come a Roma e dintorni, in consiglio comunale siedono un marito e una moglie pentastellati: Allen Biasiotto ed Elisa Marchiori. In Parlamento, invece, le tribù familiari si sono progressivamente sfaldate. La senatrice Ivana Simeoni resta l’amorevole madre del deputato Cristian Iannuzzi. Solo che, espulsi dal movimento a gennaio del 2015 per le loro critiche a Grillo e Casaleggio, adesso sono iscritti al Misto. S’è trasferita nello stesso gruppo pure Cristina De Pietro, sorella di Stefano, consigliere comunale di Genova. Uguale percorso ha fatto Laura Bignami. A ruota, sono seguite le dimissioni del marito, Giampaolo Sablich, ex leader dei grillini in consiglio comunale a Busto Arsizio, nel Varesotto. Anche Giovanna Mangili, moglie di Walter Mio, capogruppo dei Cinque Stelle a Cesano Maderno, in Brianza, viene eletta in Senato. Ma le critiche al presunto attivismo del marito la spingono poi a rassegnare le dimissioni da Palazzo Madama. Alla Camera, invece, siede Azzurra Cancelleri, sorella di Giancarlo, deputato dell’Assemblea regionale siciliana, candidato governatore in pectore. Nell’isola, l’altro astro nascente è il sindaco di Ragusa: Federico Piccitto. Lo scorso settembre Grillo, durante il raduno nazionale dei Cinque stelle a Palermo, l’ha definito bravo come Chiara Appendino, pluridecorato primo cittadino di Torino. Eppure anche Piccitto è scivolato su presupposti favoritismi. A dicembre del 2015 s’è dimessa dalla sua giunta Stefania Campo, assessore alla Cultura. S’era scoperto che il marito era stato assunto da una cooperativa che gestisce l’acqua per conto del Comune. Il programma di Piccitto, come da manuale pentastellato, prometteva: partecipazione al solito bando telematico e assessori scelti in base al curriculum. Ma, eletto a giugno 2013, dopo meno di un anno il sindaco manda a casa tre dei sei selezionati. E, come nuovo assessore al nevralgico Ambiente, chiama Antonio Zanotto, già in corsa nel M5S alle ultime Europee. Prima del Natale del 2016, l’ultima disputa: alla Ragioneria del comune viene chiamata Giuliana Raniolo, attuale assessore al Bilancio di Grammichele, nel Catanese, quaranta chilometri a nord: un altro comune amministrato dai grillini. E poi c’è Antonio Calogero Bevilacqua, 28 anni: occhialini da intellettuale, volto pulito e modi garbati. Candidato dal M5s, a giugno del 2015 è eletto sindaco di Pietraperzia, in provincia di Enna. "In famiglia leggiamo quattro quotidiani al giorno" spiegò in un’intervista alla Sicilia. Ed eccola, la famiglia. Il nonno, Calogero, già sindaco del paesino. Il padre, Salvatore, ex presidente del consiglio provinciale di Enna. Il fratello, Filippo, consigliere comunale dei Cinque stelle. Li chiamano già i Kennedy di Pietraperzia.

LA MORALITA' DEGLI UOMINI SUPERIORI.

«Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7).

Mentre Gesù istruiva nel tempio, gli scribi ed i farisei, condottagli una donna che avevano sorpreso in adulterio, gli avevano detto: “… Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?” (Gv 8,5).

Volevano con ciò tendergli un tranello. Infatti, se Gesù si fosse manifestato contrario alla lapidazione, avrebbero potuto accusarlo di andare contro la Legge. Secondo questa, infatti, i testimoni diretti della colpa dovevano iniziare a scagliare la pietra su chi aveva peccato, seguiti poi dal popolo. Se Gesù avesse invece confermato la sentenza di morte, l’avrebbero fatto cadere in contraddizione con il suo insegnamento sulla misericordia di Dio verso i peccatori.

Ma Gesù, che stava chinato tracciando con il dito dei segni per terra, dimostrando così la sua imperturbabilità, alzatosi disse:

«Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei»

Gli accusatori, a quelle parole, si ritirarono uno dopo l’altro, cominciando dai più anziani. Il Maestro, rivoltosi alla donna: “Dove sono? – disse -. Nessuno ti ha condannata?” “Nessuno, Signore”, rispose. “Neanch’io ti condanno: va’ e d’ora in poi non peccare più” (cf Gv 8,10-11).

«Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei»

Con queste parole, Gesù non si rivela certamente permissivo nei confronti del male, come l’adulterio. Le sue parole: “Va’ e d’ora in poi non peccare più”, dicono chiaramente qual è il comandamento di Dio.

Gesù vuole mettere a nudo l’ipocrisia dell’uomo che si fa giudice della sorella peccatrice, senza riconoscersi egli stesso peccatore. Sottolineando così, con le sue parole, la nota sentenza: “Non giudicate per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate, sarete giudicati” (Mt 7,1-2).

Parlando in questo modo, Gesù si rivolge anche a quelle persone che condannano gli altri senza appello, non tenendo conto del pentimento che può sorgere nel cuore del colpevole. E mostra chiaramente qual è il suo comportamento nei confronti di chi fallisce: aver misericordia. Quando quegli uomini si sono allontanati dall’adultera, “sono rimasti in due – dice Agostino, vescovo di Ippona -: la miseria e la misericordia” [Commento al Vangelo di Giovanni 33,5].

La fine della superiorità morale. Era il Dna dei Cinque stelle, scrive Angela Azzaro il 20 Dicembre 2016 su "Il Dubbio”. La parola onestà è costitutiva del Movimento, difficile sostituirla con un’altra senza perdere la propria identità. Ma i cittadini ci crederanno ancora? Il movimento Cinque Stelle fonda la sua nascita e il suo successo su due questioni: da una parte la crisi più che decennale della democrazia e la necessità di ridare valore alla rappresentanza politica; dall’altra il sentimento anti casta alimentato dalla necessità (vera o presunta) di una nuova classe dirigente non corrotta, che abbia una fedina penale pulita. La prima questione è stata risolta con il voto telematico che secondo molti non è bastato a costruire decisioni democratiche. I Cinque stelle non hanno una direzione o un segretario eletti, ma una serie di capi che si sono autoinvestiti e che decidono per tutti. Se la democrazia in poco tempo è diventata quindi un simulacro, un’imitazione approssimativa delle possibilità decisionali offerte dalla rete, la questione dell’onestà ha comunque fatto da collante tra eletti ed elettori. E’ stato il vero Dna di un movimento che si è contrapposto agli altri partiti rivendicando la superiorità morale: noi e loro, i cittadini e la casta, il movimento e la partitocrazia. E’ stata una narrazione che ha funzionato e che, davanti ai primi avvisi di garanzia, non ha per nulla scricchiolato. Gli elettori Cinque stelle hanno continuato a pensare che il movimento fosse la soluzione ad una crisi strutturale della società, conseguenza delle ruberie perpetrate dai politici. Il noi e loro ha un potere d’attrattiva che difficilmente può essere intaccato: costruisce comunità, senso di riscatto, valenza ideologica in un momento di crisi profonda delle ideologie. Ma i nuovi episodi che riguardano la giunta romana rischiano di far vacillare la narrazione grillina. La mettono in crisi nella sua struttura di fondo, in quella convinzione che tutti sono corrotti, tutti hanno rubato fuorché i Cinque Stelle. E’ l’inizio della fine della superiorità morale del movimento? Difficile dirlo oggi, quando il sentimento e la passione dei cittadini sono ancora vivi. Ma questa volta non si può non vedere le crepe anche profonde nell’immaginario costruito in questi anni. L’arresto di Marra, con l’accusa di corruzione, non è paragonabile all’avviso di garanzia per abuso d’ufficio ricevuto dal sindaco di Parma, Pizzarotti. C’è qualcosa in più, connesso alla parola più orribile per un grillino: la corruzione. Il dubbio si insinuerà forse anche nel più convinto sostenitore dei Cinque stelle ma soprattutto farà da sfondo a una narrazione che non potrà più sfidare gli altri contando sulla propria purezza. Per qualsiasi partito i fatti di oggi sarebbero una valanga, ma per i Cinque stelle sono qualcosa di più. La messa in discussione della loro stessa esistenza: è come se un partito comunista stesse in vita ammettendo che il comunismo non solo è morto ma ha fallito, come se un partito continuasse a chiamarsi democratico quando si vive in una dittatura. Certo, si può stare nelle contraddizioni. Quest’epoca politica ci ha abituati anche a questo. Ma da oggi sarà difficile per Grillo riproporre la stessa narrazione. L’onestà o è o non è, non ci sono vie di mezzo, aggiustamenti, passi indietro. Ci si può inventare di tutto, ma quella parola non ammette compromessi, mezzi termini. Il Movimento cinque stelle potrà sicuramente inventare nuove parole d’ordine, ma sarà difficile sostituire la parola fondante, cambiarla con un concetto qualsiasi. Lo sarà non perché impossibile. Ma perché vorrà dire fare un passaggio ulteriore, un passaggio forse fatale: non essere più speciali, unici, e diventare come tutti gli altri. Non si potrà allora più vincere le elezioni senza chiarire il programma (come è accaduto a Virginia Raggi) non si potrà contare solo sulle difficoltà delle altre forze, si dovrà contare sul proprio progetto politico.

Il "Corriere" si schiera Con Togliatti. Il quotidiano della borghesia dedica due pagine alla beatificazione del Migliore: "Cercava soluzioni condivise". Sì, condivise da Stalin...scrive Alessandro Gnocchi, Lunedì 17/02/2014 su "Il Giornale". Ideona del Corriere della Sera: rivalutare Palmiro Togliatti. Ieri La lettura, inserto culturale del giornale milanese, ha presentato ai suoi lettori una passante (due pagine) firmata da Francesco Piccolo sul segretario del Partito comunista. Come accade a tutti gli articoli che si spingono nei territori dell'assurdo, il pezzo è stato spacciato per una «provocazione». La tesi? La sinistra di oggi, in compagnia dei grillini, si trastulla nel mito della propria superiorità morale, ma dovrebbe imparare da Togliatti, che aveva una «ostinata propensione alla soluzione condivisa - che è l'essenza della democrazia parlamentare». Così il Migliore (singolare soprannome per uno che non si cullava nel mito della propria superiorità morale) diede vita al «migliore Partito comunista europeo, in senso democratico», capace di collaborare con gli altri alla stesura delle regole. Piccolo, pur avendo un lenzuolo a disposizione, non trova lo spazio per infilare almeno una riga su quello che gli storici scrivono da circa 25 anni sulle «scelte condivise» di Togliatti. «Condivise» soprattutto da Stalin, che gliele aveva imposte. Come testimoniano i documenti ritrovati da Viktor Zaslavskij ed Elena Aga Rossi all'inizio degli anni Novanta, fu infatti il tiranno sovietico a ordinare a Togliatti di archiviare, per il momento, le posizioni anti-monarchiche e di puntare invece a entrare nel governo Badoglio. La tanto celebrata «svolta di Salerno» del 1944 era stata decisa a Mosca, non era stata presa per «ostinata propensione alla soluzione condivisa» e aveva un duplice scopo. Non indebolire il fronte antifascista a guerra non ancora terminata e allargare l'influenza politica comunista in un Paese che mai l'Urss avrebbe potuto trattare come quelli dell'Europa Orientale. Lo stesso dicasi per la rinuncia alla lotta armata nell'immediato dopoguerra. Il disarmo (comunque tardivo) delle formazioni partigiane rosse rispondeva ancora una volta alle esigenze geopolitiche dell'Unione Sovietica, che non voleva rogne mentre era impegnata a spartirsi il Vecchio continente con gli Stati Uniti. La decisione di partecipare alla stesura delle nuove regole all'interno dell'Assemblea Costituente fu una necessità: il Pci temeva di essere tagliato fuori e doveva legittimare la propria presenza nelle istituzioni, dal momento che la rivoluzione era ormai esclusa. Questa mossa azzeccata diede poi la possibilità alla propaganda comunista di affermare che la Costituzione era nata dalla Resistenza. Motivo per cui ancora oggi è intoccabile. Anche in questo caso l'«ostinata propensione alla soluzione condivisa» c'entra poco. Ritrovarsi quindi Togliatti come una sorta di precursore delle larghe intese per le riforme è un salto mortale. Alla fine della lettura di Piccolo, si è imparato nulla su Togliatti. In compenso si capisce un po' di più l'Italia, un Paese dove il quotidiano della borghesia produttiva riesce a dedicare due pagine (nel 2014, tra l'altro, che dinamismo) alla rivalutazione di Palmiro Togliatti detto il Migliore. Clamoroso lo scoop: dietro lo stalinista si celava (benissimo, fino a quando è arrivato Piccolo) un vero democratico. Che sia questa la «contraddizione irrisolta» cui accenna qua e là l'articolo? A proposito, Piccolo è autore di libri (l'ultimo è Il desiderio di essere come tutti, Einaudi, dedicato a Enrico Berlinguer), autore di Fazio a Che tempo che fa e Sanremo, sceneggiatore di Nanni Moretti e Paolo Virzì. Possiamo quindi prenderlo come esempio di intellettuale inserito e influente. Anche questo ci dice qualcosa dell'Italia.

L'attentato-suicidio dei Gap raccomandato da Togliatti. Il Migliore impose di usare i giovanissimi nelle azioni contro i nemici. Come nel 1944 a Sesto San Giovanni...scrive Luca Fazzo, Venerdì 23/12/2016, su "Il Giornale". Chissà se Giangiacomo Feltrinelli, editore rivoluzionario, e i suoi seguaci che negli anni Settanta si diedero alla lotta armata, avevano studiato fino in fondo la storia dei Gap. La banda di Feltrinelli venne chiamata così, Gruppi di azione partigiana, in omaggio alla struttura clandestina, diretta emanazione del Partito comunista, che durante la guerra civile era stata la punta di diamante della Resistenza a Milano e nel suo hinterland. Era un mito, quello dei Gap, che aveva permeato profondamente il movimento del Sessantotto, e che fu importante nello spingere verso il terrorismo alcuni settori radicali dell'ultrasinistra: mito formato da ortodossia ideologica, e soprattutto da efficienza militare. Ma il tempo passa, la storia di quegli anni viene riscritta senza furori di parte. E anche il mito dei Gap ne esce ridimensionato. Del cinismo di alcune scelte dei Gap, come dimostra l'attentato di via Rasella a Roma, si è ampiamente dibattuto. Ma ora un libro di Marco Manuele Paolini costringe a rimettere in discussione anche il lato del mito che sembrava meno scalfibile: la capacità operativa, la compartimentazione ferrea. Al centro del libro di Paolini, Il ragazzo della Quinta (Mursia, pagg. 146, euro 14) ci sono un ragazzo e un attentato. Il ragazzo si chiamava Felice Lacerra, era nato nel 1927 a Sesto San Giovanni da una famiglia di immigrati, a quindici anni era già operaio alla Breda. L'attentato è quello che proprio a Sesto, la sera del 10 febbraio 1944, prende di mira la locale Casa del Fascio, dove è in corso la riunione per la nomina del fiduciario. L'azione in sé è maldestra, e provoca meno danni di quanto i gappisti si proponevano facendo irruzione con mitra e bombe a mano: due repubblichini uccisi, un altro paio feriti. Ma ben più disarmante è il pressapochismo nella preparazione dell'attentato, che avrà conseguenze catastrofiche per gli organizzatori. I Gap sestesi verranno smantellati quasi per intero dalle indagini successive all'attacco. Era un lavoro crudo, quello dei Gap. Non si trattava di combattere a viso aperto, in montagna, affrontando i reparti ben più armati della Rsi e degli occupanti tedeschi, ma di uccidere a sangue freddo, alle spalle. Lavoro necessario, ma che selezionava inevitabilmente un certo tipo di militante, pronto alla freddezza e ai sacrifici della clandestinità. «Raccomandiamo di non aver paura di mettere avanti i giovani, i quali hanno coraggio e audacia», scriveva Palmiro Togliatti. E in effetti i quadri dei Gap erano spesso sui vent'anni. Ma per l'attentato a Sesto si scelse di mettere in prima linea addirittura un sedicenne: Felice Lacerra. A lui venne affidato il ruolo più difficile: l'infiltrato. Si iscrisse al Pnf, iniziò a frequentare la Casa del fascio, si conquistò la fiducia dei camerati, gestendo un ruolo da agente doppio che avrebbe spezzato i nervi a gente ben più adulta di lui. Fu lui a segnalare ai Gap la data della riunione, e ad aprire dall'interno le porte al commando armato. Se già questa scelta appare azzardata, ancora più incomprensibile appare quella di non allontanare Felice da Sesto subito dopo l'attacco. La mattina dopo, il ragazzo andò a lavorare in Breda come se niente fosse, ovviamente venne arrestato, e si può immaginare quale trattamento gli fu riservato. Fece il nome di un partecipante all'irruzione, Luigi Ceriani il quale, fermato a sua volta, cantò ben più di Felice, facendo arrestare l'intero distaccamento sestese dei Gap. In carcere alcuni resistettero, altri parlarono. I due capi, Egisto Rubini e Oreste Ghirotti, si uccisero in cella per non cedere alle torture. In aprile viene arrestato Primo Grandelli, dei Gap di Milano che avevano collaborato all'azione con i sestesi. Incredibilmente, ha con sé un quaderno con i nomi di tutti i compagni che vengono arrestati in blocco. I Gap a quel punto non esistono praticamente più, e si dovrà attendere l'arrivo in città di Giovanni Pesce perché la struttura armata del Pci venga ricostituita. «Fu tutto uno sbaglio, dall'inizio alla fine», dirà Carlo Camesasca, il gappista che pochi mesi prima aveva partecipato all'uccisione del federale di Milano, Aldo Resega. D'altronde sono gli stessi Gap che l'8 agosto dello stesso anno in viale Abruzzi metteranno una bomba su un camion della Wehrmacht che distribuiva aiuti alimentari: non morì neanche un tedesco, ma restarono uccisi sei milanesi in coda per il cibo. La rappresaglia nazista fu la strage di piazzale Loreto. Insomma, altro che efficienza. Coraggio, indubbiamente, ma anche pressapochismo e decisioni sciagurate. E il giovane Felice Lacerra? Fu deportato a Fossoli, vicino Carpi, in un campo di concentramento dal volto umano. La mattina del 12 luglio, sessantasette prigionieri del campo vennero portati dalle Ss in un poligono, a Cibeno, e uccisi con un colpo alla nuca. Felice era uno di loro. Lo riconobbero i genitori quasi un anno dopo, esumato dalla fossa comune, dal libretto della mensa della Breda.

Il giorno nero dei governatori: «In galera, in galera!», scrive Errico Novi il 23 Dicembre 2016, su "Il Dubbio". Formigoni condannato a 6 anni, Scopelliti a 5. Per Lombardo si decide a gennaio. Nelle accuse, accolte dalla Corte d’appello di Reggio nel primo caso e dalla decima sezione penale del Tribunale di Milano nell’altro, risuona anche un assioma: le amministrazioni locali sono un modello di malaffare politico, e le carriere formidabili di politici che da quel trampolino si lanciano verso la scena nazionale portano fatalmente il segno della corruzione, delle clientele, dei sistemi consociativi più infetti. Scopelliti è alla condanna di secondo grado e gli sarà difficile ribaltare le accuse in Cassazione. È fuori dal Parlamento, ha tentato senza successo di diventare eurodeputato, è accusato di mafia in un altro procedimento. Formigoni è invece dirigente di un partito di governo, l’Ncd, presidente di commissione al Senato, ha ancora la possibilità di vedere riformata la sentenza in appello e già in questo giudizio di primo grado ottiene un risultato che il suo difensore Mario Brusa definisce «un’ottima cosa»: l’assoluzione dall’accusa di associazione a delinquere. Il che apre almeno uno spiraglio per mettere in discussione anche il capo d’imputazione accolto dai giudici di Milano, l’aver incassato «utilità» per circa 8 milioni di euro in cambio di favori a due colossi della sanità lombarda: Fondazione Maugeri e San Raffaele. Nel caso del “Celeste”, come è soprannominato da lustri, il venir meno della presunta organizzazione criminale apre la strada per affermare la tesi da lui sempre sostenuta: gli yacht e le vacanze in Sudamerica assicurategli da Pierangelo Daccò e Antonio Simone erano «cortesie tra amici». Ma anche Formigoni farà comunque una fatica enorme a rialzarsi. E la sua vicenda corrobora un’idea che si è fatta strada negli anni grazie anche ad altri casi come quello di Scopelliti o come l’incredibile vicenda di Del Turco: la carica di governatore è un passaggio maledetto, fatale, in cui spesso politici ambiziosi e molto popolari restano intrappolati, o che, come nel caso di Scopelliti, trasformano il successo in improvviso calvario processuale. A breve un altro ex presidente di Regione, il siciliano Raffaele Lombardo, potrebbe veder confermata in appello la condanna a 6 anni e 8 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa. La Corte d’appello di Reggio presieduta da Adriana Costabile ha ritenuto colpevole Scopelliti di abuso d’ufficio e falso in atto pubblico ma ha riformato la sentenza di primo grado: da 6 anni a 5 anni di carcere, con interdizione perpetua dai pubblici uffici. Insieme con l’ex primo cittadino, condannati anche i tre componenti del collegio dei revisori dei conti: Carmelo Stracuzzi, Domenico D’Amico e Ruggero Ettore De Medici: 2 anni e 4 mesi di carcere, pena ritoccata rispetto a 3 anni e 6 mesi inflitti dal Tribunale. Accolta nella sostanza la ricostruzione dell’accusa: Scopelliti avrebbe dolosamente sperperato centinaia di milioni di euro, attraverso la destinazione impropria e clientelare delle risorse comunali. Il tutto attraverso la complicità dei tre coimputati e della dirigente Orsola Fallara, morta in circostanze mai del tutto chiarite nel 2010 dopo aver ingerito acido muriatico. Formigoni avrebbe assicurato finanziamenti straordinari alla Maugeri, attraverso un sistema di corruttele e favori, tenuto in piedi durante l’intero mandato di governatore con la complicità decisiva di due dei suoi coimputati: l’uomo d’affari Daccò (condannato a 9 anni e 2 mesi, con un lieve aggravamento rispetto alla stessa richiesta dei pm) e l’ex assessore regionale Simone (8 anni e 8 mesi come chiesto dall’accusa), entrambi suoi amici. Circa 40 milioni di euro di finanziamenti regionali annui alla Fondazione Maugeri, relativi alle cosiddette “funzioni non tariffabili”, in aggiunta ai rimborsi per gli accreditamenti. La sentenza pronunciata ieri sancisce condanne anche per gli imprenditori Carlo Farina (3 anni e 4 mesi) e Costantino Passerino (7 anni). Scompare l’associazione a delinquere. Cade ogni accusa invece per l’ex dg della sanità lombarda Carlo Lucchina, l’ex dirigente regionale Alessandra Massei, l’ex coinquilino di Formigoni Alberto Perego, l’ex moglie di Simone Carla Vites e l’ex segretario regionale Nicola Maria Sanese. Da una parte i pm che avevano dipinto Cielle come il contesto in cui «l’intensità dei rapporti tra gli associati è fondamentale per la nascita del vincolo corruttivo». Dall’altra e Formigoni e i suoi avvocati che hanno sempre spiegato le vacanze e la barca posseduta al 50 per cento dall’ex governatore (oggetto della confisca) come cortesie. Comunione e liberazione trasformata nell’ambiente naturale del malaffare. Nella tesi dei pm c’era anche questo. La decima sezione penale l’ha accolta in parte. C’è lo scambio corruttivo, non un’organizzazione costruita per attuarlo. Sullo sfondo oltre dieci anni di storia politica milanese, poiché parte dei reati sarebbe stata commessa già a partire dal 1997, quando Formigoni non era ancora governatore. Le confische complessivamente ordinate a carico dei 5 condannati ammontano a qualcosa come 53 milioni e 800mila euro. Il principale soggetto danneggiato, la Regione, è stata rappresentata in giudizio dall’avvocato Domenico Aiello, protagonista dello scambio di informazioni costato una condanna disciplinare al pm Alfredo Robledo. Si sono incrociate politica e sanità, egemonia culturale di Cl e rancore degli avversari. E in mezzo a tutto questo, un ex potentissimo, Formigoni, che insisterà anche in appello nel respingere tutte le accuse.

Si salvi chi può, scrive Piero Sansonetti il 23 Dicembre 2016, su "Il Dubbio". Certamente è un caso, però sembra proprio l’offensiva di Natale della magistratura contro i presidenti (ormai ex) delle regioni. Il più famoso di loro, il fondatore di Comunione e Liberazione Roberto Formigoni, è stato condannato in primo grado a sei anni di prigione. Beppe Scopelliti, ex potentissimo sindaco di Reggio Calabria e poi ex potentissimo governatore della Calabria, si è beccato cinque anni abbondanti in appello. Per Raffaele Lombardo, ex Presidente della Sicilia, bisognerà aspettare un po’: la sentenza d’appello arriverà a metà gennaio. Il Pm ha chiesto la conferma a una decina d’anni. Formigoni è stato condannato per corruzione, Scopelliti per abuso d’ufficio, Lombardo, in primo grado, per il reato sempre molto fumoso di concorso esterno in associazione mafiosa. Quanti governatori rischiano la galera? Il 30 per cento. Lui si difende. Dice: «Ma io non ho mai incontrato un mafioso in vita mia!». I magistrati rispondono: «Infatti, ti diamo concorso esterno, mica interno…». Scopelliti, se non interverrà la Cassazione ad annullare le condanne, finirà in carcere tra qualche mese, perché una condanna superiore ai tre anni non ammette condizionale. Formigoni può sperare nell’appello, ma rischia. E così rischia molto Lombardo. Se pensate che il predecessore di Lombardo ha scontato cinque anni di carcere, senza nemmeno il permesso di andare al letto di morte della madre, e che il governatore dell’Abruzzo, prima di essere assolto dalla Cassazione, ha trascorso diversi mesi in cella, per l’arresto preventivo, e ha trascorso dieci anni di inferno, e che il governatore del Veneto, Galan, sta scontando ai domiciliari una condanna per l’affare del Mose di Venezia, siamo a sei governatori, quattro del sud e due del nord, che hanno avuto a che fare o che rischiano di avere a che fare con le manette e con le sbarre alla finestra. Le Regioni in Italia sono venti, mica tante. Sei su venti è una bella media, precisamente una media del 30 per cento. (E non abbiamo voluto mettere nel conteggio alcuni governatori che hanno avuto la carriera stroncata dai procedimenti giudiziari, ma poi se la sono cavata, ottenendo l’assoluzione piena prima di finire in cella: per esempio Vasco Errani, in Emilia Romagna, o Antonio Bassolino, assolto da tutti i reati dopo cinque anni di campagne martellanti contro di lui e l’obbligo a ritirarsi dalla vita politica. Né abbiamo messo in elenco l’attuale governatore della Campania, De Luca, che di avvisi di garanzia e rinvii a giudizio né riceve abitualmente, tutti gli anni, e con egual frequenza ottiene assoluzioni. Se contassimo anche questi casi, arriveremo a quasi la metà delle regioni italiane). Ci sono due possibili conclusioni da trarre, visto che in nessun altro paese del mondo libero succede niente di simile. Due ipotesi in alternativa tra loro (o forse no). La prima è che la politica italiana abbia deciso, per qualche motivo che non conosciamo, di mandare al vertice delle Regioni gente poco racco- mandabile. La seconda è che la magistratura italiana abbia deciso di fa pagare ai presidenti delle regioni (ma spesso anche ai sindaci: vale per tutti il recente caso di Marta Vincenzi, sindaca di Genova condannata a 5 anni di prigione perché ha fatto piovere troppo forte sulla sua città) la difficoltà ad arrestare i deputati, per via di una fastidiosissima norma costituzionale che impedisce irruzioni con le manette in Parlamento (che invece, per esempio, sono possibili in Turchia). I presidenti delle regioni non godono dell’immunità dall’arresto, e poi sono coinvolti in un numero altissimi di atti amministrativi, nei quali compare la loro firma, e che spessissimo riguardano assegnazione di opere pubbliche o di altre attività che muovono quattrini. Talvolta, in questi casi, il confine tra illecito e lecito è molto labile, e reati come l’” abuso d’ufficio” sono ancor più labili e nebbiosi. L’esercizio dell’ufficio è un dovere, non è opzionale, e stabilire quando è abuso e quando no, non è cosa agevolissima. Un amministratore serio non resta con le mani in mano, che in fondo è il comportamento più semplice e senza rischi: con rischi enormi però sulla vita pubblica della propria città o della regione. Se si finirà per percepire, da parte degli amministratori, come rischiosa l’iniziativa politica ed economica, avremo tra poco un esercito di amministratori impauriti e immobili (un po’ come sta succedendo a Roma) e lo Stato va a scatafascio. Non conosco abbastanza bene il caso Formigoni per poter giudicare, ma l’impressione che ci sia un certo accanimento contro di lui non mi sembra del tutto campata in aria. Conosco meglio il caso calabrese, e sono convinto che Scopelliti ha governato in modo spavaldo e un po’ arrogante – e probabilmente ha meritato la punizione da parte degli elettori – ma non ha commesso reati. Del resto la Procura di Reggio, ai tempi di Pignatone – che pure non mi pare un tipo tenero – lo aveva considerato sempre innocente. Conosco il caso di Del Turco e credo che ormai sia evidente a tutti che fu un errore giudizio di quelli brutti. Ho seguito un pochino le vicende siciliane, e ritengo di poter dire con una certa tranquillità che né Lombardo né Cuffaro sono mafiosi. Né interni né esterni. Allora c’è un problema di inadeguatezza della classe politica regionale? Penso che questo problema ci sia, non ovunque, ma ci sia. La politica si deve porre il problema, altrimenti perde ancora credibilità, e nell’opinione pubblica si crea un collasso pericolosissimo. Dopodiché penso anche che bisognerebbe che la stessa politica avesse il coraggio di difendersi e lanciare l’allarme. C’è un pezzo di magistratura che è travolta da un complesso di superiorità e di “missione”, si sente mandata da Dio per radere al suolo la politica e lo sta facendo. Ieri Silvio Berlusconi ha definito Dell’Utri un prigioniero politico. Secondo me ha ragione. E non è il solo prigioniero politico. Se non si trova un modo per moderare l’eccesso di protagonismo della magistratura che porta a veri e propri, non infrequenti, fenomeni di persecuzione verso la politica, il pericolo di un corto circuito della democrazia diventa altissimo. Non è la prima volta – lo so – che questo giornale denuncia queste cose. Temo che non sarà l’ultima.

Che ci fa il pm Scarpinato nel dossier dell’indagato? Scrive Giovanni M. Jacobazzi il 23 Dicembre 2016, su "Il Dubbio". Un paladino dell’antimafia, con la passione per i dossieraggi, indagato per concorso esterno a Cosa Nostra. Dei magistrati simbolo nella lotta alla criminalità organizzata “accusati” di aver chiesto favori per parenti e amici ad un loro indagato. C’è di tutto nell’indagine della Procura della Repubblica di Catania, che al momento ha archiviato la posizione di alcuni alti magistrati siciliani. A partire dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, all’epoca dei fatti procuratore generale di Caltanissetta, del suo sostituto Sergio Lari, all’epoca procuratore nella città del Vallone, del sostituto Pg di Palermo Domenico Gozzo, già aggiunto a Caltanissetta, del procuratore aggiunto di Roma Lucia Lotti, ex procuratore a Gela, ed altri magistrati meno noti al grande pubblico. La vicenda nasce dalla perquisizione ordinata dalla Procura di Caltanissetta a carico di Antonello Montante, potente presidente di Confindustria Sicilia, presidente della Camera di Commercio di Caltanissetta, membro dell’Agenzia nazionale per il sequestro e la confisca dei beni delle mafie. Montante è attualmente indagato a Caltanissetta per concorso esterno a Cosa nostra essendo stato chiamato in causa da ben cinque collaboratori di giustizia. Come rivelato ieri dal Corriere della Sera, nel suo pc sono state ritrovate delle “schede” a carico di magistrati che, nel periodo 2010- 2013, prestavano appunto servizio a Caltanissetta. Praticamente dei “promemoria” su figli, nipoti e amici delle toghe oggetto di “premure” per un lavoro, per un concorso pubblico, per una nomina. Interrogato dai pm catanesi, Montante ha avuto un improvviso “vuoto di memoria”, non ricordando nulla della sua meticolosa e puntuale attività di archivista svolta per anni. Un atteggiamento definito dai magistrati catanesi “reticente”. I quali hanno, però, manifestato “stupore per le richieste di aiuto” da parte dei loro colleghi nisseni a Montante. Il Csm, al quale sono stati trasmessi gli atti, dovrà valutare le loro condotte sotto l’aspetto dell’incompatibilità ambientale. E, se del caso, dovrà trasmettere le carte alla Procura generale della Corte di Cassazione affinché valuti gli aspetti disciplinari. Se la questione dell’incompatibilità ambientale è sostanzialmente superata, visto che la maggior parte delle toghe finite nel pc di Montante non presta più servizio a Caltanissetta, l’aspetto disciplinare è invece terreno molto scivoloso. Anche se non sono stati configurati reati, certamente il fatto che il nome del magistrato che rappresenta l’accusa nel processo d’Appello al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu per aver agevolato la mafia in quanto avrebbero omesso di catturare il boss Bernardo Provenzano, sia messo in relazione ad un soggetto che è accusato di essere legato alla cosca Serradifalco pone più di un interrogativo. L’immagine che esce da questa vicenda non è, certamente, delle più edificanti. La magistratura siciliana e nazionale per anni aveva evidenziato i rischi di delegittimazione contro Montante. I pentiti che lo accusano sono stati a loro volto accusati. Un gioco di specchi in cui è difficile capire a questo punto chi accusa chi. Più volte si è ribadita la necessità di una verifica profonda e radicale di tutto ciò che si definisce “antimafia”. Il “caso Saguto” a Palermo insegna. Vedremo cosa accadrà nelle prossime settimane.

I dossier di Montante sui magistrati siciliani: «Mi raccomandano familiari e amici». La Procura di Catania archivia e invia al Csm le carte trovate nell’archivio elettronico del presidente di Confindustria Sicilia. «Perplessità sugli appunti trovati all’imprenditore», scrive Giovanni Bianconi il 21 dicembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. L’archivio elettronico del presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, paladino dell’antimafia poi indagato per mafia, è finito al Consiglio superiore della magistratura con i nomi di dieci giudici che avevano rapporti con lui, dei quali l’imprenditore ha annotato ogni appuntamento — istituzionale o meno che fosse —, nonché la corrispondenza su presunte richieste di raccomandazioni o appoggi vari. Qualcosa di simile a un’attività di dossieraggio, magari avviata per delegittimare eventuali inchieste o accuse a suo carico. La Procura di Catania, titolare delle indagini in cui sono coinvolte le toghe di Caltanissetta — la città di Montante dove hanno prestato servizio gran parte delle toghe inserite nel suo archivio — non ha trovato nulla di penalmente rilevante, ma ha inviato gli atti a palazzo dei Marescialli per eventuali valutazioni di competenza dell’organo di autogoverno. Ora la prima commissione del Csm dovrà decidere se archiviare il caso, come hanno fatto a Catania, o procedere a ulteriori accertamenti. Tutto nasce dalla perquisizione ordinata dalla Procura di Caltanissetta nel gennaio scorso, quando furono sequestrati i computer dell’imprenditore, da cui sono emersi i dossier su magistrati noti e meni noti: il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, all’epoca pg nella città del Vallone; l’attuale pg Sergio Lari, ex procuratore nello stesso ufficio; gli ex pg, presidenti di corte d’appello e presidente del tribunale Giuseppe Barcellona, Salvatore Cardinale e Claudio Dell’Acqua, l’ex procuratore aggiunto (oggi sostituto pg a Palermo) Domenico Gozzo, l’ex procuratore di Gela (oggi aggiunto a Roma) Lucia Lotti e altri. Gli appunti risalgono al periodo 2010-2013, quando Montante era solo un importante imprenditore impegnato, con le associazioni di categoria, nella battaglia antiracket e antimafia; poi nel 2015 s’è saputo che era indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. A parte gli incontri, quasi sempre in occasioni istituzionali, per ognuno di loro sono stati trovati promemoria su consegne di curriculum di familiari: figli, nipoti o parenti acquisiti. Oppure conoscenti. Nel caso del pg di Palermo, oltre alla già nota planimetria di una casa di parenti in vendita, Montante ha conservato una nota del 3 maggio 2012 con scritto «Scarpinato mi consegna composizione Csm con i suoi scritti per nuovo incarico... Procura generale Palermo + Dna», oltre a un foglio stampato con i nomi dei consiglieri accanto ai quali sono segnati, a mano, la corrente giudiziaria o il partito di riferimento, con relativi calcoli sul possibile esito del voto. In una e-mail si parla di un procedimento disciplinare a carico di Scarpinato (poi archiviato) per alcune frasi pronunciate in memoria di Paolo Borsellino, con un appello di personalità a suo sostegno che il magistrato avrebbe chiesto di far pubblicare su Il Sole 24 ore, quotidiano di Confindustria. Sul conto di Lari — che insieme al suo ex aggiunto Nico Gozzo ha avviato l’inchiesta per concorso esterno nei confronti di Montante, iscrivendolo sul registro degli indagati — l’imprenditore ha archiviato il curriculum di un agente della sua scorta morto, e un memorandum con scritto «pagato biglietto Lari per Roma Chianciano», riferito a un convegno dove l’aveva invitato. Un’annotazione del 2010 ricorda la consegna di una vecchia bicicletta «per restaurarla» (con tanto di fotografia); l’azienda della famiglia Montante produce biciclette. Nella cartella intestata a Gozzo sono segnati pochi incontri e un presunto sms del 2001 sul suocero e la sua azienda agricola, mentre dal file relativo all’ex presidente della corte d’appello Cardinale sono saltati fuori riferimenti alle qualificazioni professionali di figlia e nipote. C’è pure una raccolta a nome dell’ex procuratore di Gela Lucia Lotti, impegnata per otto anni su quella frontiera criminale agguerrita ma periferica, molto laterale rispetto al contesto siciliano e anche alle relazioni di alto livello intessute da Montante negli anni dell’esposizione antimafiosa; lì è annotata la comunicazione dei dati di un poliziotto impegnato nel 2010 negli esami per il concorso a commissario. Di tutto ciò i pm catanesi hanno chiesto conto a Montante, che a Caltanissetta rivendica la propria innocenza per l’accusa di mafia, mentre a Catania ha negato o affermato di non ricordare nulla o quasi di quanto ha diligentemente appuntato e conservato per anni. Un atteggiamento giudicato «reticente» dagli inquirenti, che nel provvedimento di archiviazione inviato al Csm hanno manifestato «stupore» per le «richieste di aiuto» avanzate dai magistrati al potente imprenditore, nonché «perplessità» per il meticoloso lavoro di archiviazione nei confronti delle toghe con cui era entrato in contatto.

La sinistra? Non volle regolare i conti con Stalin (e Kruscev). Uno studio svela come l'intellighenzia italiana non riuscì a vedere le lotte di potere dietro il XX Congresso del Pcus, scrive Francesco Perfetti, Giovedì 22/12/2016 su "Il Giornale". Venne pubblicato il 4 giugno 1956 dal quotidiano americano The New York Times il testo integrale del cosiddetto «rapporto segreto» presentato da Kruscev nella notte fra il 24 e 25 febbraio 1956 in una «seduta a porte chiuse» dopo che i lavori del XX Congresso del Pcus erano stati già conclusi con l'elezione degli organi dirigenti e la riconferma di Kruscev alla carica di segretario generale del partito. Lo stesso quotidiano, per la verità, aveva già fornito, verso la fine di marzo, qualche anticipazione sui contenuti del documento basandosi su una relazione dell'ambasciatore americano in Urss. E, da quel momento in poi, era scattato un meccanismo che, tra smentite e conferme, aveva avviato un terremoto nella sinistra internazionale. Palmiro Togliatti, il quale, stando a una testimonianza di Eugenio Reale, aveva avuto a disposizione il testo del rapporto per un'intera notte, parlandone con gli altri componenti della delegazione italiana al XX Congresso, aveva tagliato corto: «Non c'è nulla. Panni sporchi, pettegolezzi». E, rientrato in Italia, aveva dovuto barcamenarsi di fronte ai giornalisti con dichiarazioni generiche sul congresso le cui discussioni, disse, avrebbero dominato «la scena politica per un lungo periodo di tempo». Aveva, pure, aggiunto con un impeto di colorita oratoria polemica: «Le menti capaci e gli animi onesti lo hanno già compreso e sempre più lo comprenderanno i popoli. Gli sciocchi e i venduti latrano e continueranno a latrare; ma di essi la storia non terrà conto». Aveva cercato, insomma, di non entrare nel merito dei temi la denuncia del culto della personalità e dei crimini di Stalin sollevati in quella occasione e che, ora, finivano per creare disorientamento e suscitare discussioni non soltanto nelle file dei partiti comunisti ma anche della sinistra più in generale. Ma, ben presto, anche incalzato da Pietro Nenni, avrebbe dovuto prendere posizione con una celebre intervista pubblicata sulla rivista Nuovi Argomenti e parlare di «gravi errori» di Stalin, di «violazione della legalità socialista», di «degenerazione burocratica», di «applicazione di mezzi istruttori illegittimi e moralmente ripugnanti», sostenendo tuttavia che, malgrado tutto, il regime sovietico aveva conservato «il suo fondamentale carattere democratico». Che i comunisti dei paesi occidentali, cresciuti all'insegna del principio fideistico di una obbedienza assoluta e nell'adorazione della figura e del mito del «piccolo padre», dovessero trovarsi in difficoltà di fronte alla condanna del culto della personalità e all'annuncio della «destalinizzazione», è comprensibile. Ma, quello che era accaduto in Unione Sovietica con il XX Congresso del Pcus e con il «rapporto segreto» di Kruscev era stato, in realtà, un capitolo della lotta di successione scatenatasi dopo la morte del dittatore nel 1953. Il recupero di Lenin in opposizione a Stalin sottendeva l'idea che la dittatura staliniana, almeno a partire dalla metà degli anni Trenta, fosse stato frutto della «degenerazione» del sistema e non già connotato intrinseco dello stesso. Un grande storico francese, François Furet, ha dimostrato bene questo punto facendo notare come, durante gli anni del potere krusceviano, l'Unione Sovietica sarebbe passata dallo «stadio totalitario allo stadio poliziesco» senza, peraltro, che questa transizione significasse un abbandono o una modifica dei presupposti ideologici del potere comunista. Gli effetti del XX Congresso del Pcus si fecero sentire con forza all'interno dei partiti comunisti occidentali anche se, nella maggior parte dei casi, vennero riassorbiti dalla logica del realismo politico anche a fronte dell'evoluzione della politica estera sovietica in quel torno di tempo. Presso gli ambienti intellettuali legati, in Italia, all'eredità gobettiana e alla tradizione azionista i temi emersi dal «rapporto segreto» di Kruscev ebbero, invece, un maggiore impatto e generarono sorpresa e spaesamento soprattutto dal punto di vista ideologico. Tutto ciò emerge con chiarezza dalla lettura di un bel volume a cura di Antonio Maria Carena e intitolato Il rapporto Chruëv. La denuncia del culto della personalità (Aragno, pagg. 214, euro 15): un volume che comprende sia il testo del rapporto puntualmente e finemente commentato da uno studioso antistalinista proveniente dal comunismo come Angelo Tasca, sia alcuni interventi sul tema del «culto della personalità» scritti, all'epoca, da Leo Valiani, Riccardo Bauer, Franco Venturi e Aldo Garosci. Questi intellettuali avevano condiviso quella che un «azionista pentito» come Arrigo Benedetti avrebbe definito «l'illusione democratica» e, dopo la fine del Partito d'Azione, si erano impegnati a vario titolo nel progetto di riformare o, comunque, rinnovare la cultura politica della sinistra italiana. La pubblicazione del «rapporto segreto» di Kruscev, la condanna del «culto della personalità», la denuncia dei crimini dello stalinismo erano tutti fatti che, nel loro insieme, li mettevano in difficoltà perché ponevano loro il problema di individuare una «cultura di governo» per la «sinistra democratica» che potesse evocare un modello alternativo a quello rappresentato dall'esperienza totalitaria della Russia staliniana. Il loro imbarazzo è evidente, per esempio, nelle pagine di Leo Valiani il quale, dopo aver affermato che si poteva «rimproverare a Stalin di aver abusato delle sue vittorie, ma non certamente di aver vinto le battaglie del suo tempo», lasciava intendere come Lenin fosse stato «interamente immune» da degenerazioni e abusi. O anche in quelle di Aldo Garosci che, recepita la differenza tra «politica di Stalin» e «tolleranza» di Lenin, si poneva il problema di mantenere insieme «il dogma del carattere socialista della rivoluzione e della costruzione staliniana». Dal canto suo, Riccardo Bauer ribadiva la «definitiva e indiscutibile importanza storica della rivoluzione russa» che, malgrado «aspetti negativi, evidenti per quanti conoscono la fecondità delle libertà democratiche», era «una reale conquista di umana civiltà». E aggiungeva che gli avvenimenti succedutisi dopo la morte di Stalin rispondevano a un «diffuso fermento di libertà» che circolava a dimostrazione della «vitalità della evoluzione compiuta dal paese, la vitalità della sua rivoluzione». La verità è che nessuno di questi intellettuali, abbeveratisi alla fonte dell'utopia, aveva la capacità di percepire il fatto che le denunce del «rapporto segreto» di Kruscev e del XX Congresso del Pcus erano solo l'epifenomeno di una dura lotta di potere all'interno dell'Urss. E, ancora, che i crimini di Stalin non erano, già, il frutto di una degenerazione del sistema politico causata dalla mente tarata del dittatore, ma piuttosto l'esito dell'intransigentismo rivoluzionario di Lenin deciso a spazzare via senza pietà gli ostacoli che si frapponevano ai «passi cadenzati del battaglioni ferrei del proletariato».

Quando l'onirico Zavattini era la star dei giornali fascisti. Il celebre sceneggiatore iniziò la carriera sui quotidiani del Ventennio con articoli capolavoro, che oggi ci sogniamo, scrive Massimiliano Parente, Mercoledì 21/12/2016, su "Il Giornale". Uno pensa ai quotidiani e alle riviste e agli intellettuali dell'epoca fascista e si immagina un mortorio di regime, invece è sempre una sorpresa: il mortorio, al confronto, è oggi. C'erano non solo l'immaginifico D'Annunzio e il futurismo marinettiano. Basti pensare a quanto scrivevano Curzio Malaparte, Achille Campanile, Elio Vittorini, Luigi Pirandello, Ennio Flaiano, Leo Longanesi, Carlo Emilio Gadda, Alberto Moravia e tanti altri. E, tra i tanti altri di spicco, il futuro padre del neorealismo, Cesare Zavattini, di cui Bompiani ripubblica Al macero, raccolta di interventi, elzeviri, racconti, aneddoti, usciti tra il 1927 e il 1940 (sebbene lui avesse poco interesse a un libro del genere, perché pensava «io postumo non mi interesso»). Non solo uno sceneggiatore, non solo un giornalista nato («Giornalista si nasce: un uomo che cammina nella nebbia è, per voi, un uomo che cammina nella nebbia. Per me, invece, è un fatto di cronaca. Due anni fa caddi in una pubblica via. Prima di alzarmi estrassi il taccuino per segnarmi l'ora esatta e il luogo»), ma uno straordinario scrittore, un umorista sopraffino. Ditemi voi dove trovate, su un quotidiano di oggi democratico e non fascista, un articolo simile a quello in cui Zavattini, con stile paradossale, alla Jonathan Swift, elogia lo sterminio delle zanzare come passatempo prediletto, tenuto conto che «al dì d'oggi, la protezione delle bestie è un sentimento raro e cristiano più dell'amore verso gli uomini». L'animalismo estremo è storia vecchia. Oppure dove immagina un paese chiamato Senzastagione, che sembra molto l'Italia di oggi, e in cui le recensioni vengono scritte prima dei libri. «Qui da noi, per amore del vivere quieto, le recensioni precedono la pubblicazione, anzi la creazione delle opere letterarie. Il pregio dell'autore sta nel comporre un lavoro, il men possibile lontano dal giudizio del critico, stroncatore o no che sia». Esattamente come fanno i nostri letterati da Premio Strega o Campiello o Viareggio e chi più ne ha più ne scampi. A proposito di letterati, è fantastico Zavattini che spiega come stilare un almanacco letterario, «con l'angoscia nel petto per dover illustrare le gesta dei vostri avversari e sottacere le vostre». La soluzione è vendicarsi con le fotografie, perché «a un collega si può togliere le gambe, una spalla, il torace». La graduatoria degli autori? Strettamente legata al corso degli anni e mutevole, perché un almanacco letterario è un fatto di cronaca, non di Storia, per cui da un anno all'altro «da illustrissimo si scende a noto, e qui fino al nome e cognome, soli soletti. Ma viene una grande tristezza in questi casi». La ricetta è comunque questa, attualissima: «Un almanacco letterario si compila così: mescolando al transitorio il duraturo, accoppiando il grande al mediocre. Solo il tempo restituisce le proporzioni, fa tornare dal nulla strani personaggi e cambia in ombra a volte chi pareva memorabile». Zavattini imperversa su qualsiasi argomento, dalle bugie, in media settantadue al giorno per ogni persona (citando lo scienziato Stanin), inclusi i saluti e gli auguri (pensiamo a tutti i «come stai?», «bene»); al problema di conoscere l'ora esatta, proponendo di affidare il compito ai mendicanti (si fa l'elemosina e il mendicante vi dice l'ora esatta, preventivamente munito dallo Stato di un orologio di precisione), fino all'annosa questione dell'adulterio. Un adulterio tutto femminile e forse perfino femminista e per niente mussoliniano, istituito per legge. Infatti «Se tutti i mariti del globo fossero traditi e a loro fosse nota l'universalità dell'accaduto, nessuno di loro protesterebbe: poiché male comune non è male». Infine, nella società dell'uomo duro e forte e combattente, Zavattini butta lì una magnifica distopia, immaginando un mondo dove sono tutti malati, pura poesia. «Se al mondo fossero soltanto malati, quale dolcezza. Le strade piene di carrozzine con le ruote di gomma o di amache stese tra un muro e l'altro; tutti camminerebbero in punta di piedi e si vedrebbe spuntare qualcuno ogni tanto dagli angoli delle strade con una rosa in mano; i tram andrebbero adagio per non far prendere le scosse () e seduti sulle panchine dei giardini pubblici signori offrono l'un l'altro il proprio termometro, prego lo provi. Termometri incrostati di pietre preziose, termometri d'oro doublé». Ah, signore mie, che fantasia, che leggerezza, che profondità durante il fascismo!

Osvaldo Napoli: «Erano fascisti, cercavano un politico a caso», scrive Rocco Vazzana il 15 Dicembre 2016 su "Il Dubbio".  Osvaldo Napoli non è più parlamentare dal 2013. L’ultimo incarico politico che gli ha restituito visibilità nazionale risale al maggio scorso: candidato alla carica di sindaco di Torino nelle liste di Forza Italia. Si è classificato al quarto posto, dietro Chiara Appendino, Piero Fassino e Alberto Morano (sostenuto da Lega e Fratelli d’Italia). Da allora, Napoli fa il consigliere comunale, lontano dai riflettori dei palazzi romani. Eppure ciò non gli impedito di finire vittima di un agguato rivendicato dai Forconi, un sedicente movimento dal basso, anti casta, molto vicino all’estrema destra. A due passi da Montecitorio, una decina di persone circonda l’ex parlamentare, improvvisando uno strampalato processo popolare: gli leggono deliranti capi d’accusa, lo afferrano dalle braccia, lo stratto-nano. Fino all’arrivo delle forze dell’ordine. «Erano squadristi, fascisti, delinquenti seriali» , ci racconta al telefono Napoli pochi minuti dopo l’accaduto. Il tono di voce è pacato e indignato allo stesso tempo. «Mi scusi ma ho poco tempo», dice, «mi stanno arrivando decine di telefonate».

Bene, andiamo subito al punto allora. Ci spiega cosa è successo?

«Stavo rilasciando un’intervista a Striscia la notizia quando sono stato attorniato da un gruppo di una decina di persone. Hanno semplicemente intuito che io facevo politica e si son messi a urlare: «a morte», «arrestiamo tutti i politici». Citavano un fantomatico articolo della Costituzione che dice che «il popolo può imprigionare i rappresentanti della politica»».

Quindi non stavano aspettando lei in particolare?

«Non sapevano nemmeno chi fossi, me l’hanno spiegato dopo i carabinieri, cercavano solo un “politico”. Poi un energumeno, un delinquente seriale, ha cominciato a prendermi da un braccio e a tirarmi con forza. A quel punto i carabinieri hanno capito qual era la situazione e un militare si è avventato sulla persona che mi voleva “arrestare” costringendolo ad allentare la presa su di me. Io ho colto la palla al balzo e, grazie al mio scatto da tennista, sono riuscito a entrare nel Palazzo in via degli Uffici del Vicario».

Ha temuto per la sua incolumità?

«Inizialmente no, infatti in un primo momento sorrido e dialogo con quelle persone, pensavo si trattasse di uno dei soliti scherzi televisivi. Ma quando ho capito che avevo davanti dei delinquenti ho dovuto ragionare per capire come liberarmi nel più breve tempo possibile».

Cosa le rimproveravano?

«Niente, davvero nulla. Invocavano solo la galera per i politici».

Questo episodio è figlio di un clima pesante che si respira nel Paese?

«No, secondo me no. Questi non c’entrano nulla con la povera gente che non arriva a fine mese. Io mi son trovato davanti a degli squadristi, fascisti che usano questi sistemi per riuscire ad avere visibilità».

Ha già sporto denuncia?

«Mi dicono che uno di quelli ha già quaranta denunce, è inutile che io ne faccia una in più. Bisognerebbe però capire chi c’è dietro, perché è evidente che non hanno agito in maniera autonoma, non sono culturalmente così preparati neanche per fare questo tipo di azione».

E chi potrebbe esserci? Si è fatto un’idea?

«No, nella maniera più assoluta».

Parla il leader dei Forconi: «A noi rivoluzionari non resta che ammanettare i parlamentari abusivi», scrive Giovanni M. Jacobazzi il 20 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Antonio Pappalardo: «L’arresto del deputato Osvaldo Napoli? Il codice impone ai privati di intervenire di fronte a un delitto contro lo stato, come nel caso di questi parlamentari illegittimi». Il generale Antonio Pappalardo è un personaggio eclettico e fuori dagli schemi. I carabinieri con qualche anno di servizio ricordano bene quando, nel 2000, da presidente del Cocer, il Consiglio centrale di rappresentanza, una sorta di sindacato militare senza però i poteri del sindacato civile, si scontrò duramente, rimettendoci l’incarico, con l’allora premier Massimo D’Alema rivendicando per l’Arma un ruolo attivo nella «fondazione di un nuovo tipo di Stato e di una nuova Europa, che i partiti politici così come sono strutturati, e comunque lontani dai problemi dei cittadini, non riescono più a garantire». Oltre la Benemerita è stata, infatti, la politica la grande passione di Pappalardo. Eletto alla Camera con il Psdi nel 1992, attualmente è presidente del Supu, il sindacato unitario personale in uniforme, il cui scopo è il «perseguimento di fini improntati al concetto più ampio di giustizia e solidarietà sociale, di tutela dei diritti civili, contro qualsivoglia sopruso, da chiunque perpetrato». Con i vertici di viale Romania i rapporti sono sempre stati “effervescenti”. Fra i primi atti da parlamentare, una interrogazione al ministro della Difesa per conoscere come mai il tenente colonnello Antonio Ragusa, allora comandante del gruppo carabinieri Roma, era stato promosso al grado superiore senza averne titolo. Pappalardo è di nuovo balzato agli onori delle cronache la scorsa settimana quando, insieme al leader dei Forconi, il “movimento rivoluzionario” guidato dall’agricoltore pontino Danilo Calvani, ha cercato di arrestare l’ex onorevole Osvaldo Napoli in piazza Montecitorio.

Generale, ci spiega cosa sono questi Forconi?

«È un movimento di popolo sorto sul territorio. I partiti tradizionali hanno fallito. E anche i cinquestelle, in cui molti avevano riposto fiducia, si sono dimostrati degli arroganti e degli sprovveduti. Noi cerchiamo di aggregare chi non si riconosce in nessuno di questi soggetti».

E cosa volete fare?

«Una vera riforma dello Stato. Ma non con le persone, incompetenti, che stanno selezionando i grillini. Noi cerchiamo gente che conosca effettivamente i meccanismi della pubblica amministrazione».

Nel frattempo arrestate gli ex parlamentari?

«Sulla vicenda di Osvaldo Na- poli si è fatta confusione. Noi siamo contro l’attuale Parlamento. Composto da abusivi che devono andare via quanto prima. Se non vogliono essere arrestati».

Si spieghi.

«Questo Parlamento è stato eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale. I suoi componenti sono in flagranza di reato di usurpazione di pubblici poteri. È un’associazione a delinquere. I cittadini, davanti a questa situazione di illegalità, hanno il diritto di intervenire. Lo dice il codice di procedura penale. Si tratta dell’arresto effettuato dal privato in caso di delitti contro la personalità dello Stato. Il cittadino effettua l’arresto e, poi, consegna il fermato alle forze di polizia».

Va bene: ma non sarebbe meglio che intervenisse la magistratura?

«Certo! Infatti, dopo l’episodio della scorsa settimana siamo andati dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone per rappresentargli questa situazione di illegalità del Parlamento».

E cosa vi ha detto il procuratore della Repubblica Pignatone?

«Che valuterà attentamente la mia denuncia. È molto rammaricato per quanto accaduto. Lo Stato ha il dovere di intervenire».

Con la polizia com’è finita?

«Tutto bene. Non ci hanno fatto nulla. La nostra azione era legittima. La polizia e i carabinieri, va detto, sono in un momento di grande difficoltà. C’è una forte debolezza istituzionale».

Capirà che non è arrestando i parlamentari che si risolvono i problemi.

«Infatti, il presidente della Repubblica deve sciogliere quanto prima le Camere. E indire le elezioni in modo che venga ripristinata la legalità. È lui che ha una grande responsabilità».

I Forconi si presenteranno alle prossime elezioni politiche?

«Ci stiamo strutturando sul territorio. C’è un comitato di saggi, di cui faccio parte, che sta valutando le mosse future. Io, comunque, non mi candiderò».

Chi inserirete nelle liste?

«Faccio un appello alla società civile, al Consiglio superiore della magistratura, ai vertici delle Forze di Polizia: segnalateci persone capaci che vogliano darci una mano per cambiare il Paese».

INTERVISTA al dr Antonio Giangrande, autore di questo libro. Scrittore, sociologo storico, giurista, editore, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Il degrado ambientale è ormai evidente nella Terra dei Fuochi; diverse sono le denunce per abbandono illecito di rifiuti e i livelli d’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo sono oggetto d’interesse da parte di molti studi. Cosa può dirci lei in riguardo?

«Io non parcellizzerei la questione. Bisogna uscire dallo schema ideologico dove tutto è dipinto come malaffare perpetrato dall’avversario politico di centro destra, così come tutto è malaffare quello che succede nel Sud Italia. Su questo i giornali del nord Italia ci sguazzano: ma di “Terre dei Fuochi” bisogna parlare. Ogni regione ha i suoi fusti interrati o i suoi rifiuti speciali sommersi. Così come ogni regione ha le sue denunce insabbiate. I livelli di inquinamento di ogni specie è allarmante, ma non serve la dietrologia e l’ipocrisia di un certo ambientalismo ideologico. Spesso la buona volontà dei cittadini si scontra con il pressapochismo e l’incapacità degli amministratori. Se non ci sono isole ecologiche, lo sfogo si tramuta in illegalità. Se non si considera il rifiuto o lo scarto una risorsa, allora è inutile parlare di lotta all’inquinamento. E poi l’inquinamento è causato da più fattori, oggi irrinunciabili».

In che modo definirebbe il rischio ambientale in corso in rapporto ad una prospettiva duratura nel tempo?

«Il rischio ambientale in Campania come in tutta Italia, va pari passo con il progresso industriale e con il benessere economico. Più si lavora, più si spende, più si inquina.»

Come definirebbe nello specifico il livello del rischio di inquinamento dell’acqua nella Terra dei Fuochi?

«L’acqua, sia essa di falda o di superficie, si inquina con le infiltrazioni dannose dovute a vari fattori, compreso l’inquinamento dell’aria, o del suolo. L’acqua è il naturale sbocco di ogni elemento chimico che la nostra società produce.»

Come definirebbe nello specifico il livello del rischio di inquinamento del suolo nella Terra dei Fuochi?

«Tutto quello che brucia in superficie, diventa cenere o fumo. In un modo o nell’altro tutto torna a terra, anche con la pioggia».

Come definirebbe nello specifico il livello del rischio di inquinamento dell’aria nella Terra dei Fuochi?

«Gas di scarico delle auto o delle ciminiere o dei camini sono pari ai miasmi dei fuochi dei rifiuti».

Molti giornali o riviste (istitutotumori.na.it, quotidianosanita.it, etc.) parlano della coincidenza dei tassi di mortalità nella Terra dei Fuochi in rapporto con l’inquinamento ambientale da rifiuti. In base alle sue conoscenze potrebbe parlarci di questo fenomeno? In che modo lo considera sia da un punto di vista scientifico che da un punto di vista di parere personale?

«Ogni inquinamento provoca tumori e l’Italia è piana di studi che dimostrano che in una certa zona, rispetto ad un’altra, vi è una incidenza di tumori. Prendiamo per esempio Taranto. Uno Studio recente del Ministero della Saluta ha dimostrato che Taranto, (quindi Ilva) è inquinata quanto Roma: ed è tutto dire».

Identificherebbe la questione ambientale nella Terra dei Fuochi in una fase di transizione verso la distruzione, ma ancora in stato di sicurezza, oppure, in una fase di distruzione già in atto, la catastrofe bussa alle nostre porte? Spieghi la motivazione della sua risposta.

«La questione ambientale nelle “Terre dei Fuochi” è una questione senza soluzione di continuità. Si pone rimedio solo se si ritorna all’età della pietra».

Identificherebbe la questione salute umana nella Terra dei Fuochi in una fase di transizione verso la distruzione, ma ancora in stato di sicurezza, oppure, in una fase di distruzione già in atto, la catastrofe bussa alle nostre porte? Spieghi la motivazione della sua risposta.

«La salute umana è in fase di involuzione: se da una parte ci sono progressi per la sua tutela, dall’altra ci sono aggressioni multiformi, tra cui quello dell’inquinamento. Non è solo l’inquinamento, però, che fa paura alla salute, ma la mancanza di servizi ed efficienza per la sua cura. L’inquinamento provoca il tumore, la mancanza di ospedali che lo curano provoca la morte».

Molteplici sono i dati che ci permettono di conoscere la questione Terra dei Fuochi, a partire dai mass media sino a studi portati avanti da diversi ricercatori (striscia la notizia, sentieri etc...). Spesso si parla anche di ricerche occultate o di risultati non dichiarati (Arpac...), quindi una mancanza di informazione da parte delle istituzioni. Quale parere può esprimerci in considerazione del fatto che a volte i dati ufficializzati dalle istituzioni vengono accusati di non essere corrispondenti alla realtà?

«I dati sono spesso manipolati da chi è portatore di partigianeria. Bisogna essere obbiettivi nei giudizi. I fatti son fatti e non bisogna vedere trame o complotti dietro ogni vicenda».

Se volessimo parlare di cambiamento da parte della società civile, quindi da parte di coloro che sono inermi ai rischi da inquinamento e che subiscono le conseguenze di azioni illecite; in che misura potremmo agire e verso quali direzioni: pubblicità informativa, programmi di prevenzione, mobilitazioni continue...?

«Nessuno è esente dal problema e tutti dovremmo darci da fare. I fatti son fatti e come tali son da tutti conosciuti e non servono cortei, marce, mobilitazioni. In democrazia si elegge qualcuno che abbia il potere di rappresentare la nostra aspettativa e portare avanti le soluzioni delle nostre problematiche. Se questo non succede è colpa dei cittadini. Ergo: chi è causa del suo mal pianga se stesso».

Da parte di associazioni no profit o da parte di enti territoriali finalizzati all’assistenza sociale, quali tipi di programmi d’azione potrebbero essere richiesti in nome di una ribalta verso il miglioramento delle condizioni di vita umana nonché ambientale?

«Io diffido delle associazioni che appartengono ad una certa area politica e quindi fanno      politica e a quegli enti che usano l’assistenza sociale per fare politica. Si veda per esempio Taranto. Si scontrano i fautori per il diritto al lavoro (si parla di decine di migliaia di posti di lavoro) ed i fautori del diritto alla salute. Lì parla la politica, nessuno ascolta il lavoratore, che è il primo ad essere malato. L’unico programma di azione che deve essere adottato è che, spesso, chi inquina commette reato perseguibile d’ufficio. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati».

Si parla molto di Terra dei Fuochi come punto principale di identificazione del rischio di inquinamento e relativi danni alla salute umana. Del resto della regione Campania o di altre regioni limitrofe non se ne parla molto da un punto di vista di espansione e dilagazione del fenomeno sopra detto. Secondo lei quanto i confini di tale problematica possono essere considerati estesi?

«“L’Italia è una terra dei fuochi”. Lo rivela l’Istituto Superiore della Sanità. Ma l’informazione balbetta. LE TERRE DEI FUOCHI è un passo del mio saggio d’inchiesta usato per molte tesi di laurea. “Ambientopoli. L’Italia dell’Inquinamento e del Dissesto Truccato” è il suo titolo. Nello specifico ho anche scritto “Tutto su Napoli e la Campania. Quello che non si osa dire”. Giusto per dimostrare che oltre la Terra dei Fuochi c’è di più!».

A MIA INSAPUTA. QUELLI CHE NON SANNO.

Senato, in 10 anni il governo ha risposto solo al 24% delle interrogazioni. Tempi lunghissimi e domande che restano senza risposta: così si indeboliscono gli "atti di sindacato ispettivo" attraverso i quali il Parlamento controlla l'operato dell'esecutivo. Un fenomeno studiato da uno speciale osservatorio di Palazzo Madama. I chiarimenti dovrebbero essere forniti in 3 settimane, invece la media è di quasi 120 giorni, scrive Lavinia Rivara l'8 agosto 2017 su "La Repubblica". Dovrebbero essere il principale strumento attraverso il quale il Parlamento, ogni singolo deputato e senatore, controlla l'operato del governo. Si tratta delle interrogazioni e delle interpellanze, i cosiddetti atti di sindacato ispettivo che consentono ai parlamentari di chiedere all'esecutivo informazioni su determinate questioni, di sollecitare interventi, di ottenere spiegazioni sull'operato dei ministeri. Eppure in dieci anni, cioè dall'inizio della XV legislatura (aprile 2006) fino a tutto il 2016 i soli senatori hanno presentato 28.360 interpellanze e interrogazioni, ma solo 6.913 (circa il 24%) hanno avuto risposta, con tempi progressivamente sempre più lunghi. Tutte le altre sono ancora in attesa. A mettere nero su bianco questi dati, che certo non gettano una buona luce sull'azione dei nostri governi, è l'Osservatorio sulle politiche pubbliche istituito recentemente a palazzo Madama. I tempi di risposta rappresentano un altro aspetto negativo: in base al regolamento del Senato il governo dovrebbe fornirla entro un termine che va dalle tre alle sei settimane, a seconda dell'urgenza, invece il tempo medio di svolgimento attualmente è di 117 giorni per le interrogazioni orali in Aula e in Commissione, di 118 per le interpellanze e di 220 per le interrogazioni scritte. Il record della rapidità per le interrogazioni scritte si tocca nella XV e nella XVI legislatura: il giorno stesso di presentazione. Ma la XVI ha anche il primato della risposta più lenta: ben 1.338 giorni, circa 4 anni. Il governo Letta ha avuto 2.439 tra interpellanze e interrogazioni e il numero maggiore di atti (277) ha riguardato il ministero dell'Interno che ha risposto in 117 casi con un tempo medio di 164 giorni. Al governo Renzi sono stati indirizzati invece 7.907 atti di sindacato ispettivo e il primato spetta sempre al ministero dell'Interno: 1213 richieste e solo 220 quelle che hanno avuto risposta. Alla presidenza del Consiglio sono toccate invece 796 richieste e le risposte sono state 123. Dal 2001, poi, viene introdotto il question time, cioè le interrogazioni a risposta immediata in aula. Si tratta in genere di questioni urgenti. Al Senato, dove il question time avviene una volta al mese, ci sono state in 16 anni 92 sedute, di cui 44 nella legislatura attuale. Solo una di queste sedute, il 25 luglio del 2013, ha visto l'intervento del presidente del Consiglio. E' chiaro dunque che se si vuole veramente consentire al Parlamento di esercitare la sua funzione di controllo sul governo il sistema degli atti ispettivi deve essere rivisto. Da un lato è necessario trovare gli strumenti per obbligare ministri e Palazzo Chigi a dare risposte più puntuali, come suggerisce lo stesso dossier dei funzionari di palazzo Madama. Dall'altro, gli stessi parlamentari dovrebbero probabilmente limitare il numero interrogazioni e interpellanze, oggi spesso usate come un surrogato dei comunicati stampa, utilizzandoli effettivamente come strumenti per monitorare da vicino l'azione dell'esecutivo.

A mia insaputa": tutti i politici che non sapevano. Da Raggi a Scajola, da Fini a Emiliano, sono tanti, e di ogni partito, i politici che (a torto o a ragione) hanno dichiarato di non sapere, scrive Claudia Daconto il 6 febbraio 2017. Ci sono cascati in molti. Pur di allontanare da sé il sospetto di essere complici di azioni moralmente, politicamente o anche legalmente poco o per nulla trasparenti, o in alcuni casi, come dimostrato dalla giustizia, avendo ragione, politici di ogni schieramento hanno dichiarato di non essersi mai accorti di ciò che avveniva a un palmo del loro naso. Anche quando di mezzo c'erano collaboratori stretti e addirittura amici e familiari. In alcuni casi la giustizia ha dato loro ragione, in altri... no. Ecco una carrellata dei più clamorosi "è successo a mia insaputa".

Virginia Raggi e le polizze vita. È giovedì 3 febbraio 2017. Virginia Raggi siede davanti al procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Francesco Dall'Olio. Assistita dal suo avvocato Alessandro Mancori, il sindaco di Roma sta rispondendo alle accuse di abuso d'ufficio e falso ideologico che la Procura di Roma le contesta in merito alla promozione a capo del dipartimento Turismo del Campidoglio di Renato Marra, fratello di Raffaele Marra, ex capo del Personale dei comunali capitolini arrestato a dicembre con l'accusa di corruzione. L'interrogatorio andrà avanti per diverse ore, ben otto. È durante quelle lunghe ore che il sindaco scopre di essere stata nominata beneficiaria di due polizze vita da 30 mila e 3 mila euro da parte del suo fedelissimo Salvatore Romeo, dipendente del Comune in aspettativa e promosso capo della sua segreteria al triplo dello stipendio. Virginia trasecola. Giura di non saperne nulla. A gennaio e marzo del 2016 Romeo le avrebbe dunque intestato tutti quei soldi a sua insaputa. Benché ciò risulti tecnicamente plausibile, il fatto ha destato comunque molti sospetti e illazioni. Il Movimento 5 Stelle vorrebbe che fosse presa per buona la causale “relazione sentimentale”, indicata dall'ormai ex capo segreteria del sindaco. L'alternativa, priva finora di qualsiasi riscontro sarebbe invece che Romeo, che negli anni scorsi ha sottoscritto numerose polizze per un totale di 130mila euro a beneficio di colleghi ed esponenti del M5S, abbia utilizzato il sistema delle polizze per mascherare finanziamenti al Movimento oppure per mettere a disposizione della Raggi del denaro in cambio di favori.

Claudio Scajola e la casa al Colosseo. Che il suo nome sia stato affiancato a quello di Virginia Raggi ha molto infastidito l'ex ministro Claudio Scajola. Alla notizia delle polizze “a sua insaputa”, in effetti a molti è venuto in mente il paragone con la vicenda della casa con vista Colosseo acquistata da Scajola per 600mila euro ma in realtà costata 1,7 milioni. “Forse mi hanno fatto un regalo a mia insaputa. Se trovo chi è stato...”, una frase pronunciata in conferenza stampa il 4 maggio 2010 per commentare il dono ricevuto dal faccendiere Diego Anemone, che ha segnato il destino politico di Scajola e dal quale l'allora ministro del governo Berlusconi non si è mai più liberato. In una nota trasmessa alle agenzie nei giorni scorsi, Scajola ha voluto ricordare che egli “si dimise senza aver avuto neppure un avviso di garanzia” dalla procura di Perugia che allora indagò sulla presunta corruzione. Nel processo apertosi in seguito a una nuova inchiesta della Procura di Roma, Scajola è stato assolto in primo grado e il reato prescritto in appello.

Umberto Bossi e la villa restaurata. Claudio Scajola non è stato certo l'unico politico a passare dei guai per una casa. Quando nel 2012 scoppia lo scandalo sull'uso dei fondi della Lega da parte dell'ex tesoriere Francesco Belsito, ad andarci di mezzo fu anche l'allora leader e fondatore Umberto Bossi. Secondo l'accusa, per coprire le spese personali dei suoi familiari, i soldi del partito erano stati utilizzati anche per ristrutturare la loro casa di Gemonio. “Io non so nulla di queste cose” tuonò allora un amareggiato Umberto Bossi minacciando di denunciare i responsabili di tali manovre. Belsito, che all'epoca fu arrestato per associazione a delinquere, truffa aggravata, appropriazione indebita e riciclaggio e che oggi è ancora sotto processo per appropriazione indebita e, insieme anche allo stesso Bossi e ad altre cinque persone, per truffa ai danni dello Stato, oggi si è riciclato nel Movimento Sociale Italiano. Per Umberto Bossi, invece, quella vicenda fu all'origine della fine della sua carriera politica e ai vertici della Lega.

Roberto Maroni e gli investimenti in Tanzania. Anche l'attuale governatore della Lombardia Roberto Maroni nel 2011 dichiarò di non aver mai saputo nulla di come Francesco Belsito gestisse i fondi della Lega. Soprattutto non sapeva che l'ex cassiere leghista avesse trasferito in vari paesi esteri, tra cui la Tanzania, quasi 60 milioni di finanziamento pubblico ottenuti tra il 2008 e il 2010. “Gli investimenti in Tanzania? - trasecolò l'allora ministro dell'Interno. Io non ne sapevo niente”. Un anno dopo, nel gennaio del 2012, Maroni dichiarerà durante un incontro a Somma Lombardo, in provincia di Varese, che gli investimenti della Lega Nord in Tanzania “sono stati un errore sul piano politico, un brutto danno d'immagine al quale dovremo rimediare”. Senza presumere che dietro quelle operazioni ci fosse qualcosa di irregolare, Maroni reclamò dei chiarimenti: “non penso che qualcuno nella Lega faccia delle cose non regolari – disse allora - ma un conto è il rispetto delle leggi e un conto è il rispetto dell'etica della Lega Nord”. Oggi il presidente lombardo è uno dei teste nel processo contro Francesco Belsito.

Francesco Rutelli e Luigi Lusi. Totalmente ignaro di essersi messo in casa un tesoriere infedele si dichiarò anche Francesco Rutelli. Ascoltato dagli inquirenti che indagavano sull'appropriazione di almeno 25 milioni di euro di fondi della Margherita da parte dell'ex cassiere Luigi Lusi, che allora affermava di essere stato spinto a effettuare alcune operazioni proprio dal presidente del partito, nell'aprile 2012 Rutelli ribadiva che le attività di Lusi erano state condotte “solo per il suo tornaconto personale, al di fuori di ogni mandato, e a totale insaputa mia e del gruppo dirigente della Margherita”. Il 31 marzo del 2016 l'ex senatore è stato condannato anche in appello a 7 anni. Una sentenza accolta con grande favore dall'ex sindaco di Roma, perché “riafferma – disse – l'onore della Margherita e mio”. Ma che tuttavia non ha potuto risarcirlo del tutto dell'enorme prezzo politico pagato per essersi fidato, a occhi chiusi, di ciò che faceva uno dei suoi principali collaboratori con il soldi del suo partito.

Gianfranco Fini e la casa di Montecarlo. Gianfranco Fini nel 2010, presidente della Camera, scoprì che una parte del patrimonio immobiliare del suo vecchio partito, Alleanza Nazionale, era finito nelle mani del fratello della sua fidanzata Elisabetta. E puntualmente dichiarò: “non sapevo che la casa di Montecarlo fosse stata ristrutturata e affittata a mio cognato”. La vicenda è nota: nel 2008 An “svende” per 300mila euro un appartamento donato al partito dalla contessa Anna Maria Colleoni. A comprarlo è una società offshore, la Printemps, che subito lo rivende per 330mila euro a un'altra società caraibica (pare intestata proprio a Elisabetta) che a sua volta lo affitta a Giancarlo Tulliani il quale risulterà proprietario di entrambe. Indagini recenti hanno tirato in ballo anche la figura del cosiddetto “re delle slot” Francesco Corallo, inquisito per vari reati tra cui il riciclaggio di denaro sottratto al fisco. Corallo infatti avrebbe acquistato l'immobile a prezzo pieno, 1 milione e 360 mila euro. Soldi finiti di nuovo a Tulliani che li avrebbe depositati su conti esteri intestati anche a suo padre Sergio. Intervistato nel dicembre scorso, Fini si dichiarò un uomo distrutto: “sono notizie delle quali non ero minimamente a conoscenza. Sono davanti a un bivio: o sono stato talmente fesso oppure ho mentito volutamente. In cuor mio so qual è la verità e non pretendo di essere creduto ma per me questo è un dramma familiare”.

Josefa Idem e l'Ici non pagata. Sempre per una casa ci ha rimesso il posto da ministro delle Pari Opportunità nel governo Letta anche l'ex olimpionica Josefa Idem dimessasi dalla carica il 24 giugno del 2013. “Non sapevo dell'Ici non pagata – dichiarò all'epoca a sua discolpa - Io non mi sono mai occupata personalmente della gestione di queste cose. Nella mia vita ho passato tre settimane al mese in canoa, dodici mesi l'anno. Ho sempre delegato ai tecnici chiedendo loro naturalmente di fare le cose a regola d'arte”. Una fiducia evidentemente mal riposta dal momento che per ben 4 anni la campionessa di canoa avrebbe omesso di versare la tassa sulla casa tentando di far passare una palestra come sua prima abitazione. Nello stesso periodo Idem finì nella bufera anche per un'assunzione sospetta da parte della società sportiva del marito avvenuta poco prima di essere riconfermata assessore a Ravenna. Accusati in concorso di truffa aggravata ai danni del Comune di Ravenna, per 8.642 euro di contributi previdenziali, il processo a carico della senatrice dem e del marito si è concluso con la prescrizione nel novembre del 2016.

Angelino Alfano e il caso Shalabayeva. Buio totale anche da parte dell'ex ministro dell'Interno Angelino Alfano sul cosiddetto “caso Shalabayeva”. Nessun esponente del governo, tantomeno lui, sarebbe stato infatti a conoscenza del fatto che il 28 maggio del 2013, in un blitz della polizia, era stata arrestata in una casa romana a Casal Palocco, la moglie del dissidente kazako, ricercato dal regime di Nazarbaev, Mukhtar Ablyazov, e rispedita il giorno dopo in Kazakistan insieme alla figlioletta di 6 anni. Uno scarico di responsabilità che ha gettato e continua a gettare molte ombre su Alfano, diventato nel frattempo ministro degli Esteri, e che una serie di circostanze hanno teso a smentire quando sosteneva che tutto fosse avvenuto “a sua insaputa”. Alma Shalabayeva e la figlia più piccola poterono tornare in Italia solo il 27 dicembre del 2013 in seguito all'intervento della Ue, all'appello dello stesso Ablyazov al premier Letta, all'apertura di un'inchiesta e all'iscrizione nel registro degli indagati dell'ambasciatore del Kazakistan in Italia e di altre due persone.

Michele Emiliano e le cozze pelose. E chi poteva immaginare che un compagno di partito come Gerardo Degennaro, ex consigliere regionale del Pd, titolare dell'impresa di costruzioni Dec, arrestato insieme ai fratelli e altre persone, nel marzo del 2013 per vari reati tra cui l'associazione a delinquere, che in cambio di soldi e altre utilità avrebbe ottenuto agevolazioni per ottenere appalti pubblici da parte del Comune di Bari guidato allora da Michele Emiliano, potesse essere un personaggio del genere? Non certo l'ex magistrato e attuale governatore della Puglia che alla vigilia di Natale 2012 ricevette, proprio dai Degennaro, un cesto natalizio contenente anche le celeberrime 50 cozze pelose, vanto della gastronomia locale. All'epoca Emiliano si pentì solo di non aver rimandato indietro l'omaggio natalizio ma non si dimise: “se qualcuno pensa di potermi mandare a casa solo per qualche chilo di pesce e cozze pelose, si sbaglia: rimarremo qui consapevoli degli errori commessi ma con la determinazione che solo le persone perbene riescono a mettere insieme”. 

Beppe Grillo, il blog è un caso: non rispondo dei contenuti. Questa la tesi difensiva nei confronti di una querela per diffamazione presentata dal Pd. E i dem attaccano: «Ha un blog a sua insaputa?», scrive Emanuele Buzzi il 15 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Beppe Grillo? «Non è responsabile, né gestore, né moderatore, né direttore, né provider, né titolare del dominio, del blog, né degli account Twitter, né dei tweet e non ha alcun potere di direzione né di controllo sul blog, né sugli account Twitter, né sui tweet e tanto meno su ciò che ivi viene postato». Il Pd pubblica la memoria difensiva che il leader del Movimento ha fornito in una causa intentata dai dem nel 2016 e passa all’attacco. La nota d’accusa — scritta dal tesoriere del Pd Francesco Bonifazi — viene rilanciata da tutti i big del partito. «Ha un blog a sua insaputa?», commenta su Twitter Debora Serracchiani. Colui che ha registrato il dominio nel 2001 e che ne è tuttora detentore si chiama Emanuele Bottaro ed è finito in realtà già negli scorsi anni a processo per questioni relative al sito. Il gestore, ovviamente, si può ricondurre alla Casaleggio associati. Una rete a tutela del leader, già sommerso da diverse cause. Il post «incriminato» dal Pd riguarda il caso lucano che coinvolse il ministro Guidi. Un post non firmato. «La Guidi chiese l’avallo della Boschi che per blindarlo e assicurarsi che tutto andasse come doveva inserì l’emendamento incriminato nel testo del maxiemendamento su cui poi, con il consenso del Bomba, pose la questione di fiducia», si legge. E poi arriva il passaggio che ha scatenato la reazione dem: «Un meccanismo perfetto ai danni dei cittadini. Tutti collusi. Tutti complici. Con le mani sporche di petrolio e denaro. Ora si capisce perché il Pd ed il governo incitano illegalmente all’astensione sul referendum delle trivelle».

Il trucco di Grillo: querelato il suo blog, ma non pagherà lui, scrive di Enrico Paoli il 15 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. L' ultima, forse, le batte davvero tutte. Beppe Grillo, comico a tempo perso e leader a corrente alternata del Movimento 5 Stelle, non è responsabile di quanto esce sul suo Blog e dunque le cause pendenti contro di lui vanno discusse non a Genova, ma a Roma. Insomma Grillo, quel Grillo, non esiste. Esiste solo un blog, una rete, un Movimento con deputati e senatori, ma non lui. A dirlo non è uno dei tanti siti che animano il Web con notizie false, vere e verosimili, ma il tribunale di Genova, sulla scorta di una causa civile intentata dal Pd contro il leader dei pentastellati per alcune affermazioni contenute sul Blog relative all' inchiesta sui pozzi petroliferi in Basilicata. A far emergere la vicenda è il tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi, che ha prontamente raccolto l'invito rivolto da Matteo Renzi in occasione dell'intervento di chiusura del Lingotto di Torino. «Ora vi racconto una storia simpatica, simpatica», scrive sulla sua pagina Facebook l'esponente dem, «un noto comico, che ha costruito la propria fama soprattutto con il suo Blog, i suoi profili Facebook e Twitter, un bel giorno decide di dire a 400mila iscritti e diversi milioni di elettori del Pd che sono "tutti collusi. Tutti complici. Con le mani sporche di petrolio e denaro". Trattandosi di un comico», sottolinea Bonifazi, «ho cercato di leggere tra le pieghe del messaggio la battuta ma, ahimè, ho trovato solo offese. Quindi ho cercato di tutelare la nostra immagine, non tanto per me quanto per la comunità che rappresento, attraverso un'azione legale. Dicono che loro sono per la legalità? Bene, lo dimostrino: si lascino processare». «Poi il comico ha anche una certa esperienza di tribunali...», chiosa sarcasticamente il tesoriere del Pd, riecheggiando le vicende giudiziarie di Grillo, dato che il comico è stato condannato in via definitiva per omicidio colposo. Ma il caso sollevato da Bonifazi, che va ben al di là delle schermaglie politiche, pone una questione seria: se Grillo non risponde di ciò che viene pubblicato sul Blog, chi è il responsabile? «Leggendo la memoria difensiva con cui il comico rispondeva alla denuncia, ho creduto di essere di fronte al copione del suo nuovo spettacolo ma il mio avvocato ha confermato: è la sua memoria difensiva», spiega il parlamentare. «Il comico», scrive ancora Bonifazi riportando la memoria di Grillo, «non è responsabile, né gestore, né moderatore, né direttore, né provider, né titolare del dominio, del Blog, né degli account Twitter, né dei Tweet e non ha alcun potere di direzione né di controllo sul Blog, né sugli account Twitter, né sui tweet e tanto meno su ciò che ivi viene postato». Beppe Grillo non è. Il messaggio di Bonifazi viene ritwittato da numerosi dirigenti Dem, da Matteo Renzi, a Maria Elena Boschi, passando per Debora Serracchiani. «La tua difesa è ridicola, se vuoi parlare a milioni di persone abbine rispetto e assumiti la responsabilità delle cose che dici e scrivi di fronte a loro e di fronte alla legge. Noi andremo fino in fondo», annuncia alla fine Bonifazi. E siamo solo all'inizio. Enrico Paoli

Beppe Grillo non deve rispondere dei contenuti pubblicati sul suo blog come sostengono i suoi avvocati? Ecco verità e falsità scritte in proposito, scrive “Il Corriere del Giorno" il 20 marzo 2017. Di chi è il blog di Grillo? 3 cose vere e 5 false dette in questi giorni. Nel tardo pomeriggio del 14 marzo, il tesoriere del Partito Democratico Francesco Bonifazi ha pubblicato su Facebook una pagina della memoria difensiva presentata dagli avvocati di Beppe Grillo in una causa per diffamazione. Nel documento si legge che Grillo “non è responsabile, né gestore, né moderatore, né direttore, né provider, né titolare del dominio, del Blog, né degli account Twitter, né dei Tweet e non ha alcun potere di direzione né di controllo sul Blog, né sugli account Twitter, né sui tweet e tanto meno su ciò che ivi viene postato”. La questione ha avuto molto risalto ed è nato un dibattito su chi scrive i contenuti del blog di Beppe Grillo e su chi è chiamato a risponderne. Abbiamo verificato che cosa c’è di vero e di falso nella vicenda.

1. “Il blog di Grillo non è intestato a Grillo”. Vero. E neppure alla Casaleggio Associati. Una semplice ricerca sul registro italiano dei domini.it mostra che il dominio beppegrillo.it, creato il 15 marzo 2001, è intestato a Emanuele Bottaro,52enne residente a Modena che lavora per una società di comunicazione. Nel 2001 la Casaleggio Associati ancora non esisteva e Gianroberto Casaleggio non aveva ancora incontrato Beppe Grillo: i due si conosceranno nel 2004 e il sito andrà online nel gennaio 2005. Intervistato da Repubblica, Bottaro ha detto di conoscere personalmente Beppe Grillo «da vent’anni», di avere un rapporto di stima e di fiducia con lui e di avere registrato il dominio «per toglierlo dal mercato», prima che venisse creato il blog. Ha aggiunto che tra Grillo e lui non c’è alcun accordo scritto e di non aver mai guadagnato nulla dal suo possesso del dominio.

2. “Niente lega Grillo al blog a suo nome”. Falso. Come ha scritto Matteo G.P. Flora, esperto di reputazione online, esistono comunque diversi legami tra Grillo e il sito. Nell’atto costitutivo del M5S si legge che Beppe Grillo è il «titolare effettivo del blog raggiungibile all’indirizzo beppegrillo.it». In un post del marzo 2012, firmato “Beppe Grillo”, si legge inoltre che «la responsabilità editoriale del blog è esclusivamente mia». Inoltre, il titolare del trattamento dei dati personali ai fini della privacy è indicato in Beppe Grillo dallo stesso sito, mentre il responsabile è la Casaleggio Associati. La questione è ulteriormente complicata dal fatto che la stessa privacy policy indica che i dati vengono condivisi con l’Associazione Rousseau, che è titolare del trattamento per quanto riguarda l’attività del “Blog delle Stelle”. Aspetto più tecnico: il codice sorgente del sito rimanda, nel campo “autore”, all’account verificato di Grillo su Google+.

3. “Il post incriminato è firmato da Grillo”. No, si tratta di un post senza firma né indicazione dell’autore. Pubblicato il 31 marzo 2016, il giorno stesso dell’annuncio delle dimissioni del ministro per lo Sviluppo economico Federica Guidi per lo scandalo Tempa Rossa – dimissioni accettate alcuni giorni dopo – il post si intitolava “#RenzieBoschiACasa”. Il testo chiedeva le dimissioni anche dell’allora presidente del Consiglio e del governo, accusandoli di coinvolgimento nello scandalo e di fare «l’interesse esclusivo dei loro parenti, amici, delle lobby e mai dei cittadini». Conteneva le frasi: «Tutti collusi. Tutti complici. Tutti con le mani sporche di petrolio e denaro». Per i contenuti del post, Francesco Bonifazi ha denunciato Beppe Grillo per diffamazione.

4. Oggi nessun post del blog di Grillo è senza firma. Lo ha detto Luigi Di Maio in un’intervista il 15 marzo (al minuto 38’20’’): è vero nella forma, ma nella sostanza, in molti casi, l’autore non è esplicitato in modo chiaro e univoco. I post sul blog di Beppe Grillo, infatti, appaiono spesso sotto una firma collettiva come “MoVimento 5 Stelle”, “Gruppo di Coordinamento Comuni 5 Stelle” o “MoVimento 5 Stelle Europa”, altre ancora firmati da Beppe Grillo o da altre singole persone esterne al M5S. Beppe Grillo, almeno negli ultimi tempi, firma raramente i post che compaiono sul blog. Tra gli ultimi cento, soltanto sei portano la sua firma. Circa un terzo dei rimanenti compaiono sotto l’autore generico “MoVimento 5 Stelle”.

5. Grillo è l’autore dei suoi post. Ci sono ragioni per dubitare che Beppe Grillo scriva in concreto i post che compaiono con la sua firma, almeno in passato, anche se non è chiaro fin dove si spinga il suo controllo sul contenuto. In un’intervista con Marco Travaglio pubblicata nel 2014, Gianroberto Casaleggio – il cofondatore del Movimento 5 Stelle scomparso nell’aprile 2016 – disse che tutti i post del blog erano «loro», intendendo suoi e di Beppe Grillo: «Ci sentiamo sei-sette volte al giorno per concordarli, poi io o un mio collaboratore li scriviamo, lui li rilegge, e vanno in Rete». Alcune inchieste giornalistiche sul funzionamento della Casaleggio Associati hanno raccontato, nel corso degli anni, che i post sono stati scritti a volte da Pietro Dettori, oggi responsabile editoriale presso l’Associazione Rousseau e già dipendente della Casaleggio Associati.

6. “Non è chiaro di chi sia la responsabilità del post”. Questo è vero, almeno in parte. L’avvocato Caterina Malavenda, esperta di cause sulla stampa, ha spiegato che il responsabile dei contenuti pubblicati da un blog è il gestore, che però non è obbligato a un controllo preventivo su tutti i suoi contenuti. Grillo ha detto di non essere il gestore, lasciando quindi il dubbio su chi effettivamente lo sia, e così facendo ha inoltre «scaricato l’eventuale colpa su un altro», cioè l’autore materiale di quel post pubblicato anonimo. La Polizia Postale dovrà cercare di identificare chi ha scritto il post e lo ha messo online e su di lui (o lei) ricadrà l’eventuale responsabilità in caso di condanna nella causa intentata dal PD.

7. “Non ci sono leggi per i reati commessi attraverso Internet”. Falso. Lo ha dichiarato l’esponente del M5S Paola Taverna ospite di Otto e Mezzo (al minuto 18’35’’). In realtà, diverse sentenze hanno chiarito da anni che, ad esempio, il caso della diffamazione tramite Internet è compreso in quanto previsto dall’art. 595 del codice penale, che punisce in modo più grave la diffamazione se essa è commessa «col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità». Quello su cui discutono i giuristi è invece fin dove si possa spingere la comparazione tra i blog e la stampa, oltre ad alcune situazioni particolari come, ad esempio, se il gestore di un blog debba essere ritenuto responsabile anche per i commenti in fondo ai suoi post. Falso. Lo ha detto Di Maio nell’intervista citata sopra (al min. 37’40’’) e lo ha scritto, anche se in modo più ambiguo, lo stesso post firmato da Grillo a commento di questa vicenda. «I post di cui io sono direttamente responsabile sono quelli, come questo, che riportano la mia firma in calce», ha scritto, aggiungendo che il PD ha «per il momento perso la causa». Tuttavia, il procedimento è ancora in corso e quella pubblicata da Bonifazi è solo la memoria difensiva presentata dai legali di Grillo. La causa non si è conclusa e il PD non ha quindi ancora perso né vinto. 

I loro omessi controlli. Volevano condannarlo a sedici mesi per un articolo del 2012: però il direttore non era lui, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 15/03/2017, su "Il Giornale". Uno dei giudici che nel 2012 condannò al carcere Alessandro Sallusti fece poi causa al direttore per «omesso controllo» su un articolo che lo riguardava pubblicato nei giorni seguenti all'arresto. Ieri il processo, incardinato al tribunale di Cagliari, doveva arrivare a sentenza. La pubblica accusa aveva chiesto per il direttore una condanna a 16 mesi di carcere. In aula Sallusti, con la memoria che qui riproduciamo, ha dimostrato che in quei giorni non era il direttore del «Giornale», in quanto si era dimesso. Il pm, cioè lo Stato, chiedeva quindi il carcere per un manifesto innocente. L'udienza è stata sospesa, non senza imbarazzo, e la sentenza rinviata. Signor presidente, questo processo è, diciamo così, figlio di un precedente procedimento a mio carico, concluso nell'ottobre del 2012 con la mia condanna a 14 mesi di reclusione e il conseguente arresto, cosa che ovviamente è stata per me un'esperienza non facile da affrontare. Le analogie tra allora e oggi sono diverse. Anche in quel caso un magistrato, il giudice Cocilovo, ritenendosi diffamato da un articolo pubblicato sul quotidiano che allora dirigevo, Libero, mi denunciò per omesso controllo e suoi colleghi pm chiesero per me, con alterne vicende nei vari gradi di giudizio, una condanna alla pena detentiva che alla fine ottennero. Proprio uno di quei magistrati che giudicarono con severità il caso Cocilovo, il dottor Bevere, in quei giorni ormai lontani mi denunciò, sentendosi offeso per un articolo pubblicato dal Giornale all'indomani della mia condanna definitiva. E ora un suo collega pm chiede nuovamente una pesante condanna detentiva, sedici mesi, nei miei confronti. L'articolo di cui si dibatte oggi ricostruiva, attraverso testimonianze dirette e autorevoli (un'ex parlamentare da sempre in prima linea in battaglie in difesa dei diritti civili) una presunta amicizia tra il dottor Cocilovo e il dottor Bevere (cioè tra il denunciante e uno dei giudicanti della prima vicenda) durante la loro permanenza al tribunale di Milano. Nel merito non vedo dove sia l'offesa grave da meritare una così severa richiesta di condanna. Due magistrati sono, se non necessariamente amici come peraltro spesso capita, sicuramente colleghi e come tali si muovono all'interno di rapporti potenzialmente amicali come succede in qualunque categoria professionale. Ma al di là del merito - una lettera di precisazione sarebbe stata probabilmente sufficiente a rimediare un possibile fraintendimento - mi colpisce che a distanza di quasi cinque anni dal mio arresto nessuno ritenga di dovere tenere conto delle motivazioni con cui, dopo circa un mese che ero ai domiciliari, l'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, commutò la mia pena da detentiva in pecuniaria. Come si evince chiaramente dal dispositivo del Quirinale che ha accompagnato la commutazione, quello del presidente non fu un gesto di clemenza né certo di simpatia nei miei confronti. Fu il rimedio - deciso anche nella veste di capo della magistratura - a una pena ritenuta oggettivamente sproporzionata per un reato d'opinione e di omesso controllo. L'appello di Napolitano, sia alla classe politica (per quello che compete alla parte normativa) sia a quella togata (per la parte tecnico-esecutiva), di evitare l'arresto di giornalisti per reati compiuti nell'esercizio della professione se non accompagnati da fatti di comprovata e grave malafede, è rimasto evidentemente inascoltato se è vero, com'è vero, che oggi la pubblica accusa, cioè lo Stato, chiede per me e per un mio bravo collega autore materiale dell'articolo in questione, Luca Fazzo, di nuovo il carcere per diffamazione e omesso controllo. L'omesso controllo, signor presidente, è un reato normato da una legge degli anni Trenta, solo leggermente rivista nel decennio successivo. Parliamo di anni in cui i giornali avevano poche pagine, a volte solo quattro, le redazioni erano composte da pochi giornalisti e la velocità delle notizie era, rispetto a oggi, quella di una lumaca rispetto a una gazzella. Oggi produciamo ogni giorno fino a cento pagine, tra le varie edizioni, e lavoriamo in tempo reale. Un altro mondo. Ma c'è ancora, come in questo caso, chi pretende dal direttore di accertare senza ombra di dubbio non solo la correttezza formale degli articoli, ma anche quella sostanziale, nonostante alcune sentenze della Cassazione sostengano che il direttore ha, sì, il dovere di vigilare sul rispetto dei principi etici generali e sui codici professionali, ma non ha potere investigativo sull'operato dei suoi collaboratori. Qui, in quest'aula, si chiede che io vada in carcere perché un'autorevole ex parlamentare - da noi interpellata all'epoca dei fatti - ha sostenuto una cosa assolutamente credibile e possibile (l'amicizia tra due magistrati). Che cosa avrei potuto controllare signor presidente? Quella parlamentare non solo non aveva mai dato segni di squilibrio né era nota per essere una millantatrice. Niente, signor presidente, anche se quel giorno fossi stato il direttore responsabile del Giornale non avrei potuto evitare, pur usando tutta l'attenzione, la pubblicazione di una notizia poi rivelatasi forse non esatta. Uso il condizionale perché in questa vicenda l'omesso controllo non l'ho compiuto io ma il querelante, il giudice Bevere, e il pm. Cioè due magistrati. Come si fa in un caso (Bevere) a denunciare, nell'altro (il pm) a chiedere il carcere per un omesso controllo quando si omette di controllare chi è il presunto colpevole? Il cui nome, per altro, era stampato in evidenza sul corpo del reato, cioè il giornale del giorno in cui è uscito l'articolo incriminato. E quel nome, signor presidente, non era il mio. Perché tre giorni prima di quella pubblicazione avevo rassegnato le dimissioni da direttore e lasciato l'azienda della quale, il giorno del presunto reato, non ero neppure dipendente. Mi ero dimesso, signor presidente, perché penso che un editore abbia diritto di decidere se tenere a capo del suo giornale un direttore privato della sua libertà. Noi, signor presidente, i nostri omessi controlli li paghiamo duramente e ne traiamo le conseguenze. Mi chiedo se anche i giudici che avviano una causa temeraria e i pm che «omettono controllo» subiscono lo stesso destino, diciamo 14 mesi di arresto e dimissioni, nel caso il loro operato danneggi per negligenza grave un cittadino non solo innocente ma che mai avrebbe potuto essere colpevole e quindi mai indagato, mai rinviato a giudizio, e mai processato con tutte le conseguenze e i costi economici per la comunità. La domanda è capziosa, perché è ovvio che non è così e non sarà così neppure questa volta. Come sostiene il loro capo Piercamillo Davigo, i magistrati non sbagliano mai, per definizione. A questo punto lei, signor presidente, potrà rimproverarmi: perché tutto questo non l'ha detto prima? Giusto. Se le dicessi: volevo vedere fino a dove potesse arrivare la sciatteria giudiziaria le mentirei, e quindi non lo faccio. Potrei dirle che sono frastornato dalle decine di atti giudiziari che invadono le redazioni. Ma la verità è che ho peccato di eccesso di fiducia nella serietà e nell'efficienza della magistratura, dando per scontato ciò che era contenuto nelle carte della procura invece di soffermarmi, cinque anni dopo i fatti - e questo già la dice lunga su tante cose - a riflettere sulla verità dei fatti. Una cambiale di fiducia evidentemente, ancora una volta, mal riposta. Spero che qualcuno, nel sistema giudiziario, mai come in questo caso autoreferenziale, avrà almeno la bontà di riconoscere l'errore, scusarsi e risarcire danni e spese - tanto paghiamo noi - che abbiamo dovuto sostenere per questa ingiusta imputazione. Ho già dato mandato ai miei legali di attivarsi in tal senso. La ringrazio per l'attenzione.

CERCANDO L’ITALEXIT.

Autarchici, populisti, italiani. I timori del Paese in tempo di crisi. Il saggio di Lorenzo Bini Smaghi, «La tentazione di andarsene» (edito dal Mulino), analizza la crisi economica anche con gli strumenti della psicologia e della politica, scrive Federico Fubini il 3 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera". Se una cifra è rimasta impressa a fuoco nella mente di centinaia di milioni di donne e uomini nella crisi degli ultimi dieci anni, essa riguarda la (percepita) cecità degli economisti. Considerati attenti ai numeri, ma non alle realtà sociali che ribollono sotto di essi. Disprezzati perché innamorati dei loro modelli su come dovrebbe funzionare quel coacervo di interessi, consenso e regole che è una democrazia. Mal sopportati com’è destino di tutti gli «esperti», secondo la sprezzante espressione con la quale i fautori della Brexit si sono imposti nel referendum nel Regno Unito. Forse anche per questo Lorenzo Bini Smaghi sceglie di spiazzare nel suo ultimo libro, La tentazione di andarsene (Il Mulino). Bini Smaghi, da anni firma del «Corriere», è una personalità nota in Italia e in Europa per le sue qualità di economista: dirigente del Tesoro in un momento di fulgore di quella amministrazione con Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi; parte dell’esecutivo della Banca centrale europea negli anni di presidenza di Jean-Claude Trichet; oggi presidente di Société Générale e visiting scholar a Harvard. Bini Smaghi spiazza nel suo saggio perché non si limita a parlare di economia, ma va oltre. E non risparmia né i partiti, né i riflessi condizionati delle istituzioni italiane, né i tanti che diffondono presunte verità destinate a intossicare il discorso pubblico. La tentazione di andarsene (ovviamente, dall’euro) analizza la crisi anche con gli strumenti della psicologia e della politica, per mettere a nudo una «dissonanza cognitiva» sempre più diffusa. La sensazione di sfasamento dalla realtà, di cui parla l’autore, riguarda il posto dell’Italia in Europa e le cause dei problemi che da decenni affliggono l’economia e la struttura sociale di un sistema rimasto indietro rispetto ai suoi pari. «La divergenza economica trova una corrispondenza nell’atteggiamento dei cittadini verso le istituzioni europee — scrive Bini Smaghi —. Dall’essere fra i principali sostenitori dell’Unione Europea, gli italiani sono diventati fra i più critici». Ma questo cambio di umore appare contraddittorio se si guarda ai problemi che fanno del Paese un caso (quasi) unico nell’area euro. Infatti «se l’Italia cresce meno degli altri partner, pur beneficiando delle stesse condizioni ed essendo sottoposta agli stessi vincoli, le difficoltà non dovrebbero provenire dalle istituzioni europee». Ma appunto si innesta qui la prima, feroce critica di Bini Smaghi: «Questa contraddizione — scrive — si spiega in parte con una forma di dissonanza cognitiva che spinge il Paese a negare qualsiasi addebito riguardo allo stato in cui versano la società e l’economia». Rimuovere i problemi giocando con le statistiche o darne la colpa ad altri — meglio se a Bruxelles o a Berlino — è la dieta politica di base di qualunque movimento populista di destra, sinistra, centro o di tutte queste posizioni insieme. Nasce così il secondo, severo affondo di Bini Smaghi. «Quando la realtà dei problemi non può più essere nascosta — osserva — rimane un’ultima cartuccia: il capro espiatorio. Tende sempre più a diffondersi l’idea che l’Italia sia nella condizione in cui si trova per colpa dell’Europa (…). Secondo questa tesi, un’Italia troppo forte darebbe fastidio». Dunque, «forze esterne si sarebbero alleate per fare di noi una colonia». Niente in queste versioni sembra compatibile con l’evidenza che tutti i Paesi sono sottoposti alle stesse regole, con esiti diversi. Peraltro Bini Smaghi smonta dati alla mano la leggenda metropolitana, una di più, secondo cui la Spagna crescerebbe di più perché il suo deficit pubblico è più alto: da anni il governo di Madrid somministra agli elettori dosi maggiori di cosiddetta «austerità». Ma il cuore della riflessione resta politico. Bini Smaghi cita un giudizio formulato da Guido Carli nel 1993: «Una delle eredità più persistenti della cultura autarchica, fascista, è senza dubbio la sindrome del complotto internazionale». Dove porta tutto questo? È la parte finale del pamphlet, che non dovrebbero perdersi neppure coloro che non saranno d’accordo. Porta, prevedibilmente, alla caduta della fiducia degli italiani verso tutte le istituzioni. Interne ed europee. Un difetto nazionale che «parte dall’alto, dalla classe politica, che spesso si tira indietro al sorgere delle difficoltà». L’autore spiega così l’anomalia tutta italiana dei governi di non eletti, i «tecnici», chiamati a compiere le scelte impopolari di cui i politici non vogliono la responsabilità. Si spiega così anche la tendenza a affidarsi ai «tecnici» invece di affrontare elezioni in momenti di crisi come nel 2011. Ma «la mancanza di fiducia in se stessa — o la mancanza di coraggio — della classe politica, si traduce in immobilismo», avverte Bini Smaghi. Alla lunga il rischio è che anche ciò che resta della classe dirigente finisca per inseguire il populismo sul suo terreno, perdendo ulteriore credibilità. E dopo anni di accuse, alla fine i cittadini si convincano a decretare il proprio autoisolamento dall’Europa. Un tempo, appunto, la chiamavano autarchia.

Scandalo rimborsi alla Ue: così i partiti euroscettici hanno truffato Strasburgo. I finti assistenti di Le Pen, la badante della madre di Kaczynski, i contratti illeciti della moglie di Farage: ma ora il Parlamento europeo rivuole i soldi. E ci sono anche casi italiani. Su Repubblica in edicola e Repubblica+ l'inchiesta integrale con tutti i casi e i nomi coinvolti, scrive Alberto D'Argenio il 7 marzo 2017 su "La Repubblica". Sono loro, i grandi partiti europei che vogliono abbattere l’Unione, al centro delle inchieste per frode ai danni delle casse del Parlamento di Strasburgo: abusano sistematicamente dei soldi Ue per portare a termine i loro disegni politici in patria. Frodi sistemiche, organizzate a livello centrale, come quelle del Front National di Marine Le Pen, dello Ukip di Nigel Farage o del partito Diritto e giustizia del polacco Jaroslaw Kaczynski. Assumono collaboratori con i soldi di Strasburgo ma li impiegano in patria per lavorare al partito. Ci sono anche casi italiani, di singoli eurodeputati del Movimento 5 Stelle, Forza Italia, Lega ed ex Pd. In questo caso senza un disegno di sistema, organizzato dalle forze politiche di appartenenza, ma episodi isolati. La mappa delle frodi all’Europarlamento tracciata da Repubblica può partire in Francia, con un nuovo e inedito filone di indagini sul Front National di Marine Le Pen. Già nella bufera per i casi legati agli assistenti pagati da Strasburgo ma al lavoro in Francia della candidata all’Eliseo, ora la forza politica che vuole portare Parigi fuori dall’Europa è al centro di un nuovo caso: le autorità europee e transalpine indagano sui contratti degli assistenti di altri big come Louis Aliot, compagno di Marine Le Pen, e Florian Philippot, braccio destro della leader, o del padre, il fondatore dell’Fn Jean-Marie. Si passa allo Ukip di Nigel Farage, che a breve dovrà restituire circa un milione di euro al Parlamento Ue per i contratti di una serie di assistenti – tra cui la moglie Kirsten - che lavoravano per il partito pur essendo stipendiati da Strasburgo. E poi ancora, le fondazioni dello Ukip, che prendevano fondi Ue per sostenere la politica europea del movimento ma che invece hanno usato i soldi per la campagna del referendum dello scorso giugno su Brexit. Per finire con il caso di Jaroslaw Kaczynski, dominus politico del governo polacco guidato da Beata Szydlo che usava la signora Bozena Mieszka-Stefanowska, assistente del deputato Tomasz Poreba e quindi pagata da Strasburgo, come badante della madre scomparsa nel 2013. Uno dei casi che riguardano il partito Diritto e giustizia che dovranno essere rimborsati all’Europarlamento. Tra i dossier italiani quello di Lara Comi, deputata di Forza Italia che ha assunto la madre come assistente parlamentare e ora dovrà restituire i 126 mila euro percepiti dalla signora, Luisa Costa, dal 2009 al 2010. Al centro di un’inchiesta ancora in corso e i cui esiti non sono ancora decisi due eurodeputate grilline: Daniela Aiuto e Laura Agea. La prima è nel mirino per avere chiesto il rimborso, diverse migliaia di euro, per una mezza dozzina di ricerche che le sarebbero dovute servire per svolgere il mandato europeo ma che in realtà sono state copiate da siti come Wikipedia. La seconda ha assunto come assistente un imprenditore, sospettato di non avere il tempo di svolgere il lavoro relativo la mandato europeo dalla deputata ma al massimo, nella veste di attivista del Movimento, di seguirla nella politica locale. Al centro di un’inchiesta anche un collaboratore del leghista Mario Borghezio, il viceministro Riccardo Nencini (ex europarlamentare al quale Strasburgo aveva chiesto indietro 455 mila euro ma ha scampato il rimborso grazie alla prescrizione) e il deputato eletto con il Pd, ora Mdp, Antonio Panzeri, che ha fatto ricorso alla Corte di giustizia europea di fronte alla richiesta di restituire 83 mila euro. Quelli italiani sono casi isolati e spalmati su tre legislature, con la stragrande maggioranza dei 73 parlamentari eletti ogni cinque anni che rispetta alla lettera le regole.

Ue, scandalo rimborsi: la Comi ha assunto la madre. Verifiche su due M5s: ricerche copiate e dubbi su collaboratore. I casi, tutti senza risvolti penali, sono stati rivelati da Repubblica. L'eurodeputata di Forza Italia sta già restituendo i 126mila euro contestati: "E' stato un errore del mio commercialista", ha detto. Le due grilline invece hanno dichiarato di aver scoperto dei casi dalla stampa e di essere pronte a prendere provvedimenti per rimediare, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 7 marzo 2017. L’europarlamentare di Forza Italia Lara Comi sta restituendo al Parlamento europeo 126mila euro per aver assunto la madre come assistente dal 2009 al 2010; per le deputate M5s Daniela Aiuto e Laura Egea ci sono due procedimenti aperti su rispettivamente: sei ricerche sul turismo commissionate a una società accusata di aver copiato i contenuti da siti tipo Wikipedia, l’assunzione di un collaboratore che sarebbe invece un imprenditore che lavora sul posto. Sono questi alcuni dei casi, tutti senza risvolti penali, raccontati da Repubblica in merito alle accuse a carico di europarlamentari italiani che siedono a Bruxelles e su cui il Parlamento ha avviato accertamenti. E se la prima si è difesa dicendo che si è trattato un errore per cui sta già pagando, le altre due hanno dichiarato di aver scoperto i fatti dalla stampa e di essere pronte a prendere provvedimenti. Tra i primi a reagire ci sono stati i parlamentari del Ppe, gruppo di cui fa parte la Comi, e che, secondo quanto riportato dall’agenzia Ansa, avrebbero detto di non essere a conoscenza del caso: “Una tegola sulla testa”, hanno commentato nei corridoi, anche se la vicenda non riguarda i soldi che ha in gestione il gruppo e soprattutto si riferisce alla scorsa legislatura.

Lara Comi ha replicato dicendo che si tratta di una vicenda “ben nota” e di un fatto “ampiamente chiarito”: la decisione di ingaggiare la madre come collaboratrice fiduciaria, si è difesa la Comi, è stata presa sulla base del parere, poi rivelatosi errato, dell’allora suo commercialista, cui la Comi successivamente ha ritirato l’incarico. “Sto restituendo fino all’ultimo centesimo la somma che viene contestata, con una detrazione che ogni mese mi viene prelevata direttamente dallo stipendio”, ha detto. “Nel 2009, a 26 anni, sono stata eletta in Parlamento Europeo. Ho lasciato il mio lavoro nel settore privato e con grande entusiasmo ho intrapreso quest’avventura. Ogni giorno mi trovavo di fronte a sfide nuove e importanti e, per affrontarle, ho deciso di avere a fianco a me, con un incarico fiduciario, la persona di cui avevo la massima fiducia, mia madre, che mi è stata vicino in tutti i momenti più importanti della vita. Per potermi supportare in questo ruolo lei si è presa l’aspettativa – non retribuita – dal suo lavoro pubblico come insegnante”. Comi sostiene che non era stata messa a conoscenza del fatto che non potesse più assumere un familiare: “La possibilità di scegliere un familiare come collaboratore era permessa fino al 2009, con un periodo transitorio di un anno, come mi aveva spiegato il mio commercialista, che aveva anche consultato gli uffici del Parlamento Europeo. Solo dopo molti anni, cioè nel 2016, vengo a scoprire che questa possibilità era stata esclusa dai regolamenti parlamentari. Per questa ragione, già lo scorso 3 aprile 2016, ho ritirato l’incarico al mio commercialista che, seppure in buona fede, aveva commesso l’errore”.

Altro capitolo è quello del Movimento 5 stelle. Le due eurodeputate si sono difese con una nota poi pubblicata su Facebook dicendo di aver appreso dalla stampa e di essere pronte a prendere provvedimenti. Il primo caso è quello di Daniela Aiuto, accusata di aver commissionato almeno sei ricerche che sarebbero state plagiate dalla società di consulenza a cui si era rivolta. La parlamentare ha quindi replicato: “Ho disposto la sospensione del pagamento delle fatture già emesse”, ha scritto su Facebook. “Inoltre ho comunicato ai servizi parlamentari che provvederò personalmente a rimborsare le fatture già saldate. Resta inteso che agirò legalmente nei confronti della società di consulenza per il rimborso delle somme già sostenute e anche per il risarcimento di ogni ulteriore danno. Pur essendo parte lesa in questa vicenda ho dato la mia piena e totale disponibilità a collaborare con i servizi parlamentari per tutelare il Movimento 5 stelle”. Reazione simile quella della collega Laura Agea, accusata invece di aver assunto un collaboratore a Bruxelles che in realtà svolge l’attività di imprenditore. “Ho appreso dalla stampa”, ha replicato sempre su Facebook, “che sono in corso verifiche riguardanti l’attività svolta da uno dei miei collaboratori locali. Pur non avendo ricevuto alcuna comunicazione ufficiale, mi metto immediatamente a disposizione delle autorità competenti per qualsiasi tipo di documentazione circa la sua attività, che si svolge nel quadro dei miei lavori di deputato al Parlamento europeo. Ho deciso di sospendere momentaneamente la collaborazione in corso per approfondire i termini dell’inchiesta di cui, al momento, non ho informazioni, per permettere alle autorità competenti di svolgere serenamente i dovuti controlli e per non esporre il mio collaboratore ad inutili strumentalizzazioni. Questi controlli sono fondamentali per garantire trasparenza e onestà, valori portanti del Movimento 5 stelle”.

Tra i casi ricordati da Repubblica anche Massimiliano Bastoni, ex assistente parlamentare del leghista Mario Borghezio dal 2009 al 2014 e contemporaneamente consigliere comunale a Milano. L’eurodeputato del Carroccio ha replicato che “l’indagine nasce da presupposti inesistenti: Bastoni aveva tutto il diritto di fare anche il consigliere comunale perché non si tratta di un’attività salariata. E comunque ogni lunedì lui era qui a Bruxelles e può dimostrarlo”. Nella lista c’è anche l’attuale viceministro Riccardo Nencini a cui l’Olaf aveva chiesto di rimborsare 455mila euro per viaggi irregolari e contratti di assistenti, ma dopo aver fatto ricorso alla Corte di giustizia i pagamenti sono caduti in prescrizione.

Caso diverso quello dell’ex Pd e oggi Mdp Antonio Panzeri. A lui il Parlamento ha chiesto nel 2016 una somma di 83 mila euro. Una contestazione riferita alla legislatura 2004-2009 e legata ai finanziamenti ricevuti dalla sua associazione Milano Più Europa. All’epoca, sostiene Panzeri, la funzione di assistenza al parlamentare poteva essere affidata anche ad associazioni. Poi il Parlamento ha cambiato le regole applicandole “retroattivamente”. “Una palese violazione dei principi di diritto”, afferma l’eurodeputato.

Venticinque anni da Maastricht Ue ed euro sono già al collasso. A Bruxelles si festeggia l'anniversario del trattato di Maastricht. Ma già si ragione su una nuova Unione europea a più velocità. È il fallimento totale del progetto iniziale, scrive Giovanni Neve, Domenica 5/02/2017 su "Il Giornale". Quando venticinque anni fa i trattati di Maastricht segnarono la nascita dell'Unione Europea e posero le basi per la moneta unica, il mondo correva ancora sull'onda lunga dell'ottimismo successivo alla caduta del muro di Berlino. Un anno prima il politologo statunitense Francis Fukuyama, in un celebre saggio, aveva parlato di Fine della storia: il modello del libero mercato e della società aperta avrebbe trionfato ovunque con Washington nel ruolo di supremo garante. Le proteste di Seattle e Genova erano ancora lontane e molti guardavano alla globalizzazione con ottimismo. Le illusioni di Fukuyama si sono infrante l'11 settembre 2001 con l'attentato alle Torri Gemelle. Ma il vero colpo di grazia arrivò nel 2008 con il crollo di Lehman Brothers e l'esplosione della crisi dei mutui sub prime, da cui scaturì la crisi del debito che fece tremare le fondamenta dell'euro. Oggi la tempesta euroscettica si è abbattuta su tutti i sistemi politici d'Europa e in molti Paesi, tra i quali l'Italia, l'euro è diventato il simbolo del deterioramento economico di quella piccola e media borghesia che guarda con crescente rabbia a una classe dirigente accusata di aver tradito le promesse di quel 7 febbraio 1992 che sembrava dover aprire agli europei i cancelli di un futuro più stabile e prospero. Se il fuoco del nazionalismo è tornato a bruciare, ad alimentarlo è stato però anche l'atteggiamento di governi che in un'ottica nazionale hanno continuato a pensare, dimostrando spesso di essere i primi a non aver creduto nel sogno di un'Europa davvero unita. L'obiettivo dei padri fondatori dell'integrazione europea, come Jacques Delors, era arrivare a una progressiva cessione delle sovranità nazionali che arrivasse a costruire un soggetto politico unico. Francia e Germania, sotto la guida di Francois Mitterrand e Helmut Kohl, dovettero però cedere da subito alle resistenze di Paesi, come Olanda e Regno Unito, timorosi che una difesa europea avrebbe privato di senso l'esistenza stessa della Nato. Una prospettiva indigeribile per Londra, che non intendeva rinunciare alla sua indipendenza in politica estera e al rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. La cooperazione finì quindi per concentrarsi su quella economica, non importa quanto gli stessi architetti dell'euro, come Tommaso Padoa-Schioppa, avessero messo in guardia sui pericoli di una "moneta senza Stato". Gli Stati membri economicamente più deboli, come la Spagna, sembravano più ingolositi dai fondi strutturali che preoccupati dagli aggiustamenti di bilancio ai quali sarebbero stati costretti dalla fine dell'epoca della spesa a debito. La Commissione guidata da Jacques Santer troverà il compromesso nella convergenza sui famosi "tre pilastri": cooperazione economica, cooperazione diplomatica e cooperazione intergovernativa sugli affari interni. La clausola di opt out a favore della Gran Bretagna, chiamatasi fuori in partenza dal progetto dell'euro, non sarebbe bastata, ventiquattro anni dopo, a scongiurare la Brexit. Terminati i negoziati, il trattato sull'Unione europea viene firmato il 7 febbraio 1992 nella cittadina olandese di Maastricht dai dodici Paesi allora parte della comunità europea. Muore la Comunità Economica Europea, nasce l'Unione europea. E, soprattutto, nasce l'Unione Economica e Monetaria. Quello che verrà chiamato Patto di Stabilità e Crescita fissa i criteri contabili che avrebbero dovuto rispettare i futuri aderenti alla moneta unica, ovvero quelli che vengono comunemente chiamati "parametri di Maastricht": un rapporto tra deficit e pil non superiore al 3%, un rapporto tra debito e pubblico e Pil non superiore al 60% (con deroghe per Belgio e Italia, che registravano già livelli di indebitamento assai superiori), un tasso d'inflazione non superiore dell'1,5% a quello dei Paesi più virtuosi, un tasso di interesse di lungo termine non superiore al 2% del tasso medio dei tre Paesi suddetti e almeno due anni di permanenza virtuosa (ovvero senza fluttuazioni) nel Sistema Monetario Europeo. Il primo giugno 1998 la Banca Centrale Europea prese il posto dell'Istituto monetario europeo, in vista dell'introduzione dell'euro il primo gennaio 1999 e l'entrata in circolazione altri tre anni dopo. Il trattato di Maastricht introduce la cittadinanza europea per tutti coloro che abbiano la cittadinanza di uno Stato membro. Il diritto di stabilirsi, circolare e soggiornare nel territorio della Ue viene rafforzato. Alla libera circolazione di merci, si aggiunge la libera circolazione delle persone. Le innovazioni principali sono il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni municipali del comune di residenza (in qualunque Paese Ue esso sia) e a quelle del Parlamento europeo dello Stato di residenza; il diritto alla protezione consolare attraverso cui un cittadino europeo può chiedere assistenza all'estero alle autorità diplomatiche di un qualsiasi Paese della Ue in assenza di istituzioni di rappresentanza del proprio; il diritto di presentare una petizione al Parlamento europeo su temi di competenza comunitari che coinvolgano direttamente gli interessi del cittadino e l'istituzione di un mediatore comunitario incaricato di tutelare persone fisiche e giuridiche in caso di cattiva amministrazione delle istituzioni comunitarie. Vantaggi minimi per il cittadino europeo che, dopo l'abbattimento delle frontiere, ha iniziato a fare i conti con l'emergenza immigrazione e l'allerta terrorismo. Nei giorni scorsi Angela Merkel ha ipotizzato un'Unione europea a più velocità in risposta al continuo disgregamento dell'Europa e dell'euro. Secondo la cancelliera tedesca, questo concetto dovrebbe comparire anche nella dichiarazione in occasione del 60esimo anniversario dei Trattati di Roma, che si celebrerà in Italia a fine marzo. "La storia degli ultimi anni ha mostrato che ci sarà anche una Ue a più velocità, che non sempre tutti i membri saranno allo stesso livello di integrazione", ha affermato Merkel, sottolineando che l'incontro alla Valletta si è svolto comunque in uno "spirito di unità". La cancelliera non è certo l'unico politico ad aver ipotizzare al vertice di Malta un'Europa a più velocità. La discussione emerge soprattutto alla luce della futura uscita del Regno Unito dall'Unione europea.

Predica bene ma razzola male: le tante responsabilità di Berlino. Dietro i guai dell'Europa ci sono spesso le scelte tedesche, scrive Roberto Fabbri, Lunedì 6/02/2017 su "Il Giornale". I nazionalisti di ritorno sono soliti accusare la Germania di ogni inciampo dell'Europa. Talvolta esagerano con i pregiudizi, e non sarebbe neanche male ricordare che stiamo parlando di un Paese che su affidabilità e impegno nel lavoro ha qualcosa da insegnarci. Su molti argomenti tuttavia è difficile dar loro torto. E se oggi, a 25 anni dalla firma del trattato di Maastricht, l'ideale europeista tocca i suoi livelli più bassi di popolarità, è spesso colpa delle scelte della «locomotiva tedesca», affetta da uno storico «complesso di superiorità» che non di rado sconfina nell'arroganza. Atteggiamenti che troppo spesso hanno spinto la Germania a gestire l'Unione come il cortile di casa propria. Gli esempi, soprattutto in economia, non mancano. Possiamo partire dalla politica monetaria europea, così spesso criticata da Berlino per le scelte di Mario Draghi «l'italiano», ma di fatto favorevole agli interessi della Germania, che si avvantaggia dei bassi tassi d'interesse risparmiando cifre ingenti grazie al divario tra cedole previste e pagamenti reali. D'altra parte, come lo stesso presidente della Bce ricorda, i tassi bassi sono la conseguenza di enormi masse di denaro accumulato e non reinvestito, effetto del fortissimo surplus commerciale tedesco. E qui veniamo a un altro punto delicato. Il surplus tedesco è generato da un record mondiale delle esportazioni, equivalente all'incirca al 9% del prodotto interno lordo della Germania. Ora, è indiscutibile che un simile risultato discenda dalla qualità della produzione di beni tedeschi, ma in Europa esistono delle regole, che non sono solo quelle che garbano a Berlino: una, «firmata» dalla Commissione Europea, «raccomanda» un limite del 6% nella differenza trai volumi dell'export e dell'import: e non risulta che Berlino abbia mai subito una procedura d'infrazione per i suoi ripetuti sforamenti di questo parametro, che oltretutto generano forti sbilanci in ambito Ue. Con il diabolico combinato disposto dei tassi bassi e del surplus commerciale record la Germania incamera ogni anno 300 miliardi di euro e «regala» a quasi tutti gli altri Paesi Ue (spicca l'eccezione dell'Olanda, che sotto questo profilo è una «piccola Germania») la deflazione, causa di crescita bassa (più o meno: in Italia ahinoi di più) e disoccupazione. Questi i fatti e i numeri, e per ragioni di spazio resta fuori molto altro. Sarebbe ora che la signora Merkel predicasse un po' meno e razzolasse meglio.

Euro, 15 anni fa l’entrata in vigore. Come sono cambiati i prezzi: caffè da 900 lire a 90 centesimi, pizza aumentata del 123%. Dal primo gennaio 2002 l'addio alla lira. Dai dati della Fondazione Nens, ecco com'è diminuito il nostro potere d'acquisto. Raddoppiato il costo dei quotidiani e del Big Mac, anche se l'aumento record spetta alla Margherita: da 6.500 lire a 7,5 euro. Cresciute ben più dell'inflazione, in generale, tutte le spese vive delle famiglie: dall'elettricità al gas alla benzina, scrive "Il Fatto Quotidiano" l'1 gennaio 2017. Il caffè al banco da 900 lire a 90 centesimi, il Big Mac da 4.900 lire a 4,20 euro, la pizza margherita da 6.500 lire (3,36 a euro) agli attuali 7,5 euro. Andando a cercare i prezzi di fine 2001, si scopre quanto sia cambiato il costo di beni e servizi negli ultimi 15 anni. Da quando cioè, il primo gennaio 2002, gli italiani abbandonavano la lira e nel nostro Paese entrava in vigore l’euro (quotato al cambio fisso di 1936,27 lire). Non solo cibo e bibite: dalle bollette alla benzina, è lunga la lista dei rialzi, in certi casi molto elevati. Certo ben più dell’inflazione. Ci sono anche casi inversi, soprattutto nel comparto elettronico dove è aumentata la concorrenza e sono diminuiti i prezzi, ma in questo caso più del passaggio dalla lira all’euro hanno contato i passi da gigante della tecnologia. Qualcosa è rimasto immobile nel tempo, come la giocata minima del Lotto, passata dalle 1.500 lire del 31 dicembre 2001 all’euro del primo gennaio 2002 e da lì mai più cambiata. Sono i dati del Nens (Nuova Economia Nuova Società, la fondazione che fa capo a Pierluigi Bersani e Vincenzo Visco) a fornire un termine di paragone fra i prezzi attuali e quelli di 15 anni fa. Tra i grandi classici, quella che ha subito l’aumento maggiore è la pizza margherita: pur con le dovute distinzione territoriali, si passa dai 3,36 euro della media Nens del 2001 agli attuali 7,5 euro, con un rialzo pari al 123%. Sono vicini al raddoppio invece sia il caffè al banco (da 900 lire a 90 centesimi) che il Big Mac (da 4.900 lire a 4,20 euro), come anche i quotidiani in edicola: nel 2001 leggere il giornale costava 1.500 lire, oggi 1,50 euro. Sono i simboli della perdita di potere d’acquisto degli italiani, peggiorata ulteriormente dopo la crisi economica. La lista è lunga: nel 2002 per l’elettricità, spiegava il Nens, si spendevano 647mila lire (circa 334 euro), mentre i dati pubblicati il 31 dicembre dall’Autorità dell’Energia parlano di una spesa fissata a 498 euro (+50% circa). Andamento più contenuto per il gas, con la spesa annua passata da 1 milione e 700mila lire a 1.022 euro (+16%). È salita anche la benzina, per la verità con un percorso decisamente altalenante che l’ha portata a toccare il massimo storico con punte oltre i 2 euro nel 2012. Per un litro di carburante si è passati da circa 2mila lire agli 1,5 euro attuali (+45%). L’unico comparto in controtendenza è quello dell’elettronica, complice lo sviluppo tecnologico e il boom delle vendite online che hanno ulteriormente alzato la concorrenza e abbassato i prezzi. Fare paragoni tra i prodotti di allora e quelli odierni diventa difficile. Ma basti pensare che all’inizio del nuovo millennio una Tv 46 pollici, la migliore sul mercato, costava circa 6,5 milioni di lire, mentre oggi una Tv smart Full Hd 49 pollici costa meno di 500 euro. Nel 2001 per comprare una fotocamera digitale da 1,9 megapixel di risoluzione ci volevano 890mila lire mentre oggi con circa 100 euro si trovano macchine da 20 megapixel. Infine, il Motorola Startac 130, vanto per l’epoca, costava oltre 2 milioni di lire, ben più di qualsiasi ultimo modello di smartphone.

Euro killer, ci ha rovinato la vita: ecco perché, scrive Giuliano Zulin l'1 gennaio 2017 su “Libero Quotidiano”. Con l'euro lavoreremo un giorno in meno e guadagneremo come se lavorassimo un giorno in più, disse Romano Prodi nel 1999. Sono passati quasi 15 anni dall' introduzione della moneta unica e la frase del Professore sembra che sia stata pronunciata a Zelig. È successo il contrario. O meglio, molti lavorano settimane o mesi in meno per colpa della crisi, ma non guadagnano di più. Anzi. Chi ha un posto praticamente porta a casa a fine mese uno stipendio paragonabile a quello del 2001. Con l'aggravante di aver perso anche potere d' acquisto: in quel gennaio-febbraio 2002 i prezzi dei prodotti più diffusi, dal caffè alla pasta, dall' abbigliamento fino al gelato, subirono un rincaro pazzesco, fuori dal normale, che nessuno fu in grado di fermare e analizzare. I consumatori dovettero affrontare aumenti fino al 200%. E in quei due mesi è iniziato il declino dell'Italia. Sappiamo tutti che gran parte delle colpe sono da imputare ai tedeschi, che imposero un cambio lira-euro troppo alto in modo da non avere rivali nelle esportazioni. Sappiamo anche che Prodi e Ciampi commisero l'errore di accettare il diktat tedesco per avere un posto al sole, previa introduzione di un'eurotassa, per entrare nella moneta unica, restituita solo in minima parte. Ma quello che ancora non sappiamo è perché il governo Berlusconi si voltò dall' altra parte durante i primi mesi di vita dell'euro. Solo nell' estate 2002 si creò un osservatorio sui prezzi, ma la frittata era già stata fatta. Ovvio, imprenditori e venditori italiani arrotondarono le mille lire all' euro per recuperare un po' di soldi e rimanere competivi con i partner europei. Legittimo. L'esecutivo però avrebbe dovuto fare uno sforzo sui contratti dei dipendenti e sulle pensioni. Sarebbe stato utile varare aumenti di stipendio, una tantum ed extra-inflazione, per mettere a pari i lavoratori con i produttori. Magari con interventi fiscali, tipo taglio di tasse. Sfruttando, per l'occasione, il calo dei tassi d' interesse sul debito pubblico proprio grazie all'introduzione dell'euro. Niente di tutto questo fu realizzato. Gli italiani si sentirono più poveri e iniziarono così a diminuire i loro consumi. Il circolo negativo era appena all'inizio. La crisi del 2008 e, successivamente, quella dello spread nel 2011, diedero la mazzata finale al nostro Paese. Il doppio effetto, calo del potere d' acquisto e sfiducia, innescarono il crollo delle vendite al dettaglio e degli acquisti immobiliari. Di conseguenza le aziende hanno iniziato prima a tagliare le spese superflue, poi gli investimenti, quindi a licenziare, fino a chiudere. Non a caso sono sette-otto anni che il Pil è asfittico. Le imprese, anche quelle sane, hanno così cominciato a perdere valore, perché operano in un mercato debole. Un affare per gli stranieri che hanno messo nel mirino le nostre società, marchi famosi compresi. Fanno ridere quelli che dicono che l'euro non è la causa dei mali italiani. In quel prezzo del gelato schizzato del 200% c' è tutto il nostro male. Uno autentico strozzinaggio. Spiace che nessun politico abbia chiesto scusa agli italiani. Nemmeno i grandi tifosi della moneta unica. Ma di quelli parleranno Paolo Becchi e Fabio Dragoni lunedì, con la carica dei 101 contro l'euro.

Euro: Adusbef, la rapina del secolo, scrive il 4 gennaio 2017 l'"Agi". Quindici anni d'inferno per famiglie, depredate ed impoverite di 14.955 euro pro capite, un paradiso per speculatori e cleptocrati, arricchitisi su pelle di lavoratori e consumatori.  Sfilati 358,9 mld euro, al ritmo di 997 euro di media l'anno a famiglia. (Adusbef) - A 15 anni dal changeover lira-euro (1.1.2002), introdotto anche in Italia da governanti sedicenti statisti, in realtà modesti maggiordomi della cleptocrazia europea, propagandato come la nuova Eldorado per gli italiani, ratificato forzatamente  (e senza alcun referendum popolare), la moneta unica è stata la più grande rapina di tutti i tempi a danno delle famiglie, un vero inferno, una rovina per lavoratori e ceto medio impoverito, un paradiso per speculatori, banchieri, assicuratori, monopolisti dei pedaggi, elettrici e del gas, e di tutti coloro che hanno avuto la possibilità di determinare prezzi e tariffe, al riparo dei controlli di contigue autorità, che invece di verificare la congruità dei rincari, andavano a braccetto con i rapinatori seriali. L'effetto trascinamento del cambio lira-euro entrato in vigore dal 1.1.2002 (1.000 lire= 1 euro), con lo sciagurato tasso di cambio fissato a 1.936,27 lire ad euro (invece di un giusto tasso di 1.300 lire max per 1 euro), ha svuotato le tasche delle famiglie italiane, al ritmo di 997 euro l'anno di rincari speculativi, per un conto finale di 14.955 euro pro-capite negli ultimi 15 anni. Dall'ingresso nell' euro infatti, si è registrata una perdita del potere di acquisto, che anche le statistiche ufficiali sono costrette a riconoscere, pari a 14.955 euro per ogni famiglia (24 milioni), con un trasferimento di ricchezza stimata in 358, 9 miliardi di euro, dalle tasche dei consumatori a quelle di coloro che hanno avuto la possibilità di determinare prezzi e tariffe, al riparo dai dovuti controlli delle inutili, forse contigue, autorità di settore. La “cleptocrazia europea a trazione tedesca” ha scippato perfino la speranza del futuro, a quelle masse di invisibili disperati, che nel 2001 appartenevano al ceto medio e 15 anni dopo sono costretti ad affollare le mense della Caritas, solo per sfamarsi con un pasto caldo. Dall'ingresso nell' euro infatti, avvenuto senza alcun controllo nel gennaio 2002 con il Comitato Euro che assecondava gli aumenti, si è registrata una perdita del potere di acquisto, che anche le statistiche ufficiali sono costrette a riconoscere, pari 997 euro in media annui per ogni famiglia (24 milioni), con un vero e proprio trasferimento di ricchezza stimato in 358,9 miliardi di euro, dalle tasche dei consumatori a quelle di coloro che hanno avuto la possibilità di determinare prezzi e tariffe, al riparo dai dovuti controlli delle inutili, forse contigue, autorità di settore. Il crollo dei consumi e le sofferenze economiche degli italiani, che ha colpito anche il ceto medio ed i redditi che potevano essere definiti dei “benestanti” nel 2001,è dimostrato inconfutabilmente dallo studio Adusbef sulla capacità di spesa (Cds), un indicatore economico che misura i redditi con il potere di acquisto, pari in Italia a 119 nel 2001,tra le più elevate dei paesi europei superata da Inghilterra (120); Svezia (123); Belgio (124); Austria (126); Danimarca (128); Olanda ed Irlanda (134); Lussemburgo (235); più elevata di Francia; Germania e Finlandia (116). Nel 2015 l'Italia (-16,8%) guida la classifica negativa della capacità di spesa (Cds) ridotta di 20 punti ed attestata a 99; al secondo posto la Grecia (-13,8% la Cds che passa da 87 a 75); al terzo il Regno Unito (-8,3% con la Cds a 110. Adusbef e Federconsumatori, che avevano già denunciato a fine 2001 l'ottusità della Bce, un mostro giuridico sordo e cieco, afflitto da un delirio di onnipotenza che decise di stampare la banconota da 500 euro a misura di evasori e riciclatori di denaro sporco e di economia criminale, rifiutò di stampare le banconote da 1 e 2 euro come efficace strumento in grado di offrire l'esatta percezione del valore dell'euro,  hanno già divulgato gli aumenti sconsiderati da changeover, avvenuti con la complicità dei governi, con la lista di cento prodotti con il prezzo fissato nel dicembre 2001, ultimi giorni di vita della lira, come ad es. la penna a sfera aumentata del + 207,7%, seguita dal tramezzino (+198,7%) e dal cono gelato con (+159,7%), la confezione di caffè da 250 grammi (+136,5%), il supplì (+123,9%), un chilo di biscotti frollini (+113,3%), la giocata minima del lotto (+ 97,8%), aumenti vertiginosi su prodotti di largo consumo che hanno svuotato e saccheggiato le tasche delle famiglie. Gli osservatori di Adusbef e Federconsumatori registravano anche l'aumento dei costi delle abitazioni, problema gigantesco per le famiglie italiane sia relativamente all'acquisto che per l'affitto e per il costo mensile complessivo, registrando 25 anni di stipendio nel 2014 per acquistare un appartamento di 90 metri quadri che nel 2001 ne costava 15 anni di stipendio medio, a conferma di un aumento vertiginoso dei prezzi. La finalità di demolire definitivamente un modello sociale costituito sul “valore del risparmio”, sostituendolo con società fondate sul “debito”, per rafforzare il dominio dei banchieri e della finanza di carta, degli algoritmi che strutturano i derivati killer e della troika, innescando un circolo vizioso per alimentare i profitti delle banche sulla pelle di intere generazioni intossicati dalle carte di debito, ci deve convincere a correggere i gravissimi errori fatti in questi 15 anni, per non continuare a ripeterli. Non deve essere più consentito ad una ristretta cerchia di soggetti che decidono dei destini del mondo, di disegnare un modello di Europa a misura di eurocrati e banchieri, che hanno distrutto la ricchezza delle famiglie, per ingrassare i soliti manutengoli del potere economico, anche a costo di essere definiti, dal cerchio magico delle élites che rappresentano solo loro stessi, con l'appellativo di “populisti”, ossia coloro che tutelano il popolo ed i consumatori oppressi dai banchieri centrali e dalla finanza criminale. Poiché l'euro ha rappresentato la più grande rapina, la rovina del secolo che ha impoverito grandi masse di lavoratori e pensionati, artigiani, piccoli imprenditori, partite Iva, famiglie, Adusbef e Federconsumatori chiedono di rinegoziare i Trattati europei stipulati a misura di banche e monopoli, vessatori ed iniqui per i consumatori. Elio Lannutti (Adusbef) - Rosario Trefiletti (Federconsumatori) 

Il punto di non ritorno. Purtroppo è necessario uscire dall'euro. E saranno dolori. Doppi, scrive Nicola Porro, Venerdì 27/01/2017, su "Il Giornale". Per anni Antonio Martino ci ha spiegato, anche sulle colonne di questo Giornale, di come la costruzione dell'euro fosse pericolosa. Martino, e noi con lui, venivamo definiti euroscettici. Il pensiero unico vinse. Le tesi di Ciampi, Dini, Prodi e per finire Monti e Letta, prevalsero. Per anni anche noi euroscettici abbiamo pensato con Oa (una serie televisiva e visionaria): «Esistere è sopravvivere a scelte ingiuste». Insomma negli anni, nonostante fossimo contrari all'euro-costruzione, abbiamo ritenuto che mollare sarebbe stato un pasticcio, costoso. Era necessario sopravvivere ad una scelta ingiusta. Siamo arrivati ad un punto di non ritorno. Purtroppo è necessario uscire dall'euro. E saranno dolori. Doppi. I primi li abbiamo già pagati quando aderimmo, i secondi li dovremmo affrontare ora. Chi vi racconta che ritornare alla lira è una passeggiata di salute, vi sta ingannando. Ma restare inchiodati alla moneta malata è peggio. L'Italia, è una questione di tempo, non potrà ripagare il suo debito pubblico. Negli ultimi quindici anni i suoi avanzi primari sono stati tra i più virtuosi d'Europa. La sua economia reale, al contrario, la peggiore. Siamo in una tenaglia che ci sta stritolando. Lasciamo perdere per un attimo le responsabilità. Oggi paghiamo 70 miliardi di interessi sul debito. Nei prossimi mesi sono destinati a crescere. E non saremo in grado di pagarli. A ciò si sommano le ragioni ante moneta unica. Non c'è motivo al mondo, dal punto di vista tecnico, per il quale la nostra economia debba avere una moneta rivalutata e per questa ragione la nostra industria debba delocalizzare o perdere ragioni di scambio rispetto alla Baviera. Ciò che scriviamo in queste poche righe non solo è confortato da una ricerca di Mediobanca che pubblichiamo all'interno. È argomento - non ideologico, ma tecnico - di mezzo mondo finanziario. Che si chiede non tanto se Italexit avverrà, ma piuttosto quando succederà. Abbiamo due strade. La prima è fare come coloro che non credevano a Brexit e Trump: aspettare passivi. La seconda è studiare i modi migliori e legali per rendere la rottura più indolore possibile. Ps. Un'alternativa esiste: ripudiare, anche in parte, il debito pubblico. Ma ciò ci porterebbe alla totale perdita di sovranità nazionale.

"L'addio sarà duro, ma restare sarebbe peggio". L'ex ministro ed economista: "Dire che non si può fare retromarcia aggrava la situazione", scrive Gian Maria De Francesco, Sabato 28/01/2017, su "Il Giornale".

«Nel giugno 1971 la Rivista italiana di politica economica pubblicò in caratteri minuscoli, per nasconderlo il più possibile, un mio saggio contro il piano Werner, il primo esperimento di unione monetaria europea, nel quale sostenevo che il progressivo restringimento dei margini di fluttuazione dei tassi di cambio avrebbe creato problemi».

Il report di Mediobanca non suona nuovo ad Antonio Martino, già professore di Economia politica alla Luiss di Roma e oggi deputato di Forza Italia. Quello scritto gli valse la riprovazione di Piero Fassino che lo bollò come «euroscettico» allorquando Martino fu nominato ministro degli Esteri nel 1994. Ma «il Pci fece campagna contro gli accordi di Messina del 1955 che portarono al Trattato di Roma del 1957», ricorda Martino, figlio del ministro che quegli accordi li promosse e li firmò.

Onorevole, anche Mediobanca ha ipotizzato che è possibile uscire dall'«area monetaria ottimale» dell'euro.

«Un'area monetaria è ottimale se c'è mobilità dei fattori della produzione che non può esserci tra Paesi con ordinamenti, lingue ed economie differenti. Quale mobilità può esserci tra la Baviera e la Sardegna? Si usa quel termine per l'euro perché il suo padrino è il Nobel Bob Mundell che studiava gli ambiti monetari ottimali e che non ho mai capito come potesse considerare tale l'Unione europea».

Una certa politica sostiene queste posizioni da tempo.

«La situazione è molto più complessa di come la si descrive politicamente. Luigi Einaudi era favorevole a una moneta unica perché si sarebbe tolta agli Stati nazionali la possibilità di monetizzare il debito facendo comprare alle banche centrali i titoli emessi per finanziare il deficit e aumentando l'inflazione che è la più odiosa delle imposte. Ma oggi cos'è il quantitative easing se non un acquisto massiccio di titoli del debito pubblico da parte della Bce che li paga creando euro? Fra tre anni al massimo se ne vedranno gli effetti e l'inflazione si abbatterà su uno scenario diverso dall'attuale».

Mediobanca punta il dito contro la perdita di produttività del lavoro connessa al cambio fisso.

«Se il disavanzo delle partite correnti non determina una svalutazione della moneta nazionale, il sistema si riporta in equilibrio con le variabili macroeconomiche interne: prezzi, livello dell'occupazione e sviluppo. L'Italia ristagna da tanto tempo proprio per questo motivo».

L'impostazione europea è dunque sbagliata?

«Comportarsi come se non si potesse fare macchina indietro aggrava gli errori, mentre è possibile farlo in modi non penosi dal punto di vista economico e sociale».

Quindi l'uscita è possibile come dicono Salvini, Meloni e Grillo?

«L'uscita non è semplice e indolore ma l'euro ha creato una perdita secca di potere d'acquisto. Tuttavia non vedo una maggioranza che abbia un progetto o un piano per realizzarla. L'idea del referendum non sta in piedi perché non sono ammessi in materia di trattati internazionali. Io ed altri economisti avevamo proposto nel 2012 che la Grecia adottasse una moneta parallela che circolasse assieme all'euro al tasso di cambio che il mercato avrebbe determinato. Dopo un paio d'anni si sarebbe raggiunto il tasso di equilibrio e la Grecia sarebbe potuta uscire ordinatamente».

Quali miglioramenti si avrebbero con una nuova lira?

«Se avessimo una moneta nazionale, avremmo altri due obiettivi di politica economica: l'equilibrio di bilancia dei pagamenti e la politica monetaria nazionale. È per questa ragione che da un po' si ricomincia a parlare di una possibile conveniente uscita della Germania».

Finanziamenti Italia-UE: per il Belpaese saldo negativo di 5 miliardi, ma è anche colpa nostra, scrive Marta Panicucci su "Ibtimes.com" il 16.03.2016.

Marta Panicucci. Toscana di nascita, dopo alcuni anni in giro per l'Italia, ho messo le radici a Firenze. Laurea triennale in Lettere moderne, 110 e lode alla Sapienza di Roma in Editoria e scrittura giornalistica, ho frequentato il master in Informazione multimediale e giornalismo economico-politico al Sole 24Ore. Giornalista dal 2015, smanetto su siti di informazione dal 2010. Scrivo per giornali online occupandomi soprattutto di economia e politica.

La corte dei Conti ha pubblicato la Relazione annuale 2015 al Parlamento su “I rapporti finanziari con l’Unione Europea e l'utilizzazione dei fondi comunitari” che mette sulla bilancia i contributi economici che l’Italia versa all’Unione e i soldi che Bruxelles versa, invece, all’Italia per progetti di sviluppo e occupazione. Secondo la Corte dal 2008 al 2014, la casse italiane registrano un saldo negativo di 39 miliardi, che rappresenta quindi la differenza tra quanto abbiamo dato e ricevuto in quel periodo di tempo. Soltanto nel 2014 l’Italia ha versato 5,4 miliardi in più di quanto abbiamo ricevuto come finanziamenti. Su questi calcoli si alzano le voci di protesta contro i burocrati di Bruxelles, contro l’UE brutta e cattiva che complotta contro l’Italia. Ma in realtà, il fatto che l’Italia versi più di quanto riceve è fatto noto da tempo, da quanto sono in vigore le modalità di calcolo dei contributi dovuti dai Paesi membri all’UE. Il dato interessante che, però, la Corte dei Conti aggiunge alla discussione è che la responsabilità delle minori entrate rispetto alle uscite è anche nostra, perché non sappiamo spendere i finanziamenti provenienti dall’UE.

Come si finanzia l’UE. Basta andare sul sito dell’Unione Europa per verificare le modalità con cui si finanzia l’UE. La fonte principale è il contributo dei Paesi membri calcolato in circa lo 0,7% del reddito nazionale lordo. “I principi di base – si spiega - sono la solidarietà e la capacità contributiva, ma se ne risulta un onere eccessivo per determinati paesi, si procede ad aggiustamenti”. Un’altra parte dei soldi arriva dall’IVA di ciascun Paese (circa lo 0,3%) e dai dazi all'importazione sui prodotti provenienti dall'esterno dell'UE. Per quanto riguarda il 2014, ultimo dato disponibile, la Corte dei Conti indica un saldo (negativo per l’Italia) di 5,4 miliardi di euro. Il contributo italiano è diminuito del 7,5% rispetto all’anno precedente a fronte, però, di una flessione degli accrediti ricevuti dall’Unione per la realizzazione di programmi europei del 15,1%. Inoltre, sottolinea la Corte, l’Italia continua a farsi carico insieme ad altri Paesi di una quota dei rimborsi al Regno Unito per la correzione dei suoi “squilibri di bilancio” (circa 1,2 miliardi di euro nel 2014, con un incremento di circa il 29% rispetto all’anno precedente).  Le contribuzioni di Danimarca, Irlanda e Regno Unito sono ridotte rispetto agli altri Paesi perché non partecipano a certe politiche nel settore della giustizia e degli affari interni e quindi gli altri membri devono compensare versando a loro parte dei contributi.

Le responsabilità italiane del saldo negativo. Ma se la notizia dei contributi italiani maggiori dei finanziamenti non è nuova, risulta interessante il dato evidenziato dalla Corte dei Conti sulla gestione italiana dei soldi provenienti dall’UE. L’analisi della Corte ha evidenziato che “per far fronte ai ritardi nell’utilizzo di tali fondi ed evitare perdita di risorse comunitarie, le Autorità italiane, d’intesa con la Commissione Europea, hanno ridotto la quota di cofinanziamento nazionale, attraverso le riprogrammazioni definite nell'ambito del Piano di Azione Coesione”. L’Italia da una parte non impiega soldi per i confinanziamenti con l’UE e dall’altra utilizza male i fondi accreditati dall’Unione. La Corte sottolinea il capitolo delle frodi e delle irregolarità per i contributi illeciti che continuano a crescere di anno in anno, tanto da raggiungere quota 142,2 milioni in salita rispetto agli 82 milioni di un anno prima. Questo dato di fatto non solo ci fa perdere in termini di credibilità internazionale, ma anche in termini economici veri e propri. Formazione, occupazione, imprenditoria e agricoltura sono i settori maggiormente coinvolti nelle frodi e nelle truffe con i soldi europei. “Un fenomeno che desta allarme” e che porta spesso alla “mancata realizzazione delle attività finanziate, soprattutto con riguardo ai contributi pubblici”. Insomma miliardi che partono dall’Europa, finiscono nella casse italiane che le impiega per opere o attività fantasma. Ma ormai la programmazione dei finanziamenti europei 2007-2013 è andata, ma siamo ancora in tempo per cercare di recuperare quella in corso, 2014-2020. A riguardo la Corte osserva che “l’Accordo di Partenariato tra l’Italia e la Commissione europea, del novembre 2014, prevede che le criticità dei cicli precedenti vengano superate attraverso una programmazione più trasparente e verificabile, un monitoraggio permanente ed un supporto all’attuazione, anche grazie alla Agenzia per la coesione territoriale, i piani settoriali nazionali di riferimento nonché i piani di rafforzamento amministrativo per le Amministrazioni centrali e per le Regioni”. Speriamo che la trasparenza sia sufficiente a contrastare il malaffare tutto italiano. Insomma, il saldo tra soldi ricevuti e versati dall’UE resta anche nel 2014 negativo, ma non per un accanimento dell’Unione nei confronti dell’Italia, ma perché è l’Italia stessa che continua a dimostrarsi bravissima nel darsi la tappa sui piedi da sola. E poi addossare la colpa agli altri.

Perché quando parliamo di “tornare alla lira” dimentichiamo la storia, scrive Alessandro Volpi il 15 febbraio 2017. La moneta nazionale italiana è sempre stata molto debole: la sua difesa ha causato problemi, tra cui spirali inflazionistiche, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. E in alcuni casi per affrontare le crisi della lira l’Italia ha dovuto accettare limitazioni alla propria “sovranità nazionale” - tema oggi caro a chi attacca l’euro -. L’analisi di Alessandro Volpi, Università di Pisa. "Sembra affermarsi con sempre maggiore insistenza, come tema centrale del dibattito politico, un continuo richiamo alla lira, caratterizzato da una profonda nostalgia e dall’auspicio di un ritorno ad una presunta età dell’oro caratterizzata dalla presenza delle monete nazionali. Rispetto ad una simile ondata “passatista” può essere utile mettere in fila alcuni elementi suggeriti dalla storia della nostra vecchia moneta che non dovrebbero farla rimpiangere troppo.

1) La lira è stata una moneta molto debole, fatti salvi pochi fortunati momenti. Già prima della nascita della Banca d’Italia, avvenuta nel 1893, la lira italiana emessa dalla Banca nazionale si trovò spesso sull’ottovolante, a partire dal 1866, quando fu sospesa la sua convertibilità, fino alla tempesta della Banca romana. Gli affanni proseguirono con la crisi del 1921 e soprattutto con la politica mussoliniana di Quota novanta, con cui il duce tentò un improponibile e costosissimo cambio tra sterlina e lira, fissato appunto a 1 a 90, che i grandi operatori rifiutarono, mettendo l’Italia fuori dai mercati e costringendola ad avviare una dura quanto retorica fase autarchica. Dopo la seconda guerra mondiale, le debolezze proseguirono con una sequenza micidiale di crisi; nel 1963-64, quando sulla moneta si scaricarono le tensioni sociali e politiche determinate dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica, nel 1973, allorché la lira fu colpita ancora più duramente di altre divise dagli effetti del primo grande shock petrolifero, e nel 1976, anno di una delle più pesanti svalutazioni della moneta italiana. Il 13 settembre 1992 poi il governo Amato fu costretto ad annunciare l’uscita della lira dal sistema monetario europeo (SME) e ad accettare una significativa svalutazione, di fatto imposta dalla Germania. Da quel momento, fino all’entrata in vigore dell’euro, nonostante i tanti sacrifici contenuti dalle varie finanziarie, il destino della nostra moneta non si risollevò.

2) Questa debolezza cronica ha visto conseguenze rilevanti sui conti pubblici italiani almeno su due piani ben evidenti. In primo luogo è costata moltissimo alla Banca d’Italia che ha dovuto impiegare molte risorse per difendere il cambio della lira dagli attacchi speculativi provenienti dalle altre monete. Ogni qual volta le criticità politiche del quadro italiano o le difficoltà economiche mettevano la lira al centro delle tensioni, il governatore di BankItalia doveva utilizzare tante risorse pubbliche per agire sul mercato dei cambi e riportare la nostra moneta in linea di galleggiamento. Ciò avvenne spesso sia durante il periodo di Guido Carli sia in quello di Carlo Azeglio Ciampi. I costi pubblici della lira debole sono stati poi particolarmente alti a causa dell’innalzamento dei tassi di interesse pagati sui titoli di stato denominati, appunto, in lire. Nel 1990 il tasso medio di interesse dei titoli di Stato sfiorava il 13 per cento, due anni più tardi nel pieno della già ricordata crisi della lira, il medesimo tasso era salito al 14 per cento con punte massime del 17,79 per i BOT annuali. Per tutti gli anni successivi, mentre il debito pubblico cresceva rapidamente, i tassi continuarono a mantenersi intorno al 10 per cento. Solo con l’avvento dell’euro, nonostante l’ulteriore impennata del nostro debito, i tassi crollarono abbattendo così una delle principali voci della spesa pubblica: nel 2004 il tasso medio dei titoli di Stato era caduto al 2,66 e persino durante la bufera degli spread del 2011 e 2012 tale tasso non si è allontanato troppo dal 3 per cento.

3) La debolezza della lira ha generato una continua svalutazione che ha prodotto a sua volta molteplici conseguenze negative a cominciare da una costante pulsione inflazionistica, destinata ad erodere il potere d’acquisto degli italiani, solo in parte compensata dalla maggiore competitività attribuita alle merci italiane dal deprezzamento della valuta nazionale. Il combinato disposto di svalutazione e inflazione ha infatti generato una cattiva distribuzione della ricchezza favorendo i settori votati all’esportazione rispetto al resto dell’economia dipendente invece dai consumi interni. Inoltre il fatto di fondare la competitività italiana quasi interamente sulla debolezza della lira ha drogato il sistema produttivo, bloccando qualsiasi ipotesi di ristrutturazione finalizzata a premiare i settori più innovativi. Inoltre, per evitare che la crisi della lira si trasformasse nel suo fallimento sono state necessarie manovre finanziarie durissime, in particolare proprio dopo la già ricordata uscita dallo SME, quando furono poste in essere due leggi finanziarie da circa 150mila miliardi di lire con un forte incremento della pressione fiscale e con la firma di accordi pesantissimi per i redditi dei lavoratori.

4) Ci sono poi due ulteriori aspetti, in parte tra loro correlati, che sono riconducibili alla debolezza della lira. Le molteplici crisi citate sono state affrontate con un forte dispendio di risorse pubbliche ma hanno avuto bisogno, sempre, di interventi esterni che hanno certamente limitato la sovranità italiana: così è avvenuto con la benevolenza degli Stati Uniti nel 1963 e con la non ostilità europea nel 1976 e nel 1992. Non è del tutto vero dunque che con la moneta nazionale il nostro Paese non subisse condizionamenti esterni. Il secondo aspetto consiste nelle continue fughe di capitali dall’Italia dettati proprio dalle incertezze della lira e dalle strategie di attrazione poste in essere dagli altri Paesi; un’emorragia che si almeno in parte arginata con l’euro. Rimpiangere i vecchi tempi andati non rappresenta, talvolta, la migliore soluzione."

MORIRE DI CRISI.

In un film verità i morti dimenticati del Nordest in crisi. "Cronaca di una passione", la crisi economica nel nuovo film di Fabrizio Cattani. Commuove e fa discutere il lavoro di Cattani ispirato alle cronache di questi anni. Dal 2012 più di 800 piccoli imprenditori si sono tolti la vita dopo il fallimento dell'azienda, scrive Giampaolo Visetti l'8 novembre 2016 su “La Repubblica”. Antonio aveva 56 anni e produceva tubi. Due anni fa l'ultimo brindisi con i tre operai: una commessa pubblica, la banca avrebbe aspettato, i soldi per le more chieste da Equitalia li avrebbe trovati. Poi lo Stato non ha pagato ed è finito tutto. Ha provato a fare il meccanico ad Arsiero: 500 euro al mese in nero. Gli è arrivato lo sfratto. La moglie, con i due figli, si è trasferita dalla madre. Lui, in cambio del letto, ha fatto il badante della zia. La sera la famiglia si riuniva ai giardini pubblici di Vicenza: un triangolo di pizza, due parole sui ragazzi e sui libri da pagare per l'università. Alla fine Antonio ha ceduto e si è tolto la vita. Non è stata la disperazione, ma la vergogna. La famiglia e gli amici avevano saputo: anche lui era colpevole di povertà. Nell'Italia della grande crisi, come nel Nordest dei reduci degli "schei", i fallimenti non si perdonano. O ce la fai, o ti togli di mezzo. La selezione della specie, nell'impero del consumo, è spietata. Seicentoventotto piccoli imprenditori suicidi in tre anni, tra il 2012 e il 2015, altri 193 fra gennaio e ottobre. In testa alla classifica, il Veneto. Non sono il fisco, lo Stato e la burocrazia, ad essere sotto accusa, non i grandi e i piccoli evasori che si appellano all'impresentabilità collettiva per giustificare la disonestà individuale. Nel cinema Roma di Vicenza si parla di vulnerabilità personale e di indifferenza istituzionale, della mediocrità che ha conquistato i poteri, di un'esistenza precaria diventata cronica e generale. È una testimonianza, ma pure un omaggio ai caduti anonimi del Paese che non ce la fa. Gente umile e onesta, semplice e normale, spesso anziana, i protagonisti dell'esaurito modello Nordest affondato nei debiti. Inaccettabile, specie nella terra in cui il lavoro e il conto in banca sono il cuore di ogni persona. Ci sono anche i figli di Mario, falegname di Valdagno. Lui è stato ucciso dalla fine dell'amore con la moglie. C'erano l'assegno di mantenimento, un nuovo affitto, altre bollette, le rate per i macchinari, i contributi dei dipendenti. "Ci ha chiesto scusa - dicono - aveva un'assicurazione sulla vita, l'ha fatto per noi". La sala è gremita per l'anteprima di Cronaca di una passione, l'ultimo film di Fabrizio Cattani, con Vittorio Viviani e Valeria Ciangottini. Presenti gli "Angeli della Finanza" e l'ex magistrato Piero Calabrò, presidente dell'Istituto Sdl. Dopo Maternity blues, dedicato alle mamme in carcere per infanticidio, l'opera è già un caso. La prima ragione è l'argomento: l'organizzazione collettiva che pretende la vita di chi non sta al passo con le regole della finanza pubblica. La seconda è la formula: un film autoprodotto da 70mila euro, negato alle grandi sale e affidato a quelle piccole, purché accompagnino la proiezione con dibattiti animati da associazioni e volontari, pronti ad aiutare concretamente le famiglie dei caduti causa crisi. La tournée, dopo Vicenza e Verona, lascerà il fronte Veneto per toccare tutti i campi di battaglia della nazione, a partire dalla Campania. "Il welfare - dice Fabrizio Cattani - da statale si è ridotto a famigliare. Ma in questo modo chi per necessità cade nelle mani delle sanzioni, viene privato anche della dignità, la pena è l'umiliazione inflitta dalle persone care. A un uomo sul lastrico un funzionario pubblico ha suggerito di fingersi pazzo per ottenere un posto riservato ai disabili". Non c'è indignazione, nel multisala. Piuttosto commozione e rimpianto. Ci sono artigiani e piccoli commercianti, industriali e professionisti, i famigliari di chi si è arreso. Conoscono la storia. Anna e Marco, una trattoria, una fabbrica che chiude e i coperti che non sono più quelli di prima. Il debito verso Equitalia schizza a 30mila euro, poi a 50. La loro passione, ma si potrebbe dire il calvario, o la condanna, è questa: il quartiere pignorato, il locale chiuso, l'affidamento a una comunità che dopo quarant'anni divide anche il loro letto matrimoniale. "Ed è sempre quando non servi più - dice Cattani - che la solidarietà salta. Non giudico, ma prendo atto che affetti, buone intenzioni, sostegno e generosità, come il buon senso e il supporto delle istituzioni, scoprono improvvisamente di essere solo parole, o propaganda. Se una comunità scompare nell'attimo cruciale, la sua esistenza è inutile. Non parlo degli evasori, ma degli onesti: nemmeno lo Stato può pignorare la vita". I protagonisti finiscono con i mobili ammassati in un garage preso in affitto. Dormono su un materasso steso davanti ai fornelli, prima di essere cacciati "per esigenze igieniche". Passano la fine dell'anno in albergo. Anna prende le pillole e resta a letto. Marco raggiunge la spiaggia e punta verso le onde. "Non ci spaventano i sacrifici - dice Tiziana - a ucciderci sono i giudizi e il confronto. Dopo 35 anni di fatiche ti svegli e ti convincono che non vali più niente, che hai rubato ciò che non hai mai avuto". Aveva un lavasecco sotto Asiago, adesso è ospite della Caritas. È notte. Finisce di parlare e in sala nessuno fiata. Parte un applauso e basta. Forse proprio il Nordest vuol dire al resto d'Italia che si è vivi anche senza i soldi.

L’ITALIA E LE RIVOLUZIONI A META’.

L'Italia ha sempre nostalgia delle sue rivoluzioni a metà. Dal Risorgimento fino agli "Anni di piombo"» si è coltivato il mito. Danneggiando presente e futuro, scrive Francesco Perfetti, Sabato 18/02/2017, su "Il Giornale". Alle origini, almeno in Italia, ci fu Alfredo Oriani. Proprio lui, il «solitario del Cardello» com'era chiamato, gettò le premesse per una lettura critica della storia italiana che ne sottolineava il carattere di rivoluzione «incompiuta» o «tradita». Nelle sue due opere più famose, La lotta politica in Italia e La rivolta ideale, questo burbero, scontroso, solipsistico intellettuale romagnolo tradusse la propria insoddisfazione per l'esito, a suo parere deludente se non fallimentare, del processo risorgimentale in un sogno profetico: il completamento di quella rivoluzione a opera di una «aristocrazia nuova». Così, senza neppure rendersene conto, Oriani divenne il padre di una «ideologia italiana» che, attraverso manifestazioni diverse, avrebbe attraversato come un mutante tutta la storia italiana del Novecento. A Oriani guardarono, infatti, personaggi di ogni estrazione culturale e politica, di destra e di sinistra, esponenti di una sorta di «sovversivismo intellettuale» germogliato all'insegna del «ribellismo» e dell'illusione nella possibilità di trasformare, grazie all'opera di una «aristocrazia nuova», il mondo reale. Una «cultura politica della rivoluzione», insomma, destinata a diventare il tratto dominante, sia pure sottotraccia, della storia nazionale e che ha finito per bloccare la possibilità di affermarsi di una «cultura politica riformista». Nel suo ultimo e importante saggio dal titolo Ribelli d'Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle Brigate rosse (Marsilio, pagg. 418, euro 19,50) lo storico Paolo Buchignani segue un lungo itinerario, tipicamente italiano, che dal Risorgimento giunge fino ai cosiddetti «anni di piombo» e che si sviluppa, appunto, all'insegna di un progetto culturale e politico rivoluzionario. Osserva Buchignani: «Questa cultura politica si manifesta sia come rivoluzione nazionale che come rivoluzione sociale, si declina a destra e a sinistra, nel fascismo e nell'antifascismo, si colora di rosso o di nero, si evolve in sintonia con i tempi e le circostanze, s'inabissa e riemerge, cambia pelle, accentua un elemento o l'altro a seconda dei casi, delle forze politiche, delle situazioni nelle quali si esprime, ma non si snatura». Questa cultura politica della rivoluzione cui fa riferimento Buchignani è camaleontica e tale suo camaleontismo discende dalla necessità di surrogare, in qualche modo con altre prospettive, i fallimenti ricorrenti dell'illusione rivoluzionaria. Ecco, allora, che entra in gioco la categoria del «tradimento della rivoluzione», anch'essa declinata in varie specificazioni, come terreno di coltura della «ideologia italiana». Ed ecco, ancora, che l'intera vicenda storica dell'Italia unita può essere letta all'insegna di questa categoria interpretativa: il Risorgimento, per esempio, ma anche i governi della Destra storica e della Sinistra storica, per non dire del fascismo, della Resistenza e, nel secondo dopoguerra, dei disegni eversivi della destra extraparlamentare, delle pulsioni operaistiche, della contestazione studentesca, del terrorismo brigatista. Il saggio di Buchignani è un contributo importante e maturo della più recente storiografia contemporaneistica italiana poiché mette bene in luce, con un approccio di tipo culturale, il denominatore comune, rappresentato dal «mito rivoluzionario», di esperienze politiche in apparenza profondamente diverse e contrastanti. Un esempio emblematico: il caso di Benito Mussolini e di Piero Gobetti. Buchignani muovendosi lungo la direttrice già individuata da Augusto Del Noce che ne aveva sottolineato la comune matrice culturale idealistica e in particolare gentiliana spiega il rapporto fra i due, e simbolicamente tra fascismo e antifascismo, ricorrendo sia al «mito rivoluzionario» sia alla categoria del «tradimento della rivoluzione». Entrambi erano convinti che la guerra fosse destinata a sfociare in una rivoluzione e in un rinnovamento radicale, ma poi Mussolini divenne, per Gobetti, il rivoluzionario «traditore», colui che, per giungere al potere e per consolidarvisi, sarebbe stato disposto a scendere a compromesso con le forze tradizionali, a cominciare dal giolittismo. Tuttavia, al di là degli esiti storici, fascismo e antifascismo risultano accomunati da una medesima sostanza intellettuale, l'idealismo di stampo gentiliano, e da una medesima categoria culturale e sociologica, il «mito della rivoluzione» cioè, incrinato dalla pratica del «tradimento» politico. Altri esempi, oltre al «Risorgimento tradito», sono quelli del «fascismo tradito», che diventò un Leitmotiv del fascismo movimento contrapposto al fascismo regime, e della «resistenza tradita». Al «fascismo tradito», in fondo, si collega non soltanto la lotta interna, durante gli anni del regime, tra rivoluzionari e conservatori, ma anche la trasmigrazione, nell'immediato secondo dopoguerra, di molti significativi esponenti della sinistra fascista nelle file comuniste, i cosiddetti «fascisti rossi», in nome del recupero delle genuine istanze rivoluzionarie del primo fascismo. Il mito della «resistenza tradita» fu coltivato, invece, per diversi decenni da quelle forze politiche (e dai loro eredi) che, in qualche misura, muovendosi all'insegna dell'idea dell'«unità della resistenza a guida comunista», avevano sempre sostenuto che la resistenza dovesse essere vista come il fatto rivoluzionario per eccellenza della storia dell'Italia unita e che avrebbe dovuto, quindi, produrre un tipo di società e di sistema politico diverso da quello effettivamente realizzato. Furono alfieri e portabandiera di questo mito della «resistenza tradita» gli azionisti di derivazione gobettiana e rosselliana, i socialisti massimalisti del Nenni frontista, certe frange di un liberalismo progressista, tutti in posizione subordinata ai comunisti, egemoni non soltanto di questo vasto schieramento, ma anche dello scenario politico-culturale del Paese grazie al controllo di molti centri nevralgici di produzione della cultura come giornali, case editrici, università e via dicendo. Questo stesso mito venne poi ripreso largamente dal movimento studentesco, dai gruppi extraparlamentari sessantottini e post-sessantottini e utilizzato proprio, in un singolare contrappasso, contro il partito comunista, accusato di aver tradito la resistenza e lo stesso antifascismo con la rinuncia all'idea della rivoluzione antiborghese e anticapitalista. E non è privo di significato che, sulla linea di una contrapposizione al «mondo moderno», abbia potuto maturare persino l'incontro con gruppi della destra radicale ed eversiva. La verità, come si desume dal bel libro di Buchignani, è che, a destra come a sinistra, il cuore pulsante di quella che è stata definita l'«ideologia italiana» è quella che si potrebbe chiamare la visione giacobina della storia con le sue implicite pulsioni di rinnovamento catartico della società e i suoi sogni di creazione di impossibili paradisi in Terra. Questa visione costituisce l'essenza del «mito rivoluzionario»: un mito che la categoria del «tradimento» rende proteiforme e sempre cangiante. E, purtroppo, pericoloso.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.

Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.

Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

1. Premessa. La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.

2. La prima falla. Gli organi costituzionali. Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.

3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.

4. La terza falla: la Corte costituzionale. Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:

1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);

2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!

A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.

5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione. Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.

6. Il cosiddetto diritto al lavoro. Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto.

Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità.

Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere.

Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto.

Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.

7. L’effettivo stato di cose. Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello Stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha. Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo:

L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo.

8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:

- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;

- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;

- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;

- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”; brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille.

- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.

- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.

- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.

9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato. In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

UNA COSTITUZIONE CATTO-COMUNISTA.

Le tre anime dell’Italia da cui nacque la Costituzione, scrive il 25 settembre 2016 Dino Messina su "Il Corriere della Sera". Mentre la Commissione dei 75, il collegio di esponenti dell’Assemblea costituente incaricato di redigere la Costituzione, discuteva sulle possibili composizioni del Senato, sul “Corriere della sera” si svolgeva un dibattito parallelo tra i rappresentanti dei partiti. Uno degli articoli cruciali, pubblicato come fondo del “Nuovo Corriere della sera” del 17 gennaio 1947 fu quello di Tomaso Perassi, eletto delle liste del Partito repubblicano, ma soprattutto docente di diritto internazionale all’università di Roma e segretario della Commissione dei 75. Assieme a un altro giurista di formazione liberale, Meuccio Ruini, presidente della Commissione, Perassi era in quel momento uno dei personaggi chiave della Costituente. Nell’articolo intitolato “Come sarà il Senato”, il professore che sarebbe entrato a far parte nel 1955 della prima Corte costituzionale, spiegava in poche parole che era stata scartata l’ipotesi di fare del Senato una camera in cui fossero rappresentate le diverse professioni e categorie sociali. Il ricordo della corporazioni fasciste era troppo recente, sicché si era stabilito di optare per una semplice rappresentanza su base regionale. Con un terzo dei senatori nominati dalle assemblee delle singole regioni e il resto dai consiglieri dei Comuni (ipotesi troppo macchinosa e quindi scartata) o meglio a suffragio universale. L’idea era che si volesse dare pari dignità alle due Camere, sicché alla fine si optò per una rappresentanza elettiva a suffragio universale in circoscrizioni regionali. L’unica differenza del Senato rispetto alla Camera sarebbe stata l’età per essere eletti (40 anni) e per votare (25) e la composizione (315 senatori contro 630 deputati). Come ha osservato Carlo Ghisalberti nella sua “Storia costituzionale dell’Italia” (Laterza), la Carta fondamentale della Repubblica italiana risente fortemente del suo tempo: dopo un ventennio di dittatura fascista e il ricordo della prepotenza di certi esecutivi anche in età liberale, la priorità era il garantismo delle istituzioni, magari a scapito dell’efficienza. Ne è venuta fuori una Costituzione che nell’equilibrio dei poteri, tra presidente della Repubblica, governo, presidente del Consiglio e parlamento, attribuisce le maggiori prerogative a quest’ultimo.

Una Costituzione figlia del suo tempo e forse proprio per questo una grande Costituzione. Il 2 giugno 1946, quando gli italiani furono chiamati a scegliere tra Monarchia e Repubblica (vinse la Repubblica con oltre il 54 per cento dei suffragi) votarono contemporaneamente anche per eleggere i membri dell’Assemblea costituente. Un’assemblea che, alleggerita della scelta istituzionale e anche della funzione legislativa, temporaneamente attribuita al governo, potè dedicarsi nei 18 mesi successivi alla stesura e all’approvazione della Carta fondamentale dello Stato. I tre maggiori partiti che si affermarono alle elezioni della Costituente del 1946 erano del tutto estranei alla tradizione liberale del Risorgimento. Lo era la Democrazia cristiana, con i suoi 207 deputati e il 35 per cento dei suffragi, il Partito socialista (allora Psiup) con 115 deputati (20,7 per cento) e il Pci con 104 deputati e il 18,9 per cento dei voti. Tuttavia i partiti maggioritari, cattolico e marxisti, non soffocarono le istanze dei partiti di ispirazione liberale, in particolare il gruppo dell’Unione democratica nazionale, con 41 rappresentanti (6,8 per cento), il Pri (23 deputati, 4,4 per cento) e il PdA (7 deputati, 1,5 per cento).

Così la nostra Costituzione repubblicana è un compromesso tra queste tre anime (cattolica, marxista e liberale). Già nell’articolo 1, attribuito a una trovata di Amintore Fanfani, che riuscì a trasformare in “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro” la frase di netta impronta marxista che voleva il nostro Paese “repubblica dei lavoratori”, è visibile il compromesso fra le due anime maggioritarie della Costituente. Ma se si guardano i vari articoli, in alcuni emerge l’impronta cattolica, in altri quella socialcomunista, in altri ancora quella liberale e garantista. Il riconoscimento dei Patti lateranensi, stipulati nel febbraio 1929 tra il Vaticano e lo Stato fascista, venne sancito dall’articolo 7 approvato nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1947 durante una clamorosa votazione che aveva visto schierarsi a favore della Dc e del Vaticano il Partito comunista di Palmiro Togliatti. L’accettazione dei Patti lateranensi da parte dei Pci, maturata anche grazie agli uffizi di monsignor Giuseppe De Luca che fece da tramite diretto tra il Vaticano e Togliatti, venne giudicata di importanza pari alla “svolta di Salerno”, con cui nel 1944 il Pci riconobbe il governo Badoglio. Tuttavia fu un successo del partito cattolico, che impose la sua impronta, come ben riportato anche negli articoli de “Il nuovo Corriere della sera” del 18, 27 e 29 aprile, anche sulle disposizioni riguardanti la famiglia, definita “società naturale fondata sul matrimonio” e in quelle sulla scuola, con la salvaguardia degli istituti di impostazione cattolica. Durante le votazioni degli articoli riguardanti la famiglia, per l’assenza di molti deputati democristiani, i cattolici non riuscirono a inserire il concetto di “indissolubilità” del matrimonio. Una vittoria dei partiti laici che nel 1970 avrebbe favorito l’ter per l’introduzione del divorzio. “Chiara espressione delle esigenze e delle idealità del movimento operaio – ha scritto Ghisalberti – sono, invece, quelle affermazioni di principio e quelle disposizioni che tendono a dare al testo un contenuto sociale avanzato…. La carta italiana del 1948…, imitando le costituzioni europee più recenti” affermava l’intervento dello Stato per la promozioni delle classi più deboli: dal diritto al lavoro alle molte disposizioni tese a superare l’individualismo ottocentesco. L’impronta liberale, infine, si vide soprattutto nell’attenzione alle garanzie e agli equilibri riguardanti i poteri dello Stato, negli articoli sulla libertà di stampa o in quelli sull’indipendenza della magistratura.

La commissione dei 75 lavorò sino al primo febbraio 1947, poi la parola passò all’assemblea. La Costituente, che si era insediata il 25 giugno 1946 e che il 28 aveva eletto Enrico De Nicola capo provvisorio dello Stato, ebbe due proroghe: la prima al 21 giugno 1947, la seconda al 31 dicembre. La Costituzione fu approvata il 22 dicembre 1947, promulgata il successivo 27 dicembre ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Una copia venne affissa in ogni Comune d’Italia. Come ognuno può vedere la nostra Costituzione non ha preamboli. Giorgio La Pira avrebbe voluto in poche righe un riferimento a Dio, sull’esempio della Costituzione americana, ma l’assemblea bocciò la sua proposta. “Il nuovo Corriere della sera del 25 dicembre” a pagina 3 salutò la fine dei lavori dell’assemblea costituente con un articoletto in cui si riportava i versi dal sapore goliardico dell’onorevole Paolo De Michelis: “Si è alla fine – finalmente – del lavoro costituente – con dolore di Colitto che non stette un giorno zitto – e dei vari Condorelli, dei Codacci Pisanelli – e di alcun che addirittura – una piccola pretura – vuole far del Parlamento per suo vano ciarlamento”. Dino Messina

“Fondata sul lavoro”. Il compromesso alla base della nostra Costituzione, scrive il 19 settembre 2017 Dino Messina su "Il Corriere della Sera". Dei 139 articoli che compongono la Costituzione repubblicana, entrata in vigore il primo gennaio 1948, quasi settant’anni fa, il più controverso è il primo. Intorno all’articolo 1 nei mesi di accesa discussione della prima sottocommissione della Commissione dei 75, incaricata di redigere il testo da presentare all’assemblea costituente, si misurarono le migliori menti politiche e alcuni valenti giuristi dell’epoca. La discussione continuò in sede plenaria fino a giungere alla sintesi che ancora oggi divide e lascia insoddisfatta una parte della cultura politica italiana. Il testo, che ognuno di noi conosce a memoria, è il seguente: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Un testo di una chiarezza e di una concisione esemplari in cui si trovò il compromesso fra le tre culture politiche: la marxista, la cattolica e la liberale. In realtà il compromesso lasciò pienamente (o quasi) soddisfatti comunisti e democristiani, mentre i liberali fecero buon viso a cattiva sorte. Una insoddisfazione la cui eco arriva sino ai giorni nostri, anche sulle colonne del nostro giornale, per esempio negli interventi di Angelo Panebianco e Sergio Romano. In risposta a un lettore che chiedeva lumi, Romano scrisse il 24 ottobre 2012 che nella scelta ideologica dietro l’articolo 1 c’era “più continuità che rottura”. Se la Repubblica era fondata sul lavoro in fondo anche il fascismo all’origine si proponeva come un patto tra produttori. In realtà, sosteneva Romano, “le Costituzioni sono tanto più utili quanto più si concentrano sulle istituzioni, sui loro compiti e sul loro funzionamento. Oggi per di più quell’articolo è diventato involontariamente ironico. Il lavoro continua a essere la migliore misura della dignità di una persona, ma esiste una parte importante della classe politica del Paese che al lavoro preferisce il vitalizio, la sinecura, la poltrona, la tangente, il malaffare, lo scambio di favori e quella pioggia di benefici che molti eletti, per esempio, hanno distribuito a se stessi. Non giova alla credibilità di una Costituzione, ormai invecchiata, cominciare con parole che suscitano nel lettore un amaro sorriso”. Angelo Panebianco in un intervento del 22 marzo 2011 aveva messo l’accento oltre che sul termine lavoro anche sulla parola democrazia. Democrazia e libertà non sono termini equiparabili, la liberaldemocrazia è diversa dalla democrazia socialista, argomentava in sostanza il politologo, rimpiangendo come un atto mancato quello di non aver sostituito il termine libertà al posto del lavoro. A ricondurre nei termini storici e teorici la questione dell’articolo 1, che sarà affrontata il 27 settembre alle 17 anche nell’incontro milanese a Palazzo Marino da Sabino Cassese, Simona Colarizi e Luciano Fontana, c’è un saggio di Nadia Urbinati appena edito da Carocci. Il volume, “Art.1 Costituzione italiana” (pagine 144, euro 13), fa parte di una serie dedicata ai dodici principi fondamentali che introducono la nostra Carta fondamentale. La costruzione dell’articolo 1, cui collaborarono tra gli altri il socialista Lelio Basso, il democristiano Giuseppe Dossetti, il liberale Roberto Lucifero, partì da una proposta del leader comunista Palmiro Togliatti, che voleva fortemente la dizione “Repubblica dei lavoratori”, un chiaro riferimento alle repubbliche socialiste. Dopo gli interventi di Giorgio Amendola, Nilde Iotti, Ruggero Grieco; Renzo Iaconi, Aldo Moro, fu Amintore Fanfani a trovare la sintesi del testo che oggi conosciamo. A esprimere la propria soddisfazione per il compromesso raggiunto furono lo stesso Togliatti e il cattolicissimo Giorgio La Pira, il quale sino all’ultimo giorno della discussione si battè senza successo per inserire un preambolo che certificasse l’ispirazione cristiana della Costituzione. Non meno qualificato e composito era il gruppo degli scontenti, che comprendeva anche esponenti della sinistra. Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione, ironizzò nella seduta del 4 marzo 1947 sull’espressione “fondata sul lavoro”: “Coloro che vivono senza lavorare o vivono alle spalle degli altri saranno ammessi come soggetti politici?”. Chi condusse la più dura (e inutile) battaglia contro l’articolo 1 fu il liberale Roberto Lucifero, che si espresse così sempre nella seduta del 4 marzo: “Di fronte alla Costituzione i cittadini sono cittadini; i lavoratori sono lavoratori in quello che riguarda questa loro particolare attività nella vita sociale, che deve essere tutelata, difesa, protetta…; ma però quando vanno a votare anche i lavoratori vanno a esercitare una funzione di cittadini, non di lavoratori”. Echi di questa polemica sono giunti, come detto, sino ai nostri giorni, per esempio nelle posizioni del Gruppo Milano fondato dal politologo Gianfranco Miglio. Secondo Nadia Urbinati invece dall’espressione “fondata sul lavoro” “emergono un universalismo e un principio di inclusione e di accoglienza le cui potenzialità sono enormi e non sufficientemente sottolineate e apprezzate”. Un articolo, dunque, proiettato nel futuro e ancora oggi fertile. Non un reperto un po’ vetusto, non da riformare ma da tollerare, come ebbe a scrivere Giovanni Sartori. Dino Messina

Articolo 7, lo scandalo dei Patti lateranensi in Costituzione, scrive il 28 settembre 2017 Dino Messina su "Il Corriere della Sera". L’accoglimento dei Patti lateranensi nella nostra Costituzione fu la pietra dello scandalo non soltanto negli ambienti della sinistra ma anche nel fronte moderato. Con l’approvazione dell’articolo 5 (futuro articolo 7) con 350 voti a favore e 139 contrari nella seduta della Costituente la notte fra il 25 e il 26 marzo 1947, il Vaticano riportò una clamorosa vittoria e vennero poste le basi di quel compromesso fra cattolici e comunisti la cui eco si riverbera sino ai nostri giorni. Il tema della libertà religiosa e dei rapporti con la Santa Sede si era imposto all’attenzione dei Costituenti già dal novembre 1946. Trascurata negli anni della Resistenza, a parte l’opuscolo di Artuto Carlo Jemolo del 1943, “Per la pace religiosa in Italia”, la questione si era fatta incandescente nei primi mesi del 1947. Papa Pio XII seguiva con grande attenzione la discussione e aveva chiesto a padre Giacomo Martegani, il gesuita direttore della “Civiltà cattolica”, di elaborare tre ipotesi di Costituzione: una desiderabile, che prevedeva oltre al riconoscimento del cattolicesimo quale religione di Stato anche un’ipoteca sulla confessione di futuri Capi di Stato, i quali non avrebbero potuto fare dichiarazioni di agnosticismo; una accettabile; e una non accettabile. Naturalmente il testo del think-tank gesuitico rimase a lungo segreto, mentre si svolgeva quasi alla luce del sole il via-vai tra i vari rappresentanti dei partiti e dei maggiorenti politici e il Vaticano. Il leader comunista Palmiro Togliatti, soprattutto nei giorni precedenti la votazione, aveva trovato il mediatore di fiducia in don Giuseppe De Luca, che riferiva a monsignor Giovanni Battista Montini. Giuseppe Dossetti, uno dei “professorini” cattolici che tanta parta ebbe nella redazione della Costituzione e che alla fine riuscì a imporre l’inserimento nella Carta fondamentale dell’articolo 7, per dialogare con la segreteria di Stato si affidava a monsignor Angelo Dell’Acqua. C’era, insomma, un via vai continuo tra le due sponde del Tevere. Un traffico dovuto anche alla crescente rilevanza diplomatica che il Vaticano aveva assunto in quella fase storica che vedeva l’Italia, sconfitta in guerra e isolata, debolissima al tavolo delle trattative di pace. Mentre la Santa Sede tesseva soprattutto con gli Stati Uniti relazioni favorevoli all’Italia. Vale la pena ricordare che anche all’interno della Democrazia cristiana non c’era accordo. Alcide De Gasperi e Mario Scelba, il cui cattolicesimo non faceva velo al loro fermo antifascismo, non credevano per esempio che inserire i Patti lateranensi in Costituzione fosse la soluzione migliore. Era troppo per chi come De Gasperi aveva subito due volte la galera e nel ventennio si era dovuto accontentare di un anonimo posto di bibliotecario in Vaticano, vedere riconosciuto in Costituzione uno dei successi e degli atti firmati personalmente da Benito Mussolini. Alla fine il leader della Dc si adeguò alla scelta della Prima commissione dei 75, dopo che erano abortite anche le proposte di Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato, e di Palmiro Togliatti. Quest’ultimo aveva proposto la seguente formula: “I rapporti fra Stato e Chiesa sono regolati in termini concordatari”, mentre De Nicola aveva fatto un passo ulteriore: “I rapporti tra Stato e Chiesa continueranno a essere regolati in termini concordatari”. Nessuna delle due formule piacquero alla segreteria di Stato vaticana, invece favorevole alla formula proposta da Dossetti approvata in quella fatidica notte del 25 marzo, all’1,30: “Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Cosicché sino al 1984, quando Bettino Craxi promosse la revisione del Concordato, abbiamo avuto una Costituzione che aveva una enorme contraddizione al suo interno: all’articolo 3 diceva che i cittadini sono uguali davanti alla legge a prescindere dal credo religioso, mentre all’articolo 7, con il rimando al Patti lateranensi, riconosceva il cattolicesimo quale religione di Stato. Una contraddizione evidenziata subito il 20 marzo dal fine giurista Piero Calamandrei, relatore tecnico sulla questione assieme a Giuseppe Dossetti. “Si introducono di soppiatto – disse Calamandrei – norme che sono in urto con altri articoli della Costituzione stessa”. Il riferimento era anche all’articolo 8, che al primo comma recita: “Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge”. Da una dichiarazione di Giancarlo Pajetta in quella stessa seduta (“la formula di Cavour, libera Chiesa in libero Stato, non è superata”) sembrava che anche i comunisti fossero contrari alla formula proposta da Dossetti, invece il 25 marzo, tra la costernazione di molti, Palmiro Togliatti dichiarò che in nome della pace religiosa avrebbe votato come De Gasperi. Il capo comunista non voleva lasciare ai democristiani la palma di difensori della pace religiosa. Togliatti, da quel grande stratega che era, aveva in mente il rapporto con le masse cattoliche. Il socialista Pietro Nenni, che come tutti i suoi votò contro, come del resto gli azionisti, i demolaburisti, i repubblicani, parte dei liberali, il giorno dopo annotò con arguzia e lucidità nel suo diario: “E’ cinismo applicato alla politica. Non è il cinismo degli scettici ma di chi ha un obiettivo. E’ la svolta di Salerno che continua, applicata questa volta alla Chiesta e ai cattolici”. Anche tra i comunisti ci fu chi, come il latinista Concetto Marchesi e Teresa Noce, disobbedì agli ordini del capo e votò contro. La cultura laica uscì sconfitta sull’articolo 7. E ciò è testimoniato anche dalle dichiarazioni di alcune grandi personalità del mondo prefascista, come quella resa da Francesco Saverio Nitti, che in nome dei vantaggi politici dell’accordo, dichiarò: “Io, contrario, voterò a favore”. Il Partito liberale aveva lasciato libertà di coscienza ai propri deputati, ma Benedetto Croce, portabandiera e più alto rappresentante del pensiero liberale italiano, coraggioso estensore nel 1925 del Manifesto degli intellettuali antifascisti, tenne a chiarire la sua posizione in una lettera al “Corriere della sera” del 29 marzo. Il filosofo, che aveva potuto partecipare alla votazione per un malessere fisico, volle ricordare agli italiani la sua posizione. Il suo credo laico non aveva mai tentennato, come invece accadde a Nitti. Scrisse Croce: “Io parlai alla Costituente nel modo più chiaro contro l’inserzione dei Patti lateranensi in Costituzione, che stimo una mostruosità giuridica”. Dino Messina

«Pubblica o privata»: il diritto di proprietà nella Costituzione. Nell’articolo 42 c’è un punto di sintesi tra le tre principali tendenze ideologiche che permeavano l’intero ordito costituzionale: il marxismo, il solidarismo cattolico e il liberalismo europeo-continentale. La terza puntata della serie che ripercorre la storia degli articoli più controversi della Carta in vigore dal primo gennaio 1948, scrive l'1 ottobre 2017 Dino Messina su "Il Corriere della Sera". «La Costituzione italiana», disse Piero Calamandrei nel famoso discorso agli studenti milanesi del 1955, «è figlia della Resistenza». Un’affermazione che risulta tanto più vera quando si analizza il tema della proprietà privata, il quale non compare, come ci si potrebbe aspettare da una Costituzione liberale classica, tra i principi fondamentali, ma viene ampiamente trattato nel Titolo III, dedicato ai diritti economici della prima parte. 

La lotta contro i privilegi. Prima di prendere in considerazione gli articoli che definiscono la proprietà privata (non soltanto il 42, ma anche il 41, il 43 e il 44) bisogna accennare al clima politico-sociale dell’immediato dopoguerra in Italia. A guerra finita, nelle regioni industriali del Nord c’era stata l’esperienza dei consigli di gestione, con il congelamento della proprietà di alcune grandi imprese, tra cui lo stesso «Corriere della sera». Una stagione breve, conclusasi nei primi mesi del 1946, che tuttavia aveva lasciato un forte segno nel dibattito ideologico. Ne troviamo traccia nei congressi dei partiti e anche nel dibattito alla Costituente nel 1946-’47. Se era prevedibile che il campione di realismo e capo dei comunisti Palmiro Togliatti al congresso economico che il suo partito tenne nel 1945 tuonasse «non contro il capitalismo», ma «contro forme di rapina e speculazione». E se era nell’ordine delle cose che il socialista Angelo Saraceno promettesse «lotta a oltranza contro ogni privilegio e una conseguente politica di nazionalizzazione dei centri produttivi nei quali si annidano privilegi e monopoli», non ci si aspetterebbe accenti simili da esponenti della Democrazia cristiana (sfiora l’icona blu per leggere l’Extra degli Extra dello Scaffale di Storia curata da Dino Messina). 

La Dc contro egoismi e plutocrazieI liberali e la lotta al monopolio. C’è un motivo se il suo leader Alcide De Gasperi, campione di moderazione, definì la Dc un partito di centro che guarda a sinistra. E questo motivo lo si può trovare nella dichiarazione di Guido Gonella a un congresso di partito («Combattiamo gli egoismi e le plutocrazie») o nelle dichiarazioni alla Costituente di Piero Malvestiti sull’articolo 42: «Il divario tra politica ed economia è assurdo: … il sistema economico deve creare le condizioni di possibilità di esercizio della libertà politica; … le prerogative individuali sono illusorie per chi non è in grado di risolvere il problema del pane quotidiano…. La Dc si rifiuta nel modo più pieno e più impegnativo di essere l’estremo baluardo del privilegio economico». Nella Dc, in campo economico, coesistevano posizioni moderate e di radicale apertura sociale come questa appena citata. A completare il quadro c’era la variegata famiglia liberale, la quale andava dal citato Piero Calamandrei, giurista militante nel Partito d’Azione (nella foto sotto), che in campo sociale condivideva molte posizioni delle sinistre marxiste, e la pattuglia dei liberali duri e puri, rappresentata al meglio da Luigi Einaudi, il quale tuttavia aveva tra gli obiettivi politici la lotta al monopolio. Fatte queste premesse, si può citare ora l’articolo 41, che al primo comma recita: «L’iniziativa economica è libera», per aggiungere subito al secondo: «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Al terzo: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Fu perdente la battaglia di Einaudi di fermare l’articolo 41 all’enunciazione del primo comma, poiché riteneva l’intervento dello Stato e il dirigismo eccessivo una intrusione dannosa. 

Gli emendamenti della sinistra. Se Einaudi non ebbe partita vinta, furono bloccati due emendamenti di sinistra: il primo di Mario Montagnana e Giancarlo Pajetta diceva: «Lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l’attività produttiva». Il secondo vide contrapposti Giuseppe Dossetti a Lelio Basso, il quale aveva proposto questo emendamento: «Spetta ai pubblici poteri stabilire piani economici nazionali e locali per coordinare le attività attinenti gli investimenti alla produzione, allo scambio e alla distribuzione di beni e servizi». Dopo accese discussioni nella sottocommissione dei 75 e in seduta plenaria, il cuore del compromesso sulla proprietà privata venne trovato nell’articolo 42: «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà può essere, nei casi preveduti dalla legge e, salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità». 

«Non tutti proletari ma tutti proprietari». L’articolo 42 non è mai stato digerito dai liberali duri e puri come il politico e accademico Antonio Martino, che così lo ha commentato: «L’intero articolo è dedicato a sottolineare che il legislatore costituente certifica la proprietà privata come evitabile fastidio. Nell’elenco dei proprietari del primo comma i privati vengono per ultimi, lo Stato per primo; al secondo comma si pone la proprietà pubblica prima di quella privata; al terzo comma si chiarisce che questo fastidioso residuo del passato viene rapportato solo se accessibile a tutti e tale da svolgere una non meglio precisata “funzione sociale”…». Assieme all’articolo 7, questo riguardante la proprietà è il punto più stonato della nostra Costituzione secondo il pensiero liberale. Tuttavia, se si guardano ai rapporti di forza nell’Assemblea costituente gli enunciati appaiono conseguenti: dei 556 parlamentari, 207 erano democristiani, 115 socialisti, 104 comunisti, i liberali avevano 41 rappresentanti, il Partito d’Azione 7, i repubblicani 2. La componente liberale, di destra e di sinistra, era davvero minoritaria, anche se molto attiva. A loro si deve l’articolo 43 che limita i monopoli, mentre la parte dell’articolo 44 che prevede un aiuto alla piccola e media proprietà rispecchia l’ideologia della Dc riassunta nello slogan «non tutti proletari ma tutti proprietari».

La follia marxista di Orlando: la proprietà non è più un tabù. Il Guardasigilli: codice antimafia ok, tocca i ricchi, scrive Laura Cesaretti, Lunedì 02/10/2017, su "Il Giornale".  Il cosiddetto «codice antimafia» è buono, anzi ottimo, perché rompe il «tabù della proprietà privata» e «mette in discussione la ricchezza». E chi lo critica non è un garantista, ma un classista «cultore della proprietà privata». No, a parlare non è un esponente del Partito Marxista-Leninista d'Italia (non è uno scherzo, esiste davvero) ma un dirigente del Pd nonché membro autorevole del governo Gentiloni: Andrea Orlando. Che venerdì, dal palco della convention della sua corrente a Rimini, ha lanciato la piattaforma ideologica di una sorta di neo-comunismo giudiziario, di cui il codice antimafia sarebbe il primo manifesto. Se un provvedimento viene bocciato con parole pesantissime da giuristi di vaglia, costituzionalisti di ogni sponda, magistrati famosi e avvocati di peso, politici di ogni parte e imprenditori, e viene difeso solo da Rosy Bindi e Pietro Grasso, un dubbio - anche piccolino - dovrebbe venirti. Soprattutto se fai di mestiere il ministro della Giustizia. Invece no, ad Orlando di dubbi non ne sono venuti. Anzi: il ministro ha difeso a spada tratta il provvedimento varato dal Parlamento, e proprio nei suoi aspetti più devastanti e contestati, a cominciare dalla possibilità di sequestrare tutti i beni a chi sia semplicemente indagato - non condannato e neppure rinviato a giudizio - per comportamenti corruttivi (e si sa come vanno a finire, dopo lustri, la maggior parte dei processi in questo campo: nel nulla). E lo ha fatto, appunto, con un approccio tutto ideologico di fiero - ancorché un filo datato - stampo anticapitalista. «Il vero punto che ha fatto saltare sulla sedia tanti critici - ha esordito - non riguarda il garantismo, ma la proprietà privata». Diritto che - ancorché tutelato dalla Costituzione - evidentemente non convince il ministro. «Ora sui sequestri (dei beni ai presunti corrotti ndr) tutti dicono questo mette in discussione la certezza della proprietà». Allarme insensato, secondo Orlando: «Io penso, forse anche per il mio retaggio ideologico, che la certezza della proprietà possa essere messa in discussione, quando la proprietà è di dubbia provenienza». Se a un pm viene un dubbio sulla «provenienza» della tua casa o del tuo conto corrente, è dunque legittimo che ti venga (cautelarmente, ovvio) sottratta. E Orlando va all'attacco dei tanti che sono insorti proprio contro questa pericolosissima innovazione giuridica: «Io credo che la vera reazione su questo punto non è sulla tutela delle garanzie, ma sul tabù della proprietà privata. Perché secondo loro la proprietà privata, se è diventata in qualche modo presentabile, nessuno si deve permettere di metterla in discussione. Questa è una logica che appartiene alle classi dirigenti di questo paese, che non hanno interesse a vedere da dove arrivano i soldi ma solo al fatto che i soldi girino». La ricchezza, aggiunge, «va giustamente messa in discussione se sproporzionata, e a maggior ragione se di provenienza dubbia». Quindi, taglia corto Orlando, chi critica la legge «non è garantista, ma cultore della sacralità della proprietà privata». E il codice antimafia è il nuovo Libretto Rosso, affidato ai pm per ripristinare la giustizia sociale.

La Sinistra è morta. Suicida, scrive Nino Spirlì, Giovedì 28 settembre 2017, su "Il Giornale. Accade. Accade quando perdi di credibilità. Quando le tue denunce da farsa, pronunciate a voce stentorea e ferma, risultano essere delle fanfaronate da saltimbanco. Quando il tuo elisir di lunga vita, alle analisi, risulta essere meno che piscio di gallo. Accade quando dai del fascista, pensando di offendere, e poi ti comporti da nazista, sapendo di esserlo. Accade quando per costruire una verità di carta, pensi di poter nascondere con un ditino la montagna della verità di granito. Accade quando vai a casa del dio della comunicazione e pensi di metterlo nel sacco con grottesche scivolate sulla parete di specchio (magari anche oliata), raccontando di te e dei tuoi improbabili successi. Accade quando tenti di riempirti le tasche di danaro giustificandoti come farebbe il bambinello con la bocca sporca di Nutella davanti allo sportello del frigo. Accade quando sei massomafioso. Accade quando, in campagna elettorale, ti porti appresso gli sgherri delle peggiori ‘ndrine e ti riempi la bocca di antimafia e legalità. Accade quando cerchi di privatizzare a tuo guadagno l’acqua pubblica; quando ti ingrassi con l’accoglienza dei clandestini; quando ti organizzi per farti appaltare la raccolta della monnezza; quando amministri la cosa pubblica come fosse roba tua. Accade quando ti senti più tutelato degli altri davanti alla Legge, se la legge è rappresentata da qualche amichetto tuo. Accade quando ti senti superiore a Dio e ai Santi e pensi di governarne anche le processioni con inchini e carnevalate. Accade. Sì, accade…Ecco, la sinistra Sinistra, quella italiana, quella che all’anagrafe risulta essere figlia della defunta demoNcrazia cristiana e di qualche figlio spurio dell’incenerito PCI, è morta così. Con le mani in pasta. Ovunque. La gente non le crede più e si sparpaglia. Si allontana dal paese dei balocchi, da lucignolo e pinocchio e cerca lidi più sicuri. Magari non immacolati, ma certamente meno prostituiti. Di questo decesso, ne avremo conferma nelle prossime tornate elettorali. Intanto, recitiamo un requiem, mentre, inascoltata, lei ulula il proprio De Profundis…fra me e me.

C'ERA UNA VOLTA LA SINISTRA. LA SINISTRA E' MORTA.

Ezio Mauro, il ballista della Rivoluzione russa: tutte le menzogne nel suo libro sui comunisti, scrive il 25 Agosto 2017 Roberto Coaloa su "Libero Quotidiano". Come scrivere un libro sulla Rivoluzione russa? Anzi, perché scrivere ancora un libro su un evento storico che ci appare, a cento anni di distanza, così noto e popolare? Perché, come al solito, i grandi media ne hanno fatto una ricostruzione semplicistica e molto romanzata, limitandosi a ripercorrere l'avventura di Lenin, senza considerare che i protagonisti dell'Ottobre furono altri. Un libro sulla Rivoluzione dovrebbe ripercorrere la storia di due rivoluzioni, quella inaspettata del 23 febbraio e quella gloriosa (come ci mostra il film Ottobre di Ejzenštejn, molto lontano dalla realtà storica) della conquista del Palazzo d'Inverno, il 25 ottobre 1917. Magari facendo anche chiarezza sulle date: ad esempio, secondo il moderno calendario, diverso da quello giuliano in uso nell'Impero dello Zar, la Rivoluzione di febbraio avvenne l'8 marzo e quella di ottobre il 7 novembre. Si ha conferma di questo racconto superficiale della Rivoluzione russa leggendo i pezzi di Ezio Mauro che la Repubblica sta pubblicando nell'anno del centenario e che approderanno in un volume edito da Feltrinelli: L'anno del ferro e del fuoco. Cronache di una rivoluzione, che se mantiene l'impianto degli articoli potrebbe intitolarsi Fiabe di una rivoluzione.

Lasciamo perdere alcuni particolari letti negli articoli: la traslitterazione di alcuni nomi russi è imprecisa (vedi Carskoe Selo, residenza dello Zar, traslitterata erroneamente in Zarskoe Selo) e a volte troviamo stare scritto in modi differenti. Lasciamo perdere anche alcune immagini dei video che accompagnano gli articoli di Mauro, dove il "topolino" giornalista scompare nei grandi palazzi della capitale zarista e inciampa nel pronunciare correttamente i nomi: Neva, Romanov e Carskoe Selo... Entriamo, da storici, nel merito. Le vicende narrate da Mauro non sono analizzate da un punto di vista storico sono spesso fantasione alla Emilio Salgari. Mauro insiste su aspetti entrati nella leggenda della Rivoluzione. È il caso del suo primo contributo, dal titolo Rasputin, il diavolo santo che annunciò la fine dello Zar. Su Rasputin, Mauro non fa neanche una onesta divulgazione, la narrazione delle vicende che legano lo starec alla famiglia imperiale diventa - nel racconto del giornalista - un grande intrattenimento. Notiamo che su Rasputin, invece di scrivere che le donne lo cercano per consumare un atto sessuale, Mauro avrebbe potuto notare cose più sensate e originali. Il giornalista, tuttavia, resta incantato dai luoghi della vecchia Pietrogrado e, invece di narrarci i segreti delle logge massoniche (che furono attive e che ebbero un ruolo importantissimo nelle scelte militari dello Zar prima e di Kerenskij dopo), si arrampica per i piani dei palazzi, immaginandosi orge sataniche, "gli spettri del caos" e il diavolo, che, ovviamente, fa capolino dalla sommità di una ardita e sontuosa rampa di scale.

Sulla morte di Rasputin, descritta migliaia di volte, la narrazione di Mauro sembra non quella di un buon autore e divulgatore, ma quella di uno sceneggiatore della Hammer film, che conosce delle vicende passate solo la pellicola Rasputin e l'imperatrice con il grande Lionel Barrymore nella parte dello starec. Raccontando il finale del noto complotto del principe Feliks Feliksovi? Jusupov, Mauro scrive: «Il principe scese di nuovo, tastò il polso al monaco e con orrore vide aprirsi l'occhio sinistro, quindi il destro, fissi su di lui. E improvvisamente Rasputin balzò in piedi con la bava alla bocca cercando di afferrare il suo assassinio per la gola»… Be', che dire? Qui la grande Storia diventa un B-movie con il redivivo Bela Lugosi nel ruolo di un mostruoso Rasputin!

Peggio fa il nostro Autore con il terzo contributo: «Pietrogrado, quel febbraio 1917 di rabbia e fuoco: e la rivolta diventa rivoluzione». La Rivoluzione di febbraio, nell'interpretazione di Mauro, sembra accadere per caso, grazie alle donne. Scrive: «Le donne che portano il peso del lavoro, della famiglia e del cibo che manca si ricordano che il 23 febbraio russo corrisponde all'8 marzo del calendario occidentale, il giorno della loro festa rovesciata in disgrazia». Qui la grande Storia diventa davvero una narrazione troppo superficiale e riduttiva.

Certo, la Rivoluzione russa ha due momenti distinti: il Febbraio e, ovviamente, quello che è passato alla storia come il grande Ottobre. Oggi appare necessario scriverne una storia, anche breve, dove appaiono senz'altro Lenin e Trockij, ma le loro vicende devono essere accostate a quelle degli altri attori della Rivoluzione. È vero che la Rivoluzione di febbraio la fanno le donne, che tolstojanamente «non possono più tacere» e reclamano con forza il pane, la pace e i mariti che sempre più numerosi sono inghiottiti nell'«inutile strage». Ma ad animare la rivolta è uno sconosciuto e giovane sergente, Fëdor Linde, che non è citato da Mauro. Trockij, invece, lo ricorda: «l'appello diretto a scendere in piazza» era venuto da Linde. Kerenskij e poi Kornilov, loro malgrado, aprono la porta all'Ottobre e favoriscono l'affermarsi dei bolscevichi, che metteranno in scena una presa di potere che non ha nulla di eroico, anzi. 

Cent’anni dalla rivoluzione d’Ottobre: il vangelo secondo Lenin. Intollerante anche verso i socialisti, il bolscevismo operò come una religione messianica. Le riflessioni di Marcello Flores sul mito sovietico in un saggio edito da Feltrinelli, scrive Sergio Romano il 3 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Secondo una interpretazione largamente condivisa dalla opinione corrente, il XX secolo, fra il 1917 e la disintegrazione della Unione Sovietica, fu teatro di un lunga guerra fredda tra il comunismo e la democrazia liberale. Dopo la lettura del libro di Marcello Flores sulla rivoluzione russa La forza del mito, edito da Feltrinelli, molti arriveranno alla conclusione che uno dei maggiori conflitti del Novecento fu quello combattuto dai comunisti contro i socialisti europei nelle loro diverse incarnazioni nazionali. Tutta la politica di Lenin, dall’agosto del 1914, fu ispirata da un obiettivo: eliminare la concorrenza socialista, impedire che la causa rivoluzionaria finisse nelle mani dei socialdemocratici o, peggio, di altre forze politiche che, come gli anarchici, avevano creato attese e acceso l’immaginazione popolare. Sciolse l’Assemblea Costituente, eletta dopo gli avvenimenti dell’ottobre 1917, per sbarazzarsi di una istituzione in cui gli «esery» (i socialisti rivoluzionari) e i menscevichi avrebbero avuto un peso determinante. Creò una sorta di Inquisizione (la Ceka, per metà polizia, per metà tribunale rivoluzionario) a cui affidò il compito di eliminare fisicamente tutti coloro, anche a sinistra, che avrebbero cercato di ostacolare il suo disegno. Fondò la Terza Internazionale per imporre regole che avrebbero prescritto ai nuovi partiti comunisti di rompere i loro legami con i socialisti e di obbedire alle direttive di Mosca. La linea di Lenin fu adottata da Stalin in Spagna, nei rapporti con i socialisti e gli anarchici durante la guerra civile, e nei Paesi occupati dall’Armata rossa alla fine della Seconda guerra mondiale. Qui, in particolare, molti socialisti non ebbero sorte diversa da quella di coloro che rappresentavano la borghesia e il mondo contadino. Vi furono temporanee eccezioni quando Stalin si accorse che un «fronte popolare» con i socialisti, in alcuni Paesi, poteva ostacolare l’avanzata dei movimenti fascisti e schiudere ai comunisti la strada del potere. Ma Flores ricorda che la migliore definizione della socialdemocrazia, per l’Urss di Stalin, fu quella di Grigorij Zinoviev, presidente della Terza Internazionale: «Una variante di sinistra del fascismo». Per godere dell’approvazione di Mosca non bastava combattere contro fascismo e nazismo. Occorreva che all’Urss fosse riconosciuto l’esclusivo diritto di guidare la lotta o addirittura, come accadde nell’agosto 1939, di rovesciare la propria politica firmando con Berlino un trattato d’amicizia e un protocollo segreto per la spartizione della Europa centro-orientale. Fra i comunisti, come ricorda Flores, vi furono delusioni e ripensamenti, come quelli di André Gide, Arthur Koestler e Ignazio Silone. Ma questo non impedì che la rivoluzione d’Ottobre e la nascita dell’Unione Sovietica conquistassero gli animi e le menti di un numero incalcolabile di persone, seducessero altri grandi intellettuali, persuadessero milioni di elettori a votare per partiti che trasmettevano ai loro connazionali una immagine ingannevole della «grande patria socialista». Secondo il libro di Flores il mito sovietico deve la sua esistenza agli aspetti più crudi del capitalismo e della rivoluzione industriale, alla grande depressione del 1929, allo straordinario coraggio del popolo russo durante la Seconda guerra mondiale, alla convinzione che gli aspetti peggiori del regime servissero alla costruzione di un sistema nuovo in cui gli errori sarebbero stati corretti e la grande promessa della rivoluzione d’Ottobre sarebbe stata mantenuta. Ma la risposta non può essere soltanto politica o economica. Flores ricorda anche che in un libro del 1920, scritto dopo un viaggio in Russia, un filosofo inglese, Bertrand Russell, vide nel bolscevismo una duplice caratteristica: l’eredità della rivoluzione francese, a cui Lenin e i suoi fedeli facevano continuo riferimento, e un fenomeno simile all’ascesa dell’Islam dopo la profezia e l’insegnamento di Maometto. Nella sua versione leninista, quindi, il comunismo non è soltanto una teoria politico-economica nata dalle tesi di Marx, Engels e altri intellettuali fra l’Ottocento e il Novecento. È anche una fede che ha, come ogni religione, un profeta (Lenin), un ristretto gruppo di apostoli (i compagni della prima ora), il costruttore della Chiesa (Stalin) e una legione di monaci combattenti, pronti al martirio. Come in ogni religione anche nel comunismo il fedele deve accettare pazientemente gli insuccessi, i sacrifici, il martirio e gli errori di percorso. Tutti verranno generosamente ripagati dal compimento delle speranze e dall’avvento di una vita nuova in cui il credente sarà finalmente felice. Se questa lettura del bolscevismo è giusta, dovremo concluderne che il comunismo non fu una ideologia laica e che non furono laici i suoi maggiori esponenti, in Russia e altrove.

Trentin, escono i diari segreti. Critiche ai leader della sinistra: da Luciano Lama a Fausto Bertinotti. «Nella Cgil è in corso una guerra tra bande. Basse manovre da Lama...Quello di Bertinotti è un movimentismo senza obiettivi. Ha una meschina ambizione di protagonismo», scrive Marco Cianca l'8 giugno 2017 su “Il Corriere della Sera”. Il dolore di Bruno Trentin. Inaspettato e sconvolgente. «Avverto un’immensa fatica fisica e intellettuale, affettiva, tanto che mi pare a momenti di dovermi gettare ai margini di un sentiero e di morire, così, per esaurimento, per incapacità di esprimermi, per disamore per la vita e la lotta, e semplicemente perché non ho più voglia di battermi e di farmi capire», scrive a metà agosto del 1992. Sono passati quindici giorni da quel venerdì 31 luglio che ha segnato il momento più tribolato della sua vita da sindacalista. La firma di un’intesa nella quale non credeva, spinto dal timore che il fallimento della trattativa con il governo avrebbe avuto «effetti incalcolabili sulla situazione finanziaria del Paese». Aveva firmato, per «salvare la Cgil», e si era dimesso. «Che cosa sarebbe successo rifiutando l’accordo, con tutte le sue nefandezze? Nel mezzo di una catastrofe finanziaria, a chi sarebbe stata attribuita la svalutazione della lira?», annota. «Un inferno dentro di me», e intorno «tanti opportunismi». «Miseria di Amato», «miseria di Del Turco», «miseria degli altri sindacati», «miseria delle reazioni elettoralistiche di gran parte del Pds». Senso di solitudine, incomprensione, sofferta alterità ma anche gioia di vivere, voglia di scrivere, di leggere, di andare in montagna: questi sentimenti permeano le cinquecento pagine dei diari, dal 1988 al 1994, che l’Ediesse sta mandando in libreria. Riflessioni culturali e politiche si alternano ai giudizi sulle persone e alle notazioni di vita quotidiana, la coltivazione di fiori ad Amelia, le suggestioni alpine a San Candido, le passeggiate, le scalate, i tanti, tantissimi libri, i viaggi, l’amore per Marcelle Padovani, chiamata affettuosamente Marie. È lei a spiegare che la decisione di pubblicare i diari non è stata facile, «testi nudi e crudi, molto passionali ed unilaterali» ma che servono a «far capire meglio la figura, la personalità e l’importanza di Trentin». Iginio Ariemma, che da tempo svolge un intenso lavoro di scoperta e divulgazione di testi che riguardano l’ex segretario della Cgil, ha curato questa sorprendente pubblicazione. Sette anni che sconvolsero l’Italia e il mondo (la caduta del muro di Berlino, il disfacimento dei regimi comunisti, il cambio di nome del Pci, Tangentopoli, i bagliori di guerra in Kuwait e Iraq, la caduta di Craxi, l’ascesa di Berlusconi) visti con occhi attenti, impietosi e anche profetici. Nato in Francia nel 1926, figlio di Silvio, professore universitario che aveva scelto di andare in esilio per non sottostare al fascismo, uno dei fondatori di Giustizia e Libertà, Bruno fu subito ribelle. Il padre organizzava la resistenza ma avrebbe voluto che il figlio continuasse gli studi. Lui s’incise sulla coscia destra una croce di Lorena come omaggio al generale De Gaulle e a France Libre, formò una piccola banda e fu arrestato dalla polizia francese passando in guardina il sedicesimo compleanno così come il diciassettesimo lo trascorse in una cella italiana, dopo il ritorno in Patria con la famiglia nel ’43. La guerra partigiana, il Partito d’Azione, la laurea, l’ufficio studi della Cgil chiamato da Vittorio Foa, nel ’50 l’iscrizione al Pci, i metalmeccanici, l’autunno caldo, i vertici della confederazione. E poi segretario generale, dall’88 al ’94, appunto. Eccolo Bruno Trentin, crogiuolo d’idee, di rigore, di sensibilità e di esperienze, un eretico della sinistra, un libertario in mezzo a una folla di «ometti». È indicativa una frase su Robespierre: «Lo sento lontano culturalmente e anche psicologicamente e nello stesso tempo vicino umanamente quando lo riscopro così solo, così tormentato, così coerente (e incerto) nella sua ansia di vivere in accordo con la sua morale e le sue speranze». E Trentin, con una ghigliottina etica, politica e umana taglia tante teste. Giudizi sprezzanti, definizioni impietose, conclamata estraneità. Un elenco che farà sobbalzare. Guido Carli, Ciriaco De Mita, Bettino Craxi, Giuliano Amato, Paolo Cirino Pomicino, Napoleone Colajanni, Gianni De Michelis, Lucio Colletti, i dirigenti della Confindustria, Pierre Carniti, Franco Marini, Sergio D’Antoni, Giuliano Cazzola. Disprezzo per gli «intellettuali a pagamento» e «i vecchi saccenti senza vergogna e senza il minimo residuo di morale politica ed intellettuale». A proposito della Cgil: «Guerra per bande», «basse manovre di Lama e compagni prima dell’ultimo congresso», «tragico tramonto», «metastasi inestricabile», «miserabile scenario». Quando nell’88 parte la contestazione ad Antonio Pizzinato, evidenzia «un attacco torbido e cinico» ma rimarca «una reazione debole, patetica e astiosa» da parte dell’allora segretario. La voglia di fuga: «Ho maturato la mia intenzione di lasciare, non posso assistere a questo scempio e continuare a fare il mediatore e l’anima bella». Ma poi è lui a essere designato e «comincia la nuova storia della mia piccola vita». Si sente circondato: «tristi figuri», «satrapi», «ceto burocratico di intermediazione», «avventurieri da strapazzo». Riaffiora, carsica, «la voglia tremenda di mollare tutto» e il desiderio di gridare: «Non sono uno di questi». Nel partito vede «anime morte che si incrociano senza comunicare». La decisione annunciata da Occhetto di cambiare il nome del Pci è ammantata di «improvvisazione e povertà culturale». Alle critiche, «il segretario reagisce con la ciclotimia di sempre alternando depressione e psicosi del tradimento con minacce e tentativi di prepotenza». Più avanti gli attribuirà «un affanno camaleontico». D’Alema «appare più lucido ed equilibrato di altri» ma «i progetti non lo interessano se non sono la giustificazione di un agire politico», «ricorda in caricatura il personaggio di Elikon nel Caligola di Camus». Nel ’94, senza accennare al duello tra lo stesso D’Alema e Walter Veltroni, guarda con tormentato distacco «alla penosa vicenda e al modo isterico, personalistico e selvaggio con il quale si è svolto il ricambio nella segreteria, con il patetico ma irresponsabile comportamento di Occhetto». E l’altra sinistra? «Un’armata Brancaleone piena di cinismo e di vittimismo». A Bertinotti affibbia prima «un movimentismo senza obiettivi, disperatamente parolaio», poi «una meschina ambizione di protagonismo a qualsiasi costo», disceso nel «suo personale inferno di degradazione morale», «triste guitto», «ospite giulivo del Maurizio Costanzo show». A proposito di Rossana Rossanda annota «una risposta delirante e ignorante» e «penosi balbettii indignati». Parole di fuoco contro «i giovani rottami» del manifesto, «estremisti estetizzanti». A tutto questo variegato mondo «tra delirio estremista, gioco mondano e la lirica dannunziana» muove l’accusa di «disonestà intellettuale» e di «narcisismo laido e egocentrismo scatenato». Doloroso il rapporto con Pietro Ingrao, con «la retorica della pace e del catastrofismo cosmico», con «il suo rifugio in una sorta di profetismo didascalico che lo porta a rimuovere ogni vero confronto con il presente». Un’incomprensione che lo farà piangere. Nausea e disperazione. Denuncia «il machiavellismo volgare», «le ideologie rinsecchite» che diventano «gli orpelli delle più spregiudicate avventure personali e delle più invereconde forme di lotta politica», «le idee come grimaldelli» per la conquista del potere, «schieramenti senza programma». Malinconia, senso di stanchezza e di precarietà: «È come se gridassi e non uscisse un suono». Ma anche amicizie, affinità elettive e parole di elogio per figure, ad esempio, come Ciampi e Baffi, o per il sindacalista Eraldo Crea. E nel tormento dell’incomunicabilità e della diversità, a prevalere è il desiderio di elaborare un progetto, di indicare una via d’uscita. Superare il determinismo marxista e ripartire dalla rivoluzione francese «che non è ancora conclusa», dalla battaglia per i diritti, dalla società civile, da forme di autogoverno, dalla dignità e creatività del lavoro. Rifiuto di ogni statolatria e di soluzioni calate dall’alto, comprese tutte le strategie redistributive della sinistra che non vanno al nocciolo del problema e diventano l’alibi per governare. Contro la civiltà manageriale bisogna battersi per la socializzazione dei saperi e dei poteri. «Trasformare, qui ed ora, questo mondo nel quale viviamo e combattiamo». L’utopia del quotidiano, la chiama. La matrice è quella azionista ma la dicotomia tra giustizia e libertà, l’ircocervo di Benedetto Croce, Trentin la scioglie senza esitazione: la libertà viene prima. Nei diari c’è in incubazione «La città del lavoro». È morto il 23 agosto 2007. I conti con la sua eredità intellettuale sono ancora tutti da fare.

La sinistra ora lancia accuse di assistenzialismo. Da che pulpito viene la predica! Scrive Alessandro Catto il 29 maggio 2017 su "Il Giornale". Dopo l’uscita di Papa Francesco a favore del lavoro e contro il reddito di cittadinanza (questione eminentemente teologica, ndr) non sono mancati gli elogi da parte del mondo democratico e il continuo attacco, da parte di molti ambienti di centrosinistra, alla proposta avanzata dal Movimento 5 Stelle. Quest’ultima, nonché le presunte coperture volte a renderla possibile, sono certamente da prendere con le pinze. Una idea che in ultima istanza appare di difficile applicazione in un paese, l’Italia, che col deficit non ha un buon rapporto e che rischierebbe con ogni probabilità di non potersela permettere. Tutt’altro valore invece hanno le resistenze morali, o presunte tali, verso la misura. In primis perché è veramente giunta l’ora di aprire un dibattito serio sul rapporto tra avanzamento della tecnologia e riduzione dei posti di lavoro, inerente soprattutto il concetto di occupazione per come siamo stati abituati ad intenderlo, valutando se davvero il rischio sia presente o se è tutto frutto di sensazionalismo, pure slegandoci da un certo feticismo per il lavoro in salsa novecentesca che poco ha a che fare con un progresso degno di questo nome. Ha davvero senso, nel 2017, parlare di lavoro come se ne parlava cinquant’anni fa? Risulta davvero così stupido chiedersi se la globalizzazione, la modernizzazione e la tecnologia non impongano, laddove la loro presenza è più forte, una discussione sulle prospettive del lavoro salariato, specialmente nelle posizioni più umili? E in tutto questo, è davvero così fuori dal mondo provare a valutare assieme una proposta, quella del reddito di cittadinanza, che oltretutto potrebbe permettere di spezzare molte situazioni di ricatto che si creano quando si è costretti ad accettare un lavoro a qualsiasi condizione pur di portare a casa qualcosa? Non sono certo un elettore pentastellato, ma mi sembra quantomeno sospetta questa repulsione a priori verso il tema, specialmente quando fatta da sinistra. Già, perché in tutto questo notiamo critiche urbi et orbi da parte di una porzione politica che ha il coraggio di lamentare il presunto assistenzialismo insito nella norma, quando per anni ci ha abituati a veder sciorinare il peggior assistenzialismo su misura. I fedelissimi che lavorano nello Stato senza che spesso ce ne sia alcun bisogno, le persone “sistemate” in qualche ministero, le assunzioni ad cazzum nella ricerca, il finanziamento di corsi prettamente inutili, gli sprechi, i burocratifici difesi a spada tratta dal sindacato del non-lavoro, le associazioni e associazioncine parastatali spesso finanziate da chi oggi si batte contro questa proposta, non hanno forse l’odore di un assistenzialismo ancora peggiore, perché mascherato da lavoro e capace oltretutto di appesantire ancor più il funzionamento del paese? Non è ridicolo sentir parlare di ciò una porzione politica che per decenni ha fatto del peggior assistenzialismo uno dei propri tratti di riconoscibilità, che dietro ad un distorto concetto di statalismo, divenuto spesso improduttivismo statale e culto della burocrazia, oggi si riscopre rappresentante del lavoro duro, vero, utile e retribuito? Non fa rabbia vedere un sindacato e pure un papato che tacciono spesso e volentieri sulle storture di una immigrazione completamente deregolamentata, esporsi oggi contro chi cerca di rimediare al danno della concorrenza al ribasso causata proprio dai tanti silenzi avuti in decenni di battaglie pressoché inutili o molto, molto comode da condurre, spesso più politiche che lavorative o spirituali? Non fa rabbia questo totale scollamento dalla realtà fatto da pulpiti improbabili? Io lo trovo un cortocircuito pazzesco e dai tratti ridicoli. Nel tutto critiche alla proposta ce ne possono essere a bizzeffe. Ma le eviti chi sull’assistenzialismo ha costruito il proprio bacino elettorale per decenni.

Sinistra, riparti dai diritti. Non dal lavoro, scrive Piero Sansonetti il 10 Marzo 2017 su "Il Dubbio". Il movimento operaio non c’è più, è sucida ignorarlo. L’ideale non è il lavoro, il lavoro è un mezzo. L’ideale è la giustizia sociale…Il nuovo partito della sinistra, nato dalla scissione del Pd (quello di D’Alema, Speranza e Rossi, per capirci) si chiama “Articolo 1”, e il riferimento è al primo articolo della Costituzione, cioè al lavoro. Il Pd dal quale si è scisso il nuovo partito, a sua volta, propone con Renzi il “lavoro di cittadinanza”, contrapponendolo al reddito di cittadinanza dei 5 Stelle. E sul lavoro, sull’idea del lavoro come valore supremo, insistono naturalmente i sindacati, la Camusso, Landini, la Fiom. Sono solo parole, chiaro, ma in politica le parole contano molto. Tutta la sinistra italiana si ritrova su questa parola e solo su questa parola: il lavoro. Più o meno da 130 anni. Il motivo è evidente. La sinistra, non solo in Italia, è comunque figlia del movimento operaio. Sinistra, riparti dai diritti non dalla retorica del lavoro. E cioè di quel possente movimento politico, ricchissimo di articolazioni, che si fondava sull’enorme forza sociale e morale della classe operaia novecentesca per condurre epiche battaglie riformiste e egualitarie. Il problema è che oggi, se lo cercate, il movimento operaio non lo trovate più. È scomparso. È scomparso almeno vent’anni fa. E la stessa classe operaia, che ne costituiva il nerbo e la linfa, non esiste più in quanto “classe”, nei termini nei quali il significato profondo della parola “classe” era stato definito dal pensiero marxista e dalla parte più moderna e lucida della sociologia. Non esiste più, probabilmente, per una ragione che non ha a che fare soltanto con la fine delle ideologie e con il crollo del comunismo, che si era preso (o arrogato) il ruolo di interprete principale delle lotte operaie. Per una ragione legata all’imprevisto sviluppo della società e dell’economia determinato dalla forza cataclismatica delle tecnologie. L’indistruttibilità del movimento operaio – nel corso del secolo feroce e a volte reazionario che è stato il novecento – è dipesa interamente da quello strumento formidabile che maneggiava: il lavoro, e cioè l’elemento insostituibile del progresso e della produzione di ricchezza. Non ci vuole un novello Carlo Marx per intuire che quello strumento si è inceppato, forse si è spento. Non è più il capitale o l’impresa ad avere bisogno vitale di nuovo lavoro ma sono i lavoratori ad avere bisogno vitale dell’impresa. Il lavoro ha un peso sempre meno rilevante nel processo produttivo. I rapporti di forza – sul terreno della produzione – si sono spostati in modo clamorosamente massiccio e irreversibile. E si sposteranno ulteriormente. Il lavoro era la grande forza della sinistra ma non era il suo ideale ultimo. L’ideale della sinistra è sempre stata l’uguaglianza, o almeno l’equità, o la giustizia sociale. Il lavoro era un mezzo politico, un connotato di classe. In questi anni abbiamo assistito ad un corto circuito: la sinistra ha ceduto moltissimo terreno sul piano delle lotte per l’uguaglianza e ha mantenuto acceso, invece, il “lumicino” del lavoro. Sono convinto che da questo cortocircuito è nata non solo la crisi della sinistra – e non solo in Italia – ma anche lo sbandamento di tutta l’asse della lotta politica. La destra e la sinistra hanno finito per assomigliarsi sempre di più. Lo scontro tra loro è diventato uno scontro esclusivamente di ceto politico, non più di idee o di grandi interessi di massa. E in questo modo hanno preso il sopravvento i nuovi “signori”, che non c’entrano più con la politica tradizionale: i populismi, il mercato, il giustizialismo. La loro ideologia dilaga, sembra impossibile fermarla. Contesta il ceto politico in quanto ceto politico e contestandolo delegittima la politica. E ne prende il posto. E il potere. E l’idealità. E la capacità di attrarre e organizzare il consenso.

C’è un solo grande valore che può opporsi a questa deriva. È il valore del diritto e dei diritti. È pura illusione immaginare una ripresa della giustizia sociale attraverso il conflitto sociale. Così come è fantasia credere che la libertà possa affidarsi, mani e piedi legati, al mercato. La giustizia sociale, e la libertà, possono crescere solo se il Diritto riesce a imporre la sua superiorità rispetto ai valori del mercato e al populismo. Altrimenti sono destinate a diventare un aspetto del tutto residuale della modernità. Questa è la grande partita politica che è aperta, proprio qui in Italia, qui in Europa: tra una modernità concepita come “Stato di Diritto” e modernità intesa come “Stato del Mercato e della Pena”. Ma perché questa battaglia si svolga ad armi pari bisogna che la politica torni in campo. Possibile che la politica sia così cieca da non capire che gli stessi grandi ideali del passato (quelli liberali, quelli socialisti) oggi hanno un futuro solo se si ritrovano insieme a difendere il campo del Diritto? Dov’è l’uguaglianza senza il Diritto? Dov’è la liberà senza il Diritto?

E però appare chiaro che la politica da sola non ce la fa. Balbetta, spesso trema, fugge, tenta di blandire il populismo.

La politica ha bisogno di nuovi alleati, e può trovarli solo nella società, in nuove aggregazioni che mettano insieme ideali e interessi collettivi della modernità. Le professioni, i nuovi “corpi intermedi”. Che devono uscire però dalla antica subalternità: non proporsi più alla politica come “clienti”, o come “strumenti” di consenso. Ma come protagonisti, portatori di una idea di modernità che è loro propria e che pretendono, dalla politica, che diventi “strategia”.

Pd caos iscrizioni a Napoli: "Portate la tessera, i 10 euro ve li danno loro". 1 marzo 2017 video di Anna Laura De Rosa e Alessio Gemma su Rep/Tv. “Dovete portare tessera e codice fiscale, i 10 euro ve li danno stesso loro”. Sigaretta in bocca, occhiali e capelli bruni: la donna spiega come ci si iscrive al partito democratico a Napoli. Scene dal tesseramento a Miano, quartiere popolare dell’area nord. Piazza Regina Elena, a due passi dagli uffici del Comune. È l’ultimo giorno utile per strappare l’adesione al Pd in vista del congresso nazionale, più di un centinaio di persone fanno la spola dalle 17 fuori alla sede di un’associazione. I dieci euro sono la quota che il partito per rinnovare l’iscrizione. “Ve le da Michel dentro, se la vede lui”, aggiunge l’amica. Dietro alla scrivania, in una stanza piena di persone, fa capolino Michel Di Prisco, ex vicepresidente della Municipalità. Un capobastone noto tra le file del Pd, al centro delle primarie dello scandalo del 2011.

"10 euro per la tessera del Pd". Un nuovo scandalo travolge i dem. A Miano, quartiere popolare nel Napoletano, scoppia il caso delle tessere comprate. "I 10 euro ve li darà Michel all'interno", scrive Sergio Rame, Mercoledì 1/03/2017, su "Il Giornale". "10 euro e la tessera del Pd è comprata". Il video di Repubblica, girato con telecamera nascosta a Miano, quartiere popolare dell'area nord di Napoli, è una bomba che deflagra in un partito già fiaccato dagli scandali giudiziari e dalle divisioni interne. Nell'ultimo giorno utile per il tesseramento al Partito democratico si vedono chiaramente scene di compravendita delle tessere. "Solo la carta d'identità - dice una voce fuoricampo nel video di Repubblica - i dieci euro ve li danno loro". Una signora dà le indicazioni ai "militanti" del Pd per iscriversi e rinnovare la tessera del Partito democratico in vista del congresso nazionale dove Matteo Renzi, Michele Emiliano e Andrea Orlando si sfideranno per prendere la leadership del partito. In piazza Regina Elena, in un quartiere popolare ad alta densità di camorra, più di un centinaio di persone fanno la spola all'esterno della sede di un'associazione. C'è un via vai di persone. E di soldi. 10 euro è la quota che il Pd chiede per rinnovare l'iscrizione. "I dieci euro - spiega la signora nel video di Repubblica - ve li darà Michel all'interno. Se la vede lui". Michel è Michel Di Prisco, l'ex vicepresidente della Municipalità finito al centro dello scandalo delle primarie del 2011 per il Comune. "Entrate - dice ancora la signore - stanno dando 10 euro a persona. Non li cacciamo noi, non ci vanno in tasca. Vanno al partito". Tra gli organizzatori di questo sistema clientelare c'è anche un certo "don Gennaro". A lui spetta il compito di coordinare le operazione di tesseramento per "il partito di Michel, il nostro consigliere di quartiere". Dopo il caos scoppiato nel capoluogo campano, il Pd è corso ai ripari inviando Emanuele Fiano a Napoli in qualità di "osservatore". Dovrà vigilare sul tesseramento. "Nelle situazioni denunciate e circoscritte - spiegano fonti del Nazareno - si congela il tesseramento o lo si annulla se palesemente non in linea con le regole". Le regole del Pd prevedono che le verifiche siano fatte sul tesseramento, provincia per provincia. E il tesseramento è valido solo quando viene certificato dalle commissioni per il congresso. Graziella Pagano ex senatrice ed europarlamentare, è stata scelta dal segretario regionale campano, Assunta Tartaglione, per monitorare su Miano. "Gli episodi riportati dalla stampa sono di una gravità estrema - ha commentato la Tartaglione - inficiano il regolare svolgimento del tesseramento e ledono pesantemente l'immagine del partito".

Scandalo tessere comprate Pd nel caos verso le primarie. A Napoli iscrizioni pagate 10 euro. Orfini: espelleremo i responsabili. Presto aperto un fascicolo in Procura, scrive Pier Francesco Borgia, Giovedì 2/03/2017, su "Il Giornale". Scoppia il caso del tesseramento fittizio nel Pd campano. Tra Napoli e Castellammare, due casi che mostrano chiaramente come non tutte le regole sono state osservate. Sul sito di Repubblica è apparso un video in cui si vede una donna convincere alcune persone ad andare a rinnovare la tessera senza preoccuparsi per i soldi necessari («Dovete portare tessera e codice fiscali, i 10 euro ve li danno loro»). A Castellammare, invece, gli stessi responsabili del partito si sono accorti che qualcuno aveva pagato il rinnovo di 16 tessere con una sola carta di credito. A un anno dalle primarie dello scandalo (a Napoli per scegliere il candidato sindaco), torna di stretta attualità l'allegra gestione del partito. Il presidente «reggente» Matteo Orfini ha già inviato nel capoluogo campano un suo rappresentante (Emanuele Fiano) per verificare i fatti. E mentre «l'inviato» del Pd annuncia che segnalerà tutto ai magistrati, dalla procura trapela che è già stata aperta un'inchiesta. Orfini poi avanza una preoccupazione ulteriore: potrebbero esserci altri casi come quello emerso al circolo Pd del quartiere napoletano di Miano. «Se queste cose sono emerse - spiega Orfini - è proprio perché il nostro meccanismo di controllo funziona». Un osservatore verrà mandato anche dal Pd regionale diretto da Assunta Tartaglione. Si tratta di Graziella Pagano, ex senatrice ed europarlamentare. Alla fine dell'indagine interna il tesseramento verrà poi certificato dalle commissioni istituite per preparare il congresso. D'altronde i casi sono tanti. Non c'è solo Miano o Castellammare. A Bagnoli, per esempio, hanno annullato il tesseramento dopo che si era passati dalle 200 tessere del 2016 alle 500 di quest'anno. Problemi analoghi e analoghi sospetti anche a Pompei e a Torre del Greco, cui si aggiungono i quartieri di Pianura e Pendino. La Pagano, insomma, lavorerà fianco a fianco con l'uomo di Orfini. «Ben venga - commenta la Tartaglione - la decisione del partito di inviare un dirigente nazionale per verificare la regolarità del tesseramento a Napoli. Su questa come su tutte le altre possibili anomalie saremo inflessibili». Lo spettacolo che si ricava dal video pubblicato sul sito di Repubblica è tutt'altro che edificante, commenta Orfini. Che ora pensa anche all'ipotesi espulsione per i responsabili di tesseramenti non in linea con quanto previsto dal regolamento. «Io stesso ho cacciato persone a Roma», ricorda per poi avvertire che l'organizzazione del congresso non subisce alcun condizionamento. «Non ci sarà nessuno slittamento», rassicura. E l'indagine interna potrebbe allargarsi fuori regione. Come si augura, per esempio, la europarlamentare Pina Picierno. «Si leggono cose anche da altre realtà che destano preoccupazione - spiega la Picierno, originaria del casertano -. A impensierirmi sono le notizie che arrivano dalla Puglia, ad esempio. Dobbiamo essere seri e rigorosi». Il pasticciaccio napoletano offre, comunque, un assist ghiotto ad Andrea Orlando, candidato con Michele Emiliano a contendere la poltrona di segretario del Pd a Matteo Renzi. «Il discorso della rottamazione delle classi dirigenti evidentemente non si è realizzata - constata amaro Orlando -. Sono sempre gli stessi che gestiscono il partito». E pure uno «scissionista» come l'europarlamentare Massimo Paolucci, confluito in Democratici e progressisti, vede nel caos del tesseramento un segno inequivocabile: «Le clamorose schifezze che, ancora una volta, emergono a Napoli confermano che non ci sono le condizioni per continuare la nostra battaglia dentro il Pd».

Pd, tessere gratis a Napoli, Orlando: "L'avevo detto". Orfini: "Casi isolati, prenderemo provvedimenti". Il ministro della Giustizia e candidato alle primarie: "Organizzazione precaria, temo che si possa avere stessa situazione anche in altre realtà". Resi noti i dati ufficiali sugli iscritti: nel 2016 sono 405mila, scrive l'1 marzo 2017 "La Repubblica". I conteggi ufficiali, trapelati in serata, dicono che gli iscritti al Pd nel 2016 sono 405.041: è questo, secondo quanto riferisce il vicesegretario Lorenzo Guerini, il risultato dopo le comunicazioni delle federazioni regionali, in attesa delle verifiche e delle certificazioni delle Commissioni territoriali per il congresso e "al netto del tesseramento dei Giovani democratici che ha modi e tempi autonomi". Un dato che arriva nel pieno della bufera sul caso delle tessere del Pd gratis a Napoli. Nel 2014 gli iscritti erano 378.669, mentre nel 2015 sono stati 395.574. Ma restano le perplessità legate al caso partenopeo. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, candidato alle primarie dem, ricorda di aver messo in guardia sulla possibilità che si verificasse un problema del genere. "Avevo messo in evidenza il rischio che in una situazione organizzativa abbastanza precaria si potesse produrre questo tipo di effetti, e si stanno producendo" e "temo che questo rischio si manifesti anche in altre realtà. Apprezzo il fatto che si sia intervenuti tempestivamente e mi auguro che si continui così. Mi fido di chi oggi è chiamato a gestire questo passaggio così delicato" ha aggiunto. Su Facebook il presidente del Pd Matteo Orfini annuncia provvedimenti immediati: "Ieri si è chiuso il tesseramento del Pd. Purtroppo ci vengono segnalati anche casi - per fortuna isolati - di gestione poco trasparente. Il nostro congresso deve essere una grande festa democratica e non possiamo consentire che venga rovinato da comportamenti discutibili. Ovunque verranno segnalate anomalie provvederò a inviare commissari per il tesseramento e chiederò alla commissione di accompagnare il percorso congressuale per scongiurare ogni rischio. Per questo già nelle prossime ore assumerò i primi provvedimenti sui casi segnalati". Infatti a Napoli è già stato inviato Emanuele Fiano come un commissario per esaminare le irregolarità sui tesseramenti.

Pd, c'è anche un caso Puglia: boom di tessere, l'eurodeputata Picierno invoca verifiche. Nella regione di Michele Emiliano, secondo le prime proiezioni sono state registrate 33mila 500 tessere, in aumento rispetto allo scorso anno (quando si contarono 27mila iscrizioni), scrive Antonello Cassano il 2 marzo 2017, su "La Repubblica". Tesseramento chiuso, ma polemiche e colpi bassi sempre più pesanti tra le varie correnti di partito. A punto che dopo il 'caso Napoli' ora infuria anche un 'caso Puglia'. La campagna per le iscrizioni al Pd in regione, terminata il 28 febbraio, ha fatto un balzo in avanti nelle ultime 48 ore. In Puglia secondo le prime proiezioni sono state registrate 33mila 500 tessere, in aumento rispetto allo scorso anno (quando si contarono 27mila iscrizioni). Numeri in aumento a Bari città, dove si superano i 3mila tesserati, mentre a Foggia città si toccano le 1.300 tessere. Circa 3.500 i tesserati sia nella provincia di Brindisi sia in quella di Taranto. A Lecce città sono 1.700 le iscrizioni. Grandi numeri nella Bat, dove si registrano 6mila tesseramenti. In particolare a Barletta si registrano 1.700 tesseramenti (ma erano 3.500 lo scorso anno), di cui 700 tessere cartacee e circa 1.000 iscrizioni online. Ma nel giorno in cui il governatore Michele Emiliano (candidato alle primarie per la segreteria contro Matteo Renzi, Andrea Orlando e Carlotta Salerno) nel corso di una visita lampo nella sede del consiglio regionale della Toscana definisce il tesseramento "una prova muscolar-finanziaria che non funziona", in Puglia si susseguono gli scambi di accuse tra i renziani e i seguaci del governatore. E così dopo i casi segnalati nei giorni scorsi di circoli chiusi anzitempo e di tessere fotocopiate, le polemiche infuriano sull'alto numero di iscrizioni online. "Mille tessere online? In una sola città della Bat? Ditemi che è una bufala", esclama su Facebook il renziano Fabrizio Ferrante. A rincarare la dose ci pensano prima l'eurodeputata campana Pina Picierno, che chiede "verifiche in Puglia", e poi l'eurodeputata cerignolana Elena Gentile che denuncia: "A San Severo negli ultimi minuti prima della chiusura del tesseramento si sono presentati 150 immigrati irregolari che hanno chiesto di tesserarsi - accusa la renziana - Fossi il responsabile del tesseramento regionale comincerei a preoccuparmi". La risposta di Ruggiero Mennea, deputato al controllo delle tessere, non tarda ad arrivare: "Si tratta di 11 migranti spostati dal campo di Rignano a San Severo, polemica inutile. La mia amica Elena Gentile - afferma il consigliere, che durante una telefonata con il vicesegretario nazionale del Pd, Lorenzo Guerini, ha parlato di un corretto andamento delle procedure di tesseramento in Puglia - può stare tranquilla". Nel frattempo il Pd pugliese dà l'immagine di un partito balcanizzato e non a caso dall'altro fronte, quello pro Emiliano, c'è chi fa notare che proprio a Cerignola, nella terra di Elena Gentile, sia partito un esposto "perché nell'ultimo giorno disponibile per il tesseramento molta gente non avrebbe avuto la possibilità di iscriversi". Balcanizzazione in pieno corso anche a Lecce. Qui è la componente della segreteria regionale, Alessandra Giammarruto, che in un documento inviato al Nazareno e pubblicato dall'Huffington Post chiede la sospensione e il commissariamento dei poteri del segretario provinciale leccese Salvatore Piconese, dato nei giorni scorsi vicino agli scissionisti fuoriusciti dal Pd e al movimento 'Consenso' organizzato da Massimo D'Alema: "Le tessere - accusa Giammaruto - nella maggior parte dei circoli non sono state neppure consegnate. Diversi segretari hanno manifestato volontà di lasciare il partito e a Lecce città non è stato istituito alcun ufficio adesioni". Accuse che non piacciono per niente al segretario regionale dem Marco Lacarra: "Dichiarazioni prive di fondamento. Il segretario provinciale del Pd di Lecce ha comunicato la sua permanenza nel partito, prendendo le distanze dalla scelta di alcuni dirigenti scissionisti. Il tesseramento in Puglia è stato gestito nella massima trasparenza, anche a Lecce". La resa dei conti fra le correnti del partito è destinata a proseguire.  

Quella nebulosa chiamata sinistra, scrive Concita De Gregorio il 18 febbraio 2017 su “La Repubblica”. E’ con sgomento, incredulità e malinconico divertimento che annoto di giorno in giorno su uno speciale taccuino le nuove iniziative (pre-elettorali? Precongressuali? Psichiche?) della galassia semigassosa nata dalla trasformazione della materia di quello che nel secolo scorso è stato il centrosinistra, con o senza trattino, non saprei più dire. Come in un esperimento nel laboratorio di chimica alle medie, si rintracciano anche particelle solide della sostanza originaria. L’ultima è di ieri, o dell’altro ieri, perdo il conto: Rivoluzione socialista indetta dai socialisti democratici di Michele Emiliano. Subito prima Campo Progressista di Pisapia che seguiva ConSenso di D’Alema, il quale certamente non dialoga con Dema di De Magistris, area Ada Colau e Varoufakis. Non lontano da Dema si collocava un tentativo in apparenza oggi disperso, ma forse solo silente, la Coalizione sociale di Michele de Palma per Maurizio Landini, Fiom. Sigla ormai arcaica, quest’ultima, che tuttavia resiste insieme a Rifondazione comunista di Paolo Ferrero, prossimamente a congresso. Un tributo si deve all’antesignana Possibile di Pippo Civati, attenzione merita il laboratorio Milano In di Cristina Tajani, ex Sel come tutti quelli ora in SI, in queste ore riuniti a Rimini. Al congresso di SI partecipa il solo segretario Nicola Fratoianni, non Arturo Scotto che un attimo prima delle assise ha ritirato la candidatura alla segretaria per passare con Pisapia. Mentre Rifare l’Italia ha portato Orfini ai vertici del Pd di Renzi, sulla faglia alla sua immediata destra si attendono le mosse del molto attivo Andrea Orlando, per ora senza sigla ma forse in contatto col lavoro sottotraccia di Franceschini e Serracchiani i quali pare abbiano l’obiettivo di “tenere unito” il Pd: bisogna solo capire unito sotto la guida di chi. A soffiare polvere magica sull’esperimento di trasformazione della materia contribuiscono figure ubique come Massimiliano Smeriglio, ex destra Sel, vicepresidente della Regione Lazio detto il re della Garbatella che ha partecipato negli stessi giorni alla campagna di tesseramento di SI in area Scotto, era al fianco di D’Alema al lancio di ConSenso, con Pisapia a Milano al lancio di Campo Progressista e con Emiliano in Rivoluzione socialista. Scrivo queste desolate righe in risposta a due lettori: Ugo Stalio, 76 anni (“Possibile che gli unici accordi siano su quanti seggi toccheranno in Parlamento? Che il loro calcolo sia quello?”) e Silvio Fossi, 86. Generazione che ha fatto l’Italia, pazienza se vi sembra retorico: leggete la lettera di Silvio da moschettiere del Duce a osservatore del M5S passando per sessant’anni a sinistra, oggi iscritto al Pd, e capirete. Parla di “soffio di fascismo tecnologico”: non tornerà col manganello, dice, ma dai mezzi di comunicazione. Parla di Trump, dice che ha seguito la diretta dell’assemblea Pd del 13 febbraio, domanda se “la sinistra non capisca la gravità delle conseguenze di una scissione, delle quali dovrebbe rendere conto a tutti gli italiani”. Il soggetto di questa frase tuttavia - “sinistra” - è composta attualmente dalla nebulosa qui descritta per sommi capi e certo con difetto di distinguo. In politica, come in tutto il resto nella vita, peggio che non capire c’è solo capire troppo tardi.

Un'assemblea senza anima avvicina la scissione del Pd. Nella riunione di sette ore parlano tutti i leader, renziani e di minoranza, Ma le parole più importanti arrivano alla fine, a telecamere spente, con Emiliano, Speranza e Rossi che accusano Renzi di "aver scelto la strada della scissione". Da oggi il M5S è il primo partito del Paese. I democratici sono ormai bruciati, scrive Marco Damilano il 19 febbraio 2017 su "L'Espresso". La svolta arriva alla fine, quando l'assemblea del Pd è ormai terminata da più di un'ora. Via i delegati, i curiosi, i contestatori, le telecamere, le guardie rosse, ecco la nota dei tre tenori, Michele Emiliano, Enrico Rossi e Roberto Speranza alle sette di sera, in tempo per i tg, con la parola esorcizzata, invocata, temuta, carezzata per tutta la giornata: «Renzi ha scelto la strada della scissione», scrivono i tre. E questa volta, a quanto pare, è davvero finita. Tra accuse reciproche: decisione già presa, avanspettacolo. L'annuncio dell'addio arriva dopo un'assemblea di sette ore, all'hotel Parco dei Principi immerso nei Parioli, tra stucchi dorati, lampadari, finti busti neo-classici. Di fronte ai recinti del bioparco si alterna al microfono il bestiario del partito che governa il Paese: i falchi, le colombe, le volpi, i leoni, le faine, i serpenti, le iene e le belle gioie. Il dolore, più volte tirato in ballo, i sentimenti e i risentimenti, le trappole, i trabocchetti. La sottosegretaria Maria Elena Boschi, silente e a lungo inquadrata dalla regia. Le convergenze parallele: attribuite da sempre al pugliese Aldo Moro per il centro-sinistra (ma lui, in realtà, non pronunciò mai questa frase), sembrano rivivere in formato per così dire minore alle cinque del pomeriggio, quando al microfono a sorpresa chiede di intervenire il presidente della Puglia Michele Emiliano. Al raduno del teatro Vittoria nel quartiere Testaccio era stato il più duro del trio contro Renzi: «Vi chiedo scusa di averlo votato». Per tutto il giorno c'è il mistero sulle sue reali intenzioni, gli spin renziani fanno sapere che è pronto a tradire Rossi, Speranza e Bersani (e Massimo D'Alema). E il governatore sembra confermare i sospetti. Si traveste da agnello. Sventola il ramoscello della pace. Afferma che se Renzi farà un passo indietro, lui ne farà altrettanti, «per fare cento passi in avanti». Fino alla mozione di fiducia: «Io dico: mi fido del segretario, di Renzi, ho fiducia nella sua capacità di guidare questa gente meravigliosa. Siamo a un passo dalla soluzione per portare dentro il partito una sfida dignitosa». Con un'avvertenza finale: «Se non troviamo un accordo tra di noi sarà poi difficile convincere gli italiani che siamo la forza da votare». Convergenze parallele, perché Renzi e Emiliano sembrano fino a quel momento avere un interesse in comune. Fare il congresso e le primarie. Senza uno sfidante vero e agguerrito, per l'ex premier rischiano di essere un flop: gazebo deserti, in una calda giornata che già invita al mare, la prova che come dice Bersani il popolo ha voltato le spalle al Pd. E per Emiliano le primarie contro Renzi sarebbero un formidabile palcoscenico mediatico per rafforzare la sua leadership nazionale, oggi ancora legata alla Puglia e al Sud. Nella tagliola sembrano finire gli scissionisti: Rossi, Speranza e i leader. Bersani, presente per l'ultima volta, D'Alema ormai uscito in mare aperto. «Io ho deciso, vi aspetto fuori, fatemi sapere», ha salutato i compagni prima di lasciare il teatro Vittoria. "Vi consegno stasera con la massima determinazione ma anche affetto e rispetto, consegno al segretario la possibilità vera e reale di togliere anche a me ogni alibi al processo di scissione: siete in grado di dare una mano a Renzi a risolvere un problema che è solo di metodo per evitare un esito negativo, condividere una strada che metta insieme un punto di vista dei tre candidati". Così in assemblea Michele Emiliano aggiungendo che "se stasera non troviamo un punto di equilibrio sarà difficile spiegare agli italiani che questo è il partito a cui affidare il futuro dell'Italia". Sull'ex leader Massimo e sui bersaniani piovono per tutto il giorno appelli, richiami agli affetti, minacce. Nella sua relazione Renzi non concede neppure un millimetro a chi vuole andare via: «Don Milani diceva che chi perde il tempo bestemmia. Noi negli ultimi due mesi abbiamo bestemmiato il tempo. Adesso basta discutere, fuori di qui ci prendono per matti». Accusa gli avversari interni di volere la sua fine politica: «Più brutta della parola scissione c'è la parola ricatto. Non potete pensare che per evitare la scissione io possa togliermi di mezzo. Avete il diritto di sconfiggermi con un vostro candidato, non di eliminarmi!». Fa sfilare i fantasmi del 1998 e del 2009, ovvero la caduta di Romano Prodi a Palazzo Chigi e quella di Walter Veltroni dalla segreteria del Pd, entrambe con la regia di D'Alema. Il vero nemico Innominato. E per la prima volta il rottamatore, il ragazzo dell'anno zero, del momento presente, chiama in suo soccorso il passato nobile del centrosinistra: Arturo Parisi e l'Ulivo, il Lingotto di Veltroni (da cui partì nel 2007 l'avventura del Pd), i valori della sinistra, l'identità, le primarie, «il potere che appartiene ai cittadini», il Pd che è l'unico «modello alternativo all'azienda-partito (M5S di Casaleggio) e al partito-azienda (Forza Italia di Arcore)». E ammette: «Il Pd è più forte dei destini personali dei leader». In carne e ossa, in sala, ci sono molti protagonisti di questa storia. Parlano tutti, contro la scissione, nel silenzio surreale dei contendenti: i bersaniani spediscono Guglielmo Epifani sul podio a parlare per tutti, i renziani ancora una volta dimostrano incapacità di intervenire fuori dalla propaganda, quando il gioco si fa duro. Al loro posto, la vecchia guardia: Piero Fassino, Dario Franceschini, Franco Marini, ex segretari di Ds, Pd, Ppi. Parla, rompendo un silenzio che durava da anni, Walter Veltroni. E nella sala finalmente si fa attenzione. Scuola di prim'ordine, l'ex segretario rompe l'indifferenza reciproca. La sua è una lezione di discorso politico, prendano nota e lo studino nei loro corsi i giovani del Pd renziano i cui concetti non durano un tweet. Ed è una lunga lettera ai compagni di sempre che oggi potrebbero andarsene. Non si interrompe un'emozione, una storia. E Walter si toglie qualche antico sassolino nei confronti del rivale di sempre, D'Alema: «Vogliamo dirci che se il governo Prodi fosse proseguito la nostra storia sarebbe stata diversa? E che senza le nostre divisioni Prodi sarebbe diventato presidente della Repubblica nel 2013?». Ma Veltroni ha qualcosa da dire, e molto, anche sulla conduzione degli ultimi anni: «Il Pd non può essere un monocolore culturale o un partito personale. Se la prospettiva è la proporzionale, i partitini e le preferenze, il ritorno a un partito che sembra la Margherita e uno che sembra i Ds, non chiamatelo futuro, la parola più giusta è passato». Standing ovation. E per un istante qualcuno sogna che possa essere lui, Veltroni, il reggente del Pd nella fase congressuale. Chi rompe e chi costruisce. Gianni Cuperlo paragona Renzi e i suoi antagonisti a James Dean in "Gioventù bruciata", due auto in corsa verso il burrone, ed è l'immagine più cruenta e vera della giornata: «Non siamo mai stati un gruppo dirigente». Franceschini squarcia un velo sul nuovo che avanza: «Nella prossima legislatura le alleanze saranno larghe, politicamente improbabili, ma i numeri hanno una loro forza, solo la nostra unità ci consentirà di tenere in mano il timone di queste coalizioni». Traduzione: se in futuro dovremo allearci anche con Forza Italia meglio restare uniti e grandi, piuttosto che piccoli e deboli. Siamo alle ovvietà. Ma intanto nei corridoi i colonnelli bersaniani attaccano Renzi, si aspetta la mossa di Emiliano che alla fine arriva. Fuori tempo massimo, però. La soluzione è a un passo. La fine del Pd anche. «La recita si è fatta scadente, abbassiamo il sipario», disse il capogruppo dc Mino Martinazzoli chiudendo alla Camera nel 1987 la legislatura del governo Craxi. Nessuno lo ha ripetuto, eppure sarebbe stato necessario. Non lo ha fatto la minoranza, persa nell'ansia di non finire sotto il bastone renziano. E non lo ha fatto Renzi, che ha dimenticato l'insegnamento dell'Uomo Ragno: da grande potere grandi responsabilità. In un'assemblea di sette ore in cui in pochissimi hanno saputo parlare fuori dall'acquario o dal bioparco per rivolgersi al paese, all'altezza della «crisi democratica», come ha detto Veltroni, che attraversa e strema le istituzioni in Occidente, riscrive la storia e la geografia, da Washington all'Europa. La sola domanda che ci faremo dopo questo brutto film sarà: “Mentre il mondo esplodeva, di che cosa parlava la sinistra italiana?” Il passato bussa alla porta, senza i partiti e i protagonisti del passato. Sarà una scissione, se tale sarà, senza anima e pathos. Nulla di paragonabile ai drammi novecenteschi, e neppure alla nascita della Quercia, quando - garantì Michele Serra in una poesia - «ho visto piangere Massimo D'Alema/ là, dentro il grembo della tribuna rossa». Piansero tutti anche nel 2007, a Firenze, quando Fabio Mussi lasciò i Ds che entravano nel Pd. Non ha pianto nessuno, in morte del Pd così come lo abbiamo conosciuto. Una gelida separazione, di chi non ha più nulla da dirsi, di chi non sopporta più la presenza reciproca, neppure il tono di voce. Ma molto ci sarà da soffrire nelle prossime settimane: elezioni amministrative, Rai, Parlamento, il vento della divisione fuori dall'assemblea del Pd rischia di travolgere molte imprese, compreso il governo Gentiloni. Fino ad arrivare alle prossime elezioni, quando saranno. Perché da stasera M5S è virtualmente il primo partito italiano. E se la destra si sveglia, sarà un disastro politico annunciato per il centrosinistra e, chissà, forse, per il Paese. Il Pd è un partito bruciato. Un bel risultato, in ogni caso, per chi si era candidato a guidare l'Italia per decenni.

Scissione del Pd: ecco cosa ha detto davvero Delrio nel "fuori onda". "Non ha fatto neanche una telefonata...", dice il ministro riferendosi all'immobilità di Renzi sulle ipotesi di rottura del Pd, scrive il 17 febbraio 2017 Panorama. "Non ha fatto neanche fatto una telefonata, su... Come cazzo fai in una situazione del genere a non fare una telefonata?": a dirlo, parlando con Michele Meta dell'atteggiamento di Matteo Renzi rispetto alle ipotesi di scissione del Pd, è il ministro Graziano Delrio. Un "fuori onda" carpito durante un incontro sul trasporto pubblico della Capitale. Delrio risponde a Meta che gli chiede: "Lui si adopera per contrastare sta roba, Matteo?" I due, al tavolo dei relatori, parlano appunto della scissione (la conversazione è stata colta da Ala News che poi l'ha diffusa). Parte Meta, che rivolto a Delrio chiede se all'Assemblea nazionale si consumerà la scissione ("Domenica riusciamo ad evitare...?") per poi aggiungere: "Ma quindi secondo te barano o fanno sul serio?". Delrio sembra pessimista: "No fanno sul serio". E all'obiezione di Meta che forse "una parte no", il ministro replica: "Una parte ha già deciso. Poi ci sono anche dentro i renziani che diminuiscono i posti da distribuire, no? Perché pensano poi che siamo...". E Meta: "Eh, sì...". "... Una cosa - riprende Delrio - che fa vantaggio. Non capiscono un cazzo, perché sarà una cosa come la rottura della diga in California. Hai presente? C'è una crepa... ç'acqua dopo non la governi più". "Lui si adopera per contrastare sta roba, Matteo?", chiede allora Meta. Delrio: "S'è intignato di brutto. Perché non è che puoi trattare questa cosa qui come un passaggio normale (audio incomprensibile) cioè tu devi far capire che piangi se si divide il Pd non che te ne frega, chi se ne frega... Non ha fatto neanche una telefonata, su, come cazzo fai in una situazione del genere a non fare una telefonata?".

Da "Lambretta rossa" a Blair e Ambra. La frattura è anche nelle citazioni. Boccia evoca Zucchero mentre un gruppetto intona le strofe della Angiolini. I renziani più giovani s'aggrappano a Clinton, scrive Domenico Di Sanzo, Lunedì 20/02/2017, su "Il Giornale". «Lambretta rossa la trionferà». Francesco Boccia cita Zucchero durante l'assemblea Pd, e già non è più «Rivoluzione Socialista». Il deputato, presente anche alla manifestazione di sabato al Teatro Vittoria di Testaccio dice: «Hanno convinto persino me a cantare Bandiera Rossa». Ma è acqua passata. E il distacco con il popolo dei democraticisocialisti lo marca lo stesso segretario uscente Matteo Renzi nel suo intervento di apertura: «Io non accetto che qualcuno pensi di avere il copyright della parola sinistra. Anche se non canto bandiera rossa penso che il Pd abbia un futuro che non è quello che altri immaginano, la sinistra non si fa con la rivoluzione socialista». Niente lotta di classe nell'assemblea del Pd renziano, nessuno scontro con il capitalismo, «si va avanti allegri e frementi». Allegri e frementi, dice Renzi, citando Linea d'ombra di Joseph Conrad. Cosa ben diversa dall'afflato marxista che si respirava al Testaccio. Sul palco, ma anche in platea e nei corridoi dell'Hotel Parco dei Principi, i renziani marcano la differenze. Giachetti evoca la parola «sinistra» quasi come se fosse un corpo estraneo, il ministro Poletti ripete nel suo discorso i termini «impresa», «successo» e «merito», spingendosi fino all'elogio di «chi si crea l'azienduccia». Un altro pianeta rispetto a Enrico Rossi, il «rivoluzionario socialista» di sabato che magnificava l'aumento della pressione fiscale. Oppure il Roberto Speranza del «chi ha di più paghi di più, chi ha di meno paghi di meno». La scissione, sempre in bilico, è tutta contenuta nei chilometri che separano il Testaccio dai Parioli. L'Hotel Parco dei Principi, ai Parioli appunto, teatro dell'assemblea nazionale del Pd di ieri è blindato. L'organizzazione rigida. E al buffet un caffè costa un euro e cinquanta. Un panino quattro euro. I delegati più giovani, quasi tutti di estrazione renziana parlano di Clinton e Blair. Un gruppetto, per scaricare la tensione della scissione imminente, canticchia pure T'appartengo di Ambra Angiolini ai tempi di Non è la Rai. Sui loro schermi non va in onda la «Rivoluzione Socialista». Nel pomeriggio si fa vedere in sala stampa il bersaniano Nico Stumpo, e minaccia la scissione quando «le luci dell'assemblea saranno spente». Passa un giovane delegato, chiede «Chi è?» e si allontana arrabbiato dicendo: «Ah Nico!». Lo spin doctor di Renzi Filippo Sensi, accenna sorrisi, passa pure la coppia renziana Francesco Nicodemo-Pina Picierno, tutti molto casual. C'è chi cita «In cammino», il nome della nuova mozione congressuale di Renzi, che assomiglia vagamente all'En Marche! del candidato alle presidenziali francesi Emmanuel Macron, ex socialista, altro bersaglio del popolo del Teatro Vittoria. Nel frattempo il ministro Graziano Delrio getta acqua sul fuoco del fuorionda e risponde: «Renzi vi ha annunciato che si dimette e vi dice se ce la fate battetemi! cos'altro doveva dire?». Gianni Cuperlo, però, ribatte: «Questi sono solo toni muscolari». A sinistra non piacciono i toni muscolari. La deputata Anna Ascani, renziana grintosa, si chiede come farà a spiegare al popolo del Partito Democratico una scissione basata solo sulle date del congresso. Davanti al Parco dei Principi si vedono tre militanti dei Giovani Democratici del II Municipio di Roma. Mostrano uno striscione tricolore, non rosso, con la scritta: «Restiamo Uniti». Stanno davanti all'Hotel dei Parioli fino al pomeriggio inoltrato, e chiedono di «evitare la scissione», un po' come i renziani di Pontassieve rimasti fuori dal Teatro Testaccio, in cammino.

Matteo Renzi contro Bandiera Rossa: "Non la canto e non parlo di rivoluzione socialista", scrive “Libero Quotidiano” il 19 febbraio 2017. Nell'infuocato intervento di Matteo Renzi all'assemblea Pd, nel quale ha annunciato di voler tirare dritto verso il congresso forzando di fatto la scissione, c'è anche tempo e modo per strappare (metaforicamente) la Bandiera Rossa, il celebre inno comunista. Dopo aver ringraziato Walter Veltroni "per essere qui, nei momenti di difficoltà lui c'è sempre stato", parte in quarta: "Vorrei discutere cos'è la sinistra oggi. È di sinistra Teresa Bellanova non per la provenienza che non è la mia ma per l'attenzione agli ultimi. È molto più di sinistra affrontare il tema dei diritti e dei doveri che non crogiolarsi in riferimenti ai simboli del passato. È più di sinistra fare provvedimenti del sociale". Dunque, a conclusione del climax, l'affondo: "Anche se non canto Bandiera Rossa e non parlo di rivoluzione socialista penso che il Pd abbia un futuro che non è quello che altri immaginano". Touché.

Scissionisti Pd, c'è già il nome del nuovo partito. Pd, Michele Emiliano frena sulla scissione: "Non abbiamo ancora sbattuto la porta", scrive “Libero Quotidiano” il 20 febbraio 2017. Un nome per il partito degli scissionisti c'è già: Nuova sinistra-diritti e lavoro. Gira sui foglietti volanti della riunione, convocata alla fine dell'assemblea del Pd tra Michele Emiliano, Roberto Speranza, Enrico Rossi in collegamento telefonico, Nico Stumpo, Francesco Boccia e Dario Ginefra. "Va mantenuto l'impianto di centrosinistra e ulivista", dice Speranza. Il nome, riporta Repubblica, potrebbe anche essere Centro sinistra-diritti e lavoro. Ulivo no, innanzitutto perché c'è il copyright e poi perché dieci anni dopo la caduta di Prodi sarebbe del tutto anacronistico. Certo, Nuova sinistra sembra quasi uno sfottò. Tant'è. Per quanto riguarda i numeri alla Camera vengono dati per sicuri 22 deputati bersaniani in uscita. Ai quali si uniranno i 16 che firmarono per la candidatura di Arturo Scotto alla segreteria di Sinistra italiana. Si arriverà quindi a un gruppo di 38 deputati. Al Senato Scotto non ha truppe. Ma i bersaniani sono tra i 12 e i 15, sufficienti per formare un gruppo autonomo e ottenere i finanziamenti destinati alle forze presenti alle Camere. Gli scissionisti del Pd sono già sul punto di scindersi? Paradossale, ridicolo, eppure è così. Già, perché tra chi si stacca dal Nazareno si comincia a sospettare su Michele Emiliano. Tutta colpa del tentativo di mediazione e dei tentennamenti di domenica, quando all'assemblea del partito ha provato a ricucire in extremis, nonostante le nette chiusure di Matteo Renzi su tutta la linea. Ed Emiliano, a ricucire, ci vuole provare ancora: "Io farò di tutto per evitare la scissione, aspetto fino a domani. La mia porta è sempre aperta, non ho le mani legate", ha affermato. Ed è in questo contesto, dunque, che gli esponenti della minoranza Pd, i bersaniani, che sono i più convinti dello strappo, covano sospetti sul governatore. "Emiliano è capace di tutto, ma se viene meno all'accordo perde ogni credibilità", afferma una fonte che sceglie l'anonimato a Il Messaggero. Un altro ribelle bersaniano argomenta spiegando che il governatore "non va catalogato, non è un politico di professione. Si muove tra i regolamenti, fa giravolte una dopo l'altra, ci possiamo aspettare di tutto". Insomma, gli scissionisti sono già spaccati, così come da miglior tradizione sinistra. E sempre Emiliano, di fatto, conferma il fatto che potrebbe anche evitare lo strappo sempre a Il Messaggero. "Abbandonare il Pd? A certe condizioni". E ancora, aggiunge: "La porta non è ancora chiusa, questo è chiaro, ma se Matteo non risponde, non apre uno spiraglio, non dà un segno di ascolto e di rispetto, non resta nei prossimi giorni che constatare questo atteggiamento e andare via. Se così sarà, è a Renzi che bisogna chiedere perché ha provocato questo". Ma la porta, appunto, non è ancora chiusa.

Silvio Berlusconi e Michele Emiliano, la cena con cui porre le basi per una possibile intesa, scrive “Libero Quotidiano” il 19 febbraio 2017. Nelle ore caldissime che con assoluta probabilità porteranno alla scissione del Pd, il Corriere della Sera rivela un retroscena piuttosto clamoroso. Una cena, alla quale hanno preso parte Silvio Berlusconi e Michele Emilano, uno dei leader della minoranza Pd nonché sfidante di Matteo Renzi per la segreteria. Un incontro al quale il Cavaliere è stato invitato dal governatore della Puglia: invito accettato. Secondo quanto si legge sul Corsera, Berlusconi desiderava sapere se il Pd sta davvero avviandosi alla scissione e avrebbe ottenuto garanzie sulla tenuta del partito. "E comunque non me ne andrò mai", ha detto Emiliano al Cavaliere. Eppure, negli ultimi giorni, la situazione pare essere capitolata: la scissione ci sarà e pure Emiliano potrebbe sloggiare. Resta però la cena. Quell'incontro di Berlusconi con un avversario che lo ha sempre rispettato: "Non l'ho dimenticato", ha affermato il Cavaliere. Per poi aggiungere: "Altri invece mi hanno deluso profondamente". Ogni riferimento a Renzi non è puramente casuale. Frasi precise e studiate, con le quali in un qualche modo sembrano essere state poste le basi per una possibile intesa in caso di necessità, leggasi nuove larghe intese, assai probabili in caso di voto, almeno sondaggi alla mano. Berlusconi, è noto, è pronto al dialogo. Sia che l'interlocutore sia Renzi sia, e soprattutto, se sarà Emiliano. Ma il Cav preferirebbe che il governatore scali il Pd e non se ne vada. La ragione è presto detta: con la scissione della sinistra, Renzi potrebbe ulteriormente spostarsi verso posizioni centriste, sovrapponendosi ulteriormente all'elettorato di Forza Italia.

Tredici partitini ma zero idee Le stelline della galassia rossa non sono d'accordo su nulla. Fratoianni è il nuovo segretario di Sinistra italiana, già Sel E guida un guscio vuoto, unito soltanto dal no a Renzi, scrive Massimo Malpica, Lunedì 20/02/2017, su "Il Giornale". Per dire qualcosa di sinistra contate fino a cinque. Anzi, meglio ancora fino a tredici. La prima cifra fotografa le anime della frastagliata galassia a sinistra del Pd. Al secondo numero, tredici, ci si arriva sommando anche - lo ha fatto ieri Repubblica mappando la nebulosa progressista - le componenti interne ai dem, alcune aggregate semplicemente da separate in casa. Il problema è che, mentre contate, scoprirete di essere i soli. Perché buona parte delle stelline di questa galassia, invece, non conta nulla. Tra scissioni e spaccature, il retaggio del Pci che fu s'è disperso come la molecola di una diluizione omeopatica. E di quest'ultima ha la stessa efficacia terapeutica per gli orfani di Berlinguer. L'ultima «novità» in questo variopinto insieme è l'elezione di Nicola Fratoianni a segretario di Sinistra Italiana, nata dalle ceneri di Sel (di cui il vendoliano Fratoianni era coordinatore) e già pronta a chiudere porte in faccia agli ex compagni che sbagliano. A tracciare la rotta era stato in apertura di congresso Fabio Mussi, sbarrando l'uscio al Pd renziano e strizzando l'occhio a una scissione Dem o almeno a una svolta al congresso. In fondo per Mussi la sinistra è come «un arcipelago». E chi vorrebbe costruire ponti, come l'ex capogruppo alla Camera di SI, Arturo Scotto, si ritrova fischiato e molla la nuova isola appena emersa dalle rosse acque dell'avvenire. Dove andrà? I radar dicono che il porto d'attracco di Scotto e di altri scontenti di Sinistra Italiana sia il «Campo Progressista» di Giuliano Pisapia. Ennesimo scoglio fondato - giura l'ex sindaco di Milano, «per unire» la sinistra. E per farlo la divide un po' anche lui, aggregando nel Campo l'ex Rifondazione e Sel Massimiliano Smeriglio e il leader di Centro democratico ed ex Udc Bruno Tabacci, ma seducendo pure Michele Emiliano. All'ultima presentazione c'era pure la Boldrini che però resta di Sel, cioè di SI, ma intende «fare il possibile per facilitare il dialogo tra le tante anime». Tante. Troppe. Con poche idee per aggregare e molte per dividersi. Spesso ringalluzzite dal «no» al referendum che ha restituito spiccioli mediatici a volti dimenticati. Perché almeno all'appello anti-Renzi rispondono tutti presente. C'è l'eterna Rifondazione Comunista con Paolo Ferrero, c'è Possibile di Pippo Civati, c'è DemA del sindaco di Napoli Gigi De Magistris. E prima di Renzi e dei renziani, c'è ancora un lungo elenco. A cominciare dal ConSenso dell'autoriciclato D'Alema fino al Campo aperto di Gianni Cuperlo, ieri all'attacco di Renzi. E poi i Democratici socialisti con Bersani, Rossi, e il quasi ex renziano Emiliano che puntano a scalare il partito, i Giovani Turchi, l'Area Dem di Franceschini e il Movimento lombardo del Pd che si esercitano in distinguo. Una raffica di sigle, una carrellata di leader più o meno improbabili. E poche idee al di là del no a Renzi.

Il "nuovo" della fronda Pd: Bandiera rossa e Ottocento. Tanta nostalgia e slogan riesumati dal passato alla kermesse degli scissionisti, niente bandiere Dem, scrive Domenico Di Sanzo, Domenica 19/02/2017, su "Il Giornale". «Bandiera rossa la trionferà, evviva il socialismo e la libertà». Roma, Italia, 19 febbraio anno 2017. L'evento della minoranza PD dal titolo eloquente di «Rivoluzione socialista» comincia così. All'ormai ex rottamatore fiorentino Matteo Renzi, la sinistra dem oppone i «tre tenori» Enrico Rossi, Michele Emiliano e Roberto Speranza. Restauratori del socialismo. E sono loro stessi a rivendicarlo con orgoglio. Comincia il governatore della Toscana, organizzatore dell'incontro e autore di un libro intitolato proprio Rivoluzione socialista: «Il nostro nemico è la destra» e giù applausi dalla platea, composta per lo più da sessantenni. Rossi, anche se in giacca e cravatta, si traveste da rivoluzionario: «Noi abbiamo bisogno di un partito partigiano, che stia dalla parte dei lavoratori. Il Pd sta scontando troppa contiguità e vicinanza con i potenti, se esalti Marchionne non puoi aspettarti il voto del precario». Anche se di giovani precari e popolo dei «voucher», altro tema molto in voga, se ne vedono pochi. Ad abbassare un po' la media dell'età c'è solo una piccola delegazione di Giovani Democratici, con barbe da hipster e maglioncino «alla Marchionne». Non ci sono bandiere del Pd, ad eccezione di un gruppetto di renziani, che si definiscono «responsabili», arrivati da Pontassieve, il paese dell'ex premier, per «ricucire lo strappo». Ma per loro al Teatro Vittoria di Testaccio non c'è posto. E infatti restano fuori. Dentro, intanto, continua la rievocazione del socialismo ottocentesco. Rossi vuole sconfiggere il «capitalismo parassitario» e parla di «critica razionale al capitalismo». Poi arriva Roberto Speranza che, tra una minaccia di scissione e l'altra, corteggia sindacalisti e insegnanti: «Bisogna ricomporre la frattura con il mondo della scuola e dialogare con la Cgil». Di professori sessantottini e iscritti al sindacato «rosso» nel pubblico ce ne sono tanti. Il deputato lucano confessa, suo malgrado, di «aver ricevuto anche lui una telefonata da Renzi», e subito si agita un militante: «Che t'ha detto Matteo?», urla. Il pantheon dei «socialisti rivoluzionari» riuniti al Teatro Vittoria è vasto. Vengono proiettate immagini della Resistenza, del '68, delle proteste antirazziste in America. Oltre ai classici della sinistra italiana, primo fra tutti l'intramontabile Enrico Berlinguer, gli oratori citano Nelson Mandela, Rosa Parks e Papa Francesco. In Europa, oggi i riferimenti sono il candidato dei socialisti alle prossime presidenziali francesi Benoit Hamon e il laburista britannico Jeremy Corbyn. Lo spauracchio vero, però, è il presidente degli Stati Uniti Donald Trump: «Esempio di una destra che è pronta a raccogliere consenso sfruttando e manipolando quel disagio che ha creato lei stessa». E Renzi diventa un «neoreaganiano», di destra pure lui. Il più adorato dal popolo di questa «nuova» sinistra è invece il governatore della Puglia Michele Emiliano. L'ex magistrato, da battutista consumato, esordisce scusandosi per «essere stato un sostenitore di Renzi». Emiliano scatena l'applauso più forte di tutti quando dice: «Di fronte a una situazione molto meno grave di quella in cui si trova oggi Matteo Renzi, Pier Luigi Bersani si è dimesso e ha consentito al partito di superare le difficoltà». Compagni in visibilio e Bersani costretto ad alzarsi per salutare. Accanto a lui impassibili Guglielmo Epifani e Massimo D'Alema. Tutti e tre ormai «padri nobili» della cosa socialista. Sale sul palco un operaio della Luxottica di Settimo Torinese: «Mi stupisce che ancora ci siano gli operai». Al solo pronunciare la parola tutti si scatenano. Grigorij Filippo Calcagno, 20 anni, segretario dei Giovani Democratici di Modena parla con passione di «uguaglianza, sinistra e socialismo». Il suo idolo? Enrico Rossi «il Bernie Sanders italiano». In fondo, ci si accontenta di poco.

Ladri di politica, scrive il 18 febbraio 2017 Alessandro Gilioli su "L’Espresso”. Non so se è solo mio o di pochi - o invece è diffuso - il senso di attonito straniamento rispetto allo spettacolo offerto in quest'ultima settimana da quelle parti politiche che erano nate (o almeno dicevano di essere nate) per rappresentare, in Italia, la parte più bassa e numerosa della piramide sociale: i ceti poveri, quelli impoveriti, quelli fragili, quelli sommersi dalla velocità e dalla voracità del capitalismo più recente. Attonito straniamento non solo rispetto al Pd - e alle sue improbabili, impresentabili, inguardabili cordate di potere - ma più in generale rispetto a tutto o quasi il teatrino che ci sta attorno, comprese le sinistre più o meno "radicali" che si accoltellano intorno alla questione se si può essere più o meno alleati di un altro partito in cui nel frattempo ci si accoltella attorno ad antiche oligarchie spodestate e a ex spodestatori già rampanti ma precocemente invecchiati nel somigliare alle stesse oligarchie che avevano spodestato.

E in tutto questo, niente di reale: niente che somigli a questioni vere, alla società fatta a coriandoli, al 'tutti contro tutti' diventato cifra del nostro vivere quotidiano, alle persone che a milioni hanno perso identità e prospettive, ideali e tranquillità. Che hanno perso allo stesso tempo l'oggi, il domani e il dopodomani. E sono rimaste sole. Sono rimaste sole perché c'è un dentro - i partiti, le loro surreali lotte intestine, i loro esponenti che si insultano sui media - e c'è un fuori, dove si parla d'altro e si teme altro, e si guarda a quei partiti come se fossero tutti alieni, pazzi, o tutt'al più appunto teatranti, intrattenitori. Che litigando ci fanno distrarre dalla nostra vita vera, dai nostri problemi veri, dal nulla in cui siamo stati cacciati. Dentro, ci sono i pochi tifosi di questo o di quello: con la giugulare gonfia e l'insulto rapido, con le proprie ragioni di setta e i propri amori tribali, con il proprio capo di riferimento che rappresenta da solo il bene e il giusto. Fuori, ci sono tutti gli altri: spaesati, stanchi, disillusi, distaccati, indifferenti, malfidenti, distratti. Alcuni - pochi - incazzati, come me: e timorosi che appena l'orchestrina finisce il concerto, lì sul Titanic, ci sarà da ammazzarsi per salire sulle scialuppe. Ma molti di più sono semplicemente i lontani, i lontanissimi da chi è rimasto dentro a parlarsi addosso. Poi finirà, in qualche modo. E "passerà questa pioggia sottile, come passa il dolore". Resta ancora da capire, però, cosa resterà dopo. Se le macerie renderanno fertile il terreno o se al contrario nulla vi crescerà più per anni. Se avrà di nuovo senso la politica come strumento per immettere buone cause nel reale e provare a creare valore nel mondo o se al contrario la politica ci sarà stata derubata irreversibilmente.

La sinistra vive di scissioni. Possibile, Dema, Sinistra Italiana, Campo progressista e ora il partito dei bersanian-dalemiani. Ecco tutte le scissioni che ha subìto il Pd, scrive Francesco Curridori, Giovedì 16/02/2017, su "Il Giornale". Pci-Pds-Ds-Pd a sinistra, Rifondazione-Pdci-Sinistra Arcobaleno-Fds-Sel-Si ancora più a sinistra. Nel corso degli ultimi 20 anni il centrosinistra italiano ha conosciuto più partiti che nei primi 50 anni di storia repubblicana. L’uscita dal Pd di Pier Luigi Bersani e della sinistra dem rischia di creare una frattura ben più importante della scissione di Palazzo Barberini dal Partito Socialista Italiano attuata da Giuseppe Saragat. Oggi ‘burattinaio’ dell’operazione è Massimo D’Alema, ex presidente del Consiglio ed ex segretario del Pds/Ds, il più feroce oppositore di Matteo Renzi. D’Alema, prima ha fondato i comitati del No al referendum e, poi, ha giurato: “Quando finisce questa campagna elettorale tornerò pienamente al mio lavoro, quello di presiedere la Fondazione culturale dei Socialisti europei a Bruxelles e quindi non mi occuperei della politica italiana". Ma si sa, i leaders della sinistra fanno promesse da marinaio. Anche Renzi aveva giurato più volte: “Se perdo il referendum, mi ritiro dalla politica” e, molto prima di lui Walter Veltroni con l’indimenticabile: “Quando smetto con la politica, vado in Africa”. Ora, invece, Renzi sta preparando la sfida all’Ok Corral con la minoranza e Veltroni, primo segretario del Pd, alquanto preoccupato, è intervenuto sul Corriere della Sera: “L’idea di dividersi è un incubo”. Eppure la scissione è dietro la porta, anzi per Bersani “è già avvenuta”, con gli elettori in occasione del referendum. Renzi sembra essersi rassegnato. “Non si fa una scissione sulla data del Congresso”, ha commentato in questi giorni. E, infatti, la rottura ha ragioni ben più pragmatiche e profonde. Da un lato la minoranza non ha un candidato unitario da contrapporre in così breve tempo a Renzi e dall’altro ha vissuto la sua segreteria come un’anomalia. A parte la parentesi di Dario Franceschini che nel 2009 ha svolto il ruolo di reggente dopo le dimissioni di Veltroni, il Pd non è mai stato guidato da un ex margheritino e la componente ex diessina ha sempre dettato la linea. E ora, se Renzi dovesse rivincere il Congresso, con l’attuale legge elettorale si troverebbe ridimensionata perché spetterebbe al segretario decidere le candidature e capilista bloccati. Ecco dunque la necessità della minoranza dem di uscire dal Pd e sperare, come ha detto D’Alema, di raggiungere quel 10% che, grazie a una legge proporzionale, consenta ai vari Bersani, Speranza ed Emiliano di avere rappresentanza in Parlamento. I numeri dicono che chi si è separato dal Pd, come Francesco Rutelli con la sua Api, non ha avuto grande seguito e che la sinistra radicale non supera il 5% dal lontano 2006. Sinistra Italiana, il soggetto politico che doveva servire per unire i vendoliani di Sel con i fuoriusciti del Pd, si sta dividendo ancor prima di essere nata. Il capogruppo alla Camera, Arturo Scotto, è pronto ad abbandonare l’intransigente Nicola Fratoianni per seguire il progetto di Giuseppe Pisapia del “Campo progressista” che guarda al Pd. Sarebbe da smemorati, poi, non citare ‘Possibile’ di Pippo Civati e il movimento Dema, Democrazia autonoma del sindaco Luigi De Magistris che nasce dalle ceneri del Movimento Arancione. In questo contesto nascono spontanee alcune domande. Come può il Pd possa risollevarsi se rielegge Renzi, il segretario che si è dimesso da premier dopo aver perso un referendum costituzionale 60 a 40? E come può un Bersani riproporsi agli italiani dopo che, all’indomani delle elezioni 2013, aveva commentato: “Siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto"? E chi può tenere insieme Enrico Rossi, Michele Emiliano, Pisapia, Civati, De Magistris, Stefano Fassina e Fratoianni? In attesa di una risposta, siamo certi che arriverà prima una nuova scissione…

Tra sigle e scissioni, la storia della sinistra lunga un secolo. Dal primo Partito socialista a Sinistra ecologia e libertà, ripercorriamo nascita e divisioni di tutti i soggetti che hanno scritto la storia della sinistra italiana, scrive "Il Corriere della Sera" il 17 febbraio 2017.

1. Il primo Partito socialista (1892). La storia della sinistra italiana è ricca di esperienze, di nascita di nuovi soggetti come di scissioni e di spaccature. Proviamo a ripercorrere le principali vicende con i simboli dei partiti che si sono affacciati sulla scena politica nazionale. Il Partito socialista è la prima formazione organizzata della sinistra in Italia. Viene fondato a Genova e nel 1895 assume la sigla di Psi. Il fascismo nasce ufficialmente il 23 marzo 1919 a Milano. Benito Mussolini, ex dirigente del Partito Socialista Italiano e convertito alle idee del nazionalismo e della prima guerra mondiale, riuscì a fondere la confusa congerie di idee, aspirazioni, frustrazioni degli ex combattenti reduci dalla dura esperienza della guerra di trincea, in un movimento politico che all'inizio ebbe una chiara ispirazione socialista e rivoluzionaria che subito si contraddistinse per la violenza dei metodi impiegati contro gli oppositori.

2. Il Partito Comunista Italiana (1921). A Livorno la corrente rivoluzionaria del Psi, insoddisfatta per l’esito del congresso, lascia l’organizzazione e fonda il Partito comunista italiano.

3. Partito socialdemocratico (1947). La corrente moderata del Psi guidata da Giuseppe Saragat, in polemica con la linea di collaborazione con i comunisti, fonda il Partito socialdemocratico.

4. Partito socialista di unità proletaria (1964). Dopo i fatti di Ungheria (1956) i rapporti tra Psi e Pci peggiorano. I socialisti filo Pci fondano il Partito socialista di unità proletaria.

5. Partito di unità proletaria (1974). Nel Partito di unità proletaria per il comunismo confluisce il gruppo del Manifesto (radiato dal Pci) e altre sigle dell’estrema sinistra.

6. Partito democratico della sinistra (1991). A febbraio il Pci, sotto la guida di Achille Occhetto, si scioglie per dare vita a un nuovo partito di orientamento socialista e democratico, il Pds.

7. Rifondazione comunista (1991). I contrari alla fine del Pci, insieme ad altre sigle della sinistra radicale, a dicembre varano il Partito della rifondazione comunista.

8. Democratici di sinistra (1998). A febbraio il Pds e altre sigle di ispirazione socialista, cristiano sociale, comunista e repubblicana, danno vita ai Democratici di sinistra.

9. Comunisti italiani (1998). Una parte di Rifondazione comunista, favorevole al governo Prodi, rompe con il resto del partito e fonda in ottobre i Comunisti italiani.

10. Partito democratico (2007). Dalla fusione di Ds e Margherita (la sigla che aveva raccolto la tradizione della sinistra Dc) nasce con le primarie il Partito democratico.

11. Sinistra ecologia e libertà (2009). L’unione di Sinistra democratica, ex Ds contrari alla nascita del Pd, con un gruppo fuoriuscito da Rifondazione dà vita a Sel.

In vita e in morte del Partito democratico. La sola domanda che ci faremo dopo questo brutto film sarà: “Mentre il mondo esplodeva, di che cosa parlava la sinistra italiana?” Scrive Tommaso Cerno il 17 febbraio 2017 su “L’Espresso”. Partiamo da una citazione talmente celebre che finisce per essere sottovalutata, fino a quando - a forza di provarla sulla nostra pelle - si dimostra l’archetipo dell’essere italiano. Nel Principe, Nicolò Machiavelli scrive che il successo di un regnante - si direbbe oggi di un leader - dipende per metà dalla fortuna e per metà dalla virtù. Significa che non c’è al comando mai la pura casualità, né la pura follia, né la pura capacità. Quel che sta succedendo al Pd è, dunque, l’epilogo di una storia. Cominciata con una classe dirigente inadeguata, simboleggiata dalla figuraccia di Pier Luigi Bersani alle politiche 2013. E terminata con una classe dirigente altrettanto inadeguata. Simboleggiata da un Matteo Renzi irriconoscibile. E dalla nostra copertina che incide la data di nascita e di morte non della sigla “Pd”, ma del sogno che essa aveva animato. Perché il Partito democratico non perde elettori o dirigenti, cosa che capita in politica, ma perde peso e credibilità agli occhi di tutta la parte laica e progressista del Paese. Si scioglie nell’anima, non nella struttura. Poco importano le beghe fra correnti e la frattura, prima personale e solo poi politica, che si sta rapidamente consumando in queste ore, di fronte a ciò che resta: “Il fu Partito democratico”. Da quel 2007 a oggi sono passati dieci anni. E ora sappiamo che, comunque vada, ciò che uscirà dal congresso non è più ciò che ci era entrato: il Pd come l’avevamo conosciuto. Sulla crisi dei democratici è stato scritto e detto di tutto. Politologi, militanti, blogger, editorialisti e mezzi busti da talk show. Eppure c’è qualcosa di atavico, qualcosa di interiore di cui ti vergogni, c’è un riflesso automatico che cerchi di occultare e che invece si manifesta più nitido di tutto. Quando, fra dieci anni, lontani dai riflettori e dalle polemiche della cronaca, fuori dai tatticismi e dalle giravolte politiche, analizzeremo questo momento storico, dove sta cambiando “l’uomo” e il suo modo di stare al mondo, ci chiederemo: di cosa stava discutendo la sinistra italiana? Di cosa, mentre milioni di donne e uomini urlavano la propria rabbia e il proprio no al modo in cui abbiamo concepito la politica dalla caduta di Hitler e Mussolini in poi? Di cosa lor signori mentre un miliardario saliva sull’Air Force One con il plebiscito della classe più povera d’America? E di cosa mentre nel cuore dell’Europa democratica risorgevano gli spettri del nazionalismo e della xenofobia? Di mozioni, tessere, conferenze programmatiche, regole, documenti fotocopia e ancora mozioni. Di nulla. la parola d’ordine che nel 2007 aprì al sogno di una sinistra maggioritaria nel segno del Pd era “fusione”. A freddo magari. Tenuta insieme con lo scotch dell’antiberlusconismo, se vogliamo. Ma adesso la parola più pronunciata a sinistra è diventata “scissione”. Non è un caso. È un’inversione di polarità, un ribaltamento del processo culturale che ha tentato di archiviare le vecchie ideologie e di traghettare il cattolicesimo sociale e l’ex comunismo, pentito, nel socialismo europeo. E invece niente. Renzi sì, Renzi no, prigionieri di un referendum interiore che condanna la sinistra a perdere per i prossimi anni le elezioni. A vantaggio, deciderà il Paese, di un grillismo che - nemesi vuole - nasceva proprio nello stesso anno del Pd, nel 2007, con un grido “Vaffa” che si sta mutando in desiderio di governo. Dentro un processo, pur incidentato, di parlamentarizzazione che va nella direzione opposta ai democratici di nome, ma non di fatto. Oppure alla destra neo-berlusconista, guidata da chi saprà mostrarsi a ciò che resta del Cavaliere quel modello di “italiano medio” che Berlusconi, piaccia o no, ha saputo decifrare meglio del campo avverso. Diverte che in questa Chernobyl politica ci si diletti con le virgole e gli apostrofi. Diverte che la domanda sia: quanto durerà il governo? Come se un brutto film fosse più o meno brutto perché dura un quarto d’ora in meno o venti minuti in più. Nello spettatore elettore, ciò che lascerà sarà il medesimo senso di estraneità, di fastidio, di lontananza. E alla domanda: quanto è durato? La risposta sarà: che me ne importa. Ma la sinistra no. Lei sa come si fa. Sa ripetere il mantra dei tempi nuovi, quello che dice «dobbiamo ritrovare la fiducia dei nostri elettori, dobbiamo parlare a quella gente che ci ha voltato le spalle». Retorica. E pure di bassa lega. La verità è che l’Italia, soprattutto la sinistra italiana, vive un eterno 8 settembre. Abbiamo dentro l’archetipo che demolisce ogni progetto includente. Non possediamo l’anticorpo del governo. Quello che consente di distinguere fra un’idealità che deve volare sempre più alta e la responsabilità del compromesso, tale solo in virtù di un fine, chiudendo sulla citazione machiavellica: materializzare (almeno in parte) le promesse fatte.

Una questione di potere, scrive Michele Serra il 18 febbraio 2017. La grande speranza della sinistra post comunista, dalla Bolognina in poi, era che la morte dell'ideologia avrebbe reso più viva la politica. Più viva e più libera di abbracciare la realtà, di assomigliare alle persone e alla società così com'erano, di unire e di dividere non più sulla base delle differenti appartenenze, ma delle battaglie da fare. L'attuale crisi del Pd, forse sull'orlo del suo dissolvimento, non è grave perché mette a rischio le sorti di questo o quel gruppo dirigente, o addirittura quelle del partito stesso: i leader passano, i partiti anche, e perfino per i litigiosi eredi della grande tradizione comunista e cattolico-popolare vale il cinico ma salvifico detto "chi muore giace, chi vive si dà pace". La crisi del Pd è grave perché, con tutta la buona volontà, non si riesce a leggerla in chiave di autentico scontro politico, cioè di un conflitto provocato da visioni inconciliabili della società, dell'economia, dei diritti e dei doveri, degli interessi da tutelare e di quelli da combattere. E dunque il Pd minaccia di certificare, nella sua maniera al tempo stesso rissosa e impotente, che la grande speranza della Bolognina era in realtà una grande illusione. Alla morte dell'ideologia ha fatto seguito, a sinistra, anche la morte della politica, almeno della politica intesa come comprensibile e appassionante tentativo di interpretare la realtà e di modificarla. Al suo posto uno scontro di potere che riesce a stento, e forse solo per mantenere il decoro, a contenere qualche riverbero di politica vera (la disputa sui voucher? Ovvero su meno del due per cento del totale delle retribuzioni? Esiste al mondo un partito di massa disposto a spaccarsi su una questione del genere?); ma quel riverbero è così tenue da non riuscire a illuminare il clima da tragedia shakespeariana che occupa la scena, e del quale il pubblico riesce a intendere le minacce e i gemiti, non certo la sostanza drammaturgica. È una trama che sfugge. Una trama che appartiene solo agli attori, non agli spettatori. È una situazione - quel clima cupo, quell'astio, quel non parlarsi e "non telefonarsi" (Delrio) - che lascia di stucco i milioni di elettori che al Pd, nonostante tutto, fanno riferimento; ma quel che è peggio pare ingovernabile perfino dai suoi stessi artefici, non uno dei quali è riuscito, fin qui, a dare una spiegazione "popolare", ovvero comprensibile al grosso dell'opinione pubblica, di quanto sta accadendo sul piano delle scelte politiche, visto che su quello del potere (Renzi sì, Renzi no) tutto è fin troppo chiaro. Stucchevolmente chiaro. Ha ragione dunque Gianni Cuperlo, uno dei (pochi) leader che ha dato l'impressione di anteporre ai conti personali quelli con la comunità nazionale: la posta in palio è "mandare all'aria un quarto di secolo", l'intera storia della sinistra italiana dalla Bolognina fino ad oggi, dalla data di morte della ragione ideologica sacrificata nel nome della ragione politica che avrebbe dovuto prenderne il posto. A giudicare dall'attuale evanescenza della ragione politica, viene da immaginare la piccola vendetta postuma di chi riteneva l'ideologia la sola vera struttura portante di un partito di massa. Resta comunque una soddisfazione di stretta minoranza. Per la grande maggioranza degli italiani interessati alle sorti di quel campo politico il problema sta diventando ben altro. Il problema è cominciare a fare i conti - per la prima volta con una evidenza così spietata - non più con la morte dell'ideologia, ma con quella della politica. La politica come un libro da chiudere perché leggerlo è diventato troppo ostico e troppo diverso da quello che era stato per i padri e nonni, fonte di passione e di sacrificio, di errori magari tremendi ma quasi mai dettati da calcoli personali. Già oggi l'enorme serbatoio dell'astensionismo trabocca di ex elettori di sinistra. La classe dirigente del Pd e per primo - ovviamente - il segretario politico Matteo Renzi, nelle prossime ore e nei prossimi giorni, mettano nel conto anche questa possibilità, molto realistica: l'insignificanza politica come prodotto della modestissima significanza delle loro lotte intestine. Un sacrificio rituale come fu quello della Bolognina (cambiare il nome per cambiare politica) può essere spiegato e metabolizzato, compreso il prezzo di una scissione della quale nessuno poté dire: non si capisce il motivo. La morte dei Pci fu, lei sì, un dramma storico in piena luce e a piena voce. Nessuno, a sinistra, se ne poté sentire escluso. Che ne possa sortire, un quarto di secolo dopo, questa rissa senza una vera regia, senza un vero copione e soprattutto senza pubblico, è veramente impressionante. La risposta al populismo è l'impopolarità?

Comunismo, quanto sei cambiato. A cent’anni dalla caduta del Palazzo d’Inverno l'ideologia della rivoluzione russa subisce profonde mutazioni. Scopre la democrazia, conquista studiosi. Ma al convegno per l’anniversario gli oratori sono sempre gli stessi, scrive Stefania Rossini il 15 febbraio 2017 su "L'Espresso". Lo spettro che da tanto tempo si aggira per l’Europa e che esattamente un secolo fa si era fermato nella lontana Russia per rimanerci settant’anni, snaturando se stesso e le sue istanze di emancipazione e libertà, non ha ancora trovato pace. Il suo nome, Comunismo, che suscitò tante speranze e impose tante delusioni, è oggi diventato quasi un insulto, ridotto a una variante del totalitarismo e pronunciato con il disprezzo che si dedica agli sconfitti. Eppure lo spettro non si dà per vinto e in questo inizio 2017, dominato da tentazioni autarchiche e autoritarie, si affaccia di nuovo senza timidezze nelle commemorazioni di quell’Ottobre rosso di cent’anni fa che sconvolse davvero il mondo. È, ovviamente, un comunismo diverso da quello duro e intransigente che mirava alla dittatura del proletariato. Oggi rispetta la democrazia, anzi corre in suo soccorso, si mischia con il femminismo e con le battaglie delle minoranze, esalta il primato delle differenze, trova il suo spazio in un mondo del lavoro completamente nuovo, parla di desiderio, di estetica e di «sviluppo libero delle individualità». Quasi a voler richiamare, con l’esperienza dei tempi mutati e degli smacchi subiti, quella stagione breve e fulminante seguita alla rivoluzione di ottobre, che suscitò l’entusiasmo delle migliori menti creative dell’epoca. Ha dei portavoce di prestigio internazionale come i francesi Etienne Balibar e Jacques Rancière o come lo sloveno Slavoj Žižek, ma lo zoccolo duro della riflessione teorica e della proposta politica è ormai da tempo tutto italiano. Sì, italiano, anche se può sembrare strano a chi è abituato a declinare il comunismo negli infiniti settarismi dei partitini di sinistra che ora si scindono e ora si ricompongono. O a chi l’ha visto spegnersi nelle dichiarazioni di quegli esponenti del vecchio Pci che assicurano di non essere mai stati veramente comunisti. Il primato italiano è sancito persino da una definizione, "Italian Theory", che va per la maggiore nelle più importanti università americane, le stesse dove per decenni aveva regnato la "French Theory", che aveva reso gigantesche le icone di Michel Foucault, Jean Braudillard e Jacques Derrida. Sarà un po’ per moda, sarà un po’ per i vezzi radicali di Yale e di Harvard, ma ormai sono gli italiani a dominare la scena, con libri e convegni che valorizzano soprattutto l’elaborazione teorica di radice operaista, quella che a partire dagli anni Novanta ha discusso di intellettualità di massa, di lavoro immateriale, dei nuovi modi di produrre, di globalizzazione, di moltitudini, di biopolitica. Tutti argomenti «per afferrare il proprio tempo con il pensiero» secondo il compito che Hegel attribuiva alla filosofia, è stato detto in uno di quei convegni. Un successo crescente a cui ha dato slancio la trilogia di Toni Negri ("Impero", "Moltitudine" e "Comune"), pubblicata in inglese tra il 2000 e il 2010 con l’allievo statunitense Michel Hardt che ha contribuito non poco a sciogliere un linguaggio specialistico in una narrazione più chiara. Gli altri nomi sono quelli di Paolo Virno, in realtà il primo a rompere il monopolio americano dei post-strutturalisti con "Radical Thought in Italy" scritto con Hardt già nel 1996; di Maurizio Lazzarato, il cui saggio, "Il governo dell’uomo indebitato" (Derive e approdi, 2013) ha fatto molto discutere anche in Italia; di Christian Marazzi, di Sandro Mezzadra, di alcuni altri e anche di Roberto Esposito, nome di spessore della filosofia italiana, che operaista non è, ma è l’ideatore del concetto di "Italian Theory" che estende indietro nei secoli, staccandola dalla tradizione europea per restituirla alla sua originale irregolarità. Il comunismo è comunque per tutti i post-operaisti, presenti o no nel pantheon dei radicali americani, non un residuo del secolo breve da dimenticare, ma uno strumento vivo per cercare di cogliere un presente sempre più mobile. Comunismo, dice oggi Negri «è appropriarsi della natura e produrre vita», e aggiunge: «Non sono comunisti quelli che invocano la violenza e concepiscono la lotta di classe come guerra, lo sono quelli che trasformano la cooperazione produttiva in contropotere politico». Il comunismo, dice oggi Franco Piperno «è un’attitudine umana che si ritrova ben prima di Marx. Sa conservare le differenze mentre l’uguaglianza è un prodotto della rivoluzione borghese, per cui se tu hai la stessa somma di denaro sei uguale a un altro perché puoi comprare le stesse merci». «Con questo allontanarsi della sinistra dal comunismo, e viceversa, la sinistra è diventata strumento ipocrita di un potere sempre più torvo», dice invece Franco Berardi, detto Bifo fin dagli anni Settanta, che da tempo insegue mete più creative e personali. Li guarda, ormai più perplesso che interessato, il grande vecchio dell’operaismo italiano, quel Mario Tronti che alla fine degli anni Sessanta accese gli animi e spronò gli spiriti con un saggio, "Operai e capitale", carico di concetti forti e di prosa sentimentale. E che oggi, dagli scranni del Senato, vota con rassegnata disciplina tutte le proposte del Pd renziano. Ma anche lui, come tutti gli altri, non ha mancato di essere presente alla "Conferenza sul comunismo", il grande meeting che si è tenuto a Roma nelle settimane scorse, che ha attirato migliaia di giovani attivisti da tutta Europa, dalle Americhe e persino dall’Australia per ascoltare decine di studiosi e teorici. A loro Tronti ha presentato la sua dolente riflessione sulla sconfitta dell’idea comunista, non più capace, a suo parere, di interpretare il presente, perché declinata in modo plurale e non organizzato. «Il comunismo è Lenin. Punto», ha detto pacatamente. Ma forse non si è accorto che da queste parti il comunismo è ormai un concetto quasi pop, dove alla pari con i problemi del lavoro frantumato, del capitale finanziario e dell’eventuale progetto politico vivono molte altre cose, legate ai gusti e alle inclinazioni di ognuno. Non a caso il termine più inflazionato è stato "soggettivazione". Lo hanno capito benissimo invece quanti sono passati dalla sala dei dibattiti alla Galleria Nazionale d’Arte moderna che, sotto il titolo "Sensibile comune", ha ospitato workshop, opere, film, dipinti, performance, discussioni e persino esperienze sensoriali, come quella del vino naturale. Qui anche Pellizza da Volpedo non è più lo stesso, e al posto del "Quarto Stato" con i lavoratori in marcia per i propri diritti, c’è il suo "Prato fiorito", con bambini che giocano in lietezza tra le piante. Qui Franco Piperno si è presentato con la sua "soggettività" di fisico per una lezione di astronomia sulla volta celeste, rivelando, tra l’altro, che a causa dei movimenti terrestri anche il cielo non è più quello di una volta e siamo tutti nati sotto il segno zodiacale precedente a quello dato certo per tradizione. L’accento teorico sul comunismo "sensibile", che ha cominciato ad affacciarsi negli anni Novanta, è imposto peraltro dal fatto che il lavoro posfordista, mobile e non più legato alla ripetitività, porta con sé gusti estetici, tonalità emotive, esperienza di vita. «È impossibile, per esempio, lavorare in call center se non conosci almeno un po’ le modalità retoriche», spiega Virno. Insomma questo inizio di centenario ci mostra una presenza rinnovata o, come dicono i più convinti, una necessità obbligata di comunismo. Se ne parlerà a lungo nel corso di un anno di commemorazioni. Ha già cominciato il settimanale tedesco "Zeit" che dedica la sua ultima copertina a Marx, anche se convinto soltanto in parte che il filosofo di Treviri avesse davvero ragione. Ma di fronte all’evidenza di una classe operaia tedesca precarizzata e atomizzata che ormai vota tutta a destra, le resistenze si piegano alla necessità e il giornale propone di tornare a studiare Marx e ad apprezzarlo come analista ed economista. E questo, dicevamo, è solo l’inizio.

Papà e mamma diventarono comunisti per sete di vendetta, scrive Carola Susani il 12 Febbraio 2017 su "Il Dubbio". Massimo Picchianti nasce comunista, in un villino di ferrovieri a Porta latina, le immagini di Lenin e di Stalin alle pareti. Negli anni Sessanta studia all’università di Mosca e matura il suo distacco dal comunismo, la sua critica verso il Pci e i comunisti italiani. Da quel momento, traduce, scrive articoli, sostiene i dissidenti. Parlare ad alta voce delle oscurità sovietiche, delle opacità dei nostrani sostenitori dell’URSS, diventa la forma stessa della sua vita. Amiamo legare la storia collettiva e la storia di chi la attraversa: per ricordare il 1917, l’anno delle rivoluzioni in Russia che tanto peso avranno nel novecento, da febbraio a ottobre, una volta al mese per nove mesi, racconteremo la sua storia. Quando ci incontriamo, a Parigi in un caffè di fronte a Parc Montsouris (il parco dove anche Lenin andava a passeggiare), Massimo zoppica, scoprirò che zoppica per via di un incidente russo. “Io sto qui, ci sono”, mi spiega, “per via di una catena di avvenimenti. La vita mia è legata alla Russia, se non ci fosse stata la rivoluzione russa di febbraio 1917, se la Russia in guerra non si fosse indebolita liberando i tedeschi dalla necessità di tenere su quel fronte grandi masse, se i tede- schi non avessero mandato truppe sul Carso, vent’anni dopo io non sarei neanche nato”. Non c’è vita che non sia legata a doppia mandata con la storia grande, anche nell’incoscienza di chi la vive, ma in quella di Massimo il legame è sempre in vista, hai l’impressione che lui non smetta di osservarlo. C’è una foto, l’ha scattata Ekaterina Nechaeva, bizantinista e fotografa russa, si chiama Ritratto di romano: Massimo taglia una forma di pane. Il chiaroscuro ne fa una figura monumentale. Per via di quella luce, del taglio di capelli, sembra un antico romano. Nella realtà Massimo è un romano per niente antico, più giocoso, sornione, iroso magari, sopra le righe, provocatorio, mai veramente severo. Parla della rivoluzione russa di febbraio, della speranza nella fine della guerra che accese in tutta Europa, delle sconfitte russe sul fronte. Per i suoi genitori, mi racconta, come per molti, la scelta di diventare comunisti ebbe come incubatore la prima guerra mondiale. “Immersi in quella carneficina, quando ne sono venuti fuori sono diventati comunisti”. Sua madre, Dora, era di Fagarè, una frazione di San Biagio di Callalta, in provincia di Treviso, un villaggio, a due passi dal Piave. A Fagarè c’è un ossario con un monumento ai caduti completato nel 1937. La prima guerra mondiale arrivò a Fagaré dopo la rotta di Caporetto. “Mia madre me l’ha raccontato prima di morire, in dialetto stretto di quell’epoca. La sua era una famiglia di piccoli proprietari, avevano un pezzo di terra, ne affittavano un altro perché non bastava. I figli erano quattordici, Dora era la più piccola. Erano anche artigiani: costruivano strumenti da lavoro, giocattoli in legno, li vendevano alle fiere. Era una famiglia molto cattolica, mia madre era molto presa dalla religione. Possedevano dei cavalli. Lei da ragazzina li cavalcava. Ancora dal suo letto d’ospedale, li chiamava per nome. Per come li evocava, quei posti prima della guerra sembravano idilliaci. L’ansa del fiume, l’erba bagnata, i canali dove si immergevano i salici piangenti, gli uccelli migratori che si alzavano in volo. E lei sulle rive: una bambina a cavallo. I nomi dei fiumi nel dialetto di mia madre erano al femminile, il Piave era la Piave. Poi con la guerra, con la propaganda il nome si italianizzò, la Piave diventò maschio. La guerra si combatteva per Trieste. Ma Trieste prima della guerra era un porto pieno di gente che veniva da ogni posto, una città ricca, quasi fantastica per mia madre”. Anche se era in Austria, gli italiani, i regnicoli li chiamavano, ci andavano a lavorare: le ragazze a far le domestiche, i braccianti a costruir strade, ferrovie. Poi nel 1915 con la guerra tutto finì, i regnicoli vennero mandati via. La stella di Trieste si spense.

Dopo Caporetto, nel tardo autunno del 1917, masse di gente disperata arrivano al Piave: sono soldati in fuga dopo la rotta, è la ritirata, sono civili che abbandonano le case e i campi, sono sfollati in un inverno freddissimo. L’anno dopo, nel giugno del 1918 la cosiddetta battaglia del Solstizio investe San Biagio di Callalta. Per Dora si frantuma tutto insieme: l’infanzia, l’immobilità di un’esistenza apparentemente al riparo dalla storia, la fiducia in un Dio buono. Ha sedici anni, e quello che vede non se lo dimentica. “Il ponte era stato fatto saltare, come sempre fanno gli eserciti per bloccare il passo al nemico. Ma lei racconta soprattutto dei cavalli. Avevano portato via i cavalli, li avevano confiscati per mandarli in guerra. Quando c’è stata la battaglia, i cavalli sono morti. C’era una masseria che era stata trasformata in un posto di primo soccorso, mia madre andava lì a dare una mano. Mi raccontava di un medico siciliano che curava tutti, anche gli austriaci, cioè i sudditi dell’impero austroungarico, che poi magari parlavano friulano, tedeschi venivano chiamati”. Il medico siciliano che curava tutti a dispetto della guerra e che odiava quel macello, per Dora è stato una fonte di chiarezza nel buio. “Gli italiani si erano stufati della guerra e si arrendevano facilmente. Si racconta di un ufficiale tedesco portato sulle spalle dai soldati italiani che si erano arresi. Ma chi disertava, chi scappava, veniva ucciso dai suoi. Mia madre è lì che aiuta il medico, probabilmente se ne innamora: lui era uno che diceva che quella guerra era un crimine e criminali quelli che l’avevano voluta. In quella guerra mia madre ha avuto i suoi lutti, ha perso dei fratelli più grandi. Lei spontaneamente arriva a dire: Ma quale dio, non ci può essere nessun dio, se un dio ci fosse sarebbe un criminale pure lui”.

Come molti altri veneti sfollati, anche i Brunello vengono mandati a Sud, i Brunello vengono mandati in provincia di Caserta. “Mia madre si ricordava che i suoi compaesani veneti avevano molti pregiudizi verso i terroni, si sentivano più civili. Quell’Italia di cui si parlava tanto, in fondo neanche esisteva. Lei però non ne viene fuori con una reazione antimeridionale, anzi. L’unica persona a cui pensa con fiducia è un medico siciliano. Rompe con la famiglia perché vuole andare in Sicilia: forse il dottore è tornato lì. Il padre che fino alla fine della guerra ancora la coccolava, ora le dice: Va a remengo. L’esatto contrario di una benedizione: vai ramingo. Vai raminga”. Erano anni in cui si vedevano ragazze spostarsi da sole su e giù per il paese: c’erano quelle che lasciavano la campagna per andare in città alla ricerca di un lavoro, c’erano quelle che lasciavano i paesi alla ricerca di una libertà nuova. “Dora va a Messina. Laggiù però le dicono che il dottore non è più tornato. Di nuovo in Veneto, lo penserà nell’ossario, a Fagarè, fra i sedicimila ignoti. Intanto in Sicilia lo cerca negli ospedali, prova a mettersi sulla sua strada, cerca di diventare infermiera. Quando se ne va dalla Sicilia, si porta dietro i libri della scuola per infermieri che ha frequentato a Messina. Nel 1924 poi va a Roma”.

Dora ha 22 anni. A Roma, nel luglio del 1924 trova lavoro come operaia alla Cisa Viscosa. La scheda di assunzione, scarna (l’ho letta all’Archivio della Snia- Viscosa, salvato da un gruppo di cittadini nel 1995 e oggi riconosciuto di valore storico), riporta il nome, la data di nascita, il domicilio. Quando comincia a lavorare nella fabbrica, la Cisa Viscosa era stata inaugurata da un anno. Ancora oggi ci sono all’angolo fra Prenestina e Portonaccio i capannoni mezzi sfondati di cui si vede lo scheletro. La zona dove approda, il Pigneto- Prenestino, è una zona di depositi ferroviari e tranviari, ancora per metà campagna, dove sorgono industrie chimiche, chimico farmaceutiche. È la prima periferia al di là delle mura, approdo per gli immigrati. Alla Viscosa si trasformano lastre di cellulosa in seta artificiale, in rajon. Quell’anno, nel 1924, a dicembre, ci sarà uno sciopero durissimo per il salario. “Nel 1928 mia madre poi lavorerà alla Serono”. È uno stabilimento poco lontano, l’Istituto Farmaceutico Serono, fondato all’inizio del secolo, nel 1906. In quegli anni in cui nel quartiere sorgevano casette, dovevano sembrare minute e fatte di niente in confronto della Serono. Il complesso di edifici in cui va a vivere Dora, invece, è stato appena costruito ed è imponente e solido. “La sorella di mio padre, Enrichetta, aveva sposato un grande invalido amico di mio padre, Sandro. Uno che era saltato su una mina proprio negli ultimi giorni della guerra, con la presa di Trieste. Enrichetta e Sandro abitavano in una grande casa a via L’Aquila. Affittavano una stanza, e mia madre la prese”. Quel complesso, fra via L’Aquila e la Prenestina (leggo su Roma mosaico urbano. Il Pigneto fuori Porta Maggiore di Carmelo G. Severino) era stato costruito dalla cooperativa “Ciechi, invalidi di guerra”, belle case che ci sono ancora, con un cortile alberato. “Lì”, Massimo racconta, “mia madre ha conosciuto mio padre, Roberto. Mio zio Sandro, l’invalido era arrabbiatissimo con quelli che avevano voluto la guerra. Era restato invalido combattendo per Trieste: nel secondo dopoguerra, malgrado le foibe, quando Tito reclamerà la città, Sandro gliela avrebbe lasciata volentieri. Però dopo la rottura di Stalin con Tito anche Sandro si adeguerà e la reclamerà. Anche mio padre ce l’aveva contro la guerra”. Quando Dora e Roberto si incontrano Roberto è già comunista. “Mio padre con i suoi abitava a San Lorenzo, erano ferrovieri fiorentini”. San Lorenzo, fra la stazione Termini e la stazione Tiburtina è un quartiere popolare, con una presenza elevata di ferrovieri.

“Nel ‘17 c’era stata la rivoluzione russa. Quella di febbraio, il capo del governo rivoluzionario, Kerenskij aveva dichiarato: la guerra continua. Ma i russi sul fronte si erano indeboliti. I tedeschi decidono di approfittare della rivoluzione per mettere fuori gioco i russi”. Finanziato dai tedeschi, Lenin arriva con il treno speciale, raggiunge Pietroburgo. “Viene accolto dalla rivolta di marinai, di soldati che avevano iniziato la rivoluzione. Solo che questi che non erano i figli degli operai ma i figli dei contadini, guardavano con simpatia verso i socialisti rivoluzionari, che promettevano la terra. Lenin si allea con i socialisti rivoluzionari di sinistra, lui li chiamava compagni di strada (ma già meditava di liquidarli, tra le vittime dei bolscevichi ci saranno molti protagonisti dell’ottobre, come i marinai di Kronstadt). ‘ Pace terra libertà’ era il vecchio slogan dei socialisti rivoluzionari e prima ancora dei populisti. Mio padre guarda a questo Lenin come uno che vendicherà i morti, gli sfregiati, gli invalidi. Lo fa anche in contrasto con suo padre sindacalista socialista che diceva: uccidere intere famiglie come quella dei Romanov non ha niente a che vedere con la giustizia sociale. (Lo puoi trovare, mio nonno, Picchianti Enrico, nel Casellario politico centrale). Per mio padre, per mio zio Sandro, Lenin è prima di tutto quello che si oppone alla guerra. Mia madre che già aveva maturato dalla sua esperienza della guerra un orientamento ribellista non inquadrato quando incontra mio padre comincia a sperare anche lei nel comunismo. È stata l’esperienza straziante della guerra, i morti, la sensazione che per i potenti le vite loro non valessero i soldi del telegramma che ne annunciava il decesso, a spingerli verso quella speranza, verso il comunismo; è stata sete di vendetta. Mia madre poi ne aveva visti tanti mutilati e morti”. Nel 1937 Dora e Roberto si sposano e si trasferiscono in un villino di ferrovieri a Porta Latina. Massimo nascerà neanche un anno dopo, a gennaio del 1938.

La Rivoluzione d'ottobre fu il colpo di Stato di un'élite, che esordì chiudendo l'Assemblea costituente..., scrive Giampietro Berti, Domenica 5/02/2017, su "Il Giornale". Ricorre quest'anno il centenario della rivoluzione russa, uno degli avvenimenti più importanti del XX secolo. È quasi universalmente accreditata l'idea che si sia trattato in sostanza di un unico processo storico iniziato nel febbraio e conclusosi in ottobre. Niente di più falso, perché nel 1917 vi furono due rivoluzioni, quella liberale di febbraio e quella bolscevica di ottobre: due moti diversi, per non dire opposti, dato che la prima liberò la Russia dall'assolutismo, la seconda la portò al totalitarismo. Certo, tra i due eventi non vi fu di fatto soluzione di continuità, ma la loro natura segna un dualismo non sintetizzabile in un unico giudizio storico. Va detto subito che il rivolgimento del '17 avvenne a causa dall'implosione dello zarismo, consuntosi al suo interno. Tre anni di guerra avevano dissanguato il Paese, riducendo milioni di persone alla fame e allo stremo delle forze. L'ostinazione del governo nel volere continuare il conflitto, la sua ripetuta sordità a ogni richiesta di mitigare le condizioni disumane della popolazione e la sua incapacità nel far fronte ai più elementari bisogni sociali delegittimarono non solo la sua autorità politico-morale, ma anche quella sacro-imperiale dello zar. Perciò è del tutto ragionevole pensare che se non vi fosse stata la guerra, la rivoluzione non vi sarebbe stata. Va aggiunto che la società russa - da sempre dominata dai ceti piccolo- borghesi - era allora composta da circa 140 milioni di individui, di cui oltre cento erano contadini. Molti di questi non sapevano bene cosa stesse accadendo. La stragrande maggioranza della popolazione era ben lungi dal pensare e dal volere una trasformazione radicale dell'esistente, anche se, allo stesso tempo, il suo sostegno al potere costituito era per molti versi venuto meno. Tra il 23 e il 27 febbraio (secondo il calendario giuliano, 8-12 marzo per quello gregoriano) una sollevazione di popolo, in gran parte spontanea, provocò l'abdicazione dell'imperatore Nicola II, la fine della dinastia dei Romanov e dell'autocrazia. Il 23 febbraio ebbero inizio cruente manifestazioni di protesta a Pietrogrado, estesesi poi a Mosca e in altre località, che coinvolsero decine di migliaia di persone. Nel giro di pochi giorni il moto divenne inarrestabile, anche perché molti reparti dell'esercito, inviati per reprimere i disordini, fraternizzarono con la popolazione. Si formò un nuovo governo che varò alcune importanti misure, quali l'amnistia per i reati politici e religiosi; la libertà di parola, di stampa, di associazione, di riunione e di sciopero; l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge senza limitazione di condizione, di religione e di nazionalità; l'abolizione della polizia segreta; i diritti civili garantiti ai militari compatibilmente con il servizio prestato. Soprattutto fu decisa la cosa più importante, cioè la convocazione di un'Assemblea costituente da eleggersi a suffragio universale, mentre rimase sospesa la questione del futuro assetto istituzionale. Erano tutte decisioni politiche di carattere democratico-liberale che portavano definitivamente la Russia, sia pure con grave ritardo e sotto l'incalzare di eventi drammatici, all'abbandono di ogni retaggio feudale, inserendola nel novero dei regimi costituzionali. Due furono gli errori gravissimi fatti dai due governi provvisori, il primo presieduto da L'vov, il secondo da Kerenskij: non avere avviato l'ormai improcrastinabile riforma agraria e, ancor più, avere deciso per la prosecuzione della guerra. Fu soprattutto quest'ultima decisione che diede a Lenin e ai bolscevichi un grande vantaggio politico e morale. La loro parola d'ordine di un ritiro immediato dal conflitto li accreditò favorevolmente presso l'opinione pubblica, anche se siamo ben lungi dal registrare un vero consenso popolare alla loro azione e ai loro programmi. Nel 1917 in tutta la Russia i seguaci di Lenin risultavano 23.600 - totale degli iscritti al partito - a fronte del numero complessivo degli abitanti nel Paese: come abbiamo detto, 140 milioni circa. La rivoluzione d'ottobre è la conferma del fallimento scientifico del marxismo. Marx aveva previsto che la rivoluzione sarebbe scoppiata nei Paesi ad alto sviluppo capitalistico, dove esisteva una classe operaia di gran lunga maggioritaria, mentre in tutta la Russia gli operai non raggiungevano la quota di tre milioni, vale a dire che non superavano il 2,5% dell'intera popolazione (ma si tenga conto che molti erano contadini impiegati stagionalmente nell'edilizia e nella costruzione o nella manutenzione delle ferrovie). A Pietrogrado, la città dove i bolscevichi diedero inizio alla loro presa del potere, non erano più del 5% di tutti i lavoratori industriali, numero, a sua volta, del tutto insignificante rispetto a una popolazione complessiva di due milioni di persone. Attuata tra il 24 e il 25 ottobre (7-8 novembre) la rivoluzione bolscevica non ebbe pressoché alcun carattere cruento e fu il frutto di circostanze altamente fortuite. Occupate le installazioni chiave della capitale, l'ufficio delle poste e del telegrafo, l'ufficio centrale dei telefoni, il quartier generale del comando militare del governo, i bolscevichi assaltarono il Palazzo d'inverno. L'intera guarnigione dei soldati avente sede nel palazzo Mihajlovskij si arrese senza colpo ferire: gli effetti devastanti del conflitto bellico avevano pressoché distrutto la struttura militare-poliziesca dello Stato, incapace ormai di rispondere ai comandi della sua classe dirigente, dispersa e disorientata. Ha ripetutamente scritto Trotsky che a dare seguito a questa azione furono circa 25mila militanti bolscevichi. Sono dunque stati questi 25mila rivoluzionari a decidere come doveva essere la Russia per tutti i 140 milioni di russi. La rivoluzione d'ottobre non fu una rivoluzione di popolo, ma l'esito fortunato del colpo di mano di un piccolo partito, privo di un vero consenso popolare. Del resto, la prova più evidente è offerta dalla significativa vicenda dell'Assemblea costituente, la sola istituzione potenzialmente democratica allora esistente. È noto che il risultato elettorale, maturato il 12 novembre, quindi dopo il colpo di mano comunista, confermò in modo inequivocabile il carattere minoritario del bolscevismo, avendo questo ottenuto il 24,7% dei consensi. A tale proposito è bene precisare che chi allora votò per i bolscevichi era ben lungi dall'avere l'esatta conoscenza di quanto gli stessi bolscevichi avevano realmente intenzione di fare una volta giunti al potere. Ciò che allora si conosceva del loro programma non era certo ciò che fu posto in atto più tardi. Riunitasi per la prima volta il 18 gennaio 1918, l'Assemblea fu subito chiusa (lo stesso giorno!) - e mai più riaperta - per volontà di Lenin e compagni. Così, dopo secoli di schiavitù dell'assolutismo zarista si passò, quasi senza soluzione di continuità, alla schiavitù del totalitarismo comunista.

CROLLA LA GRANDE TRUFFA DELLA SINISTRA. Zero Hedge rilancia un’analisi marxista di Charles Hugh Smith che condanna senza appello la “sinistra”. Questa, limitandosi alla sola difesa dei diritti delle minoranze e salutando la globalizzazione come un’opportunità per tutti, ha completamente tradito il suo compito storico di contrapporre gli interessi del lavoro a quelli del capitale. Oggi tutte le istituzioni, la politica e le strutture pubbliche, lungi dall’essere state abolite dal capitale, che in realtà dello Stato ha bisogno, sono state volte a suo vantaggio. Ma la classe lavoratrice sembra sul punto di risvegliarsi e di accorgersi del tradimento. Scrive Charles Hugh-Smith dal blog Of Two Minds, il 23 gennaio 2017 così come riportato da Henry Tough il 24 gennaio 2017 su “Voci dall’estero”. La sinistra non è solo allo sbando – è al completo collasso perché la classe operaia si è accorta del tradimento della sinistra e del suo abbandono della classe operaia per costruire ricchezza personale e potere.  La fonte dell’angoscia rabbiosa che scuote il campo progressista del Partito Democratico non è il Presidente Trump – è il completo collasso della sinistra a livello globale. Per capire questo crollo, dobbiamo rivolgerci (ancora una volta) alla comprensione profonda che Marx aveva dello Stato e del capitalismo. Non stiamo parlando del marxismo culturale che gli americani conoscono a livello superficiale, ma del nocciolo della sua analisi economica che, come notava Sartre, viene insegnata al solo fine di screditarla. Il marxismo culturale attinge anch’esso da Engels e Marx. Nell’uso moderno, il marxismo culturale indica l’aperto scardinamento dei valori tradizionali – la famiglia, la comunità, la fede religiosa, i diritti di proprietà e un governo centrale limitato – in favore di un cosmopolitismo senza radici e uno Stato centrale espansivo e onnipotente che sostituisce la comunità, la fede e i diritti di proprietà con meccanismi di controllo statalista che impongono la dipendenza dallo Stato stesso, e una mentalità secondo la quale l’individuo è colpevole di pensiero anti-statalista fino a prova contraria, determinata dalle regole dello Stato stesso. La critica di Marx al capitalismo è di natura economica: il capitale e il lavoro sono in eterno conflitto. Nell’analisi di Marx il capitale ha la meglio fino a che le contraddizioni interne del capitalismo non erodono dall’interno le sue capacità di controllo. Il capitale non domina solo il lavoro; domina anche lo Stato. Perciò la versione “statale” del capitalismo che domina a livello globale non è una coincidenza o un’anomalia – è l’unico esito possibile di un sistema nel quale il capitale è la forza dominante. Per contrastare il dominio del capitale sono sorti i movimenti politici socialdemocratici, per strappare alcune misure dalle mani del capitale e volgerle in favore del lavoro. I movimenti socialdemocratici sono stati ampiamente aiutati dal “quasi crollo” della prima versione del capitalismo statale [cartel capitalism] durante la Grande Depressione, quando la cancellazione del debito deteriorato avrebbe comportato la distruzione dell’intero sistema bancario e azzoppato la funzione principale del capitalismo, quella di far crescere il capitale stesso tramite un’espansione del debito. I padroni del capitale, decimati, capirono di avere un’unica scelta: resistere fino ad essere rovesciati dall’anarchismo o dal comunismo, oppure cedere un po’ della loro ricchezza e del loro potere ai partiti socialdemocratici in cambio di stabilità sociale, politica ed economica. In termini generali si direbbe che la sinistra favorisce il lavoro (i cui diritti sono protetti dallo Stato) mentre la destra favorisce il capitale (i cui diritti sono ugualmente protetti dallo Stato). Ma nel corso degli ultimi 25 anni di neoliberalismo globalizzato, i movimenti socialdemocratici hanno abbandonato il lavoro per abbracciare la ricchezza e il potere che gli venivano offerti dal capitale. L’essenza della globalizzazione è questa: il lavoro viene mercificato mentre il capitale mobile è libero di girare in qualsiasi angolo del mondo per cercare il costo del lavoro minore possibile. Al contrario del capitale, il lavoro è molto meno mobile, non è in grado di spostarsi fluidamente e senza frizioni come fa il capitale, alla ricerca di opportunità e di scarsità da sfruttare a proprio vantaggio. Il neoliberalismo – l’apertura dei mercati e delle frontiere – permette al capitale di schiacciare il lavoro senza alcuno sforzo. I socialdemocratici, nel momento in cui abbracciano l’idea dei “confini aperti”, istituzionalizzano l’apertura all’immigrazione; questa disintegra il valore della forza lavoro dato dalla sua scarsità sul mercato interno, e permette di abbassarne il prezzo grazie al lavoro degli immigrati, a tutto vantaggio del desiderio del capitale di abbattere i costi. La globalizzazione, la finanza neoliberale e le politiche di immigrazione determinano il crollo della sinistra e la vittoria del capitale. Ora è il capitale a dominare totalmente lo Stato e le sue strutture clientelari – i partiti politici, le lobby, i contributi alle campagne elettorali, le fondazioni di beneficienza che operano a pagamento, e tutte le altre strutture del capitalismo di Stato. Per nascondere il crollo della difesa economica del lavoro da parte della sinistra, i sostenitori della sinistra e la macchina delle pubbliche relazioni hanno sostituito i movimenti per la giustizia sociale alle lotte per acquisire sicurezza economica e capitale. Questo è riuscito alla perfezione, e decine di milioni di autoproclamati “progressisti” si sono bevuti la Grande Truffa della sinistra, secondo la quale le campagne di “giustizia sociale” in nome di gruppi sociali emarginati sarebbero la vera caratteristica distintiva dei movimenti progressisti e socialdemocratici. Questo giochetto da prestigiatore, questo abbraccio delle campagne per la “giustizia sociale” economicamente neutre, ha mascherato il fatto che i partiti socialdemocratici avevano intanto gettato il lavoro nel tritacarne della globalizzazione, dell’apertura all’immigrazione e della libera circolazione del capitale, che intanto era tutto contento dell’abbandono del lavoro da parte della sinistra. Nel frattempo i furboni della sinistra si sono ingozzati delle concessioni elargite dal capitale in cambio del loro tradimento. Vengono in mente i “guadagni” di Bill e Hillary Clinton per 200 milioni di dollari, e innumerevoli altri esempi di arricchimenti personali da parte di autoproclamati “difensori” del lavoro. Guardate il grafico seguente. Rappresenta la quota di PIL destinata al lavoro. Ora ditemi se la sinistra non ha abbandonato il lavoro in nome della propria ricchezza e potere personale. La sinistra non è solo allo sbando – è al crollo totale – ora che la classe lavoratrice si è svegliata e si è resa conto del tradimento e dell’abbandono da parte di chi si è occupato solo del proprio interesse personale. Chiunque lo neghi non si è ancora reso conto della Grande Truffa della Sinistra.

Inutile negarlo, la sinistra è finita, scrive Alfonso Maurizio Iacono il 4 gennaio 2017 su "Malgrado tutto". L’unico obiettivo che oggi, qualunque cosa se ne voglia pensare, appare sicuramente di sinistra è la proposta dei 5stelle del reddito di cittadinanza. Ma i 5stelle mescolano questa proposta con altre che, dal punto di vista di un’ipotetica sinistra, lasciano piuttosto perplessi. Tanti anni fa un grande storico, Arnaldo Momigliano, ebbe ad annunciare davanti a un congresso internazionale di filologi classici che di sicuro l’Impero Romano era caduto, questo era certo, ma quanto a sapere il tempo della sua caduta, allora la cosa si faceva difficile e incerta. A scuola si impara che il 476 dopo Cristo è la data cardine di questa caduta, ma se in una intervista impossibile si fosse chiesto ai romani di quell’anno se stavano cadendo, se erano decaduti, se stavano precipitando insieme alle macerie del crollo, sarebbero sicuramente rimasti stupefatti e avrebbero risposto che erano Romani e la loro storia non stava finendo affatto. Oggi, nell’anno di grazia 2017, la sinistra è crollata. Da quando, è difficile da stabilire, e se lo si chiedesse agli attuali politici che si dichiarano più o meno di sinistra, a cominciare da quelli del PD, si mostrerebbero incerti, forse dubbiosi, certamente in crisi, probabilmente in malafede, ma nessuno o quasi ammetterebbe la fine. Certo, qualcuno parlerebbe del fatto che ormai destra e sinistra sono categorie antiquate, qualcun altro direbbe che sì è in crisi ma non certamente finita, ma come i Romani del 476 dopo Cristo starebbero ancora lì a rosicchiarsi le ultime briciole di vecchi privilegi in nome di valori ritenuti eterni ma a cui non credono più. La sinistra è finita. Perfino nelle parole. Se esse talvolta (non sempre) corrispondono alle cose, l’attuale PD, sì, questo al governo, dopo la fine della Prima Repubblica si chiamava Partito Democratico di Sinistra, poi si chiamò Democratici di Sinistra, ora è Partito Democratico, una bizzarra sintesi più o meno annacquata e stinta dei vecchi PCI, PSI e DC. A sparire è la parola Sinistra. In nome di qualcosa di nuovo? Il fatto stesso che il nome sia diventato sempre meno specifico e sempre più generico tradisce sicuramente la fine di un fine. Ma, al di là del nome, quando la sinistra si sposa con la logica del profitto e della speculazione e con il crescere delle diseguaglianze, quando accetta il dominio incontrastato del privato sul pubblico con la scusa che il pubblico fa schifo, magari cercando timidamente e falsamente di indignarsi come uno che rispondesse semplicemente e debolmente con l’esclamazione: “Per Giove” a un pugno sferratogli in faccia e lo facesse per viltà e per convenienza, allora è finita. Lo è con Hilary Clinton come con Tsipras, per non parlare di Holland o di Renzi. C’era una cosa che caratterizzava le sinistre nelle loro diverse propensioni e manifestazioni, la critica e la lotta alle diseguaglianze. Risulta a qualcuno che quella critica e quella lotta siano ancora attuali? Eppure le diseguaglianze sono aumentate in tutte le forme, tra nazioni e paesi, tra cittadini e cittadini, tra cittadini e stranieri, tra persone e non persone, tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. L’unico obiettivo che oggi, qualunque cosa se ne voglia pensare, appare sicuramente di sinistra è la proposta dei 5stelle del reddito di cittadinanza. Ma i 5stelle mescolano questa proposta con altre che, dal punto di vista di un’ipotetica sinistra, lasciano piuttosto perplessi. Ma come mai quelli che si dichiarano ufficialmente di sinistra non ne discutono? Paura di disturbare i potenti che li proteggono? Inutile negarlo, la sinistra è finita. Prenderne coscienza sarà un bene perché rinasca. Ed è questo il mio augurio per l’anno nuovo. Non so come né quando, ma di una cosa sono sicuro. In mancanza di una sinistra degna di questo nome, la stessa democrazia è in pericolo e muta di forma e lo si vede con il crescere delle diseguaglianze, il dilagare del razzismo e l’avanzare di leader inquietanti che si affermano e dominano al di qua e al di là dell’Europa, ma anche nel suo seno.

La sinistra è in crisi e l'Europa svolta a destra. Per capire il futuro dell’Europa si deve guardare alla Francia dove la sfida per l’Eliseo tra Le Pen e Fillon potrebbe dare il colpo definitivo a quel che rimane delle forze progressiste, scrive Bernard Guetta il 12 gennaio 2017 su "L'Espresso". Lasciate perdere la tradizione: dite quello che vi pare alla sinistra francese ma soprattutto, innanzitutto, non auguratele buon anno. Se lo faceste, in tale augurio essa leggerebbe soltanto beffarda ironia e crudeltà, nel migliore dei casi qualcosa di derisorio perché di fatto ha già messo una croce sul 2017, l’annus horribilis nel quale i suoi scompigli e le sue divisioni interne le riservano una primavera di sconfitte, alle presidenziali e alle legislative. A ben guardare, potreste anche individuare tre socialisti che ci credono ancora e potrebbero spiegarvi che, in fondo, non è detto che vada proprio così, tenuto conto che gli elettori occidentali ormai provano un piacere sottile a contraddire i sondaggi, vedi Trump. La Francia, vi diranno, non vorrà saperne di scegliere tra il Front National di Marine Le Pen e quell’amico di Vladimir Putin, il grande favorito degli ambienti cattolici più integralisti, che è François Fillon, il candidato della destra. Del resto, non siamo del tutto lontani dalla verità, perché desiderio dei francesi sarebbe stato quello di vedere candidato alla presidenza Alain Juppé, uomo moderato e riflessivo, aperto, filoeuropeo e ultima incarnazione di quella destra gollista che, come De Gaulle, teneva un piede a sinistra e l’altro a destra. Al secondo turno delle presidenziali, Juppé avrebbe inflitto una batosta a Marine Le Pen raccogliendo i consensi degli elettori di destra, di sinistra e del centro. Così avrebbero dovuto andare le cose, e invece alle loro primarie i militanti di destra non ne hanno voluto sapere di questo ex Primo ministro che assomiglia loro così poco, troppo moderato ma non abbastanza liberale e troppo ostile all’abolizione delle tutele sociali. Gli hanno preferito Fillon, più reazionario e più euroscettico, più incarnazione ideale del notaio di provincia, più liberale. Ormai il dado è tratto. Adesso, non soltanto la Francia dovrà scegliere tra la destra dura e pura e l’estrema destra, ma oltre a ciò il risultato del 7 maggio non è nemmeno del tutto sicuro. Sì, avete letto bene: non è più del tutto inverosimile che Marine Le Pen riesca ad avere la meglio perché, avendo come avversario François Fillon, si presenterà nelle vesti di portavoce degli esclusi della globalizzazione, e molti elettori di sinistra non vorranno dare i loro voti a un Thatcher francese nemmeno per mettere i bastoni tra le ruote all’estrema destra. L’astensione della sinistra rischia dunque di regalare l’Eliseo al Front National. Ma come? Nemmeno un pericolo simile indurrebbe la sinistra a serrare i ranghi? Prima la Brexit, poi Trump e infine Le Pen? Davvero la sinistra francese lascerebbe correre, restando immobile, incapace di scuotersi, di trascendere sé stessa, di trovare un candidato in grado una volta per tutte di ribaltare una situazione così allarmante? Restano quattro mesi al primo turno delle presidenziali, ancora molto tempo. Parecchie cose potranno cambiare da qui ad allora, ma già dalla prima settimana dopo quest’ultima linea assunta dalla destra le cose si sono messe male. È tutta questione di aritmetica. La sinistra ha nove candidati. Il 22 e il 29 gennaio sette di loro prenderanno parte alle primarie della Belle alliance populaire, vale a dire il PS e i suoi alleati. François Hollande, troppo impopolare per ripresentarsi, non vi parteciperà e la battaglia divamperà quindi tra il Primo ministro uscente Manuel Valls, uomo d’ordine e di grande rigore economico, i due rivali della sinistra socialista Benoît Hamon e Arnaud Montebourg, l’intellettuale della mischia Vincent Peillon, filosofo ed ex ministro dell’Istruzione, e gli outsider ambientalisti e radicali di sinistra. Il vincitore - inequivocabile, esperto, dinamico - dovrebbe essere Valls, ma è inevitabile che i tre dibattiti che precederanno questo primo turno riservino sorprese e può anche darsi che a vincere sia Hamon o Montebourg o Peillon, ovvero uno degli outsider, tenuto conto che prima dei dibattiti della destra nemmeno Fillon era stato preso sul serio. L’asso nella manica di Valls consiste nel fatto di poter essere un candidato di sinistra che la destra moderata potrebbe preferire a Marine Le Pen al secondo turno elettorale. Quello di Hamon e di Montebourg è di essersi dimessi dal governo non appena François Hollande ha dirottato la sua politica verso destra, esasperando la base socialista con la concessione di aiuti massicci all’industria. Peillon ha dalla sua il vantaggio di poter proporre una sintesi tra la destra e la sinistra socialiste. Quanto agli outsider, il loro asso nella manica è di essere pressoché sconosciuti, perfino ai militanti, e di poter dunque offrire agli elettori l’occasione di trasformare gli ultimi in primi. L’unica certezza è che il 29 sera non resteranno che tre candidati di sinistra: quello della Belle alliance e i due che si sono rifiutati di prendere parte alle primarie, Emmanuel Macron e Jean-Luc Mélenchon. Macron è un politico in rapida ascesa in Francia, giovane ministro di bella presenza nel quale possono riconoscersi la destra e la sinistra, giovani e anziani, la provincia e Parigi. Ha studiato dai gesuiti, è stato membro del PS dal quale è uscito l’estate scorsa per fondare un suo movimento, En marche, che conta già oltre centomila affiliati. Non ha ancora 40 anni, ha sposato una delle sue ex professoresse, figlia di produttori di cioccolato, di 25 anni più grande di lui. Cresciuto ad Amiens, quintessenza della provincia borghese, è però un puro prodotto delle Grandes Écoles, è passato dalla banca Rothschild alla segreteria generale dell’Eliseo e quindi al ministero dell’Economia e delle Finanze. Promotore di una legge che snellisce il Codice del Lavoro, è adorato dai grandi proprietari d’azienda, ma ancor più dai giovani imprenditori con i quali parla correntemente di digitale e di nuova rivoluzione industriale. Ancora acerbo, con minore esperienza ma nettamente più affascinante e altrettanto filoeuropeo, Macron è la versione giovanile di Juppé della sinistra, ma con tutto ciò che egli rappresenta è in rottura con l’insieme della classe politica le cui azioni sono al minimo storico. In Francia come dappertutto. Mélenchon è il suo esatto contrario. Ex trotskista oggi 65enne, Mélenchon è stato un veterano del PS dal quale è uscito sbattendo la porta per portare a termine con successo una sorta di offerta pubblica d’acquisto del PC e della sinistra più a sinistra. È un oratore del XIX secolo, sfavillante, hugoliano, intriso di cultura francese e di storia del movimento operaio, e gli piace fare a pezzi la stampa, Bruxelles, l’imperialismo americano e tutti i partiti. È un uomo che sui suoi meeting sa far soffiare il vento del Grand Soir, l’idea di un’onda rivoluzionaria. Ciò nonostante, egli non è rivoluzionario. Molto più moderato di quanto appaia, è un socialdemocratico ma, a differenza dei socialisti francesi e dei socialdemocratici tedeschi e scandinavi, è imbevuto di una giusta collera nei confronti dell’ingiustizia e resta fedele alle radici operaie della sinistra europea. La sfida di Macron consisterà nel far vincere la sinistra federando i moderati tanto dei progressisti quanto dei conservatori, sconfiggendo François Fillon al primo turno e sbaragliando Marine Le Pen al secondo. Qualora non ci riuscisse, Mélenchon potrebbe ottenere in ogni caso un buon risultato che gli consenta di ricostituire, all’opposizione, una sinistra vicina alle nuove sinistre di Spagna e Grecia, Podemos e Syriza. Per il momento, però, la sinistra francese è perdente, ai margini, come del resto tutte le sinistre in Europa. Divisa tra la Belle Alliance, Macron e Mélenchon che raggiungono il 15 per cento delle intenzioni di voto, la sinistra non potrà che perdere al primo turno e lasciare che destra ed estrema destra si disputino la presidenza. Perché? Che sta succedendo alla sinistra, e non soltanto in Francia ma ovunque? La risposta è che il rapporto di forze tra capitale e lavoro si è capovolto quasi del tutto dagli anni Ottanta a oggi. Nel dopoguerra, la situazione era favorevole alla sinistra. La ricostruzione assicurava la piena occupazione. La minaccia sovietica e la potenza dei partiti comunisti europei avevano il loro peso sullo scacchiere politico. Ogni cosa induceva governi e proprietari d’azienda a concessioni sociali. Ogni sciopero o quasi si concludeva con nuovi aumenti salariali, nuove estensioni delle tutele garantite a operai e subordinati. Il dopoguerra è stato l’epoca d’oro della sinistra ma, una volta giunta a termine la ricostruzione, ha risuscitato la disoccupazione; il crollo sovietico ha affrancato il capitale dalla paura delle rivoluzioni; la riduzione delle distanze ha permesso al capitale di delocalizzare la produzione in paesi dai salari irrisori e dalle tutele inesistenti, e l’ascesa delle nuove potenze industriali ha condannato il settore pubblico e quello privato a ridurre drasticamente i costi salariali a fronte di una concorrenza di giorno in giorno più aggressiva. Non soltanto adesso l’industria non è più a corto di manodopera e non teme più il Comunismo, ma oltre a ciò, cascasse il mondo, deve abbassare i prezzi dei costi occidentali. Il rapporto di forze avvantaggia ormai il capitale che può fare spallucce con noncuranza davanti alle regolamentazioni sociali dei vecchi paesi industriali, perché può sempre sottrarsi a esse investendo nei paesi emergenti. Di conseguenza, gli Stati nazione non possono più trovare un punto d’accordo tra gli interessi dei lavoratori e del capitale, perché l’imperativo assoluto è mantenere l’occupazione all’interno delle loro frontiere, per ridurre la disoccupazione e i deficit di bilancio. La sinistra, in parole povere, non è più in grado di imporre il progresso e i compromessi sociali che erano la sua stessa ragion d’essere e le attiravano i voti dei salariati. La sinistra non ha tradito. È disarmata e lo sarà a lungo, perché non può invitare i suoi elettori a guardare i nuovi rapporti di forza che si sono venuti a creare senza confessare nel contempo la propria impotenza, e perché continua a indebolirsi sempre più, di elezione in elezione, visto che le soluzioni che le si prospettano - e ce ne sono - sono in ogni caso lontane o difficili da difendere. Una delle soluzioni è l’Europa. Uniti, gli Stati europei potrebbero ritrovare il loro ruolo di arbitri, perché l’ascesa di una potenza pubblica di dimensione continentale potrebbe imporre al capitale di negoziare un nuovo compromesso sociale e agli altri Stati-continente le condizioni di transazioni commerciali eque e reciprocamente vantaggiose. Unite da un potere esecutivo e da un potere legislativo comuni, le nazioni e le sinistre europee potrebbero realizzare ciò che oggi non sono in grado di fare. Peccato che l’unità dell’Europa di questi tempi non sia più un’ambizione in grado di appassionare e coinvolgere, e che in ogni caso non lo sia nelle corse elettorali. Assimilata alle politiche di risanamento di bilancio, l’Unione è diventata impopolare, è percepita alla stregua del cavallo di Troia della globalizzazione, e la sinistra incontra dunque difficoltà sia a perorarne il rafforzamento sia a dire ai salariati che ormai pensioni e assicurazioni malattia devono essere finanziate dalle imposte e non più dagli oneri sociali delle imprese. Proprio quando le entrate dei proprietari d’azienda e l’evasione fiscale delle grandi imprese sfiorano livelli osceni mai raggiunti in precedenza, la sinistra non può annunciare ai suoi elettori che, contrariamente alle industrie pesanti di ieri, le industrie innovative contemporanee - quelle dedite alla ricerca e alle tecnologie del futuro, quelle del nostro comune avvenire - non hanno ancora le spalle sufficientemente solide per garantire il perpetuarsi del modello sociale europeo. A meno di precipitare al medesimo livello di rifiuto di François Hollande – che negli ultimi tempi egli si è arrischiato ad avere, bruscamente e inspiegabilmente -, la sinistra non potrà invocare dall’oggi al domani la necessità di aiutare l’industria per salvaguardare le tutele sociali. La sinistra, francese ed europea, è dunque a un punto morto. Potrà riprendersi e uscirne soltanto attingendo a uno stesso tempo a Macron e a Mélenchon, all’indignazione dell’uno e alla volontà dell’altro di superare le frontiere del passato e riunire sotto un’unica bandiera tutti i sostenitori del compromesso sociale, tutti i fautori di un nuovo compromesso per un nuovo secolo. Impossibile? No, soltanto difficile. Siamo ancora lontani da quel traguardo ma - se non vogliamo essere costretti a scegliere tra thatcherismo e nazionalismo, tra destra dura e pura ed estrema destra, tra violenza sociale e insolvenza dei nostri paesi - sarà indispensabile passare proprio da lì e ricominciare a parlare alla sinistra per reinventarla, partire dalla realtà per trasformarla, riportare in auge l’utopia e rimettere l’immaginazione al potere.

Pd, la nuova carica dei 102: tutti gli indagati, regione per regione. Sindaci, governatori, consiglieri ed esponenti del partito sul territorio: ecco perché Renzi ora attacca i pm, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 3 maggio 2016. “Questione morale”. Sui blog degli elettori Pd quelle due parole pronunciate da Enrico Berlinguer nel 1981 tornano frequenti. Insieme con le polemiche sulle inchieste che toccano esponenti dem. Un’espressione che torna di attualità con la vicenda giudiziaria che ha coinvolto il sindaco di Lodi, Simone Uggetti.

PIEMONTE. Gli ultimi a finire a processo sono stati il sindaco di Vercelli Maura Forte e il consigliere regionale Giovanni Corgnati. Sono accusati di aver falsificato firme per le candidature alle Provinciali del 2011. Oggi finirà davanti al tribunale vercellese Davide Sandalo, ex presidente del Consiglio comunale di Casale Monferrato (Alessandria), sottoposto ai domiciliari il 3 dicembre scorso con l’accusa di concussione per induzione. Molti politici sono incappati in indagini su irregolarità alle elezioni. Per uscirne, non pochi patteggiano. Lo hanno fatto i politici di Verbania per accuse di irregolarità alle amministrative 2014 contestate anche all’ex vicesindaco Giuseppe Grieco e l’ex presidente del Consiglio comunale Diego Brignoli. Patteggiamenti anche nella vicenda delle firme false a sostegno della candidatura di Sergio Chiamparino alle regionali del 2014: il 2 marzo a Torino 9 tra funzionari ed eletti hanno ottenuto pene tra i cinque mesi e un anno. Tra di loro il consigliere regionale Daniele Valle, che ha patteggiato sei mesi. Andrà a dibattimento Rocco Fiorio, presidente della V circoscrizione di Torino, coinvolto anche nell’inchiesta sulle “giunte fantasma” insieme ad altri 9 eletti, tra cui la deputata Pd Paola Bragantini, indagata per truffa aggravata. Sul suo compagno Andrea Stara pesa una richiesta di condanna a tre anni per peculato nell’ambito dei rimborsi regionali. I pm lo indagheranno anche per aver calunniato la sua ex segretaria, su cui aveva scaricato la colpa dei rimborsi.

LOMBARDIA. Tre i casi chiusi: nel luglio 2013 finisce la vicenda dell’ex sindaco di Trezzano sul Naviglio, Tiziano Butturini. Arrestato nel 2010 per corruzione in un’inchiesta che coinvolge esponenti della ’ndrangheta, patteggia 2 anni e 5 mesi. Gennaio 2015, Filippo Penati assolto a Monza dall’accusa di finanziamento illecito, mentre per corruzione e concussione (un giro di tangenti) si avvale della prescrizione. Aprile 2015, spese pazze in Regione: rinviato a giudizio il capogruppo Luca Gaffuri e condannati con rito abbreviato Carlo Spreafico (2 anni) e Angelo Costanzo (1 anno e 6 mesi). Cinque i fronti ancora aperti. A Rho l’ex consigliere Luigi Addisi viene arrestato nell’aprile 2014 per riciclaggio e abuso d’ufficio con l’aggravante di aver favorito la ’ndrangheta. L’inchiesta è in corso, Addisi è ai domiciliari. Nel gennaio 2015 viene indagato il consigliere regionale Massimo D’Avolio (abuso d’ufficio). Da sindaco di Rozzano gestisce la partita milionaria del teleriscaldamento e autorizza il pagamento della partecipata Ama ad alcune società di cui sua moglie risulterebbe fra i soci. Gennaio 2016, arrestato il sindaco di Brenta Gianpietro Ballardin: è indagato a piede libero per favoreggiamento e falso. A gennaio il sindaco di Como, Mario Lucini, viene indagato (violazione alle norme edilizie e turbativa d’asta) per l’appalto sulle paratie del lungolago. A marzo tocca al sindaco di Pero Maria Rosa Belotti: abuso d’ufficio.

LIGURIA. Già l’inchiesta Mensopoli del 2007 aveva toccato i collaboratori più stretti dell’allora sindaco Marta Vincenzi (non indagata) e due ex consiglieri Ds. Per le spese pazze, quasi mezzo consiglio regionale del mandato di Claudio Burlando è stato indagato: molti rappresentanti del centrosinistra, uno del Pd. È Antonino Miceli – ex capogruppo – rinviato a giudizio per peculato e falso. Quindi le alluvioni. Per quella del 2011 l’allora sindaco Marta Vincenzi è imputata di omicidio colposo, disastro colposo, falso e calunnia. Il processo è in corso. Per quella del 2014 Raffaella Paita – allora assessore alla Protezione civile – ha ottenuto il rito abbreviato. C’è poi l’inchiesta savonese sulla centrale a carbone di Vado che secondo i pm avrebbe causato 440 morti: indagata tutta la giunta Burlando. Inchieste clamorose, come Parcopoli, sulle Cinque Terre. L’ex presidente del Parco, Franco Bonanini (Pd, poi passato al centrodestra) è stato condannato in primo grado a 7 anni e dieci mesi.

VENETO. L’ex sindaco di Venezia del Pd, Giorgio Orsoni, è imputato di finanziamento illecito ai partiti. Secondo l’accusa, avrebbe ricevuto, tramite i fondi neri del Consorzio Venezia Nuova, 560 mila euro per la campagna elettorale delle comunali nel 2010. Arrestato il 4 giugno 2014 nell’inchiesta sul Mose, Orsoni era stato scarcerato una settimana dopo; la sua richiesta di patteggiamento era stata respinta. Nella stessa inchiesta era indagato il tesoriere del Pd, Giampietro Marchese, con l’accusa di finanziamento illecito ai partiti per aver ricevuto circa mezzo milione dal consorzio del Mose per “plurime campagne elettorali” dal 2006 al 2012. Marchese ha patteggiato 11 mesi e 20mila euro di multa.

EMILIA ROMAGNA. Spese pazze: sono 13 gli ex consiglieri regionali Pd a processo a Bologna, accusati di peculato. Secondo i pm, i politici avrebbero utilizzato, tra il 2010 e il 2011, i fondi dei gruppi per spese “non inerenti”: tra gli scontrini, anche quelli per un bagno pubblico, pranzi e cene di lusso, viaggi da centinaia di euro con autista e persino per sexy shop. Imputati tra gli altri l’ex capogruppo Marco Monari e l’eurodeputato Damiano Zoffoli. A Rimini i pm hanno chiesto il rinvio a giudizio per il sindaco Andrea Gnassi, l’accusa per lui, che si ricandida a giugno, è associazione a delinquere e truffa nell’inchiesta sul fallimento di Aeradria, società che gestiva l’aeroporto. Anche a Bologna il sindaco ricandidato Virginio Merola è sotto inchiesta per omissione d’atti d’ufficio, in un fascicolo sul mancato sgombero di un’occupazione in via di Mura di Porta Galliera. Si deciderà a giugno, con un processo bis in appello, la sorte di Vasco Errani, ex governatore per il quale la Cassazione aveva annullato (con rinvio) una condanna per falso ideologico, nella vicenda Terremerse, assolto in primo grado.

TOSCANA. A Firenze, nel processo sull’urbanizzazione dell’area di Castello, nell’ottobre del 2015, la Corte di appello ha condannato l’ex assessore comunale all’Urbanistica Gianni Biagi a due anni e mezzo per corruzione insieme a Salvatore Ligresti. A un anno e un mese è stato condannato Graziano Cioni, ex assessore alla sicurezza. Sempre l’urbanistica protagonista nel processo Quadra che ha portato, nel novembre 2013, a 19 condanne fra le quali quella per Alberto Formigli, ex capogruppo Pd in Consiglio comunale: in primo grado, tre anni e 9 mesi con accusa di corruzione e peculato. A dicembre 2016 arriva, in Cassazione, la condanna definitiva a un anno e mezzo per omicidio colposo per l’ex sindaco Leonardo Domenici. I fatti si riferiscono alla morte di una giovane ricercatrice precipitata, la notte fra il 14 e 15 luglio 2008, da un bastione del Forte Belvedere. Dal dicembre 2015 è iscritto nel registro degli indagati il sindaco di Siena Bruno Valentini. Le ipotesi di reato sono falso in atto pubblico, abuso di ufficio e truffa. Le indagini, che coinvolgono altre 8 persone, riguardano la costruzione di un campo da baseball a Monteriggioni dove l’esponente dem è stato primo cittadino tra il 2011 e il 2014. A Livorno indagati per la gestione dell’azienda dei rifiuti l’ex sindaco Alessandro Cosimi e gli assessori Bruno Picchi e Walter Nebbiai.

LAZIO. Il Pd di Roma e del Lazio è stato straziato da Mafia Capitale. Il primo giudizio è arrivato nei confronti di Daniele Ozzimo, ex assessore dem: lo scorso 7 gennaio è stato condannato in primo grado a 2 anni e 2 mesi per corruzione. Ha annunciato l’appello. Nell’inchiesta sono finiti altri democratici. Tra i 46 imputati c’è anche Mirko Coratti, accusato di corruzione: prima dello scandalo era presidente dell’Assemblea capitolina. Indagati anche Maurizio Venafro, ex capo di gabinetto di Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, e Andrea Tassone, ex presidente del X municipio, quello ad alta densità mafiosa di Ostia. Pierpaolo Pedetti, ex consigliere Pd, è anche lui accusato di corruzione e turbativa d’asta. L’indagine sulle spese pazze della Regione tra il 2010 e il 2013 è stata chiusa lo scorso dicembre. Riguarda 14 ex consiglieri dem: tra loro l’attuale sindaco di Fiumicino, Esterino Montino, i parlamentari Giancarlo Lucherini, Bruno Astorre, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia e Daniela Valentini, Enzo Foschi e Marco Di Stefano. Lo stesso Di Stefano è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio, truffa e falso per presunti illeciti legati a un mega affare immobiliare. Luigi Lusi, ex senatore romano del Pd, è stato condannato in primo grado a 8 anni per appropriazione indebita, per aver messo le mani sui rimborsi elettorali della Margherita, di cui è stato tesoriere (2002-2012). Ignazio Marino rischia due processi: scontrini e onlus.

MARCHE. La Procura di Ancona ha chiesto 66 rinvii a giudizio per l’inchiesta delle spese pazze in Regione. Praticamente tutto l’ex Consiglio. Le spese contestate a esponenti di destra e sinistra ammontano a 1,2 milioni di euro. Indagati l’ex governatore Gianmario Spacca (eletto con il Pd, poi avvicinatosi al centrodestra), l’ex presidente del Consiglio Vittoriano Solazzi (ex Pd), nonché assessori dell’attuale giunta come Angelo Sciapichetti.

UMBRIA. L’inchiesta della Procura di Terni sullo smaltimento del percolato dalla discarica di Vocabolo Valle vede fra gli indagati il sindaco della città Leopoldo Di Girolamo. Fabio Paparelli, vicegovernatore, è a processo per stabilizzazioni sospette di personale della Provincia.

ABRUZZO. Tangenti per i lavori all’oratorio Don Bosco de L’Aquila dopo il terremoto del 2009. Con questa accusa nel novembre 2015 è finito ai domiciliari l’ex vicesindaco della città Roberto Riga. L’inchiesta riguarda appalti per 28 mila euro.

PUGLIA. Il nome più noto è l’ex assessore regionale della giunta Vendola, poi diventato senatore, Alberto Tedesco: deve ancora affrontare un processo, negli altri – sempre del filone sanità – è stato prosciolto. L’ex sindaco di Brindisi Mimmo Consales è stato messo ai domiciliari il 6 febbraio scorso con l’accusa di aver intascato tangenti. L’ex presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, e il suo assessore all’ambiente Michele Conserva, sono accusati di pressioni sui dirigenti della Provincia per la concessione all’Ilva dei Riva dell’autorizzazione a smaltire i rifiuti nelle discariche interne alla fabbrica. Nella stessa inchiesta, con l’accusa di favoreggiamento, è finito un altro assessore della giunta Vendola, il tarantino Donato Pentassuglia. Altre inchieste: il consigliere regionale Michele Mazzarano è sotto processo per finanziamento illecito ai partiti per aver ricevuto 70 mila euro da Gianpaolo Tarantini, l’imprenditore che avrebbe organizzato le serate per Silvio Berlusconi. Ancora: il consigliere regionale Fabiano Amati, condannato in appello a 6 mesi per tentato abuso d’ufficio; Gerardo De Gennaro, ex consigliere regionale, coinvolto in un’inchiesta su sei grandi opere edilizie a Bari, e, ultimo in ordine di tempo, il consigliere regionale Ernesto Abaterusso condannato a un anno e 6 mesi (primo grado, il pm aveva chiesto l’assoluzione) per truffa all’Inps.

BASILICATA. Il governatore Marcello Pittella è imputato in Rimborsopoli – è stato già condannato dalla Corte dei conti insieme, tra gli altri, al deputato Vincenzo Folino – ed è indagato per corruzione elettorale nell’inchiesta sul dissesto di Potenza, il buco da quasi 24 milioni. Trentacinque gli indagati sul crac del municipio, tra cui gli ex assessori Giuseppe Ginefra e Federico Pace. Tra i rinviati a giudizio con l’accusa di aver percepito indebitamente rimborsi dal fondo per le attività istituzionali ci sono anche il sottosegretario alla Sanità Vito De Filippo e l’assessore regionale all’Agricoltura Luca Braia.

CAMPANIA. Il governatore Vincenzo De Luca è, nell’ordine: imputato di associazione a delinquere e tentata concussione per il progetto Seapark di Salerno (il pm ha chiesto l’assoluzione) e di abuso d’ufficio per la realizzazione del Crescent; indagato di concussione per induzione per la trattativa intorno alla sentenza del giudice civile che lo ha mantenuto in carica nonostante la legge Severino ne imponesse la sospensione dopo una condanna in primo grado nella vicenda del mai realizzato termovalorizzatore di Salerno (condanna annullata in appello). Tre suoi stretti collaboratori sono indagati: l’ex segretario Nello Mastursi, ritenuto uno dei registi della trattativa sulla sentenza; il consigliere per la Sanità, Enrico Coscioni, accusato di tentata concussione; il consigliere per l’Agricoltura, Franco Alfieri, raggiunto da un avviso di garanzia per omissione di atti d’ufficio per non aver acquisito beni confiscati a un clan criminale al patrimonio di Agropoli, di cui è primo cittadino. A Napoli Antonio Bassolino è uscito indenne da quasi tutti i processi sui rifiuti. Ne pende ancora uno che lo vede imputato di peculato. Più grave la posizione processuale dell’ex sindaco di Villa Literno ed ex consigliere regionale Enrico Fabozzi, condannato in primo grado a 10 anni per concorso esterno in associazione camorristica. Due sindaci devono difendersi in inchieste su appalti pilotati: Giosy Ferrandino (Ischia), sotto processo per le presunte tangenti di Cpl Concordia sulla metanizzazione dell’isola, e Giorgio Zinno (San Giorgio a Cremano), raggiunto da un avviso di conclusa indagine.

CALABRIA. Concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione elettorale e voto di scambio. Sono tra i reati contestati a politici dem investiti nel 2014 dall’inchiesta Rimborsopoli e da alcune indagini antimafia. L’ex sottosegretario Sandro Principe è finito ai domiciliari nell’inchiesta “Sistema Rende”: voti in cambio di appalti e posti di lavoro ai clan. Per corruzione elettorale e voto di scambio politico-mafioso è indagato il consigliere regionale Orlandino Greco. Ha trascorso 9 mesi ai domiciliari l’ex assessore regionale Nino De Gaetano, nell’inchiesta Rimborsopoli per la quale sono indagati anche Nicola Adamo, ex consigliere regionale, l’ex presidente del Consiglio Antonio Scalzo, l’ex assessore Carlo Guccione e l’ex vicegovernatore Vincenzo Ciconte. Il consigliere regionale Michelangelo Mirabello è rinviato a giudizio per concorso in bancarotta.

SICILIA. È indagato a Enna Mirello Crisafulli, per abuso di ufficio e occupazione abusiva di suolo pubblico per l’apertura della facoltà di medicina dell’Università romena Dunarea di Jos Galati. Ha ricevuto il 10 dicembre scorso un avviso di garanzia per una distrazione di fondi destinati all’università Kore. A Roma Crisafulli deve rispondere con il ministro Alfano di abuso di ufficio per il trasferimento del prefetto di Enna Fernando Guida. Insieme a Elio Galvagno, ex deputato regionale, Crisafulli infine è stato condannato a due mesi per un blocco dell’autostrada Pa-Ct nel 2010: per entrambi il tribunale ha pronunciato la prescrizione per una truffa da 9 milioni di euro all’Ato rifiuti. A Marsala sta per essere processato per voto di scambio il consigliere comunale Vito Daniele Cimiotta, a Trapani è a giudizio il deputato Nino Papania per associazione a delinquere finalizzata al voto di scambio alle amministrative del 2012 di Alcamo: cibo e promesse di lavoro in cambio del voto. Per le spese pazze del gruppo parlamentare Pd all’Ars le indagini sono state chiuse per peculato nei confronti di 5 deputati regionali. Sorpreso a intascare una mazzetta di 10 mila euro il loro ex collega Gaspare Vitrano è stato condannato a sette anni per concussione.

SARDEGNA. Il segretario regionale, nonché europarlamentare ed ex governatore, Renato Soru, è accusato di evasione fiscale: avrebbe sottratto al fisco più di due milioni. Per lui anche una contestazione di false comunicazioni sociali in un procedimento (è indagato) nato da accertamenti sulla sua Tiscali. Francesca Barracciu, dopo il rinvio a giudizio per peculato, ha dovuto lasciare la poltrona di sottosegretario alla Cultura del governo Renzi: avrebbe speso in modo improprio i fondi ai gruppi del Consiglio regionale, così come una trentina di esponenti Pd. Tra loro il senatore Silvio Lai e i deputati Siro Marrocu e Marco Meloni. C’è un primo condannato: l’ex sindaco di Porto Torres Beniamino Scarpa, in primo grado, si è beccato 4 anni e mezzo.

Da Il Fatto Quotidiano del 21 Aprile 2016. Aggiornato da Redazione web del 3 maggio 2016. A cura di Maddalena Brunetti, Francesco Casula, Michela Gargiulo, Andrea Giambartolomei, Vincenzo Iurillo, Giuseppe Lo Bianco, David Marceddu, Ersilio Mattioni, Lucio Musolino, Tommaso Rodano, Ferruccio Sansa e Andrea Tornago.

LA DIFFERENZA TRA LA POLITICA DEI MODERATI E L'INTERESSE PRIVATO DEI COMUNISTI.

Altro che scissioni! Leone sconfisse Moro e Moro votò per Leone, scrive Francesco Damato il 24 Febbraio 2017. La Democrazia cristiana non conobbe divisioni da risentimento o da dissenso fino a quando il sistema politico fu abbattuto dal giustizialismo. Un parallelo storico con quanto sta accadendo nel Pd. Noi vecchi cronisti della politica abbiamo la sciagurata abitudine o tentazione di paragonare ciò che accade e che ancora possiamo raccontare a ciò che abbiamo già visto e riferito in passato. Forse non è giusto perché nulla mai si ripete nelle stesse circostanze. E le circostanze sono un elemento non certo trascurabile nella valutazione delle cose e degli uomini. Ma poi si finisce sempre per cadere, ripeto, in tentazione. Ci sono caduto qualche giorno fa nella buvette di Montecitorio col povero, incolpevole Guglielmo Epifani, mandandogli di traverso – temo – un caffè che ha improvvisamente interrotto di gustarsi per correre letteralmente via. Ho dunque chiesto al povero Epifani, esponente tanto autorevole e fidato della corrente o area di Pier Luigi Bersani da essere poi intervenuto a suo nome nella discussione di domenica all’assemblea nazionale del Pd sulla convocazione del controverso congresso, che cosa avrebbe detto da giovane, anzi da giovanissimo, studente di filosofia non so in quale Università, se il contrasto cronico fra i due cosiddetti cavalli di razza della Dc Amintore Fanfani ed Aldo Moro – fosse sfociato nella scissione del principale partito italiano. Attorno al quale gravitavano gli equilibri politici del Paese come più di quarant’anni dopo, fatte le debite differenze di natura sociale e politica, interna e internazionale, sarebbe accaduto al Partito Democratico fondato nel 2007 fondendo i resti della Dc e del Pci. Già al nome di Fanfani l’ex segretario generale della Cgil, ma anche ex segretario del Pd, sia pure di transizione, fra le dimissioni di Pier Luigi Bersani e l’elezione di Matteo Renzi nel 2013 con la doppia procedura del congresso e delle primarie, mi ha guardato storto. Ho avvertito la sensazione che Epifani mi volesse contestare il paragone, implicito nella mia domanda, tra Fanfani e Renzi, per quanto toscani e alquanto decisionisti entrambi, diciamo la verità. Ma si è forse trattenuto dal farlo per non dover difendere Fanfani, che nella cultura italiana di sinistra è stato visto prevalentemente a destra, a dispetto dei suoi trascorsi dossettiani, e della famosa comunità “del Porcellino”, per la sua infelice e comunque sfortunata guida della campagna referendaria contro il divorzio nel 1974. Epifani si è perciò limitato a difendere in qualche modo la Dc rispetto al Pd nella versione e guida renziana. «La Dc – mi ha detto – aveva un sistema diverso e forte di regole». A questo punto sono stato io a trattenermi dalla tentazione di ricordargli che nella Dc si era troppo a lungo tollerata, anche ai tempi di Fanfani, l’abitudine di fare i congressi usando la manica larga con i tesseramenti, per cui le correnti si misuravano spesso con i morti che continuavano a votare con i vivi. Mi sono trattenuto non tanto per non mettere in imbarazzo Epifani ma per rispettare quelle volte in cui mi capitò di votare per la Dc apprezzando la linea di Moro, prima che l’unificazione socialista, peraltro destinata a fallire, non mi avesse fatto cambiare scelte o abitudini elettorali. Ho preferito perciò ripiegare, con Epifani, su un altro argomento o motivo di riflessione sulla “enormità”, secondo me, di una scissione da “sentimento”, come una volta è sfuggito di dire a Massimo D’Alema parlando dei metodi renziani di gestione del partito, e non solo di linea politica. E ho cominciato a ricordare all’ex segretario del Pd una vicenda risalente alla fine del 1971, quando lui aveva poco più di 21 anni e mezzo, come ho potuto rilevare consultando sull’elenco dei deputati i suoi dati anagrafici: le elezioni presidenziali che portarono al Quirinale Giovanni Leone. Ma Epifani mi ha interrotto bruscamente, lasciando a metà la tazzina di caffè e correndo spero – ad un appuntamento dimenticato, con un gesto comunque infastidito di saluto. Ebbene, quella vicenda continuo a ricordarla o raccontarla a voi da testimone. La Dc, guidata in quel momento dal fanfaniano Arnaldo Forlani, di cui era vice segretario Ciriaco De Mita, della corrente di sinistra chiamata “Base”, entrambi protagonisti di un convegno all’insegna del cambio di generazione svoltosi a San Ginesio, ridente località delle Marche ora purtroppo devastata dal terremoto, arrivò all’appuntamento parlamentare per la successione a Giuseppe Saragat con la candidatura di Fanfani. Che furbescamente si era collocato in una posizione che riteneva vantaggiosa: quella di presidente del Senato. Moro, il suo storico antagonista nella Dc, era ministro degli Esteri di un governo di centrosinistra guidato da Emilio Colombo. Per ben 6 votazioni, fra il 9 e il 12 dicembre, i parlamentari e i delegati regionali democristiani scrissero sulle loro schede il nome di Fanfani senza riuscire ad eleggerlo: né da soli né con l’appoggio di altri. Che poi erano sulla carta solo i repubblicani, essendo i socialdemocratici impegnati a sostenere la conferma di Saragat e i socialisti e i liberali defilati votando i loro candidati cosiddetti di bandiera: rispettivamente, Francesco De Martino e Giovanni Malagodi. Seguirono, fra il 13 e il 14 dicembre, quattro votazioni di cosiddetta decantazione, con i democristiani costretti ad astenersi per non far più contare i loro “franchi tiratori” e convincere Fanfani a rinunciare spontaneamente alla candidatura. Un solo democristiano si rivoltò alle direttive votando dichiaratamente per Moro: l’ex presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. All’undicesima votazione, il 15 dicembre, Fanfani pretese e ottenne dal suo partito un ultimo tentativo sul proprio nome. Ma non riuscì a raccogliere più di 393 voti: 112 meno dei 505 necessari per l’elezione, pari alla maggioranza assoluta dell’assemblea costituita dai deputati, senatori e delegati regionali. “Nano maledetto, non sarai mai eletto”, era stato d’altronde già scritto sulla scheda da un “franco tiratore”. Si passò allora nella Dc alla ricerca di un altro candidato con i soliti incontri al caminetto e infine con la riunione congiunta dei gruppi parlamentari, mentre nell’aula di Montecitorio si svolgevano votazioni inutili, alle quali i democristiani dovevano partecipare astenendosi per non essere tentati di fare di testa loro, votando magari per il ministro degli Esteri. Dal quale i comunisti erano attratti, per quanto l’indimenticabile Giorgio Amendola avvertisse i cronisti nel Transatlantico che «tutti ci hanno chiesto voti, fuorché Moro». All’assemblea congiunta dei “grandi elettori” democristiani, svoltasi la sera del 21 dicembre, il segretario del partito Forlani si presentò con una sorpresa agli occhi e alle orecchie dei suoi colleghi di corrente e dei “dorotei” di Mariano Rumor e Flaminio Piccoli: la contestazione degli umori contro Moro. «E’ un uomo che è stato più volte ministro, per quattro anni segretario del partito, per altri quattro presidente del Consiglio, è oggi il ministro degli Esteri: non vedo una sola ragione per la quale non potrebbe essere degnamente il nostro candidato alla Presidenza della Repubblica», disse Forlani. Moro non era presente all’assemblea. Molti applaudirono, molti altri rimasero immobili. Non restava che votare, a scrutinio naturalmente segreto. Ma qualcuno osservò che s’era fatto ormai troppo tardi e propose di votare l’indomani. Forlani commise l’errore di non avvertire il pericolo di una manovra contro di lui. Ma neppure di questo i fanfaniani gli furono grati. Vidi personalmente, alla fine della riunione, il deputato di Taranto Gabriele Semeraro – un omone alto così – avvicinarsi al segretario e dirgli: “Traditore”. Pallido, Forlani tirò dritto. Nella notte chi si voleva muovere si mosse, alle spalle del segretario del partito. E concordò con i liberali, i socialdemocratici, i repubblicani, qualcuno disse anche con i missini, non con i socialisti, e tanto meno con i comunisti naturalmente, l’appoggio alla candidatura di Giovanni Leone. Per non farla molto sporca dorotei e fanfaniani proposero poi all’assemblea congiunta dei gruppi parlamentari e dei delegati regionali tre nomi Rumor, Piccoli e Leone avvertendo che sull’ultimo era stata accertata la disponibilità dei liberali, repubblicani e socialdemocratici a votarlo. Carlo Donat-Cattin invece propose Moro, dopo avere inutilmente cercato di convincerlo a farsi votare senza aspettare la designazione del partito, mentre i “grandi elettori “dello scudo crociato sfilavano davanti alle urne di Montecitorio senza deporre la scheda, cioè astenendosi. «Per fare i figli bisogna fottere», aveva detto Carlo agli amici nei corridoi della Camera per spiegare la sua posizione, lamentandosi del rifiuto oppostogli da Moro a rompere la disciplina e lealtà di partito. Quella mattina, mentre si votava nei gruppi democristiani, Moro non si fece vedere da nessuno. Rimase orgogliosamente chiuso nell’ufficio del consigliere della Camera Tullio Ancora, un amico al quale, a furia di ammirare Moro, dicevano per scherzo i cronisti, era venuto un ciuffo di capelli bianchi sulla fronte, come all’ex presidente del Consiglio. «Se si fosse abbassato a stringere qualche mano in Transatlantico – mi disse poi il comune amico Nicola Lettieri ce l’avremmo fatta». Moro perse lo scrutinio con meno di cinque voti di differenza su Leone, per il quale si votò poi in aula il 23 dicembre, alla ventiduesima volta dall’inizio della corsa al Quirinale. Ma gli mancò un solo voto – quello di un deputato monarchico campano arrivato in aula troppo tardi ai 504 necessari per l’elezione. Fu annunciata un’altra votazione, la ventitreesima, per il giorno dopo, vigilia di Natale. Quella mattina passai dalla casa di Lettieri, vicino Ponte Milvio, per andare insieme alla Camera e farmi raccontare come fosse andata una riunione di corrente svoltasi la sera prima. Mi disse di avere invitato i suoi colleghi a votare scheda bianca per protesta contro la “slealtà” dei dorotei e dei fanfaniani. Che avevano peraltro mandato Rumor a casa di Moro per manifestargli il “dispiacere” di non averlo potuto appoggiare a causa del significato politico “improprio” che aveva finito per assumere una sua candidatura, troppo gradita al Pci. «Mi avete confezionato un abito su misura», aveva risposto freddamente il ministro degli Esteri. Tu oggi che farai?, chiesi a Nicola mentre prendevo un caffè offertomi dalla moglie. «Naturalmente voto contro», mi rispose. Come se Moro lo avesse sentito, squillò il telefono. Dall’altro capo del filo c’era proprio lui, il ministro degli Esteri, che disse, testualmente e forte, tanto da sentirlo bene anche io: «Nicola, ti raccomando. Si vota tutti Leone perché lui non c’entra con quello che è stato fatto contro di me. Non fate scherzi». Leone quella mattina fu eletto con 518 voti, 13 in più dei 505 necessari. E fu proprio lui dopo sei anni e mezzo, al Quirinale, anche a costo di doversi poi dimettere da presidente della Repubblica, sia pure per altri motivi ufficiali, a raccogliere gli appelli di Moro dalla “prigione” delle Brigate rosse perché venisse salvato dalla condanna a morte comminatagli dai terroristi. In particolare, Leone predispose la grazia per Paola Besuschio, che era nell’elenco dei 13 detenuti di cui le Brigate rosse avevano reclamato lo scambio con il loro ostaggio. Purtroppo con una tempestività della quale Leone non si diede pace sino alla morte, i terroristi uccisero Moro la mattina del 9 maggio 1978, poche ore prima che il capo dello Stato potesse firmare la grazia. E Fanfani – sì, lui, il vecchio antagonista di Moro – potesse parlare alla direzione nazionale della Dc per rimettersi alle decisioni autonome del presidente della Repubblica. La Dc non conobbe scissioni da risentimento o dissenso fino a quando il sistema politico non fu terremotato dal giustizialismo. E non ne conobbe neppure l’altro, grande partito: il Pci. Dove Pietro Ingrao nel 1969 rimase disciplinatamente nel partito quando i suoi compagni del Manifesto ne furono espulsi. E rimase anche nel Pds- ex Pci quando Cossutta se ne andò per creare Rifondazione Comunista. Egli restò, sia pure ancora per poco, in quel “gorgo” evocato da Gianni Cuperlo domenica scorsa davanti all’assemblea nazionale del Pd per cercare di trattenere dalla scissione le altre minoranze, pur essendo anche lui critico con Renzi. Non pensarono mai ad una scissione nel Pci neppure i cosiddetti miglioristi di Giorgio Napolitano ed Emanuele Macaluso quando dissentirono da Enrico Berlinguer sui rapporti con i socialisti e sulla “diversità” dei comunisti orgogliosamente rivendicata dal segretario, sino al rischio di un pericoloso isolamento.

IL TRAVESTITISMO.

La razza italiana esiste. Ed è dannata. Ogni giorno il Pd ci offre una chicca benefica per distrarsi da caldo e afa, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 26/07/2017, su "Il Giornale". Ogni giorno il Pd ci offre una chicca benefica per distrarsi da caldo e afa. Seguire il dibattito interno al partito di Renzi è diventato cult, un po' come guardare Paperissima o, una volta, Scherzi a parte. Ancora non si è spenta l'eco dello psicodramma per l'abbraccio di Pisapia alla Boschi che irrompe sulla scena lo sdegno collettivo e democratico per una frase pronunciata da Patrizia Prestipino, che ieri abbiamo scoperto essere membro della direzione e responsabile del dipartimento animali del Pd. Commentando ai microfoni di Radio Campus un'altra perla del dibattito a sinistra (la polemica sull'istituzione annunciata da Renzi di un «Dipartimento mamme», ritenuto da molti compagni un'inaccettabile scelta sessista), la renziana Prestipino ha detto che si tratta di una scelta giusta, perché noi italiani «per continuare la nostra razza dobbiamo dare sostegno alle mamme». Razza? Vabbè, alla signora (con un passato politico turbolento e avventuroso), non hanno spiegato che noi umani non ci classifichiamo in razze in base al Paese di origine, come accade nel mondo animale, tipo pastore belga, pastore tedesco o pastore bergamasco. La razza umana è un po' più difficile da inquadrare, come dimostra la stessa Prestipino. Ma se proprio vogliamo definirci, mi appellerei a Giuseppe Verdi che nel suo Rigoletto ci definì «cortigiani vil razza dannata». Concetto fatto suo oltre mezzo secolo più tardi da Indro Montanelli, che su questa italica caratteristica ha costruito il cardine del suo pensiero controcorrente. La razza italiana è composta da un manipolo di eroi, martiri e santi e da una moltitudine di cortigiani intellettuali e uomini comuni, benestanti e poveracci in questo uguali sono - che attaccano il cappello dove trovano vantaggio e convenienza, cioè all'uomo forte di turno. Che sia un invasore, che si chiami Mussolini, Berlusconi o Renzi poco cambia. Dove tira il vento, la «razza italiana» va, stando attenta a non mettere mai radici, soprattutto in politica. Non mi sorprende quindi che un tipo come la Prestipino (nulla di personale, questa gaffe me la rende simpatica) sia approdata alla corte di Renzi dopo essere stata in Democrazia proletaria. La domanda è un'altra: chi e perché l'ha fatta entrare. O meglio: ma questo, che razza di Paese è?

Ed ecco il naturale sbocco letterario con Bruno Vespa: "Italiani voltagabbana". Fino all'autunno del 2013 Matteo Renzi era solo, attaccato più all'interno che all'esterno del suo partito. Nel giro di pochi mesi, molti dei suoi avversari hanno voltato gabbana, sono diventati renziani, e alcuni fanno parte della squadra di governo. Dopo la clamorosa vittoria del Pd alle elezioni europee del maggio 2014, un folto gruppo della classe dirigente del paese si è messo a disposizione del giovane presidente del Consiglio, sperando di conquistare un ruolo di primo piano. «Ma visto che da noi non cambiava niente, l'ondata di renzismo è improvvisamente cessata» racconta il premier nel lungo colloquio accordato a Bruno Vespa per ...Fino all'autunno del 2013 Matteo Renzi era solo, attaccato più all'interno che all'esterno del suo partito, è scritto nella recensione del libro della Mondadori. Nel giro di pochi mesi, molti dei suoi avversari hanno voltato gabbana, sono diventati renziani, e alcuni fanno parte della squadra di governo. Dopo la clamorosa vittoria del Pd alle elezioni europee del maggio 2014, un folto gruppo della classe dirigente del paese si è messo a disposizione del giovane presidente del Consiglio, sperando di conquistare un ruolo di primo piano. «Ma visto che da noi non cambiava niente, l'ondata di renzismo è improvvisamente cessata» racconta il premier nel lungo colloquio accordato a Bruno Vespa per questo libro. I voltagabbana sono una costante della storia nazionale. Dal Risorgimento, quando venivamo accusati di vincere le guerre con i soldati degli altri, alla prima guerra mondiale, di cui ricorre il centenario, quando in nome del «sacro egoismo» a un certo punto ci trovammo a combattere a fianco delle due fazioni opposte, per scegliere infine quella vincente, rivolgendo le armi anche contro i tedeschi, nostri alleati da trent'anni. Mussolini, che voltò gabbana come interventista prima della Grande Guerra, si alleò con Hitler nella seconda anche perché gli era rimasto il complesso del «tradimento» del 1915. Alla caduta del fascismo, i voltagabbana furono milioni, e Vespa narra con divertito stupore la storia di prestigiosi intellettuali e artisti diventati all'improvviso antifascisti dopo aver orgogliosamente inneggiato al Duce fino al 25 luglio. E sulla pagina vergognosa dell'8 settembre 1943 è ancora aperto il dibattito se gli italiani abbiano tradito i tedeschi o – secondo una versione più recente – se siano stati i tedeschi a tradire gli italiani. Nella Prima Repubblica i politici cambiavano spesso corrente (specie nella Dc) piuttosto che partito, ma i tradimenti più clamorosi furono senza dubbio quelli di molti dirigenti socialisti nei confronti di Craxi. Tuttavia, il trionfo dei voltagabbana si è avuto nella Seconda Repubblica e all'alba della Terza, quella che stiamo vivendo con la riforma costituzionale. Centinaia di parlamentari hanno cambiato casacca con sconcertante disinvoltura e diversi governi sono nati e caduti con il contributo decisivo dei «senza vergogna». Berlusconi e Prodi ne sono stati le vittime principali. Dopo essere stato via via abbandonato da Bossi, Fini e Casini, in queste pagine il Cavaliere accusa severamente Alfano, che si difende dall'accusa di «parricidio» e parla, semmai, di «figlicidio». A sua volta, il Senatùr è stato abbandonato da chi lo adorava e Beppe Grillo ha già avuto le sue molte delusioni. Nel libro, naturalmente, ampio spazio viene dedicato a Matteo Renzi, ai retroscena della sua ascesa al potere e al governo, e ai tanti che lo detestavano e ora lo amano. E ampio spazio viene dedicato alle donne: quelle che Renzi ha portato al governo, o a incarichi di grande potere, e a Francesca Pascale, che per la prima volta racconta nei dettagli la sua storia d'amore con il Cavaliere. In Italiani voltagabbana, Bruno Vespa dipinge con il consueto stile incalzante un affresco del costume nazionale, rileggendo la storia e la cronaca sotto un'angolazione umanissima, anche se assai poco lusinghiera.

Bruno Vespa ha cominciato a 16 anni il lavoro di giornalista e a 24 si è classificato al primo posto nel concorso che lo ha portato alla Rai. Dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Dal 1996 la sua trasmissione «Porta a porta» è il programma di politica, attualità e costume più seguito. Per la prima volta nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in diretta. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il Saint-Vincent per la televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello alla carriera; nello stesso anno ha vinto l’Estense per il giornalismo. Fra i più recenti volumi pubblicati da Mondadori ricordiamo: Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi, Vincitori e vinti, L’Italia spezzata, L’amore e il potere, Viaggio in un’Italia diversa, Donne di cuori, Il cuore e la spada, Questo amore, Il Palazzo e la piazza e Sale, zucchero e caffè.

Opportunisti, paurosi, voltagabbana: italiani, non siete cambiati, scrive Fertilio Dario su “Il Corriere della Sera”. Dopo le rivelazioni dei colloqui telefonici tra il luglio e il settembre '43, gli storici si interrogano sull'oggi. Italiani, povera gente? Di certo opportunisti, paurosi, trasformisti. Persino patetici, nello sforzo di rimuovere la catastrofe del regime. Infantili, con l'illusione assurda di invitare a uno stesso tavolo nazisti e alleati. Gattopardeschi, e sicuri che dopo l'arresto di Mussolini tutto dovesse cambiare per poter restare come prima. Disinformati, al punto da immaginare che gli angloamericani (in accordo con la propaganda ufficiale) sarebbero stati "inchiodati sul bagnasciuga della Sicilia". Equilibristi, in omaggio alla celebre arte di arrangiarsi. Così almeno appare la nostra classe politica e intellettuale, stando alle intercettazioni telefoniche registrate dal Servizio d'informazione militare fra il 25 luglio e l'8 settembre del '43. Ieri le ha pubblicate il Corriere, con il commento di Renzo De Felice, e oggi l'interrogativo è al vaglio degli storici: possibile che in quegli anni gli italiani fossero proprio così? Che tutti, o quasi, si ostinassero a vivere in un mondo di favole littorie e slogan mascelluti quando già la situazione era precipitata? Possibile, certo, secondo Giorgio Spini. Anzi, addirittura scontato. "Già alla fine degli anni Quaranta, afferma, Federico Chabod mi chiese di analizzare autobiografie e memoriali dei generali italiani nei giorni della sconfitta. Ne venne fuori che nessuno aveva capito nulla, nè aveva avuto sentore del 25 aprile, eccetto il generale Cadorna per via dei suoi contatti con il Partito d'azione e La Malfa". Perciò le rivelazioni di oggi, secondo Spini, "sono soltanto la conferma del lavoro di allora: il deserto mentale e l'imbecillità della classe dirigente. Qui non c'entravano destra o sinistra. Il fatto era che la selezione dei gruppi dirigenti nell'Italia fascista, militari compresi, era stata realizzata alla rovescia, promuovendo i più stupidi. Le conversazioni telefoniche, le sciocchezze che venivano prese sul serio confermano come questi importanti generali e dirigenti di regime fossero veramente poveri diavoli". C'era allora una colpa collettiva? "Non la addosserei agli italiani: fra loro ce n'erano anche alcuni tutt' altro che scioccherelli, come De Gasperi. Il problema stava nella selezione negativa del regime, che dopo tutto era rimasto fedele alla ideologia del manganello". Un simile stato di minorità mentale, secondo il politologo Dino Cofrancesco, è testimoniato dall' atteggiamento collettivo nei confronti della guerra. "Proprio come i sudditi di due o tre secoli prima, i dirigenti concepivano il conflitto in corso come "limitato" e reversibile, parte di un destino che restava al di sopra di loro, e sul quale soltanto il capo supremo poteva intervenire. A differenza dei cittadini di uno Stato democratico, avevano accolto la conquista dell'Abissinia come un miracolo compiuto da un altro, ora si illudevano che un altro li avrebbe cavati d'impaccio. Come dire: abbiamo avuto una mano sfortunata alla roulette, dunque raccogliamo le fiches e torniamocene a casa. Il fascismo, che pure per molti aspetti aveva modernizzato il Paese, li aveva educati a dipendere da qualcun altro, ne aveva fatto soltanto dei sudditi. Oggi a nessuno sfugge che le democrazie, più restie delle dittature a intraprendere le guerre, sono poi inesorabili nel condurle a termine. Invece nessuno aveva detto agli italiani d'allora che le guerre contemporanee si combattono in un altro modo, sono conflitti totali nei quali tutti i cittadini vengono coinvolti più o meno allo stesso modo, sopportandone fino in fondo le conseguenze". Anche Paolo Alatri, di fronte alle rivelazioni sull'impreparazione psicologica degli italiani e alla disinformazione di cui erano vittime, è molto colpito. "Tutti si muovevano in una specie di gelatina - afferma - in cui trovavano accoglienza le possibilità e le ipotesi più inimmaginabili. C' era chi fantasticava su possibili alleanze con i russi, chi prevedeva un abbraccio con gli inglesi, chi avrebbe voluto volentieri gli uni e gli altri alla sua tavola. Incredibile, poi, la generale sottovalutazione del ruolo dei tedeschi, come se mettersi d'accordo con loro fosse stato facile quanto bere un bicchier d'acqua. E che dire poi degli americani? Nei discorsi collettivi parevano scomparsi, inghiottiti o rimossi dalla coscienza". Come si era potuto arrivare a simili autoinganni? "La radice del fenomeno va cercata nella politica di grande potenza: l'Italia si fingeva un Paese guerriero e attrezzato per tutte le evenienze, senza averne nemmeno le basi. Non c'è da stupirsi se fra i suoi esponenti o simpatizzanti più in vista non ne esistesse uno solo con una prospettiva realistica. Basti pensare al progetto di "Roma città aperta". Oppure a quel senatore Felici, nazionalista monarchico e per molti anni procuratore di D'Annunzio nei suoi rapporti col fascismo, convinto che la penetrazione degli Alleati in Italia non sarebbe mai potuta riuscire". Ma siamo poi tanto mutati, cinquant'anni dopo? Viene da dubitarne, se diamo retta ad Arturo Colombo, pronto a riscontrare nei discorsi dell'Italietta 1943 molte affinità con la cultura poi affermatasi nel dopoguerra. Ecco Spataro, destinato a diventare un leader della Dc, ragionare sulla necessità di creare un centro politico capace di "logorare" gli avversari. Ecco la costante paura del comunismo, un autentico spauracchio collettivo, che lascia in ombra qualsiasi volontà costruttiva di mettere in piedi un sistema politico liberaldemocratico. Ecco Missiroli, convinto che il vecchio non debba morire, e deciso a ritornare immediatamente a galla. Ed ecco infine il sacro slogan "Credere, obbedire, combattere" riadattato alle necessità del momento. Credere? A niente e nessuno. Obbedire? Ai vincitori. Combattere? Sì, ma per salvare la pelle.

Italiani, popolo di poeti, eroi e voltagabbana, scrive “L’Unità”. Che ne è oggi dell’impegno degli intellettuali italiani? E, prima ancora, esistono ancora veri intellettuali in Italia? Se ne è discusso all’Università di Bordeaux. Il più noto studioso di letterature comparate italiano, Remo Ceserani, ha svolto una relazione sulla figura, tutta italica, del voltagabbana. Una tipologia di personaggio oggi molto presente nel nostro Paese, tra i politici, ma anche tra gli uomini di cultura. Tra gli esempi riportati da Ceserani, a un uditorio francese piuttosto sconcertato, il «responsabile» Domenico Scilipoti (passato dalla sera alla mattina da Antonio Di Pietro a Silvio Berlusconi), l’ex presidente del Senato e tutt’ora senatore Pdl Marcello Pera (da giovane simpatizzante radicale, oggi vicino alle posizioni del cattolicesimo più reazionario), i giornalisti Paolo Guzzanti (prima socialista, poi berlusconiano, poi antiberlusconiano - fu lui a coniare il termine «mignottocrazia», che Ceserani ha faticato un po’ a tradurre in francese - prima di tornare nuovanente a sostenere il Cavaliere) e Giampaolo Pansa (prima a sinistra, ora artefice, da destra, di un acceso revisionismo storiografico sulla Resistenza), i politici Claudio Velardi (prima consulente di Massimo D’Alema, poi di Renata Polverini) e Daniele Capezzone (prima radicale ora portavoce del Pdl). E, ancora, Giuliano Ferrara, Vittorio Sgarbi, Daniela Santanché, Tiziana Maiolo. Insomma, cambiare casacca per opportunismo e tornaconto personale, anche se ammantandosi di nobili motivazioni, sembra essere diventata una moda radicata e diffusa a tutti i livelli.

Già, la solita sinistra. Vede la pagliuzza negli occhi altrui e non la trave nei suoi occhi.

Da “Italiani Voltagabbana” di Bruno Vespa. Neri con riserva. Da Dario Fo ad Eugenio Scalfari: nel libro di Bruno Vespa, tutti gli intellettuali di sinistra che furono fascisti, scrive “Libero Quotidiano”. La storia del nostro Paese è ricca di retroscena e di aneddoti destinati a fare scalpore: tra queste storie, diverse vengono svelate o ricordate da Bruno Vespa nel suo nuovo libro, Italiani volta gabbana. Dalla prima guerra mondiale alla Terza Repubblica, sempre sul carro del vincitore, in uscita oggi, giovedì 6 novembre (edizione Mondadori). Nel terzo capitolo di questo volume, Vespa parla di diversi intellettuali che si dichiararono antifascisti alla caduta del regime di Benito Mussolini, ma che prima stavano dalla parte del Duce: tra di loro ci sono nomi altisonanti, come Giuseppe Ungaretti o Dario Fo, o altri comunque ben noti, come Indro Montanelli o Enzo Biagi. Tutto nasce dalla rivista Primato, diretta da Giuseppe Bottai: il politico fascista più illuminato sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. La rivista nacque nel 1940 e chiuse il 25 luglio 1943, e furono tantissimi intellettuali a collaborare per questo giornale. "Fascista in eterno": si definì così Ungaretti durante il regime. Il poeta notò che "tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore", e firmava appelli per sostenere Mussolini, salvo poi rinnegarlo dopo il 25 luglio 1943, quando firmò documenti contrari ai precedenti, tanto da meritarsi una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev. Stessa parabola per Norberto Bobbio, che da studente si era iscritto al Guf (l'organismo universitario fascista) e aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Il filosofo e senatore a vita, cercò raccomandazioni per poter evitare problemi che gli derivavano da frequentazioni "non sempre ortodosse", e il padre Luigi fu costretto a rivolgersi allo stesso Mussolini. Bobbio ottenne la cattedra, mentre nel dopoguerra diventò un emblema della sinistra riformista: il 12 giugno 1999, a Pietrangelo Buttafuoco del quotidiano Il Foglio, il filosofo ammise: "Il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne vergognavamo. Io che ho vissuto la gioventù fascista mi vergognavo di fronte a me stesso, a chi era stato in prigione e a chi non era sopravvissuto". Indro Montanelli non ha mai nascosto di essere stato fascista: "Non chiedo scusa a nessuno", ribadiva sul Corriere della Sera. Stesso discorso per Enzo Biagi, che nel dopoguerra ha sempre mantenuto gratitudine per Bottai. Eugenio Scalfari, dopo il 1945, parlò di "quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti", senza celare mai le proprie ferme convinzioni giovanili: anche lui, fino alla sua caduta, sostenne il fascismo e la sua economia corporativa. Più difficile è stato negare la propria fede fascista, da parte di Dario Fo, che a 18 anni si arruolò nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica Sociale Italiana. Nel 1977 Il Nord, piccolo giornale di Borgomanero, raccontò quei trascorsi della vita di Fo: l'attore querelò subito Il Nord, e al processo disse che l'arruolamento era stato soltanto "un metodo di lotta partigiana". Le testimonianze, invece, lo inchiodarono: la sentenza del tribunale di Varese, datata 7 marzo 1980, stabilì che "è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani". Dario Fo non fece ricorso.

Il numero dei voltagabbana tra gli intellettuali alla caduta del regime fu clamoroso, scrive Bruno Vespa su "Il Giornale". Giuseppe Bottai era il politico più illuminato del fascismo sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. Ebbene, la sua rivista «Primato» fu pubblicata dal 1940 (quando le leggi razziali avevano già consumato i peggiori misfatti) e chiuse solo con la caduta del regime il 25 luglio 1943. In quegli anni, Bottai poté contare sulla fervida collaborazione del meglio della cultura italiana: Giorgio Vecchietti (condirettore), Nicola Abbagnano, Mario Alicata, Corrado Alvaro, Cesare Angelini, Giulio Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Piero Bargellini, Arrigo Benedetti, Carlo Betocchi, Romano Bilenchi, Walter Binni, Alessandro Bonsanti, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Enzo Carli, Emilio Cecchi, Luigi Chiarini, Giovanni Comisso, Gianfranco Contini, Galvano Della Volpe, Giuseppe Dessì, Enrico Emanuelli, Enrico Falqui, Francesco Flora, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Bruno Migliorini, Paolo Monelli, Eugenio Montale, Carlo Muscetta, Piermaria Pasinetti, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Vittorio G. Rossi, Luigi Russo, Luigi Salvatorelli, Sergio Solmi, Ugo Spirito, Bonaventura Tecchi, Giovanni Titta Rosa, Giuseppe Ungaretti, Nino Valeri, Manara Valgimigli, Giorgio Vigolo, Cesare Zavattini. Musicisti come Luigi Dallapiccola e Gianandrea Gavazzeni. Artisti come Amerigo Bartoli, Domenico Cantatore, Pericle Fazzini, Renato Guttuso, Mino Maccari, Mario Mafai, Camillo Pellizzi, Aligi Sassu, Orfeo Tamburi.

GIUSEPPE UNGARETTI. Una crisi di coscienza colse Giuseppe Ungaretti. Il poeta notò durante il regime che «tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore» e si definì «fascista in eterno», firmando documenti e appelli per sostenere il fascismo. Salvo firmarne di uguali e contrari alla fine della guerra come alfiere dell'antifascismo, tanto da meritare una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev.

NORBERTO BOBBIO. Norberto Bobbio da studente si era iscritto al Guf, l'organismo universitario fascista, e poi aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Colpito per frequentazioni non sempre ortodosse da una lieve sanzione che avrebbe potuto comprometterne la carriera, Bobbio cercò ovunque raccomandazioni per emendarsi. Suo padre Luigi si rivolse al Duce, lo zio al quadrumviro De Bono, lo stesso giovane docente a Bottai («con devota fascistica osservanza»). Fu interessato anche Giovanni Gentile, che intervenne con successo presso Mussolini. Alla fine, Norberto ebbe la cattedra tanto desiderata. Nel dopoguerra, Bobbio diventò un maître à penser della sinistra riformista italiana. Ma il tarlo del passato lo consumò fino a una clamorosa intervista liberatoria rilasciata il 12 novembre 1999 a Pietrangelo Buttafuoco per Il Foglio: «Noi il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo. Io che ho vissuto la “gioventù fascista” tra gli antifascisti mi vergognavo prima di tutto di fronte al me stesso di dopo, e poi davanti a chi faceva otto anni di prigione, mi vergognavo di fronte a quelli che diversamente da me non se l'erano cavata».

INDRO MONTANELLI. Montanelli non ha fatto mai mistero di essere stato fascista. (Fu, anzi, un fascista entusiasta). «Sono stato fascista, come tutte le persone della mia generazione», ammise nella sua “Stanza” sul Corriere della Sera nel 1996. «Non perdo occasione per ricordarlo, ma neanche di ripetere che non chiedo scusa a nessuno». Anche nella più sfacciata adulazione del Duce, Montanelli scriveva pezzi di bravura come questo del 1936: «Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e sofferenti, noi stessi glieli strappiamo di dosso, mirando solo alla inimitabile essenzialità di questo Uomo, che è un vibrare e pulsare formidabilmente umani. Dobbiamo amarlo ma non desiderare di essere le favorite di un harem».

GIORGIO BOCCA. «Quando cominciò il nostro antifascismo? Difficile dirlo...». Dev'essere cominciato tardi, quello di Giorgio Bocca, se è vero quanto egli stesso scrive nel racconto «La sberla… e la bestia» pubblicato l'8 gennaio 1943 su La provincia granda, foglio d'ordini settimanale della federazione fascista di Cuneo. Il 5 gennaio Bocca aveva incontrato in treno sulla linea Cuneo-Torino l'industriale Paolo Berardi, il quale diceva ad alcuni reduci dalla Russia e dalla Francia che la guerra era ormai perduta. Bocca ascoltò, poi gli diede un ceffone e lo denunciò alla polizia per disfattismo. Due anni prima, sullo stesso settimanale, il giovane giornalista aveva scritto un lungo articolo su I protocolli dei Savi di Sion, che si sarebbero rivelati poi (ma lui, ovviamente, non lo sapeva) il falso più clamoroso della propaganda antisemita. Le prime righe dell'articolo recitano: «Sono i Protocolli dei Savi di Sion un documento dell'Internazionale ebraica contenente i piani attraverso cui il popolo Ebreo intende giungere al dominio del mondo...». E le ultime: «Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell'Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».

DARIO FO. Dario Fo si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per il suo lavoro teatrale Mistero buffo, un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord, pubblicò una lettera di Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l'esito da lui sperato. Secondo quanto riferì Il Giorno (8 febbraio 1978), l'attore disse in aula che il suo «arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l'azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L'allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell'Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe». E l'ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l'ha detto subito, all'indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?». Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L'avremmo fatto, ma avevamo quindici anni...». L'11 marzo 1978, mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale Gente una foto dell'attore in divisa della Repubblica sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («Sono apocrife e aggiunte da altri», si difenderà). Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva.

VITTORIO GORRESIO. Vittorio Gorresio, una delle firme più brillanti della sinistra riformista del dopoguerra, scriveva cose impegnative sulla gioventù hitleriana: «Così pregano gli ariani piccoli, ora che, dissipato il fumo del rogo ove furon arsi i venticinquemila volumi infetti di semitismo, l'atmosfera tedesca è più limpida e chiara». E nel 1936 sulla Stampa, il giornale di cui sarebbe diventato negli anni Sessanta la prima firma politica, confessava: «Ringrazio Dio perché ci ha fatto nascere italiani ed è con gli occhi lucidi che si sente nell'animo la gratitudine del Duce».

EUGENIO SCALFARI. Nonostante la giovane età, Scalfari era riuscito a far pubblicare alcuni scritti di Calvino su Roma fascista, era diventato amico di Bottai, che chiamava «il mio Peppino», e fino alla caduta del fascismo sostenne con convinzione l'economia corporativa. Ma va ascritto a suo merito di aver sempre parlato nel dopoguerra di «quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti», non nascondendo mai le sue ferme convinzioni giovanili.

ENZO BIAGI. Montanelli collaborò a Primato come Enzo Biagi, che nel dopoguerra non ha negato i suoi trascorsi (scrisse anche per la rivista fascista bolognese Architrave) e la gratitudine per Bottai. Ma i suoi avversari, spulciando negli archivi, hanno scovato altri episodi. Secondo il racconto di Nazario Sauro Onofri in I giornali bolognesi nel ventennio fascista, nel 1941 Biagi, allora ventunenne, recensì il film Süss l'ebreo, formidabile strumento della propaganda antisemita di Himmler, sul foglio della federazione fascista bolognese L'assalto, scrivendo che il pubblico «era trascinato verso l'entusiasmo» e «molta gente apprende che cosa è l'ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte». (Biagi era in buona compagnia, perché sullo stesso giornale, fortemente antisemita, si scatenava anche il giovanissimo Giovanni Spadolini, mentre una lusinghiera recensione allo stesso film fu firmata dal regista Carlo Lizzani). Biagi restò al Resto del Carlino, controllato dai fascisti e ormai anche dai nazisti, fino alla tarda primavera del 1944, ricevendo - come tutta la redazione - generosi sussidi economici dal ministero della Cultura popolare (il Minculpop). Dieci mesi dopo entrava a Bologna con le truppe americane.

Mussolini: “Italiani, popolo di voltagabbana!”, scrive l'11/07/2017 Giovanni Terzi su “Il Giornale". Non si danno pace neanche l’estate gli antifascisti di professione. Evidentemente devono coprire il buco lasciato dal loro crollo elettorale. Ormai se la prendono pure con gli stabilimenti balneari. Sono rimasti ancora al ‘900 a prendersela col Duce. Visto che a loro piace la storia, gli proponiamo un tuffo nel passato, con questa intervista a Benito Mussolini. Colloquio virtuale con un personaggio storico tra domande attuali e risposte attinte dalla sua vita, dalle opere di cui è autore e da quelle che lo riguardano. Tra le fonti per questa intervista: “Colloqui con Mussolini” di Emil Ludwig Mondadori 1950, “Dux” di Margherita Sarfatti, Mondadori 1982, “Mussolini l’uomo e l’opera “di Giorgio Pini e Duilio Susmel, La Fenice, Firenze 1955.

Duce, posso darle del “lei”? il “voi” è acqua passata. E come debbo chiamarla?

«Mi dia del “lei” e mi chiami Benito. Lo so era il nome di un rivoluzionario sudamericano, ma la mia famiglia era rivoluzionaria da sempre, socialista e di sinistra ed anch’io lo sono stato».

Quando?

«Fin dalla mia prima gioventù. Ero iscritto al partito socialista ma nel settembre del 1911, quando il governo Giolitti decise di invadere la Libia, mi ribellai anche ai vertici del mio partitoa Filippo Turati e a Claudio Treves che, riunitisi a Milano, nell’appartamento di Anna Kulishoff, in piazza Duomo, avevano deciso di dichiararsi solidali con Giolitti».

Fu quando guidò la rivolta di piazza a Forlì, assieme a Pietro Nenni?

«Sì, il 25,26,27 settembre 1911. Fui arrestato e processato. Al processo mi risentii moltissimo. Ammettevo tutto meno l’ultimo capo d’imputazione che respinsi con tutto me stesso “atto indegno di un combattente”. Che vergogna!»

E quanto le dettero?

«Cinque mesi di reclusione. Dopodiché me ne andai in Svizzera ma da lì a poco tornai in Italia, a Milano perché il partito mi aveva affidato la direzione dell’Avanti.»

Durò poco però. Nel famoso libro “Dux” di Margherita Sarfatti si legge “si congedò dall’Avantisenza volere l’indennità giornalistica e neppure lo stipendio in corso, e persino rifiutando quel migliaio di lire che la direzione del partito lo supplicava di accettare per i bisogni della famiglia. Eppure, fondava ora un giornale proprio. Per i suoi detrattori aveva accettato “l’oro francese”: un’accusa un po’ dura …

«Ma neanche per sogno era arrivato il momento di scendere in campo con le armi in pugno contro l’impero austriaco, nostro oppressore da secoli. Fondai il Popolo d’Italia e lo chiamai “quotidiano socialista”».

Lei si sentiva più uomo politico capo del governo o più giornalista?

«Le rispondo con le esatte mie parole che riportò Margherita Sarfatti nel suo “Dux”: andando al governo, spesso e volentieri prendevo dei fogli e scrivevo qualche cosa che poteva interessare agli italiani. Ciò aveva l’apparenza di solenne delle note ufficiose o ufficiali che dir si voglia. Erano in realtà dei piccoli articoli».

A proposito di Margherita Sarfatti brillante giornalista bella signora ebrea che per molti anni fu legata a lei da passione amorosa, che opinione aveva di lei come uomo?

«Nell’ultima edizione di “Dux” si legge “…benché abbia dato alle donne, con molta generosità, il diritto di suffragio amministrativo, al condottiero romagnolo la donna appare tuttavia sempre, da egoista maschile, bella e destinata a piacere”».

Benito è vero che il famoso giudizio “Governare gli italiani non è impossibile ma inutile” lei lo copiò da Giovanni Giolitti?

Ma neanche per sogno! Il giudizio è mio e la frase è mia. Ed è anche la verità. Del resto basta girarsi indietro e dare uno sguardo alle vicende degli italiani nei secoli: sempre divisi, sempre pronti a passare da una barricata all’altra e sempre pronti a cambiare bandiera ai primi accenni di maltempo».

Lei cita continuamente “Dux”. Ma nel 1938, quando furono varate le leggi razziali, il Ministero dell’educazione nazionale lo fece ritirare da tutte le librerie, e la Sarfatti dovette fuggire negli Stati Uniti.

«Perché insiste su questo tasto? Io ho sempre avuto la massima considerazione per gli ebrei. Il Ministro degli Interni del mio primo governo, Finzi, era ebreo, l’amministratore del Popolo d’Italiaera ebreo, tra i fascisti della prima ora molti erano ebrei. Ma ciò che mi fece optare per le leggi razziali fu l’ostilità della finanza mondiale dominata dalle lobby ebraiche, nei confronti dell’Italia…»

A proposito di ebrei anche l’altro celebre libro a lei dedicato e destinato a restare nella storia, fu scritto da un ebreo.

«Sta parlando dei “Colloqui con Mussolini” scritto da Emil Ludwig, grande scrittore e storico tedesco di stirpe e religione ebraica. Mi feci intervistare nel 1932 per due settimane gli dedicai un’ora ogni pomeriggio».

Ci può ricordare alcune risposte che diede alle domande di Ludwig?

«Incominciamo da quella sull’amicizia. Gli dissi che non potevo avere amici sia per il mio temperamento sia per il mio concetto degli uomini. Gli precisai che gli amici più fedeli erano quelli più lontani; erano chi non aveva mai voluto niente».

Nel libro c’è anche un capitolo dedicato alla fede…

«In gioventù ogni misticismo mi era estraneo ma negli ultimi anni era cresciuto in me il convincimento che potesse esservi una forza divina nell’universo. A Ludwig precisai che “divina” non significava per forza “cristiana”».

La pensa sempre così?

«No ora so che Dio è il Cristo. Ma lo sapevo già a Gargnano quando, pochi giorni prima della fine, ricevetti l’assoluzione dopo essermi confessato».

Con riferimento alla crisi economica del ’29 Ludwig le chiese” perché data la sua battaglia contro le barriere doganali, non fonda l’Europa?” che cosa rispose a questa domanda?

«Risposi così: sono vicino a questa idea, ma il tempo non è ancora maturo. Vedremo nuove rivoluzioni e solo da esse sorgerà il nuovo europeo».

L'amnesia selettiva della "Stampa" che dimentica i direttori sotto il fascismo. Il quotidiano celebra i 150 anni con un inserto. Ma oscura perfino Curzio Malaparte, scrive Tony Damascelli, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale". Lo smemorato piemontese ha cambiato indirizzo da Collegno a Torino, via Lungaro, al civico 15. Cose che possono capitare quando si celebrano eventi storici e, stranamente, vengono dimenticati, cancellati dai ricordi e dalle citazioni, nomi e personaggi illustri che quella storia hanno scritto. Prendete, ad esempio, la Stampa di Torino, con sede appunto in via Lungaro. Ha festeggiato i propri 150 anni con una pubblicazione supplemento che ripercorre fatti, eventi, firme di un secolo e mezzo, partendo dagli esordi fino ai contemporanei. Il titolo dell'opera è Il Mondo che ci aspetta. Nell'attesa del mondo e delle sue novità, è stato interessante rileggere nomi illustri che hanno fondato e illuminato le pagine di questo giornale che rimane la bandiera sul pennone più alto di una città, di una Regione, di un certo tipo di lettore, dopo la chiusura maligna de La Gazzetta del Popolo. Bello, dunque, ripercorrere non soltanto la cronaca del secolo e mezzo attraverso i nomi di chi ha dovuto gestire, dirigere il giornale. Non tutti i nomi, in verità, risultano riportati dal supplemento. Anzi, è singolare come per il periodo che va dal '26 al '45 la Stampa non abbia avuto direttori, forse non sia nemmeno uscita dalla tipografia. Era il tempo del fascismo, epoca dura eppure dagli archivi risulta che si siano avvicendati alla direzione del foglio torinese ben cinque direttori: Andrea Torre dal 30 novembre del '26 all'11 febbraio del '29, quindi Curzio Malaparte, dal 12 febbraio del '29 al 30 gennaio del '31, Augusto Turati, dal 31 gennaio del '31 al 12 agosto del '32, Alfredo Signoretti, dal 13 agosto del '32 al 25 luglio del '43; quindi, caduto il fascismo, il Ministero di cultura popolare approvò le nomine di Vittorio Varale dal 28 luglio del '43 al 9 agosto dello stesso anno, Filippo Burzio dal 10 agosto del '43 al 9 settembre fatidico e, sotto la R.S.I. furono direttori Angelo Appiotti, Concetto Pettinato e Francesco Scardaoni. Nessuno di questi ha trovato spazio nel supplemento, nemmeno tra le righe di una didascalia, come è accaduto per altri. Credo se ne sia persa la memoria, spontaneamente costretti. Salutato il Duce, sono stati salutati anche i direttori. Pratica che si è ripetuta quando due anni fa venne data alle stampe, dalla RCS, una pubblicazione sui presidenti della Juventus: tutti, tranne Vittorio Chiusano, colpevole di aver fatto parte dell'epoca Giraudo-Moggi-Bettega. La memoria fa brutti scherzi, non soltanto a Collegno.

"Vi racconto due o tre cose sulla Stampa e l'Avvocato". "A dire il vero non mi avevano invitato, ma non mi ero offeso e, il giorno prima, attraverso un amico, ho sollecitato un invito", scrive Tony Damascelli, Venerdì 17/02/2017, su "Il Giornale".  Jas Gawronski, nipote di Alfredo Frassati. La memoria a Torino fa brutti scherzi, dimentica le date, i direttori del Ventennio, i fondatori e anche i nipoti.

Lei era presente al Lingotto ai festeggiamenti per i 150 anni de La Stampa?

"A dire il vero non mi avevano invitato, ma non mi ero offeso e, il giorno prima, attraverso un amico, ho sollecitato un invito. Il fatto è che La Stampa, in quanto tale, è nata non 150 ma esattamente 122 anni fa, assorbendo la Gazzetta Piemontese quella sì nata 150 anni fa. Mi sembrava un po' audace l'idea di stiracchiare la vita de La Stampa di qualche decennio in più, ma capivo l'interesse del giornale ad apparire più radicato e con più antiche tradizioni. Pensavo, tuttavia, che almeno avrei assistito a una celebrazione del vero fondatore, mio nonno Alfredo Frassati".

E invece?

"A parte un sentito ricordo di Paolo Mieli, nulla. E fuori dal Lingotto, la mattina, all'inaugurazione di una mostra, un ottimo intervento del professor Castronovo".

Come spiega questi vuoti di memoria?

"Non me lo spiego, ma Gianni Agnelli sembrava avvalorare la tesi che La Stampa, sebbene nata in continuità, fosse cosa diversa dalla Gazzetta Piemontese. L'Avvocato, infatti, intervenne allo scoprimento di una lapide che mia madre volle sulla casa di Piazza Solferino dove La Stampa è nata, in occasione del vero centenario. Purtroppo l'Avvocato non c'è più".

E quindi, secondo lei, la storia de La Stampa va riscritta?

"Non riscritta, ma sfrondata da varie inesattezze. Del resto ci ha pensato mia madre, Luciana Frassati, che ha dedicato sei grandi volumi alla storia del giornale. Nella prefazione l'insigne storico Gabriele De Rosa parla de La Stampa come cosa nuova nella storia del giornalismo italiano... indubbiamente fu il capolavoro di Alfredo Frassati".

Con l'Avvocato, le capitava di parlare de La Stampa?

"Sì, sovente. Era una sua passione e lo considerava il miglior giornale italiano, una eccellenza civile e morale. Non mi ha mai offerto la direzione, ma sondava la mia opinione sulle nomine che intendeva fare e lo intuivo quando cominciava a chiedermi più spesso le mie impressioni su questo o quel giornalista. Ogni tanto gli ricordavo che se non ci fosse stata quella insana complicità fra Mussolini e suo nonno forse oggi sarei io il proprietario e il direttore de La Stampa!".

Insana complicità?

"Mio nonno si oppose sin dall'inizio al fascismo dimettendosi da Ambasciatore a Berlino e denunciando il delitto Matteotti. Mussolini, che aveva maturato un profondo astio nei suoi confronti, nel 1925 costrinse Frassati prima a lasciare la Direzione poi a vendere il giornale al Senatore Agnelli".

Come reagiva l'Avvocato a questa ricostruzione storica?

"Prendeva in giro mio nonno per la sua proverbiale parsimonia, lui parlava di tirchieria, ma quando esagerava gli ricordavo che, a differenza del suo, mio nonno non si era mai fatto fotografare in orbace! Ma, pur nella differenza dei caratteri, aveva una certa stima di Frassati, riconoscendogli il merito di aver apportato importanti innovazioni nella stampa italiana, a partire dall'articolo di fondo in prima pagina fino ai vari supplementi oggi così di moda".

Che rapporto aveva Agnelli con i giornalisti?

"Ne era attratto, ma non aveva grande stima della categoria, esclusi quelli fra i più importanti che conosceva bene. Oggi forse si sentirebbe un po' spaesato, perché per anni lui e la sua azienda hanno fruito di una impermeabilità alle critiche dei giornali di cui oggi non potrebbe più godere".

Ma se Lei fosse oggi il Direttore de La Stampa che farebbe?

"Metterei in pagina i cinque ritratti dei direttori del Ventennio, dimenticati nel supplemento celebrativo. La storia è storia e non bisogna vergognarsi".

“Gli italiani buoni non sono mai esistiti”, scrive il 16/02/2017 Bruno Giurato su “Il Giornale” in ricordo di Piero Buscaroli, morto il 15 febbraio 2016. Altro che Piero il terribile: cortese, cortesissimo, spunta in cima alle scale della casa nel centro di Bologna, lo sguardo da Re Leone. Al telefono aveva detto: «È passato a trovarmi un reduce della RSI. Aveva perso la guerra e alla fine era in pace. Io non l’ho fatta perché ero troppo piccolo, ed è finita che ho dovuto odiare al posto loro. Per sessant’anni». Ma a 82 anni Buscaroli più che di combattere ha voglia di raccontare, intrattenere, perfino ridere: «Gli dei mi avevano assicurato che nel 2012 sarei morto. Invece dicono tutti che sto bene, se lo dicono loro… Mi hanno trovato un po’ di diabete. Raccontava un amico napoletano, Oderisio Piscicelli Taeggi, ufficiale del Regio Esercito: il diabete è la malattia più deliziosa del mondo. È una schermaglia quotidiana con la glicemia». Storia, giornalismo, musicologia: Buscaroli ha scritto «in guerra». «Il mio Beethoven ha corretto più di 150 dati storici. Per decenni mi sono domandato se avrei avuto la forza di prendere per il collo questo gigante. Mi sono chiuso nella casa in campagna, a Monteleone, per quattro anni: mangiavo e dormivo quando capitava. Una volta ebbi un collasso, se ne accorsero in tempo per fortuna». Ma Dalla parte dei vinti (Mondadori, 2010) è una controstoria italiana, risentita, sì, però piena di dati, episodi, cose. E ora La bancarotta dei vincitori (uscirà in primavera per Minerva edizioni, pare gli abbiano assicurato la massima libertà e il minimo di editing). C’è il revisionismo «alla Buscaroli», ma anche i pezzi dal Vietnam, pieni di vitalismo e curiosità; e i ricordi dei maestri. Oltre all’animo eracliteo da Polemos signore di tutte le cose, emerge la gioia sottile di raccontare.

Nel libro emerge un Leo Longanesi inaspettato: uomo dalle idee «ferme e forti».

«Non ci demmo mai del tu. Ma era lo stesso con il suo grandissimo amico Giovanni Ansaldo, cui una volta domandai: ma come mai, con la dimestichezza che avevate avete continuato a darvi del lei fino alla fine?. Rispose: Con tutto quello che si sapeva l’uno dell’altro, se ci si dava del tu che troiaio veniva fuori!. Su Longanesi le confesso una cosa esplosiva».

Prego.

«Appena prima di morire voleva andarsene in America con una ragazza lunga, di belle fattezze, che chiamavamo la Cannavòta. Aveva raccolto molti soldi, era pronto. Forse non avrebbe avuto il coraggio di lasciare la moglie, che aveva annusato qualcosa, e i figli. Era disgustato dall’Italia».

Come lei…

«Ho rifatto i conti con il passato almeno tre volte. Gli italiani buoni non sono mai esistiti. O meglio, gli italiani buoni non parlano. E sono pochissimi».

Anche sotto il fascismo?

«Già allora l’Italia era quella di adesso. Nessuno degli intellettuali, da Benedetto Croce a Marconi, ebbe il tempismo o l’astuzia di dire a Mussolini: stai facendo una porcata con le leggi razziali».

E chi si salva?

«Un episodio. A Imola, quello che poi divenne il comandante delle Brigate Nere di mestiere faceva il direttore di un ospizio. I soli ricchi ebrei a Imola erano la famiglia Fiorentino: padre e madre riuscirono a scappare, lasciando lì il padre della moglie, il generale Gallicchi. Fu aiutato da questo gerarca, e accolto nell’ospizio».

Un italiano buono, e zitto…

«Appartenere a una parte o all’altra dipende da un momento, dal Caso. Mio padre era fascista, per disciplina come disse, con frase bellissima, Edda Ciano. Senza farsi tante domande. Anch’io lo sono, per disciplina».

Ma non è stato tenero con l’Msi.

«Negli anni ’50. Un gruppo di politici e intellettuali che volevano rifondare la destra invitarono Longanesi e me. C’erano De Marzio, Tedeschi, Guglielmi. E Arturo Michelini, che aveva scarpe bianche, di una bellezza… Mentre parlavano di vecchi ideali, guardavo Longanesi, abbacinato dalle scarpe. Poi sbottò: Ma lei! Come si fa a parlare di destra con quelle scarpe lì?».

Non apprezzava Almirante. Chissà Fini…

«Il peggiore di tutti. Una volta mi invitò a Faenza. Fece due comizi tutti uguali, comprese le congiunzioni. Un nulla totale».

I politici di oggi?

«Bersani dice cose serie, sensate, ma non lo voto. Berlusconi è stato una delusione, anche se l’altra sera da Santoro ha fatto una cosa divertentissima, sul piano della farsa».

Torniamo ai buoni e ai belli di cui parla nel libro: Vincenzo Cardarelli.

«Montale, che non gli fu amico, scrisse che era stato lo scopritore del vero Leopardi, quello dello Zibaldone e delle Operette morali. Ma quando lo conobbi, a Roma, negli anni ’50 era un fagotto. Stava al primo caffè di via Veneto, aveva sempre freddo. Era nato naufrago, abbandonato dal padre. Longanesi l’aveva scaricato crudamente, e lui l’aveva capito. Una volta avrebbe dovuto portarselo dietro alla mostra che organizzava al Sistina, ma lo lasciò lì. Longanesi era capace di freddezze assolute. Quando Longanesi morì Cardarelli disse: È l’ultimo dispetto che potevi farmi».

E veniamo a uno che la nomea di evitabile l’ha avuta per decenni, Mario Praz.

«La casa della vita era il più grande libro italiano dopo Lemmonio Boreo di Soffici. Ma quell’anno, era il ’59, il premio andò a Il Gattopardo. Scrissi una recensione, me ne ringraziò, e iniziò il nostro rapporto. Antidemocratico d’istinto. Timido, piede caprino, occhio torto. Una volta andai da lui, vidi una magnifica libreria, gli chiesi di copiarla. Mi disse: Pensi che l’ho copiata dal duca di Bedford. È questa qui».

La sua passione per il collezionismo?

«Io credo nelle cose, non credo negli uomini».

Regalò una moneta d’argento a Nguyen Cao Ky, primo ministro sud-vietnamita dal ’65 al ’67…

«Inviai a Ky un esemplare delle due lire d’argento del 1923, col fascio littorio e la scritta Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora. Avevo una mia idea della guerra in Vietnam. Convinsi, con fatica, Tedeschi e Giovannini a spedirmici come inviato».

Quale idea?

«Stavo con i vietnamiti del Sud, gravati dalla divisa americana. Capii che il vero coraggio stava dalla loro parte: considero i sudvietnamiti come la RSI».

Il suo incontro con Ky…

«Sapeva che non avrebbero vinto. Come premio i generosi americani gli diedero una pompa di benzina. Gli americani sono il peggio, peggio dei russi. E ora sono contento perché rimarranno fregati dai cinesi».

In Vietnam incontrò Susanna Agnelli…

«Egisto Corradi e io credevamo fosse arrivata come crocerossina. E invece era lì, puntualizzò, come inviata da una lega di società di Croce rossa. Approfittava dei mezzi di trasporto degli americani ma stava con i vietcong. Piena di snobismi, raccontava delle serate con Moravia e la Maraini chiamandoli Dacia e Alberto. Mi venne alla mente la delicata poesia di Dacia: Ti orinerò sulle mani, mio tanto amico…».

Per lei la guerra è continuata.

«Ho cercato di fare tutto il male possibile ai miei nemici. Sono stato uno dei migliori agenti dei servizi segreti tedeschi, spagnoli, portoghesi e giapponesi. Senza prendere soldi, solo per odio verso l’altra parte. Ma mi sono anche gratuitamente divertito».

Come?

«Nel 1970, quel farabutto di Willy Brandt volle fare un regalo in danaro al Vaticano, in occasione della sua visita a Roma. Quando i tedeschi cercarono di capire le reazioni, raccontai che un importantissimo vescovo lituano faceva notare che si aspettava molto di più da una potenza come la Germania. Tutti credettero all’esistenza di questo vescovo…».

C'ERA UNA VOLTA LA DESTRA.

"Mio fratello Giorgio Pisanò cronista e detective scomodo". La sua inchiesta sulla Guerra civile non faceva sconti e non era ideologica. Per questo fu escluso dai "salotti", scrive Paolo Pisanò, Venerdì 31/03/2017, su "Il Giornale". Il talento vero di Giorgio Pisanò (1924-1997) non era quello dello storico accademico ma quello del giornalista investigativo di prim'ordine. Pisanò era soprattutto un cronista-detective provvisto di un intuito formidabile e di quella capacità innata di analisi-sintesi che spinge irresistibilmente alcuni (pochi) più che altri a cogliere in uno scenario complesso e ambiguo gli elementi essenziali per afferrarne la chiave interpretativa e renderli comprensibili al di là di ogni ragionevole dubbio. Questa sua intima caratteristica non gli era sempre benefica perché lo metteva necessariamente in rotta di collisione con coloro (tanti) che per le più disparate ragioni tendono a privilegiare l'interpretazione a priori (pregiudiziale) degli scenari complessi e ambigui per sovrapporvi una dimostrazione di comodo che tutto è tranne che qualcosa di attinente alla realtà. Ma la testardaggine da verità del segugio ostinato riusciva ad avere la meglio sui pregiudizi di convenienza e le inchieste di Pisanò hanno lasciato il segno più volte nella prima repubblica: dalla difesa di Raoul Ghiani nel caso Fenaroli con annesso scandalo Italcasse (1958) allo scandalo Lockheed (1980); dallo scandalo Anas (1970: la clamorosa denuncia di tangentopoli, rivelata in nuce vent'anni prima di mani pulite) allo scandalo dei petroli (1980); dalla prima inchiesta sull'assassinio di Enrico Mattei (1963) a quella sulla morte dal banchiere Roberto Calvi (1982), per citarne solo alcune. Ovviamente, ostinandosi a cantare fuori dal coro, Giorgio Pisanò non poteva pretendere di entrare nei salotti buoni (vulgo, niente editoria paludata per lui: doveva stamparsi tutto da sé), cosa della quale s'infischiava altamente perché questo tributo inevitabile al suo modo di essere non gli negava l'ammirazione e la stima di tanti e perfino di colleghi avversari politici ma capaci di apprezzarne il valore al di là delle ideologie divergenti.

Come scriveva Dario Di Vico sul Corriere della Sera dell'11 novembre 1996 sotto il titolo «Che bravo quel Pisanò»: «Giorgio Pisanò? È uno dei più bravi giornalisti italiani. Non ha mani ricevuto premi per la semplice ragione che è fascista. Di quelli dichiarati. Mai pentiti. Questo non gli impedisce di essere un ostinato cacciatore di notizie. A scrivere questo clamoroso elogio dell'ex direttore del Candido non è stato né Vittorio Feltri, né Pietrangelo Buttafuoco e nessun'altra delle penne della destra, ma addirittura un avversario politico. Quel Marco Nozza, inviato del Giorno e capofila per molti anni dei giornalisti antifascisti e democratici milanesi. Nozza ha tributato la standing ovation al vecchio Pisanò dopo aver visto in tv un'ennesima prova del suo fiuto giornalistico: uno speciale sull'oro della Banca d'Italia trafugato dai nazisti».

Sull'essere fascista di Giorgio Pisanò (sull'essere fascista tout court dalla seconda metà del secolo scorso) ci sarebbe da scrivere un saggio corposo e non è questa la sede, ma resta il fatto che Pisanò, trent'anni prima, non aveva indagato e scritto la Storia della Guerra Civile da fascista: l'aveva indagata e scritta da italiano capace di un'inchiesta colossale in condizioni proibitive e consapevole del bene supremo di una memoria nazionale riconoscibile e rispettabile da tutti in quanto rispettosa dei fatti realmente accaduti. Una memoria nazionale non umiliata da un avvilente catechismo storiografico, imposto per manicheismo istituzionale, che ancora oggi oltraggia necessariamente una parte cospicua della collettività in funzione di quell'«antifascismo, inteso come ideologia di Stato» che il primo, vero, grande storico accademico del fascismo, Renzo De Felice, avrebbe cominciato a contestare a viso aperto dal 1987. Se così non fosse stato, se cinquant'anni or sono Giorgio Pisanò avesse condotto la più grande inchiesta della sua vita non da italiano ma da fascista, possiamo essere certi che un altro suo collega, irriducibile avversario politico ma testardo al pari di lui nel pretendere il rispetto della verità storica come base irrinunciabile della convivenza civile, Giampaolo Pansa, mai avrebbe scritto, come invece fece nel 2011: «C'è stato qualcuno, qualche temerario coraggioso, a cominciare da Giorgio Pisanò, che ha rifiutato di sottomettersi al gioco imposto dai vincitori. Ha cominciato a far parlare i parenti di chi era stato ucciso dai partigiani, a raccogliere le testimonianze dei superstiti della RSI, a cercare documenti e a ricostruire la storia di chi si era battuto a fianco di Mussolini. Senza personaggi come Pisanò e pochi altri il sottoscritto non sarebbe mai stato in grado di percorrere la strada che ha percorso, libro dopo libro». Nessuno ha mai smentito i contenuti delle opere di Giorgio Pisanò.

La biografia di Mussolini nonostante si pensasse che fosse una biografia su Claretta: invece è un racconto di fatti storici, scrive Claudio Siniscalchi, Mercoledì 1/03/2017, su "Il Giornale". Nel 1945 l'editore milanese Lucchi pubblica un resoconto della relazione tra Benito Mussolini e Clara Petacci. In copertina si annunciano «scandalosi particolari». Carta povera. Stampa modesta. Come il racconto. L'autore, Angelo Colleoni, ripercorre la storia del «furioso erotomane» (Mussolini), dalla gioventù socialista a Claretta (senza dimenticare le altre numerose amanti). La povera Clara «peccò, ma riscattò i suoi peccati con la morte». Alla «coppia boccaccesca», per concludere, toccò un triste destino. Nel 2017 la Yale University Press pubblica il saggio dello storico australiano Richard J.B. Bosworth, Claretta. Mussolini's Last Lover. Certo non si possono fare paragoni. Ma ciò che era giustificabile, in errori e svianti interpretazioni, al Colleoni del 1945, non può essere perdonato al Bosworth del 2017. Il lettore si aspetta una biografia di Claretta. Invece deve sorbirsi una incomprensibile introduzione in cui si salta di paolo in frasca, dal Movimento sociale italiano ai figli del Duce; da donna Rachele alla Dc; dalle lettere di Churchill ai falsi mussoliniani delle sorelle Panvini e i falsi diari pubblicati da Marcello Dell'Utri; da Berlusconi a Monti. E poi si attacca con le scorribande del «grande predatore». Il «furioso erotomane» Benito, anche quando era giovane socialista rivoluzionario frequentava bordelli. La carriera politica del Don Giovanni romagnolo è scandita dalle amanti: dalla marxista ebrea Angelica Balabanoff all'aristocratica ebrea Margherita Sarfatti. E poi il «grande eiaculatore» semina figli ovunque. Legittimi con Rachele. Illegittimi con Fernanda Oss Facchinelli, Ida Dalser, Bianca Ceccato, Angela Cucciati, Ines De Spuches, Magda Brard (probabilmente uno), Alice Pallottelli (probabilmente due), Romilda Ruspi. Pure Claretta avrebbe avuto un figlio, se fosse riuscita a portare a termine la gravidanza. Del resto, Bosworth ricorda, anche Gheddafi e Bokassa avevano appetiti sessuali smisurati. Come li avevano Marinetti e d'Annunzio. Si va avanti così, sino alla fine della storia di Clara e Benito. Negli ultimi anni Bosworth fra gli studiosi del fascismo di lingua inglese si è affermato come il più noto. Gli si deve una corposa monografia su Mussolini, per larghi tratti imbarazzante, edita nel 2002 (tradotta in Italia da Mondadori). Lo studio della biografia di Claretta è un riassunto, male assortito, di quanto si è scritto per lungo tempo in Italia, dal 29 agosto 1943, quando Il Messaggero e Corriere della sera pubblicarono la storia della relazione del Duce con la giovane Clara, oltre agli imbrogli e agli intrighi della famiglia Petacci. Nel frattempo Badoglio aveva fatto arrestare Clara, i genitori e la sorella. Per grosse linee quel ritratto al negativo viene fatto proprio da Bosworth. Definire Clara la Ducessa in fondo è ripetere lo stereotipo già usato in senso dispregiativo dai fascisti, che odiavano la ragazza, e che addirittura volevano eliminarla quando si presentò a Salò. Di recente sono stati resi pubblici lettere, diari e svariati materiali di Claretta, comprese le missive di Mussolini scritte durante i giorni di Salò. Un fondo che consente di uscire dalle secche dei luoghi comuni. Ma Bosworth ha preferito seguire la strada dell'harem di Mussolini, delle alcove, delle amanti a ciclo continuo. Della sua predisposizione alla brutalità sessuale. A lungo chi si è occupato di storia del fascismo ha dovuto misurarsi con l'opera del britannico Denis Mack Smith. Il grande storico e collaboratore del Giornale Rosario Romeo auspicò che ogni libro dovesse essere accompagnato da una indicazione. Come nei film: riferimenti a personaggi e fatti storici realmente accaduti, debbono intendersi frutto del caso. Raccomandazione che andrebbe adottata in caso di traduzione italiana del saggio di Bosworth.

Fasci allo sfascio: così è ridotta la destra. Storace e Alemanno si fanno il partitino. La Russa e Fini sono spariti. Della fu An, resta solo Meloni. Ma all’ombra di Salvini. Se la sinistra piange, l'altra metà della politica di certo non ride, scrive Susanna Turco il 9 marzo 2017 su “L’Espresso”.  Eguagliare in tempismo Corrado Passera sembrava impossibile, eppure ci sono andati vicini. Lui, il banchiere, battezzò disgraziatamente la sua “Italia unica” - nella disattenzione generale - proprio quando s’eleggeva Sergio Mattarella al Quirinale. Loro, Gianni Alemanno e Francesco Storace, 59 e 58 anni, i due ex colonnelli della Destra sociale di An, hanno celebrato la loro riunificazione, dopo sette anni di lontananza e tre di riavvicinamento, giusto nel weekend in cui la scissione nel Pd raggiungeva il suo apice di tragico pathos mediatico. Bersani e Speranza dicevano addio a Renzi mentre all’Hotel Marriott l’ex sindaco di Roma e l’ex governatore del Lazio venivano acclamati segretario e presidente di un nuovo Movimento nazionale per la Sovranità, con tanto di fiamma nel simbolo. E, in nome di una “unità” necessaria alla sopravvivenza ancor prima che a una qualche vittoria, tendevano invano la mano speranzosi a Giorgia Meloni, ex cugina povera in An, oggi cugina ricca e leader di Fdi. Proponendo se stessi - dopo l’Msi e An, il Lazio Gate e Mafia Capitale, il Pdl e la dissoluzione del tutto in coriandoli d’astio - quale nucleo e incipit di un mitologico “Polo sovranista” del centrodestra, qualsiasi cosa voglia dire. E uno si domanda: ancora? Certo, vi è da dire che la proposta sarebbe la stessa che Meloni rivolge a Salvini e Berlusconi. E comunque è chiaro che una qualche dannazione sembra perseguitare i lacerti di quel che fu la destra. Costretti quasi da una brama dantesca a correre in cerchio e mimare sempre una nuova eventuale disfida tra fratelli coltelli, a dispetto della storia, dei processi, dei risultati elettorali sempre più esigui. Come se ci fosse ancora un mutuo da pagare, anche quando ormai la stagione della conquista del potere è passata da un pezzo; e il patrimonio della destra può dirsi ormai pacificamente dilapidato. Forse poi ecco, più che la smania di poltrone in senso stretto - mai comunque da sottovalutare - arrivati sin qui sembra in effetti essere la coscienza a non dar pace. Basta ascoltare Francesco Storace quando, con il fare pratico-nostalgico di una Tina Pica, invoca i «benedetti sei milioni di voti di Alleanza nazionale»; dichiara «bando al correntismo esasperato», che fu invece una delle cifre fondanti del partito di via della Scrofa; o ancora, guaisce di come la destra da almeno vent’anni si sia fatta scippare le sue parole d’ordine «prima da Bossi, poi da Berlusconi, poi da Grillo, ora da Salvini». Potente sintesi, rotonda la tautologia che la segue: «Basta! Diciamo-noi-le-cose-che-dobbiamo-dire-noi». Ma sì, diciamole. È chiaro che da un quadro così, una tipa svelta come Giorgia Meloni si tenga lontanissima. Adducendo una volta come scusa gli screzi di ordine ereditario (quelli all’interno della danarosa Fondazione di An), un’altra volta divaricazioni di alleanza («alle comunali a Roma hanno appoggiato Alfio Marchini»), e arrivando comunque a dichiarare con la sfrontatezza che non le manca, a “In mezz’ora”, che Alemanno e Storace «non sono alleabili perché sono diversi da noi». Diversi in cosa, è presto detto. A domandarlo in giro, disincantati ex parlamentari missini non hanno difficoltà a fare i conti in tasca ai furono colonnelli: Maurizio Gasparri e Altero Matteoli, stabili alla corte di Fi, chissà se alla fine saranno ricandidati, viste le loro molte legislature e la penuria di posti; Ignazio La Russa è sparito dai radar, soprattutto dopo che a Milano Fratelli d’Italia non ha raggiunto neanche il 2,5 per cento e il suo fedelissimo è stato sostituito dall’assessora Beccalossi a vigilare sulla città; Adolfo Urso, che pure ai Fdi s’era avvicinato, pare aver capito che il partito è chiuso come una fortezza; quanto a Gianfranco Fini, è sufficiente la parola “cognato” a negare ogni possibile resurrezione politica. Dicono, insomma, non resti che Giorgia Meloni, lepenista e salviniana, a poter sperare nella sopravvivenza. Lei, che avendola quasi sfiorata con il 3,66 alle europee 2014, la soglia del 4 per cento potrebbe superarla. Grazie non solo all’inseparabile Fabio Rampelli, ma anche a personaggi che hanno già suscitato plurimo interesse della magistratura, come il deputato Pasquale Maietta, già presidente del Latina calcio. Ma tant’è: il totale fa più dello 0,6 per cento accreditato al duo Alemanno Storace. Sarebbe insomma tutto chiaro, ma è appunto qui che invece la faccenda si riaffosca. Perché dopo oltre un ventennio, per incredibile che paia, il pur ineleggibile Berlusconi si apparecchia a fare quel che ha sempre fatto con la destra: la politica del discount, il sottoprodotto del supermercato, per articolare l’offerta sugli scaffali e soddisfare il consumatore. Se dunque non sarà con Meloni, sarà con Alemanno e Storace, perché no. Gli uni contro gli altri potendo. È quel che fece nel 2005 all’allora governatore della regione Lazio, quando gli scagliò addosso la Mussolini di Alternativa sociale; così fece poi contro An, con l’obiettivo di sostituire a Fini La Destra di Storace e Santanché; così, in qualche modo, ha fatto con gli stessi Fratelli d’Italia delle origini, tutt’altro che ostacolando la nascita di un altro partitino a destra che soddisfacesse le smanie anti-Cav senza troppi danni, proprio quando Fini era in declino e Alemanno se ne andava invece verso la deriva montian-europeista (periodo breve); così ha fatto pure l’anno scorso, contribuendo per quel che poteva a far inciampare Meloni prima del ballottaggio. Un divide et impera che è pronto nel cassetto anche stavolta. Nel turno trumpista e sovranista che vede Alemanno addirittura ringraziare pubblicamente il presidente degli Usa. Fatto notevole, per uno che ha inaugurato la sua carriera da leader facendosi manganellare ed arrestare pur di impedire il passaggio all’amerikano George Bush padre, per l’anniversario dello sbarco ad Anzio.

Meglio Starace di Storace, scrive Piero Sansonetti l'1 giugno 2017, su "Il Dubbio". «Spàrati» ha detto il leader della destra radicale a Gianfranco Fini, un esempio fulminante di quanto il linguaggio d’odio abbia invaso la politica. Francesco Storace – ex rampollo, nel Msi, di Almirante e poi di Gianfranco Fini – l’altro giorno ha rilasciato un commento sul suo vecchio compagno d’armi che mi ha lasciato impietrito. Ha detto a Fini: «Spàrati». Fini e Storace vengono tutti e due dal “Fronte della Gioventù” che negli anni ottanta era la potente organizzazione dei giovani neofascisti. Fini era il capo, Storace uno dei suoi luogotenenti. Poi Fini diventò il numero 2 di Almirante, e infine prese lui la guida del partito. E promosse Storace, Gasparri, Alemanno e altri giovani di quella generazione, appena un po’ più giovane della sua. Storace da quel momento assunse il ruolo di personaggio della politica nazionale, anche se per diversi anni continuò a veleggiare all’ombra del capo. Fu deputato, ministro, governatore. Poi, come sapete, Nel 2010 Fini ruppe con Berlusconi, e Storace ruppe con Fini. «Spàrati» disse Storace, novello maramaldo. In politica è così: le biografie umane e le biografie politiche si intrecciano, ma anche si spezzano e si dividono. È naturale, è giusto. Bisogna vedere come si spezzano. E bisogna vedere se è giusto che la politica cancelli il senso dell’umanità, della civiltà. «Spàrati». Che commento è? Che struttura umana c’è dietro? All’inizio della sua carriera, Francesco Storace veniva preso in giro per via del suo nome. Che assomigliava tanto, e differiva solo per una vocale da quello di Starace, uno dei gerarchi più noti di Mussolini. Starace si chiamava Achille, fu portato alla gloria e al potere da Mussolini ma poi abbandonato. Era il segretario del partito nazionale fascista, inventò, pare, il saluto romano e il salto nel cerchio di fuoco e il sabato fascista. Nel 39 però fu allontanato e mandato a ricoprire un incarico minore, il capo della milizia volontaria; poi, due anni dopo, fu allontanato anche da lì e si ritirò a vita privata. Nell’anonimato. Con due lire da parte, senza stipendio, in un appartamentino alla periferia di Milano. Lo aiutava la figlia. Anonimato ma fino a un certo punto. Il 28 aprile del 1945 Milano era stata liberata da poco. Starace, come ogni mattina, scese in strada in tutta a fare jogging. Qualcuno lo riconobbe e lo indicò ai partigiani. Catturato, portato al Politecnico, processo sommario e nel giro di un’ora condanna a morte. Lo portarono su un camion scoperto in giro per tutta Milano, alla gogna, e poi fu scaricato a piazzale Loreto, davanti ai cadaveri di Mussolini, di Pavolini di Bombacci e degli altri gerarchi, appesi a testa in giù alla pensilina del benzinaio. Gli puntarono i fucili contro e gli chiesero, sbeffeggiandolo: «Ora cosa hai da dire al tuo duce?». Starace, che dal duce era stato abbandonato tanti anni prima, levò il braccio nel saluto romano e gridò, solenne: «Onore al duce!». Loro spararono e lo uccisero, poi appesero anche lui per i piedi. Nessun paragone, per carità. Però bisogna dire che nella storia ci sono esempi molto diversi tra loro di quello che è il senso della riconoscenza verso chi ti ha promosso, ti ha aiutato. Il senso del dovere, dell’umanità. Poi c’è un’altra questione: la facilità ad ossequiare chi ha successo e cambiare drasticamente atteggiamento verso chi è caduto a terra. Mi ricordo, da quando andavo a scuola, che Manzoni parlava di servo encomio e di codardo oltraggio. Diceva, mi pare, che erano due facce di una moneta sola. E mi ricordo anche della storia di un certo comandante Maramaldo. Era un capitano di ventura vissuto nella metà cinquecento, diventato famosissimo per avere ucciso il capitano Ferrucci, fiorentino, che era stato già sconfitto e giaceva ferito in modo grave. Ferrucci, prima di spirare, pronunciò contro di lui, che lo uccideva, una frase diventata celeberrima: «Vile, tu uccidi un uomo morto». E da allora maramaldo vuol dire quello: vincitore vigliacco. In questi giorni, sul caso Fini, di maramaldi è pieno il dibattito pubblico. Mica solo Storace: basta dare un’occhiata ai giornali di destra, che una volta, tanti anni fa, Fini lo osannavano. La asperrima durezza delle parole (anzi: della parola) di Storace ripropone un tema che a me sembra attuale e molto vivo. Quello del linguaggio dell’odio in politica. «Spàrati» è un esempio fulminante – e macabro – di questo linguaggio. Su questo tema, tra l’altro, si sta preparando un evento di notevole importanza: il G7 delle avvocature che si terrà in settembre a Roma (sotto gli auspici della Presidenza italiana del G7, come si dice con la formula ufficiale). Torneremo a parlarne nei prossimi giorni. Intanto vi annunciamo che si terrà, che parteciperanno i rappresentanti delle avvocature delle sette principali potenze occidentali, che avrà per titolo «Sicurezza e linguaggio dell’odio». È un tema secondario del dibattito pubblico? Secondo me no. Per una ragione semplice: che l’odio sembra avere preso il posto del conflitto nello svolgersi del confronto o della battaglia politica e anche di quella intellettuale. La “sostanza” del conflitto, che nei decenni passati è stato altissimo – e che si svolgeva sulla differenza netta delle idee, dei punti di vista, dei programmi – è stato sostituito dalla sua “forma”, e cioè dall’odio puro e semplice, allo stato brado, senza oggetto, senza obiettivo, fine a se stesso. E che infatti si esprime e si avvita nel linguaggio. Creando persino nuova semantica, nuove espressioni, nuovi automatismi, nei quali il conflitto esplode senza più il proprio contenuto, ma semplicemente esagerando, riproducendo e moltiplicando il proprio apparire. Il conflitto perde il suo carattere rivoluzionario, o riformista, o reazionario, e diventa estetica pura. L’odio è sempre stato una parte del conflitto. Ancora pochi anni fa un poeta e una mente raffinata come il poeta Edoardo Sanguineti sosteneva la giustezza dell’odio di classe. La sua necessità. Era una posizione molto discutibile e sulla quale, infatti, si aprì un dissenso forte anche a sinistra. Però l’odio di classe di Sanguineti era un aspetto del conflitto, della lotta, un attributo: non era l’essenza del conflitto, e non giustificava se stesso in quanto “passione” ma in quanto prodotto di uno scontro politico. Oggi l’odio non è più al servizio della politica, non è più un soldato: è lui il signore. E sta diventando il signore anche della cultura. Con la conseguenza della scomparsa dell’intellettualità. Sostituita da un piccolo esercito composto da polemisti e da una pattuglietta estremista di magistrati. E della scomparsa del pensiero, sostituito dall’anatema, dall’insulto. Naturalmente a chi denuncia il trionfo dell’odio e della sua lingua si può opporre una obiezione molto robusta. Trent’anni fa si uccideva, nel fare lotta politica, oggi no. Questo sicuramente è vero ed è il segno di un grande avanzamento della civiltà liberale. Non solo non si uccide più nella lotta politica, ma si uccide molto meno anche nella vita sociale e persino la malavita è diventata molto, molto meno violenta. Però i due fenomeni (la caduta della violenza e la caduta del pensiero e della intellettualità) a me non paiono in nessun modo né paralleli né collegati. L’aumento dell’odio nel linguaggio comune e nel linguaggio politico non mi sembra un fenomeno di compensazione della mancata violenza. Mi sembra piuttosto un surrogato del pensiero e della polemica culturale. Ignorare questo fenomeno, contentandosi del fatto che la quantità di violenza è in netta decrescita, potrebbe essere un abbaglio grave. Il linguaggio dell’odio, proprio perché chiude la possibilità di crescita di una nuova generazione intellettuale, rischia di diventare un palla al piede per la nostra civiltà. Un blocco. Cosa possiamo fare per rimuoverlo? E per rimettere in moto un processo virtuoso di ricerca e di polemica politica e intellettuale? E quindi per restituire alla nuova generazione la possibilità di costituirsi in generazione intellettuale, uscendo dalle sabbie mobile dell’invettiva? Gli avvocati, convocando su questo tema il loro G7 si offrono come protagonisti. È un atto di coraggio. Sono un pezzo del ceto intellettuale e possono portare un contributo molto importante. Però si devono muovere anche i giornalisti e anche i politici. Finché continueranno a pensare che il modo migliore per fare lotta politica è quello di tirare monetine addosso all’avversario, è del tutto inutile parlare di cultura, o anche di battaglia politica. E dovremo accontentarci di avere Scansi e Davigo al posto di Pasolini e Leo Valiani.

"Soldi in cambio di leggi". Fini ora teme le manette. L'ex vicepremier e i decreti sui giochi nel mirino Il gip: favori a Corallo e grandi flussi di denaro, scrive Massimo Malpica, Venerdì 17/02/2017, su "Il Giornale". Il timore di Gianfranco Fini, mentre i fantasmi della casa di Montecarlo tornano nottetempo a bussare alla sua finestra, è che qualcuno, soprattutto in procura, possa non ritenerlo un «coglione». La colorita autodefinizione più va avanti la storia, più sembra strategicamente sensata. Sacrifica l'immagine di colui che fu la terza carica dello Stato. Ferisce il suo amor proprio. Ma ne salvaguarda la fedina penale, raccontando di un big della politica che non si accorgeva degli affari strani di parenti e congiunti. Ma non è detto che basti. L'ordinanza con cui la procura ha sequestrato preventivamente una manciata di milioni di euro in cash e case ai Tullianos, infatti, si sofferma intorno al ruolo dell'ex presidente della Camera. Fini per gli inquirenti è il trait d'union tra il capo del colosso del gioco Atlantis, Francesco Corallo, e la sua nuova famiglia, quella portatagli in dote da Elisabetta Tulliani. È lui, Fini, che per primo lega con quell'imprenditore considerato da sempre vicino ad An, durante un viaggio a Saint Marteen, quartier generale caraibico di Corallo, nel 2004. È lui, stando all'interrogatorio di Amedeo Laboccetta, che dopo quel viaggio, nel 2005 aiuta Atlantis a dirimere controversie con i monopoli. E sempre Fini - siamo nel 2007 - avrebbe cercato di spingere il «cognato» Giancarlo, provando a fargli fare da intermediario per un affare immobiliare con Corallo, affare così discutibile che lo stesso Laboccetta boicotta il progetto. E una volta di più è lui che a dicembre 2008, in occasione del primo compleanno di Carolina, figlia sua e di Elisabetta, invita Corallo nella foresteria di Montecitorio. Sono passati pochi mesi dalla celebre cessione della casa di Montecarlo da An alla Printemps ltd, la società offshore dietro alla quale si celava Tulliani, perfezionata per una cifra buona solo per l'acquirente, tanto che gli inquirenti hanno accertato che a pagare non furono i Tullianos ma proprio Corallo, che aveva già provveduto a mettere a disposizione del delfino della family e di Lady Fini i suoi consulenti della Corpag - Walfenzao&co - per costruire la rete di off-shore e preparare il colpaccio immobiliare nel Principato. Fini, dunque, per la procura è l'anello di congiunzione tra Corallo e i suoi parenti acquisiti. Ma gli inquirenti ritengono che il suo ruolo non si limiti a questo. Il rilievo delle sue cariche istituzionali - prima vicepremier, poi presidente della Camera - fa di lui il vero «obiettivo» delle attenzioni rivolte ai Tullianos da Corallo, e il gip lo lascia desumere in maniera esplicita: «Che l'obbiettivo di Corallo fosse altro dai Tulliani - scrive - si desume per tabulas: Corallo è il titolare di un'impresa colossale, i Tulliani una famiglia della piccolissima borghesia romana». Fini invece, «all'epoca», era una «figura istituzionale di elevato rilievo», e dunque gli intrecci tra questi tre poli innescano interessi di «estrema delicatezza», anche perché le tracce di dazioni di denaro, osserva il gip, vengono lasciate «in occasione dell'adozione di provvedimenti di legge di estremo favore per Corallo». Non un solo decreto ma almeno due, il 39/2009 e il 78/2009. La storia mette in fila anomalie di ogni genere, dalle «gravissime interferenze» sui Monopoli alle «inverosimili sottrazioni» alle casse dello Stato, fino alle norme pro-Atlantis approvate, «sintomatiche di condizionamento della vita parlamentare in ragione di flussi di denaro di grande consistenza». Una storia dalle «implicazioni inquietanti», e che al giudice sembra sia stata svelata solo in minima parte, potendo riservare «imprevisti» e sviluppi «piuttosto tumultuosi». Quanto basta per togliere la decantata «serenità» all'ex leader, già scottato nell'amor proprio, ora anche indagato. E sempre più nel fuoco della procura.

Noi, cronisti diffamati per la nostra inchiesta sul clan Fini-Tulliani. "Il Giornale" aveva portato prove e testimoni. Ma ci accusavano: "Siete macchina del fango", scrive Massimo Malpica, Giovedì 16/02/2017, su "Il Giornale". Spargifango. E spione. Di certo non giornalista. Mi hanno detto di tutto in quei mesi passati con Gian Marco Chiocci a inseguire l'affaire immobiliare di Montecarlo, a scavare nella storia di quella casa donata ad An da una contessa e finita nelle mani del cognato del leader di An, Gianfranco Fini, allora presidente della Camera. Eravamo diffamatori, non giornalisti. Manovalanza addetta a spalare letame da lanciare nel ventilatore, autisti della famigerata «macchina del fango». Eppure la storia per noi era chiarissima. Accertato che in quella casa ci viveva il «cognato» Giancarlo, recuperati alla Conservatoria del Principato i contratti di compravendita che mostravano lo «schermo» off-shore utilizzato per nascondere il nome dell'acquirente, pensavamo che il più fosse fatto. Sapevamo che sarebbe stato quasi impossibile «stanare» il giovane Tulliani dal nascondiglio societario messo in piedi nella lontana isola di Saint Lucia, ma abbiamo continuato a raccogliere prove ed elementi che cozzavano con le «versioni ufficiali» erogate con il contagocce e tanta arroganza dall'allora terza carica dello Stato. Che sosteneva di aver saputo che il cognato viveva lì «qualche tempo dopo la vendita» dell'appartamento, manifestando tra l'altro «sorpresa e disappunto» alla sua compagna Elisabetta. E promettendo di dimettersi se fosse stato provato che Tulliani Jr era proprietario dell'appartamento. Lo abbiamo fatto. Raccogliendo meticolosamente prove e testimonianze. Rintracciando il dipendente del mobilificio di Roma, sulla via Aurelia, che, prima anonimamente e poi con nome e cognome, ci disse di aver visto Fini e signora presentarsi in negozio per scegliere la cucina da installare nella casa di Montecarlo e tornare per seguire il progetto e organizzare la spedizione. Abbiamo pensato che un colpo così avrebbe forse aperto una crepa nell'omertà del presidente della Camera. Sbagliavamo. Per Fini - anzi, per il suo portavoce - quella che in seguito si sarebbe dimostrata semplicemente la verità era invece un «delirio diffamatorio». E per quasi tutti gli altri, purtroppo anche per molti colleghi, la vera notizia su cui concentrarsi erano le dimissioni del dipendente del mobilificio, Davide Russo. Che avesse rinunciato a un incarico per amore di verità, a quanto pare, era inaccettabile. Doveva essere stato pagato per farlo. Lui si ritrovò assediato dai giornalisti, che invece di chiedergli se davvero aveva visto Fini comprare la cucina, gli chiedevano conto del perché avesse deciso di raccontarlo a noi. È andata avanti così fino alla fine, l'inchiesta sulla casa di Montecarlo. Da un lato noi del Giornale che battevamo il Principato, inseguivamo a Bergamo gli eredi della contessa Colleoni, volavamo a Santo Domingo e poi a Saint Lucia per accertare la genuinità di una lettera che legava Tulliani a quelle società off-shore. Dall'altro Fini e i finiani intenti a negare tutto, anche l'evidenza, e ad attaccarci, anche personalmente. Hanno continuato a farlo anche quando le prime perquisizioni negli uffici di Corallo avevano portato alla luce i rapporti con i Tullianos. C'era da farsi qualche domanda, ma da Fini è arrivato il solito silenzio. Ingigantito, poco dopo, dalla sua rapidissima scomparsa dalle scene.

E ora ecco che l'indagine sul re delle slot mette a nudo la verità. La verità è che non era Fini il diffamato, semmai noi, derubricati da cronisti a pennivendoli asserviti a una vendetta politica. La verità è che Fini, nella migliore delle ipotesi, è un «coglione», come dice lui stesso. Difficile dargli torto: andava in tv a dire di non sapere nulla, mentre sua moglie mandava fax a Corallo e Corallo faceva piovere milioni di euro nei conti correnti del cognato e del suocero. E nella peggiore delle ipotesi - quella dei pm - è un riciclatore in concorso con la sua dolce metà e il resto della famiglia. Ma questo dovranno dirlo i magistrati.

Gianfranco Fini, da dove arrivano i milioni di euro che girano a casa sua, scrive Franco Bechis il 16 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. Gianfranco Fini è un uomo generoso. Molto generoso. E romantico. Non è il solo uomo a riempire di attenzioni la propria donna. C’è chi manda fiori, chi compra un anellino, chi qualche altro monile, o un vestito. Lui per la sua Elisabetta Tulliani davvero non ha badato a spese. Come accadde quel 15 aprile 2013. Mancava giusto un mese al 41° compleanno della sua compagna. Fini si era da poco messo in pantofole. La legislatura era finita da un po’, si erano tenute le elezioni che avrebbero portato al governo Letta. Fini aveva provato a restare in campo con un suo partitino alleato con Monti. Non ce l’aveva fatta. Si era illuso di essere centrale: aveva provato a buttare giù Berlusconi con una spallata non riuscita, e quando a farlo fuori pensarono mercati e potenti del mondo, era convinto di essere tra i vincitori. Andò male, e dovette cominciare una vita da pensionato. Intendiamoci, pensionato d’oro, perché da ex presidente della Camera oltre al vitalizio che cominciava a correre, conservava ancora qualche privilegio. E da poco aveva ricevuto una maxi liquidazione per la lunga carriera politica: 260 mila euro. Ovvio che volesse festeggiare con la madre delle sue figlie, Carolina e Martina. Così chiamò Elisabetta e disse: «Controlla un po’ il tuo conto Unicredit... Ci sarà una sorpresina». E che sorpresa! Quel 15 aprile era partito dal conto di Fini presso il Banco di Napoli, agenzia interna della Camera, un bonifico di 800 mila euro. Generoso e assai risparmioso. Poco tempo dopo Elisabetta trasferì dal conto Unicredit a un altro suo conto aperto su Mps 700 mila euro. E con parte di quei soldi comprò una casetta per il week end in montagna, a Rocca di Mezzo (l’Aquila). Bastò metà di quella somma. Con meno di 150 mila euro Elisabetta si è poi comprata anche un negozietto a Roma. C’è anche questa piccola storia familiare fra le pieghe dell’ordinanza di sequestro preventivo alla famiglia Tulliani firmata dal gip di Roma, Simonetta D’Alessandro, portando all’iscrizione di Elisabetta nel registro degli indagati per il reato di riciclaggio e di Fini per concorso in quel reato. Piccolo squarcio nella vita benestante dell’ex presidente della Camera. Piccolo perché a casa Fini (nel comprensorio uno accanto all’altro vive il suocero Sergio Tulliani e ha casa il cognato Giancarlo), i milioni in questi anni a leggere la documentazione giudiziaria circolavano come noccioline. La sola Elisabetta è stata beneficiaria di bonifici per 2,5 milioni (compreso il generoso cadeau del compagno). Di questi 1,7 milioni le sono arrivati indirettamente grazie a Francesco Corallo, il re delle slot machine al centro dell’inchiesta. C’è lui dietro alla famosa (e mai provata finora nei particolari) operazione casa di Montecarlo, che ha portato in cassa a Elisabetta (e anche a beneficio di Fini che vive con lei) 739 mila euro, attraverso due bonifici effettuati dal fratello: uno da 290 mila euro il 24 novembre 2015 e uno da 449 mila il 10 dicembre 2015. Più di mezzo milione le è arrivato dal padre e veniva dalla provvista Corallo, e altro mezzo milione in due tranche (la metà di una somma condivisa col fratello) da una società costituita in un paradiso fiscale (la Jayden Holding ltd) foraggiata da Corallo. Nell’inchiesta salta definitivamente fuori la verità sulla casa di Montecarlo: l’operazione è stata fatta non solo dal cognato - come si era scritto - ma da Elisabetta, che alla fine si godrà anche il 50% della clamorosa plusvalenza per la vendita avvenuta nel 2015. Alla verità ci si arriva non per una riapertura della vecchia inchiesta, ma per l’inchiesta che la procura di Milano stava conducendo su Corallo. I documenti sulla casa di Montecarlo vengono trovati nella memoria di un hard disk sequestrato a Corallo a fine 2014 e in analogo sequestro compiuto a casa di Giancarlo Tulliani nel dicembre 2016. Materiale freschissimo, che inchioda i protagonisti e rende impossibile il fatto che Fini non conoscesse l’operazione dal primo giorno: è a casa sua che arrivano i soldi alla fine. L’inchiesta è all’inizio, e difficilmente si potrà chiudere solo sul filone del riciclaggio e dell’autoriciclaggio (di questo sono accusati Elisabetta e Giancarlo per la vendita monegasca). Perché da Corallo sono arrivati ai Tulliani più di 4 milioni in pochi anni. A che titolo? I magistrati scrivono che è stata creata documentazione fittizia per motivare quei pagamenti, con consulenze mai fatte e che non avrebbero mai potuto fare i Tulliani. Allora perché Corallo pagò, e addirittura versò a Elisabetta e Giancarlo 2 milioni per fare diventare i due suoi soci nella holding del gioco d’azzardo (dovevano prendere il 10% per quella cifra, poi il progetto fu scartato ma loro si tennero i soldi e li investirono in case)? I magistrati individuano un favore che vale quella cifra: il pressing fatto da uomini di Fini sull’allora direttore dei Monopoli di Stato, Giorgio Tino, per ritirare una contestazione che avrebbe messo ko le società di Corallo. Spiegano che l’imprenditore aveva rapporti amicali con Fini, non con i Tulliani, e che fu l’ex presidente della Camera a presentargli la famiglia. Ma non ci sono prove - a parte quelle logiche - che i fatti siano collegati: i finiani fecero quel favore e l’imprenditore lo ripagò con la generosità verso i Tulliani.

Altero Matteoli su Gianfranco Fini: "Si è fatto soggiogare da Elisabetta Tulliani, è tutta colpa sua", scrive Salvatore Dama il 17 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. «È una vicenda che mi mette tristezza. Non tanto per l’avviso di garanzia, su questo non posso che augurare a Fini di chiarire la sua posizione. Io ne faccio una questione politica». Altero Matteoli, senatore di Forza Italia, è stato per tanti anni responsabile dell’organizzazione di Alleanza Nazionale. Da quell’osservatorio privilegiato ha assistito alla metamorfosi finiana. Cominciata con i primi distinguo ideologici e finita con l’addio a Berlusconi. «Gianfranco era un uomo di destra che, a un certo punto, ha iniziato a parlare di cose che con la destra non c’entravano nulla».

Sulla fecondazione, sulla cittadinanza agli immigrati, sui diritti civili: vi avvisava sempre a cose fatte. Fece così anche con la casa di Montecarlo?

«Guardi, io sono stato uno dei sei o sette dirigenti di vertice di An, eppure non ho mai saputo dell’esistenza di quella casa».

Come è possibile?

«Io sapevo che la contessa Colleoni aveva lasciato al nostro partito una casa, molto bella, in via Paisiello a Roma e un terreno a Monterotondo».

E di Boulevard Princesse Charlotte 14?

«Non ho mai saputo nulla. Ne ho parlato con La Russa e Gasparri, anche loro erano all’oscuro. Quella casa è stata occultata da Fini sin dall’inizio. Ed è una cosa che non riesco a perdonargli. Io ho una storia e, purtroppo, un’età. Ricordo momenti drammatici».

I tempi del Msi?

«An aveva soldi a disposizione, tant’è vero che c’è una Fondazione che ha ereditato quel patrimonio. Ma quando eravamo Movimento sociale, avevamo difficoltà enormi. Ricordo Almirante che firmava le cambiali per poter pagare le sedi. Quando ero il segretario provinciale del Msi a Livorno, ci diedero lo sfratto. Andai da lui chiedendo un aiuto e mi disse: “Soldi? Se vuoi ti do un pacco di cambiali”. Ecco, io vengo da questa storia qui ed è per questo che non riesco a perdonare chi si è preso un bene del partito».

Fini ha detto: “Sono un coglione, non un corrotto”. 

«Gli auguro di poterlo provare anche in sede processuale. Però a me non basta che dica che è un coglione. Io voglio che restituisca i soldi della casa di Montecarlo alla Fondazione di An. Se avesse novant’anni, uno direbbe ok, si è rincitrullito. Ma a sessanta no, è troppo presto».

C’è chi sostiene che Fini agiva sotto l’influenza di Elisabetta Tulliani. 

«Senta, io nella vita ho avuto problemi familiari. Mi sono separato e risposato. Non riesco a colpevolizzare una moglie per gli errori del marito. Io esprimo un giudizio su di lui, non sulla signora Tulliani. Se sono innamorati, evviva, beati loro. Ma non dovevano prendersi la casa di Montecarlo. Per come sono fatto io, non riesco a capire come uno possa farsi soggiogare dalla moglie. Grande rispetto per la signora, eh, ma stiamo parlando di un uomo che è stato segretario di un grande partito arrivato fino al 15,7%, ministro degli Esteri, presidente della Camera... Glielo dico in toscano: come fa uno così a farsi mettere sotto da una donna? Non riesco a giustificare Fini. L’errore è stato il suo».

Nessuna attenuante. 

«Venire a sapere che c’era una proprietà e scoprire che qualcuno l’ha praticamente regalata alla famiglia della sua donna... cosa vuole, io lo trovo insopportabile».

Da quanto tempo non vede Fini?

«Da quando c’è stata la rottura l’ho incrociato un paio di volte ai funerali di amici in comune. Nulla più di questo. Le nostre strade si sono divise quando lui ha deciso di rompere e far cadere il governo Berlusconi».

Se fosse rimasto, oggi sarebbe il leader del centrodestra? 

«Ritengo di no. Era un bluff e prima o poi sarebbe venuto fuori. Questa caduta così in basso dimostra che evidentemente lo avevamo sopravvalutato. E dire che, quando Fini è stato eletto la prima volta segretario del Msi, io capeggiavo una lista che era contro di lui perché non lo ritenevo all’altezza...».

Tutte le destre d’Italia (alle prese con Berlusconi). In un panorama confuso e senza leader riconosciuti, è partita la caccia agli alleati, scrive Bruno Manfellotto il 4 gennaio 2017 su "L'Espresso". Ventiquattr’anni dopo, Silvio Berlusconi non ha ancora finito il suo lavoro: badare alle sue aziende e pensare al partito, due facce di una stessa medaglia. Anche in questo il passato non passa, e incombe “La grande Restaurazione” (l’Espresso n.1). Oggi come ieri il destino imprenditoriale di Arcore transita per Roma, lambisce governo ed equilibri di sistema, corre parallelo alla vicenda politica. E ne mima umori e toni: con Vincent Bolloré il Nostro prima tratta, poi rompe e sceglie la carta bollata, ma solo per riprendere i negoziati sul futuro di Mediaset lungo l’asse di interesse nazionale Telecom-Mediobanca-Generali; intanto con i cinesi in corsa per il Milan sorride, media, alza il prezzo, ma quando sta lì lì per colorare di giallo i rossoneri, s’inventa un predellino e ricomincia daccapo: B. è sempre B., in azienda e in politica. Qui però le cose, se possibile, sono perfino più complesse. Rimettere insieme i cocci dell’ex Polo delle libertà è impresa ardua, e se in Francia (ad aprile) o in Germania (a settembre) la sfida elettorale si giocherà tra moderati ed estremisti - François Fillon contro Marina Le Pen; Cdu-Csu di Angela Merkel versus AfD di Frauke Petry - qui la destra si è frantumata in un panorama confuso dal quale non spunta un leader riconosciuto. Per ora ad alzare la voce è l’estrema destra, storicamente tenuta sempre ai margini della scena. Per il resto, tutto è sfilacciato. Di Forza Italia ce n’è più d’una. C’è il cerchio rosa che blinda Palazzo Grazioli e il suo inquilino; c’è Giovanni Toti impegnato a fare da ponte con l’esuberante Matteo Salvini; c’è la fronda dell’ex pupillo Raffaele Fitto, ansioso di rottamare il Capo; e c’è il fronte dei fuorusciti, gli ex fedelissimi Denis Verdini e Angelino Alfano, incerti tra un forno e l’altro, e tra giocare in proprio o riannodare i fili del dialogo. Una volta, poi, l’ex Cav. regnava su una coalizione obbediente; oggi Salvini vuol ballare da solo (con Giorgia Meloni): B. non è più il sole intorno a cui tutto il sistema gira, com’è stato per un ventennio. Un caos. È come se la destra, archiviata l’alleanza laici-cattolici fulcro del moderatismo all’italiana, cercasse una nuova identità. Nell’attesa, liberi tutti. Già, ma per andare dove? E perché? Il fatto è che molto è cambiato da quando sulla scena sono apparsi nuovi protagonisti. Matteo Renzi, per esempio, ha immaginato un Pd capace di attirare voti di centro, magari strappando a Berlusconi i consensi di chi lo vedeva come il campione dell’antisinistra: del resto, al posto dei “comunisti” era arrivato un leader post democristiano per il quale non c’erano cose di destra o di sinistra, ma solo cose da fare… E invece la sconfitta nel referendum, voluto per sancire la svolta, ha spezzato il suo disegno: ora la minoranza del partito sente di nuovo il vento nelle vele, e la destra più radicale si è intestata la vittoria convincendosi che il “no” sia figlio diretto della protesta e dello scontento, le sole parole scritte sui loro vessilli. Per questo Salvini & Meloni parlano ora come gli azionisti di riferimento del postberlusconismo, pur sapendo che c’è un grosso ostacolo sulla loro strada: Beppe Grillo, il terzo incomodo. Intendiamoci, il movimento Cinque Stelle è costruzione ben più complessa, miscela geniale uscita dagli alambicchi del profeta Casaleggio, ma certo gli apprezzamenti per il premier ungherese Viktor Orbán, l’uomo dei muri, e per il campione dell’antieuropeismo Nigel Farage, o le parole nette contro gli immigrati hanno poco a che vedere con le radici ambientaliste e di sinistra, e poco c’entrano con il campo dei moderati. Profumano piuttosto di destra protestataria, e anche per questo concorrono a frenare l’espansione lepenista di Salvini. Che dunque ha bisogno di alleati (ogni tanto lui e Grillo si annusano…), come del resto Berlusconi. Ma mentre il primo insegue sogni maggioritari, il secondo si batte per il ritorno al proporzionale: pensa sia l’unico sistema capace di sterilizzare Grillo e di ridimensionare Salvini e Meloni, premessa per ricompattare una destra moderata e preparare l’unico governo possibile in un sistema tripolare, quello di larghe intese. Restano le domande di fondo: chi verrà dopo di lui? E guarderà a Merkel o a Le Pen? Stefano Parisi s’era messo in testa di rispondere. B. ha lasciato fare, poi lo ha fermato, poi lo ha prudentemente rilanciato, un po’ per non rompere con gli ex alleati, un po’ perché convinto che la destra abbia oggi una sola identità riconoscibile: Berlusconi; e che abbia un solo leader: Berlusconi. Per questo si sbatte ancora. Aspettando che Strasburgo gli restituisca l’agibilità politica. Per ricominciare. Ventiquattr’anni dopo?

C'era una volta il Movimento Sociale Italiano. Oggi ricorrono i 70 anni del Movimento Sociale Italiano, fondato e guidato per molti anni da Giorgio Almirante, scrive Francesco Curridori, Lunedì 26/12/2016, su "Il Giornale". Sono ormai passati 70 anni da quel lontano 26 dicembre 1946 quando Giorgio Almirante, Pino Romualdi e Augusto De Marsanich si riunirono nello studio di Arturo Michelini per fondare il Movimento Sociale Italiano. La destra italiana, da quel momento fino all’avvento della Seconda Repubblica, ha avuto l’ostracismo della "conventio ad excludendum" che teneva fuori l’Msi da ogni ipotesi di alleanze di governo, sia a livello nazionale sia locale. Il Movimento Sociale del 1948 si dichiarava, infatti, erede dell’ultimo fascismo, quello della Repubblica di Salò e faceva suo il programma del Partito Fascista Repubblicano enunciato sulla Carta di Verona. I postfascisti prendevano, perciò, ufficialmente le distanze dal "fascismo-regime" nel nome del motto almirantiano "Non rinnegare, non restaurare", ma si riconoscevano nel fascismo-movimento, il cosiddetto fascismo delle origini, e le sue teorie anticapitaliste. La stella polare era il discorso che Benito Mussolini tenne nel 1919 a piazza San Sepolcro a Milano, quando diede vita ai Fasci di Combattimento. Ma veniamo alla storia della destra del dopoguerra. La prima volta che la fiamma si presentò sulle schede elettorali fu per le amministrative del 1947 quando si presentò alle elezioni amministrative ed elesse tre consiglieri in Campidoglio, mentre alle politiche del 1948, l’Msi guidato da Giorgio Almirante, ottenne il 2% alla Camera e l’1% al Senato. Augusto De Marsanich, nel 1950, prese il posto di Almirante alla guida del partito e cercò di imprimere una svolta moderata al Movimento Sociale così da accelerare il suo ingresso nella vita democratica del Paese. Due anni più tardi, l’alleanza con i monarchici per le elezioni amministrative, portò l’Msi alla vittoria in sei comuni del Sud: Napoli, Bari, Foggia, Benevento e Salerno. Alle elezioni politiche del 1953 il Msi vide triplicarsi i suoi voti passando dal 2 al 5,8% e il congresso di Viareggio dell’anno successivo all’elezione a segretario di Arturo Michelini. Una scelta nel segno della continuità e della moderazione per proseguire quell’opera di ‘inserimento’ che iniziò a dare i suoi frutti con l’appoggio esterno ai governi Zoli e Segni. Fu il voto determinante dato al governo di Ferdinando Tambroni a provocare le manifestazioni di protesta a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, che impedirono al Movimento Sociale di celebrare nel capoluogo ligure il suo sesto Congresso. In quegli anni i militanti missini furono affascinati dalle teorie di Julius Evola e la corrente spiritualista guidata da Pino Rauti lasciò il partito per fondare Ordine Nuovo. Rauti, poi, nel 1969, con il ritorno di Almirante alla segreteria, si iscrisse di nuovo al Msi, mentre Ordine Nuovo prese una deriva estremista e terrorista. Hanno inizio gli anni di piombo e la strage di piazza Fontana del 2 dicembre 1969 viene attribuita all’estrema destra, ma Almirante, con la ‘politica del doppiopetto’, riesce a tenere lontano il Movimento Sociale da una deriva estremista e nel 1972 dà vista al MSI-Destra Nazionale alleandosi con i monarchici di Alfredo Covelli e Achille Lauro. Le elezioni politiche del 1972 segnano il massimo storico per il partito che ottiene l’8,7% dei consensi ed elegge 55 deputati e 26 senatori. Il Congresso del 1977, però, provoca la prima frattura con l’ala moderata di Ernesto De Marzio che lascia il Msi e fonda ‘Democrazia Nazionale’, un’An ante litteram che scompare nel giro di due anni. Nel frattempo le teorie del francese Alain de Benoist prendono piede anche in Italia e la ‘Nouvelle Droit’ trova voce grazie allo storico Franco Cardini, al politologo Marco Tarchi e all’intellettuale Umberto Croppi, mentre Rauti diventa il leader della ‘sinistra missina’. Gli anni ’70, nel mondo postfascista, sono ricordati soprattutto per eventi tragici come il rogo di Primavalle del 1973 e l’uccisione del militante greco, Mikis Mantakas, avvenuta sempre a Roma nel 1975, mentre la stage di Bologna del 1980 segna simbolicamente la fine degli anni di piombo. Si arriva, poi, al dicembre 1987 quando Almirante, poco prima di morire, lascia la guida del partito al suo ‘delfino’ Gianfranco Fini che traghetta il partito nella Seconda Repubblica. Alle elezioni amministrative del 1993 il Movimento Sociale, grazie a Tangentopoli, viene definitivamente sdoganato dagli elettori: oltre il 40% a Roma e a Napoli con Fini e la Mussolini, sconfitti con onore da Francesco Rutelli e Antonio Bassolino. Sul resto, dal Congresso di Fiuggi in poi, non è più storia dell’Msi ed è meglio calare un velo pietoso…

E per i 70 anni del Msi va in mostra l'orgoglio neofascista. Per l'anniversario della nascita del partito la Fondazione An organizza un'esposizione di cimeli, giornali, foto e manifesti. Tra saluti romani e ritratti del Duce, scrive Paola Fantauzzi il 7 ottobre 2016 su "L'Espresso". Lontana dalle divisioni del presente, le abiure di convenienza, le giravolte di potere e i litigi sul simbolo, la diaspora di An - deflagrata al punto da arrivare fino in Forza Italia - si ritrova unita sotto la fiamma primigenia: quella tricolore del Movimento sociale italiano. Quel Msi, inizialmente Mo.s.it, che fin nel simbolo (il trapezio isoscele a simboleggiare una bara) e nell’acronimo (“Mussolini sei immortale”) già chiariva il senso di tutta una storia. Si intitola “Nostalgia dell’avvenire”, come lo slogan coniato da Giorgio Almirante a fine anni ’60, la mostra che la fondazione Alleanza nazionale ha organizzato per i 70 anni dalla fondazione del partito (26 dicembre 1946). Mezzo secolo di neofascismo, esibito dal prossimo 20 ottobre al 10 febbraio nella sede di via della Scrofa con orgoglio e senza complessi di sorta. Perché del resto, piaccia o no, questo è l’album di famiglia della destra italiana: reduci repubblichini dalla fresca impronta antisemita come padri fondatori, il gene della sconfitta cucito addosso (“Siamo nati in un cupo tramonto”), la nostalgia del Ventennio e l’idea di rivincita, i saluti romani che in Germania tuttora costano l’arresto, le camicie nere in campagna elettorale a imitare tristemente le squadracce di prima della marcia su Roma; gli assalti alle università occupate durante la contestazione giovanile, le violenze di piazza, la morte data e subita durante gli anni di piombo; le istigazioni all’illegalità di dirigenti-capipopolo più che politici, gli ufficiali golpisti e piduisti puntualmente eletti in Parlamento, la vicinanza - se non proprio contiguità - con ambienti implicati nelle trame eversive o stragiste, la campagna per reintrodurre la pena di morte; i cortei studenteschi, uguali identici a quelli di tre decenni prima, che a fine anni ’80, in nome dell’italianità, ancora manifestavano a Trieste contro e la minoranza slovena e a Bolzano contro la maggioranza tedesca. Di tutto questo ovviamente, malgrado le intenzioni non agiografiche professate dagli organizzatori, si trova traccia solo a saper “leggere” storicamente cosa c’è dietro le foto in bianco e nero di quegli anni, dalle piazze gremite ai comizi di Almirante al sostegno, in nome dell’anticomunismo, alle tremende Falangi cristiano-maronite libanesi (così come ai peggiori regimi militari che fecero carta straccia dei diritti umani). Certo, il Msi non fu esclusivamente questo. Fu un partito popolare capace di sfondare al Sud e rivaleggiare per consenso con gli odiati comunisti nelle borgate del sottoproletariato urbano. Fu uno dei primi a porre il tema del presidenzialismo (sebbene prevalentemente per il dna autoritario) ed ebbe al suo interno qualche sparuta voce giovanile che a fine anni Settanta scoprì coi campi Hobbit che l’universo di riferimento non necessariamente cominciava e finiva a Predappio, ponendo (senza grande ascolto va detto) le questioni dell’ambientalismo e del terzomondismo con slogan tipo “né Marx né Coca-cola, né banche né soviet”. Soprattutto ebbe, nelle ultime pagine di storia, la sua grande occasione col declino della Prima Repubblica: la questione morale (“l’Italia onesta in piazza con la destra”), le manifestazioni a sostegno di Mani pulite (“Tangentocrazia ti spazzeremo via”), gli attacchi alla Lega secessionista in nome dell’unità della patria (“Bossi fa avanspettacolo”): tutti temi frettolosamente archiviati e sacrificati sull’altare del potere e dell’alleanza con Silvio Berlusconi, che ha finito per rendere non più così distinguibili la presunta diversità degli inflessibili ex camerati dai disinvolti yuppies forzisti. Tutta una serie di ragioni che spiegano, forse, come mai la destra italiana ancora stenti a trovare, come in Francia, quella via “legalitaria e repubblicana” indicata troppo tardivamente da Gianfranco Fini per essere credibile agli occhi dell’opinione pubblica senza affogare nella miseria elettorale che ha travolto Futuro e libertà. E non è un caso, se si guarda Oltralpe, che il punto di riferimento resti semmai il Front national di Marine Le Pen, altra fiamma tricolore identica a quella del Msi. A conferma di quanto certe radici non sia possibile davvero reciderle del tutto. Soprattutto se non c’è l’intenzione.

Mario Ajello per “il Messaggero” il 7 ottobre 2016. Un pezzo di storia d'Italia visto dall' angolo visuale chiamato Msi. La destra celebra la propria vicenda tornando alle radici, al partito-mamma, alla fase in cui il potere era ancora lontano e l'elogio - ben raccontato - delle origini di un mondo che poi diventerà An e andrà al governo diventa un modo per ripensarsi e magari per ricominciare. Già il titolo di questa mostra è evocativo e si rifà a un vecchio slogan del Msi degli anni 60-70: «Nostalgia dell'avvenire» La star, visto il tema, non può che essere Giorgio Almirante. Ma soprattutto l’esposizione illustra una storia corale: occhio, per esempio, alle foto di piazze strapiene di militanti della destra in decenni in cui nessuno di quella parte politica avrebbe mai potuto immaginare di diventare prima o poi sottosegretario. Almirante uber alles, ma anche Michelini, Romualdi, Rauti, Tatarella, e poco Fini se non altro perché questa bella rassegna si conclude con la svolta di Fiuggi, ossia prima che Gianfranco fosse il simbolo dello sdoganamento della destra e della nuova stagione targata An. 70 anni di fiamma tricolore e di «fiammeggiante passione ideale» scorrono attraverso immagini, documenti, ritagli di giornale, poster, volantini, filmati, cimeli. Il curatore è lo storico Giuseppe Parlato. Il luogo è la Fondazione An in via della Scrofa - dove c' erano le Botteghe Oscure della destra - e la durata della mostra va dal 20 ottobre al 10 febbraio, il Giorno del Ricordo istituito nel 2004 per commemorare le vittime delle foibe. La «Nostalgia dell'avvenire» viene celebrata in un momento critico per la destra di provenienza missina. Tra divisioni, rimpianti, difficoltà di prospettive e beghe anche di tipo legale. Con quelli del Nuovo Msi che rivendicano l'uso della fiamma tricolore: e un gruppo di militanti si sono presentati sotto via della Scrofa con cartelli di protesta gridando «abusivi» contro i camerati di un tempo. Mentre l'ufficiale giudiziario bussa alla porta delle Botteghe Nere minacciando il pignoramento se la Fondazione An non paga le spese legali della causa giudiziaria in corso dal 2006. Occhio, però, c' è Fini che si affaccia da una foto ingiallita in prima pagina del Secolo d' Italia, risalente al giorno in cui Gianfranco vinse il ballottaggio per la segreteria del Msi contro Rauti. Almirante in tutte le salse. Lui sotto la pioggia durante un comizio. Lui insieme a Pinuccio Tatarella. Lui durante un congresso. Il suo nome stampato sulla jeep usata da un gruppo di militanti (in camicia nera) nel corso di una delle tante campagne elettorali. Per non dire della bellezza anche grafica di alcuni manifesti elettorali e delle campagne di reclutamento. Alla presentazione della mostra, gli ex colonnelli di An e di Fini ci sono e lui invece no. A riprova del passato (recente) che non passa. Ecco Ignazio La Russa, Gianni Alemanno, Maurizio Gasparri, Italo Bocchino. Mentre Marcello Veneziani, direttore scientifico della Fondazione An, insiste sull' aspetto pop, ossia sulla partecipazione dei giovani a quella stagione della destra e sul racconto anche antropologico di un tipo umano e politico chiamato il missino, piuttosto che sul versante ufficiale. «Che cosa spingeva un ragazzo a voltare le spalle al proprio tempo e ai suoi tabù e a scegliere di entrare nel Movimento sociale italiano?». Questa, secondo Veneziani, è la vera domanda da porsi oggi. Quando la fiamma non c' è più ma resta, in chi l'ha vissuta, l' orgoglio di una storia.

Settant’anni «dalla parte sbagliata». Istantanee dal Movimento sociale. «Nostalgia dell’avvenire» e divisioni nel partito che conquistava 2,5 milioni di italiani, scrive Pierluigi Battista il 18 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". Chissà se domani, giovedì, all’apertura a Roma della mostra dedicata alla storia del Movimento sociale nato settant’anni fa, Gianfranco Fini e i suoi colonnelli dell’ex An saranno capaci di non guardarsi in cagnesco, almeno per una volta. Se sapranno riconoscere in quei settant’anni di fotografie, di volantini, di manifesti, di prime pagine delle riviste (quasi cento, tantissime) e dei giornali esposti nella mostra voluta dalla Fondazione Alleanza nazionale e ideata da Marcello Veneziani, le ragioni di un passato comune. O almeno di un’appartenenza a una comunità che nel frattempo si è spaccata con un’animosità rancorosa senza pari, di radici che affondano nella profondità temporale di biografie oramai divise. Difficile, molto difficile. Anche perché la stessa storia di un partito, come dice il curatore della mostra Giuseppe Parlato della Fondazione Ugo Spirito-Renzo De Felice, che ha vissuto prevalentemente sulla coesione di un sentimento, non è fatta per addolcire le asprezze di una rottura personale prima ancora che politica. Eppure è la prima volta che le icone missine vengono messe in mostra per illustrare il senso di una storia. Con il rischio della museificazione, come l’interno della tipica sezione del Msi ricostruita a grandezza naturale sin nei dettagli in questa mostra per rievocare anche fisicamente un carattere e un’atmosfera. Ma un rischio che forse vale la pena correre per conoscere un pezzo importante della vicenda politica italiana repubblicana. Certamente, però, un «come eravamo», per quelli che si sono riconosciuti nella storia oramai conclusa del Movimento sociale, che non potrà forse più declinarsi in un «come saremo», in una comunità sentimentale oramai dilaniata. Ha un senso, oggi nel 2016, restituire visivamente la traiettoria di un partito che è stato in tanti decenni la cornice emotiva di circa due milioni e mezzo di italiani che, ostinatamente, testardamente, sentimentalmente come sostiene appunto Giuseppe Parlato, si sono riconosciuti in un simbolo, la fiamma tricolore, in un linguaggio, in un concerto di voci talvolta dissonanti, in una ritualità che oggi è più difficile decifrare. Facile dire: i fascisti, o i neofascisti. Il Msi, alla sua nascita, fu il rifugio dei vinti, di chi era dalla «parte sbagliata» e che voleva continuare ad esserlo. Poi fu un modo, come scrive Marcello Veneziani nella prefazione al ricco catalogo curato da Simonetta Bartolini, di «voltare le spalle» al pensiero dominante, «mainstream» come si direbbe oggi, giocando con la marginalità, con l’esilio in Patria, con il recinto infetto, in un’opposizione sentimentale e morale prima ancora che politica al «sistema» che poi sarebbe l’Italia «nata dalla Resistenza». Le prime parole dell’inno missino del 1946 suonavano così: «Siamo nati in un cupo tramonto». In questo paradosso, in questo nascere, che dovrebbe essere l’alba, subito piegato al tono lugubre e triste del tramonto, della fine, della sconfitta, della morte, c’è tutta la febbrile sentimentalità di un partito che in questa mostra fa riaffiorare un ribollire di passioni, tutte espresse e frustrate dentro un «ghetto» infrequentabile dal mondo della «parte giusta», sempre sotto il segno della contraddizione. «Nostalgia dell’avvenire» è il titolo di questa mostra che riprende un celebre slogan di Giorgio Almirante, sentimentalmente e iconograficamente la figura centrale di questi settant’anni messi in mostra. Una contraddizione, l’ennesima. Ma quante contraddizioni in un partito in cui i tradizionalisti si mischiavano ai rivoluzionari, i clericali reazionari ai libertini trasgressivi, i fautori nientemeno che di un sistema di caste ai sindacalisti che invocavano le radici di sinistra del fascismo per una completa «socializzazione» dell’economia. Ed ecco allora in questa mostra in cui il Msi tutto «legge e ordine» si mischia con i moti di Reggio Calabria, le battaglie di strada per «Trieste italiana» con i giochi di palazzo con la Dc voluti dalla segreteria di Arturo Michelini ma frustrati dai moti antifascisti del luglio ’60 per il congresso del Msi a Genova. Ecco le piazze piene dei comizi dei leader che raccontano di un’Italia in cui i partiti, e anche il partito che della «nostalgia dell’avvenire» aveva fatto una bandiera, riempivano le piazze di un popolo che non c’è più. Ecco lo sguardo rivolto all’indietro, con le celebrazioni della nascita di Mussolini e le peripezie del corpo tumulato del Duce e gli scontri interni tra le componenti, con le scissioni negli anni Cinquanta dell’«Ordine nuovo» di Pino Rauti (in una dicotomia mai sciolta tra «almirantiani» e «rautiani», un po’ come quella tra «amendoliani» e «ingraiani» in un grande partito altrettanto ideologico come il Pci), e quella degli anni Settanta di «Democrazia Nazionale». Ecco gli anni Settanta, con i morti e lo scontro duro con i «rossi», e il progressivo assottigliarsi della classe dirigente con la morte di Almirante e di Pino Romualdi. E l’astro nascente di Fini con il sostegno della vecchia guardia di Pinuccio Tatarella. E i volti dei dirigenti che compaiono nel filmato curato da Mauro Mazza. E le prime pagine del Secolo d’Italia conservate dai missini come reliquie di un mondo che si sentiva assediato e che oggi appare sepolto, con gli eredi che dopo l’epoca di Fiuggi e di An, si barcamenano tra le sigle per lo più ridotte a minoranza di testimonianza o poco più, con rapporti umani sempre più deteriorati. Con molta nostalgia, certo. Ma quale avvenire?

70 anni fa iniziava la gloriosa avventura del Movimento Sociale Italiano, scrive Antonio Pannullo lunedì 26 dicembre 2016 su “Il Secolo d’Italia”. Esattamente settant’anni fa nasceva il Movimento Sociale Italiano. Ma la nascita del Msi viene preceduta da alcuni fatti, il più importante dei quali si svolge a Roma nel maggio del 1946. Tra i moltissimi gruppi e gruppetti fascisti, ve n’è uno, guidato da Pino Romualdi, detto “il dottore”, che si chiama Far, Fasci di azione rivoluzionaria, al cui vertice si forma un organismo chiamato il Senato, che cerca in qualche maniera di coordinare la nebulosa fascista superstite, in Italia, ma soprattutto a Roma. A fine luglio, il Senato affronta in una riunione a Roma il problema di cosa fare in futuro. Romualdi propone di abbandonare l’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini, che aveva riscosso un qualche successo elettorale, e di formare un movimento che catalizzi tutti i fascisti dispersi. La sua tesi passa di misura, così si individuano in Giorgio Almirante e in Giacinto Trevisonno le persone che avrebbero potuto rivestire responsabilità nel nuovo movimento, in quanto Romualdi era ricercato, tanto che poi, nel 1948, fu arrestato e rimase otto mesi in carcere. Insomma, era deciso. Il 3 dicembre ci fu un’altra riunione in via Barberini, a casa del papà del futuro segretario del Msi Arturo Michelini, Renato. Alla riunione partecipano rappresentanti dei giornali fiancheggiatori e i leader di alcuni gruppi politici, tra i quali il Mius, Movimento italiano di unità sociale, di cui faceva parte, tra gli altri, proprio Almirante. Si stabilì di creare un nuovo soggetto politico, come si direbbe oggi, che si chiamerà Movimento Sociale Italiano. Seguirono altre riunioni, con molti e diversi partecipanti, fino ad arrivare a quella decisiva. Il 26 dicembre, dopo altri numerosi – e faticosi – contatti preliminari tra le varie e variegate organizzazioni e associazioni che vi confluivano, e preparato dal giornale Rivolta Ideale (diretto da Tonelli, uno dei membri del Senato), si costituì a Roma il Movimento Sociale Italiano (siglato all’inizio Mo.S.It.), il cui primo atto fu di rivolgere un appello agli italiani per la ricostruzione e presentare i dieci punti programmatici. Tra questi dieci punti, è fondamentale ricordarlo ancora, ve ne era uno dedicato specificamente alla pacificazione nazionale, peraltro sempre respinta dai comunisti. Già il 29 furono affissi per la città manifesti con entrambi i documenti. Si varò lo statuto provvisorio che prevedeva otto organismi. Giacinto Trevisonno fu nominato segretario della giunta esecutiva, mentre a Carlo Guidoboni fu dato il compito di organizzare il nucleo giovanile del nuovo partito, il Fronte giovanile, “nonno” del Fronte della Gioventù, poiché si era convinti, e con ragione, che l’anima del Msi sarebbero sempre state le nuove generazioni, e così in effetti fu sempre. Mentre erano ancora vive l’epurazione, la persecuzione e le vendette cielleniste contro i fascisti, affluirono nel nuovo partito della fiamma tricolore combattenti della Repubblica Sociale Italiana, reduci dai campi di prigionia, epurati, e soprattutto giovani e giovanissimi che la guerra non l’avevano fatta. Si calcola che nel 1945 fossero decine di migliaia i fascisti in carcere a vario titolo, e questo mentre in Italia si parlava di nobili valori, di democrazia, di libertà. Dopo pochissimi mesi, se non settimane, il Msi era già una realtà solida, strutturata, organizzata, radicata sul territorio. Il partito si articolò subito in sezioni comunali e federazioni provinciali. Mancavano i mezzi ma si supplì con il volontarismo, reso ancora più eroico per il fatto che si doveva combattere contro l’ostracismo, la congiura del silenzio della stampa, il carcere, la disoccupazione, la violenza di piazza, anche armata, la penosissima carenza di mezzi economici. Ma soprattutto si doveva combattere contro almeno una parte dei vincitori e la loro arroganza. Il 5 febbraio del 1947 venne redatto uno statuto provvisorio del Fronte giovanile. Il 10 uscì – numero unico – la prima pubblicazione dell’organizzazione giovanile missina, Che l’inse!, dal grido del Balilla. Il 9 febbraio si tenne nella sede del Msi, in corso Vittorio Emanuele 24, il primo giornale parlato, ossia una commistione di comizio, dibattito, confronto tra il pubblico e gli esponenti del partito. Ideato da Almirante e attuato da Mario Cassiano. Il 20 febbraio si costituirono le sezioni Appio-Tuscolano, Italia Nomentano-Città Giardino, Savoia e Colle Oppio, la quale in realtà già era utilizzata in precedenza da combattenti della Rsi e profughi istriani e dalmati, tanto che poi si chiamerà, e si chiama ancora oggi, “Istria e Dalmazia”. Le prima sezione aperte in provincia? Quelle di Guidonia Montecelio e Morlupo. Nel febbraio si costituirono anche i Nuclei universitari del Msi. Oltre a Rivolta Ideale, che Tonelli aveva continuato a mettere a disposizione del Msi, il partito si dotò di un suo modesto organo ufficiale, la Circolare settimanale, due o quattro – poi otto – fogli dattiloscritti su cui veniva raccontata la vita del nuovo Movimento. Sulla Circolare appariva anche la rubrica dei giovani del Fronte, Fanfara. La prima sede del Msi fu aperta in corso Vittorio Emanuele 24, nei cui locali vennero ideati e attuati i cosiddetti giornali parlati, specie di conferenze a ingresso libero dove si esponevano e si commentavano le tesi del Msi o i fatti del giorno e si apriva un dibattito aperto a tutti. Nelle sezioni si costituirono i Gop, gruppi di organizzazione e propaganda, raggruppamenti scelti, antenati dei futuri GO (Gruppi Operativi) di via Sommacampagna degli anni Settanta, “invenzione” di Teodoro Buontempo e Franco Tarantelli. In aprile poi nacquero i nuclei sociali di Prati-Trionfale, Gianicolense-Ostiense, Trastevere-Testaccio, Prenestino, Labicano, Monti-Trevi, Pinciano, Borgo-Ponte e il primo nucleo studentesco, che fu costituito al liceo Dante Alighieri in Prati. Il primo segretario della giunta provinciale di Roma, nata nel gennaio di quell’anno, fu l’avvocato Nestore Sciarretta. Della giunta provvisoria faceva parte, tra gli altri, l’avvocato Mario Niglio, ancora vivente e che ci ha raccontato alcuni di questi episodi. Enzo Erra poi, in un’intervista con Almirante su Intervento, degli anni Ottanta, ci racconta come nacque il simbolo: un mutilato, incontrando Almirante sulle scale nella sede, gli propose di utilizzare la fiamma, simbolo dei combattenti, e gliela abbozzò su un foglio. Fu utilizzata già nelle amministrative romane. Malgrado la commovente penuria di mezzi, al 31 maggio esistevano già 300 sezioni del Msi in tutta Italia con quasi diecimila tesserati. Negli anni successivi Almirante sottolineò sempre il grande ruolo di Rivolta Ideale, “che ha parlato quando gli altri tacevano”. La ragione del successo del Msi e segreto della sua stessa sopravvivenza, fu la immediata diffusione capillare in tutta Italia e il suo radicamento sul territorio, frutto probabilmente dell’esperienza del Partito nazionale fascista che i primi missini portarono con loro. Inizia così la pluridecennale storia del Msi. Nel 1952 poi iniziò l’avventura gloriosa del Secolo d’Italia, per decenni organo ufficiale del Msi e poi di Alleanza nazionale e oggi della Fondazione che ne custodisce gli ideali e la memoria. Il quotidiano fu sempre tenuto in altissima considerazione da tutti i segretari del partito ma soprattutto dai lettori, che non gli fecero mai mancare l’appoggio in occasione delle numerose campagne di autofinanziamento lanciate dal Mai proprio dalle colonne di questo giornale. Tali sottoscrizioni hanno consentito alla comunità di disporre del patrimonio oggi amministrato dalla Fondazione Alleanza nazionale. Ma questa è un’altra storia, che racconteremo presto.

CUORI ROSSI CONTRO CUORI NERI.

Noi italiani nati con la camicia (nera). La voglia di fascismo? È indole italica, ci conosciamo: tanti, piccoli capetti. Sta dilagando e non ci cambierà una legge, scrive Tommaso Cerno il 12 luglio 2017 su "L'Espresso". Allarme (non più All’armi) siam fascisti! Come può essere capitato? A noi (pardon), noi italiani democratici che abbiamo scritto la Costituzione vietando al partito che fu di Mussolini di rinascere. “L’Espresso” ci fece una copertina qualche settimana fa. C’erano Grillo, Salvini e Berlusconi con fez e manganello. Tempesta di critiche. E avevano ragione (a propria insaputa) i lettori (di destra) che ci hanno ricoperti di insulti. Non dovevamo disegnare solo loro, ma gli italiani: il popolo nato con la camicia (nera) convinto di avere fatto i conti con la propria indole, prima ancora che con la storia, a suon di leggi e divieti. Voilà, tutti antifascisti mimetizzati nella democrazia, senza risolvere mai quel problemuccio: ci conosciamo, siamo piccoli capetti che danno ragione al capetto più in alto. A casa, in Parlamento, al bar, su Twitter. Ed è questa normalità, mescolata a nostalgia della nazione e maschilismo diffuso, l’arma segreta del fascismo, la sua intima natura. Si chiama conformismo, fino a quando di mezzo non ci sono guerra, galera o esilio. Ma è lo stesso vizio di obbedire che fa ripetere in televisione a tutti le cose che dice il capo. Lo stesso vizio che ci fa parlare del fascismo per non parlare dei migranti. Qualche giorno fa, un signore per strada mi dice: «Troppi immigrati, non possiamo mica...». Io rispondo: «Ha ragione, spariamo ai barconi con donne e bambini, così la smettono». Lui alza la testa e fa: «Ma che dice, è scemo?». Io: «Allora rimandiamoli in Libia. Donne stuprate, bambini torturati». E lui: «Stuprate? Ma allora come si fa?». Ho pensato che questo tipo di dialogo, ai tempi della politica, spettava ai cosiddetti corpi intermedi. Quelli che nel fascismo non c’erano ed erano nati con la Repubblica. Quelli che stiamo eliminando per spending review. Demolendo con l’insulto, nel nome dello spreco, assieme alla base stessa di una democrazia raziocinante. Gli immigrati diventati un problema sono la vera emergenza, dentro cui come un fungo velenoso riemerge il fascismo, non certo i busti del duce o le iscrizioni dell’Eur. La copertina del nostro giornale in edicola domenica con Repubblica è dedicata al ritorno del maschilismo: la sconfitta della parità dei generi parte dai gesti e dalle dichiarazioni dai potenti e raggiunge tutte le pieghe della società. Nove donne scrivono per noi di questo tema, da Natalia Aspesi a Valeria Parrella. E ancora: un'intervista con il commissario europeo all'immigrazione e il glossario politico dell'estate. La retorica antifascista che ci ha protetti finora, ci ha dato solo l’impressione dello scampato pericolo. Ha commemorato, non ha ricordato. Memoria significa fare i conti con il fascismo interiore. Noi non l’abbiamo fatto, né prima processando il regime, a differenza dei tedeschi, quando mezzo Paese transitava dalla dittatura alla Repubblica, né dopo. Gli unici conti sono stati fatti a piazzale Loreto, epilogo interiorizzato solo nella letteratura. Penso a Levi, Fenoglio, Pavese. E alla guerra civile di Claudio Pavone. Paradossalmente il “dovere antifascista” della prima Repubblica è ciò che ha permesso di non indagare davvero sul fascismo e che ci riporta a Chioggia, decenni dopo, a rivendicare il “diritto fascista”. La colpa è nostra, non di quei loschi figuri. Abbiamo fatto una “defascistazia” lessicale. E come il politicamente corretto non cancella il razzismo, né ridà la vista a un cieco chiamandolo “non vedente”, professare l’antifascismo per legge ci ha portati a una ipnosi, alla rimozione della pregiudiziale storica che credevamo eterna. Pregiudiziale che ormai cade dappertutto. Nel giugno 1945, l’Onu non nasce come parlamento delle nazioni, ma come organizzazione delle nazioni che hanno combattuto l’Asse, con i 5 membri permanenti del consiglio di sicurezza usciti vincitori dal conflitto. Quel mondo sta andando a pezzi. Trump non sa che farsene (è il primo presidente Usa che a Varsavia non visita il monumento degli insorti nel ghetto e ci manda l’ebrea Ivanka), non perché sia fascista, ma perché - a differenza di Bush - è espressione di un mondo che ha perso i legami con la sua storia. Con Norimberga e l’atomica, ma perfino con la Guerra fredda. Cina e India? Per loro l’antifascismo non ha significato storico né culturale. Putin? Per i sovietici la conquista di Berlino fu per decenni il certificato di appartenenza al mondo civile, mentre oggi il presidente russo interpreta la vittoria sul nazismo con una semantica neo-zarista. Perfino Netanyahu ha fatto fare dietrofront all’ambasciatore israeliano a Budapest dopo la protesta contro i manifesti anti-Soros (di sapore antisemita) voluti da Orbán. E via elencando. A questo punto una domanda: siamo sicuri che serva una legge per fermare questo e salvare la democrazia? O forse il problema sta in chi ci rappresenta? Scrisse Bauman: viviamo l’era del divorzio tra potere e politica. La democrazia non è più considerata “valore in sé” da milioni di persone, non perché manchino leggi antifasciste, ma perché i politici possono solo promettere, senza poi attuare tali promesse. E allora che senso ha criticare? Che senso ha votare?

Cuori rossi contro cuori neri. Storia segreta della criminalità politica di destra e di sinistra. Libro di Paolo Sidoni, Paolo Zanetov.

Descrizione. Dal brigantaggio a oggi, l'Italia è sempre stata terreno di faide, lotte intestine, attentati, rivendicazioni e vendette incrociate. I movimenti estremistici di destra e di sinistra hanno usato la carta del terrorismo per mettere sotto scacco il Paese, spesso con l'appoggio dei servizi segreti deviati e di altri poteri forti, secondo la tristemente nota "strategia della tensione". Questo libro vuole analizzare, attraverso alcuni casi di cronaca, proprio quella zona grigia in cui politica e malavita entrarono in contatto, ma anche capire come l'opinione pubblica e il mondo intellettuale reagirono di fronte a questi gruppi eversivi. E ancora, scoprire quali tratti in comune esistevano tra il terrorismo italiano e quello estero, e quali miti e personaggi animarono tali strutture sovversive. Dal bandito Giuliano al golpe Borghese, dal rapimento Moro alle nuove Brigate rosse, gli autori ripercorrono gli ultimi settant'anni di storia italiana alla ricerca delle matrici ideologiche e politiche dei più eclatanti episodi dello stragismo rosso e nero. Il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro. Le stragi di piazza Fontana e della stazione di Bologna. Sono forse questi i momenti più drammatici della storia della democrazia italiana. Azioni, cruente di destra e di sinistra, pagine scritte con il sangue da uomini e donne che la passione politica ha trasformato in fuorilegge, aguzzini, assassini. La contrapposizione tra destra e sinistra, neofascisti e comunisti, rivoluzionari dell'una e dell'altra posizione, è stata a lungo condizionata dal ricorso a una violenza spietata, sorretta da teorie folli e deliranti comunicati. Una scia di sangue che arriva fino ai giorni nostri tra minacce, faide, lotte intestine, attentati e stragi. Gli anni di piombo segnano l'apice di questo processo: organizzazioni terroristiche frontalmente opposte hanno compiuto destabilizzanti azioni eversive, spesso in accordo con la criminalità organizzata e i servizi segreti deviati. Dal bandito Giuliano alle Brigate rosse, passando per le vicende di Giangiacomo Feltrinelli e dei Nuclei armati rivoluzionari, gli autori ripercorrono gli ultimi settant'anni di storia italiana, alla ricerca delle matrici ideologiche, politiche e culturali che hanno ispirato le bande armate rosse e nere. Un tentativo di rispondere ad alcuni inquietanti interrogativi ancora aperti: come è possibile che la passione politica sia degenerata in violenza aperta? Chi sono i personaggi che hanno animato le realtà sovversive? Chi, all'interno delle istituzioni, li ha appoggiati o ha taciuto?

Incipit. Sicilia anno zero. Un’ipotetica classifica dei luoghi italiani dove in età contemporanea il rapporto tra criminalità e politica si rivelò maggiormente organico vedrebbe senza dubbio assegnato il primato alla Sicilia. Delle bande che infestarono l’isola all’indomani dello sbarco degli Alleati tre rivestirono caratteri politici. La banda che nel paese di Niscemi si radunò intorno a Giuseppe Dottore prese vita da una sezione del PCI. Aderirono invece al movimento separatista, che intraprese la lotta armata per distaccarsi dallo Stato italiano, la banda Rizzo-Avila e i “picciotti” di Salvatore Giuliano. Ma solo per Giuliano la dimensione di bandito emerse dalla cronaca per fare ingresso nella storia e sfumare nel mito. Giuliano diventa oggetto di odio o amore e incarnò una leggenda il cui richiamo, a decenni dalla sua morte, è ben lontano dall’aver esaurito il suo intrigante potere di fascinazione. [...] 

Cuori Rossi Vs Cuori Neri: 50 Anni Di Criminalità Politica In Italia, scrive "Fascinazione" Domenica, Aprile 08 2012. "Cuori rossi contro cuori neri" è il titolo ruffiano che si è inventato l'ufficio marketing della Newton Compton per mettere a frutto il boom editoriale dell'opera di Telese e che già aveva sfruttato per i "Cuori rossi" raccontati da Cristiano Armati. Il libro però ha più serie ambizioni: raccontare cinquant'anni di storia (segreta) della criminalità politica in Italia, dal Gobbo del Quarticciolo alla banda della Magliana, passando per Montelepre e le Brigate Rosse, la strategia della tensione e la guerriglia nera. Quanto agli autori, provengono entrambi da una militanza nella destra radicale: con uno, in particolare, Paolo Sidoni, ai tempi del forum di Pol, abbiamo avuto una aspra querelle, intorno ai "fascisti proletari" di Prati. Nella sostanza aveva ragione lui, ma abbiamo avuto modo di chiarirci. Per ora vi propongo la scheda editoriale pubblicata da Rinascita. Poi toccherà ritornare sull'opera. La storia della criminalità politica nell’Italia dal 1944 e nel dopoguerra. Dal bandito Giuliano alle Brigate rosse, passando per le vicende di Giangiacomo Feltrinelli e dei Nuclei armati rivoluzionari, al sequestro Moro, ricostruendo i più recenti e attuali sviluppi dell’estremismo, gli autori ripercorrono gli ultimi settant’anni di storia italiana, alla ricerca delle matrici ideologiche, politiche e culturali che hanno ispirato le bande armate rosse e nere. Un tentativo di rispondere ad alcuni inquietanti interrogativi ancora aperti: come è possibile che la passione politica degeneri in violenza aperta? Chi sono i personaggi che hanno animato le realtà sovversive? Chi, all’interno delle istituzioni, li ha appoggiati o ha taciuto? Cinque, in particolare, gli argomenti sviluppati.

1) Sicilia anno zero - Banditi con falce e martello - La banda Rizzo-Avila - La prima strage della Repubblica - L’altro grande mistero: Portella della Ginestra - Chi era veramente Salvatore Giuliano?

2) A sud della Gotica - Napoli: una città allo sbando - Il “metodo” americano - Il ritorno della camorra - I cani sciolti.

3) Salvarezza, il Gobbo e le trame occulte nella Roma del 1944 - Storia di un baro - La destra si tinge di rosso - La banda del Gobbo - La strategia del terrore - L’anima nera del Guercio - La resa dei conti.

4) La strategia della tensione - Trento, laboratorio della lotta armata - Il caso Dotti - Le Brigate rosse - La morte di Feltrinelli - Il ritorno di Moretti - Gli “anarchici” - I Nuclei armati proletari - Il neofascismo - Il “golpe bianco” del MAR.

5) Gli anni di piombo - Movimento ’77 - Uccidete Moro - Intellettuali di piombo - Spontaneismo armato - La seconda ondata nera - Senzani, tra BR e servizi - I neri e la Magliana.

Paolo Sidoni è nato a Verona nel 1962. Documentarista e ricercatore storico, ha collaborato con l’Istituto Luce e con l’Istituto Studi Storici Europei. Ha organizzato eventi e convegni sulla storia moderna e contemporanea, e collabora con il quotidiano «Rinascita», i mensili «BBC History Italia», «Storia in Rete», «Storia del Novecento», «Area» e il bimestrale «Storia Verità».

Paolo Zanetov, nato a Roma nel 1949, laureato in lettere con una tesi sul brigantaggio politico post-unitario, continua a interessarsi al rapporto tra politica e criminalità. Già membro del consiglio di indirizzo dell’Istituto Studi Storici Europei, coordina attualmente l’osservatorio sul federalismo nazionale della Fondazione Ugo Spirito-Renzo De Felice; è presidente del Centro Studi sul brigantaggio e consulente dell’Istituto Luce, per cui ha prodotto numerosi documentari.

Cuori Rossi contro Cuori Neri, della Newton Compton. Nettamente al di sopra della media il libro scritto da Paolo Sidoni e Paolo Zanetov sull’utilizzo politico della criminalità da parte del potere, scrive Gabriele Adinolfi. . E’ un documento puntiglioso che tratta non solo dei cosiddetti Anni di Piombo ma anche del banditismo all’epoca dell’occupazione americana e del primo dopoguerra. Lo fa in modo asciutto e articolato senza partire da alcun pregiudizio né voler affermare un teorema prestabilito, ragion per cui non vengono sottaciuti né cancellati elementi che per il teorema non tornano, com’è solitamente abitudine di chi affronta quegli argomenti, che sia un saggista, un giornalista o un giudice. Insomma un libro da leggere, eccellente.

Un mix di manovratori. Dal quale, essendo una pura e semplice fotografia della realtà, emergono quadri precisi. Se ne evince per esempio che l’intreccio di controllo e manipolazione fu opera di un mix di centrali non solo italiane (interne a servizi e carabinieri) ma estere. Cecoslovacchia, Germania dell’Est e dell’Ovest, Francia, Israele, si trovano immischiate fino al collo con l’intervento strategico sovietico e inglese e con il controllo americano. Si scopre (ma per noi è chiaro da sempre) che quelle centrali armarono, eccitarono e manipolarono soprattutto la sinistra radicale che era più numerosa e più internazionalmente standardizzata dell’estrema destra. Ragion per cui il refrain trito e ritrito di un’estrema destra collusa e manovrata non solo risulta improprio e semplicistico ma molto più aderente alla sinistra radicale. E glielo appiopperemmo tranquillamente se non si trattasse, appunto, di una conclusione semplicistica. Da cui un’attenta lettura di Cuori Rossi contro Cuori Neri può paradossalmente allontanarci perché ad una trama “verticale” di manipolazioni si accompagna una trama “orizzontale” di spontaneità ribelle. Solo dall’incrocio tra quelle coordinate si può trarre una lettura non grossolana che, appunto offre il libro. Il quale peraltro comporta una carenza ed un’eccezionalità di rilievo.

Rivelazioni sempre taciute. Quest’ultima sta nell’utilizzo di documenti d’epoca, analisi dei servizi italiani mai propagandate a sufficienza, che inquadrano la “strategia della tensione” come operazione di stravolgimento concordato degli equilibri internazionali tra potenze dell’est e dell’ovest per realizzare una “stabilizzazione” oligarchica in un quadro rivoluzionato (il che d’altronde è chiaramente espresso nei documenti della Trilateral) con tanto di accordi tra servizi dell’est e dell’ovest e passaggi di consegna sul controllo dell’ultrasinistra da Bonn a Tel Aviv cui fecero immediatamente seguito epurazioni ed eliminazioni di quei vertici giudicati inassimilabili alle mire israeliane. Un gioco in cui l’interesse globale prevaleva su quelli particolari che, a loro volta, si sviluppavano in competizione interna a patto di garantire quello di fondo. Un po’ come accade oggi, in questo mondo appunto rivoluzionato, tra Fed, Bce e Banca Cinese e, ad un livello inferiore, tra francesi, inglesi, tedeschi, a discapito del ventre molle dell’Europa del sud. Un gioco in cui l’Italia, occupata e divisa funse allora – come oggi – da cavia per un esperimento di trasformazione epocale e al contempo da bersaglio delle mire dei suoi alleati/concorrenti sul Mediterraneo.

Il Partito comunista. La carenza che si riscontra è invece effetto della straordinaria capacità del Partito comunista d’inquinare i documenti e di travisare la realtà, ragion per cui se il suo operato talvolta traspare, ad esempio nel ruolo di Pecchioli in garanzia dei vertici dei servizi pidduisti, mancano però elementi precisi e significativi. I quali elementi – che gettano sospetti sul Pci per il ruolo svolto intorno alle stragi di Brescia e dell’Italicus e agli attentati ferroviari nell’appennino tosco/emiliano e che lo inchiodano sulle connivenze con gli assassini di Primavalle – sfuggono alle maglie perfino in questo libro. Una lettura storica più concentrata sulle relazioni, antiche, consolidate e perenni, tra Pci ed alcuni settori di vertice delle forze dell’ordine ci farebbe invece capire come i comandanti del terrore nel “triangolo rosso” e i registi di via Rasella siano stati trent’anni dopo soggetti importanti di quella strategia. Non come pompieri, così come cercano di farci credere, ma come incendiari. Incendiari protetti e garantiti dalla condizione eccezionale di trovarsi al contempo al soldo dei sovietici e degli americani, in quel crocevia di alta quota che fu rappresentato dal Cocer, il comando resistenziale alleato emiliano-romagnolo in cui gli americani dell’Oss (poi Cia) affiancavano i partigiani rossi. Un doppio binario che proseguì indisturbato sotto l’occhio attento di commissari politici come Cicalini, l’ideatore appunto di via Rasella, grazie alle relazioni politiche con gli Usa di Amendola e Pajetta cui fece seguito più tardi Napolitano. Se il velo che ha lungamente coperto l’operato israeliano si sta finalmente squarciando malgrado le connivenze e le manovre di depistaggio dei suoi complici trasversali, è ora di strappare anche quello che avvolge i comunisti e di smascherarne le mistificazioni. Tra cui la principale: quella per cui la strategia della tensione viene spacciata come un tentativo americano di allontanarli dal governo quando appare invece lampante che la posta fosse ben altra, che il “compromesso storico” sia stato tutt’al più un pretesto secondario e, soprattutto, che la Cia lo vide di buon occhio fin dal 1964. I comunisti furono un soggetto che, come altri, lavorava in un’orchestra globale e mondialista cercando ovviamente di far suonare qualche nota in più al proprio strumento.

Tutto inutile? Leggendo questo libro eccellente, che è la cronaca impietosa ma rispettosa di tanti leoni esistenziali che misero in gioco la vita e che però politicamente furono topolini nel gioco dei gatti, si corre un rischio: quello di convincersi che tutto è inutile, che qualunque cosa si faccia o si voglia fare si finirà con l’essere obbligatoriamente manipolati. Ebbene, se questo fosse l’esito nel lettore, poco male. Poco male perché se si fa attenzione a tutte le storie narrate si scopre che lo spontaneismo finisce immancabilmente impigliato nella ragnatela delle strutture di potere e che qualsiasi impulso ingenuo e privo di spessore strategico e gerarchico è destinato ad essere utilizzato contro chi lo compie. Poiché non a caso la “rivoluzione oligarchica” che ha dettato e utilizzato la strategia della tensione aveva da tempo ammaestrato i giovani, come scimmie e/o pappagalli al più irriverente, stupido e deleterio “fai da te”: E’ molto meglio quindi se queste letture li spaventeranno. Non sta scritto da nessuna parte che ogni azione o espressione finisca con l’essere manipolata: ci sono gli anticorpi e c’è il modo di uscirne. Ma quali questi siano non è argomento da dibattere o da livellare, interessa solo chi abbia un ruolo gerarchico, una saggezza, un’impersonalità e una consapevolezza. Ovvero pochissimi. Ma quelli contano per dare un senso non suicida a tutta la poesia. Il resto è storia e questo libro la scrive bene. Che sia magistra vitae è da tenere sempre a mente.

Telese sbatte il “mostro” in copertina e infanga i “cuori neri”, scrive Renato Berio mercoledì 20 maggio 2015 su "Secolo d’Italia”. La copertina è un pugno nello stomaco. Un primo piano di Massimo Carminati, il “nero” cui è stata attribuito tutto il marcio della politica corrotta nella Capitale dimenticandosi allegramente del compagno di merende Salvatore Buzzi, amicone della sinistra istituzionale e non. E poi quel titolo “Cuori neri”. Il titolo di un libro cult per la destra italiana, scritto dal giornalista Luca Telese che ora lo ha ripubblicato con Sperling & Kupfer aggiungendo alle storie di 21 ragazzi uccisi un capitolo su Mafia Capitale. E poi c’è un sottotitolo ancora più ambiguo e offensivo: “Dal rogo di Primavalle a Mafia Capitale, storie di vittime e carnefici”. Ma i cuori neri erano solo vittime dimenticate nel 2006, quando il lavoro di Telese sfonda tra il pubblico di destra. Cosa c’entra il rogo dei fratelli Mattei con i loschi affari di Carminati e Buzzi? Cosa c’entra la morte di Zicchieri con la mafia a Roma? E Ramelli? E Falvella? E Mantakas? Perché questa diffamante giustapposizione? Ci si augura che siano proprio i familiari dei “cuori neri” di cui Telese racconta le tragiche storie a prendere le opportune iniziative, anche in sede legale, per difendere l’onorabilità e la memoria dei loro congiunti. Resta la tristezza e l’amarezza per un’operazione di marketing editoriale di cattivissimo gusto. Quanto Cuori neri uscì non tutti furono contenti a destra: benché il libro avesse fatto circolare nel grande pubblico vicende condannate all’oblio dall’ideologia manichea di sinistra c’erano indubbiamente molti errori e c’era qualche inesattezza di troppo. Telese fu anche accusato di voler “lisciare il pelo” al centrodestra berlusconiano all’epoca al potere. Di sicuro i tempi sono cambiati, al posto del berlusconismo c’è oggi il renzismo e il “ritocchino” al libro fatto da Luca Telese pare porprio servire allo scopo di cancellare quel peccato editoriale di una decina d’anni fa: dare corpo letterario alle vittime neglette dal sistema. Bene, oggi si ricorda che ci sono stati anche i “cuori brutti”, i carnefici, i terroristi. Nel racconto renziano i fascisti cattivi servono e meglio se un cuore non ce l’hanno proprio. Questo è quanto, ai lettori l’arduo compito di farsi un’idea…Dopo le numerose proteste sui social lo stesso autore, in una lettera, rammenta di avere bocciato la copertina scelta dalla casa editrice Sperling&Kupfer ma di non essere stato ascoltato. Ora tornerà alla carica, anche sulla base dell’indignazione suscitata dalla nuova edizione. Resta il fatto che il capitolo in ci si parla di Mafia Capitale, e che la casa editrice presenta come un arricchimento della nuova edizione, è stato scritto da Telese e dunque l’accostamento tra storie molto diverse tra loro era già insito nel testo.

 “CUORI NERI” di Luca Telese, recensito da Valerio Marchi. Pubblicato il 25 luglio 2006 su in Santi subito! Personaggi da ri(s)valutare -Carmilla.

[Questa recensione a firma Valerio Marchi è apparsa su Carta n.10 (13 marzo 2006). Ora fa parte di un bello speciale dedicato dalla rivista a Valerio. La riprendiamo perché ci sembra contenere in tutta la passione storica di Valerio, e la sua voglia bruciante di riportare discussioni e “voghe” intellettuali alla concretezza della vita (e della morte) di ogni giorno. In molti hanno criticato aspramente l’operazione di Telese, ma Valerio ha fatto di più, ha smontato il libro dall’alto (anzi, “dal basso”) di una conoscenza diretta dell’argomento, dei contesti, dei personaggi. La recensione è molto acuta, porta allo scoperto caratteristiche di Cuori neri che nessun altro aveva fatto notare, es. la mancanza di rispetto nei confronti di questi caduti di ultradestra e del loro vissuto: il più delle volte vengono descritti come “fascisti per caso”, in fondo impolitici, divenuti bersagli di azioni violente per motivi banali anziché per scelte compiute in piena coscienza. Il recensore non si lascia fuorviare dal cursus honorum bertinottiano di Telese e si sforza di “stare sul pezzo”, di dire le cose come stanno (anziché come si dice stiano), di esprimersi anche in modo brutale, purché sincero. Ecco, forse, il vero messaggio di Valerio Marchi in molti suoi scritti: una scorbutica sincerità, sempre ancorata ai dati concreti, è tra i migliori antidoti al machiavellismo di certe ricostruzioni storiche a orologeria. WM1]

Cuori neri di Luca Telese ripercorre le tragiche vicende di 21 vittime “fasciste” del sanguinoso scontro politico che ha segnato l’Italia a partire dal 1970, con un approccio destinato a suscitare polemiche sia nella destra radicale che nell’intera sinistra, senza peraltro poter essere considerato – in questo suo “scontentar tutti” – semplicemente “obiettivo”. L’impressione prevalente, scorrendo le pagine del libro, è infatti quella di un testo che utilizza un passato doloroso in funzione della più stringente attualità politica. Del resto, basta leggere gli articoli di Telese pubblicati sul Giornale (e sul sito LucaTelese.it), per comprendere gli umori di un giornalista culturalmente organico al Polo delle Libertà, ansioso di avvalorare la tesi di un’Italia da sempre dominata dai “comunisti”, al punto da riscrivere un buon pezzo di storia e di spalmare di uno sgradito – anche ai diretti interessati – “buonismo” un’area che il Polo tenta di inglobare nel proprio blocco elettorale. Telese, del resto, non ha come obiettivo rendere onore all’area nazional-rivoluzionaria, che anzi viene “devirilizzata” attraverso la minimizzazione sia delle sue gesta che della stessa militanza di gran parte delle vittime. Chi ha vissuto quegli anni sa come, a sinistra come a destra, la passione e l’impegno per la politica fossero totalizzanti, assoluti, con un senso del sacrificio che sfiorava addirittura il fanatismo. Sapevamo – sono nato nel 1955, quel ventennio l’ho vissuto intensamente ed in prima persona, ed ancora oggi non avverto la necessità di pentimenti o di abiure, ma soltanto di una doverosa assunzione personale di responsabilità collettive – i rischi che correvamo e che facevamo correre al prossimo. Eravamo giovani e forse incoscienti, ma certamente non inconsapevoli di quanto ci avveniva attorno. Anzi, era proprio la consapevolezza della durezza dello scontro a renderci, a nostra volta, duri ed a tratti spietati. Se alcune di queste 21 vittime sono infatti totalmente inconsapevoli, come il piccolo Stefano Mattei o lo studente apolitico Stefano Cecchetti, nella maggior parte dei casi si tratta di militanti a tempo pieno, forgiati negli scontri di strada che allora – ed anche oggi, se a qualcuno interessasse leggere la realtà per quel che è – segnavano il paese. E l’opera di banalizzazione della passione politica che Telese compie è tale da mancare spesso di rispetto alle vittime stesse: nel caso di Emanuele Zilli si parla ad esempio di un suo avvicinamento alla Giovane Italia, che “Nel Sud ha un radicamento profondo, legato anche alle attività collaterali, ricreative o sportive. Spesso nelle sezioni del Msi c’è un accessorio ludico che a sinistra sarebbe considerato un segno di pericoloso degrado culturale: il flipper” (pagg.124-5); Mikis Mantakas “non vuole scegliere”, ma poi frequenta un bar vicino la sede del Fuan di via Siena dove conosce “Una ragazza, poco più piccola di lui e molto carina, che lavora come segretaria nella sede nazionale del Msi” (pag.220); Sergio Ramelli porta i capelli lunghi e diviene “forse proprio per questo un bersaglio” (pag.269). Anche Mario Zicchieri è una delle “vittime” dei flipper (pag. 334), mentre Angelo Pistolesi, fondatore di una sezione missina, viene definito “fascista per caso” (pag.426). Roba da far rigirare nella tomba chiunque abbia avuto un anelito politico e lo abbia pagato con la vita. Ma i migliori – nel senso di peggiori – risultati l’autore li ottiene rivolgendo la propria attenzione verso l’intera sinistra e, soprattutto, verso gli intellettuali e la stampa democratica. L’Italia di Luca Telese non è quella che abbiamo conosciuto sulla nostra pelle, ma una sorta di piccola grande Bulgaria in cui i “comunisti” controllano tutto e tutti [Chi ci ricorda, questa impostazione?] Così, già a pagina XII dell’introduzione, veniamo a sapere che “All’alba degli anni settanta il ghetto ideale e politico dentro cui è stato chiuso l’Msi diventa all’improvvisamente un fortino assediato”. Come se, negli anni cinquanta e sessanta, non si fosse registrata una sequenza impressionante di violenze fasciste, dagli assalti a colpi di bomba alle Botteghe Oscure fino allo strapotere squadrista in campo scolastico ed universitario che culmina con l’assassinio, a Roma, il 27 aprile 1966, dello studente socialista Paolo Rossi (che nel libro, a pagina 11, diviene inopinatamente “Walter Rossi”). Ma per l’ineffabile Telese, che accenna alla militanza politica nel Fuan del fratello maggiore di Carlo Falvella, gli anni sessanta registrano tutto un altro clima: “Un po’ di goliardia, qualche storia d’amore con le giovani amazzoni della destra” (pagina 33). Insomma, chi lo dice che la pratica dell’antifascismo militante sia nata dalle diffuse violenze squadriste, dai tentativi di golpe, dall’impunità dello stragismo, in un paese dominato dalla Dc, dai desiderata degli Usa, dai crimini e dalle complicità degli apparati di intelligence? Niente da fare: nell’Italia di Telese i fascisti universitari si dedicano alla goliardia e all’ippica, mentre i golpe sono soltanto delle semi-burlette (pagina 149 e seguenti) o dei semplici alibi per l’antifascismo militante (pagina 152). Infine, l’impunità dello stragismo: che sì, ci sarà pure stata, ma affogata nel principale vezzo della magistratura (rossa?) e della polizia (rossa?) di evitare ogni problema giudiziario alle orde assassine della “sinistra extra-parlamentare”, sostenute dagli intellettuali (rossi) e dal giornalismo (rosso). Mancano soltanto le cooperative (rosse), che forse sono tenute da conto per il prossimo libro. La sinistra non porta del resto fortuna al nostro ambizioso giornalista: sbaglia nell’analizzare gli slogan (“Camerata basco nero etc.” era dedicato all’Arma e non ai fascisti, vedi pag.466), mentre a Roma sono i fascisti di Colle Oppio a disturbare le manifestazioni di sinistra dall’alto della balconata di San Pietro in Vincoli, che s’affaccia su via Cavour, e non il contrario (pag. 483). Ma il top dell’imprecisione si raggiunge con il breve accenno all’assassinio di Walter Rossi, in cui in appena quattro righe di pagina 487 si sbaglia luogo (non Piazza Igea ma viale delle Medaglie d’Oro) e contesto (nessun assalto alla sezione missina di Balduina ma un semplice volantinaggio a più di 100 metri di distanza). Anche nel caso di Alceste Campanile, infine, è ormai dimostrata, contrariamente a quanto si scrive alle pagg. 603 e 605, la pista neofascista, con la confessione resa dell’estremista di destra Paolo Bellini. Ma nessuno sembra averne messo al corrente Luca Telese.

In udienza c’è la “lezione di storia” con l’ex ministro Fini. “Lezioni di storia” a Palazzo di giustizia affidate all’ex presidente della Camera Gianfranco Fini. Una storia che, ancora oggi, divide. Così un articolo online sui difficili anni di piombo per...Scrive Cristina Genesin su “Il Mattino di Padova” il 10 settembre 2015. “Lezioni di storia” a Palazzo di giustizia affidate all’ex presidente della Camera Gianfranco Fini. Una storia che, ancora oggi, divide. Così un articolo online sui difficili anni di piombo per ricostruire l’assurda uccisione del ventenne missino Stefano Recchioni, avvenuta la sera del 7 gennaio 1978 a Roma, è costata all’ex consigliere regionale Raffaele Zanon un processo con l’accusa di diffamazione (il procedimento si radica nel territorio in cui risiede l’imputato nel caso di articoli in rete). E, il suo difensore, il penalista Emanuele Fragasso, ha chiamato un testimone d’eccezione per difendere Zanon, un testimone degli ultimi 40 anni di vita politica, l’ex presidente della Camera nonché ex ministro e vicepremier Gianfranco Fini che, all’epoca dei fatti, era segretario nazionale del Fronte della gioventù. Di più: un’istantanea in bianco e nero ritrae Fini accanto a Recchioni nel quartiere Tuscolano di Roma qualche minuto prima della tragica morte del ragazzo. «Ero presente» ha rammentato l’ex vicepremier, «E il professor Fragasso ha ritenuto opportuno sentirmi come teste per capire il clima di quegli anni e il ruolo di Sivori». Ovvero Edoardo Sivori, classe 1948, l’allora capitano dei carabinieri che fronteggiava i manifestanti (con altre decine di uomini dell’Arma): è stato lui a denunciare Zanon per diffamazione e a costituirsi parte civile con l’avvocato Catia Salvalaggio. Nel 2012 Zanon aveva pubblicato un articolo nel suo sito in cui attribuiva l’omicidio di Recchioni all’allora ufficiale dei carabinieri come riportato in due libri (Cuore nero” di Luca Telese e “Cuori rossi contro cuori neri” di Sidoni e Zanetov). Quel 7 gennaio erano stati massacrati due militanti missini a Roma: poche ore dopo, la manifestazione degenerata in sassaiola e l’arrivo dei carabinieri con i lacrimogeni. Furono sparati colpi d’arma da fuoco. «Secondo i manifestanti e nell’ambiente della Destra Sivori sparò tre colpi, l’arma si inceppò, lui chiese la pistola a un collega e sparò un altro colpo che colpì in fronte Recchioni. In seguito a un’interrogazione di Almirante, l’allora ministro Cossiga ammise che Sivori sparò ma in aria, poi cadde perché colpito al ginocchio e un colpo partì accidentalmente». A proposito dell’esplosione del colpo mortale, al giudice Marchiori Fini ha confermato: «Nell’ambiente si diceva che è stato Sivori». Nel 1983 la magistratura archiviò il procedimento nei confronti di Sivori e quel delitto rimase a carico di ignoti: da qui la denuncia dell’ufficiale. «Questo fatto» ha concluso Fini, «ha creato una rottura fra la Destra parlamentare rispettosa della democrazia e la Destra eversiva ed extraparlamentare». Una destra, a giudizio dell’ex vicepremier, nata proprio in seguito a quel delitto. Ultima udienza il 13 ottobre.

Acca Larentia, quando i giovani fascisti persero l’innocenza, scrive Paolo Delgado il 7 gennaio 2017 su "Il Dubbio". I ragazzi di estrema destra degli anni 70 “persero l’innocenza” 39 anni fa a Roma, in via Acca Larentia dove c’era una sede del Msi: lì il 7 gennaio un gruppo di sinistra sparò a cinque di loro, uccidendone due. Anche quest’anno si chiederà, da destra, verità su quegli omicidi; speculari a chi, da sinistra, chiede la stessa verità per altri morti come Fausto e Iaio. Come se avesse senso, 40 anni dopo, mettere in galera chi, da una parte e dall’altra, combatteva una guerriglia strisciante. I ragazzi di estrema destra degli anni 70 “persero l’innocenza” 39 anni fa a Roma, in via Acca Larentia. In realtà non è chiaro cosa s’intenda con questa definizione confusa e un po’ ambigua, adoperata tuttavia innumerevoli volte a proposito della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e degli effetti che produsse sui giovani militanti rivoluzionari di sinistra. Ma se si allude a una cesura che provocò la perdita totale di fiducia nello Stato e nella rappresentanza istituzionale della propria parte politica, nei partiti insomma, e che indusse in alcuni scelte drastiche e sanguinarie, allora la piazza Fontana della destra giovanile fu davvero via Acca Larentia. Una piazzetta rialzata, neppure 300 mq, separata da via delle Cave da una scaletta da un lato e dall’altro isolata dalla strada parallela da una fila di piloni. Uno spiazzo chiuso al traffico che è “via” solo di nome, nel quale campeggia dal 1945 la sezione che allora era del Movimento sociale italiano. Era schierato davanti ai piloni il commando dei Nuclei per il contropotere territoriale, sigla sconosciuta che sarebbe ricomparsa solo qualche mese dopo, nel marzo 1978, per inneggiare al sequestro Moro con un volantino fatto ritrovare a Trento e poi nei primi sei mesi del 1979 a Bergamo, con una serie di azioni antifasciste. Cinque o sei giovani a volto semiscoperto, armati di pistole e di una mitraglietta Skorpion che era stata regolarmente acquistata sette anni prima in un’armeria di Sanremo dal cantante Jimmy Fontana, per essere poi rivenduta da quest’ultimo a un funzionario di polizia, che tuttavia ha sempre negato l’acquisto. La stessa mitraglietta è stata ritrovata, dieci anni dopo la mattanza, in un “covo” delle Brigate rosse, portata probabilmente in dote da un militante passato alla principale organizzazione armata di sinistra dopo l’eccidio del 7 gennaio 1978, col quale le Br non avevano evidentemente nulla a che fare. Nella sezione del Msi, la sera del 7 gennaio 1978, c’erano cinque militanti, tutti giovanissimi. Il commando apre il fuoco appena escono per recarsi a un concerto della band di destra “Amici del vento” in Prati: tre riescono miracolosamente a rientrare nella sezione, due ragazzi restano a terra. Franco Bigonzetti, vent’anni, che aveva aperto la porta ed era quindi stato il primo a uscire e a essere colpito a morte, Francesco Ciavatta, diciotto anni, aveva provato a fuggire ed era stato fulminato a pochi metri dalla sezione. Agonizza per qualche minuto, poi spira anche lui. Suo padre si suiciderà poco tempo dopo, ingoiando una bottiglietta d’acido muriatico sulla panchina di un giardinetto della Capitale. Dei tre superstiti uno, Vincenzo Segneri, è ferito a un braccio, gli altri due, Maurizio Lupini e Giuseppe D’Audino, sono illesi. Il gruppo di fuoco non è mai stato identificato. Nel 1987, sulla base della testimonianza di una Br pentita, sono state arrestate cinque persone, assolte tre anni dopo. Tutti liberi tranne uno, Mario Scrocca, impiccatosi in cella pochi giorni dopo l’arresto. Anche quest’anno, come in ogni 7 gennaio, si leveranno alte le voci che da destra chiedono verità su quegli omicidi, speculari a quelle che, da sinistra, chiedono la stessa verità, la stessa individuazione tardiva dei colpevoli, per gli assassini di Fausto e Iaio a Milano o di Valerio Verbano a Roma. Come se avesse senso, a quarant’anni di distanza, mettere in galera i ragazzi che, da una parte e dall’altra, combattevano allora una guerriglia strisciante, spesso una vera “guerra per bande”, inspiegabile e criminale solo a guardarla con gli occhi del presente. O come se ci fosse qualche mistero da chiarire, qualche incognita da svelare sul perché di quegli omicidi. Basterebbe invece sfogliare i quotidiani del mese precedente, che riportano praticamente ogni giorno la notizia di un’aggressione contro passanti considerati “di sinistra” sulla base della lunghezza dei capelli o dell’abbigliamento al centro di Roma. La città era divisa a macchie di leopardo già da anni: c’erano quartieri in cui era pericoloso passare per i rossi e zone precluse ai neri. Ma il centro, sino a quel momento, era rimasto abbastanza neutrale. L’occupazione da parte dei fascisti, alla quale i giornali davano enorme risalto, costituiva un’alterazione sensibile degli equilibri, e del resto proprio dopo Acca Larentia Pino Rauti, il dirigente del Msi più vicino all’area giovanile e ribelle, chiese ufficialmente una “tregua” ed è un fatto che le aggressioni al centro cessarono. Non c’è molto d’altro da spiegare. Se le cose si fossero fermate lì, la tragedia non sarebbe stata altrettanto traumatica. Uccisioni e ferimenti tra militanti di destra e sinistra non erano magari all’ordine del giorno ma quasi. Però non finì lì. Decine, forse centinaia di militanti di destra convergono su Acca Larentia. Tra loro c’è Stefano Recchioni, un ragazzo di 18 anni che suona nella rock band di destra Janus e che è in attesa di partire per il servizio militare entro una decina di giorni. La tensione, nella piazzola, è altissima e cosa provochi la nuova tragedia resterà per sempre un mistero. Sta di fatto che a un certo punto la polizia schierata in forze inizia a tirare lacrimogeni. Il capitano Edoardo Sivori apre il fuoco, la pistola s’inceppa, se ne fa passare un’altra, continua a sparare. Vicino a Recchioni ci sono Bruno Di Luia, storico militante e picchiatore tosto del neofascismo romano, e Francesca Mambro, una delle prime ad arrivare perché il fratello Mariano frequenta abitualmente Acca Larentia. Lo vedono cadere, ferito alla testa. Morirà due giorni dopo in ospedale. Il ministro degli Interni Cossiga si prodigherà subito per evitare ogni accusa al capitano Sivori, oggi generale, che del resto non verrà mai inquisito. Circoleranno perizie di dubbio valore che lo scagionerebbero. Lo stesso Cossiga, decenni più tardi, riconoscerà di aver fatto il possibile e anche qualcosina in più per proteggere il capitano Sivori, incluso il farlo espatriare poco dopo il fattaccio. Il Msi comunque non muove un dito per mettere il capitano sotto accusa. Quando i giovani militanti, furiosi, vanno a cercare Almirante, che è invece all’estero, vengono invece ricevuti da Pino Romualdi, fondatore del partito. Li affronta e respinge senza mezzi termini. Polizia e carabinieri costituiscono uno dei principali bacini elettorali del partito: perdere quella massa di voti è fuori discussione. Ma non c’è solo questo. Da anni il partito neofascista ha fatto del supporto e dell’esaltazione delle forze dell’ordine il perno della sua politica. Non è probabilmente solo per opportunismo che la sua leadership non vuole e forse non può attaccare direttamente un carabiniere. La difficoltà, del resto, non deve riguardare solo i dirigenti. Tra tutti i militanti presenti in via Acca Larentia al momento dell’uccisione di Stefano Recchioni, una sola, Francesca Mambro, avrà il coraggio di presentarsi in questura per denunciare Sivori.

Molti non se la sentono di mettersi contro le forze dell’ordine e contro il partito. Altri però evitano la denuncia perché sono già oltre quella fase, già pronti, come arriverà a essere presto anche Mambro, a uno scontro con lo Stato, ma anche col Msi, ben più estremo. Il trauma del 7 gennaio ‘ 78 arriva infatti al termine di una fase che non è esagerato definire come “il ‘ 77 nero”. I giovani neofascisti di fine decennio, a differenza dei fratelli maggiori, somigliano ai loro nemici. Formano band rock. Discutono di musica, fumetto e cultura alternativa. Celebrano il nuovo corso nel primo Campo Hobbit, che si svolge proprio nel ‘ 77. Revocano in dubbio lo schieramento a favore dell’ordine e si reinventano come rivoluzionari. Mettono in discussione il primato sino a quel momento assoluto dell’anticomunismo e vagheggiano anzi alleanze tra il radicalismo di destra e quello di sinistra contro il comune nemico: lo Stato borghese. I fascisti “rivoluzionari” e antisistema scelgono di marcare la differenza adottando un simbolo alternativo alla fascia tricolore, la croce celtica, che Almirante tenterà invano di proibire. Allo stesso tempo cresce un’insofferenza contro il partito che usa i giovani come servizio d’ordine, come truppa indispensabile per rendere agibili le piazze e le strade, salvo poi scaricarli per difendere una linea politica tutta centrata sulla difesa dell’ordine. Dopo la sua uccisione molti ricorderanno una frase tragicamente profetica di Stefano Recchioni: «I dirigenti ci usano come carne da macello». Come il ‘ 77 rosso è segnato dallo scontro frontale con il Pci, quello neofascista vede una progressiva presa di distanza, simile ma non identica dal Msi. Il partito della fiamma tricolore, a differenza del Pci, non è un partito di potere ed è ormai tagliato fuori anche da quella partecipazione frequente alle amministrazioni locali, in alleanza con la Dc, che era stata invece frequente negli anni 50 e 60. Non può permettersi una rottura clamorosa con la propria area giovanile come quella che sceglie invece il partito di Berlinguer. Dunque li sconfessa ma in maniera “morbida”. Smette di pagare gli affitti delle sezioni più ribelli e incontrollate, come quella di Monteverde che formerà il nucleo centrale dei Nar, o come quella del Fuan di via Siena che diventerà il centro del ‘77 nero. Ma la distanza diventa sempre più incolmabile ed esplode dopo gli spari di Acca Larentia. I giovani fascisti si scontrano per giorni con la polizia, ed era successo pochissime volte in passato: a Reggio Calabria, nel 1970- 71, durante la più lunga rivolta urbana dell’intero occidente post- bellico, poi a Milano, il 12 aprile 1973, quando era stato ucciso l’agente Antonio Marino. In quell’occasione era stato lo stesso Msi a denunciare i responsabili. Stavolta i giovani fascisti ingaggiano vere battaglie, e non solo a Roma. Per la prima volta il nucleo dei futuri Nar spara non sui compagni ma sulle forze dell’ordine. Nel mirino però, ancora più degli agenti, c’è l’estabishment del Movimento sociale italiano.

C’ERANO UNA VOLTA I LIBERALI.

Eppur si muove! Viaggio nello sconosciuto pensiero liberale, scrive Corrado Ocone il 25 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Possibile che l’intellettualità ondeggi tra comunismo e fascismo? “Cosa spinge i maggiori intellettuali novecenteschi o a costeggiare il fascismo o ad abbracciare il comunismo? Perché, con qualche rara eccezione, non esiste, in Europa, un grande filosofo liberale?” Erano questi gli interrogativi che qualche settimana fa si poneva Roberto Esposito in un articolo su La Repubblica dedicato a Maurice Blanchot. Sono domande molto sensate e pertinenti, a cui non è facile dare una risposta. Quel che è certo è che il liberalismo continua ad avere ancora, anche dopo il fallimento storico dei totalitarismi, pochissimo appeal in ambito culturale. E ancora oggi le critiche più accese sono rivolte dagli intellettuali alla borghesia, al capitalismo, alla democrazia rappresentativa, alla proprietà privata, cioè a tutte quelle istituzioni che storicamente al liberalismo sono legate. I filosofi, in particolare, sembrano avere una sorta di fissazione anticapitalista, che è quasi un dovere di casta: parlar male del capitalismo, inveire contro le sue “storture”, anche in discorsi che tutto sommato con esso c’entrano poco o nulla.

Il capitalismo diventa così una spesso non definita categoria- ricettacolo di tutto ciò che non va come vorrebbero che andassero i filosofi, sempre alla ricerca di una “autenticità” che il profano e desacralizzante mercato in ogni minuto scalfirebbe alla base. Esso, come diceva giusto un secolo fa Luigi Einaudi in un editoriale del Corriere della sera (significativamente intitolato “E’ colpa del capitalismo!”), svolge ancora oggi il ruolo che, nella cultura medievale, svolgeva il diavolo. Ma tant’è! Ritornando alle domande di Esposito, senza pretendere di andare alle radici profonde dell’ostilità, quel che preme in questa sede sottolineare è che essa si accompagna, da parte liberale, ad una scarsa o rara attenzione prestata generalmente alla dimensione speculativa o filosofica del concetto di libertà; da parte non liberale, che è poi la parte che di fatto esercita il potere culturale e determina l’opinione comune diffusa, anche del cosiddetto “ceto medio riflessivo”, ad una serie di incomprensioni e pregiudizi che portano a snobbare a priori, senza conoscerlo o averlo seriamente studiato, il pensiero dei sicuramente rari, ma pur esistenti, pensatori liberali di spessore. Non fosse altro che per avere spezzato questo incantesimo da parte non liberale, l’ultimo libro di Massimo De Carolis, che è ordinario di filosofia politica all’Università di Salerno, merita tutta la nostra attenzione: Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà (Quodlibet, Macerata 2017, pagine 304, euro 22). L’oggetto del libro è, appunto, il “neoliberalism”, un termine che in italiano può essere indifferentemente tradotto come “neoliberismo” o “neoliberalismo” (essendoci solo nella nostra lingua, come è noto, la differenziazione semantica fra liberismo e liberalismo). Il lemma, che indica un movimento culturale e politico al tempo stesso, è entrato comunemente nel dibattito pubblico, soprattutto, come si è detto, con un intento di demonizzazione. Esso fu usato per la prima volta, nel 1938, da uno dei padri del movimento, Alexander Rustow, che è molto citato e considerato nel volume di De Carolis per la sua idea (che dette il titolo ad un suo saggio del 1945) di considerare “il fallimento del liberalismo economico come un problema di storia delle religioni”. Andrebbe però anche considerato, secondo me, il fatto che gli altri padri del movimento generalmente non solo non si sono considerati “neoliberali”, ma hanno anzi inteso riproporre all’attenzione, ovviamente rendendolo più coerente e aggiornandolo, quel “liberalismo classico” (old whig per intenderci) che, secondo loro, era stato gradualmente accantonato nel corso dei decenni a loro precedenti dalla cultura e prassi dei paesi occidentali.

De Carolis compie due distinzioni, collocandole nel tempo e nello spazio. Attraverso la prima, egli segnala il fatto di come il neoliberalismo, iniziato con un grande sforzo intellettuale che avrebbe dovuto fare da supporto ad un progetto politico per il quale i padri si sarebbero adoperati appena possibile ( scrivevano infatti nel periodo del massimo dispiegamento dei totalitarismi e della guerra, e la loro voleva essere proprio una risposta alla “crisi della civiltà”), solo in una seconda fase, collocabile fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, dopo una lunga incubazione, poté divenire, segnatamente con Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margareth Thatcher in Gran Bretagna, un effettivo programma politico, informando di sé, secondo l’autore, le economie di un mondo ormai globalizzato. Esso prendeva il posto, in qualche modo, dello stato sociale e del paradigma socialdemocratico che aveva dominato, almeno in Occidente, nel secondo dopoguerra, accompagnando la ricostruzione post- bellica (i cosiddetti “trenta gloriosi” anni). Quanto invece alla distinzione “spaziale”, il neoliberalismo si divide, sin dai primordi, in una scuola continentale, o più propriamente tedesca, quella cosiddetta dell’ “ordoliberalismo”, e in una austro- anglosassone. I due testi fondativi, o comunque più significativi del neoliberalismo, sono per De Carolis Human action di Ludwig von Mises (1949) e Civitas Humana di Wilhelm Roepke (1948), riconducibili rispettivamente alla prima e alla seconda corrente (l’autore considera ovviamente anche Friedrich von Hayek, e in primo luogo la sistemazione del suo pensiero che si ha in Law, Legislation and Liberty, 197379). Le due scuole, le cui ricette secondo De Carolis saranno destinate a mescolarsi nella prassi effettiva delle politiche neoliberali, pur convergendo sull’obiettivo di promuovere l’ordine spontaneo generato dal mercato, si dividono per il ruolo che vogliono assegnare allo Stato: per gli ordoliberali l’azione di promozione deve effettuarsi attraverso un intervento diretto e continuo che, in una sorta di “dirigismo liberista” garantisca al mercato le condizioni di base per il suo esplicarsi, a monte, ed elimini le concentrazioni e i monopoli che inevitabilmente si creano, a valle; per gli austriaci, invece, lo Stato deve solo far applicare poche e generali leggi generali entro la cui cornice ogni libera iniziativa si svilupperà da sola grazie al meccanismo autoregolatore che, secondo loro, è presente all’interno del sistema dei prezzi.

Alla base del saggio di De Carolis ci sono due interrogativi, così posti dall’autore: “Qual è il problema epocale che i neoliberali riescono a intercettare e a cogliere, con uno sguardo forse parziale e indiretto ma comunque più efficace, alla prova dei fatti, rispetto a ogni altro soggetto politico attivo, all’epoca, sullo scenario globale? E, in secondo luogo, qual è il punto cieco, il limite di questa visione, tanto profondo, a quanto pare, da condannare il neoliberalismo a un inglorioso tramonto” (p.17). Alla prima domanda, De Carolis dà finalmente una risposta appropriata. E dico finalmente perché, dalla sua area culturale di riferimento, erano finora venute solo risposte tese a vedere, con più o meno raffinatezza concettuale e lessicale, il neoliberalismo come offensiva o reazione di non meglio definite centrali del capitalismo internazionale. L’autore di questo libro colloca invece le opere dei padri fondatori lì dove vanno collocate: nella crisi della civiltà e del pensiero europei, come risposta ai totalitarismi e al nichilismo. Una risposta molto diversa, ma a ben vedere speculare, a quella data dalle “filosofie della crisi”. Questo significa prima di tutto dare una dignità teorica ad autori e opere che meritano di stare nello scaffale di ogni uomo di cultura, se non altro per la radicalità delle loro domande e delle loro risposte. Ammetto che però la poca “fortuna” di questi autori fra gli intellettuali è dovuta al fatto che i loro nomi siano legati in senso stretto alle controverse politiche, molto più tarde, generate dalla Reaganomics. Ora, senza pretendere di dare un giudizio su queste politiche (che fra l’altro da parte di chi scrive non è negativo, ma non è questo il punto), quello che andrebbe messo a tema è se esista un nesso organico fra il pensiero dei teorici di “prima generazione” e le concrete politiche di deregulation di “seconda generazione”. De Carolis lo dà per scontato. Ma, se è certo che furono sin da principio i teorici a voler dare un senso pratico alle loro idee scendendo in campo “in difesa della libertà” (con tutto quello che in termini di semplificazione e grossolanità è sempre connessa a ogni “discesa in campo”), è pur vero che essi, anche quando il loro pensiero assumeva i tratti radicali e perciò contraddittori che assume spesso il pensiero dei grandi pensatori, aveva ben presente lo scarto che sarebbe sempre esistito fra pensiero e azione. Anzi, più radicalmente, furono proprio loro, a cominciare da Hhayek, a mettere a tema nel Novecento questo scarto. Un punto che de Carolis rimuove completamente, mentre a mio avviso è centrale nel pensiero di questi autori, che vi insistono in continuazione, è che fra teoria e prassi non si dà passaggio necessitato ed è perciò che occorre combattere ogni “abuso della ragione” e ogni “razionalismo in politica”. Razionalismo in politica, come è noto, è il titolo di un famoso saggio di Michael Oakeshott, un autore che De Carolis non cita mai ma la cui vicenda intellettuale e umana incrocia quella dei neoliberali, e spesso si interseca con essa, pur avendo egli una formazione prettamente filosofica e idealistica che i suoi sodali avevano solo in parte. E’ proprio questa rimozione che porta De Carolis ad equivocare il senso più palese del “neoliberalismo” intellettuale, che nasce come opposizione a quella mentalità illuministica a cui De Carolis in più passi lo assimila (positivismo e determinismo sono le vere “bestie nere” di questi autori, come d’altronde del nostro Benedetto Croce). Ed è in questa dimensione che la loro difesa della libertà vuole collocarsi, con più o meno fortuna. Oakeshott, ad esempio, rimproverava al suo amico Hayek di aver costruito un “modello” per opporsi ad ogni modello in politica. E sicuramente il “presupposto oggettivante” che è proprio dell’economia, e in genere delle scienze sociali, non faceva loro gioco (il liberalismo si colloca probabilmente più a livello di “virtù liberali” che non di riflessioni sulla “grande società”). Che nel loro pensiero non si faccia fino in fondo i conti con il concetto speculativo della libertà, con il suo carattere ancipite e infondato, e con la complessità e non riducibilità delle umane relazioni di potere, e che questo sia il vero “punto cieco” della teoria, son ben disposto ad ammetterlo. Ma in questi casi non ci sono soluzioni a portata di mano, dato il “paradosso antropologico” di cui De Carolis aveva parlato in un suo precedente saggio. Men che meno soluzione può essere considerata quella di un cosmopolitismo non ingenuo, a cui sembra alludere o che abbozza De Carolis nelle pagine finali del libro. Nel quale, in altri luoghi, il concetto politico di neoliberalismo si slarga in maniera quasi esorbitante, fino a indicare il senso di tutta la nostra contemporaneità, in preda alla “dinamizzazione” e alla “liquidità”. Anche questa mi sembra una forzatura, considerato che il “neoliberalismo” è contrastato da una corrente liberal che a livello di immaginario pubblico, soprattutto fra le élite politiche, non può certo essere considerata minoritaria. Essa sì che è erede dell’illuminismo. Ed è soprattutto nel suo spazio che si colloca quella tendenza alla “rifeudalizzazione” che prende piede ed entra in contraddizione con quel dispositivo che si riprometteva di combatterla ma che invece finirebbe per riprodurla. Da qui l’idea di una “crisi” o di un “fallimento” del progetto liberale. Un’idea non nuova o originale, in verità, visto che accompagna il liberalismo si può dire sin dalla sua nascita. Ecco, interessante sarebbe mettere a confronto due visioni che appaiono in netto contrasto, la liberale e la liberal, per vedere se per caso fra esse, a livello speculativo, non ci siano punti di contatto o specularità.

"La società aperta non è spalancata, i suoi nemici credono di avere la Verità". Il filosofo liberale spiega il concetto politico chiave del pensiero di Popper, le sue mistificazioni, i rapporti con la religione e il cristianesimo, la necessità di non tollerare gli intolleranti e i violenti, scrive Gianluca Barbera, Mercoledì 29/03/2017, su "Il Giornale". Dario Antiseri, classe 1940, filosofo liberale e cattolico tra i più autorevoli e maggiormente tradotti nel mondo, nella primavera del 1964 ebbe l'opportunità di conoscere a Vienna il grande filosofo di origine austriaca naturalizzato britannico Karl Popper, padre della teoria della «falsificabilità» (Logica della scoperta scientifica, 1935), rivoluzionaria in campo scientifico e densa di conseguenze anche in altri ambiti, nonché teorico della «società aperta» (La società aperta e i suoi nemici, 1945), opera chiave della politologia contemporanea, e in particolare del pensiero liberale, che tuttavia ha atteso decenni prima di venire pubblicata in Italia per le ragioni approfondite da Bruno Lai nel saggio Popper in Italia. Le disavventure di un filosofo politico (Armando, Roma, 2001).

«Società aperta»: un concetto ormai tanto usato e spesso abusato. Come si configura nel pensiero di Popper?

«La società aperta è la società che è aperta a più valori, a più visioni del mondo filosofiche e religiose, a più proposte politiche, e quindi a più partiti, alle critiche più incessanti e severe dei diversi punti di vista. La società aperta è aperta al maggior numero possibile di idee ed ideali diversi e magari contrastanti. La società aperta, pena la sua autodissoluzione, è chiusa solo agli intolleranti e ai violenti. In altri termini: la società aperta è aperta, ma non spalancata. E siccome sappiamo che la libertà non si perde tutta in una volta, il prezzo della libertà è l'eterna vigilanza...».

Certo, la libertà non è un dato anagrafico... e si può perdere. Società aperta e libertà vivono e muoiono insieme. Chiarita l'idea di società aperta, risulta chiaro anche il suo contrario, cioè l'idea di «società chiusa». E ben si comprendono le argomentazioni critiche che Popper rivolge contro Hegel e Marx, «falsi profeti» e nemici della società aperta...

«Nella società aperta è sempre Popper a parlare gli uomini hanno imparato ad assumere un atteggiamento in qualche misura critico nei confronti dei tabù e a basare le loro decisioni sull'autorità della propria intelligenza, dopo una discussione. E se la società aperta trova il suo primo, anche se non unico presupposto nella fallibilità della conoscenza umana, il primo fondamento della società chiusa sta esattamente nella presunzione di quanti si reputano legittimi possessori di verità assolute, interpreti del giusto ed ineluttabile senso della storia o illuminati da una indiscutibile visione di società perfetta. Costoro saranno divorati dallo zelo di imporre questa loro presunta Verità assoluta, e la loro politica sarà inevitabilmente come insegna la storia di ieri, ma anche quella di oggi una politica di carnefici. La società chiusa è una società magica, collettivistica, crudele. È una società bloccata e pietrificata, è sempre l'esito di una tenace follia per tornare e restare nella gabbia della tribù».

Platone edifica uno dei monumenti della storia del pensiero politico, La Repubblica, fondandolo su una domanda capitale: «A chi spetta governare?». Questo è l'interrogativo che si pone Platone e che Popper contesta. Questa domanda le pare mal posta? I teorici della politica non hanno risposto e non rispondono forse a tale domanda?

«La domanda non solo è mal posta, ma è addirittura irrazionale, e questo per la semplice ragione che essa ci manda alla ricerca di ciò che non esiste. Non esiste un individuo, un ceto, una razza, una classe... che sia venuta al mondo con l'attributo della sovranità sugli altri. La giusta domanda afferma Popper è un'altra: Come controlliamo chi comanda?, cioè: Come possiamo organizzare le istituzioni in modo da evitare che governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?. È questa la domanda sottesa alla società aperta. La democrazia consiste nel mettere sotto controllo il potere politico. È questa la sua caratteristica essenziale».

Restando sempre in argomento, a lei, filosofo cattolico, debbo necessariamente porre questa domanda: come mettiamo insieme la laicità di uno Stato che non vogliamo più assoluto e la tradizione fondata sulle nostre radici giudaico-cristiane? Per essere ancora più chiari: non c'è una stridente antinomia tra la concezione cristiana della vita e la laicità dello Stato?

«Lei, dunque, mi chiede se l'essere cristiano sia compatibile con la laicità dello Stato. Ebbene, a chi sembra dubitarne e a quanti si ostinano a negare tale compatibilità, io mi permetto di rivolgere quest'altra domanda: lo Stato laico cioè la Società aperta o Stato di diritto sarebbe stato possibile senza il messaggio cristiano? Attraverso di esso ha fatto irruzione nella storia degli uomini l'idea che il potere politico non è il padrone della coscienza degli individui, ma che è la coscienza di ogni uomo e di ogni donna a giudicare il potere politico. Per il cristiano solo Dio è il Signore, l'Assoluto. Lo Stato non è l'Assoluto: Káisar (Cesare) non è Krios (il Signore). E con ciò il potere politico è stato desacralizzato, l'ordine mondano relativizzato e le richieste di Cesare sottoposte al giudizio di legittimità da parte di coscienze inviolabili, di persone fatte ad immagine somiglianza di Dio. La secolarizzazione con un mondo non più sacro e con un uomo che, per quanto possa illudersi, non è Dio, è una chiara conseguenza del messaggio evangelico. Il messaggio cristiano libera l'uomo dall'idolatria: il cristiano non può attribuire assolutezza e perfezione a nessuna cosa umana. È, dunque, per decreto religioso che lo Stato non è tutto, non è l'Assoluto».

Queste sue argomentazioni paiono mal conciliarsi con larghi strati di popolazioni europee ormai dimentiche delle radici cristiane nelle quali affonda la loro tradizione...

«Questo è il vero dramma dell'Europa dilaniata da un irrefrenabile cupio dissolvi. E resta valido l'ammonimento di Rosmini: Chi non è padrone di sé, è facilmente occupabile. Senza le idealità cristiane l'Occidente non esisterebbe e non potrà seguitare ad esistere. Certo, la Grecia ha passato all'Europa l'idea di razionalità come discussione critica, per cui, per dirla con Percy Bysshe Shelley, noi tutti siamo greci, ma è anche vero, come ha scritto Wilhelm Röpke, che soltanto il Cristianesimo ha compiuto l'atto rivoluzionario di sciogliere gli uomini, come figli di Dio, dalla costrizione dello Stato. Fu per semplice osservanza della verità che Benedetto Croce volle precisare in Perché non possiamo non dirci cristiani che il Cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuto. E ne La società aperta e i suoi nemici è un ateo come Popper a riconoscere del tutto apertamente che gran parte dei nostri scopi e fini occidentali, come l'umanitarismo, la libertà, l'uguaglianza, li dobbiamo all'influenza del Cristianesimo. I primi cristiani ritenevano che è la coscienza che deve giudicare il potere e non viceversa. E la coscienza, come ultima corte di giudizio nei confronti del potere politico, in unione con l'etica dell'altruismo, è diventata la base della nostra civiltà occidentale. Non si può dare torto a Thomas S. Eliot quando afferma che se il Cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura. E allora si dovranno attraversare molti secoli di barbarie».

La scienza non risponde per principio alle domande più importanti per l'uomo. La filosofia non salva. Dunque, in che direzione possiamo rivolgere lo sguardo?

«Se permette, tento di risponderle con le parole di Norberto Bobbio: La grande filosofia è scomparsa, non c'è nessuna conquista filosofica che valga. E procedimenti di ricerca che permettono un sapere totale (che è poi l'onniscienza, il sapere di Dio, sarete come Dio') con la stessa certezza e la stessa pratica efficacia con cui la scienza ha conquistato di volta in volta un sapere parziale, nessuno sinora li ha trovati. Ora, però, se è vero che non c'è nessuna riconquista filosofica che valga, esiste ed è esistita urgente, sempre pressante, la domanda filosofica che è richiesta di senso. E richiesta di senso chiarisce Bobbio significa bisogno di dare un senso alla propria vita, alle nostre azioni e alla vita di coloro verso i quali dirigiamo le nostre azioni, alla società in cui viviamo, al passato, alla storia, all'universo intero. È così che Bobbio torna alla domanda metafisica fondamentale: Perché l'essere e non il nulla? Perché ci sono cose, uomini, animali, piante, stelle, galassie, in una parola il mondo e non invece il non-mondo? Insomma: Perché l'universo e non il non-universo? Tale interrogativo, ad avviso di Bobbio, è una richiesta di senso, che rimane senza risposta, o meglio rinvia ad una risposta che mi par difficile chiamare ancora filosofica».

Se è difficile chiamare ancora filosofica la risposta alla domanda filosofica, questa risposta di che natura è... e dove trovarla?

«Quel che io penso senza per altro presumere che la mia idea sia la giusta interpretazione del pensiero di Bobbio è che la risposta alla richiesta di senso sia una risposta di natura religiosa. Wittgenstein: Pensare al senso della vita significa pregare; Credere in un Dio vuol dire vedere che la vita ha un senso; Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. La scienza dà risposte parziali e la filosofia pone solo domande senza dare le risposte. Ma, proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l'uomo rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio, che caratterizzano l'età moderna e ancor più quella contemporanea».

Lei ha scritto: «Da tutta la scienza non possiamo estrarre un grammo di morale». Le chiedo: come è allora possibile fondare quei valori supremi per i quali, come diceva Kierkegaard, «si può vivere o morire»?

«Se poniamo attenzione alle diversità, esistite nel passato ed esistenti oggi, delle concezioni circa il bene e il male, ma se soprattutto volgiamo lo sguardo alla storia delle vicende e dei conflitti umani, dovremmo allora ripetere con Pascal che il furto, l'incesto, l'uccisione dei figli o dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose; singolare giustizia, che ha come confine un fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore di là. La realtà è che i valori e le norme etiche sono proposte di ideali di vita, di azioni corrette, di leggi giuste, di istituzioni valide ecc. e non proposizioni indicative. L'etica non de-scrive; essa pre-scrive. L'etica non spiega e non prevede; l'etica valuta. Difatti non esistono spiegazioni etiche. Esistono soltanto spiegazioni scientifiche; e valutazioni etiche. Né si danno previsioni etiche (o estetiche). L'etica non sa. L'etica non è scienza. L'etica, per usare un'espressione di Uberto Scarpelli, è senza verità. Tutta la scienza e qualsiasi altra teoria descrittiva, magari metafisica, non può logicamente produrre etica. E non lo può perché da proposizioni descrittive non è possibile dedurre asserti prescrittivi. È questa la nota legge di Hume, in base alla quale ben si comprende, appunto, che da tutta la scienza non è possibile spremere un grammo di morale. Dunque, il pluralismo in etica è una realtà inoppugnabile, ieri come oggi...».

Professor Antiseri, diciamolo chiaramente: pluralismo etico non è sinonimo di quello spettro che è il «relativismo»?

«Le direi che su di un argomento del genere occorre la massima cautela. In realtà è ben vero che, allorché si parla di pluralismo etico, ad esso si abbina subito, in senso dispregiativo, il concetto di relativismo, intendendo con esso che tutte le etiche sono sullo stesso piano, che una vale l'altra e che tutte valgono zero. Va da sé che, intesa in questo senso, l'idea di relativismo è fattualmente falsa, per il semplice motivo che il pluralismo non rende i sistemi etici uno uguale all'altro: ogni sistema etico è diverso dall'altro. Ama il prossimo tuo come te stesso non è la stessa cosa dell'occhio per occhio, dente per dente; non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te non è la stessa cosa di chi grida uccidi l'infedele, stermina l'altra razza, sopprimi la classe borghese facendo attenzione che non bisogna accarezzare la testa di nessuno, potrebbero morderti la mano: bisogna colpirli sulla testa senza pietà...».

Dunque: il pluralismo etico ci «condanna» a essere liberi, liberi e responsabili di ciò che scegliamo e di ciò che facciamo...

«Sì, è così. Predicare l'etica è difficile, fondarla è impossibile, ripete Wittgenstein ricalcando, mutandola, l'espressione di Schopenhauer: Predicare l'etica è facile, fondarla è difficile. Ecco, dunque, dove tutte le etiche sono uguali; per nessuna di esse si è in grado di trovare un fondamento razionale, ultimo e definitivo. Siamo costretti a scegliere. E scegliere ad occhi aperti impone di valutare le conseguenze delle nostre scelte. Il pluralismo dei sistemi etici è una sfida alla coscienza di ogni uomo e di ogni donna. Le nostre scelte non ci giustificano, ci giudicano». 

Che errore aver dimenticato Benedetto Croce! Scrive Luciano Lanna il 7 gennaio 2017 su "Il Dubbio". DUE SAGGI DI CORRADO OCONE SPIEGANO IL MOTIVO DI QUESTA GRAVE MARGINALIZZAZIONE DEL GRANDE FILOSOFO, DI CUI RICORREVANO I 150 ANNI DALLA NASCITA. Si è appena concluso il 150enario della nascita di Benedetto Croce, e bisogna dire che anche in questa occasione davvero pochi si sono interrogati sulle ragioni dell’oblio che ha avvolto in Italia l’opera e il profilo del grande filosofo, storico e intellettuale. Tra chi lo ha fatto, si segnala l’impegno di Corrado Ocone, filosofo e saggista di ultima generazione che nella circostanza dell’anniversario ha mandato in stampa ben due lavori sul tema specifico: Attualità di Benedetto Croce (Castelvecchi, pp. 57, euro 11,50) e Il liberalismo del Novecento (Rubbettino, pp. 267, euro18,00), di cui gran parte è proprio dedicata alla riflessione crociana. Due lavori esplicitamente “polemici”, nel senso che intendono contestare e criticare le tesi storiografiche e teoriche vigenti che oggettivamente sono la causa del silenzio e della marginalizzazione della fortuna teorica, e non solo, di Croce. In particolare, Ocone confuta sia il pregiudizio sulla presunta “inautenticità” del liberalismo crociano sia quello sull’irrilevanza dell’ultima fase dell’attività intellettuale del pensatore napoletano. Due pregiudizi, viene sottolineato, che stanno sostanzialmente all’origine del “paradosso Croce”, quello per cui il pensatore che – con Giovanni Gentile – aveva innovato la filosofia italiana ai primi del Novecento, che aveva introdotto i filoni culturali europei d’avanguardia nel nostro dibattito teorico, che aveva fatto conoscere da noi Marx e Sorel, che era stato il promotore del Manifesto degli intellettuali antifascisti. In pieno regime, che era stato senatore e ministro della Pubblica Istruzione con Giolitti, che dopo la caduta del fascismo fu due volte ministro, che divenne presidente del Partito liberale, che fu uno dei cosiddetti Padri costituenti e che rifiutò sia di diventare il primo presidente della Repubblica italiana che di venire nominato senatore a vita, venne – strana eterogenesi dei fini. Sia da subito inspiegabilmente escluso dal circuito egemonico– culturale della Prima Repubblica. «Nel secondo dopoguerra Croce è stato considerato, dalla cultura dominante in Italia, per lo più un pensatore “retrivo” e “provinciale”. Ma era – sottolinea Ocone – un’evidente distorsione dei fatti, dettata sostanzialmente da motivi politici: dal predominio, nel nostro Paese, di un blocco di potere culturale, per una parte marxista (seppure spesso di diversa tipologia) e per una parte di ispirazione azionista…». Proprio mentre l’ultimo Croce si collocava in una eccezionale sintonia con il meglio della cultura libe- rale e antitotalitaria internazionale – da Orwell a Koestler, da Camus alla Arendt, da von Hayek e Popper, da Talmon a Huxley – in Italia gli ultimi suoi anni di attività intellettuale, quelli che vanno dal 1942 al 1952, vengono considerati solo la produzione di «un vecchio e stanco pensatore, non più capace di mettersi in sintonia con il suo tempo, tutto volto a un passato che non ci sarà più». Spiega Ocone: «Il nuovo blocco di potere culturale, in parte sollecitato dagli interventi e dalla politica di Palmiro Togliatti, quello che allora si sedimentò e che avrebbe governato per tanti anni editoria, informazione, accademia», fu all’origine della censura nei confronti di Croce. Gli stessi allievi del filosofo napoletano passarono tout court nelle file dell’azionismo quando non del partito comunista. E Croce finì come un isolato, precisa ancora Ocone, «non perché fermo ai vecchi tempi, ma perché rispetto ai presunti innovatori era più moderno e vedeva più lontano». Non a caso, gli ultimi scritti crociani si rivelano, ancora oggi, di un’attualità straordinaria, individuando tutti la minaccia del totalitarismo proprio mentre l’anziano intellettuale mette in guardia dagli inganni del liberalsocialismo e dell’azionismo. Così, nel 1947, Croce pubblica il saggio L’Anticristo che è in noi, in cui, tra l’altro identifica nel ragionare per astrazioni intellettuali, per ideologia, uno dei tratti distintivi del totalitarismo. In un saggio del 1943 – Una parola desueta: l’amor di patria – sottolinea la radice liberale del patriottismo opponendola alle patologie del nazionalismo e della statolatria. E nel 1949, sul settimanale “Il Mondo”, pubblica La città del Dio ateo, un saggio tutto incentrato sull’interpretazione del romanzo antitotalitario 1984 di George Orwell, sottolineando che lo Stato totalitario andasse «studiato in sé, fuori di ogni equivoco di fini umanitari sia di politica internazionale». A questo pregiudizio – quello di un Croce fuori del suo tempo, e quindi da mettere teoricamente da parte rispetto agli sviluppi dell’attualità politica post– bellica – Ocone aggiunge l’altro, quello che lo escluderebbe dal circuito dei veri pensatori liberali. È infatti ancora opinione diffusa tra gli studiosi che quello di Benedetto Croce sia stato non solo un liberalismo atipico e inautentico ma che esso sia maturato molto tardi, dopo i tormenti della Grande Guerra, quasi a sconfessione di un pensiero precedente e anzi fortemente ispirato agli autori del realismo politico, da Machiavelli a Marx, da Sorel a Treischke. A parte che altri grandi pensatori liberali novecenteschi, su tutti Raymond Aron e Isaiah Berlin, sono partiti dallo stesso background teorico, resta il fatto che è proprio su una considerazione non illuministica e astratta del reale che nasce il più profondo e proficuo liberalismo del Novecento. Due sono, infatti, secondo Ocone, le coordinate di una vera posizione teorica autenticamente liberale: la critica al razionalismo astratto, all’intellettualismo ideologico, all’illuminismo omologante, al positivismo; la messa in scacco di ogni “filosofia della storia”, di ogni pretesa di conoscere le leggi della dialettica storica e di poterne prevedere il decorso e gli sviluppi. E da questo punto di vista – leggiamo in Il liberalismo del Novecento – cinque, e solo cinque, sono i veri teorici novecenteschi del liberalismo. Non Bertrand Russell, non John Rawls, non Norberto Bobbio ma, invece, Karl R. Popper, Michael Oakeshott, Friedrich A. von Hayek, Isaiah Berlin e, primo tra tutti, proprio Benedetto Croce. «Primo – sottolinea Ocone – per motivi cronologici, ma anche sostanziali, cioè relativi alle sue idee». Machiavelli e Vico sono, oltretutto, le matrici del liberalismo di Croce. La libertà, secondo il filosofo, infatti non nasce da una precettistica astratta ma si lega alla Storia e al realismo politico, a una visione complessa e non riducibile dell’essere umano, al rifiuto di qualsiasi schematizzazione ideologica a una direzione. Sulla scorta di Machiavelli, nessun ordine ideologico racchiude la realtà, il conflitto è ineliminabile dalla vita, esso è il senso dei “distinti”, del pluralismo crociano. La vita non ama essere imbrigliata, vive e prospera nel conflitto, nell’antagonismo, nella diversità. Si spiega, da questo punto di vista, anche la connessione tra liberalismo e patriottismo, seguendo la lezione risorgimentale, che significava – secondo Croce – «opporre il principio di individualità alle tendenze universalizzanti, omogeneizzanti, cosmopolitiche, razionali in senso astratto che avevano dominato nel Settecento in Europa. Cosa è infatti la Nazione se non un’individualità storica, un gruppo di individui che ha elementi in comune forgiatisi attraverso il tempo in un modo specifico e determinato diverso da quello di altri gruppi?». Già il suo sistema filosofico la “filosofia dello spirito” elaborata nel primo decennio del Novecento, era soprattutto un’affermazione del principio di individualità: nell’arte come nella lingua, nella logica come in economia o nella politica: «Non è perciò un caso che Croce abbia aspramente criticato l’Illuminismo di cui vedeva un’appendice nel positivismo, affermando le ragioni della creatività contro quelle della regola, della libertà contro ogni determinismo, della Vita contro la Ragione» . Ecco perché, ad avviso di Ocone, riprendere il filo interrotto del pensiero crociano può significare, oggi, la ripresa di una tradizione italiana di pensiero interrottasi con il predominio della cultura ideologica degli ultimi decenni: «Significa – allora, e in sintesi – affermare un concetto di razionalità che non coincide con quello del razionalismo, con i vecchi e nuovi positivismi, ma nemmeno con il prospettivismo, l’irenismo e l’indifferentismo etico del cosiddetto postmoderno; significa credere sì nel valore della verità, ma di una verità che è sempre contestuale, storica, concreta, provvisoria, imperfetta; significa credere nei principi di un liberalismo fondato sull’autonomia morale dei singoli e sulla libera competizione fra le idee e i diversi modi di vedere e sentire le cose».

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DA TENCO A PASOLINI, DA TOTO’ A BONCOMPAGNI.

Luigi Tenco, Pier Paolo Pasolini: quando la tragedia sveglia le coscienze. Il suicidio di Luigi Tenco (1967) e l’omicidio di Pier Paolo Pasolini (1975): la gravità di questi due eventi scosse tante persone, ma soprattutto colpì anche parte di quel blocco conservatore indicato come “maggioranza silenziosa”, scrive Gianni Martini il 3 dicembre 2012. Si è parlato di “torpore coscienziale”, condizione politico-culturale che caratterizzava, negli anni ’60 e ’70, larghi strati della popolazione. “Maggioranza silenziosa”, così veniva definito questo “blocco sociale” trasversale che dalla piccola e media borghesia arrivava a toccare anche i ceti popolari. Ritengo importante soffermarmi su questo “muro sociale” conservatore perché la sua presenza impalpabile e, appunto, silenziosa, giocò un ruolo significativo. Più che di arretratezza politica penso si trattasse di una ben più grave arretratezza culturale che si esprimeva in una mentalità chiusa e refrattaria alle novità. Sarebbe quindi sbrigativo ed erroneo liquidare come “di destra”, compattamente, quest’area sociale. Infatti, anche una parte della sinistra popolare, allora legata al P.C.I, condivideva nei fatti le stesse posizioni conservatrici che non esitarono a condannare l’arte d’avanguardia, i capelloni dei primi anni ’60, gli omosessuali. Eppure, in quegli anni ci furono almeno due fatti che, sul piano del costume, scossero la società civile, arrivando forse a smuovere un po’ anche le “maggioranze silenziose”: 1967 suicidio di L. Tenco e 1975 omicidio di P. Pasolini. La sociologia ci insegna che quando nella società civile si verifica un “evento traumatico” si possono determinare cambiamenti nei comportamenti sociali più o meno diffusi, in relazione all’entità dell’evento stesso. L. Tenco si suicidò nella notte tra il 26 e il 27 gennaio 1967, mentre era in corso il festival di Sanremo. Nel drammatico messaggio che lasciò scritto sulla carta intestata dell’albergo si leggeva un’attestazione d’amore per il pubblico italiano, ma al tempo stesso una profonda delusione per il passaggio in finale di una canzonetta insulsa come “Io tu e le rose” e una finta canzone di protesta come “La rivoluzione”. L’opinione pubblica fu scossa soprattutto perché non ci si aspettava che il Festival di Sanremo potesse essere sconvolto da una tragedia simile. La morte di L. Tenco fece irrompere nella spensieratezza del tempio della canzonetta disimpegnata e leggera, del bel canto popolare, un’altra realtà: il fatto che si potessero scrivere canzoni frutto di un’ispirazione più autentica, canzoni che parlassero della vita concreta, non idealizzata e mistificata. Che le cose stessero iniziando a cambiare – con grida di scandalo di ben pensanti e reazionari di ogni risma – lo si era in realtà già capito da qualche anno, visto che il Festival di Sanremo aveva ospitato alcuni complessi di “capelloni” e canzoni di protesta. Comunque quasi tutta la stampa batté la strada del “cantante solo, incompreso, forse depresso e inacidito per il mancato successo”. Certamente il mondo della canzone, dopo quel tragico fatto, non fu più lo stesso. Nel 1972 nacque a Sanremo il Club Tenco e nel 1974 vi si tenne la prima “Rassegna della canzone d’autore”. Il Club Tenco (presieduto e fondato da A. Rambaldi), per statuto, si impegna a promuovere e diffondere un nuovo tipo di canzone, fuori dalle strategie delle case discografiche e della musica di consumo. Una canzone rivolta alla parte più sensibile e impegnata della società civile, già frutto di una vitalità socio- culturale, segno attuale dei tempi. E veniamo alla drammatica vicenda di P. Pasolini, ucciso barbaramente nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. Gli occulti mandanti e le circostanze dell’omicidio non furono mai del tutto chiarite. Anche in questo caso l’impatto fu notevole soprattutto sulle componenti della società civile più sensibili e culturalmente attive. Buona parte della stampa, dopo aver riconosciuto o semplicemente riportato con distacco il valore dell’impegno artistico e intellettuale di Pasolini, si soffermò soprattutto sugli aspetti da “cronaca nera”. La stampa più retriva e moralista trattò il caso come “maturato negli ambienti omosessuali”. Per il resto ci si limitò con poche eccezioni a descrivere le scelte di vita di Pasolini. Si perse così (volutamente, sia chiaro), l’occasione per una discussione non solo sulla statura artistica di Pasolini ma su ciò che, come giornalista, scriveva su quotidiani e riviste importanti come “Il corriere della sera”, “Il tempo”, “Panorama”, “Rinascita”, “Il mondo” ecc, oltre a dichiarazioni rilasciate in interviste, anche televisive.

Quella rivoluzione chiamata Luigi Tenco. Fascinoso, anticonformista, ombroso. Ma anche ironico e traboccante di creatività, capace di sfidare la morale con canzoni che facevano pensare. Cinquant'anni fa, il 27 gennaio 1967, il cantautore pose fine alla sua vita con un colpo di pistola. Lasciando però una grande eredità alla nostra canzone, scrive Alberto Dentice il 26 gennaio 2017 su "L'Espresso". Se non fosse mai andato al festival di Sanremo, oggi Luigi Tenco avrebbe 78 anni, la stessa età di Celentano e chissà, forse sarebbe anche lui un insopportabile gigione. Invece, il 27 gennaio del 1967, 50 anni fa, con un colpo di pistola Tenco pose fine alla sua vita tormentata assicurandosi un posto nel paradiso dei “forever young”, accanto a Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Kurt Cobain e altre leggende del rock morte giovani e preservate perciò dagli acciacchi del tempo e dell’età. Che si sia trattato di suicido, di un fatale incidente come capitò a Johnny Ace (leggenda del R&B fulminato nel 1954 da un colpo partito per sbaglio mentre giocava con la sua pistola) o di omicidio eseguito su commissione di oscuri mandanti come quello di Pier Paolo Pasolini, il dibattito è ancora aperto. Una mole impressionante di libri e di inchieste giornalistiche ne hanno evidenziato a più riprese l’inconsistenza: si legga in proposito la nuova aggiornata biografia di Aldo Colonna, “Vita di Tenco” (Bompiani), che arriva ad adombrare una responsabilità del vicino di stanza, Lucio Dalla. La versione del suicidio sembrerebbe a tutt’oggi accettata con rassegnata perplessità dalla stessa famiglia del cantautore, rappresentata dai due figli del fratello, Valentino Tenco, e dalla loro madre. Suicidio o omicidio? Non è un dubbio da poco. Cambiando il finale, sarebbe tutto un altro film. E il mito dell’artista “maudit” che si toglie la vita per protestare contro l’ottusità e la corruzione che infestano il tempio della musica leggera ne uscirebbe ridimensionato. Dell’eredità spirituale e artistica di Tenco, nel frattempo ha continuato a occuparsi, nel segno dell’indipendenza e di una mission creativa scevra da compromessi con il famigerato “mercato”, la Rassegna a lui dedicata, fondata proprio a Sanremo da Amilcare Rambaldi, gran signore e appassionato conoscitore di musica popolare. Il Premio Tenco aprì le porte nel 1974, nel pieno della stagione d’oro della canzone d’autore. Poi nel ’95 Rambaldi ci ha lasciato e la manifestazione ha cominciato a perdere un po’ dell’allegria e dello spirito dilettantesco, nel senso migliore del termine, che ne avevano caratterizzato gli esordi. Le mitiche serate post festival trascorse all’osteria assistendo alle sfide in ottava rima tra Guccini e Benigni sono un ricordo. Anche il Tenco ha aperto le porte al nuovo e ha esteso il concetto di canzone d’autore fino ad abbracciare l’hip hop, la canzone dialettale, la world music e il pop all’insegna di quella contaminazione tra i generi che siamo portati a considerare il suggello della contemporaneità. L’orgoglio della diversità artistica è rimasto un punto fermo anche per Enrico De Angelis, il direttore artistico che ne ha guidato le sorti fino a poche settimane fa, coadiuvato da un ristretto comitato di esperti e appassionati. Per celebrare i 50 anni dalla scomparsa, l’edizione 2016, la quarantesima, ha previsto un gran finale tutto dedicato a Luigi Tenco. Titolo: “Come mi vedono gli altri… quelli nati dopo”. Sul palco fra gli altri anche l’istrionico Morgan che per Tenco ha una vera adorazione. Gli ha dedicato il prossimo album e una canzone: «Luigi Tenco / scappato eternamente / oltre lo spazio, le luci e il tempo / perché lui si sente /vivo / fatalmente/ solo nel momento in cui non è». Ma quanti lo ascoltano, quanti fra i giovani musicisti e i cantanti oggi conoscono Tenco? La risposta forse arriverà il 28 gennaio ad Aosta, quando sul palco del Teatro Splendor in ricordo del cantautore saliranno altri giovani protagonisti della canzone d’autore. Fra gli altri proprio il toscano Motta, cui è stato assegnato il recente premio Tenco. E che mentre si appresta a cantare il suo “Una brava ragazza”, ammette di conoscerlo poco. Ma appunto, chi era Luigi Tenco? Certo è che quel gesto estremo, notava anni fa Lietta Tornabuoni su La Stampa, «lo aveva confermato per quel che Tenco era sempre apparso all’euforico, quattrinaio e prepolitico mondo della musica leggera dei primi anni Sessanta: un guastafeste». E chissà se Carlo Conti e Maria De Filippi decideranno di commemorare l’anniversario al prossimo Sanremone. Perché la sua ombra continua a dividere come quella di un angelo sterminatore. Le cronache del tempo tramandano il ritratto di un anticonformista dal carattere ombroso e introverso ma assai consapevole del proprio fascino, jeans e maglione nero d’ordinanza, lo sguardo sprezzante del giovane arrabbiato a mascherare una profonda fragilità. Insomma, è uno che se la tira. Oltretutto il Nostro è un lettore accanito, adora Pavese e in una canzone, “Quasi sera”, cita addirittura versi di Bertolt Brecht. Quanto basta perché alla fama di intellettuale si sommi quella più sospetta di comunista. Oggi non ci farebbe caso nessuno, ma nell’Italia pre-sessantotto che vuole essere ricca, spregiudicata e ottimista basta questo per essere guardato con diffidenza, specie nell’ambiente ridanciano e superficialotto della discografia. All’immagine del pessimista introverso da sempre fa da contraltare quella del Tenco amante della vita, traboccante creatività e perfino spiritoso, bravissimo a raccontare barzellette, con un debole per le zingarate. Dalle testimonianze di chi l’ha conosciuto, insomma, Tenco risulta essere stato tutto e il contrario di tutto. Ma sulla sua missione ha idee chiarissime: «Anche la canzone può servire a far pensare». Convinto che si debba cantare l’amore con un linguaggio nuovo, fare a pezzi i luoghi comuni, la rima baciata, il verso tronco, la retorica imperante. Sì: «Mi sono innamorato di te», ma solo «perché non avevo niente da fare». Nei primi anni Sessanta, ovviamente, non è il solo artista impegnato a rinnovare il linguaggio della canzone. Tenco è meno musicista di Bindi, meno romantico di Paoli, non ha l’aplomb aristo-maledetto di De André, ma proprio lui, genovese d’adozione (è nato a Cassine in provincia di Alessandria) è il più politico del gruppo. Nel 1962, “Cara maestra”, il “j’accuse” contro l’ipocrisia di certi precetti morali impartiti a scuola e in chiesa, gli era valso due anni di esilio dalla tv. Intanto, nella musica e non solo in quella, sta cambiando tutto. L’avvento di Bob Dylan, dei Beatles, dei Rolling Stones ha impresso al mondo un’accelerazione bestiale. Tenco, appena sbarcato alla Rca, la sua nuova casa discografica, scopre il Piper Club, il tempio romano del beat e dei capelloni, dove oltre ai Rokes, all’Equipe 84, a Patty Pravo si possono ascoltare i Primitives, i Bad Boys e molti altri gruppi rock blues inglesi sconosciuti ma bravissimi. E perfino divinità del Rhythm’ n’Blues come Otis Redding, Wilson Pickett, Sam & Dave. Tenco a differenza di Bindi, di Paoli, di Endrigo, di Lauzi, che hanno la bussola puntata verso la Francia di Brassens, guarda più all’America. Nasce come sassofonista, viene dal jazz e ha trovato in Paul Desmond il suo modello. Come se non bastasse, sussurra «Quando il mio amore tornerà da me…» con lo stesso timbro vellutato di Nat King Cole e in questo come in altri suoi lenti da mattonella farciti con overdose di violini - pensiamo a “Lontano, lontano” o a “Ti ricorderai” - riesce a toccare come pochi le corde della malinconia. Proprio al Piper, però, il Nostro deve rendersi conto che il conflitto, ormai, non è più fra destra e sinistra, quanto piuttosto una questione generazionale. Da una parte i giovani, dalla parte opposta tutti gli altri. Lui a 25 anni si sente già vecchio, e quando nel 1966 scoppia la polemica contro i capelloni, è tra i primi a schierarsi: «Gli argomenti preferiti di certa gente sono che i capelloni non lavorano, che non si lavano, che sono ignoranti; bene, a questo punto io mi proclamo un capellone, mi sento uno di loro». L’ondata dei beat, delle canzoni di protesta lo vedrà in prima linea, anche se, a onor del vero, il contributo di Tenco alla causa, “Ognuno è libero”, non si distingue per originalità. Chissà cosa pensano davvero di lui i giovani che oggi nei dischi infilano cover delle sue canzoni per accattivarsi la giuria del premio Tenco. I cinquant’anni dalla morte cadono mentre De Angelis si dimette dal Club denunciando che l’iniziale «professionalità» si sta trasformando in «professionismo», e gli eredi litigano con i gestori del museo-omaggio di Ricaldone, rei di aver esposto una gigantografia del cantante. E intorno a Tenco tira aria di maretta.

«Ecco perché Tenco fu ucciso» Il libro-inchiesta riapre il caso, scrive Monica Bottino, Sabato 23/02/2013, su "Il Giornale". «Quando molti giornalisti mi chiedono se esiste il delitto perfetto, io gli rispondo di sì: è l'omicidio Tenco». Il criminologo Francesco Bruno ne è convinto. Nella notte del 27 gennaio 1967, durante il Festival di Sanremo, avvenne quello che a 46 anni di distanza resta ancora uno dei grandi misteri italiani. Mistero, sì. Nonostante due sentenze della magistratura dicano che Luigi Tenco si è suicidato, sono tanti e insoluti i dubbi su quella notte. E non solo. A tentare di far luce su quello che è per molti un «cold case» sono due giornalisti d'inchiesta: Nicola Guarnieri e Pasquale Ragone che hanno pubblicato il libro «Le ombre del silenzio. Suicidio o delitto? Controinchiesta sulla morte di Luigi Tenco» (edizioni Castelvecchi), proprio con la prefazione del professor Bruno. Un lavoro ponderoso che è il risultato di quattro anni di ricerche nei faldoni giudiziari, alla riscoperta di interviste dell'epoca con le persone che a vario titolo furono coinvolte nella vicenda. E nuove testimonianze. A rendere straordinario il libro non c'è solo la capacità degli autori di raccontare una storia vera come fosse un noir, ritmandola di colpi di scena e rivelazioni clamorose, ma anche e soprattutto la pubblicazione di testimonianze e materiali inediti rinvenuti nell'aula bunker della corte di Assise di Sanremo. Un lungo lavoro di ricerca che gli autori hanno portato avanti scavando tra archivi e faldoni, fino a scovare per la prima volta il foglio matricolare e alcune lettere di Luigi Tenco, documenti finora mai pubblicati. Il lettore viene assalito da molti dubbi di fronte a un quadro inquietante e alle troppe incongruenze che emergono dalle carte stesse. Alla fine emergono anche altre domande: perché Tenco doveva morire? Quali segreti custodiva? E la richiesta degli autori alla magistratura, sulla base delle nuove prove emerse, è quella di aprire nuovamente il caso. Intanto è bene sapere che Luigi Tenco in quei giorni aveva paura. Di più. Temeva per la sua vita, dopo che poco tempo prima del festival, nei pressi di Santa Margherita due auto lo avevano stretto e avevano tentato di mandare la sua fuoristrada. Era stata la terza volta che attentavano alla sua vita, confidò a un amico. Fu a quel punto che decise di acquistare una pistola Walther Ppk7.65, abbastanza piccola da tenerla nel cruscotto della macchina. Secondo gli autori non fu questa la pistola che uccise Tenco perché non uscì mai dalla macchina. Nella stanza 219 del Savoy la polizia dirà di aver rinvenuto una Bernardelli, molto simile alla precedente, ma naturalmente non quella. Inoltre nel primo verbale stilato dalla polizia «alle ore tre» (e pubblicato nel libro) si parla di proiettili, di medicinali, ma non di arma. La pistola non fu repertata. Perché? Forse perché non c'era? Ma andiamo avanti. È assodato che il cadavere fu condotto all'obitorio subito dopo il ritrovamento dai necrofori, che poi furono richiamati e costretti a riportarlo nella stanza dove fu rimesso nella posizione che aveva al momento del ritrovamento, per consentire alla polizia di scattare le fotografie e di eseguire i rilievi non fatti prima. Non fu eseguita l'autopsia. Il cadavere di Tenco non fu svestito né lavato, ad eccezione del viso. Non fu nemmeno fatto lo «stub», ovvero il test che prova se una mano ha tenuto la pistola che ha sparato. Nulla. Perché? A distanza di molti anni, a fronte di molti dubbi, nel 2006 la salma di Tenco fu riesumata. Gli esami furono - secondo gli autori - incompleti anche in questo caso. Ma ci furono esperti che si dissero convinti che la pistola che aveva ucciso Tenco avesse un silenziatore, poiché la ferita sul cranio non era a stella, ma rotonda. Ma il silenziatore non fu mai trovato. Inoltre nel 2006 non furono fatti accertamenti sui vestiti, gli stessi che l'uomo indossava al momento della morte e che avrebbero almeno dovuto avere le tracce dello sparo. Il lettore verrà condotto attraverso uno dei misteri irrisolti con dovizia di particolari e una documentazione ricca, sebbene un piccolo appunto (magari in vista di una ristampa) va fatto per la poca chiarezza delle immagini fotografiche stampate sulla carta ruvida, e in bianco e nero anche nella ricostruzione. Resta il fatto che il libro-inchiesta non solo pone questioni, ma fornisce al lettore anche una possibile chiave di lettura degli avvenimenti che culminarono in quella notte maledetta. C'è la pista argentina, per dirne una, ma si parla anche di mafia marsigliese, e di eversione di estrema destra. E anche del potere delle case discografiche a Sanremo. Non possiamo svelare di più, per non togliere il piacere di una lettura coinvolgente che attraversa fatti e personaggi della nostra storia. «Gli esami svolti nel 2006 dall'Ert non chiariscono tutti i punti oscuri e la tesi del suicidio non combacia con diversi elementi», scrive ancora Bruno nella prefazione. La soluzione al mistero è ancora lontana. Ma questo libro è un passo avanti.

Con la morte di Pino Pelosi, addio alla verità sul delitto Pasolini. Condannato come unico autore dell'assassinio, malato di cancro, con lui se ne va la speranza di conoscere come andarono davvero i fatti nel 1975, scrive il 21 luglio 2017 Chiara Degl'Innocenti su "Panorama". Con la morte Pino Pelosi se ne va l'unica possibilità di scoprire tutta la verità sul delitto di Pier Paolo Pasolini. Chiamato dalla malavita romana Pino la rana, Giuseppe Pelosi aveva appena 17 anni quando la notte del 2 novembre 1975, venne fermato alla guida dell'auto di Pasolini che era stato brutalmente ucciso all’Idroscalo di Ostia. In quell'auto furono trovate tracce del sangue del poeta ed altri indizi che portarono direttamente a Pelosi che, fermato, si assunse la responsabilità del omicidio. Il racconto fu conciso, ma non privo di buchi neri, lacune e aspetti oscuri. Il giovane infatti disse di aver opposto resistenza alle avances di Pasolini reagendo con violenza picchiando fino a uccidere. Ma la bestiale aggressione apparve inverosimile consumata da parte di un ragazzino mingherlino come Pino. Fermato dalla polizia il giovane, inoltre, era stato trovato privo di tracce di sangue e fango, mentre il corpo di Pasolini appariva massacrato da una furia disumana. Nonostante tutto questo Pino Pelosi venne condannato, in un primo momento per omicidio "in concorso con ignoti" e nel 1979, in via definitiva, a 9 anni e 7 mesi di carcere come "unico autore" del delitto Pasolini. Nel 2005 Pino Pelosi ritrattò la sua versione. Dal nulla spuntarono fuori che sarebbero state tre persone ad uccidere il poeta. Ma poiché una vera e propria ricostruzione definitiva dei fatti di quella notte non vi fu mai, ora con la morte di Pelosi questo vuoto resterà incolmabile.

«Se volete la verità su Pasolini, chiedete a Johnny lo zingaro», scrive Simona Musco il 22 luglio 2017 su "Il Dubbio". Intervista all’avvocato Nino Marazzita, legale della famiglia Pasolini nei processi che hanno portato alla condanna di Pino Pelosi, morto giovedì a 58 anni. «Se volete la verità sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini dovete trovare Johnny lo zingaro e chiederla a lui». Non ci sono vie alternative: chiunque ipotizzi l’esistenza di una storia segreta, custodita chissà dove, è solo alla ricerca «di pubblicità». A dirlo è Nino Marazzita, legale della famiglia Pasolini nei processi che hanno portato alla condanna definitiva di Pino Pelosi, morto giovedì a 58 anni, dopo una lunga malattia, unico a pagare per la morte dello scrittore, ammazzato nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia. Non che si sappia tutto su quel delitto: mancano gli altri esecutori e senza quelli, dice Marazzita, non si conosceranno neanche i mandanti. Ma l’altro possibile custode di quel segreto è scappato a giugno scorso. Giuseppe “Johnny” Mastini, condannato all’ergastolo per omicidi e rapine, «aveva un legame con Pelosi che nessuno ha mai voluto approfondire». Perché, dice l’avvocato, «la procura non voleva la verità». Marazzita parte da qui, dalla cassetta di sicurezza di cui parla Alessandro Olivieri, difensore di Pelosi. «Sono totalmente convinto dell’innocenza di Pelosi – aveva dichiarato -. Una parte delle informazioni non sono state date e sono gelosamente custodite in una cassetta di sicurezza, perché sono troppo forti. Lui non se l’è mai sentita di diffonderle per paura che qualcuno potesse toccare lui o i suoi familiari. La verità non è morta con Pelosi. Ma è talmente pesante e difficile da poter raccontare con semplicità». Parole che Marazzita etichetta come «balle»: Pelosi è morto e solo Mastini può raccontare qualcosa. Ma gli indizi che portavano a lui non sono mai stati considerati. E lo stesso Pelosi manifestava l’ansia febbrile di nascondere ogni collegamento. «Due elementi portano a Johnny. Quando Pelosi viene arrestato non si dà pace per aver perso l’anello con la croce militare regalatogli da Mastini, perché capisce che può collegarlo a lui. È vero che aveva 17 anni – spiega – ma aveva un’astuzia incredibile. Era capace di vanificare immediatamente una domanda capziosa e il collegamento ossessivo che aveva fatto con quell’anello poi ritrovato sul luogo dell’omicidio la diceva lunga. Mastini era claudicante, per una ferita ad una gamba dopo aver ucciso un poliziotto. Nella macchina di Pier Paolo fu trovato un plantare, che poteva appartenere ad una sola persona, ma la mia richiesta di fare un esperimento giudiziale per vedere se fosse suo non fu mai accolta». Non c’è però «alcun dubbio» che sia stato Pelosi ad uccidere Pasolini. L’allora 17enne fu fermato la notte stessa a Ostia, alla guida dell’auto del poeta, un’Alfa Gt 2000 grigia metallizzata. Accusato di furto, confessò di avere rubato l’auto, raccontando, durante l’interrogatorio, di essere stato abbordato da Pasolini e di averlo investito involontariamente dopo una colluttazione a colpi di bastone per aver prima accettato e poi rifiutato una prestazione sessuale. E, inizialmente, disse di aver fatto tutto da solo. Il primo processo davanti al tribunale dei minori, presieduto dal fratello di Aldo Moro, Carlo Alfredo Moro, lo vide condannato per omicidio in concorso con ignoti. «Quella sentenza fu un capolavoro giudiziario – spiega Marazzita – Dice che non fece tutto da solo e non è vero che la sentenza d’Appello negasse la presenza di complici. I giudici di secondo grado non se la sentirono di dire con certezza che ci fosse qualcun altro, ma non lo esclusero. E anche Pelosi ammise che c’erano dei complici durante l’intervista con la Leosini, seppur ampiamente pagato». Secondo il legale, la procura generale, nel condurre le indagini, «dimostrò chiaramente l’intento di non approfondire ma di voler bloccare l’inchiesta. Quando il giudice Moro, che aveva capito che non funzionava niente in quelle piccole indagini fatte in 45 giorni, disse che era certa la presenza di altri, la procura generale impugnò subito la sentenza, senza nemmeno attendere le motivazioni – ha aggiunto -. Questo è stato il segnale che non volevano indagare, perché se si fosse risalito agli esecutori materiali allora si sarebbe potuto arrivare ai mandanti, che potrebbero essere anche uomini delle istituzioni. Negli anni ho chiesto la riapertura del caso cinque volte, perché le indagini vere non sono mai state fatte». Tra i nomi poi attribuiti ai complici di Pelosi furono fatti anche quelli dei fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, alias Braciola e Bracioletta, trafficanti di droga e militanti nell’Msi. Un poliziotto infiltrato li aveva anche sentiti vantarsi di quel delitto ma uscirono dalle indagini dopo aver dichiarato ai magistrati di essersi inventati tutto per fare i duri. «Di loro parla solo dopo la loro morte (negli anni 90, ndr) – dice il legale – Erano ormai innocui, mentre Johnny era ed è ancora pericoloso e rimane l’unico a poter entrare nelle indagini sulla morte di Pier Paolo». Marazzita non la esclude. «Potrebbe capitare l’occasione, con magistrati seri, capaci di approfondire. In quel caso, con l’autorizzazione di Graziella Chiarcossi (la nipote, ndr), la chiederei. E vorrei approfondire i rapporti tra Pelosi e Mastini, perché e quanto si vedevano, se avevano commesso reati insieme», ha aggiunto. E la cassetta di sicurezza? «Non esiste. Perché non è uscita fuori prima?». L’ultimo cenno è al suo rapporto con Pelosi. «Mi vedeva come un nemico. Aveva paura delle mie domande. Poi, con gli anni, incontrandomi spesso ha finito per considerarmi uno di famiglia». Ma non abbastanza da spiegare perché Pasolini è morto. «Quello non lo sapremo mai».

Pier Paolo Pasolini e il mistero di Petrolio nel film La macchinazione di David Grieco. Arriva in sala il 24 marzo la pellicola che racconta la stesura del libro e la morte misteriosa dello scrittore. Nel ruolo del protagonista, Massimo Ranieri. Mentre il regista fu assistente alla regia di PPP, scrive il 14 marzo 2016 "L'Espresso". «A un certo punto avrò bisogno del tuo aiuto, Alberto», parla così al telefono con Moravia il Pasolini di David Grieco, nella clip in anteprima del film La macchinazione, dal 24 marzo nelle sale: «Non so neanche io cosa sto scrivendo, vado avanti come posseduto da un demonio, ho già superato le 400 pagine e forse arriverò a 2000». «Per ora posso dirti il titolo: Petrolio», continua la conversazione tra Moravia e Pasolini, cioè Massimo Ranieri, a cui è toccato il delicato compito di raccontare gli ultimi giorni di vita dell’intellettuale, impegnato nel montaggio di Salò e le 120 giornate di Sodoma e nella stesura del romanzo uscito postumo, atto di accusa che riprende il libro Questo è Cefis, uscito nel 1972 ma subito scomparso dagli scaffali, in cui un informato autore sotto pseudonimo ricostruisce «l’altra faccia dell’onorato presidente», l'altra faccia di Eugenio Cefis, presidente dell’Eni dopo la morte di Mattei e poi della Montedison, indicato come «il vero capo della P2». Salò, Petrolio, la relazione con Pino Pelosi, giovane sottoproletario romano che ha legami con il mondo criminale della capitale. Il 2 novembre 1975, Pasolini morirà a Ostia. E Grieco, già assistente del cineasta e poeta, con il suo film si pone la domanda: «Chi ha ucciso Pier Paolo Pasolini?»

Il vero mistero su Pasolini è capire come il film di David Grieco abbia trovato posto in un cinema. Quanto volete per smettere? Per lasciare in pace Pier Paolo Pasolini? Tutto questo tempo sprecato per farlo diventare uno dei misteri d’Italia non sarebbe meglio adoperato per leggersi qualche poesia, magari sul vincitore dello Strega che nessuno ricorda l’anno dopo, peggio del vincitore al Festival di Cannes? Scrive Mariarosa Mancuso il 25 Marzo 2016 su "Il Foglio". Tanto tempo sprecato per farlo diventare un mistero d’Italia, ripetiamo volentieri, perché le cose sono andate al contrario: a furia di fare inchieste per stanare scomode verità, il caso si è ingigantito e l’intrigo si è complicato invece di sbrogliarsi. Fino al paradosso: il cugino Nico Naldini, di anni 87, uno che non ha mai voluto sentire parlare di congiure o di complotti (“incidente di percorso in una vita sregolata”, ha detto più volte) non viene invitato né agli anniversari né alle celebrazioni. Tutti hanno detto la loro, incluso Walter Veltroni. Massimo Ranieri ha la parte del poeta nel film di David Grieco “La macchinazione”, ora nelle sale: è bastato per aggiungersi alla lista dei deliranti. Dopo aver indossato un giubbotto scamosciato e girato la scena di una partita a calcio in borgata ha preso anche lui il numeretto e a gran voce ha chiesto la verità su Pasolini. Uno che si faceva tingere i capelli di nero dalla mamma, racconta il film, e non si capisce se lo scandalo sta nel nerofumo, o nella tintura casalinga con la boccetta comprata sugli scaffali del supermercato. Il complotto, o la congiura, o il grande mistero pasoliniano si estende nel film di David Grieco fino a comprendere la banda della Magliana (da “Romanzo Criminale” in poi si porta con tutto). Il mistero più grosso – su cui mancano le indagini – è sapere come mai un film come questo sia stato scritto, girato, distribuito in sala, senza che nessuno facesse la minima obiezione. Cinematografica, almeno, se non di sostanza fanta-criminale. Interessanti anche i retroscena: David Grieco avrebbe dovuto collaborare con Abel Ferrara, per il suo “Pasolini” presentato alla Mostra di Venezia nel 2014 (lo stesso anno del ripassino su Giacomo Leopardi inflitto da Mario Martone). Qualcosa andò storto, e per il gusto della scissione che caratterizza i cultori di Pier Paolo Pasolini - oltre che la sinistra italiana – ora si è fatto un film tutto suo (fa coppia con il volume – sempre firmato David Grieco – uscito da Rizzoli con il titolo “La macchinazione. Pasolini. La verità sulla morte”). La macchinazione è tanto arzigogolata che abbiamo vergogna perfino a raccontarla, tra Eugenio Cefis (“lo considero il demonio dell’Italia d’oggi”, testuale nel film), una sala da biliardo in periferia, il furto con richiesta di riscatto delle bobine di “Salò - Le 120 giornate di Sodoma”, pagine di “Petrolio” che correggono “bomba alla stazione Termini” in “bomba alla stazione di Bologna”. Però garantiamo che a vederlo è peggio.

Pier Paolo Pasolini, la storia e il mistero irrisolto della morte, scrive il 29 Ottobre 2015 Emilia Abbo. Pier Paolo Pasolini avvolto in un mistero. Andiamo a ripercorrere la storia del poeta e nello specifico il caso irrisolto della morte. Pasolini venne brutalmente ucciso all’idroscalo di Ostia la notte fra il primo ed il 2 novembre 1975, e pertanto in questi giorni si celebra il quarantesimo anniversario da quel tragico evento. La mattina del 31 ottobre, ad esempio, il ministro della cultura Dario Franceschini sarà a Pietralata, un quartiere che era molto caro allo scrittore. Significative personalità, anche vicine affettivamente allo scrittore (come ad esempio il suo biografo e cugino Nico Naldini, il suo vecchio amico Giancarlo Vigorelli, nonché l’italianista Guido Santato, che ne fu il più attento studioso) partono dalla convinzione che Pasolini divenne, in un certo senso, regista della sua stessa morte, a causa della vita sregolata e rischiosa che conduceva, e che includeva la frequentazione dei cosiddetti ‘ragazzi di vita’ delle periferie romane.

Il movente biografico: i “ragazzi di vita”. Attraverso la pubblicazione di un diario giovanile, uscito col titolo Il romanzo di Narciso (1946-7), Pasolini rivela ai lettori la propria omosessualità.  Quando scriveva queste pagine lo scrittore bolognese viveva in Friuli, nei pressi di Casarsa (la località di cui sua madre era originaria) dove si era rifugiato all’indomani dell’otto settembre 1943, quando aveva rifiutato di consegnare le armi ai tedeschi. Il 1945 era stato un anno molto difficile per Pasolini, per via della perdita del fratello Guido (che era entrato nelle file del partigianato). Dopo la laurea, conseguita quello stesso anno con una tesi sul Pascoli, Pasolini trova un posto come insegnante nella scuola media di Valvassone, ma il 15 ottobre del 1949 verrà denunciato per corruzione di minorenni, perdendo la cattedra. Anche i dirigenti regionali del PCI, per i quali Pasolini collaborava dal 1947 sulle pagine del settimanale Lotta e lavoro, lo espelleranno dal partito. Per sfuggire allo scandalo, Pasolini si rifugia con la madre a Roma, dove giunge nel gennaio 1950. Il distacco dal mondo contadino friulano, che verrà da lui sempre mitizzato (non a caso, Pasolini compose poesie in dialetto casarsese), si accompagnerà ad una nuova presa di consapevolezza. Alla sua amica Silvana Mauri Ottieri confiderà infatti di sentire ormai sulla pelle il segno di Rimbaud o di Campana o di Wilde, e quindi di essere destinato ad un senso di emarginazione e condanna da parte della società. Giunto nella capitale, la madre prende servizio presso una famiglia come domestica, e Pasolini si adatta a fare il correttore di bozze ed a vendere i suoi libri nelle bancarelle rionali. Grazie al poeta Vittorio Clemente, nel dicembre 1951 trova un altro impiego come insegnante a Ciampino. Tuttavia, lo scrittore non riesce a fare a meno di frequentare l’ambiente periferico ed adolescenziale delle borgate, che divenne fonte di ispirazione per il suo romanzo Ragazzi di Vita (1955). Per questo libro Pasolini (accanto alla casa editrice Garzanti) venne processato, e solo grazie all’intervento di eminenti letterati come Giuseppe Ungaretti e Carlo Bo (che evidenziarono un senso di umana pietà misto a crudo realismo) lo scrittore venne assolto.  Analoga sorte ebbe il romanzo Una vita violenta (1955) che intendeva essere una continuazione del suo progetto ‘sottoproletario’, portato avanti anche nei film Accattone (presentato al festival di Venezia del 1961) e Mamma Roma (interpretato nel 1962 da Anna Magnani).  Anche in questi capolavori cinematografici i ragazzi delle borgate romane non hanno alcuna speranza di affrancamento o redenzione, e la morte diviene l’unica via d’uscita ad un destino di corruttiva miseria e disperazione. La frequentazione di piccoli malavitosi causerà a Pasolini altri problemi giudiziari. Nel giugno 1960, ad esempio, Lo scrittore verrà accusato di aver favoreggiato due ragazzi coinvolti in una rissa, e nel novembre dell’anno seguente vedrà il suo appartamento perquisito, poiché sospettato di una rapina a mano armata in un bar di San Felice Circeo. Il responsabile dell’omicidio Pasolini fu subito ritenuto il diciassettenne reo confesso Giuseppe Pelosi (soprannominato ‘Pino la rana’), già noto alle forze dell’ordine per vari furtarelli, e che venne dichiarato colpevole di omicidio doloso nella sentenza di primo grado. Alla sua versione dei fatti venne aggiunto il ‘concorso con ignoti’, poi inspiegabilmente smentito dalla corte d’appello il 4 dicembre 1976. Tuttavia, questa sentenza non é mai stata ritenuta davvero definitiva, anche perché nel corso del tempo si sono innalzate molte voci (fra cui quella della scrittrice Oriana Fallaci e del regista Marco Tullio Giordana) a sostegno dell’omicidio di gruppo, che lasciava spazio ad altri moventi oltre a quello di un diverbio fra un ‘ragazzo di vita’ ed il suo esigente cliente. Il fatto che il poeta, quella notte, fosse stato vittima anche (o soltanto) di terzi venne validato da vari indizi, come ad esempio l’esile corporatura di Pelosi, che al momento dell’arresto (avvenuto subito dopo il delitto) non aveva significative ferite o segni di colluttazione sugli abiti. La leggerezza e friabilità dell’arma del delitto (che fu identificata con una tavola di legno che serviva ad indicare il numero civico di un’abitazione) sarebbe stata incompatibile con le ferite che vennero selvaggiamente inferte, e che si addicevano ad un oggetto assai più pesante e contundente. Nel caso Pasolini, del resto, vi sono state, e fin dall’inizio, delle gravi negligenze, ed un articolo sull’Europeo del 21 novembre 1975 illustra chiaramente come la scena criminis venne inquinata. La polizia, accorsa sul posto verso le sette di mattina, non disperse la folla di curiosi, e non vennero nemmeno indicati i punti esatti dei vari ritrovamenti. La macchina di Pasolini rimase esposta ad una pioggia insistente, e dopo aver svolto le prime indagini venne rottamata. Sul luogo del delitto non giunse nemmeno un medico legale, e sull’adiacente campetto di calcio, che poteva offrire segni di plantari e pneumatici, venne giocata una partita. Alcuni oggetti (come ad esempio la camicia e gli occhiali che quella sera Pasolini indossava) vennero esposti al museo di criminologia di Valle Giulia, ed anche se in seguito sono stati analizzati con tecniche più moderne e sofisticate (lo stesso comandante del Ris di Parma, Nicola Garofalo, ha coordinato le perizie) i risultati rimangono comunque secretati, e non pienamente attendibili a causa delle negligenze che si verificarono nelle quarantotto ore che seguirono il delitto. Anche le più fresche testimonianze non ebbero il credito che meritavano. Assai emblematica rimane quella di un pescatore (immortalata in un prezioso film-documentario di Mario Martone) che sostenne di avere visto, quella tragica notte, una seconda auto accanto all’Alfa Romeo di Pasolini, ed udito voci di diverse persone, oltre al grido disperato dello scrittore che invocava sua madre. Presente agli atti è la versione della cugina del regista, Graziella Chiarcossi, secondo la quale il maglione che venne ritrovato sul sedile posteriore dell’auto non apparteneva a Pasolini.  Ma non solo.  Il proprietario della trattoria ‘Biondo Tevere’ ritenne che, quella sera, il poeta era in compagnia di un giovane che non aveva le stesse caratteristiche fisiche del diciassettenne di Guidonia. Inoltre, un ex-appuntato dei carabinieri, che indagava in borghese, mise in evidenza il coinvolgimento di due ragazzini siciliani (soprannominati ‘fratelli braciola’), che frequentavano lo stesso circolo ricreativo di Pelosi, e che morirono di malattia negli anni Novanta. Come se non bastasse, nel maggio 2008 lo stesso Pelosi decise di ritrattare, e sostenne, durante una trasmissione televisiva, che la sua unica responsabilità fu quella di avere investito accidentalmente il corpo già inerte di Pasolini, laddove il delitto vero e proprio venne materialmente eseguito da tre individui adulti.  Aggiunse di aver taciuto fino a quel momento per non esporre i suoi ormai defunti genitori a ritorsioni. Nonostante questo, la vicenda non prese una vera e propria svolta, tanto che l’avvocato Nino Marazzita parla ancora oggi di ‘inerzia colpevole’ da parte degli inquirenti (Tusciaweb.it, 26 aprile 2014) e l’avvocato Guido Calvi (anch’egli incaricato dalla famiglia Pasolini all’epoca del delitto) ritiene che si sia voluta spegnere la voce del poeta con l’arma della diffidenza e con ‘risposte sconcertanti’ (Corriere.it, 4 maggio 2010).

Il movente cinematografico: le bobine di Salò. Fra le varie teorie sulla morte di Pasolini merita attenzione anche quella che si profilò grazie alla testimonianza del regista Sergio Citti, il quale asserì che, poche settimane prima dell’omicidio, Pasolini subì la sparizione di due bobine cinematografiche (quelle che in gergo sono chiamate ‘pizze’), ovvero di due copie del suo ultimo film, intitolato Salò. Citti sostenne che quella fatidica sera del primo novembre Pasolini doveva vedere dei loschi individui, ovvero i probabili autori del furto, e seppur questo incontro richiedesse un notevole coraggio, Pasolini era disposto ad affrontarlo lo stesso poiché ci teneva a recuperare l’insostituibile lavoro di montaggio, che era stato effettuato con la tecnica del ‘doppio’, ovvero girando le stesse scene anche da un’inquadratura diversa. Le bobine di questo film, furono probabilmente sottratte per il loro contenuto scabroso. Pasolini stesso sapeva che questa pellicola avrebbe suscitato reazioni anche per il suo significato sottilmente ideologico, poiché si creava una correlazione fra le tematiche dei romanzi di Sade e la dominazione di massa capitalistica (identificata al kantiano ‘male radicale’).  Mentre girava questo suo ultimo film, forse Pasolini avvertiva l’avvicinarsi della sua morte. Non a caso, volle accanto a sé figure amiche, come l’attrice Laura Betti (nel ruolo di doppiatrice) e poi anche l’affezionato Ninetto Davoli e lo stesso Sergio Citti, per il quale fu questo film a rendere reali quelle paure che il regista aveva già allontanato con stoico distacco: La morte compie un fulmineo montaggio nella nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi <…>  e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile ed incerto, un passato chiaro, stabile, certo e dunque linguisticamente ben descrivibile (Pier Paolo Pasolini, Empirismo Eretico).

Il movente letterario: “Lampi su Eni”. Un’interessante teoria è quella legata alla cosiddetta ‘questione Eni‘, poiché direttamente riconducibile al lavoro letterario che l’autore, al momento della sua morte, stava svolgendo con la casa editrice Einaudi. Nel romanzo-inchiesta (rimasto incompiuto) Petrolio, che venne pubblicato postumo nel 1992 (e del quale restano 522 pagine) si delinea una lotta di potere che avviene nel settore petrol-chimico. La finzione del romanzo è riconducibile ad un reale fatto di cronaca, ovvero alla morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei, che avvenne nel 1967, quando l’aereo su cui si trovava a bordo perse quota sulla campagna pavese. Pasolini giunse, con trent’anni di anticipo, alle stesse conclusioni del magistrato Vincenzo Calia, che chiese l’archiviazione del caso nel 2003.  Per Pasolini la morte di Mattei non fu causata da un fatale incidente, ma semmai da un sabotaggio, da ricondursi agli intrighi dell’ambizioso personaggio che nel suo romanzo rappresenta Eugenio Cefis, il quale divenne presidente della Montedison nel 1971, dopo aver co-fondato l’Eni assieme allo stesso Mattei.  Anche la scomparsa del giornalista Mauro de Mauro, che stava preparando un dossier per il regista Francesco Rosi (il quale decise di girare un film sul caso Mattei) potrebbe essere legata a qualche scottante notizia non dissimile dalla teoria portata avanti in Petrolio. Pasolini ebbe come sua fonte il libro Questo é Cefis, l’altra faccia dell’onorato Presidente, pubblicato nel 1972 sotto lo pseudonimo Giorgio Steimez, e che venne subito ritirato dalla circolazione, ma del quale Pasolini aveva una versione in fotocopia grazie al suo amico Elvio Facchinelli. Per Pasolini Mattei non era un un anacronistico utopista-statalista, ma piuttosto un lungimirante imprenditore, pieno di entusiasmo e di positive risorse, che aveva già evitato la vendita dell’Agip negli anni Quaranta. Mattei proponeva ai paesi arabi ed africani (principali produttori di greggio) condizioni più vantaggiose rispetto a quelle proposte dai trust anglo-americani del petrolio, mettendosi quindi in aperta competizione con le cosiddette ‘sette sorelle’, ovvero con le potenti multinazionali nella cui orbita atlantica Cefis voleva invece ricondurre l’economia della nostra nazione. Tuttavia, fu un capitolo in particolare, intitolato ‘Lampi su Eni’, che venne indicato come probabile movente della morte dello scrittore. Il 2 marzo 2010 il senatore Marcello Dell’Utri (all’epoca ancora in attesa di sentenza definitiva) sostenne, durante una conferenza stampa, di aver visto coi suoi occhi le pagine in questione, che si riteneva non fossero mai state scritte, e nelle quali sarebbero state fornite informazioni più specifiche sull’omicidio Mattei. Aggiunse che questo capitolo, altrimenti detto ‘appunto 21’, sarebbe stato sottratto dallo studio di Pasolini, ed avrebbe fatto la sua comparsa, nei giorni a venire, alla XXI fiera milanese del libro antico. Anche se questo in realtà non avvenne, su iniziativa dell’onorevole Walter Veltroni (il quale scrisse una lettera aperta all’allora ministro della giustizia Angelino Alfano) un nuovo fascicolo venne aperto sul caso Pasolini. Tuttavia, nulla di nuovo emerse a riguardo, anche se i legami di Cefis con la loggia massonica della P2 (che era implicata in quella ‘strategia della tensione’ della quale Pasolini parlava senza remore) davano adito ad altri nuovi ed inquietanti scenari.

Il movente giornalistico: il coraggio “corsaro”. Comprendere il delitto Pasolini é quindi impossibile se si prescinde dall’ideologia dello scrittore, che viene apertamente espressa nei suoi Scritti corsari (1972) dove, senza troppa arte diplomatica, vengono compiute dissacratorie incursioni nel mondo politico-istituzionale, ed anche nella società nel suo complesso. In questi scritti (che raccolgono soprattutto gli articoli giornalistici che Pasolini scrisse per il Corriere della Sera ed Il Tempo) la marxista critica al capitalismo (ed il conseguente rimpianto per la civiltà pre-industriale) vengono espressi in modo unico ed originale, sia per lo stile (assolutamente chiaro, lineare, coerente, inequivocabile) e sia per i costanti riferimenti alla propria esperienza. Pasolini traspone in schietti pensieri teorici (ed anche in polemici commenti) le sue personali e soggettive impressioni, i dettagli e le situazioni che vede e vive intorno a sé. Questi scritti sono quindi corsari sia per la coraggiosa genuinità dell’autore e sia perché evocano, seppur indirettamente, un mondo romanzesco ed avventuroso, creato per appassionare le giovani generazioni. Pasolini evidenzia come, negli anni Settanta, i giovani abbiano invece perso ogni vitale entusiasmo, ogni segno particolare, e si siano borghesemente omologati.  Nella sua tendenza a contrapporre i tempi, Pasolini rievoca i capelloni degli anni Sessanta, che nulla avevano a che fare con quelli del decennio seguente, che hanno ormai perso la potenzialità semantica dei loro gesti ed atteggiamenti, ed anche ogni espressività e coloritura gergale. Secondo l’autore, si é dunque verificata una ‘mutazione antropologica’, poiché i giovani, nella loro ‘ansiosa volontà di uniformarsi’, non solo sono diventati simili nella loro ‘sottocultura’ esteriore, ma anche nel modo di parlare e di pensare (dal centro alla periferia, dal nord al sud, dallo studente all’operaio), cosicché anche le ideologie si confondono, ‘secondo un codice interclassista’. Pasolini ritiene che il maggior errore delle nuove generazioni sia stato quello di non aver mantenuto un dialogo coi loro padri, e quindi di non aver potuto (dialetticamente e non solo) superare i loro limiti, le loro colpe. Lo spirito di ribellione ha spinto i giovani a mettersi nelle mani di un ‘nuovo fascismo’ (definito consumistico-edonistico) assai peggiore del precedente, poiché deforma sottilmente le coscienze e mercifica i corpi. Per Pasolini, il fascismo mussoliniano dei padri era un fenomeno soprattutto ‘pagliaccesco’, poiché una volta tolte le uniformi e le divise tutti tornavano identici a prima, coi loro stessi valori e le loro stesse idee. Questo tipo di fascismo diventa per lui anche archeologico, poiché gli obsoleti comizi in piazza nulla avevano a che fare coi messaggi pubblicitari del nuovo bombardamento ideologico televisivo, che si instilla nell’anima in modo subdolo, imponendosi nel profondo: E’ in Carosello onnipotente che esplode in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, la sua perentorietà il nuovo tipo di vita che gli italiani ‘devono’ vivere (Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, ed. Garzanti, 2015, p. 59). Pasolini riteneva che la manipolazione pubblicitaria rappresentasse la fine del linguaggio umanistico, e quindi che un nuovo modo di esprimersi (tecnico, pragmatico, standard) stesse prendendo piede. Lo slogan Jeans Jesus. Non avrai altri jeans all’infuori di me esemplifica il modo in cui la nuova civiltà ‘consumistica-edonistica’ ha strumentalizzato quella dimensione spirituale che prima apparteneva alla Chiesa. Seppur per Pasolini quest’ultima non sia incolpevole nella sua opulenza e nella sua lunga storia di potere, non merita comunque di venire spodestata da una tirannia che non ha alcun rispetto per quel messaggio che egli stesso volle rappresentare, in tutta la sua sublime semplicità, nel film Il Vangelo secondo Matteo (1964). Per Pasolini i giovani stanno dunque vivendo il più repressivo totalitarismo che si sia mai visto, poiché l’apparente libertà democratica che si respira non è stata ottenuta attraverso una rivoluzione popolare (come è avvenuto, ad esempio, nella Russia del 1917) ma è stata imposta dall’alto coi suoi modelli da seguire: Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo (idem, p.60). Se il mondo contadino pre-industriale si basava su necessità primarie (come il pane che era già una benedizione ad averlo) la nuova società dei consumi, nel suo bisogno di perseguire il superfluo, non solo ha immiserito il paesaggio circostante (nel quale sono ormai scomparse le lucciole) ma anche la capacità di recepire, di sentire. Se quest’ultima fosse rimasta intatta, anche ‘una Seicento o un frigorifero, oppure un week-end ad Ostia’ potrebbero essere interpretati con poesia e passione, nello stesso modo in cui Leopardi interiorizzava ‘la natura e l’umanità nella loro purezza ideale’. Pasolini amava profondamente quel senso di ingenua spensieratezza che caratterizzava i non acculturati, e che ora vede soltanto umiliati. Simbolo di questa antica felicità dei ragazzi del popolo diviene il garzoncello del fornaio: Una volta il fornarino, o cascherino-come lo chiamiamo qui a Roma-era sempre, eternamente allegro: un’allegria vera, che gli sprizzava dagli occhi. Se ne andava in giro per le strade fischiettando e lanciando motti. La sua vitalità era irresistibile. Era vestito molto più poveramente di adesso: i calzoni erano rattoppati, addirittura spesse volte la camicia uno straccio. Però tutto ciò faceva parte di un modello che nella sua borgata aveva un valore, un senso. Ed egli ne era fiero. Al mondo della ricchezza egli aveva da opporre un proprio mondo altrettanto valido. Giungeva nella casa del ricco con un riso naturaliter anarchico, che screditava tutto: benché egli fosse magari rispettoso. Ma era appunto il rispetto di una persona profondamente estranea. E insomma, ciò che conta questa persona, questo ragazzo, era allegro. (idem, p.61). Secondo Pasolini, anche lo stragismo di quegli anni (fra cui l’attentato di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969) è espressione della nevrosi che deriva dal conformismo. Per Pasolini i veri responsabili degli atti terroristici non erano dei giovani sbandati e senza validi punti di riferimento, ma semmai il sistema governativo nel suo complesso, poiché il fatto stesso di far parte del tessuto politico implica il corrompersi, il divenire conniventi. Pasolini, nel famoso articolo del 1974 Che cos’è questo golpe? afferma di conoscere i nomi dei veri responsabili delle stragi, ma di non poterli rivelare poiché (in quanto personalità estranea ai giochi di potere) non ha ‘né prove né indizi’, ma solo la certezza del suo intuito di uomo intellettuale, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentati di un intero quadro politico (idem, p.89). Pasolini riconduceva il termine stragismo anche alla pratica dell’aborto, che ritiene una tragedia demografica ecologica, ovvero uno minaccia alla sopravvivenza dell’umanità. Pasolini evidenzia che nell’ambito del ‘nuovo fascismo’ un figlio che nasce non è più considerato un dono di Dio, ma soltanto un fastidio, poiché prevale il timore dell’essere in troppi nella spartizione dei beni di consumo. Piuttosto che rinunciare ai propri capricci, si preferisce eliminare chi è più debole ed indifeso. Per Pasolini l’aborto è una colpa morale, un qualcosa che riguarda non la politica ma la coscienza individuale. La logica dell’eugenetica non ha nulla a che fare con la democraticità dello stato prenatale, con la sua piena ed incondizionata aderenza alla vita: Non c’è nessuna buona ragione pratica che giustifichi la soppressione di un essere umano, sia pure nei primi stadi della sua evoluzione. Io so che in nessun altro fenomeno dell’esistenza c’è un altrettanto furibonda, totale essenziale volontà di vita che nel feto. La sua ansia di attuare la propria potenzialità, ripercorrendo fulmineamente la storia del genere umano, ha un qualcosa di irresistibile e perciò di assoluto e gioioso. (idem, p.111).  Sono parecchi gli articoli in cui Pasolini permalosamente se la prende coi suoi critici o detrattori, e che sono, a loro volta, intellettuali (spesso di sinistra come lui) e anche di tutto rispetto, come ad esempio Umberto Eco, Giorgio Bocca, Italo Calvino, Giuseppe Prezzolini, Franco Rodano, Maurizio Ferrara. Secondo Pasolini, anche il mondo intellettuale era chiuso nel suo ristretto snobismo: Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale.  Lo so perché in parte è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente per bene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio (idem, p.52). Per Pasolini l’unico suo vero impegno diviene quello preso col lettore, che ritiene all’altezza di accettarlo nel bene e nel male, di accompagnarlo nelle sue più smodate ed indomite incursioni: Io non  ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla e dal non averla mai voluta; dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non essere fedele a nessun patto che non sia quello di un lettore che io considero del resto degno di ogni più scandalosa ricerca (idem, p.83).

Alberto Moravia, durante la celebre orazione funebre in onore di Pasolini, mise in evidenza che era stato innanzi tutto perso un poeta, ovvero un qualcuno che nasce di rado nel corso dei secoli.

"<…> Piange ciò che ha

fine e ricomincia. Ciò che era

area erbosa, aperto spiazzo, e si fa

cortile, bianco come cera,

chiuso in un decoro ch’é rancore;

ciò che era quasi una vecchia fiera

di freschi intonachi sghembi al sole,

e si fa nuovo isolato, brulicante

in un ordine ch’é spento dolore.

Piange ciò che muta, anche

per farsi migliore. La luce

del futuro non cessa un solo istante

di ferirci: é qui, che brucia

in ogni nostro atto quotidiano,

angoscia anche nella fiducia

che ci dà vita, nell’impeto gobettiano

verso questi operai, che muti innalzano,

nel rione dell’altro fronte umano,

il loro rosso straccio di speranza."

(Pier Paolo Pasolini Il pianto della scavatrice, 1956) 

Ninetto Davoli: "Il mio Totò segreto". I ricordi dell'attore che recitò negli ultimi film del Principe girati da Pasolini: "Pier Paolo mi disse che avrebbe potuto superare Chaplin", scrive Ilaria Urbani il 14 aprile 2017 su “La Repubblica”. "Totò senta...". "Dite Pasolini...". "Antonio si sciolga, faccia una "totolata"". Gli sembra ancora di averli davanti agli occhi sul set di "Uccellacci e uccellini". Ninetto Davoli, dopo mezzo secolo, ha ancora vivido il ricordo del confronto tra la più grande maschera del '900 e il regista corsaro. E nel racconto dell'ex ragazzo di borgata della baraccopoli Borghetto Prenestino, scoperto da Ppp, sembra di rivedere anche padre e figlio Innocenti in quell'infinito cammino in bianco e nero sul set di una pellicola considerata dallo stesso Pasolini "disarmata, fragile". E di ritrovare pure frate Ciccillo e frate Ninetto. Davoli, dalle borgate al set del capolavoro poetico e picaresco, svolta colta nella carriera del Principe. Un incontro epifanico con quell'attore che Ninetto fino ad allora vedeva al cinema con gli amici. Un sodalizio che proseguì ne "La terra vista dalla luna" da "Le streghe" e in "Che cosa sono le nuvole?", dal film ""Capriccio all'italiana", l'ultimo girato da Totò prima di morire il 15 aprile 1967.

Davoli, cosa ha significato per lei Totò?

"Avevo 16 anni, Totò è stato fondamentale per iniziare quest'avventura, mi ha incoraggiato davanti alla cinepresa, ha alleggerito questa esperienza. Successe tutto all'improvviso, era così surreale trovarmi a recitare con il grande Totò, uno che andavo a vedere al cinema come Stanlio e Ollio. Ma questa volta non dovevo pagare per vederlo, era lì con me, ed ero pagato per recitare con lui. Mi davano 100mila lire, a uno povero come me. Facevo il falegname, a casa eravamo in sei in una sola stanza, vivevamo con 5mila lire alla settimana".

Totò come si rapportava sul set con questo giovane esordiente?

"Come me veniva dalla povertà, lui dai quartieri scalcinati di Napoli, io dalle borgate romane, ideologicamente la pensavamo uguale. Il nostro fu uno scambio di semplicità, una vera complicità. Secondo Pier Paolo ci somigliavamo. Considerava Totò uno di strada come me, un non -intellettuale, anche se lo rispettava molto, gli dava del lei: "Totò senta", "Antonio ascolti"... ".

E Totò nei confronti di Pasolini?

"Anche Totò gli dava del voi: era intimorito da Pier Paolo, non improvvisava come faceva in genere, ma rispettava la sceneggiatura. Pier Paolo gli diceva: Antonio si sciolga, faccia una "totolata". C'era grande stima".

Pasolini racconta di aver scelto Totò per quella perfetta armonia tra l'assurdità clownesca tipica delle favole e l'immensamente umano...

"A Pier Paolo piacevano i film di Totò e diceva che avrebbe potuto superare Charlie Chaplin se l'avessero saputo "usare meglio", nel senso se avesse fatto più film d'autore".

Nel '66 Pasolini scrisse un film sull'utopia, "Le avventure del Re magio randagio", che lei doveva interpretare con Totò, ma poi non si fece in tempo e che poi ha ispirato un film di Sergio Citti...

 "Sì, ma quella di Pier Paolo era una storia diversa, non c'entra con quella di Citti. Totò doveva essere il Re magio e io il suo aiutante. Con un dono partivamo da Napoli alla ricerca di Cristo che stava per nascere. Attraversavamo Roma, Milano, Parigi, New York e poi arrivavamo a Betlemme, ma trovavamo Cristo già morto. Dopo la scomparsa di Totò, Pasolini voleva Eduardo (il titolo diventò "Porno-Teo-Kolossal", ndr), ma poi è successo quello che è successo...".

Oggi chi è in grado di raccogliere l'eredità di Totò e Pasolini?

"Non esiste nessuno con quella potenza e quel coraggio. Totò e Pier Paolo vengono celebrati soprattutto da morti, ricordiamo che Totò veniva massacrato dai critici. Sono accomunati da un destino simile. Trovo giusto celebrare Totò a 50 anni dalla morte, ma mi chiedo perché non prima? Totò andrebbe studiato di più nelle scuole, così come Pier Paolo ed Eduardo".

Totò. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Al mio funerale sarà bello assai perché ci saranno parole, paroloni, elogi, mi scopriranno un grande attore: perché questo è un bellissimo Paese, in cui però per venire riconosciuti in qualcosa, bisogna morire.» (Franca Faldini, citando le parole del compagno Totò). «Ma mi faccia il piacere!», « ... bazzecole, quisquilie, pinzellacchere!» (Modi di dire di Totò).

Antonio De Curtis, in arte Totò. Totò, pseudonimo di Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfiro-genito Gagliardi de Curtis di Bisanzio (brevemente Antonio de Curtis) (Napoli, 15 febbraio 1898 – Roma, 15 aprile 1967), è stato un artista italiano. Attore simbolo dello spettacolo comico in Italia, soprannominato «il principe della risata», è considerato, anche in virtù di alcuni ruoli drammatici, uno dei maggiori interpreti nella storia del teatro e del cinema italiani. Si distinse anche al di fuori della recitazione, lasciando contributi come drammaturgo, poeta, paroliere, cantante. Nato Antonio Vincenzo Stefano Clemente da Anna Clemente (Palermo, 2 gennaio 1881 - Napoli, 23 ottobre 1947) e dal marchese Giuseppe De Curtis (Napoli, 12 agosto 1873 - Roma, 29 settembre 1944), fu adottato nel 1933 dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas di Tertiveri. Maschera nel solco della tradizione della commedia dell'arte, accostato a comici come Buster Keaton e Charlie Chaplin, ma anche ai fratelli Marx e a Ettore Petrolini. In quasi cinquant'anni di carriera spaziò dal teatro (con oltre 50 titoli) al cinema (con 97 pellicole) e alla televisione (con 9 telefilm e vari sketch pubblicitari), lavorando con molti tra i più noti protagonisti dello spettacolo italiano e arrivando a sovrastare con numerosi suoi film i record d'incassi. Adoperò una propria unicità interpretativa, che risaltava sia in copioni puramente brillanti sia in parti più impegnate, sulle quali si orientò soprattutto verso l'ultima fase della sua vita, che concluse in condizioni di quasi cecità a causa di una grave forma di corioretinite, probabilmente aggravata dalla lunga esposizione ai fari di scena. Spesso stroncato dalla maggior parte dei critici cinematografici, fu ampiamente rivalutato dopo la morte, tanto da risultare ancor oggi il comico italiano più popolare di sempre. Franca Faldini, sua compagna, diventata giornalista e scrittrice dopo la morte dell'attore, scrisse nel 1977 il libro Totò: l'uomo e la maschera, realizzato insieme a Goffredo Fofi, in cui raccontò sia il profilo artistico sia la vita dell'attore fuori dal set, con l'intento principale di smentire alcune false affermazioni riportate da scrittori e giornalisti riguardo alla sua personalità.

Totò nacque il 15 febbraio 1898 nel rione Sanità (un quartiere considerato il centro della “guapperia” napoletana), in via Santa Maria Antesaecula al secondo piano del civico 109, da una relazione clandestina di Anna Clemente con Giuseppe De Curtis che, in principio, per tenere segreto il legame, non lo riconobbe, risultando dunque per l'anagrafe "Antonio Clemente, figlio di Anna Clemente e di N.N." Nato Antonio Clemente, ma conosciuto nel suo quartiere con il nomignolo di "Totò", che gli fu attribuito dalla madre. 

Il marchese Giuseppe De Curtis, il padre di Totò che, inizialmente, non lo riconobbe come figlio naturale.

Anna Clemente, la madre, che tentò di introdurlo come sacerdote. «Meglio ‘nu figlio prevete ca ‘nu figlio artista», affermava.

Solitario e di indole malinconica, crebbe in condizioni estremamente disagiate e fin da bambino dimostrò una forte vocazione artistica che gli impediva di dedicarsi allo studio, cosicché dalla quarta elementare fu retrocesso in terza. Ciò non creò in lui molto imbarazzo, anzi intratteneva spesso i suoi compagni di classe con piccole recite, esibendosi con smorfie e battute. Il bambino riempiva spesso le sue giornate osservando di nascosto le persone, in particolare quelle che gli apparivano più eccentriche, cercando di imitarne i movimenti, e facendosi attribuire così il nomignolo di «'o spione». Questo suo curioso metodo di "studio" lo aiutò molto per la caratterizzazione di alcuni personaggi interpretati durante la sua carriera.

Terminate le elementari, venne iscritto al collegio Cimino, dove per un banale incidente con uno dei precettori, che lo colpì involontariamente con un pugno, il suo viso subì una particolare conformazione del naso e del mento; un episodio che caratterizzò in parte la sua "maschera". Nel collegio non fece progressi, decise di abbandonare prematuramente gli studi senza ottenere perciò la licenza ginnasiale. La madre lo voleva sacerdote, in un primo tempo dovette quindi frequentare la parrocchia come chierichetto, ma incoraggiato dai primi piccoli successi nelle recite in famiglia (chiamate a Napoli «periodiche») e attratto dagli spettacoli di varietà, nel 1913, ancora in età giovanissima, iniziò a frequentare i teatrini periferici esibendosi – con lo pseudonimo di "Clerment" – in macchiette e imitazioni del repertorio di Gustavo De Marco, un interprete napoletano dalla grande mimica e dalle movenze snodate, simili a quelle d'un burattino. Proprio su quei palcoscenici di periferia incontrò attori come Eduardo De Filippo, Peppino De Filippo e i musicisti Cesare Andrea Bixio e Armando Fragna.

Durante gli anni della prima guerra mondiale si arruolò volontario nel Regio Esercito venendo assegnato al 22º Reggimento fanteria, rimanendo di stanza dapprima a Pisa e poi a Pescia. Venne quindi trasferito al CLXXXII Battaglione di milizia territoriale, unità di stanza in Piemonte, ma destinate a partire per il fronte francese. Alla stazione di Alessandria, il comandante del suo battaglione lo armò di coltello e lo avvertì che avrebbe dovuto condividere i propri alloggiamenti in treno con un reparto di soldati marocchini dalle strane e temute abitudini sessuali. Totò a quel punto, terrorizzato, fu colto da malore (secondo alcune voci improvvisò un attacco epilettico) e venne ricoverato nel locale ospedale militare, evitando così di partire per la Francia. Rimasto in osservazione per breve tempo, quando fu dimesso dalle cure ospedaliere venne inserito nell'88º Reggimento fanteria "Friuli" di stanza a Livorno; proprio in quel periodo subì continui soprusi e umiliazioni da parte di un graduato; da quell'esperienza nacque il celebre motto dell'attore: «Siamo uomini o caporali?».

Dopo il servizio militare avrebbe dovuto fare l'ufficiale di marina, ma, non digerendo la disciplina, scappò di casa per esibirsi ancora come macchiettista; venne scritturato dall'impresario Eduardo D'Acierno (diventò poi celebre la macchietta de Il bel Ciccillo, riproposta nel 1949 nel film Yvonne la nuit) e ottenne un primo successo alla Sala Napoli, locale minore del capoluogo campano, con una parodia della canzone di E. A. Mario Vipera, intitolata Vicolo, che aveva sentito recitare al Teatro Orfeo dall'attore Nino Taranto, al quale chiese se poteva "rubargliela".

All'inizio degli anni Venti il marchese Giuseppe De Curtis riconobbe Totò come figlio e regolarizzò la situazione familiare sposandone la madre. Riunita, la famiglia si trasferì a Roma, ove Totò, con la disapprovazione totale dei genitori, fu scritturato come "straordinario" - cioè un elemento da utilizzare occasionalmente e senza nessun compenso - nella compagnia dell'impresario Umberto Capece, un reparto composto da attori scadenti e negligenti. Si affacciò così alla commedia dell'arte e guadagnò un particolare apprezzamento del pubblico impersonando sul palco l'antagonista di Pulcinella. Tuttavia, il giovane si sacrificava non poco per raggiungere il teatro: dal momento che non aveva i soldi neanche per un biglietto del tram, doveva partire da Piazza Indipendenza per arrivare a Piazza Risorgimento, che si trovava dall'altra parte della città; a tal proposito, nella stagione invernale, chiese qualche moneta all'impresario Capece che, in modo esageratamente brusco e inaspettato, lo esonerò e lo sostituì all'istante con un altro "straordinario". L'episodio fu un duro colpo per Totò, che rimase esterrefatto e dopo aver raccolto i suoi effetti si allontanò a malincuore dal teatro.

In quel breve periodo di disoccupazione Totò piombò nello sconforto totale ed il suo morale si alzava solo quando riusciva a racimolare qualche soldo esibendosi in piccoli locali; nel corso di quelle esperienze, decise di puntare al genere teatrale a lui più congeniale: il varietà (variété, nella declinazione francese). Progettò di presentarsi al capocomico napoletano Francesco De Marco (famoso per delle stravaganti esibizioni teatrali), ma all'ultimo minuto ebbe un ripensamento, probabilmente a causa dell'insicurezza. L'attore iniziò a ponderare l'idea di esibirsi da solo e dunque decise di mantenere come modello d'ispirazione Gustavo De Marco (omonimo, ma non parente del capocomico Francesco), che Totò, esercitandosi davanti allo specchio, riusciva ad imitare senza particolari sforzi. Appena sentitosi pronto, decise di tentare al Teatro Ambra Jovinelli, che al tempo era la massima rappresentazione dello spettacolo di varietà, dove erano passati artisti come Ettore Petrolini, Raffaele Viviani, Armando Gill, Gennaro Pasquariello, Alfredo Bambi e lo stesso De Marco. Emotivamente teso, si presentò al titolare del teatro, Giuseppe Jovinelli, un uomo rude conosciuto e rispettato per un suo passato scontro con un piccolo boss della malavita locale. Il breve colloquio andò inaspettatamente bene e Totò, per sua gioia e incredulità, venne preso. Debuttò con tre macchiette di De Marco: Il bel Ciccillo, Vipera e Il Paraguay, che ebbero un buon successo di pubblico e un impensabile entusiasmo da parte di Jovinelli. Il comico firmò un contratto prolungato col titolare, che lo usò spesso in varie parti dello spettacolo e che organizzò addirittura un finto match tra lui e il pugile Oddo Ferretti. Il consenso del pubblico ottenuto al teatro non compensava però lo stile di vita dell'artista: la paga era molto bassa e non poteva neanche permettersi abiti eleganti e accessori raffinati (ai quali lui teneva molto) o un taglio di capelli caratteristico, con le basette come quelle di Rodolfo Valentino. In quell'arco di tempo fece appunto amicizia con un barbiere, Pasqualino, il quale, avendo conoscenze in campo teatrale e impietosito dalle ristrettezze economiche del giovane, riuscì a farlo scritturare da Salvatore Cataldi e Wolfango Cavaniglia, i proprietari del Teatro Sala Umberto I. Totò rinnovò il suo corredo teatrale (che fino a quel momento era composto da un singolo abito di scena sempre più consumato): una logora bombetta, un tight troppo largo, una camicia lisa con il colletto basso, una stringa di scarpe per cravatta, un paio di pantaloni corti e larghi a zompafosso, calze colorate e comuni scarpe basse e nere. La sera dell'esordio l'attore diede il meglio di sé, lasciandosi andare in mimiche facciali, piroette, doppi sensi e le immancabili macchiette di Gustavo De Marco. Tra grida di bis ed applausi, l'esperienza al salone Umberto I segnò per Totò l'affermazione definitiva nello spettacolo di varietà.

Tra il 1923 e il 1927 si esibì nei principali caffè-concerto italiani, facendosi conoscere anche a livello nazionale. Grazie ai maggiori guadagni, poté finalmente permettersi di vestire abiti eleganti e di curare maggiormente il suo aspetto fisico, con i capelli impomatati e le desiderate basette alla Rodolfo Valentino; fu un periodo roseo soprattutto per quanto riguarda le donne, con le quali ebbe una serie di avventure (per lo più con sciantose e ballerine), tanto che acquisì presto la fama di vero «sciupafemmene». Prima di iniziare un suo spettacolo, sbirciava sempre tra il pubblico alla ricerca della "bella di turno" alla quale dedicare la sua esibizione, che il più delle volte, dopo varie serate, lo raggiungeva nel suo camerino durante l'intervallo o al termine dello spettacolo.

Nel 1927 fu scritturato da Achille Maresca, titolare di due diverse compagnie; Totò entrò a far parte prima della compagnia di cui era primadonna Isa Bluette, una delle soubrette più in voga del periodo, e poi, dal 1928 di quella di Angela Ippaviz; gli autori erano "Ripp" (Luigi Miaglia) e "Bel Ami" (Anacleto Francini). Nella prima compagnia conobbe Mario Castellani, destinato a diventare in seguito una delle sue "spalle" più fedeli ed apprezzate. Nel 1929, mentre si trovava a La Spezia con la compagnia di Achille Maresca, venne contattato dal barone Vincenzo Scala, il titolare del botteghino del teatro Nuovo di Napoli, che fu mandato dall'impresario Eugenio Aulicio per scritturarlo come "vedette" in alcun spettacoli di Mario Mangini e di Eduardo Scarpetta, tra cui Miseria e nobiltà, Messalina e I tre moschettieri (dove impersonò d'Artagnan), accanto a Titina De Filippo. Messalina rimase particolarmente impresso negli occhi del pubblico, in quanto Totò improvvisò una scenetta in cui si arrampicò su per il sipario e fece smorfie e sberleffi agli spettatori, i quali andarono totalmente in visibilio.

Le soddisfazioni professionali dell'attore non andavano però di pari passo con quelle sentimentali. Nonostante il suo successo con le donne e le numerose avventure, si sentiva inappagato. Fino a quando non irruppe nella sua vita Liliana Castagnola, che Totò vide su alcune fotografie in un provocante abito di scena, rimanendone subito colpito. La sciantosa, fino a quel momento, era stata costante oggetto delle cronache mondane: fu espulsa dalla Francia con l'accusa di aver indotto due marinai al duello, e un suo amante geloso si tolse la vita dopo averle sparato due colpi di pistola, uno dei quali l'aveva ferita al viso lasciandole un frammento di proiettile che le causava forti dolori e per i quali assumeva tranquillanti. A causa della cicatrice, sebbene lieve, ella adottò la pettinatura "a caschetto" che le copriva guance e fronte. La donna giunse a Napoli nel dicembre 1929, scritturata dal Teatro Nuovo, e incuriosita dal veder recitare l'artista napoletano si presentò una sera ad un suo spettacolo. Totò non si lasciò sfuggire l'occasione e iniziò a corteggiarla mandandole, alla pensione degli artisti dove lei abitava, mazzi di rose con un biglietto d'ammirazione, al quale lei rispose con una lettera d'invito. Furono questi gli inizi di un'intensa (seppur breve e tormentata) storia d'amore. Sebbene fosse una donna fatale sia sul palcoscenico sia nella vita reale, la Castagnola aveva per l'artista napoletano un sentimento sincero e passionale, cercando una relazione stabile e sicura. Dopo il primo periodo iniziarono i problemi legati alla gelosia: Totò non sopportava l'idea che Liliana, durante le sue tournée, fosse corteggiata dagli ammiratori e questo lo portò a temere eventuali tradimenti, situazione che diede origine a continui litigi. Entrambi furono poi vittime di malelingue e pettegolezzi, la donna entrò in un profondo stato di depressione e la loro relazione si deteriorò. Liliana, accrescendo un senso di attaccamento morboso al suo uomo, pur di restargli accanto propose di farsi scritturare nella sua stessa compagnia; ma Totò, sentendosi oppresso dal comportamento della donna, fu più volte sull'orlo di lasciarla, fino a quando decise di accettare un contratto con la compagnia della soubrette "Cabiria", che lo avrebbe portato a Padova.

L'epilogo fu che Liliana, sentitasi abbandonata dall'amato, si suicidò ingerendo un intero tubetto di sonniferi. Fu trovata morta nella sua stanza d'albergo, con al suo fianco una lettera d'addio a Totò: «Antonio, potrai dare a mia sorella Gina tutta la roba che lascio in questa pensione. Meglio che se la goda lei, anziché chi mai mi ha voluto bene. Perché non sei voluto venire a salutarmi per l'ultima volta? Scortese, omaccio! Mi hai fatto felice o infelice? Non so. In questo momento mi trema la mano... Ah, se mi fossi vicino! Mi salveresti, è vero? Antonio, sono calma come non mai. Grazie del sorriso che hai saputo dare alla mia vita grigia e disgraziata. Non guarderò più nessuno. Te l'ho giurato e mantengo. Stasera, rientrando, un gattaccio nero mi è passato dinnanzi. E, ora, mentre scrivo, un altro gatto nero, giù per la strada, miagola in continuazione. Che stupida coincidenza, è vero?... Addio. Lilia tua»

Totò, che ritrovò il corpo esanime della donna il mattino seguente, ne rimase sconvolto: il peso della responsabilità, il non aver capito l'intensità dei sentimenti di lei e i rimorsi per aver pensato «ha avuto molti uomini, posso averla senza assumermi alcuna responsabilità», lo accompagnarono per tutta la vita, tanto che decise di seppellirla nella cappella dei De Curtis a Napoli, nella tomba sopra la sua, e decretò che, qualora avesse avuto una figlia, invece di battezzarla col nome della nonna paterna Anna (secondo l'uso napoletano), le avrebbe dato il nome di Liliana, cosa che poi effettivamente fece con la figlia Liliana De Curtis. Totò volle inoltre conservare un fazzoletto intriso di rimmel che raccolse la mattina del ritrovamento del corpo di Liliana, con il quale probabilmente ella si asciugò le lacrime in attesa della morte. In merito all'impegno già preso, la sera stessa partì per la tournée con la compagnia a Padova. Era il marzo del 1930. Tornato a Roma il mese successivo, si esibì nuovamente in numerosi spettacoli alla Sala Umberto I, dove ripropose il suo repertorio di macchiette e nuove creazioni, impersonando anche Charlot, come umile omaggio a Chaplin. Tornò poi a lavorare con l'impresario Maresca, dove iniziò una nuova tournée riproponendo i successi degli anni precedenti. Sempre nel 1930, anno dell'avvento del sonoro, Stefano Pittaluga, che produsse con la Cines La canzone dell'amore (il primo film italiano sonoro), era alla ricerca di nuovi volti da portare sul grande schermo. Le doti comiche di Totò non gli sfuggirono e dato che era in procinto di produrre un film, chiamato Il ladro disgraziato, gli fece fare un provino. La pellicola non vide mai la luce, anche per il fatto che il regista avrebbe voluto che Totò imitasse Buster Keaton, idea che all'attore non garbava. Momentaneamente accantonata l'eventualità di entrare nel cinema, nel 1932 diventò capocomico di una propria formazione, proponendosi nell'avanspettacolo, un genere teatrale che continuò a diffondersi in Italia fino al 1940. In tournée a Firenze conobbe l'allora sedicenne Diana Rogliani (la giovane età della ragazza suscitò inizialmente qualche riluttanza da parte di Totò, dalla quale ebbe una figlia che, in onore della compianta Castagnola, battezzò Liliana. Gli anni Trenta furono un periodo di grandi successi per il comico che, malgrado il guadagno non molto alto, si sentiva affermato: portò in scena, insieme alla sua prima spalla Guglielmo Inglese (più avanti fu Eduardo Passarelli), numerosi spettacoli in tutta Italia. Sulla traccia di copioni spesso approssimativi, Totò ebbe modo di dare sfogo alle risorse creative della sua comicità surreale, con mimiche grottesche e deformazioni/invenzioni linguistiche, interpretando anche Don Chisciotte e travestendosi addirittura da soubrette; imparò così l'arte dei guitti, ossia quegli attori che recitavano senza un copione ben impostato (molte macchiette le ripropose poi nel suo repertorio cinematografico: "Il pazzo", "Il chirurgo", "Il manichino”), arte alla quale Totò aggiunse caratteristiche tutte sue, pronto a sbeffeggiare i potenti quanto a esaltare i bisogni e gli istinti umani primari: la fame, la sessualità, la salute mentale. Naturalmente, come si confà allo stile di Totò, tutto espresso con distinti doppi sensi senza mai trascendere nella volgarità. A plasmare questa sua forma d'espressione, fu il fatto di aver vissuto per anni in povertà, difatti lui stesso era del pensiero che "la miseria è il copione della vera comicità..." che "non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita". Acquisì quindi una sua originale personalità recitativa, diventando uno dei maggiori protagonisti della stagione dell'avanspettacolo.

Nel 1933 si fece adottare dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, per ereditarne così la lunga serie di titoli nobiliari. L'anno successivo mise su casa a Roma insieme alla figlia Liliana e alla compagna Diana Rogliani (per la quale nutriva un'ossessiva gelosia), che sposò nell'aprile del 1935. Fu in quel periodo che alcune personalità importanti tentarono di imporlo nel cinema: tra di loro Umberto Barbaro e Cesare Zavattini, che cercò infatti di inserirlo nella parte di “Blim" nel film Darò un milione di Mario Camerini - ruolo andato poi a Luigi Almirante. Non realizzandosi questi progetti, il vero debutto avvenne nel 1937 con Fermo con le mani!: il produttore Gustavo Lombardo, fondatore della Titanus, scritturò Totò dopo averlo notato mentre era a pranzo in un ristorante di Roma. La direzione fu affidata al regista Gero Zambuto. Il film però non ebbe gran successo; concepito con mezzi molto scarsi, l'intenzione primaria era proporre al pubblico italiano un'alternativa del personaggio di Charlot, di Chaplin. Nel 1938 Totò fu vittima di un infortunio: ebbe un distacco di retina traumatico e perse la vista dell'occhio sinistro, cosa di cui erano al corrente soltanto i familiari stretti e l'amico Mario Castellani. Nonostante l'incidente, trovò la forza di riaffacciarsi per un breve periodo al teatro d'avanspettacolo, la cui epoca, per lui gloriosa, giunse purtroppo al termine. In quel frattempo, causa il fatto che si sentiva come soffocato dal matrimonio e causa anche la sua opprimente gelosia nei confronti della giovane consorte (si dice che la tenesse perfino chiusa nel camerino mentre lui si esibiva, la sua vita coniugale entrò in crisi. Decise dunque di ritornare scapolo e si accordò con Diana per la separazione. In Italia non c'era la possibilità di divorzio, così dovettero chiedere lo scioglimento all'estero, in Ungheria, per far sì che fosse poi annullato in Italia. Dopo l'annullamento, i due continuarono comunque a vivere insieme, trasferendosi in Viale dei Parioli, insieme alla figlia e ai genitori di lui.

Dopo Fermo con le mani!, del quale Totò non si ritenne molto soddisfatto, ci fu, nel 1939, un secondo tentativo, che ebbe inizialmente problemi per i costi di produzione: Animali pazzi di Carlo Ludovico Bragaglia, dove Totò interpretò un doppio ruolo. Pure questo suo secondo film non fu del tutto riuscito, sebbene l'attore sfruttò al massimo le sue potenzialità "marionettistiche". Alla fine del 1939, andò in tournée a Massaua e Addis Abeba, in Etiopia, accompagnato da Diana Rogliani, Eduardo Passarelli e la soubrette Clely Fiamma, presentando lo spettacolo 50 milioni... c'è da impazzire!, scritto insieme a Guglielmo Inglese e già mostrato al pubblico italiano anni prima. Una volta rientrato in patria interpretò la sua terza pellicola, San Giovanni decollato, che fu sceneggiata, tra gli altri, da Cesare Zavattini, al quale venne affidata la regia dal produttore Liborio Capitani. Zavattini però non se la sentì e il compito passò ad Amleto Palermi. Il film fu un successo di critica: alcuni commenti sulla rivista Cinema e su L'Espresso elogiarono proprio la recitazione di Totò, la sua capacità espressiva, i suoi giochi di parole e i suoi movimenti snodati. Zavattini, che nutriva ammirazione artistica verso l'attore, scrisse per lui il soggetto Totò il buono, che non diventò mai un film ma servì allo sceneggiatore per la realizzazione del film Miracolo a Milano (1951), di Vittorio De Sica, con il quale instaurò uno dei sodalizi più celebri del neorealismo cinematografico italiano. Il quarto film fu L'allegro fantasma sempre di Amleto Palermi, dove a Totò vennero affidati tre ruoli differenti. Girato nell'autunno del 1940 (uscito poi a ottobre del '41), fu l'ultimo film che interpretò prima del suo ritorno a teatro.

Questi primi esperimenti cinematografici surreali non ottennero il successo di pubblico che Totò aveva invece sul palcoscenico. Quando tornò a teatro, alla fine del 1940, l'avanspettacolo era già tramontato, sostituito dalla "rivista", un genere teatrale sorto a Parigi e dal carattere (almeno nel primo periodo) esclusivamente satirico - per quanto concesso dal regime fascista - presentato sotto forma di azioni sceniche ricche di allusioni e di accenni piccanti. In quel periodo l'Italia era da poco entrata in guerra e la ferrea censura del fascismo era attentissima a qualsiasi battuta ambigua o accenno negativo sul Governo di Mussolini. Totò debuttò al teatro Quattro Fontane di Roma insieme a Mario Castellani (da quel momento la sua "spalla" ideale) ed Anna Magnani (primadonna), con i quali instaurò un solido rapporto artistico e umano. La rivista era Quando meno te l'aspetti di Michele Galdieri, uno tra i grandi scrittori di riviste teatrali degli anni Quaranta. Totò strinse con Galdieri un sodalizio durato nove anni, con spettacoli scritti anche dall'attore stesso e messi in scena dagli impresari Elio Gigante e Remigio Paone; tra le riviste più note: Quando meno te l'aspetti, Volumineide, Orlando Curioso, Che ti sei messo in testa? e Con un palmo di naso. Causa la guerra, furono tempi difficoltosi anche per il teatro, per la mancanza di mezzi di trasporto, il divieto di circolazione delle auto private e soprattutto per i bombardamenti, in particolare a Milano, dove gli spettacoli venivano spesso interrotti e gli attori erano costretti ad allontanarsi verso il rifugio più vicino, senza avere il tempo di togliersi gli abiti di scena. Fu il periodo in cui Totò venne scritturato dalla Bossoli Film per riaprire una fessura nel cinema e prendere parte ad una nuova pellicola che comprendeva nel cast anche il pugile Primo Carnera, Due cuori fra le belve (ridistribuito dopo la guerra col titolo Totò nella fossa dei leoni), del regista Giorgio Simonelli, che venne girato con animali autentici. Nel maggio del '44, la rivista Che ti sei messo in testa (che avrebbe dovuto chiamarsi Che si son messi in testa?, un chiaro accenno ai tedeschi occupanti) creò problemi al comico napoletano, che dopo le prime rappresentazioni al teatro Valle di Roma, venne dapprima intimorito con una bomba all'entrata dal teatro, poi denunciato dalla polizia, insieme ai fratelli De Filippo, con un telegramma dal Comando Tedesco indirizzato al teatro Principe, che Totò non lesse mai; venne avvertito però da una telefonata anonima. Per evitare l'arresto, Totò, dopo aver allertato i fratelli De Filippo, si rifugiò con la ex moglie Diana e la figlia a casa di un amico in via del Gelsomino nei pressi della via Aurelia, all'estrema periferia ovest di Roma, mentre i De Filippo si nascosero in via Giosuè Borsi. Passati alcuni giorni Totò dovette comunque lasciare l'abitazione, per il fatto che molti suoi ammiratori lo avevano riconosciuto e quindi il nascondiglio non era più sicuro. Tornò a Roma, dove erano rimasti i genitori, e si segregò in casa fino al 4 giugno, il giorno della liberazione della capitale (secondo varie testimonianze avrebbe anche notevolmente contribuito ai finanziamenti della Resistenza romana).

Il 26 giugno riprese a recitare: tornò al teatro Valle con la Magnani nella nuova rivista Con un palmo di naso, in cui diede libero sfogo alla sua satira impersonando il Duce (sotto i panni di Pinocchio), e Hitler, che dissacrò ulteriormente dopo l'attentato del 20 luglio 1944, rappresentandolo in un atteggiamento ridicolo, con un braccio ingessato e i baffetti che gli facevano il solletico, e mandando l'intera platea in estasi. «Io odio i capi, odio le dittature... Durante la guerra rischiai guai seri perché in teatro feci una feroce parodia di Hitler. Non me ne sono mai pentito perché il ridicolo era l'unico mezzo a mia disposizione per contestare quel mostro. Grazie a me, per una sera almeno, la gente rise di lui. Gli feci un gran dispetto, perché il potere odia le risate, se ne sente sminuito.»

Nel 1945, dopo alcune esibizioni nella capitale, a Siena e a Firenze, portando in scena la rivista Imputati, alziamoci! (in cui faceva la caricatura di Napoleone), Totò fu avvicinato al termine dello spettacolo da un partigiano che, indispettito da una sua battuta di risposta che accomunava ironicamente fascisti e partigiani, lo colpì al viso con un pugno. Totò, corso immediatamente al commissariato per denunciare il fatto, decise poi di lasciar correre senza sporgere querela. In quel periodo il sodalizio artistico con Anna Magnani si interruppe, quando l'attrice si rivelò al grande pubblico internazionale interpretando il ruolo della popolana Pina nel film Roma città aperta, diretto dal suo compagno Roberto Rossellini. Totò invece proseguì per la sua strada continuando col cinema e con il teatro e incidendo anche il suo unico disco 78 giri come cantante, interpretando canzoni non sue: Marcello il bello nel lato A e Nel paese dei balocchi - dove venne coadiuvato da Mario Castellani - nel lato B.

Totò fu membro della Loggia massonica "Fulgor" di Napoli dal luglio 1945 e, in seguito, della Loggia "Fulgor Artis" di Roma, da lui stesso fondata. Entrambe le Logge appartenevano alla "Serenissima Gran Loggia Nazionale Italiana" di Piazza del Gesù. Dopo la morte del padre (avvenuta nel settembre del '44), Giuseppe De Curtis, tra il 1945 e gli anni successivi Totò alternò teatro e cinematografia, dedicandosi anche alla creazione di canzoni e poesie, ma anche ad una buona lettura, diligendo in particolar modo Luigi Pirandello. Interpretò la sua sesta pellicola, Il ratto delle Sabine, con il regista Mario Bonnard, film che venne accolto da alcune critiche avverse, come quella di Vincenzo Talarico, che stroncò l'attore "augurandosi che rientrasse al più presto nei ranghi del teatro di rivista." Poi ci fu I due orfanelli, scritto da Steno e Agenore Incrocci e diretto da Mario Mattoli, con il quale Totò interpretò altri tre film tra il '47 al '49: Fifa e arena, Totò al giro d'Italia (il primo film in cui compariva il suo nome nel titolo) e I pompieri di Viggiù (tutti di buon successo e incasso); inoltre, era il tempo della rivista C'era una volta il mondo di Galdieri, composta da sketch rimasti famosi, come quello del Vagone letto, con Totò al fianco di Isa Barzizza, la soubrette che debuttò nel film I due orfanelli e che proprio lui volle nella rivista, e Mario Castellani, la fedele "spalla" teatrale che lo accompagnò anche nel cinema, prendendo parte a quasi tutte le sue pellicole proprio per volere di Totò che, quando non c'erano ruoli disponibili, lo imponeva come aiuto-regista. La rivista C'era una volta il mondo ebbe tanto successo che venne presentata anche a Zurigo, recitata in italiano ma acclamata ugualmente dal pubblico svizzero per la genialità comica degli sketch. Spesso gli spettacoli di rivista di Totò si concludevano con la classica "passerella", col comico che correva tra il pubblico con una piuma sulla bombetta, al ritmo della fanfara dei Bersaglieri (scenetta riproposta nel film I pompieri di Viggiù). Nell'ottobre 1947, durante le repliche della rivista, la madre di Totò morì. Malgrado il grande dolore per la perdita di entrambi i genitori, l'attore non mischiò il lavoro con la vita privata, continuando ad essere il comico Totò nello spettacolo e il malinconico Antonio De Curtis al di fuori. Aprì anche una piccola parentesi come doppiatore, prestando la voce al cammello Gobbone nel film La vergine di Tripoli. Prima di riaffacciarsi al cinema, partì per alcune tournée a Barcellona, Madrid e altre città spagnole, dove recitò in spagnolo (senza avere padronanza della lingua) con Mario Castellani nella rivista Entre dos luces (Tra due luci), improvvisando una canzone non-sense a metà tra spagnolo e napoletano. Tornato in Italia, ebbe anche una piccola esperienza nel campo pubblicitario, facendosi fotografare a pagamento sulla rivista Sette che promuoveva i profumi Arbell.

Da quando entrò nel mondo del cinema, gli furono proposti moltissimi film, molti dei quali non venivano nemmeno realizzati, spesso per problemi di produzione o per sua rinuncia. Alcuni venivano girati contemporaneamente, in tempi ristrettissimi (la maggior parte in due o tre settimane) e su set spesso improvvisati, tanto che a volte era proprio la troupe che raggiungeva Totò nelle città in cui recitava a teatro. L'attore, complice la pigrizia, era sempre molto precipitoso quando gli venivano proposti dei progetti, ed essendo profondamente istintivo spesso non voleva conoscere nulla della pellicola che andava ad interpretare, affidandosi quindi alle sue qualità creative. Così, come sul palcoscenico, dava libero sfogo all'improvvisazione: il copione rappresentava solo un timido canovaccio per l'attore, che concepiva sul momento le gag e le battute; così tuttavia nacquero anche alcune delle sue scene cinematografiche più famose. «Era imprevedibile [...] recitava a braccio», testimoniò Nino Taranto; «Certe sue folli improvvisazioni durante la recitazione erano geniali e insostituibili» espresse invece Vittorio De Sica. Secondo alcuni commenti, invece - come quelli di Carlo Croccolo, Giacomo Furia e Steno - Totò si rinchiudeva nel suo camerino a provare e riprovare le sue battute prima dello spettacolo o delle riprese, rileggeva il copione e modificava i passaggi che non lo convincevano, insieme all'amico Mario Castellani e agli attori coinvolti.

Le differenze tra teatro e cinema crearono inizialmente non pochi disordini per l'attore, che, essendosi formato con lo stile teatrale e quindi con un'unica esecuzione dal vivo, dopo i primi ciak tendeva a perdere la concentrazione. Doveva perciò essere colto "al volo" per poter recitare al massimo; quindi la troupe doveva prima preoccuparsi di sistemare le luci e di preparare la scena con una controfigura, facendo anche qualche prova. Quando tutto era pronto, si poteva far intervenire Totò. Un'altra delle differenze tra le due forme d'arte, di cui il comico risentì molto inizialmente, fu il fatto di non riuscire a comunicare direttamente con il pubblico, uno dei particolari che più amava del teatro. Proprio per questo, di solito, i registi (in particolare Bragaglia, con il quale instaurò un solido rapporto artistico) e i membri della troupe lo spronavano dopo lo stop con un applauso, in modo da dargli maggiore carica ed entusiasmo. Un altro inconveniente furono gli orari: Totò, abituato agli orari teatrali, non si alzava mai prima di mezzogiorno, essendo poi un assertore della teoria che l'attore "al mattino non può far ridere”, girava nel cosiddetto orario francese, dalle 13 alle 21. Si stancava poi per le lunghe pause e attese che il cinema comporta, e inoltre, essendo molto superstizioso, si rinchiudeva in casa e non lavorava mai di martedì e di venerdì, 13 o 17. Fattori che creavano non pochi problemi per le riprese. Complicazioni particolari ci furono per Totò al giro d'Italia, dove erano coinvolti molti ciclisti famosi dell'epoca come Bartali, Coppi, Bobet, Magni; l'attore, non arrivando in orario, creava difficoltà. Nella stagione 1949/1950 ottenne l'ultimo successo a teatro con la rivista Bada che ti mangio!, costata ben cinquanta milioni, che debuttò al teatro Nuovo di Milano nel marzo del '49, dopodiché Totò si allontanò dal palcoscenico per dedicarsi esclusivamente al cinema. Dopo I pompieri di Viggiù, lavorò anche con Eduardo De Filippo nel suo film Napoli milionaria, che accettò di interpretare senza compenso, in segno dell'affettuosa amicizia che lo legava ad Eduardo. I due attori, sebbene avessero progettato di realizzare insieme altri film, non ebbero più modo di incontrarsi sul set, apparendo solo in episodi diversi de L'oro di Napoli di Vittorio De Sica ed in un breve cameo ne Il giorno più corto.

Nel 1950 Totò rinunciò alla proposta di avere un ruolo, insieme al francese Fernandel, nel film di produzione italo-francese Atollo K, dove avrebbe avuto l'opportunità di recitare insieme a Stan Laurel e Oliver Hardy, la famosa coppia comica conosciuta in Italia come Stanlio e Ollio.

Tra il 1949 e il 1950, oltre a Napoli milionaria, interpretò ben altri nove film, tra i quali alcune parodie: Totò le Mokò, Totò cerca moglie, Figaro qua, Figaro là, Le sei mogli di Barbablù, 47 morto che parla, tutti diretti da Carlo Ludovico Bragaglia, poi L'imperatore di Capri di Luigi Comencini, Tototarzan e Totò sceicco (dove s'invaghì dell'attrice Tamara Lees) di Mario Mattoli, Yvonne la nuit di Giuseppe Amato, Totò cerca casa di Steno e Mario Monicelli, un'efficace parodia del neorealismo sulla crisi degli alloggi, che suscitò un po' d'indignazione da parte della censura. Questi film, in misura diversa, ebbero un buon successo di pubblico, ma non di critica, che già dalle pellicole precedenti cominciò a non gradire lo stile surreale di Totò. Commentando in modo ironico queste avversità da parte dei critici, il principe osservò che probabilmente si era "guastato col crescere".

La morte dei genitori fu l'avvio di uno squilibrio familiare: nel 1951 Diana Rogliani, in seguito a un violento litigio, se ne andò di casa e si sposò; altrettanto fece, appena maggiorenne, e contro la volontà di Totò, la figlia Liliana, unendosi in matrimonio con Gianni Buffardi, figliastro del regista Carlo Ludovico Bragaglia. Totò restò solo, e in quel breve lasso di tempo scrisse la nota canzone Malafemmena, che concepì durante una pausa di lavorazione del suo nuovo film Totò terzo uomo, a cui seguirà Sette ore di guai. La canzone fu apparentemente scritta per la ex moglie Diana, alla quale era ancora molto legato, ma i giornali dell'epoca affermarono che Totò l'avesse dedicata a Silvana Pampanini, l'attrice con la quale recitò in 47 morto che parla e che, in quel periodo, corteggiava mandandole mazzi di rose e scatole di cioccolatini. Arrivò perfino a chiederle di sposarlo, uno dei motivi per la brusca separazione con la Rogliani), ma l'attrice lo respinse.

Nonostante le oscurità e le delusioni, il 1951 fu un anno importante per la carriera cinematografica dell'attore. Dopo il successo di Totò cerca casa, venne richiamato da Steno e Mario Monicelli per interpretare il ruolo del ladro Ferdinando Esposito in Guardie e ladri, al fianco di quell'attore che fu uno dei suoi amici più affezionati e una delle sue migliori "spalle", capace di rispondere colpo su colpo alle improvvise e "aggressive" battute di Totò, Aldo Fabrizi. Per Guardie e ladri Totò era all'inizio riluttante, il ruolo offertogli era finalmente reale, diverso dai suoi precedenti personaggi e inserito in un contesto decisamente più drammatico. Il film ebbe inizialmente problemi con la censura, ma appena uscito nelle sale fu un successo unanime: alti incassi, grande apprezzamento di pubblico e plauso inatteso da parte della critica. Nello stesso anno interpretò, sempre per la regia di Monicelli e Steno, Totò e i re di Roma, l'unico film che lo vide recitare con Alberto Sordi. L'anno seguente fu premiato con un nastro d’argento per la sua interpretazione in Guardie e ladri, e l'opera venne presentata al Festival di Cannes 1952, dove si aggiudicò il premio per la migliore sceneggiatura, l'anno in cui l'attore collaborò a Siamo uomini o caporali?, la sua biografia (che si ferma nel 1930 - dopo il suicidio di Liliana Castagnola) curata da Alessandro Ferraù ed Eduardo Passarelli.

Proprio nel 1952 Totò rimase colpito da una giovane sulla copertina del settimanale "Oggi", Franca Faldini. Le mandò subito un mazzo di rose con un biglietto: «Guardandola sulla copertina di “Oggi” mi sono sentito sbottare in cuore la primavera», poi le telefonò per invitarla a cena, la ragazza accettò solo quando Totò ebbe modo di farsi presentare. La Faldini, appena ventunenne, era da poco tornata dagli Stati Uniti, dove aveva preso parte al film Attente ai marinai! con Dean Martin e Jerry Lewis. Dopo essersi frequentati per circa un mese annunciarono il loro fidanzamento. Sebbene restassero insieme fino alla morte dell'artista, la loro relazione, che non arrivò mai al matrimonio, fu più volte sull'orlo di essere troncata, per il fatto di essere due persone caratterialmente molto diverse; un motivo, tra l'altro, fu la differenza di età di trentatré anni. La situazione di convivenza senza un legame matrimoniale creò scandalo all'epoca, tanto che, pochi anni più avanti, i due, stanchi di essere tormentati dai paparazzi e dai giornalisti (che li definivano "pubblici concubini"), furono costretti a fingere di essersi uniti in matrimonio all'estero, un espediente che comunque non funzionò sino in fondo.

Franca Faldini comparve anche nel cast di alcuni film del compagno. Il primo a cui partecipò fu Dov'è la libertà?, di Roberto Rossellini, che avendo apprezzato Totò in Guardie e ladri, lo scritturò per il suo film. La lavorazione non ebbe il percorso previsto. Venne girato nel 1952 e uscì nelle sale due anni dopo, per il fatto che nel corso delle riprese Rossellini si disinteressò della pellicola e si allontanò spesso dal set. Molte sequenze furono quindi girate dal regista Lucio Fulci e sembra che ci fossero state anche delle collaborazioni con Mario Monicelli e Federico Fellini. Insieme alla Faldini, girò poi Totò e le donne, nuovamente diretto da Steno e Monicelli, dove Totò recitò per la prima volta con Peppino De Filippo, con il quale formò in seguito una delle coppie più popolari del cinema italiano. Dopo che Steno e Monicelli si divisero, entrambi realizzarono, ciascuno per proprio conto, altri film con Totò. Il primo sfruttò la sua comicità surreale, il secondo proseguì sull'umanizzazione del personaggio (cominciata proprio con Guardie e ladri). Il primo grande risultato raggiunto da Steno fu Totò a colori - gran successo e incassi altissimi - uno dei primi film italiani a colori, girato col sistema "Ferraniacolor", in cui vennero riproposti alcuni dei suoi sketch teatrali, come quello di Pinocchio o del Vagone letto con Castellani e Isa Barzizza. Durante le riprese del film Totò iniziò ad avere diversi problemi, a causa delle potenti luci usate sul set, che gli causarono problemi alla sua vista già precaria e addirittura una lieve infiammazione ai capelli, finendo per svenire a causa dei forti dolori accusati all'occhio destro, il solo da cui vedeva dopo il distacco di retina del 1938 all'altro occhio. Continuò comunque a lavorare. Nel 1953, in seguito ad alcune illustrazioni di Totò il buono disegnate dallo sceneggiatore Ruggero Maccari su Tempo illustrato, furono (con l'ovvio consenso dell'attore) stampati e distribuiti degli albi a fumetti di Totò, rappresentato naturalmente in forma caricaturale, raccolti in una collana chiamata semplicemente Totò a fumetti, che illustrava storie liberamente ispirate ad alcune sue esibizioni teatrali. La collana venne pubblicata dalle Edizioni Diana di Roma.

Nel 1954, un suo brano musicale, Con te, dedicato a Franca Faldini, fu presentato al Festival di Sanremo, classificandosi al 9º posto nella graduatoria finale. La canzone venne interpretata da Achille Togliani, Natalino Otto e Flo Sandon's. Nello stesso anno, i giornali annunciarono che Totò avrebbe interpretato un film muto scritto da Age e Scarpelli, purtroppo il progetto fu presto annullato per il rifiuto dei produttori. Girare un film del genere sarebbe stata una grande soddisfazione per il comico, che affermò: «Il mio sogno è girare un film muto, perché il vero attore, come il vero innamorato, per esprimersi non ha bisogno di parole»; e fu proprio durante una vacanza sulla Costa Azzurra, in un periodo imprecisato degli anni cinquanta, che ebbe un'occasione unica di conoscere nientedimeno che il maestro del muto Charlie Chaplin, quando il suo yacht si ritrovò per caso accanto all'imbarcazione dell'artista inglese. Ma Totò, da sempre bloccato dall'insicurezza e dai complessi d'inferiorità, e pensando poi che l'altro non lo avrebbe riconosciuto per la sua poca popolarità all'estero, rinunciò a salutarlo.

Tra il 1953 e il 1955 interpretò diciassette film, lavorò nuovamente con Steno in L’uomo, la bestia e la virtù (dall'omonima commedia di Luigi Pirandello), dove nel cast era presente anche Orson Welles, poi con Mattòli ne Il più comico spettacolo del mondo (uno dei primi film italiani tridimensionali), e nella trilogia scarpettiana: Un turco napoletano, Miseria e nobiltà e Il medico dei pazzi. Fu anche chiamato dall'amico Aldo Fabrizi che lo volle per il film Una di quelle, al fianco di Peppino De Filippo, Lea Padovani e lo stesso Fabrizi; la pellicola (ridistribuita successivamente col titolo di Totò, Peppino e… una di quelle), dal tono drammatico e sentimentale, non ottenne il successo sperato. Si incontrò nuovamente anche con Monicelli, con il quale girò Totò e Carolina, film uscito nelle sale dopo un anno e mezzo dal termine della lavorazione perché massacrato dai tagli della censura, che era infastidita principalmente dai palesi riferimenti comunisti e dal fatto che Totò interpretasse un poliziotto, e per di più in un atteggiamento che tendeva a ridicolizzarsi.

Totò, di spirito caritatevole, per tutta la sua vita compì molteplici gesti d'altruismo, che includevano sostegno e offerte di viveri ai più bisognosi. Con l’avanzare dell’età si dedicò sempre più spesso a numerose opere di beneficenza: la vita privata dell’attore, negli ultimi anni, si limitava a sporadiche apparizioni in pubblico ma anche (seppur non avendo guadagni eccelsi per il fatto che pretendeva sempre poco dai produttori a un’intensa attività di benefattore, aiutando ospizi e brefotrofi, donando grandi somme alle associazioni che si occupavano degli ex carcerati e delle famiglie degli stessi. Avendo poi una particolare predilezione per i bambini, dopo la morte del figlio Massenzio Totò andava spesso a trovare, insieme a Franca Faldini, gli orfanelli dell'asilo Nido Federico Traverso, di Volta Mantovana, portando con sé regali e giocattoli. Inoltre, in merito al suo amore per gli animali, per raccogliere cani randagi acquistò e modernizzò un vecchio canile, L'ospizio dei trovatelli, che lui stesso visitava regolarmente per accertarsi che i numerosi ospiti a quattro zampe (si parla di più di 200 cani) avessero le cure necessarie. Le spese totali per l'assistenza e il mantenimento del canile arrivarono a costargli circa cinquanta milioni.

Fondò poi la società di produzione D.D.L., con sede legale al suo domicilio, collegata a Dino De Laurentiis e all'amministratore di Totò, Renato Libassi. Ebbe l'opportunità di lavorare con Alessandro Blasetti e anche Camillo Mastrocinque, con il quale girò molte pellicole di successo. La sua vita privata però, non scorreva tranquilla come quella di spettacolo: Franca Faldini, in seguito ad un parto drammatico, diede alla luce il figlio di Totò, Massenzio; il bambino, nato di otto mesi, morì dopo alcune ore.

Superato il dolore della perdita del figlio, al quale Totò reagì malissimo rinchiudendosi in casa per settimane, nel 1956 ritornò sul set interpretando a catena quattro film di Camillo Mastrocinque, che raggiunse il punto più alto del suo sodalizio con l'attore dirigendolo in Totò, Peppino e la... malafemmina (in cui si colloca la nota scena della “lettera”) e ne La banda degli onesti, scritto da Age e Scarpelli e interpretato insieme a Peppino e Giacomo Furia. Ma la tentazione di ritornare a teatro lo vinse, e, spronato anche dall'impresario Remigio Paone, recitò nella rivista A prescindere (che prendeva il nome da un suo modo di dire), che debuttò al teatro Sistina di Roma alla fine del '56, e che venne portata in tournée in tutta Italia. Nel mese di febbraio del 1957, a Milano, Totò venne colpito da una broncopolmonite virale, e nonostante i pareri dei medici che gli dissero di riposare, tornò sul palco dopo alcuni giorni, ciò gli causò uno svenimento appena prima di entrare in scena. I medici gli prescrissero almeno due settimane di assoluto riposo, ma Totò ritornò ugualmente a recitare esibendosi a Biella, Bergamo e Sanremo, dove cominciò ad avvertire i primi sintomi dell'imminente malattia alla vista. Il 3 maggio la situazione precipitò: mentre recitava al Teatro Politeama Garibaldi di Palermo si avvicinò alla Faldini (che aveva sostituito l'attrice Franca May e recitava sul palco insieme a lui) sussurrandole che non vedeva più; contando perciò solo sulle sue abilità e sull'appoggio degli altri attori, fece in modo di accelerare la conclusione dello spettacolo. Nonostante lo sconforto e la totale cecità, cercò di resistere e, per non deludere il pubblico ritornò sul palcoscenico - con un paio di spessi occhiali da sole - la sera del 4 maggio e, in due spettacoli, del 5. L'interruzione della rivista fu comunque inevitabile. Inizialmente i medici attribuirono la cecità a un problema derivato dai denti, ma alla fine gli fu diagnosticata una corioretinite emorragica all'occhio destro. L'impresario della compagnia, Remigio Paone, non credendogli, richiese una visita fiscale e avrebbe preteso anche che Totò tornasse a recitare. Totò in un primo tempo fu completamente cieco, e anche dopo dei lievi miglioramenti e una volta riassorbita l'emorragia non riuscì più a riacquisire integralmente la vista. Dovette abbandonare definitivamente il teatro, continuando però con il cinema: in quell'anno restò quasi inattivo e interpretò solo un film, Totò, Vittorio e la dottoressa di Mastrocinque, ma le sue capacità recitative, malgrado la malattia, non si affievolirono mai. L'unico problema era il doppiaggio, quando alcune scene dei film non venivano girate in presa diretta, non poteva doppiarsi poiché non era in grado di vedersi sullo schermo e non poteva sincronizzare le battute con il movimento labiale; in tali occasioni, veniva doppiato da Carlo Croccolo. Per problemi economici fu costretto a vendere alcune proprietà, e successivamente decise di soggiornare per qualche giorno a Lugano, pensando di trasferirvisi definitivamente per motivi fiscali, ma ritornò a Roma e si spostò in un appartamento in affitto in Viale dei Parioli con Franca Faldini, che gli rimase sempre vicino, insieme a suo cugino Eduardo Clemente, che gli faceva da segretario e factotum, e al suo autista Carlo Cafiero, che di solito lo accompagnava sul set.

Sebbene non si conosca con certezza il pensiero politico di Totò, si sa da fonti accertate che era fermamente contrario a qualsiasi forma di dittatura e supremazia (anche per le sue esperienze personali e per i suoi sbeffeggiamenti del potere), e sembra che, a detta di Franca Faldini, fosse di idee fondamentalmente anarchiche. A smentire ciò, è una fotografia del tedesco Eugenio Haas risalente al 1943, scattata sul set di Due cuori fra le belve e pubblicata sulla rivista "Film", e che raffigurava l'attore con la "cimice", ossia il distintivo del Partito nazionale fascista. Si suppone che Totò sia stato in qualche modo costretto a posare per quella foto, la cui intenzione sarebbe stata quella di "punire l'audacia del comico", poiché scherniva e derideva il regime fascista nei suoi spettacoli teatrali, che difatti gli causarono molte complicazioni durante la guerra. Pur tenendo molto al suo titolo nobiliare, pur conducendo uno stile di vita sfarzoso, e pur essendo stato definito più volte un monarchico, Totò, secondo la Faldini, non pretendeva da nessuno di essere chiamato "principe", la sua mania per la nobiltà rappresentava per lui una sorta di riscatto dalla sua difficile vita giovanile. Ma il suo «Viva Lauro!», esclamato durante Il Musichiere, venne naturalmente mal interpretato. Essendo un periodo delicato, in prossimità delle elezioni politiche, non era tollerabile che un personaggio conosciuto come Totò osannasse il capo di un partito politico, ma l’unico motivo della sua esclamazione era dovuto al fatto che Lauro avesse provvisto di case e alimenti gli abitanti dei "bassi" (le dimore più povere) di Napoli. Totò apprezzò solamente il gesto, essendo fortemente attaccato alla sua città natale. Pur non coltivando molto interesse per l'ambito televisivo, nel '58 accettò l'invito come ospite d'onore nel programma Il Musichiere condotto da Mario Riva, con il quale aveva lavorato anni prima in alcuni film e riviste teatrali. Durante la trasmissione Totò si lasciò scappare un «Viva Lauro!», riferendosi ad Achille Lauro, l'allora capo del Partito Monarchico Popolare; questa sua sgradita, seppur scherzosa, considerazione politica, gli costò un allontanamento dal piccolo schermo (salvando alcune interviste in privato) sino al 1965, quando duettò con Mina a Studio Uno.

Dopo il forzato distacco dalla televisione, riprese a lavorare nel cinema. Sempre nel '58 recitò con l'attore francese Fernandel in La legge è legge e, tra le altre pellicole, prese parte al celebre film I soliti ignoti di Mario Monicelli, interpretando lo scassinatore in pensione Dante Cruciani e recitando, tra gli altri, con Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni. In quel periodo gli venne assegnato il Microfono d'argento e in seguito una Targa d'Oro dall'ANICA, per il suo contributo al cinema italiano e per la sua lunga carriera artistica.

Nel '59 la sua salute peggiorò, durante la lavorazione del film La cambiale ebbe una ricaduta e non lavorò per due settimane, prima di concludere le riprese. Seguendo i consigli medici si concesse alcuni mesi di riposo, e dopo essersi ripreso inviò una sua canzone, Piccerella Napulitana, al Festival di Sanremo 1959, che però fu scartata, insieme ad un'altra di Peppino De Filippo. Totò accettò comunque di occupare il posto come presidente della giuria al Festival, in seguito alle insistenze di Ezio Radaelli, rifiutando tra l'altro un cospicuo pagamento giornaliero; però, in seguito a un disaccordo col resto della commissione, abbandonò prestissimo l'incarico.

Proprio all'apice del successo, l'agenzia artistica statunitense Ronald A. Wilford Associates di New York (agenzia di quel Ronald Wilford che avrebbe poi fondato e diretto la Columbia Artists Management International, considerata una delle agenzie più potenti del mondo) desiderava scritturarlo per uno spettacolo da rappresentare in America, insieme a Maurice Chevalier, Marcel Marceau e anche Fernandel. Naturalmente Totò non se la sentì e preferì rimanere in Italia a continuare in modo più "rilassante" con la cinematografia, rifiutando così, anche se malvolentieri, un'offerta importante e un altissimo compenso.

Nel 1961 gli venne comunicato che era vincitore della Grolla d'oro alla carriera, con la motivazione: «Al merito del cinema, per aver da lunghi anni onorato l'estro e il genio del Teatro dell'Arte». Ma la sua salute e i suoi impegni non gli permisero di partecipare alla premiazione a Saint-Vincent e la Grolla fu assegnata ad un altro attore.

Nonostante la malattia, Totò (da sempre fumatore) continuava a fumare fino a novanta sigarette al giorno. Cercò comunque di non rallentare troppo la sua già allora consistente produzione di film; e per il timore di perdere il lavoro e l'affetto del suo pubblico, cominciò ad accettare qualsiasi copione: aprì una parentesi con il regista Lucio Fulci ne I ladri e tornò con Steno nel film I tartassati, nuovamente al fianco di Aldo Fabrizi, a cui si aggiunse in un ruolo secondario l'attore francese Louis de Funès. Sebbene fosse quasi completamente cieco (vedeva solo dai lati degli occhi), tanto da dover indossare un pesante paio di occhiali scuri che toglieva soltanto per le riprese, si muoveva sul set con assoluta disinvoltura ed era come se tornasse, solo per un attimo, a vedere; cosa che proprio lui affermò: «Appena sento il ciak, vedo tutto. È un effetto nervoso».

Tra i tanti film interpretati negli anni Sessanta, oltre ai numerosi con Peppino e alcuni con Fabrizi, di buon successo furono Totòtruffa 62 di Camillo Mastrocinque, Gli onorevoli e la commedia amara I due marescialli di Sergio Corbucci, poi I due colonnelli di Steno (ricordato per la scena della “carta bianca”) e Risate di gioia di Monicelli, che segnò una tappa importante per Totò, dato che fu l'unica volta che recitò sul set insieme all'amica e compagna storica di teatro Anna Magnani. Non mancarono poi le parodie, come Totò contro Maciste, Totò e Cleopatra e Totò contro il pirata nero di Fernando Cerchio, che altro non furono che delle comiche rivisitazioni mitologiche dei film Peplum, a cui si aggiunsero Che fine ha fatto Totò Baby? (esplicita parodia di Che fine ha fatto Baby Jane?) di Ottavio Alessi e Totò diabolicus di Steno, quest'ultimo una parodia del genere giallo-poliziesco dove Totò concepì una delle sue prove recitative più complesse e riuscite, dando volto e fattezze a ben sei personaggi differenti.

In aggiunta, la fama che Totò vantava tra il pubblico, da sempre sfruttata dai produttori, venne usata come una sorta di veicolo pubblicitario o di lancio per cantanti quali Johnny Dorelli, Fred Buscaglione, Rita Pavone, Adriano Celentano, e per piccoli attori come Pablito Calvo che, già interprete di Marcellino pane e vino, recitò poi in Totò e Marcellino. Esplorò anche il filone notturno-sexy insieme a Erminio Macario in Totò di notte n. 1 e Totò sexy, due tra i film più fiacchi della sua carriera.

Nel gennaio del 1964 venne pubblicizzata la notizia dell'uscita del suo centesimo film, annunciato come il suo primo interamente drammatico, Il comandante. Diretto da Paolo Heusch e scritto da Rodolfo Sonego (sceneggiatore di fiducia di Alberto Sordi), richiese complessivamente otto settimane di lavoro, più del doppio rispetto alla media dei film di Totò. La notizia diede luogo a festeggiamenti e riconoscimenti, Totò ricevette perfino la "Sirena d'oro" e agli incontri internazionali del cinema venne accolto da un applauso interminabile, poche settimane dopo fu intervistato da Lello Bersani, per Tv7, e da Oriana Fallaci, per L'Europeo. Ma nonostante tutto, il film, che in realtà era l'ottantaseiesimo, si rivelò un insuccesso. Poi, presso l'editore Fausto Fiorentino di Napoli, pubblicò il famoso libro di poesie 'A livella, che in origine si chiamava Il due novembre, per la quale vinse anche un premio.

Nel 1965 conobbe un giovane Pasquale Zagaria che, interprete d'avanspettacolo, era stato consigliato dal titolare del teatro Jovinelli di rivolgersi a Totò al fine di trovare lavoro nel cinema. In quell'occasione Totò gli suggerì di cambiare il suo nome d'arte, che era Lino Zaga, spiegando che i diminutivi dei nomi portassero bene e quelli dei cognomi portassero male. Da allora il giovane attore si conferì lo pseudonimo di Lino Banfi.

«Ho girato diversi film mediocri, altri che erano veramente brutti, ma, dopo tutta la miseria patita in gioventù, non potevo permettermi il lusso di rifiutare le proposte scadenti e restarmene inattivo... » Al culmine della sua carriera, anche se poco prima della morte, arrivarono proposte importanti da cineasti come Alberto Lattuada, Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini. Col primo girò, nel 1965, il film La mandragola, nel ruolo di Fra' Timoteo, che interpretò in modo brillante. Il secondo lo avrebbe voluto per il film Il viaggio di G. Mastorna, dove erano previsti nel cast anche Mina, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Lavorare con Fellini era sempre stata una delle maggiori ambizioni di Totò, ma la pellicola purtroppo non fu mai realizzata. L'incontro con Pasolini, invece, fu uno dei più importanti e inaspettati dell'intera carriera cinematografica di Totò. La prima opera realizzata insieme fu Uccellacci e uccellini, che Totò accettò senza condividere appieno il suo personaggio e la poetica del regista; ormai il suo intento principale era produrre opere di qualità, per la ricorrente paura d'essere dimenticato dal pubblico. Pasolini lo scelse perché rimase affascinato dalla sua "maschera", che riuniva perfettamente "l'assurdità e il clownesco con l'immensamente umano". Per la prima volta Totò, durante la lavorazione di un film, si sentì in qualche modo smorzato, per volere di Pasolini che lasciava poco spazio ai suoi lazzi e alle sue improvvisazioni, rispetto a come era solitamente abituato con gli altri registi. Uccellacci e uccellini, opera di grande forza poetica, fin dall'inizio fu oggetto di discussioni e controversie, anche se fu quasi unanime il riconoscimento della grande interpretazione di Totò, che, lodato dalla critica, conseguì una menzione speciale al Festival di Cannes e il suo secondo nastro d’argento, e, per esprimere la sua soddisfazione, ringraziò la giuria dei critici cinematografici italiani attraverso una breve dichiarazione scritta. Prima di ritornare con Pasolini, ottenne un ruolo in Operazione San Gennaro di Dino Risi, accanto a Nino Manfredi. Nel 1967 girò con Pasolini il cortometraggio La terra vista dalla luna, episodio del film collettivo Le streghe, tratto dal racconto di Pasolini mai pubblicato Il buro e la bura; poi Che cosa sono le nuvole?, un episodio del film Capriccio all'italiana, dove l'attore prese parte anche a un altro corto di Steno: Il mostro della domenica.

Furono le sue ultime pellicole. Venne chiamato anche da Nanni Loy per Il padre di famiglia, di nuovo con Manfredi, in un ruolo di un anziano anarchico che vive vendendo calzini e mutande ai compagni della sinistra; film destinato a collocarsi fra i tanti progetti non realizzati da Totò, poiché girò la prima scena (per ironica casualità, quella d'un funerale) e morì due giorni dopo.

Totò incontrò la televisione già nel 1958, insieme a Mario Riva nel programma Il Musichiere. Fece ritorno solo nel 1965, invitato da Mina nella trasmissione Studio Uno, partecipando a due puntate: nella prima, subito accolto da un lunghissimo applauso, presentò la sua canzone Baciami, lasciando cantare Mina mentre lui interveniva facendo da contrappunto alle parole della canzone con qualche sua classica battuta. Nella seconda puntata, nel 1966, ripropose invece un vecchio sketch (Pasquale) con Mario Castellani. La scenetta venne poi incisa, insieme alla poesia 'A livella, in un disco 33 giri dell'attore. Nel suo ultimo periodo di vita, mise in lavorazione alcuni caroselli e una serie per la tv chiamata TuttoTotò, comprendente nove telefilm a cura di Bruno Corbucci e diretti da Daniele D'Anza. La serie, nata da un'idea di Mario Castellani, doveva essere inizialmente diretta da Michele Galdieri (l'autore di molte riviste di Totò), ma morì prima che iniziasse la lavorazione. La maggior parte dei copioni di questi telefilm apparivano troppo deboli, e soltanto alcuni di questi, con testi discreti, diedero modo a Totò di esibirsi in alcuni suoi numeri, riproponendo alcuni dei suoi famosi sketch teatrali. L'attore appariva però provato e lavorava non più di quattro ore nel pomeriggio, ma nonostante tutto era ancora in grado di padroneggiare la scena. Il ciclo andò in onda dopo la sua morte, dal maggio al luglio del '67, per poi essere replicato dieci anni più tardi. Positiva fu l'accoglienza del pubblico, più fredda quella della critica, che sottolineava come la comicità di Totò non apparisse al meglio a causa della realizzazione frettolosa e approssimativa.

Alcuni giorni prima della sua morte, Totò disse di chiudere in fallimento e che nessuno lo avrebbe ricordato, dichiarò di non essere stato all'altezza delle infinite possibilità che il palcoscenico offre (riferendosi chiaramente alla sua vera e unica passione, il teatro) e si rimproverò del fatto che avrebbe potuto fare molto di più. Morì nella sua casa di Via dei Monti Parioli, 4; alle 3:25 del mattino (l'ora in cui era solito coricarsi era le 3:30 circa) del 15 aprile 1967, all'età di 69 anni: venne stroncato da un infarto dopo una lunga agonia, tanto sofferta che lui stesso pregò i familiari e il medico curante di lasciarlo morire. Proprio la sera del 13 aprile confessò al suo autista Carlo Cafiero: «Cafiè, non ti nascondo che stasera mi sento una vera schifezza». Secondo la figlia Liliana, le sue ultime parole furono: «Ricordatevi che sono cattolico, apostolico, romano», mentre a Franca Faldini disse: «T'aggio voluto bene Franca, proprio assai.»

Nonostante l'attore avesse sempre espresso il desiderio di avere un funerale semplice, ne ebbe addirittura tre. Il primo nella capitale, dove morì. La sua salma fu vegliata per due giorni dalle principali personalità dello spettacolo e non, giunte da tutta Italia per commemorarlo e rimpiangerlo. Fu accompagnata da più di duemila persone nella chiesa Sant'Eugenio, sul Tevere, dove si svolse la cerimonia funebre. Tra le personalità dello spettacolo presenti, all'interno della chiesa si notarono Alberto Sordi, Elsa Martinelli, Olga Villi, Luigi Zampa e Luciano Salce; parteciparono anche i registi che lo avevano sempre ignorato, e i critici che lo avevano avversato e considerato un artista inconsistente e volgare. Sulla sua bara furono poggiati la famosa bombetta con cui aveva esordito e un garofano rosso, la cerimonia si limitò a una semplice benedizione a causa delle difficoltà create dalle autorità religiose, perché con Franca Faldini l'attore non era sposato, addirittura fu fatta uscire di casa mentre il prete benediceva la salma di Totò.

Il secondo si svolse a Napoli, la sua città natale alla quale era particolarmente legato e la sua gioia più grande sarebbe stata proprio ritornare lì, così fu: Il 17 aprile di pomeriggio il feretro partì verso la città, scortato da circa trenta vetture. La città sospese dalle 16 alle 18,30 ogni attività, fu interrotto il traffico, i muri delle strade furono riempiti di manifesti di cordoglio, le serrande dei negozi vennero abbassate e socchiusi i portoni degli edifici in segno di lutto. Tra gli altri personaggi dello spettacolo ed amici stretti, ad attendere il feretro, c'erano i fratelli Nino e Carlo Taranto, Ugo D'Alessio, Luisa Conte, Dolores Palumbo. A causa della grande affluenza, il furgone che trasportava la salma impiegò due ore per raggiungere la chiesa di Sant'Eligio, dove si svolsero i funerali di fronte alla folla traboccante, valutata in circa 250 000 persone, tra bandiere, stendardi e corone.

L'orazione funebre venne tenuta da Nino Taranto: «Amico mio, questo non è un monologo, ma un dialogo perché sono certo che mi senti e mi rispondi, la tua voce è nel mio cuore, nel cuore di questa Napoli, che è venuta a salutarti, a dirti grazie perché l'hai onorata. Perché non l'hai dimenticata mai, perché sei riuscito dal palcoscenico della tua vita a scrollarle di dosso quella cappa di malinconia che l'avvolge. Tu amico hai fatto sorridere la tua città, sei stato grande, le hai dato la gioia, la felicità, l'allegria di un'ora, di un giorno, tutte cose di cui Napoli ha tanto bisogno. I tuoi napoletani, il tuo pubblico è qui, ha voluto che il suo Totò facesse a Napoli l'ultimo "esaurito" della sua carriera, e tu, tu maestro del buonumore questa volta ci stai facendo piangere tutti. Addio Totò, addio amico mio, Napoli, questa tua Napoli affranta dal dolore vuole farti sapere che sei stato uno dei suoi figli migliori, e che non ti scorderà mai, addio amico mio, addio Totò.»

Dopo il rito funebre, le autorità furono costrette a far uscire la salma da una porta secondaria, all'interno della basilica si susseguirono scene di panico e anche svenimenti; ci furono quattro feriti, due donne e due agenti, in seguito all'enorme scompiglio causato. Il corpo di Totò venne così scortato da motociclisti della polizia al Cimitero del Pianto, ove ad attendere c'erano Franca Faldini, la figlia Liliana con il marito, Eduardo Clemente e Mario Castellani, che per via della straripante folla decisero di non assistere alla funzione religiosa e raggiunsero direttamente in auto il cimitero. Totò fu sepolto nella tomba di famiglia accanto ai genitori, al piccolo Massenzio e all'amata Liliana Castagnola.

Il terzo funerale lo volle organizzare un capoguappo del Rione Sanità, nel suo quartiere, che si tenne il 22 maggio, cioè pochi giorni dopo il trigesimo; ad esso aderì un numero altrettanto vasto di persone, nonostante la bara dell'attore fosse ovviamente vuota. Eduardo De Filippo, con un partecipato articolo, lo ricordò dalle pagine del quotidiano Paese Sera nel giorno della sua scomparsa.

«Non è una cosa facile fare il comico, è la cosa più difficile che esiste, il drammatico è più facile, il comico no; difatti nel mondo gli attori comici si contano sulle dita, mentre di attori drammatici ce ne sono un'infinità. Molta gente sottovaluta il film comico, ma è più difficile far ridere che far piangere.»

Secondo un sondaggio del 2009, condotto dal giornale online quinews.it con mille intervistati equamente distribuiti per fasce d'età, sesso e collocazione geografica (Nord, Centro, Sud e Isole), Totò risultava essere il comico italiano più conosciuto ed amato, seguìto rispettivamente da Alberto Sordi e Massimo Troisi. I suoi film, visti all'epoca da oltre 270 milioni di spettatori (un primato nella storia del cinema italiano), molti dei quali rimasti attuali per satira e ironia, sono stati raccolti in collane di VHS e DVD in svariate occasioni e vengono ancora oggi costantemente trasmessi dalla tv italiana, riscuotendo successo anche tra il pubblico più giovane. Inoltre talune sue celebri battute, espressioni-mimiche e gag sono divenute perifrasi entrate nel linguaggio comune.

Umberto Eco ha espresso così l'importanza di Totò nella cultura italiana: «In questo universo globalizzato in cui pare che ormai tutti vedano gli stessi film e mangino lo stesso cibo, esistono ancora fratture abissali e incolmabili tra cultura e cultura. Come faranno mai a intendersi due popoli [cioè cinesi e italiani] di cui uno ignora Totò?»

Liliana De Curtis, la figlia del comico, è tuttora attiva per mantenere vivo il ricordo del padre. Molti italiani, ancor oggi, si rivolgono a Totò inviando lettere e biglietti alla sua tomba, per confidarsi, chiedere favori e addirittura grazie, come fosse un santo. La notorietà di cui Totò gode in Italia è andata anche oltre i confini nazionali: ad esempio in America, dove il comico Jim Belushi lo ha definito un «clown meraviglioso». L'attore George Clooney, intervistato in Italia in occasione del remake de I soliti ignoti, Welcome to Collinwood (2002), in cui lui interpretava il corrispettivo ruolo di Totò, ha altresì dichiarato: «Era un vero poeta popolare, un fantasista espertissimo nell'arte di arrangiarsi e di arrangiare ogni gesto ed espressione» precisando inoltre che, secondo il suo parere, tutti i comici più celebri come Jerry Lewis, Woody Allen o Jim Carrey devono qualcosa all'attore italiano. «Non era certo solo un comico, proprio come Buster Keaton. I suoi film potrebbero essere anche muti: riesce sempre a trasmettere il senso della storia. Grazie ai vostri sceneggiatori e alla sua mimica, dai suoi film traspare un personaggio a tutto tondo: astuto, ingenuo e anche vessato dalle circostanze della vita. Per questo continuerà a essere imitato, senza speranza di eguagliarlo. C'è sempre suspense nella sua recitazione: si aspetta una sua nuova battuta, una strizzatina d'occhi, ma resta imprevedibile il suo modo di sviluppare una storia.»

«Tengo molto al mio titolo nobiliare perché è una cosa che appartiene soltanto a me... A pensarci bene il mio vero titolo nobiliare è Totò. Con l'altezza Imperiale non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino. Mentre con Totò ci mangio dall'età di vent'anni. Mi spiego?» Dopo l'adozione nel 1933 da parte del marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, cavaliere del Sacro Romano Impero (D. M. di riconoscimento 6 maggio 1941), Totò intraprese lunghe e costose battaglie legali, portate avanti con determinazione, per il riconoscimento di nobiltà, anche grazie all'aiuto di esperti avvocati e araldisti. Totò riteneva di appartenere a un ramo decaduto dei nobili de Curtis, quello dei conti di Ferrazzano, sebbene tale discendenza non sia mai stata dimostrata. Il 18 luglio 1945 e il 7 agosto 1946 il Tribunale di Napoli, IV sez., emanò sentenze che gli riconobbero diversi titoli gentilizi, che vennero registrati a pag. 42 vol. 28 del Libro d'Oro della Nobiltà Italiana, tenuto presso l'archivio della Consulta Araldica (Roma, Archivio Centrale dello Stato): Principe, Conte Palatino, Nobile, trattamento di Altezza Imperiale. Con sentenza 1º marzo 1950 del Tribunale civile di Napoli, il cognome di Totò venne rettificato in "Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio", anche se sul pronao della cappella della sua tomba, nel Cimitero di Santa Maria del Pianto a Napoli, l'incisione recita solo Focas Flavio Comneno De Curtis di Bisanzio - Clemente. Di fatto, dalla sentenza del 1946, Totò acquisì i titoli e i nomi di: Antonio Griffo Focas Flavio Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo. In seguito al riconoscimento nobiliare, Totò fece coniare delle medaglie d'oro dal peso di 50 grammi l'una ritraenti il suo profilo, come fosse un imperatore romano, e che amava regalare ai suoi amici più intimi. Sembra che ben cinque denunce siano state sporte contro l'attore (anche da privati cittadini) per "abuso di titoli nobiliari".

Immortale Totò, principe della risata e imperatore solitario. Morì 50 anni fa, ebbe 3 funerali, vita furibonda e grandi amori, scrive Giorgio Gosetti il 15 aprile 2017 su l' "Ansa". Cosa si può dire ancora di Totò, per gli amici Antonio De Curtis ma per l'anagrafe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, scomparso il 15 aprile di 50 anni fa nella sua casa romana di Viale Parioli a soli 69 anni di una vita furibonda e frenetica? Tanto fu applaudito ed esecrato in vita, specie dalla critica, tanto suscitò passioni ed amori nel pubblico e nelle donne, tanto fu un'anima solitaria come solo i grandi comici sanno essere e tanto visse sempre nell'angoscia di non essere ricordato se non per la sua maschera farsesca. Dopo una consacrazione postuma che lo ha innalzato ai vertici della popolarità e dell'arte, dopo le mille e mille righe a lui dedicate da studiosi (Umberto Eco) e artisti (Pasolini scrisse che la "sua maschera riuniva perfettamente l'assurdità e il clownesco con l'immensamente umano") cosa resta da dire? 

Figlio illegittimo del Barone Giuseppe De Curtis e di Anna Clemente, Antonio "N.N." Clemente detto Totò nasce il 15 febbraio 1898 nel cuore della "guapperia" napoletana al Rione Sanità in quella casa modesta che oggi sarebbe il suo museo ed è invece lasciata nell'incuria a rischio di crollo. Malinconico e solitario, poco versato per gli studi e complessato per il suo stato di "figlio di nessuno" (il padre lo riconobbe dopo i 20 anni), Totò si rifugia fin da bambino dietro la maschera del comico e dell'istrione, le sole armi con cui si fa amare da compagni e grandi. Esordisce sui palcoscenici periferici di Napoli già nel 1913, ma è solo dopo la Grande Guerra (sotto le armi ma lontano dal fronte) che abbraccia il suo destino sul palcoscenico della Sala Napoli scritturato da Eduardo D'Acierno.

Il padre riunisce la famiglia a Roma e qui Totò, nella totale disapprovazione dei genitori, comincia la sua vera gavetta da "straordinario" di compagnia, aggregato a diverse formazioni, spesso lasciato senza lavoro e senza soldi, solo a fatica in grado di farsi largo nel mondo della commedia dell'arte e dell'avanspettacolo. Il fortuito incontro con Giuseppe Iovinelli, l'impresario dell'Ambra Iovinelli di Roma e l'inaspettato successo delle sue macchiette ne fanno rapidamente un divo della scena comica. Non scorderà mai però la fatica degli esordi: "La miseria - diceva - è il copione della vera comicità... Non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita". Simile in questo a Charlot, che spesso additò a modello, desolato come Buster Keaton a cui fin troppo spesso veniva accostato per la gestualità straniata, Totò fu però soprattutto un formidabile autodidatta, capace di cogliere nei tic della gente comune i tratti che poi elevava a gesti comici (da bambino lo chiamavano 'o spione per la sua attenzione al lato buffo degli altri), anarchico nel lavoro quanto meticoloso nella costruzione di sé e delle sue maschere. Nel pantheon dei grandi interpreti "del corpo" assomma i tratti di Eduardo e Tati, Chaplin e Keaton, ma non viene mai meno a una originalità senza limiti che, lo faceva applaudire anche dagli stranieri (dalla Svizzera alla Spagna), mentre solo la pigrizia e la timidezza provinciale gli preclusero i palcoscenici più grandi, compreso quello americano dove venne invano invitato. La sua eredità non viene ben descritta dai numeri, comunque impressionanti: 97 lungometraggi interpretati a passo di carica dopo l'esordio nel 1937 con "Fermo con le mani", voluto da Goffredo Lombardo che cercava volti nuovi per il cinema; oltre 50 spettacoli tra commedia, rivista, avaspettacolo nell'arco di tempo che va dal 1928 al 1957 quando l'aggravarsi di una acuta malattia agli occhi lo rese praticamente cieco. In parallelo ci sono poi le prove da cantante (con un successo speciale per "Malafemmena"), le apparizioni televisive (memorabile "Studio Uno" con Mina), le poesie (la raccolta di "A' livella"), i fumetti, le pubblicità, le apparizioni a sorpresa. Ma il cuore di un successo che ancora oggi lo fa primeggiare su ogni altro protagonista della scena italiana (a grande distanza da Alberto Sordi e Massimo Troisi) viene da una genialità interpretativa che sempre lo fece autore di se stesso, in una dimensione sospesa tra osservazione del reale e astrazione surrealista, satira e farsa, intuizione verbale (celeberrimi i modi dire che sono entrati nel lessico comune) e costruzione fisica (la maschera-automa, il guitto e il poeta, il pulcinella e il nobile).

Benché abbia avuto al cinema pigmalioni come Cesare Zavattini e De Sica, poi grandi sodali come Carlo Ludovico Bragaglia, Steno e Monicelli o perfetti complici del suo genio (da Corbucci a Mattoli a Mastrocinque), solo a fine carriera ebbe l'onore dei maggiori autori italiani: lo voleva Fellini per mai realizzato "Viaggio di G. Mastorna", lo scelse Pasolini (da "Uccellacci e uccellini" a "Che cosa sono le nuvole"), lo chiamarono Risi, Bolognini, Lattuada. Eppure nell'immaginario popolare vive soprattutto per i film interamente modellati su di lui, da "Miseria e nobiltà" a " Totò le mokò", da "I pompieri di Viggiù" a "47 morto che parla" fino ai vari episodi di " Totò e Peppino" in coppia con l'amico De Filippo. Fece scalpore anche nella vita privata, segnata da grandi passioni e dolori: dal suicidio della prima moglie, la sciantosa Liliana Castagnola, fino alla tormentata e appassionata storia con Franca Faldini. Si fece adottare, nel 1933, dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, in rincorsa a quel prestigio aristocratico che gli sembrava riscattare le sue origini; si sentiva davvero erede del sacro romano impero e della corona di Costantinopoli, anche se le battaglie legali gli fruttarono spesso denunce e delusioni. Come in una pièce di Pirandello ebbe l'onore di 3 funerali: il primo a Roma, vegliato per due giorni dai più grandi di cinema e teatro; il secondo a Napoli in un bagno di folla con 250.000 anime straziate dietro al feretro; il terzo nel cuore di Spaccanapoli dove un guappo locale organizzò la cerimonia intorno a una bara vuota. Ma a quel punto la sua arte volava ormai da giorni nel firmamento dei geni.

Totò, 50 anni senza il Principe della risata: 5 film da vedere su YouTube. Antonio De Curtis moriva il 15 aprile del 1967, scrive il 14 aprile 2017 su Panorama. "Sono un osso duro, io! Sono tutt'ossa!", diceva Totò alias Felice Sciosciammocca nel film Un turco napoletano. Antonio De Curtis, in arte Totò, era infatti tutto nervi e ossa, viso scavato e un'espressività prepotente e trascinante. Un osso duro della risata. Morto il 15 aprile 1967 a 69 anni, attore, cantante, poeta e tanto altro, Totò è stato il "Principe della Risata" ma anche drammaturgo dal fulgente animo tragico. Coi suoi lazzi, i doppi sensi e la mimica incalzante conquistava. Ma sapeva anche far increspare il cuore. Nel cinquantesimo anniversario della sua morte, Napoli festeggia la sua icona con la mostra Totò Genio, un grande mosaico che rappresenta l'arte di De Curtis in tre luoghi diversi (fino al 9 luglio): il Museo Civico di Castel Nuovo (Maschio Angioino), Palazzo Reale e il Convento di San Domenico Maggiore.

Per rivederlo nella sua verve irresistibile, ecco cinque film da vedere completi su YouTube. 

1) Totò, Peppino e la... malafemmina (1956) di Camillo Mastrocinque. Totò in grande forma in questa commedia, accanto a Peppino De Filippo. Indimenticabile la scena cult della lettera dettata da Totò e scritta da Peppino, ripresa da Roberto Benigni e Massimo Troisi in Non ci resta che piangere.

2) Uccellacci e uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini. Anche film d'autore per Totò, che accettò il ruolo pur con qualche riserva sul suo personaggio proprio per ascrivere il suo nome ai film di qualità. Un grande intellettuale come Pasolini "sdogana" il Principe della Risata facendogli conseguire una menzione speciale al Festival di Cannes. Per l'attore è il suo ultimo film da protagonista. 

3) I due marescialli (1961) di Sergio Corbucci. Commedia all'italiana che unisce Totò e Vittoria De Sica nell'Italia in guerra del 1943. Il primo è un ladruncolo, vestito da prete, l'altro un maresciallo, che si scambiano vestiti e ruoli.

4) Miseria e nobiltà (1954) Mario Mattoli. La celebre scena di Totò che mangia gli spaghetti con le mani appartiene a questa commedia. Il comico napoletano ancora una volta Felice Sciosciammocca, il personaggio immaginario del teatro partenopeo creato da Eduardo Scarpetta. Nel cast anche Sophia Loren e Valeria Moriconi.

5) Totò contro Maciste (1962) di Fernando Cerchio. Parodia dei film peplum, fa parte di una serie di rivisitazioni mitologiche in chiave comica di cui Totò fu protagonista. 

Qualunquista, anarchico, gotico: a ognuno il suo Totò. All'epoca i critici non amavano i suoi film. Apprezzati invece da certi scrittori, da Zavattini a Soldati. La rivalutazione ripartì in pieno post-68, con un volume di Goffredo Fofi. Che rende merito al più grande comico italiano di cui il cinema abbia lasciato testimonianza, scrive Emiliano Morreale il 14 aprile 2017 su "L'Espresso". Totò fa ormai parte dell’arredamento domestico degli italiani: le sue foto nei ristoranti del centro Sud, la sua immagine nei canali televisivi a riempire le fasce orarie più bisognose. Eppure a rivedere e ristudiare i suoi film possono arrivare sorprese: basti pensare ai volumi che gli ha dedicato, alcuni anni fa, Alberto Anile, ritrovando un Totò inedito, alle prese con la cultura del suo tempo, con la politica, con la censura. I critici, si è detto, all’epoca non amavano i suoi film. Che erano spesso modesti, ma non sempre: non solo quelli di Steno e Monicelli, che lo declinavano in versione più “neorealista” (“Guardie e ladri”, “Totò cerca casa”), ma anche certi che più direttamente assecondavano il suo genuino versante farsesco: Mattoli, Corbucci, Mastrocinque. In compenso, Totò era amato da certi scrittori: quelli di derivazione futurista o surreale, che in lui vedevano la marionetta umana (il giovane Zavattini, Campanile, Palazzeschi), ma anche acuti osservatori come Soldati o Flaiano. I fortunati, all’epoca, dicevano che il vero Totò era quello teatrale, che dal vivo potevano apprezzarsi al meglio le sue qualità. Probabilmente è vero; forse per questo uno dei suoi film più memorabili è “Totò a colori” (1952), centone di suoi numeri di varietà, lievitati e portati a perfezione da anni di improvvisazioni. E non a caso hanno avuto fortuna negli anni varie antologie dei “numeri” più famosi, che sono in fondo una forma legittima di mostrare i suoi film. Cerimonia al cimitero di Poggioreale dove il sindaco ha deposto una corona di fiori sulla tomba di Totò. Presente anche Elena de Curtis, nipote dell'artista, che ha detto: "E' qui con noi, si starà facendo una marea di risate". "Sono davvero entusiasta per la qualità delle iniziative, la partecipazione, la grande emotività" ha aggiunto de Magistris accompagnato dall'assessore alla Cultura del Comune di Napoli, Nino Daniele, dal presidente della II Municipalità, Ivo Poggiani, dal Comandante della Polizia Municipale, Ciro Esposito, dal Questore di Napoli, Antonio De Iesu."Sono passati 50 anni ma Totò è qui, nella città, tra i napoletani", conclude de Magistris.

La sua rivalutazione ripartì in pieno post-’68, con un volume di Goffredo Fofi. Ma alla fine della carriera c’era stato, come è noto, l’incontro con Pasolini. Il quale, forse più ancora che in “Uccellacci e uccellini”, fece risplendere il suo genio negli episodi a colori, “La terra vista dalla luna” e “Che cosa sono le nuvole” (in cui, Iago tinto di verde, recita una delle morti più strazianti viste al cinema, depositato in una discarica da Domenico Modugno). Rimane infine il rimpianto di non averlo potuto vedere nei panni di San Giuseppe da Copertino, il “santo cretino” che volava, in “C’era una volta” di Francesco Rosi (il produttore Ponti bocciò l’idea). Ognuno, ovviamente, ha il suo Totò preferito. Personalmente, mi piace ricordare il versante nero, gotico, di “Totò Diabolicus” o “Che fine ha fatto Totò Baby?”. Del resto, Mario Monicelli sosteneva che Totò gli faceva un po’ paura: la sua faccia era un teschio, come la maschera di Pulcinella; anche la critica americana Pauline Kael scriveva dei «suoi occhi stanchi, che hanno visto tutto». Un aspetto colto magnificamente da Alberto Lattuada, che nella “Mandragola” (1965) lo fa monologare nelle catacombe. "Ma mi faccia il piacere", "Cà nisciuno è fesso". I napoletani parlano con le battute di Totò, usate quasi senza accorgersene nel quotidiano per descrivere una situazione o una persona.

Qualunquista e anarcoide, aristocratico e plebeo distruttore delle convenzioni, Totò è senza dubbio il più grande comico italiano di cui il cinema abbia lasciato testimonianza, ed è l’ultimo “comico primario” di un’Italia povera, mosso dal bisogno di cibo e di sesso. È forse difficile, per chi è nato dopo la sua morte, cinquant’anni fa, inserirlo nel mondo da cui proveniva, forse perfino capirlo. Mi viene quasi il timore, per un attimo, che un giovane oggi possa apprezzare Totò, ma non ridere davvero con lui.

Totò, 50 anni dopo i critici continuano a stroncarlo: “Il suo è stato brutto cinema con brutti film”. "All’interno di questi film che sono oggettivamente brutti, esclusi pochi costruiti con più abilità, ci sono pero dei momenti, parlo di cinque minuti, dove Totò dimostra la sua genialità”, spiega al FQMagazine Paolo Mereghetti. "Lui ha sofferto tantissimo il fatto che non gli offrissero film di alta qualità, ma quando li ha fatti è stato molto bravo perché ad esempio con Pasolini, che lo ha persino fatto diventare buono", afferma Roberto Escobar, critico del Sole 24Ore, scrive Davide Turrini il 13 aprile 2017 su “Il Fatto Quotidiano. “Totò genio artistico senza pari, ma i film che interpretava erano (e rimangono) brutti”. Il rapporto non riconciliato tra la critica cinematografica e i quasi cento film del “principe della risata” – di cui il 15 aprile 2017 ricorrono i 50 anni dalla morte – continua. E senza troppe novità. Nell’infinita giaculatoria di mea culpa, dove tutti hanno rivalutato il comico, la maschera, l’uomo De Curtis, ecco che per titoli come Totò sexy, Totò e i re di Roma, 47 morto che parla, Totò Vittorio e la dottoressa, alcune opere a caso su almeno tre quarti dei titoli da lui interpretati, stellette, pallini, voti in pagella, schede di rivalutazione non sono mai riapparse, anzi. “Alcuni film di Totò sono francamente brutti, fatti in fretta, talvolta ne girava sei all’anno come un matto. E all’interno di questi film che sono oggettivamente brutti, esclusi pochi costruiti con più abilità, ci sono pero dei momenti, parlo di cinque minuti, dove Totò dimostra la sua genialità”, spiega al FQMagazine Paolo Mereghetti, critico cinematografico del Corriere della sera ma soprattutto autore del Dizionario dei film (Baldini&Castoldi) dove appena una ventina di titoli su novantasette interpretati dal comico napoletano raggiungono la sufficienza (Totò, Peppino e la malafemmina e Totò a colori sono gli unici con 4 stellette ndr). “E’ lo stesso discorso che si può fare per Gary Cooper e Humphrey Bogart: non tutti i film con Bogie sono capolavori, ma lui era un grande attore anche nei film brutti. Non c’è nulla di che stupirsi, sul dizionario si cerca di giudicare un film nella sua complessità e i risultati sono questi. Ultimamente c’è stata una specie di vulgata critica che per una battuta comica di livello si è messa a salvare l’intero film. Parlo in generale di commedie italiane squinternate. Chiaro, si può ridere a una battuta di Franchi e Ingrassia anche se i loro film venivano fatti oggettivamente coi piedi. Identico discorso che si può applicare ai lavori interpretati da Totò”. “Insisto: come cinema in senso stretto quello fatto da Totò è stato un brutto cinema”, spiega Roberto Escobar, critico del Sole 24Ore e autore di una ricca monografia su Antonio De Curtis (Totò – Il Mulino). “E dirò di più. È un paradosso, ma i più bei film interpretati da Totò in realtà tradiscono Totò. Lui ha sofferto tantissimo il fatto che non gli offrissero film di alta qualità, ma quando li ha fatti è stato molto bravo perché ad esempio con Pasolini, che lo ha persino fatto diventare buono, non era più e solo una maschera, ma un grande attore”. “E comunque lo scrivo da sempre: per fortuna i film che ha interpretato sono brutti, perché Totò è più dei suoi film” – continua Escobar, “Come diceva Goffredo Fofi: il film ideale di Totò è un’antologia, non un superfilm con montate le parti migliori delle sue decine di film, ma la persistenza nella memoria di un continuum di immagini e emozioni. Quando i miei colleghi critici di un tempo, come Guido Aristarco, lo stroncavano, potevano sì stroncare i film ma non si rendevano conto di avere di fronte agli occhi un diamante”. “Pensare che le intenzioni fossero quelle di girare dei grandi film, equivarrebbe a dare ai produttori dell’epoca intenzioni che non hanno avuto. Totò, il più grande comico italiano veniva utilizzato soltanto per fare soldi al botteghino e veniva usato bene solo in rari casi, cito L’oro di Napoli o Uccellacci e uccellini”, afferma Alberto Anile, autore del libro fresco di stampa Totalmente Totò. Vita e opere di un comico assoluto (edizioni Cineteca di Bologna). “Totò non ha potuto essere come Chaplin, autore totale dei suoi film dalla recitazione alla musica, è stato autore e regista dei suoi spettacoli. Copioni, personaggi sketch interi, non solo battute, che poi portò nei film interpretati. Infine, come racconto nel libro grazie alle dichiarazioni di Vincenzo Talarico e Franca Faldini, negli anni sessanta, quando Totò era già stanco e disilluso del mondo del cinema, sbucò un testo per un film muto da lui scritto che Ponti e De Laurentiis bocciarono. Avrebbe potuto portare al cinema storie scritte e ideate da lui, ma non avvenne per via dell’insipienza dei produttori”.

Totò, un mito con Napoli sempre nel cuore, scrive Franco Insardà i 16 Aprile 2017 su "Il Dubbio". L’antropologo Marino Niola ci spiega il legame speciale tra Totò e Napoli: «Il mito è un alimento dell’immaginario in cui ci si riconosce subito». Napoli e Totò, un rapporto ancestrale, passionale, sincero che ha legato il Principe De Curtis alla città in modo indissolubile quando era in vita, fino a fargli dire «sto morendo, portatemi a Napoli» e oggi, a cinquant’anni dalla morte ne ha fatto un mito partenopeo come San Gennaro e Pulcinella. Il suo essere fisico e metafisico, in perenne bilico tra l’allegria e la tristezza ne hanno fatto un’icona nella quale si riconoscono tutti: il sottoproletario, l’aristocratico, il borghese. Marino Niola, professore di Antropologia dei simboli all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, collaboratore di Repubblica (ha una rubrica settimanale sul Venerdì), del Nouvel Observateur e di altre testate straniere, da studioso e da napoletano ha analizzato a fondo il rapporto tra Totò e i napoletani.

Professor Niola, ci spiega questo legame così profondo?

«Totò è stata una grande maschera di Napoli. Una maschera interclassista nella quale ognuno poteva e può riconoscersi. Ciascuno ci trova una parte di se, e spesso è quella parte che non quadra troppo. Il suo personaggio era sghembo come il suo corpo. La sua faccia era un “qui pro quo”, esattamente come il suo “qui pro quo” linguistico. Questo spiega la facile riconoscibilità per cui ciascuno trova qualcosa che lo riconduce al proprio intimo e in cui si identifica. Anche questo è tipico di Napoli, perché è una città di “qui pro quo”, di segni a forte definizione in cui ci si riconosce subito, ma che è difficile conoscere».

Quanto ha dato Napoli a Totò e quanto Totò a Napoli?

«La città gli ha dato sicuramente l’humus culturale, umano, affettivo, sentimentale da cui poi nasce la sua comicità. E lui ha restituito alla città sempre, in un modo o nell’altro, nei suoi film, nelle sue poesie, nelle canzoni questo affetto per Napoli. C’era un feedback continuo. Nel suo rapporto con Napoli non c’era quella rabbia di Eduardo che lo rendeva antipatico a molti napoletani. Parliamo di due icone, ma tra loro c’è questa enorme differenza: Eduardo era più una icona borghese, mentre Totò era interclassista. Totò non voleva insegnare niente a nessuno, Eduardo dava continue lezioni».

La folla immensa di piazza del Carmine per l’ultimo saluto a Totò in questi cinquant’anni è aumentata ed è un amore che si alimenta quotidianamente.

«Perché di Totò, come per tutte le grandi icone dello spettacolo moderno, è rimasto il suo corpo immateriale. I suoi film passano continuamente in tantissime tv in tutt’Italia. Questo fa sì che anche le persone giovani, le quali quando Totò è morto non erano neanche in mente dei, ricordino le sue battute. Senza contare il merito incredibile di essere riuscito a rendere famoso nel mondo un posto, che altrimenti sarebbe rimasto sconosciuto ai più, come Cuneo».

L’arte di arrangiarsi, spesso geniale, è una delle caratteristiche dei personaggi di Totò che ritroviamo da sempre a Napoli.

«Anche in questo c’è un rispecchiamento: Totò nasce povero e si arrangia continuamente nella vita e nei suoi film torna questo personaggio che non ha mai dimenticato la fame. Tante è vero che l’elemento dell’indigenza è presente in molte scene, nelle quali sogna in modo semplice, da persona del popolo, un alimento per nulla sofisticato: lo sfilatino. L’aspetto, quindi, dell’arrangiarsi, del sotterfugio, del piccolo imbroglio è presente, ma i suoi personaggi non sono mai delle carogne. Utilizza degli espedienti perché gli servono per sopravvivere, per pagare la scuola alla figlia ad esempio. Si tratta di motivi nobili che ne fanno un povero cristo, mai il delinquente. Ha rappresentato in pieno il tipo umano che usciva dalla guerra: povero, pieno di voglia di vita, irriverente e disincantato quanto basta, che dava alle cose il giusto valore. E infatti da questo atteggiamento ne deriva una continua lezione di saggezza».

Totò e il cibo è un altro dei connubi della sua maschera. La scena degli spaghetti di Miseria e nobiltà è diventata un’icona di moltissime trattorie in ogni parte del mondo. Come lo spiega?

«È la fame atavica del popolo. Totò diventa il paradigma, il simbolo del rapporto tra il popolo e la fame. E il cibo è proprio questo e lui è una grande maschera, proprio come Pulcinella che tradizionalmente non fa altro che sognare montagne di maccheroni. Consideriamo anche che molti dei film sono stati girati tra la fine della guerra e il ’ 57-’ 58, anni decisivi in cui l’Italia comincia a voltare pagina, si lascia alle spalle la fame ed entra nel miracolo economico, ma il ricordo della fame è ben presente».

Pulcinella, Totò, Troisi, Maradona, Pino Daniele: perché Napoli ha bisogno di avere delle figure di riferimento, direi quasi dei miti?

«Intanto direi che tutti avrebbero bisogno di queste figure, ma non lo sanno, Napoli è una città che non ha dimenticato come il mito sia un alimento dell’immaginario che aiuta a ricostruire continuamente l’identità. Basti pensare che i napoletani si chiamano ancora con il nome della fondatrice mitica: la sirena Partenope. Il che vuol dire che il mito è nel cuore e negli occhi e queste figure rappresentano la collettività. Dopo la sirena Partenope è arrivato San Gennaro, poi Masaniello, fino a Maradona che incarnava l’uno e l’altro: un po’ Masaniello e un po’ San Gennaro, un difensore della città e un simbolo della Napoli che vince e che può fare miracoli. Non a caso nel film “Così parlò Bellavista” di Luciano De Crescenzo il poeta paragona una finta di Maradona allo scioglimento del sangue di San Gennaro».

L’arte di Totò è paragonabile a quella di Chaplin, Groucho Marx o è assoluta e inimitabile?

«Ciascuno di loro ha una cifra inimitabile, però ce li ricordiamo tutti. Sul piano dell’arte Totò è grande quanto gli altri e se avesse avuto alle spalle lo star system americano si parlerebbe di lui allo stesso livello di Chaplin, di Buster Keaton e degli altri grandi comici Usa. Il fatto che sia partito da una cinematografia come quella italiana, soprattutto da una cinematografia minore, e sia arrivato a essere il simbolo vuol dire che parliamo di un campione assoluto».

Come mai il suo linguaggio, i suoi modi di dire sono entrati nel parlare comune e spesso risolvono con una battuta imbarazzi, sentimenti e stati d’animo?

«Totò non chiedeva troppo per essere capito, la sua battuta faceva capire che lui ti aveva capito, c’era una perfetta sintonia. Ci si può calare in quella battuta come in un vestito che veste alla perfezione e diventa della persona, interpretandone il sentimento. Non a caso alcune battute come “siamo uomini o caporali”, “ma mi faccia il piacere”, “ogni limite ha una pazienza” sono diventati modi di dire comuni della lingua italiana».

Il titolo del suo ultimo libro Il presente in poche parole rimanda a un modo di dire alla Totò… “Ho detto tutto”, ripetuto ossessivamente con Peppino De Filippo in Totò, Peppino e la malafemmina…Lei, nei suoi libri, analizza la credulità popolari, le manie, le perversioni legate al cibo e alla cucina: sarebbe stata un’occasione ghiottissima per la comicità di Totò?

«Assolutamente sì. Sulle diete, ad esempio, cominciava già a giocarci. Faceva spesso battute sulla linea, sul dimagrimento. Anche se lui esalta sempre la donna in carne, la maggiorata, la donna che a Napoli si chiama “ciaciona”, come nel film “Signori si nasce” quando bacia il seno di una procace e giovane Angela Luce, o quando chiede a Sophia Loren in “Miseria e nobiltà” di essere accolto nel suo seno. In lui persino le donne sono quasi da mangiare. Anche in questo è come Pulcinella: il cibo e il sesso sono due facce dello stesso desiderio».

Totò e le donne: un altro rapporto molto stretto.

«Strettissimo. La sua vita è punteggiata da donne decisive. E Napoli è assolutamente donna».

I personaggi di Totò sono spesso irriverenti, non politically correct, forse è per questo che arrivano alla gente. Affronta anche temi scomodi: le case chiuse, il regime nazifascista, la morte e interpreta ancora una volta il sentimento popolare e risolve con uno sberleffo o una battuta che rimarrà per sempre nella mente. È questa la sua forza?

«Arrivano alla gente perché Totò in alcune cose non è stato costretto a censurarsi, mentre gli argomenti scomodi li ha affrontati con garbo. Quando non poteva affrontarli esplicitamente li risolveva, come in “Totò e i re di Roma”, con un “poi dice che uno si butta a sinistra…”. Si è salvato dall’onda del politicamente corretto e da questa forma di stupidità profonda che si annida nel politicamente corretto, risolvendo con uno sberleffo situazione pesanti e complicate. Dimostrando che non c’è bisogno di esasperare certe situazioni, ma che in certi momenti una battuta dà a tutti una via di uscita».

In occasione dei cinquant’anni della sua morte il mondo del cinema lo sta ricordando adeguatamente?

«Gli sta in parte restituendo, in ritardo, quello che gli ha tolto quando era vivo. Non dimentichiamo che molti dei lodatori attuali di Totò, come campione della comicità popolare, sono gli stessi che in quegli anni dicevano delle baggianate spaventose suoi sui film, figlie di una critica occhiuta e ideologica».

C’è qualche erede di Totò?

«No. No. No. Una sarebbe potuto essere Massimo Troisi che fondeva in se qualche aspetto di Totò e qualche altro di Eduardo. Più di Totò che di Eduardo, ma era un Totò generazionale che ne aveva quindi una parte. Oggi non vedo eredi».

“A proposito di politica, ci sarebbe qualche coserellina da mangiare?” Napoli celebra Totò al Rione Sanità, scrive Imma Pepino il 29/04/2017 su “I Siciliani”. “Mi scusi, mi sa dire dov’è che hanno messo la statua di Totò?”. “Signurì è facile, deve andare diritto. Non il primo cortile, il secondo”. Il secondo cortile è l’interno di un palazzo antico: il palazzo dello Spagnuolo, come recita la targa in legno sul corrimano della scala. La statua di Totò – realizzata da Giuseppe Desiato, in collaborazione con la Fondazione San Gennaro – non si trova qui però. L’indicazione che però mi è stata fornita dal pescivendolo all’ingresso del Borgo Vergini non è del tutto sbagliata, o meglio ha una sua logica: proprio a palazzo dello Spagnuolo dovrebbe essere realizzato il museo dedicato alla memoria di Antonio De Curtis – come deliberato nel 1996 dalla Giunta regionale. Il progetto, voluto anche dai cittadini del quartiere che diede i natali all’artista, è però fermo da vent’anni – come denunciato il 15 Aprile scorso, all’inaugurazione delle celebrazioni, dai rappresentanti della Terza municipalità (di cui il Rione Sanità fa parte) e in particolare da Francesco Ruotolo, consulente alla memoria della Municipalità stessa, che ha affisso in alcuni luoghi simbolo del rione dei manifesti di denuncia rivolti a sindaco e presidente della regione affinché “Totò non muoia una seconda volta”. Un signore di mezz’età, anche lui deluso visitatore del museo fantasma, si sofferma a descrivermi il degrado in cui versa anche la casa in cui nacque l’artista. Mi dirigo verso Piazza San Vincenzo, il cuore del quartiere. Dopo aver percorso qualche metro giungo in Largo Vita: qui campeggia il monolite raffigurante la sagoma di De Curtis. La statua è molto bella, moderna nelle forme. Si trova poco distante dal viale di ingresso dell’ospedale San Gennaro, chiuso dalla giunta regionale De Luca. Il presidente, contestato proprio in occasione dell’inaugurazione della statua, aveva avvalorato la sua decisione pronunciando un solenne e istituzionale: “Signo’ ma l’avete fatta la pastiera?”. Potrei percorrere Calata delle fontanelle e ritornare a Materdei, ma decido di dare un’occhiata anche alla casa di Totò. La strada per arrivare è lastricata di opere dedicate all’artista, come il busto posto all’angolo di Salita Capodimonte. Il vecchio appartamento, in Via Santa Maria Antesaecula, è stato acquistato da un privato e si trova in condizioni di totale abbandono. “La proprietaria ha levato pure gli infissi alle finestre, però se entrate ci sta ancora la finestra del suo bagno che si vede dal cortile” mi dice, invitandomi a entrare, un vicino dell’appartamento accanto a quello di Totò. Un pezzo di memoria storica privatizzato e sottratto alla collettività. Tra il museo fantasma di palazzo dello Spagnuolo e la casa saccheggiata. Un patrimonio che potrebbe portare al riscatto di questo quartiere, e che invece rimane incastrato da anni tra il disinteresse delle istituzioni e il marchio impresso dalla camorra. Il cinquantesimo anniversario della scomparsa di Totò sarebbe una buona occasione per spostare l’attenzione dal centro città “vetrina” a un quartiere popolare in cui l’impegno delle istituzioni arriva solo quando c’è da fare una passerella o raccattare un applauso, un voto. Il Rione Sanità non può ripartire solo dall’illustre concittadino ma da tutti i cittadini, da tutte le pance, da tutte le coscienze. Perché è “la somma che fa il totale!”. 

È morto Gianni Boncompagni, il rivoluzionario della tv italiana, scrive "la Repubblica il 16 aprile 2017. Il conduttore radiofonico, paroliere, autore televisivo e regista aveva 84 anni. In una carriera di oltre mezzo secolo, con i suoi programmi ha cambiato la faccia del piccolo schermo.È morto a Roma Gianni Boncompagni. Aveva 84 anni. Conduttore e autore radiofonico e televisivo, regista, nel corso di una carriera lunga circa mezzo secolo è stato l'ideatore di numerosi programmi che hanno segnato la storia della televisione italiana. Tra i grandi innovatori dello spettacolo insieme a Renzo Arbore, ha dato vita a show rivoluzionari come Alto gradimento, Bandiera gialla, Pronto, Raffaella?, Domenica In, Non è la Rai, Carramba. Boncompagni era nato ad Arezzo il 13 maggio del 1932. A dare la notizia della morte sono state le figlie Claudia, Paola e Barbara: "Dopo una lunga vita fortunata, circondato dalla famiglia e dagli amici se n'è andato papà, uomo dai molti talenti e padre indimenticabile". La camera ardente sarà allestita martedì 18 aprile a Roma, alle 12, nella sede Rai di via Asiago 10. "A tutti i maggiori degli anni 18, a tutti i maggiori degli anni 18, questo programma è rigorosamente riservato ai giovanissimi". Poi la sigla con la voce di Rocky Roberts. Boncompagni e Renzo Arbore aprono così Bandiera Gialla, è il 1965, la Rai è quella di Ettore Bernabei che solo quattro anni prima aveva fatto indossare i collant neri coprenti alle gemelle Kessler. Bandiera Gialla per primo, nella storia della radio italiana, porta una ventata beat, apre le porte a Patty Pravo, Lucio Battisti e alla swingin' London, all'umorismo e alla goliardia. La liturgia radiofonica va a gambe all'aria, i giovani scoprono di essere giovani e soprattutto scoprono che c'è spazio anche per loro, per divertirsi. Un trend che la coppia svilupperà e amplificherà con Alto gradimento (1970), fucina dell'improvvisazione e del sommo cazzeggio nonsense. "La nostra amicizia è nata quando avevamo all'incirca 25 anni - ricorda Arbore - un'amicizia non conclusa ora che eravamo più vicini agli Ottanta che ai Settanta, come diceva sempre lui con il suo straordinario spirito toscano. Per me è stata un'amicizia provvidenziale, spero lo sia stato anche per lui. Ci conoscemmo ai tempi di quando frequentavamo il corso di maestro programmatore, eravamo compagni di banco. Aveva una visione moderna della vita, un senso d'umorismo all'avanguardia. Una visione che lo ha portato a rivoluzionare la radio e la tv. Spero di essergli stato utile con il mio atteggiamento più riflessivo e romantico, ma altrettanto teso a rivoluzionare la radio e la tv". Nel 1977 Boncompagni debutta in tv con Discoring. Poi arriva Pronto, Raffaella? (1984), condotto da Raffaella Carrà, di cui è stato pigmalione e con la quale ha avuto una lunga relazione sentimentale. Tocca poi a Pronto, chi gioca? (1985) condotto da Enrica Bonaccorti e a tre edizioni di Domenica in. Nel 1991 il passaggio a Mediaset, con Primadonna condotto da Eva Robin's e soprattutto Non è la Rai, il programma che ha per protagoniste decine di ragazze adolescenti, alcune destinate ad continuare la carriera nella tv e nel cinema, come Claudia Gerini, Alessia Merz, Antonella Elia, Laura Freddi, Lucia Ocone, Romina Mondello, Sabrina Impacciatore e soprattutto la "primadonna" Ambra Angiolini che diventa l'idolo dei teenager. E che oggi lo ricorda con questo messaggio: "Se n'è andato il giorno di Pasqua ....è stato un genio anche nel salutarci. Grazie da una ragazzina normale che tu hai fatto in modo che crescesse con il coraggio di essere diversa da tutto, nel bene e nel male. Sei ovunque". Torna alla Rai, nel 1996-97 firma due edizioni di Macao (la prima con Alba Parietti, poi esclusa), la cui seconda edizione chiude per bassi ascolti. Ugualmente sfortunata l'esperienza di Crociera. Nel 2002 il rilancio con il Chiambretti c'è di Piero Chiambretti, tra informazione e varietà, poi tra il 2007 e il 2008 dirige e conduce Bombay su La7. Padre della tv leggera e imprevedibile, Boncompagni firma anche delle hit musicali: Ragazzo triste, portata in classifica da Patty Pravo e Il mondo, successo mondiale lanciato nel 1965 da Jimmy Fontana, nonché tutte le hit di Raffaella Carrà, da Tuca tuca a Tanti auguri e ancora A far l'amore comincia tu. "Bandiera gialla", ricordava, " segnò un cambiamento culturale. Abbiamo lanciato i Beatles contro i Rolling Stones, i complessi li abbiamo battezzati tutti. Approfittando della scarsa conoscenza dell'inglese mettevamo anche canzoni con doppi sensi, allora inconcepibili per la radio, tipo Got My Mojo Working di Jimmy Smith, che voleva dire 'porto il mio cosino a lavorare'". Ma poi, con un po' di malinconia, aggiungeva: "Oggi non s'inventa più niente. Gli stadi si riempiono con nomi orrendi, non ci sono mica i Beatles e loro, i giovani del cavolo, cantano canzoni senza senso. Quelli degli anni Sessanta erano spaventosi ma l'Italia era molto indietro. Quando dico che per certi cantanti ci vogliono gli arresti domiciliari così non fanno danni non deve ridere. Deve darmi retta". Interrogato, pochi anni fa, su quale fosse lo stato della tv, aveva detto: "Oggi guardo molto Sky, Maurizio Crozza su La7, History Channel o i film. Sulla Rai solo L'eredità, forse perché mi sento molto bravo nel dare le risposte. Ma la tv in generale verrà vista sempre meno, anzi nei prossimi dieci anni scadrà. A guardarla ormai sono solo donne anziane semianalfabete, quelle che votano Berlusconi. I ragazzi non sanno neanche cosa sia. La tv di oggi è Internet, con tutto quello che comporta. Sopravviverà per lo sport, che ci sarà sempre".

Non è la Rai, Gianni Boncompagni: "Detestavo Bonolis, lo sostituii con Ambra", scrive Lara Gusatto il 26 marzo 2015 su "Tvzap". Intervistato in occasione della prima puntata della serie tv 1992 l’autore e regista racconta i retroscena dello storico programma Mediaset. “Ricordo solo che da Mediaset all’inizio mi ammollarono Bonolis che aveva già il contratto, ma io lo detestavo allora come lo detesto oggi. Non gli feci fare niente e dopo un anno misi Ambra al posto suo”. A parlare e raccontare i retroscena dello storico programma Non è la Rai è il suo creatore Gianni Boncompagni dalle pagine de “Il fatto quotidiano”. Complice la serie tv Sky 1992 dove compaiono diverse scene dello show cult di Mediaset che all’epoca rappresentò un vero caso nella storia della televisione, il quotidiano ha intervistato il Deus ex machina di Non è la Rai, il suo primo programma realizzato per il Biscione. E Boncompagni oltre a esprimere il suo parere nei confronti di Paolo Bonolis, che condusse la seconda edizione dello show dopo Enrica Bonaccorti, racconta di come nacque il programma: “Berlusconi voleva farmi fare a tutti i costi Pronto Raffaella? e io gli dicevo che era impossibile perché era un programma basato sulle telefonate e Mediaset non aveva ancora la diretta”. E su Ambra e il famoso auricolare rivela “Tutti credevano che io suggerissi le battute, invece le dicevo delle cose tremende, irriferibili, e lei doveva fare finta di nulla”.

Boncompagni, il grado zero della tv. Era interamente e intimamente votato allo spettacolo e alla leggerezza, scrive su l'"Ansa" Massimo Sebastiani il 16 aprile 201719. Nel giorno in cui il mondo cristiano celebra la resurrezione di Cristo, Gianni Boncompagni è morto. Se si fosse trattato di un gesto volontario, potremmo pensare all’ennesimo sberleffo dissacrante di un uomo che detestava la vecchiaia, il dolore, la sofferenza ed era interamente e intimamente votato allo spettacolo e alla leggerezza. Aretino come il più celebre Pietro, e come lui maestro di satira e pasquinate fin dai tempi della radio - letteralmente decostruita con programmi come Bandiera Gialla e soprattutto Alto gradimento - Boncompagni, autore e regista più che conduttore, è stato un protagonista della tv molto lontano sia dal professionismo impeccabile dei ‘bravi presentatori’ come Mike, Baudo o Corrado, sia da una concezione ‘biologica’ della televisione come quella di Costanzo, in cui il corpo del conduttore è tutt’uno con lo schermo e il programma. Al contrario, secondo un’intuizione confermata anche dal discorso critico dei suoi detrattori più feroci, è sempre stato il vuoto il vero centro di gravità permanente della tv di Boncompagni. Un vuoto rivendicato dal teorico (involontario) della tv di puro intrattenimento, ripetitiva e insensata, realizzata, come certi B-movie poi diventati di culto, presto e male. Un vuoto attraverso il quale, a saper vedere, non sarebbe stato difficile scorgere il ‘pieno’ di una rivelazione sociologica sulla società ‘affluente’ (le file delle mamme a Cinecittà per promuovere la carriera delle figlie, l’esibizionismo, il gusto per l’azzardo e la ricchezza facile con i celeberrimi fagioli di Raffaella Carrà). L’unico, ancora fino ad oggi, a poter passare indifferentemente (per lui e per il broadcaster) da Mediaset alla Rai mantenendo quasi inalterati successo, caratteristiche e perfino flop. L’unico a poter fare una tv di successo senza star e senza format. Per chi crede nella società dello spettacolo, cioè per chi non trova alcuna accezione negativa nell’espressione coniata da Guy Debord per mettere in guardia dal trionfo dell’immagine sulla realtà nella società capitalistica, l’intrattenimento è uno solo e non c’è alcuna differenza tra tv commerciale e servizio pubblico. Non c’è dunque alcuna ragione per soffrire il passaggio da una all’altra. A chi lo ha etichettato come inventore del nulla dovrebbero tremare i polsi al pensiero dell’immane e vertiginosa opera creativa che in questo modo gli viene attribuita. D’altra parte, il successo definitivo dell’artigiano del vuoto sugli intellettuali più occhiuti e infastiditi viene certificato da Umberto Eco che, all’apice del proprio successo popolare, si scomoda per affrontare il ‘caso Ambra’, reginetta con auricolare delle giovani fanciulle in fiore di ‘Non è la Rai’, che da quel momento chiamerà il semiologo di Alessandria ‘collega’. E ad ospitarlo nuovamente in Rai, con un’altra versione di vuoto televisivo, ‘Macao’, sarà, ironia delle cose, proprio un intellettuale cresciuto alla scuola situazionista di Debord, l’allora direttore di Raidue Carlo Freccero, oggi membro del cda di viale Mazzini. 

Non è la RAI, un programma-spazzatura forse irripetibile…, scrive il 24 aprile 2009 Luigi Ruffolo. Uno dei momenti più alzabandierofili e significativi partoriti dall’incontro tra la televisione padana e quella romana è stato sicuramente rappresentato da Non è la RAI. Col suo leggendario studio popolato da cento adolescenti anseriformi tutt’indaffarate a esporsi al pubblico ludibrio con i soliti pseudoballetti da osteria, o starnazzando giochi telefonici palesemente truccati e canzoni ultradeficienti. In sostanza, patetici pretesti per mostrare alle non ancora internettizzate genti un po’ di sana selvaggina, di quella barely legal, primo pelo vero o presunto. Ci sono state indubbiamente tante altre trasmissioni all’insegna del tettaculismo più indefesso in grado di scarcerare nell’aere kitsch, edonismo, tamarraggine e insignificanza in dosi altrettanto elefantesche. Ma forse nessuna è stata così sfacciatamente studiata e costruita attorno a un unico, primigenio elemento. Ovvero l’ego-pisello del suo triste demiurgo. Un omuncolo di mezza età-mezza calzetta che per fare lo sbruffone decide di esagerare vistosamente, arrivando là dove nessuno aveva osato. A infrangere con spigliatezza tabù secolari, mietendo nel silenzio assenso delle italiche abitazioni fiumi di consensi e di spermatozoi innocenti. Non è la RAI ha probabilmente rappresentato l’espressione più sublime e genuina di un certo trash televisivo dell’era postcaroselliana, un picco difficilmente ripetibile nell’epoca del reality a tutti i costi. Sfruttando forse l’ultimo spiraglio spazio-temporale a disposizione, prima dell’avvento della pedoparanoia di massa. Prima che il Moige e i suoi astrusi proclami attecchissero e aderissero quatti quatti alle pareti mentali della popolazione in modo apparentemente inscrostabile, costringendo eserciti di regazzini innocenti a passare le loro esistenze murati vivi nelle scuole con la scusa del mostro impermeabilizzato e dotato di fallo bionico sempre in agguato. Come dimenticare le inguardabili magliette, l’orripilante merchandising, le inascoltabili compilation contenenti veri e propri inni generazionali paragonabili per certi versi a quelli sfornati dal duo Pezzali-Repetto. Come scordare il moto ipnotico delle acerbe tette rimbalzanti, i teneri visini indifesi perennemente macerati dalle finte lagrime, la castità quasi irreale della Trevisan (che infatti, dopo essere stata protagonista del meno svestito dei calendari dopo quello delle Orsoline, ripudiata da un Piersilvio in cerca di più fresche prede, non fece carriera). Quella soffusa, quasi sognante atmosfera ai confini del softporno che avrebbe trovato piena realizzazione solo anni dopo nel cult movie “Vacanze da spiare” (protagoniste della complessa trama Francesca Gollini, Ilaria Galassi e Marzia Di Maio). E poi la processione delle fan-cazziste affamate di provini e proposte indecenti, accompagnate al macello da genitori ben più esaltati di loro. E gli inquietanti striscioni “Ambra c’è” delirati da folle di piccoli aspiranti falegnami scatenati all’uscita degli studi sul Palatino; i cori inneggianti all’aria fritta mista al vuoto cerebrale impersonificati dall’arrivista teleguidata per antonomasia; e dalle altre, sciattissime e scimunitissime lolite di quinta categoria servite di contorno.

Morto Gianni Boncompagni. Un grande, che si vantava di fare «la tv del vuoto pneumatico». Di sé, con coraggio e cinismo, diceva di essere il rappresentante, il venditore, il piazzista della tv commerciale. Una condizione tanto rischiosa quanto onesta, scrive Aldo Grasso il 16 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Se in radio sono stati la coppia più innovativa della storia della Rai, in tv Gianni Boncompagni e Renzo Arbore erano il diavolo e l’acqua santa. Insieme, in via del Babuino, avevano partecipato al concorso per «maestro programmatore di musica leggera». È lì che si erano conosciuti, due giovani provinciali (uno veniva da Foggia, l’altro da Arezzo) con tanta voglia di sfondare: insieme hanno fatto «Bandiera gialla», «Per voi giovani» e «Alto gradimento»…In tv erano molto diversi, lo sapevano e ci scherzavano sopra. Boncompagni era pur sempre l’autore di programmi come «Pronto, Raffaella?» (1983) e «Pronto, chi gioca?» (1985), «Non è la Rai» (1991), «Casa Castagna» (1995-96), «Macao» (1996)…A onor del vero, abbiamo faticato non poco prima di convincerci che anche Gianni era un grande: grande perché diverso dal nostro modo di intendere la tv, perché era «l’altra faccia» della tv generalista, perché, nonostante le critiche, faceva una tv coraggiosa, così spavalda da non meritarsi la ricompensa di un elogio, di una ricerca o il coronamento di un’inquietudine. Di fronte alla retorica della tv di qualità, della tv per pochi, della tv educativa (la tv perbene esiste solo in presenza della tv permale), solo Boncompagni ha avuto il coraggio di rappresentare la realtà in cui viviamo, nella sua banalità, nella sua vacuità. Di sé, con coraggio e cinismo non comune, diceva di essere il rappresentante, il venditore, il piazzista della tv commerciale. Una condizione tanto rischiosa quanto onesta. Diceva di essere un mercenario che non credeva in niente. Nemmeno nei soldi, dato che non ne aveva più bisogno. La sua frase che più mi ha colpito è questa: «La tv, tranne casi specialissimi, è tutta spazzatura». Scherzava, mica tanto, sostenendo di fare la televisione del vuoto pneumatico, la televisione del nulla. Una tv vacua, ruffiana e opportunista soprattutto nei confronti dello sponsor: «La tv difficile da fare è quella vuota, non quella intelligente. Per fare il vuoto ci vuole fantasia, creatività». Per molto tempo la sua immagine è stata associata a «Non è la Rai», a tutte quelle ragazzine in mezzo alle quali troneggiava come un satiro danzante della mitologia greca. «Le belle fanciulle – ripeteva con un sorriso malizioso - sono la mia vita. Accanto ai giovani, ai giovanissimi mi sento invaso da un senso di benessere, di fresco benessere che null’altro e nessun’altra cosa mi dà. E allora vivo con loro, parlo la loro lingua, ho i loro desideri, ne so interpretare gli umori e le fantasie…». Una trasmissione come «Non è la Rai» non aveva nessun contenuto se non un’innocua vena estetica del tipo «All’Ambra delle fanciulle in fiore». Una tendenza un po’ voyeuristica, certo, ma innocente, molto innocente. «Dei miei programmi – ha detto in un’intervista – salvo soprattutto “Macao”, molto moderno per l’epoca. E poi “Pronto Raffaella?”, che aprì le trasmissioni del mezzogiorno e dopo una settimana raggiunse i 14 milioni di spettatori. Un boom oggi incredibile. Fu merito anche del gioco del barattolo con i fagioli: lo copiai da una di queste terribili tv private. Capii subito che avrebbe funzionato e Raffaella si fidò». In Boncompagni spesso prevaleva un disincanto e una mancanza di fede nella tv che generava un salutare e divertito avvicinamento al mezzo; a volte invece era un po’ sopraffatto dalla goliardia e allora si lasciava sedurre dalla velleità narcisistica di comportarsi come un bambino discolo che dice le parolacce per stupire gli adulti. Riposi in pace.

Gianni Boncompagni. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giandomenico Boncompagni, meglio conosciuto come Gianni (Arezzo, 13 maggio 1932 – Roma, 16 aprile 2017), è stato un conduttore radiofonico, paroliere, autore televisivo e regista televisivo italiano. Nato in Toscana da padre militare dei ruoli amministrativi e madre casalinga, a 18 anni si trasferì in Svezia, dove visse dieci anni svolgendo vari lavori, diplomandosi all'Accademia svedese di grafica e fotografia, e iniziando l'attività di conduttore radiofonico per la radio svedese. Durante questa esperienza, ottenne un'intervista dal sociologo Danilo Dolci che riscosse molto successo. In Svezia si sposa con un'aristocratica e ha da lei tre figlie, tra cui l'autrice televisiva Barbara. La moglie lo lascerà di lì a breve, e lui chiederà e otterrà la patria potestà, crescendo le figlie da ragazzo padre in Italia. Tornato in Italia, vinse nel 1964 il concorso RAI per programmatore di musica leggera, ed iniziò a lavorare nella radiofonia RAI dove ebbe un grandissimo successo assieme a Renzo Arbore, nei programmi culto a cavallo tra gli anni sessanta e settanta come Bandiera Gialla e Alto gradimento, determinanti per la diffusione della musica beat in Italia. La coppia creò un nuovo modo di fare intrattenimento, basato sul non-sense, sulla creazione di tormentoni, sull'improvvisazione e l'imprevedibilità. Nel 1965 debuttò anche come cantante, con il nome d'arte di Paolo Paolo, incidendo per la RCA Italiana. Sua è anche la voce nella sigla della Guapa. Sempre nel 1965 scrive insieme a Gianni Meccia il testo per Il mondo, successo mondiale di Jimmy Fontana, che gli frutta solo nel primo anno dieci milioni, con cui si compra la prima casa; tra le altre canzoni scritte da Boncompagni ricordiamo anche Ragazzo triste per Patty Pravo. Fa parte della prima serie del programma quotidiano del mattino Chiamate Roma 3131 insieme a Franco Moccagatta e Federica Taddei, 1969. Nel 1977 Boncompagni approda sugli schermi tv della RAI, dove conduce il programma musicale Discoring, anche questo di straordinario successo: fu uno dei primi programmi musicali destinato a un pubblico esclusivamente giovanile, con un proprio gergo, e con le ultime tendenze del momento sia musicali sia nell'abbigliamento. Da allora le esperienze televisive si susseguirono continuamente: Superstar e Drim nel 1980 e poi, per quasi 10 anni in coppia con Giancarlo Magalli come autore, Sotto le stelle e Che Patatrac nel 1981, Illusione, musica, balletto e altro nel 1982 e Galassia 2 nel 1983. Oggi è conosciuto soprattutto come autore e regista di trasmissioni di grande successo popolare: Pronto, Raffaella? che consacrò la sua ex compagna Raffaella Carrà (1983/1985) che vinse nel 1984 il titolo di Personaggio televisivo femminile a livello europeo consegnato dalla European TV Magazines Association e per la quale scrisse spesso i testi di alcune delle sue più famose canzoni. Proseguì con Pronto, chi gioca? che lanciò la carriera televisiva di Enrica Bonaccorti (1985/1987). Dal 1987 al 1990 curò l'ideazione e la realizzazione di Domenica In, dove sdoganò Edwige Fenech, già famosa come icona sexy grazie ai film scollacciati degli anni '70, e Marisa Laurito che grazie a lui consolidò la sua fama televisiva. Fu proprio a Domenica In che nacque l'idea a basso costo del cruciverbone e del pubblico di ragazzine figuranti, dotate di talento o semplicemente carine e petulanti, che preludevano quelle che saranno poi protagoniste di Non è la RAI. Risale infatti al 1991 il passaggio alle reti Fininvest (oggi Mediaset) con Non è la RAI: l'ennesimo programma di culto con Enrica Bonaccorti, in onda da quell'anno fino al 1995. In quelle quattro edizioni Boncompagni è stato sempre al centro delle attenzioni dei media a causa degli scandali legati al programma condotto dalla ancora minorenne Ambra Angiolini. Lo stesso anno realizzò anche Primadonna con Eva Robin's, Bulli & pupe (estate 1992) e poi Rock 'n' Roll (1993), praticamente degli spin-off nati dal successo della trasmissione pomeridiana. Il suo alter ego in quel periodo era Irene Ghergo, coautrice dei suoi programmi. A Non è la RAI lanciò appunto il personaggio di Ambra, che all'epoca fu un vero e proprio fenomeno di costume, ma dalla fucina del programma pomeridiano furono moltissime le personalità del mondo dello spettacolo che ebbero il loro debutto e che in seguito si distinsero in vari campi dello spettacolo: da Claudia Gerini a Laura Freddi, da Sabrina Impacciatore a Nicole Grimaudo, da Antonella Elia a Miriana Trevisan e Francesca Gollini. Nella stagione 1995/1996 collaborò ad un ultimo programma in Mediaset con il programma pomeridiano Casa Castagna, presentato da Alberto Castagna. Tornato in RAI, nel 1996 e 1997 diresse Macao, con Alba Parietti nella prima edizione e nella seconda con "PI" (personaggio creato graficamente per sopperire all'abbandono della Parietti), tutto sommato una variante del modulo di Non è la Rai, con comici, canzoni, ritornelli e un pubblico di figuranti-protagonisti, dove per la prima volta usò anche personaggi maschili. Nel 1998 realizza per Rai 2 il programma di prima serata Crociera condotto da Nancy Brilli; gli ascolti sono molto bassi e la trasmissione viene soppressa dopo una sola puntata. Ha inoltre fatto parte della Commissione Artistica del Festival di Sanremo 1998 ed ha collaborato con Piero Chiambretti per Chiambretti c'è. Nell'estate 2003 ha curato la trasmissione dell'access prime time di Rai 1 Telefonate al buio, condotta da Mara Venier. Il 9 giugno 2004 firma la regia televisiva per Rai 2 e Rai International del concerto di Elton John allo Stadio di Reggio Calabria, in Omaggio a Gianni Versace. Nella stagione 2005/2006 avrebbe dovuto curare Domenica In, abbandonando tuttavia la trasmissione dopo la prima puntata. Nell'autunno 2008 è tornato a lavorare come autore per Raffaella Carrà nella nuova edizione di Carràmba che fortuna. Il 23 ottobre 2006 Gianni Boncompagni è tornato in TV con un nuovo programma, dal titolo Bombay, trasmesso dall'emittente La7. Esattamente come nei suoi precedenti programmi, Bombay presentava scenografia minimale e pubblico composto da ragazze cantanti e vocianti; lo studio era diviso in due parti: una, molto grande, ospitava la sala regia, affollata di ragazze, ed un'altra, molto piccola, completamente tappezzata di rose gialle, rappresentava il vero set televisivo, al cui interno venivano ospitati personaggi bizzarri che discutevano su temi d'attualità sprofondando in dialoghi dell'assurdo. Ha partecipato dal 25 maggio 2011 come giurato di Lasciami cantare!, talent show canoro di Rai 1. Dal 2012 ha curato una rubrica fissa su Il Fatto Quotidiano dal titolo "Complimenti". Gianni Boncompagni era ateo: nell'intervista a Claudio Sabelli Fioretti, pubblicata su Io Donna, supplemento al Corriere della Sera del 4 maggio 2012, ha dichiarato: "Io sono sempre stato ateo e morirò ateo". Muore il 16 aprile 2017 a Roma all'età di 84 anni e 11 mesi.

Boncompagni fu tra quelli che misero in circolazione la voce che Mia Martini portasse sfortuna, determinandone un lungo periodo di lontananza dalla musica. In un'intervista a Epoca del 5 marzo 1989 la stessa Mia Martini ricordava: «La delusione più cocente me la diede Gianni Boncompagni, un amico per l’appunto. Una volta fui ospite a Discoring, lui era il presentatore. Appena entrai in studio sentii Boncompagni che diceva alla troupe: ragazzi, attenti, da adesso può succedere di tutto, salteranno i microfoni, ci sarà un black out». In un'altra intervista con Enzo Tortora la Martini definì Boncompagni "detestabile".

VI SCONGIURO. Lo strano caso di Mia Martini cantante «portasfortuna». Epoca 05/03/1989. Mia Martini. La cantante che è la sorella di Loredana Berté, è stata a lungo perseguitata dalla fama di jettatrice una diceria che l’ha costretta a interrompere la carriera per sei anni. E’ tornata alla ribalta a Sanremo con la canzone “Almeno tu nell’Universo”. "Jettatrice", Menagramo”, “portajella”. Il pregiudizio, l'ignoranza e la malafede hanno schiacciato per anni la vita Domenica Berté, in arte Mia Martini. Nel mondo scaramantico e superficiale della canzone, quella fama significa isolamento, difficoltà di ogni genere. Ma adesso, prendendo tutti in contropiede, la cantante è tornata alla ribalta, partecipando al Festival di Sanremo con un brano, “ALMENO TU NELL’UNIVERSO”, composto per lei da Maurizio Fabrizio e Bruno Lauzi. Tutto come se niente fosse? Non proprio. Anche se Mia Martini, quarantadue anni di Bagnara Calabra, non lo ammette apertamente, il suo calvario è stato lungo e sofferto. «Tutto è cominciato nel 1970», racconta. «Allora cominciavo ad avere i miei primi successi. Fausto Taddeu, un impresario soprannominato “Ciccio Piper” perché frequentava il famoso locale romano, mi propose una esclusiva a vita. Era un tipo assolutamente inaffidabile e rifiutai. E dopo qualche giorno, di ritorno da un concerto in Sicilia, il pulmino su cui viaggiavo con il mio gruppo fu coinvolto in un incidente. Due ragazzi persero la vita. “Ciccio Piper” ne approfittò subito per appiccicarmi l’etichetta di “porta jella”» Da allora l’aneddotica si fece sterminata. Mostra della Canzone, 1973. All’Hotel De Bains di Venezia, dove alloggia Mia Martini, scoppia un incendio. I colleghi e gli addetti ai lavori non lo dicono, ma tutti pensano che la colpa sia dell’effetto Martini. A dieci anni di distanza, un altro incidente stradale. Sull’autostrada MilanoBrescia, la vettura su cui viaggia la cantante è coinvolta in un tamponamento a catena. Muore l’impresario Pierluigi Premoli, Mia Martini rimane ferita. «All’inizio ridevo di questa fama», afferma la cantante. “Poi mi accorsi che non soltanto i nemici e gli invidiosi, ma anche le persone che amavo si lasciavano condizionare da questa mia “fama”. La delusione più cocente me la diede Gianni Boncompagni, un amico per l’appunto. Una volta fui ospite a DISCORING, lui era il regista. Appena entrai in studio sentii Boncompagni che diceva alla troupe: ragazzi attenti, da adesso può succedere di tutto, salteranno i microfoni, ci sarà un black out. Chiesi ai responsabili della mia casa discografica di allora, di intervenire. Se ne guardarono bene, giustificandosi col fatto di dovere mantenere buoni rapporti con la Rai». Il fardello si fece via via sempre più pesante. «Finché ero una cantante di successo», racconta Mia Martini, «mi sembrava soltanto un gioco fastidioso. Ci scherzavo su. Se capitavo in un casinò e c’era qualcuno che mi stava antipatico, mi mettevo dietro a lui per farlo innervosire. Così vince il tuo avversario, gli dicevo. Poi la cosa divenne sempre più seria». Fatalità? Complotto? «Forse tutte e due», risponde Mia Martini. «Ho riflettuto a lungo su queste vicende e sono arrivata alla conclusione che fatalmente ci fu un complotto». Ma non basta. Anche la vita si accanì con Mia Martini. Il rapporto quasi decennale con il cantautore Ivano Fossati andò in pezzi. La rescissione del contratto con la Ricordi le costò 200 milioni. E ancora pettegolezzi, ancora polemiche. Mia Martini non resse. Sei anni fa il ritiro dalle scena. Pur essendo considerata una delle migliori interpreti della musica leggera italiana, con alle spalle successi come “Piccolo uomo” e riconoscimenti internazionali, la sorella di Loredana Berté si trasferì in campagna, a Calvi dell’Umbria dove vive tutt’oggi. Cosa l’ha spinta, adesso a rituffarsi nella mischia? «E’ cambiato il mondo della canzone e sono cambiata anch’io», spiega. «Oggi tutto è più veloce ha il ritmo di uno spot pubblicitario. Spero che non ci sia più tempo per certe bassezze. Poi mi ero stancata di cantare per pochi amici. E Sanremo era il palcoscenico ideale per dire sono tornata». Un nuovo album quasi pronto titolo “Martini Mia”, canzoni scritte per lei da Dario Baldan Bembo, Enzo Gragnaniello, Maurizio Fabrizio. Una composta da lei stessa con un titolo più che allusivo “Spegni la testa”, Una nuova casa discografica, la Fonit Cetra. E ancora la sigla della serie “Amori”, fra poco in onda su Canale 5. Mia Martini ricomincia sul serio. Qualche timore? «Ho adoperato questi anni per crescere», commenta serena la cantante «spero che gli altri abbiano fatto altrettanto». Sopra Mia Martini oggi. In alto come era nel 1975 a 27 anni. La cantante che è la sorella di Loredana Berté, è stata a lungo perseguitata dalla fama di jettatrice una diceria che l’ha costretta a interrompere la carriera per sei anni. E’ tornata alla ribalta a Sanremo con la canzone “Almeno tu nell’Universo”.

Chiambretti intercetta l’auricolare di Ambra e sente la voce di Boncompagni, scrive il 16/04/2017 "La Stampa”. Una delle leggende più celebri della televisione italiana è senza dubbio quella dell’auricolare che Ambra Angiolini indossava durante la conduzione del programma di Canale 5 Non è la Rai. Il mito vuole che l’autore Gianni Boncompagni utilizzasse un collegamento radio per suggerire ogni parola ad Ambra, così un giovane Piero Chiambretti ha provato a svelare l’arcano.

“Le dicevo cose tremende”: Boncompagni e Ambra, gli auricolari che fecero la storia. Era l’inizio degli anni 90 quando Gianni Boncompagni decise di mettere al timone di Non è la Rai una giovanissima Ambra Angiolini, preferendola a Paolo Bonolis. Il legame tra i due scorreva sul filo invisibile di un paio di auricolari, che hanno poi fatto la storia della tv, scrive il 17 aprile 2017 Eleonora D'Amore su "Fanpage". Nel 2015, in occasione della messa in onda della prima puntata della fiction "1992" di Stefano Accorsi (nella quale viene più volte citato), il Fatto Quotidiano ha intervistato Gianni Boncompagni, storico autore e regista di "Non è la Rai". A poche ore dalla sua morte, è impossibile non fare un tuffo nel passando, ripercorrendo gli albori di quella tv teen, che in poco tempo divenne il punto di riferimento di milioni di adolescenti. È vero che c'era un'emulazione pazzesca. Le ragazze erano tutte vestite uguali, e naturalmente gli sponsor facevano a gara per darci i vestiti. Però nessuna ragazzina poteva dire una cosa del genere, manco sapevano cosa volesse dire lo spirito critico. E non avevano nemmeno sensi di colpa: si divertivano e basta. E fu proprio negli studi del Palatino in Roma che nacque il mito dell'auricolare. Di fatto, Boncompagni decise di affidare l'intero programma ad una giovanissima Ambra Angiolini, alla quale si legò indissolubilmente tramite un paio di auricolari. La leggenda della prima conduzione a distanza prese vita a poco a poco, sebbene entrambi smentissero ciclicamente. Poi l'ammissione. Ed è così che il noto regista ne spiegò la genesi, appena due anni fa: "Non ricordo bene come andò. Ricordo solo che da Mediaset all'inizio mi ammollarono Bonolis che aveva già il contratto, ma io lo detestavo allora come lo detesto oggi. Non gli feci fare niente e dopo un anno misi Ambra al posto suo, con gli auricolari. Tutti credevano che io suggerissi le battute, invece le dicevo delle cose tremende, irriferibili, e lei doveva fare finta di nulla". Già allora, però, fu verificabile quanto le parole di Boncompagni non fossero solo un elemento di disturbo per la ‘radiocomandata' Ambra. Piero Chiambretti si prese la briga di intercettarli, dimostrando quanto il collegamento continuo contaminasse al conduzione stessa.

Barbara Carfagna shock: "Isabella Ferrari in Rai a 16 anni perchè amante di Boncompagni. Giovedì 20 Aprile 2017. Barbara Carfagna, volto del Tg1, al veleno su Facebook contro Isabella Ferrari e Marco Travaglio, con un lungo e polemico post su Gianni Boncompagni, che fa il paragone con la vicenda delle famose "cene eleganti" di Berlusconi e al caso Ruby. Coinvolta anche Claudia Gerini. Così inizia la Carfagna: "Quanto cambia chi è la persona che lo compie nel racconto di un comportamento? Tutti amavamo e piangiamo la morte di Boncompagni. Io me lo ricordo a qualche festa da D'Agostino in cui si parlava di Berlusconi. Anche lui aveva avuto amanti minorenni e le aveva piazzate con successo, anche nella TV di Stato". "Una di queste amate e piazzate in Rai a 16 anni, era lei. Isabella Ferrari. Qui Insieme a uno dei più grandi accusatori di Berlusconi per le vicende Ruby e Noemi. Però Boncompagni lo abbiamo sempre visto tutti solo come un creativo Pigmalione. Lei e la Gerini come due miracolate per averlo avuto accanto, brave belle e intelligenti; una oggi pure sofisticata intellettuale, in Teatro con Travaglio".  Per la Carfagna quello di Boncompagni è stato, in chiusura: "un comportamento oggi condannato, ma negli anni '80 accolto e finanziato pure con i soldi pubblici". 

Barbara Carfagna: Isabella Ferrari in Rai a 16 anni? Era amante di Boncompagni. Barbara Carfagna: da Isabella Ferrari al botta-risposta con Marco Travaglio, scrive "Affari italiani" il 21 aprile 2017. "Quanto cambia chi è la persona che lo compie nel racconto di un comportamento? Tutti amavamo e piangiamo la morte di Boncompagni. Io me lo ricordo a qualche festa da D'Agostino in cui si parlava di Berlusconi. Anche lui aveva avuto amanti minorenni e le aveva piazzate con successo, anche nella TV di Stato. C'era anche Freccero che chiosava: "la vita è come il film 'La Società degli uomini'". E, come spesso accade, aveva ragione. Una di queste amate e piazzate in Rai a 16 anni, era lei. Isabella Ferrari. Qui Insieme a uno dei più grandi accusatori di Berlusconi per le vicende Ruby e Noemi. Però Boncompagni lo abbiamo sempre visto tutti solo come un creativo Pigmalione. Lei e la Gerini come due miracolate per averlo avuto accanto, brave belle e intelligenti; una oggi pure sofisticata intellettuale, in Teatro con Travaglio. Una parte la fecero fare pure a lui, Bonco sul palco con Ingroia Ruotolo e Di Pietro. Perché alla fine questo è stato l'esito di un comportamento oggi condannato, ma negli anni '80 accolto e finanziato pure con i soldi pubblici. Lui vedeva chiaramente questi paradossi, anzi li sottolineava in interviste ficcanti e ne rideva".

"Vedo che una valorosa "collega" della Rai ha approfittato della morte di Bonco per farsi un po' di pubblicità gratuita, nel solco della lunga tradizione esibizionistica della mosca cocchiera che salta sul carro funebre credendo di guidarlo, quella per cui ai matrimoni c'è sempre qualcuno che vuol essere la sposa e ai funerali qualcuno che vuol essere il morto", scrive Marco Travaglio a Dagospia. "Ricordo alla "collega" smemorata e male informata che le polemiche (almeno le mie) e il processo a Berlusconi per le sue frequentazioni con minorenni non hanno mai riguardato il suo sacrosanto diritto di fare quel che gli pareva nella sua vita privata: ma (per le polemiche) la sua possibile ricattabilità di uomo di governo e di Stato e (per i processi) l'accusa - poi caduta - di avere indotto una minorenne a prostituirsi, cioè a fare sesso a pagamento (reato che il suo stesso governo aveva deciso di punire con pene più severe di prima)".

"Ho già detto di essere d'accordo con Travaglio sui differenti ruoli tra Berlusconi e Boncompagni, infatti la considerazione nel mio post (che, ricordo, non è mia ma dello stesso Boncompagni a una festa) era sul paradosso, per lui, di trovarsi sul palco con gli accusatori di Berlusconi per la frequentazione di 16/17enni e per aver dato inizio alla tv delle veline (il libro Papi di Travaglio -come sottolineato da Facci- precede il caso Ruby); innovazione sociale a cui non negava di aver partecipato attivamente e nelle cui varie evoluzioni, anni dopo Non è la Rai, era finito per un breve periodo indagato insieme a Sabani (poi prosciolto prima del processo ma mai riabilitato: morì isolato tra mille sofferenze morali, aiutato solo da Maurizio Costanzo e dal suo avvocato Antonio De Vita). Vicenda giudiziaria che seguii raccogliendo anche gli sfoghi di Sabani, abbandonato da tutta la comunità dello spettacolo e privato del consenso del pubblico, che lo additava anche dopo il proscioglimento. Da parte mia, figuriamoci, nessun giudizio. Ho avuto una vita piena, libera e amo chi fa altrettanto. Non so neanche se a 16/17 anni i giovani debbano essere considerati come bambini di 8. Per quanto riguarda la Volpe e l'Uva, se l'Uva è "Non è la Rai" nel post precedente quello che cita Travaglio raccontavo di aver passato direttamente le selezioni senza averle fatte (cantavo nel coro di Nora Orlandi e serviva una ragazza dai capelli rossi). Non mi presentai e scelsi un esame universitario. Così come non colsi altre opportunità di ventenne forse più allettanti nel settore dello spettacolo e della moda. Come dico nel post, precedente la polemica, non credo per questo di essere migliore né di aver fatto le scelte giuste. Anzi, rifletto che oggi si potrebbe fare tutto senza il rigore forse eccessivo di un tempo. Le consiglierei, per correttezza, di aprire ai commenti la sua bacheca quando accusa qualcuno senza conoscerne la storia. Preciso per il Corriere che non sono entrata al tg1 nel 2004 (il 2008 fu l'anno dell'assunzione definitiva voluta da Mimun ma giunta con Riotta dopo 12 anni di precariato) ma nel 1998 sotto la direzione di Giulio Borrelli e dal 1995 in Rai dopo varie collaborazioni come cantante nei cori di Nora Orlandi e violinista. Il mio non era un attacco, tantomeno alla Ferrari che, da donna intelligente, mai ha negato l'apporto di un uomo così creativo e anticonformista incontrato nella prima parte della sua vita.

Le (giovani) amanti di Boncompagni favorite in tv, Claudia Gerini replica: «Nessuno mi ha mai piazzata». L’attrice risponde all’attacco della giornalista del Tg1 Barbara Carfagna che aveva definito lei e Isabella Ferrari «miracolate» per averlo avuto accanto: «Parole superficiali e parallelismo illogico con Berlusconi, io non ho mai ricevuto bonifici», scrive Chiara Maffioletti il 21 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Claudia Gerini nemmeno sapeva di essere stata chiamata in causa dal volto del Tg1 Barbara Carfagna. Ma, dopo aver letto quanto scritto dalla giornalista (che ha definito «miracolate» lei e Isabella Ferrari per aver avuto accanto il regista e autore tv), assicura: «Non mi sento toccata per niente da queste parole. In primo luogo perché non sono vere. Mi pare una riflessione molto superficiale oltre che un parallelismo che non ha senso». Il riferimento è a Berlusconi, dal momento che la giornalista nel suo post ha scritto: «Quanto cambia chi è la persona che lo compie nel racconto di un comportamento? Tutti amavamo e piangiamo la morte di Boncompagni. Io me lo ricordo a qualche festa da D’Agostino in cui si parlava di Berlusconi. Anche lui aveva avuto amanti minorenni e le aveva piazzate con successo, anche nella Tv di Stato».

Ma l’attrice, con grande serenità, commenta: «Sono due vicende che non hanno niente a che vedere. E’ vero che Gianni ha avuto compagne anche molto più giovani, ma non si è mai trattato di prostituzione o altro. Io non sono stata piazzata da nessuna parte e quello che ho ottenuto l’ho ottenuto con le mie forze. Non ho mai dovuto fare nessuna parcella perché stessi zitta, non ho mai ricevuto bonifici. Mi pare davvero un paragone senza nessun senso».

Botta e risposta al veleno tra la Lucarelli e la Mosetti: "Hai fatto carriera grazie ai festini". Una battuta di Selvaggia Lucarelli ha scatenato una vera e propria "guerra" a colpi di social con Antonella Mosetti. Le due, dopo essersi accusate a vicenda, hanno chiesto l'intervento dei loro legali, scrive Anna Rossi, Venerdì 21/04/2017 su "Il Giornale". Si sa che tra Selvaggia Lucarelli e Antonella Mosetti non è mai stato tutto rose e fiori, ora un post della giornalista ha riaperto la faida tra le due. Tutto è iniziato ieri, quando a quattro giorni dalla morte di Gianni Boncompagni, Selvaggia Lucarelli ha scritto sul suo profilo Facebook una battuta provocatoria: "Tutti a dire 'Che bravo Boncompagni' (ed era bravo), ma ricordatevi che la Mosetti è colpa sua". Nel messaggio la blogger alludeva chiaramente alla partecipazione di Antonella a Non è la Rai. Il messaggio e l'ironica allusione non è passata inosservata e immediatamente ha scatenato la reazione della Mosetti. "Na sfigata senza uguali... falla sparlare, solo quello sa fare", ha risposto indispettita Antonella. Ma le offese non si sono fermate e tra i commenti, la Mosetti si lascia scappare "invece la nullità (riferita alla giornalista, ndr) è il prodotto delle raccomandazioni politiche e non solo". Ma a questa sottile insinuazione Selvaggia Lucarelli non ci sta e parte il botta e risposta al veleno. "Mortacci oh, tutte 'ste raccomandazioni e solo il giudice a Ballando? Manco la giuria di qualità a Sanremo al posto di Greta Menchi? E che cazzo". E ancora la Mosetti risponde: "Mi ha vista a Matrix e ha rosicato. Aspetto di trovarmela davanti, sto leone da tastiera. I festini la Lucarelli li ha sempre fatti in privato e lo sanno in molti nel settore spettacolo. Io brutto cesso, i festini non li ho mai fatti altrimenti a quest'ora sarei stata da altre parti, tipo le tue. Ci vediamo presto e ai tuoi sostenitori di immondizia, ci penseranno i miei legali". E poi, riferendosi al suo amico-imprenditore Daniele Pulcini (coinvolto nello scandalo Mafia Capitale, ndr) e ai presunti festini, la Mosetti rincara la dose: "Aggiungo cara cessone Lucarelli che te e la tua amica avete fatto di tutto per mettermi in cattiva luce ma non ci siete riuscite proprio perché non sono una che fa schifezze a differenza vostra e l'essere amica da 20 anni di una persona che passa un momento molto difficile, mi fa solo che onore e non solo a me ma a tutti i suoi storici amici. Sono una delle poche che non ha nulla da nascondere anzi... Mi dispiace per voi ma è solo amicizia. Baci cari e di cuore vero. A presto". La discussione tra le due è ancora molto lunga, tra offese, rimpalli di colpa, insinuazioni e interventi di avvocati le due donne se ne sono dette di cotte di crude sui social. Il tutto davanti a centinaia di utenti che tenevano le parti un po' di una e un po' dell'altra.

E POI C’E’ ALDO BISCARDI.

È morto Aldo Biscardi, l’inventore del “Processo del lunedì”, scrive l'8 ottobre 2017 "Il Dubbio". Aldo Biscardi avrebbe compiuto 87 anni il prossimo novembre. Fu caporedattore di Paese Sera prima della Rai, dove nel 1980, lanciò la famosa trasmissione. È morto questa mattina a Roma Aldo Biscardi, giornalista e conduttore televisivo noto per l’ideazione e la conduzione del programma televisivo «Il processo del Lunedì». Nato a Larino (Campobasso), Biscardi avrebbe compiuto 87 anni tra poco più di un mese. Era ricoverato da qualche settimana al Policlinico Gemelli, assistito dai figli, Antonella e Maurizio. Da tempo aveva lasciato il video, dove aveva debuttato nel 1979, alla Rai. È del 1980 l’ideazione del programma «Il processo del lunedì», primo talk show sul mondo del pallone di cui divenne anche conduttore nel 1983, moltiplicandone il successo. Nella sua trasmissione record, 33 edizioni consecutive con lo stesso conduttore, iniziò una battaglia per la moviola in campo e proprio quest’anno nel campionato italiano è stato introdotto il Var. Aldo Biscardi, dopo la laurea in giurisprudenza all’Università Federico II di Napoli con Giovanni Leone, fu collaboratore del Mattino e giornalista di Paese Sera, dove divenne caporedattore succedendo ad Antonio Ghirelli nella direzione delle pagine sportive. Da caporedattore, entrò in Rai nel 1979 raggiungendo la carica di vicedirettore del TG3. Nel 1980 lanciò, su Rai 3, Il Processo del Lunedì. Famoso una polemica in diretta con Silvio Berlusconi, che intervenne in collegamento telefonico per protestare contro il modo di presentare notizie che lo riguardavano, nel 1993 Biscardi lasciò la Rai per Tele+, di cui fu direttore responsabile fino al 1996. Biscardi propose la stessa formula della sua nota trasmissione, ma cambiandone il nome, che divenne “Il processo di Biscardi”. Nel 1996 Biscardi trasferì Il processo su Telemontecarlo, che nel 2001 si trasformò in LA7. Nel 2005 Biscardi fu direttore della testata giornalistica sportiva di LA7 e direttore del canale sportivo La7 Sport. Fu coinvolto nello scandalo di calciopoli in seguito ad alcune intercettazioni di telefonate tra lui e Luciano Moggi, all’epoca dg della Juventus e principale inquisito nel processo, nel maggio 2006 lasciò LA7 passando su 7 Gold prima, su T9 e su Sport 1 poi. Biscardi fu sospeso per sei mesi da parte dell’Ordine dei Giornalisti e lui, in polemica con l’Ordine, decise di non confermare più la sua iscrizione all’Albo.

Calciopoli. Damascelli sospeso dall'Odg della Lombardia, scrive Martedì 10 ottobre 2006 "Affari Italiani". E quattro. Tony Damascelli si aggiunge a Lamberto Sposini, Franco Melli e Aldo Biscardi nella poco gratificante lista degli amici di Luciano Moggi. Una cerchia che fin qui ha riservato più dolori che gioie alle prestigiose firme del giornalismo italiano. Il dolore in questione significa la sospensione dall'ordine di appartenenza, Roma per Sposini, Melli e Biscardi, Milano per Damascelli. Proprio nella seduta di ieri il Consiglio dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha deciso di sospendere per 4 mesi il professionista Damascelli per il capitolo "Il rapporto di Moggi con Tony Damascelli" nel "Libro nero del calcio" (989 pagine di intercettazioni relative allo scandalo calcio) pubblicato da L'Espresso dopo il rapporto del 19 aprile 2005 della II sezione del Nucleo operativo del Comando provinciale Carabinieri di Roma. "Le risultanze acquisite - come recita la nota dell'Ordine -  hanno messo in luce un particolare rapporto di amicizia esistente tra Damascelli e Moggi come affiora dalle conversazioni tra i due intercettate dai militari dell'Arma Benemerita". La vicenda Damascelli ci permette così di fare il punto della situazione sugli altri opinionisti di Rai, Mediaset e emittenze private. Un focus sugli sviluppi del dopo Calciopoli. In Rai - dopo l'esperienza mondiale di Giuseppe Signori commentatore per "Notti Mondiali" - la Nazionale (così come in Germania d'altra parte) è seguita da Marco Civoli e Sandro Mazzola. Niente più Mazzocchi (conduttore della Domenica Sportiva, al suo posto c’è Jacopo Volpi) passato - sempre su Rai 2 - a un ruolo di inviato nel reality di Alba Parietti.

È morto Aldo Biscardi, l’inventore de «Il processo del Lunedì». Il conduttore televisivo noto per il programma di commento alle partite del weekend si è spento questa mattina. Avrebbe compiuto 87 anni tra un mese. Domani i funerali, scrive l'8 ottobre 2017 "Il Corriere della Sera". Un appuntamento fisso del lunedì per oltre trent’anni. Una trasmissione dove si analizzavano e commentavano i risultati sportivi del weekend: i momenti più belli, i gol, falli, i rigori. Lui ne è stato l’ideatore e il conduttore per un decennio. Aldo Biscardi è morto questa mattina a Roma. Era ricoverato da qualche settimana al Policlinico Gemelli. Il giornalista, nato a Larino (in provincia di Campobasso) avrebbe compiuto 87 anni tra poco più di un mese. A darne la notizia è stata la famiglia. I funerali domani a Roma, nella chiesa di San Pio X. Biscardi si spegne nell’anno dell’introduzione della Var. Lui, che della moviola in campo è sempre stato un grande sostenitore. La invocava da oltre trent’anni e ne è diventato in qualche modo il paladino. Sosteneva fosse uno strumento necessario per aiutare gli arbitri e all’interno del suo programma c’era sempre uno spazio riservato alla «moviola», per rivedere gli episodi dubbi e contestati. Aveva anche fatto una petizione online su change.org, raccogliendo quasi 10mila firme.

La carriera. Nato il 26 novembre 1930, è appassionato di sport — a 360 gradi — sin da giovanissimo. Sogna di poterne fare la sua professione e si trasferisce a Napoli. La sua lunga carriera inizia al quotidiano napoletano «Il Mattino». Poi, nel 1965, arriva nella redazione di «Paese Sera», dove diventa caporedattore. Ma il suo grande progetto lo realizza più tardi, alla Rai. Vuole creare un programma che sia contenitore di discussione e commento sulle partite di campionato di Serie A. Una continuazione degli appuntamenti sportivi del weekend. Ed ecco che, nel 1980 nasce su Rai3 «Il processo del Lunedì», che conduce lo stesso Biscardi dal 1983 al 1993. Le edizioni continuano fino al 2016, anche se con diversi momenti di pausa. Ma lui intanto passa a Tele+, dove ripropone la trasmissione con un nuovo nome, «Il processo di Biscardi». Stessa formula, stesso frontman: il giornalista lo conduce dal 1993 al 2016 (dal 1996 su TMC e poi dal 2003 su La7). «Con la puntata di ieri sera del Processo ed il clamoroso risultato di ascolto che è stato raggiunto del 6,50 % di share, tra i più alti mai totalizzati dall’emittente, si è conclusa trionfalmente la mia stagione televisiva e, con essa il mio rapporto di collaborazione con La 7». Così Biscardi dice addio al canale nel 2006, dopo lo scandalo di Calciopoli in cui il giornalista viene coinvolto. È accusato di aver ricevuto pressioni dal direttore generale della Juventus, Luciano Moggi. I commenti alle partite continuano su emittenti più piccole e locali. L’ultima edizione, quella del 2017, è condotta da Giorgia Palmas su 7Gold.

I ricordi. «Un giornalista che ha segnato un’epoca. Ero molto affezionato a lui». Così ricorda Aldo Biscardi il nipote, l’avvocato Giuseppe Biscardi. «Ero andato a trovarlo recentemente, non stava molto bene, sono contento di averlo rivisto». Poi, alcuni ricordi del passato. «Quando poteva, andava a Larino, dove le gente lo fermava per strada per parlare di calcio. Qualche volta ha seguito le partite del Campobasso, ai tempi della serie B e spesso lo accompagnavo allo stadio. Sono molto addolorato, al di là del rapporto di parentela che ci legava». Anche le squadre stanno ricordando il conduttore che ha inventato il calcio «parlato». Dal Milan, che su Twitter scrive «Condoglianze sincere alla famiglia. Grande rispetto per un grande giornalista», alla Fiorentina fino al Palermo, che gli dedica una nota sul sito ufficiale. La Rai pubblica una nota — «Con Aldo Biscardi scompare oggi un grande giornalista, ideatore e conduttore di trasmissioni sportive che hanno cambiato il modo di raccontare il calcio in tv» — e anche il sindaco di Larino, il Paese dove è nato, esprime le sue condoglianze: «Sono sinceramente colpito e profondamente toccato per la scomparsa del nostro concittadino — ha detto Vincenzo Notarangelo — maestro di giornalismo e di vita. Caro Aldo, ricorderemo sempre la tua competenza, la tua professionalità, ma soprattutto l'amore incondizionato per Larino. Da oggi questa comunità è un po' più sola».

Morto Aldo Biscardi, inventore del "Processo del Lunedì". Rivoluzionò i programmi tv sul calcio. Il popolare giornalista, originario di Larino, avrebbe compiuto 87 anni a novembre. Aveva cominciato la carriera al Mattino, poi sbarcò alla Rai dove inventò la sua trasmissione cult, scrive l'8 ottobre 2017 "La Repubblica". E' morto stamane a Roma Aldo Biscardi, giornalista e conduttore televisivo noto per l'ideazione e la conduzione del programma televisivo "Il processo del Lunedì". Ne dà notizia la famiglia all'Ansa. Nato a Larino, in provincia di Campobasso, Biscardi avrebbe compiuto 87 anni tra poco più di un mese. Il 'Processo del Lunedì', lanciato nel 1980, è stata una delle trasmissioni calcistiche più popolari della televisione italiana, una formula inedita che ebbe un successo straordinario puntando sull'uso processuale della moviola. Biscardi ne assunse anche la conduzione dal 1983, sostituendo al timone Marino Bartoletti. "Con Aldo Biscardi scompare oggi un grande giornalista - si legge in una nota dell'ufficio stampa della Rai -, ideatore e conduttore di trasmissioni sportive che hanno cambiato il modo di raccontare il calcio in tv. La Rai esprime la propria vicinanza alla famiglia di Biscardi ricordandone la carriera e i successi, dall'esordio in video nel 1979, al "Processo del lunedì", al ritorno, in tempi più recenti, come ospite nei programmi sportivi e di informazione". Nel corso degli anni il programma cambiò fino a trasformarsi alla fine in una sorta di show (divenne 'Il processo di Biscardi') dove i commentatori diventavano spesso personaggi e quasi macchiette. La lenta metamorfosi del programma portò negli anni a un aumento esponenziale dei toni delle polemiche in studio, che contribuì alla fine del rapporto con la Rai. Nel 1993, con uno strascico legale di liti sulla titolarità dei diritti sul programma, Biscardi cambiò rete, passando a Tele+ e poi a Telemontecarlo e La7 Gold. Aldo Biscardi aveva iniziato la carriera di giornalista al Mattino e lavorò anche per Radio Montecarlo, ma il suo nome resta legato alla trasmissione lanciata sulla Rai, che in qualche modo rivoluzionò il modo di parlare di calcio in televisione. Dopo i vari passaggi di rete, al declino finale della credibilità del programma contribuirono le rivelazioni uscite dall'inchiesta su Calciopoli sui condizionamenti subìti dal conduttore da parte di Luciano Moggi. Nel 2015 Biscardi aveva lasciato la sua creatura - un programma da record di longevità, 33 anni di fila con lo stesso conduttore - ai figli, che hanno ereditato il marchio. Biscardi viene a mancare nell'anno dell'esordio nel campionato di serie A del Var, quella moviola in campo che lui aveva sempre sostenuto come sistema necessario per aiutare gli arbitri. I funerali del giornalista si terranno a Roma domani, lunedì, alle ore 15, nella Chiesa di San Pio X nel quartiere Balduina. Nella stessa chiesa sarà aperta dalle 12 la camera ardente.

È morto Aldo Biscardi, inventò un modo di far tv: il "biscardismo", scrive Antonio Dipollina l'8 ottobre 2017 su "La Repubblica". Aveva 86 anni. Nella sua lunga carriera ha creato una format, Il Processo, che gli sopravvive. Ha visto la vittoria di una delle sue battaglie, la moviola in campo. Non sono molti quelli che possono raccontare di aver inventato un genere tv incancellabile. Aldo Biscardi, morto oggi a Roma a 86 anni, poteva. Il calcio parlato in tv per come lo conosciamo, in centinaia di trasmissioni, lo ha inventato lui ed era il 1980. Quando tre anni dopo prese direttamente in mano la conduzione del Processo impose anche la maschera di se stesso, caotico, disattento&felice nell'esposizione in lingua italiana, la dizione irripetibile, la voglia mostruosa di giocare al calcio parlato, appunto. Il Processo, in quel decennio, fu clamoroso, forse il momento più importante di tutta la settimana calcistica, partite comprese: aveva gli ospiti top, collaboratori fissi da leggenda (Gianni Brera, per dire), più personaggi pittoreschi e che davano linfa assoluta al programma – Costantino Rozzi, per esempio – ma poi passava anche Giulio Andreotti e decideva in trasmissione i destini futuri di Falcao. Biscardi intanto lanciava alla grandissima il suo personaggio, in pratica assimilava le decine di imitazioni di cui era vittima e se ne rafforzava, finché un giorno girò quello spot del corso di lingua inglese (“Denghiù”) parodiando se stesso e in parecchi iniziarono a dargli del genio. E da lì a un passo, la trasformazione in categoria, il biscardismo, la biscardata, a forza di sguub e di “eccipuo” (copyright Michele Serra, ma chi può escludere che il rosso l’abbia detto davvero per primo?). Dentro un’aneddotica sterminata, una sorta di Blob vivente di se stesso, Biscardi è stato per decenni l’autobiografia visibile del calcio italiano e dei suoi tifosi. Con tecniche televisive da urlo (magari gli scappò e fu un infortunio, ma cosa c’era di più perfetto del suo “Non parlate tutti insieme, massimo due o tre per volta”?), tutto rigorosamente live e in qualche modo sorvegliato passo dopo passo. Dovette cedere solo quella volta, era il 2000, in cui il terzo giorno gli arbitri si arrabbiarono davvero e decisero una denuncia pesante, lui si presentò col suo avvocato e tentando di farlo alla chetichella piazzò una memoria difensiva il cui succo era “Guardate che qui in trasmissione non facciamo sul serio, è uno show tutto inventato per divertire e quindi non c’è niente di penalmente rilevante”. Fino alla fine, oggettiva, di tutto che coincise con Calciopoli e alcune intercettazioni in cui dava corda, sempre alla sua maniera, a Luciano Moggi che dispensava consigli stringenti sul programma e sulla moviola. Da lì un declino fatto di peregrinazioni per piccole tv private con l’obiettivo di salvare il marchio Processo di Biscardi (va ancora in onda, si chiama così e lo curano i suoi figli) e con la battaglia a testa bassa sulla moviola in campo come centro di gravità permanente. Se n'è andato con la moviola effettivamente in campo, ha fatto in tempo a definire il Var “Un inno alla democrazia” e non c’è sintesi migliore di tutto quanto.

Morto Aldo Biscardi, il suo Processo un rito diventato storia. Il programma che lo ha reso famoso, un'evoluzione populista della Domenica Sportiva, portò nelle case degli italiani volti che divennero popolarissimi, scrive Fabrizio Bocca l'8 ottobre 2017 su "La Repubblica". Se esiste qualcosa, un posto nell'immaginario che possa essere una via di mezzo tra una santa messa e una corrida, ebbene quello è il posto del "Processo del Lunedì", il più grande e strabiliante rito che la tv del calcio abbia mai inventato. In una tv seriosa in cui tutto deve essere equilibrato e controbilanciato, in cui non si può pestare i piedi a nessuno, in cui i grandi club - dalla Juve al Milan all'Inter - vanno solo che ossequiati e anche un po' leccati, Aldo Biscardi porta in tv una ribellione abbastanza sbracata, la pulsazione della pancia, la passione tifosa. Un meccanismo comunque efficacissimo e strabiliante, se negli anni 80 vuoi sapere qual è il polso e la febbre del pallone sulla seconda serata di Rai 3 ti devi sintonizzare. Di conseguenza finisce in tv, direi in scena, tutto ciò che è "anti". E quindi la Roma di Falcao e il Napoli di Maradona come contrapposizione al potere consolidato. Nord contro Sud, Roma contro Juve, Napoli contro Milan e così via. Il calcio "anti qualcosa" nasce e prospera proprio sulla Rai 3 dell'inizio degli anni 80, dove Aldo Biscardi, ex firma di Paese Sera, che viene quindi dalla sinistra - sulla rete creativa e innovativa di Angelo Guglielmi - mette in scena questa Corrida. Che praticamente altro non è che un'evoluzione populista della Domenica Sportiva, la Santa Messa del giorno prima. Il Processo è provocatorio per principio, organizzato inizialmente con un'accusa e una difesa, fino a perdere poi nel tempo questa caratteristica procedurale e penale e accentuare sempre di più quella ring da wrestling. La cosa stupefacente è che tutto il calcio si sottoponeva ben volentieri a queste due ore di rissa tv. Era l'esatto opposto di oggi, forse perché Falcao o Platini sapevano benissimo che la tv avrebbe dato la vera e grande svolta alla loro carriera. Il primo a capirlo fu ovviamente Silvio Berlusconi le cui comparsate al Processo erano immancabili, proprio perché questo accresceva la popolarità e soprattutto il consenso.

Al Processo di Biscardi sono passate la Juve di Platini, la Roma di Falcao, il Milan di Sacchi, il Napoli di Maradona. Loro, proprio loro fisicamente, impensabile oggi. Biscardi era un gran cerimoniere capace di catalizzare il calcio e anche il giornalismo italiano. Gianni Brera, pur non convintissimo, si fece attrarre da quel circo. Anche perché la polemica era sempre stato il suo pane, e non voleva lasciarne l'esclusiva ad altri. E poi Brera era consapevole che comunque quella tv e quel tipo di trasmissione erano ormai delle "forche caudine" da cui dovevi passare. Biscardi aveva creato un circo mediatico che ben presto portò nelle case degli italiani volti che divennero popolarissimi: Mosca, De Cesari, Cazzaniga, Pacileo, Ameri, Bartoletti. Sono loro che animano la scena teatrale, la contrapposizione animosa spesso sincera, ma qualche volta anche eccitata e montata dallo stesso Biscardi. Maurizio Mosca, quello dei pronostici col pendolino e del berretto e della toga da magistrato, addirittura lo tradì per inventarsi "L'Appello del Martedì" su Canale 5. In certe occasioni, e non solo in Rai - il "Processo del Lunedì" evoluto in "Processo di Biscardi" è durato 33 anni - ha decisamente esagerato. E la ricerca dello "sgub" ossessionante, se non imbarazzante. Luciano Moggi fu una presenza decisamente troppo ingombrante e negativa ai tempi di Calciopoli. Fino a nuocergli notevolmente. Padre del talk show sportivo, teorizzatore della polemica a tutti i costi, gran divoratore di arbitri, il "Gol di Turone" con lui divenne la terza guerra mondiale. La battaglia della moviola in campo, il famoso Telebim (praticamente una moviola al 200%) l'obbiettivo di una vita professionale. Oggi, solo oggi è diventato realtà. Al Processo del Lunedì passavano tutti da Falcao a Krol, da Boniek, a Prohaska ma anche Bearzot, Maradona, Zico. Quando la Roma vinse lo scudetto Biscardi aveva in studio Viola, Falcao e Andreotti seduti uno accanto all'altro. Lo juventino e adoratore di Platini Mughini con i suoi occhiali colorati e il suo "aborro!" diventerà personaggio popolarissimo, il romanista e adoratore di Falcao Carmelo Bene inveirà al Processo contro tutto e tutti. Ci sono passati talmente tutti, che Biscardi - unico al mondo - può vantare interventi persino del Presidente Pertini e di Papa Woytila. Molti si rifiutavano snobisticamente di partecipare al Processo del Lunedi, ma nessuno si poteva permettere di non vederlo. Il Tifone, popolarissimo settimanale satirico romano, inventò addirittura una rubrica su di lui. Se volevi essere qualcuno, se ne calcio volevi scalare rapidamente posizioni senza essere aristocratico, Biscardi ti forniva uno straordinario trampolino di lancio. Tutti potevano o dovevano passare dalle "Forche Caudine". Aldo Biscardi, come Fred Buongusto e Antonio Di Pietro, veniva da Campobasso, e portò sempre l'inflessione molisana nella sua parlata. Fino a farne un timbro riconosciuto, unico. "Sgub" e "Denghiu" sono diventati lessico comune. "Mi raccomando, parlate solo due o tre alla volta!" mette ormai parecchia tenerezza. E anche un sacco di nostalgia.

Aldo Biscardi, quella battaglia per Roby Baggio che proprio non vinse, scrive l'8 ottobre 2017 Simone Vacatello per Crampi Sportivi su "Il Fatto Quotidiano". Se ne va Biscardi e i più attenti notano il tempismo con cui il cosmo gli ha prima concesso di assistere alla vittoria della sua battaglia più nota, quella la cui realizzazione sembrava più improbabile: l’introduzione della Var, la benedetta moviola in gambo che riuscì ad assurgere allo status di tormentone principale di una carriera televisiva ultratrentennale. Da un punto di vista squisitamente extra-sportivo, un’altra vittoria che nel bene e nel male gli si può – e gli si deve – riconoscere è la spettacolarizzazione del dibattito sportivo in Tv, al quale ha saputo concedere una dimensione da commedia dell’arte di cui la cronaca era priva. Con canovacci che cambiavano a seconda della polemica settimanale, su cui interpreti da commedia plautesca improvvisavano siparietti che, pur rivelandosi raramente edificanti dal punto di vista del progresso culturale del Paese, si sono saputi confermare, nel tempo, come fin troppo onesta fotografia di un’Italia cialtronesca e vivace, che si prendeva sul serio quando non ce ne sarebbe mai stato motivo, ma sapeva anche sdrammatizzare all’occorrenza quando le questioni si facevano più spinose dal punto di vista dialettico. Un ribaltamento continuo della prospettiva di approfondimento e, di conseguenza, un inno all’intrattenimento fine a sé stesso col pretesto del pallone. Da Biscardi si incontravano Alberto Bevilacqua, Sandro Curzi, Tiziano Crudeli e Carlo Taormina, era una specie di conciliabolo universale del disimpegno, in cui politica, giornalismo e cultura si toglievano la pancera. I risultati erano imprevedibili: memorabile, ad esempio, il menage-a-trois tra Maurizio Mosca, il regista Pasquale Squitieri e Vittorio Sgarbi, in cui l’ultimo gioca il ruolo dello smascheratore di populismi e il secondo si fa beccare in flagrante tuffo retorico carpiato sulla distanza tra gli stipendi dei calciatori e quelli dei poliziotti. Tuttavia, tra una fiera in maschera e l’altra, emergevano spesso tematiche che al giornalista Biscardi stavano seriamente a cuore, come la moviola in campo appunto, che 15 anni fa sembrava solo la più donchisciottesca delle boutade, e la cui attuazione avrebbe paradossalmente nuociuto al suo lavoro, riducendo la possibilità di polemica domenicale. Una battaglia che Biscardi non vinse, però, fu quella a favore della convocazione in Nazionale di Roberto Baggio ai mondiali del 2002. Fare il tifo per Baggio ai Mondiali all’epoca significava davvero valicare il confine tra romanticismo e utopia: il Divin Codino aveva compiuto 35 anni, giocava nel Brescia ed era appena guarito da un infortunio al legamento crociato del ginocchio sinistro.  Era la Nazionale dei Vieri, degli Inzaghi, dei Del Piero e dei Totti, e alla guida c’era Giovanni Trapattoni, uno dei tanti tecnici col pallino del gruppo, del collettivo, con cui lo stesso Baggio, quintessenza della monade istintiva, refrattaria alle rigidità tattiche, faticava a dialogare. Nella genuina campagna mediatica c’era tutto il Biscardi Nazional Popolare, quello in cerca dell’uomo simbolo a cui affidare il ruolo di frontman e idolo sacro, a dispetto dei tempi che cambiano e che usurano le strutture fisiche, e con buona pace delle aspirazioni degli altri protagonisti. Baggio al Mondiale non ci andò, Trapattoni scelse il gruppo, e quell’Italia (forse sulla carta anche più forte di quella che avrebbe vinto nel 2006) fu eliminata in una controversa gara contro la Corea del Sud padrona di casa. Col senno di poi si può dire che all’idolo sacro fu risparmiata una mazzata storica, ma ai posteri rimane l’idea di un romanticismo indefesso, un lusso che ci si può concedere solo quando nella sconfitta si impara qualcosa su di sé che prima non si riusciva ad accettare. L’Italia di quegli anni, a guardarla oggi, faticava ad ammettere quali fossero i propri limiti e soprattutto dove questi limiti l’avrebbero portata. Ma di questo certo non si può incolpare Biscardi, anzi. In fondo, tutto si può dire sul respiro della sua televisione, meno che non fosse pluralista.

Morto Aldo Biscardi: il Processo e la nascita del «calcio parlato», a metà tra genio e trash. Il suo programma consacrò le chiacchiere da bar in uno spazio istituzionale, scrive Aldo Grasso l'8 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". È morto Aldo Biscardi, onore ad Aldo Biscardi. Anche se negli anni ho scritto su di lui giudizi poco lusinghieri, anche se una sua bugia, o cialtronata, mi ha fatto passare momenti poco simpatici. In fondo è anche stato premiato dalla vita: ha fatto in tempo a vedere la svolta tecnologica nel calcio e i primi passi della VAR, lui che della moviola in campo aveva fatto negli ultimi anni un vero e proprio tormentone. Biscardi è Il processo del lunedì,1980. A poco più di un anno dalla sua nascita, Raitre (allora Terza rete), ancora in cerca di una precisa caratterizzazione e di una propria audience, scoprì una dimensione dello sport ancora inesplorata: il “calcio parlato”. Il Processo consacrò in uno spazio istituzionale le polemiche e le discussioni da bar, trasferendole in una fittizia aula di tribunale in cui le diverse parti accusavano, arringavano, difendevano e finivano immancabilmente per litigare, fomentate e manovrate dall’enfasi verbale dell’inappellabile giudice Biscardi. Era nato il trash quando questa parola non era ancora di moda. Protagonisti del dibattito (che in breve tempo abbandonò i toni forensi per quelli più sanguigni della lite da stadio) erano personaggi sportivi, del giornalismo, dello spettacolo, della cultura. Da Carmelo Bene ad Alba Parietti, da giornalisti tromboni a magistrati calciofili. L’importante è durare. Non come, ma quanto. Il Processo del lunedì di Biscardi è durato più trent’anni (Raitre, poi Tele+, poi TMC, poi 7 Gold, più varie tv locali) ed è stato persino celebrato con articoli che, fingendo di prenderne le distanze, hanno finito per sancirne l’ominosa grandezza. In questo senso, Biscardi è stato un eroe del nostro tempo. Anni fa, quando eravamo più giovani e ingenui, eravamo portati a credere che il Processo fosse un modo plebeo e sgangherato di raccontare il calcio. Forse era così, forse. Ma perché ci sia un sopra e un sotto, bisogna davvero che ci sia separatezza, che qualcuno si mostri migliore di un altro. E invece, per molti anni, il Processo è apparso ai più come una trasmissione guida, il solo modo per raccontare il calcio. Nel 2004 è intervenuto anche il tribunale di Roma per sancire la natura vera della trasmissione. Archiviando una querela presentata dall’Associazione Arbitri nei confronti del Processo, il Pubblico Ministero sostenne che nel programma «la credibilità obbiettiva delle notizie riportate e fatte oggetto di dibattito è riconosciuta assai bassa… Ne deriva che la credibilità dell’informazione offerta e la conseguente attitudine di questa ad essere, in ipotesi, idonea a ledere l’altrui reputazione sono oltremodo inconsistenti». Traduzione: siccome si sparano delle fanfaluche è inutile prendersela tanto. Da allora molti programmi sportivi si sono sentiti autorizzati a seguire questo modello. Biscardi è stato molto bravo a inscenare psicodrammi nazionali, un formidabile attore. È stato comunista ma anche grande amico di Berlusconi; è stato moggiano ma anche sodale degli accusatori di Moggi; è stato uno che stenta a capire le cose ma anche uno che ha capito tutto. La sua forza? È stato l’ultimo erede dell’istrione itinerante, il comico dell’arte che recita “a soggetto” lasciando a sé a e a suoi comprimari ampi spazi d’improvvisazione, pur nella fissità di fondo. L’importante è durare, come suggeriva Ennio Flaiano: seguendo le mode, tenendosi al corrente, sempre spaventati di sbagliare, pronti alle fatiche dell'adulazione, impassibili davanti a ogni rifiuto, feroci nella vittoria, supplichevoli nella sconfitta. Un vero italiano. E la bugia che mi riguarda? Nel 2003, Biscardi inaugurò una rubrica di critica televisiva: “Il comandante Stopardi” (alla romana: sto par di…). Per darle forza, mise in giro la voce che “un grande critico” redigeva per lui opinioni sui programmi sportivi e perché l’allusione fosse chiara arrivò persino a mostrare un mio libro per un'intera trasmissione o a citare un pezzo scritto per il “Corriere” spacciandolo come una cosa scritta apposta per il Processo. Smentii pubblicamente la notizia e la cosa parve finire lì, in una bolla di sapone. Così non fu. Ai tempi di Calciopoli, in un’intercettazione, Moggi si rivolse in toni perentori a Biscardi perché mi togliesse la rubrica e quello rispose subito di sì. Altra smentita, altra minaccia di querele, ma finire come “intercettato” sui giornali per una notizia inventata (una fake news) non è cosa piacevole. È sempre stato difficile muovere delle critiche a Biscardi, con le buone o con le cattive: il suo genio da finto tonto sapeva sempre volgere a suo favore ogni rimprovero. Ci abbiamo provato con le citazioni colte, con l’ironia, con il fioretto: niente da fare, ha sempre vinto lui. Scrivo da soccombente, scrivo come può scrivere uno che ha detto tutto il male possibile del Processo. Il fatto è che al Processo abbiamo tutti sacrificato qualcosa, sovente la parte di noi che stimiamo temerariamente la più nobile, l'intelligenza. Ho perso, il Processo è più vivo che mai (nel frattempo è trasmigrato in altri programmi) e a me non resta che il privilegio del punto di vista dello sconfitto. Riconosco però che Biscardi è stato l’inventore del calcio parlato. Non importa se a spese della grammatica.

Biscardi e il Processo: cambiò il racconto del calcio fra "sgub" e teatro popolare. Gli studi che "si sovrapponevano", ma anche gli interventi di Andreotti o Agnelli, il moviolone e le polemiche. Varriale: "Ha creato un genere, coi commenti caldi di tifosi alti e bassi", scrivono Clari-Nardi su La Gazzetta dello sport l'8 ottobre 2017. Ha fatto in tempo a vedere la Var, realizzazione moderna di quel "Vogliamo la moviola in campo" che è stato vero motto e sorta di sottotitolo del suo "Processo del lunedì". Aldo Biscardi, ideatore nel 1979 di una trasmissione che avrebbe condotto in prima persona del 1983, col "Processo" non creò solo un format fra i più longevi della storia della televisione, ma cambiò il modo di raccontare lo sport. O meglio il calcio, protagonista quasi egemone.

IL TEATRO E I "GRANDI" — Al racconto distaccato, rigoroso, imparziale che lo aveva preceduto sostituì una sorta di teatro popolare, un circo di leoni di cui lui era il domatore, all'urlo di "Non sovrapponetevi". Il Processo era programmaticamente "dalla parte della gente", ma la sua agorà ospitava tutti, miscelando alto e basso in modo sorprendente: ai congiuntivi martoriati, alle gaffe e alle sparate ("Sono arrivate 100mila telefonate"), facevano da contraltare gli interventi di personaggi come Franco Zeffirelli e Gianni Brera. Al Processo andavano tutti, dai campioni, come Maradona, ai presidenti (alcuni erano presenza fissa, come Zamparini). Gianni Agnelli fu in studio, nonostante il "boicottaggio" juventino deciso da Boniperti. E poi c'erano i politici: Andreotti partecipò per la "sua" Roma e annunciò la conferma di Falcao, D'Alema superò lì il suo tipico distacco, parecchi anni dopo Berlusconi intervenne per dare la lieta novella: "Kakà resta". Ma il leader del centrodestra era quasi un habitué, specie quando la politica si mescolava alla narrazione sportiva.

SGUB E SCANDALI — Negli anni d'oro una buona fetta d'Italia si fermava per il suo "moviolone" e per gli scontri fra gli studi contrapposti, quelli di Torino contro quelli di Roma contro quelli di Milano. Una trasposizione televisiva di scontri da bar, elevati da interventi di avvocati e politici, che alternavano funzioni istituzionali a slanci da tifosi, facendo "fioccare polemiche come nespole". A corredo di una discussione che faceva ascolti, anche per veri o presunti "sgub", c'era la imitatissima parlata del suo rosso conduttore, quel marchio di fabbrica che faceva camminare sempre Biscardi sulla sottile linea che divide il personaggio dalla maschera teatrale, quasi felliniana. In questo, Biscardi era la versione "sportiva" di un altro grande personaggio della nostra televisione, Mike Bongiorno. Nel 2006 il suo coinvolgimento (non penale) nel processo Calciopoli, con telefonate e pressioni di Luciano Moggi alla trasmissione, da un parte portarono a una sospensione dall'Ordine, dall'altra furono testimonianza del peso che quel "bar sport" aveva assunto per l'opinione pubblica sportiva.

L'INTUIZIONE — Un'idea geniale a suo modo, confermata anche dal noto critico televisivo Aldo Grasso a Gazzetta.it: "Biscardi ha inventato il calcio parlato. Ha avuto l'intuizione, agli inizi di Rai 3, di spostare dai bar in televisione la disputa sportiva del lunedì. All'inizio era proprio un processo di nome e di fatto, con difesa, accusa e lui giudice assoluto ma i toni forensi sono stati sostituiti rapidamente da quelli da lite da stadio. Quando poi se ne è andato dalla Rai il programma ha perso forza innovativa, ma lui è stato molto bravo a durare ancora a lungo, inventando il 'trash' televisivo prima che questa parola prendesse la ribalta".

IL RICORDO DI VARRIALE — Il Processo è stato anche palestra per talenti del giornalismo sportivo. Fra questi anche Enrico Varriale, che ha condotto recentemente i il Processo del lunedì sulla Rai. Biscardi aveva traslocato da tempo prima a Tele+, poi a Telemontecarlo: “Sono molto addolorato, - dice Varriale a Gazzetta.it - è stato lui a permettermi di affacciarmi alla ribalta nazionale. Credeva nei giovani e li lanciava, mi affidò la Nazionale nel '90. Come giornalista ha creato un genere, che vanta più tentativi di imitazione della settimana enigmistica. Quando arrivai a Roma in Rai le trasmissioni sportive erano molto impostate. Lui ebbe la grande intuizione di portare i commenti caldi di tifosi alti e bassi abbinandoli a un fiuto per la notizia che ne faceva un giornalista di razza. Finché è stato in Rai è stato straordinario, i suoi Processi ai Mondiali nel 1990 facevano più share della partita stessa. Poi è diventato più personaggio e ha dovuto mantenere livello di ascolti: per questo ha dovuto esagerare con scoop e quant’altro. Ma resta uno che ha creato un genere vero e proprio. Aveva un grande senso dell’ironia, soprattutto su di sé. Sapeva scherzare sui suoi difetti".

Biscardi? Grande cronista Questo sì che è uno «sgub». In un libro della figlia la storia del conduttore del «Processo» intervistatore di Pasolini e primo biografo di Papa Wojtyla, scrive Giancristiano Desiderio, Giovedì 26/07/2012, su "Il Giornale". Il primo «sgub» di Aldo Biscardi risale al 1956 quando, avendo preso da poco il posto di Antonio Ghirelli a Paese Sera, era a Mosca per seguire il Festival Mondiale della Gioventù insieme con Enrico Viarisio, Federico Zardi e Vittorio Gassman. Durante il ricevimento al Cremlino, quando fu il turno della delegazione italiana, il giornalista dai capelli rossi prese coraggio e, non si sa come, avvicinò Kruscev che gli mise in mano un panino dicendogli: «Mangia, mangia». La conversazione sfiorò temi politici ed economici fra champagne e caviale e uscì in prima pagina con un titolo in prima persona: «Ho brindato con Nikita Kruscev nei giardini del Cremlino». Il futuro ideatore, regista e conduttore - insomma, mattatore assoluto - del Processo del Lunedì poi diventato Processo di Biscardi aveva già capito che doveva diventare egli stesso un personaggio da raccontare. E che personaggio. Lo fa, non senza qualche comprensibile indulgenza, la figlia Antonella nel libro Tutto (o quasi) su mio padre ora uscito da Limina (pagg. 133, euro 16) e arricchito dai contributi in prima persona dall’Aldo del Guinness dal momento che la «creatura» di Aldo Biscardi ha avuto il riconoscimento dal Guinness World Record come «il programma tv sportivo più longevo con lo stesso presentatore»: meglio del David Letterman Show , che nacque proprio nel 1980 ma subì interruzioni, e del nostrano Maurizio Costanzo show. Tutto ebbe inizio l’1 settembre 1980 alle ore 22,45. Erano presenti nei vari studi di Roma, Milano, Torino e Napoli i calciatori stranieri più famosi: da Falcao a Krol, da Boniek a Prohaska. Naturalmente, alla prima «partita» fu subito polemica. Un telespettatore chiese a Falcao di rispondere a Nantas Salvalaggio che aveva scritto che il brasiliano era l’unico giocatore straniero che amava marcare a uomo e leggere Oscar Wilde. L’ottavo re di Roma non si tirò indietro: «Mi sono informato, so che Salvalaggio ha una bella figlia. Mandi lei a intervistarmi, la preferisco a lui e potrà riferirgli notizie più sicure sui miei gusti e sulla mia personalità». Era nato ufficialmente Il Processo del Lunedì. Il giorno dopo Biagio Agnes scrisse a Biscardi una lettera di congratulazioni, Gianni Arpino vi riconobbe il «bar dello sport» in tv, Alberto Bevilacqua sul Corriere della Sera ne scrisse come il primo e coraggioso tentativo di analisi del fenomeno calcistico. Aldo Biscardi aveva inventato il processo alle partite come anni addietro Sergio Zavoli inventò il Processo alla tappa del Giro d’Italia. Proprio Zavoli consigliò Biscardi di sviluppare il gioco soprattutto sul piano del­la conversazione salottiera. Cosa che, in verità, tra «movioloni», «sgub», «bombe» e furiose litigate non sempre è riuscita ma è indubbio che Aldo Biscardi, che ama raccontare di discendere da Roberto il Guiscardo - «guerriero vichingo che aveva i capelli rossi come me» ma che non sapeva che avrebbe avuto discendenti in quel di Larino in Molise - abbia inventato un genere giornalistico popolare tanto criticato quanto invidiato e copiato. Eppure, quel mattatore di Aldo Biscardi - amico di Gassman, intervistatore di Pier Paolo Paso­lini e di Anita Ekberg, primo bio­grafo di Papa Wojtyla, autore di testi sulla storia del giornalismo sportivo e inchieste sulla Rai ­ non andò subito in onda: le prime due edizioni del Processo furono condotte da Enrico Ameri ­ sì, proprio quello di «scusa Ameri» - e la terza da Marino Bartoletti, mentre Biscardi faceva tutto il resto, dal tema agli ospiti alla regia. Ma è quando Aldo va in video, anche grazie alla vittoria del Mondiale in Spagna nel 1982 e allo scudetto della Roma nel 1983 che il fenomeno del Processo, con tanto di accusa, difesa e verdetto, si afferma. In particolare, Biscardi si rivelerà bravo in due cose: dando notizie e facendo di se stesso, anche con le sue gaffes che lo avvicinano a Mike Bongiorno, un personaggio e ­ come si usa dire oggi - un brand di successo. Al fascino popolare della sarabanda di Aldo Biscardi e alla sua naturale simpatia hanno ceduto in molti: Silvio Berlusconi nel 1990, quindi ben al di qua di Forza Italia, entrò in studio per un saluto e vi restò per un’ora e mezza, ma ben prima di lui c’erano stati un capo del governo come Andreotti e un capo dello Stato come  Pertini in uno storico collegamento dalla Val Gardena a 10 gradi sotto zero, mentre un altro presidente della Repubblica come Carlo Azeglio Ciampi non esitò a utilizzare la trasmissione di Aldo Biscardi per rilanciare l’inno di Mameli e invitare gli «azzurri» a non fare scena muta sulle note dell’inno nazionale.

UN BELL’ABBLAUSO, scrive l'8/10/2017 Mario Schiani su "Altro Pensiero". Non c’è da stupirsi se, alla morte di un personaggio famoso – come di chiunque, peraltro – i ricordi pubblici sono sempre positivi, in qualche caso generosi. Non è una prova di ipocrisia, quanto di civiltà: poiché sappiamo di essere tutti imperfetti, al congedo vogliamo che chi lascia porti con sé solo ciò che di buono è riuscito a trasmettere. Il resto, francamente, è superfluo: ce n’è già troppo nell’aldiquà per voler contaminare l’aldilà. Detto ciò, non mi sento di contraddire il principio di cui sopra, se al dolente ricordo di Aldo Biscardi proposto da tanti (e da me condiviso: se ne va un personaggio del mio passato che ricordo con divertimento e perfino affetto) oso aggiungere che, magari, non è il caso di estenderlo fino a nascondere che il famoso “Processo” non era in tutti i suoi aspetti un esempio di comunicazione di altissimo profilo. Non sempre, almeno. Non suonerà del tutto irrispettoso, spero, sostenere che mettere due o più faziosi uno contro l’altro – la struttura essenziale dello show di Biscardi – non garantiva precisamente obiettività, e magari non sarà superfluo ricordare che le telefonate in diretta di presidenti e altri potenti del calcio, quelli che davano ad Aldo “notizie in esclusiva” e favolosi “sgoob”, erano sempre accompagnate, in studio, da un silenzio ossequioso, quasi servile. Là dove poco prima scoppiettava il sarcasmo e la critica più inaudita improvvisamente si sentiva il tonfo delle ginocchia sul pavimento. Insomma, il “Processo del lunedì” era soprattutto tanto divertimento. Fatti gli appunti di cui sopra, forse non è il caso di processarlo proprio ora. Ma neanche di assolverlo un tanto alla lacrima. Come spesso accade, la cosa migliore è mettere i fatti nel giusto contesto. I meriti – indiscutibili – del “Processo” risaltano evidenti soprattutto se si pensa a come era trattato, prima della sua istituzione, il calcio sulla Rai tv. C’era la Domenica Sportiva, ovviamente, e anche Dribbling e Novantesimo Minuto. E poi “la sintesi del secondo tempo” all’ora di cena (per me bambino l’accostamento tra minestra e Picchio De Sisti piuttosto che tra robiola e Pierluigi Cera rimarrà eterno): poco altro. La polemica ben di rado si inoltrava tra resoconti e commenti che, evidentemente, si volevano pacati al punto d’essere reticenti. Ma gli italiani non erano un popolo di lettori del Times e la Rai, come già avevano scoperto Arbore e Boncompagni, non assomigliava affatto alla Bbc. Biscardi ce lo ricordò nel modo più clamoroso: portando il Bar Sport in tv, con la sua felliniana varietà di caratteristi. Il calciatore in pensione non andava più all’osteria del paese a commentare Milan e Juventus: eccolo, “microfonato” e incravattato, tentare una sapiente analisi tecnica combattendo nel contempo contro logica e congiuntivi. E il giornalista sportivo, quello della carta stampata? C’era gloria anche per lui, naturalmente: poteva far vedere la sua faccia e concedere sfogo al poco o tanto di vanità che accompagna la carriera di ogni giornalista. Addirittura, gli era concesso di arrivare alla voluttà del denudamento più audace e di rivelare al mondo i colori calcistici cari al suo cuore. Perfino l’arbitro, un tempo inavvicinabile come membro di una casta superiore, finì per partecipare alla mischia, offrendo in superficie competenza intorno a rigori e fuorigioco, in realtà alimentando a sua volta recriminazioni, proteste e, naturalmente, sospetti di succosissimi “gomblotti”. Tutto questo divertiva in passato e diverte ancora oggi (le tv regionali sono piene di “Processini” che prosperano applicando la formula biscardiana), ma non ha fatto dell’Italia una nazione di sportivi: ci vorrebbe un’impossibile rivoluzione per questo. Ha però messo a fuoco una fotografia più realistica del Paese: quel posto curioso in cui i campanili svettano anche nel bel mezzo dei campi di calcio.

Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia - articolo pubblicato il 3 ottobre 2015. Ho voglia di abbracciarlo e baciarlo ma temo di sgretolarlo. A 84 anni gli umani sono di carta velina. Non resisto. Lo abbraccio e lo bacio. Non si sgretola. Aldo Biscardi è una roccia, sotto la zazzera al carotene prodigiosamente uguale a se stessa. Il che conferma quanto già sapevo. Come tutti gli ergastolani del video, Biscardi ha poco di umano, e questo me lo rende fisicamente attraente, oltre che intimo. Esposto da quasi quattro decenni ai raggi catodici, il suo è diventato un corpo spettrale, un cartonato di lusso, dentro cui resistono frammenti di un inconscio quasi azzerato dall’abuso di telecamera. Se ancora oggi dici “processo”, da noi pensano più a Biscardi che a Kafka. Insomma, tecnicamente, una leggenda vivente. Accudita da Puccia, la governante filippina. Lui non la chiama, la invoca come un Zeus tonante. “Puccia!”. Sì, qualche smemoratezza, il minimo storico, da metterci la firma, l’occhio lustro tra la commozione e il tempo, la voce che manca e qualche volta raschia e rantola, ma sembrano i soffiati dell’attore ottocentesco quando esagera nel vezzo di simulare il privato essendo pubblico. Ricordi o allucinazioni? Qualcosa resiste e altro svanisce. “Quella volta che andai come inviato di “Paese Sera” a Mosca con Pasolini per la festa della gioventù e lui abbracciò un ragazzo uscito mezzo nudo da casa”. Ogni tanto, gli parte, credo a sua insaputa, un sorriso di una dolcezza enorme dove ci vedo la conferma quantica che il tempo è un infinito presente. Il vegliardo che perde colpi convive con il bambino che bussa la sua innocenza sotto la ruvida, presunta cazzata della clessidra che si svuota. Il mondo dei sociale dei global non lo sa e forse non lo conosce neppure, ma Mister Sgub non molla. La notizia vera è che il suo Processo, l’originale, esiste ancora, vive e sbotta con noi, più che mai nazionale e inimitabile. Canale 61 del telecomando. “Vieni, ti faccio vedere una cosa”. Mi mostra alla parete, con un orgoglio che non potete nemmeno immaginare, la targa del Guinness.  Da allora sono passati altri quattro anni. “36 edizioni consecutive”. Record assoluto di durata televisiva.

Non ti prende più nessuno. Sei come Fidel Castro. Eterno.

“L’unico che temevo era l’americano, David Letterman, ma lui ha smesso e, comunque, anche fosse, non poteva battere il mio record perché è stato un anno fermo”.

Sei come Eduardo. Lui non ha mai dato l’addio al teatro perché il teatro era la sua pelle.

“No, lui è un’altra cosa e merita tanto rispetto. Come lo meritava Carmelo Bene. L’ho avuto almeno dodici volte al Processo”.

Nemmeno tu dai l’addio al Processo.

“Anche i Pooh hanno dato l’addio, hai visto?”.

E tu?

“Andare avanti per me è naturale. Ieri ho finito la trasmissione a mezzanotte e oggi sono qui con te”.

Non senti il peso?

“Onestamente no. Lo sentirei se non lo facessi. Finché ce la faccio, vado avanti. E una bella abitudine”.

Sei come Moliere e Franco Scoglio, aspiri alla morte in scena.

“Io mi ritengo un giornalista che ha lavorato con onestà. Non ho fatto niente di speciale per fare questo record. Quando lasciai la Rai dopo tredici anni, mi chiamarono subito quelli di Tele+, e così via”.

Adesso stai in un circuito nazionale di televisioni private.

“Ieri ho fatto 2 milioni e 800 mila, quasi 3. Non ci credevo. Mi ha fatto piacere sapere che adesso si vede anche a Larino, il mio paese. Me l’ha detto mio cognato”.

Il tuo è l’unico processo amato da Berlusconi.

“Ci ho parlato anche ieri. Lo sento spesso Silvio”.

Che vi siete detti?

“Lui dice che il Milan si riprende”.

Ci crede in Mihajlovic?

“L’hanno preso, ma non è l’allenatore suo”.

Come sta l’amico Silvio?

“E’ in gran forma. Ha fatto pure la dieta…Sta aspettando questa sentenza. Lui è fiducioso e comunque si ripresenta in politica. Non si vuole arrendere”.

Sta perdendo i pezzi.

“C’è un tale casino in politica, pure questo Papa…”.

Che c’entra il Papa?

“Secondo me è un Papa comunista. La mamma della mia valletta, Giorgia, fu sua segretaria in Argentina. So tutto di lui. Però, pure questo Marino che va a dire: “Mi ha invitato il Papa”…”.

Hai scritto un libro su Wojtyla.

“Col quale me so’ fatto la casa in campagna. Diciotto edizioni. Tutte le prime pagine dei giornali del mondo. Ho fatto con Gianni Dego anche un disco su Bergoglio distribuito in tutto il mondo, “Francesco d’Argentina”, testo di Aldo Biscardi”.

Tu e Maurizio Costanzo, gli irriducibili.

“Lui, però, sta sempre un po’ così così, io invece sto benissimo. Non mi sentirei bene se non lo facessi il Processo”.

I due figli fedelissimi al fianco.

“Maurizio è un combattente come me, anche se a volte mi fa arrabbiare. Ieri sera ha fatto una difesa eroica di Mancini”.

L’hai trascinato nella tua storia.

“E’ venuto naturale. Da bambino tifava Inter. Pensa che una volta intervistai Boninsegna a San Siro, lo presi in braccio e lui guardava Boninsegna invece che la telecamera”.

Tua figlia?

“Antonella è la vera donna della mia vita. E’ laureata in architettura, ma sta con me da sempre. Per sua scelta”.

Un fratello senatore.

“Faceva il preside a Campobasso. Ha bocciato Fred Bongusto e anche Antonio Di Pietro. Bongusto l’ha sempre ringraziato. Senza quella bocciatura, non faceva la carriera che ha fatto”.

L’ha ringraziato anche Di Pietro?

“Lui vorrebbe sempre stare in trasmissione da me, anche adesso, ma l’ho fatto venire solo due volte”.

Non è abbastanza telegenico?

“Non mi va. Non è uno sportivo vero. E poi partirebbe subito la storiella: ecco i due paesani che fanno comunella… Adesso, poi, ho l’assalto”.

Chi ti assale?

“Tutti gli attori che vogliono venire da me. Li vedo all’Hilton dove vado spesso. Ce l’ho di fronte casa. Uno alla volta li farò venire”.

Fedelissimo in studio anche l’avvocato Taormina.

“Adesso ha comprato anche una squadra di calcio, l’Arcinazzo, così per divertirsi. Ho anche Vingolo, il più grande oculista del mondo, ospite fisso. Ha operato tre Nobel, tra cui la Montalcini”.

Lo paghi Taormina?

“Macché, viene per puro piacere. Pure Vìngolo. Mi raccomando, l’accento sulla i, sennò s’incazza”.

Capezzone?

“Viene ancora”.

Sta sempre con Berlusconi?

“No, ma cerca di rientrare. Ha capito che fuori non ha combinato nulla”.

Il tuo telecronista preferito.

“Sarà antiquato, ma dico Carosio.  Gran voce, improvvisava e ti dava il senso della partita. Oggi non te la fanno vivere la partita. Commentano troppo e non raccontano…te ne dico una bella su Carosio”.

Dimmela.

“Finale mondiale Brasile-Svezia del 58. A cinque minuti dalla fine Carosio se l’è fatta sotto”.

Si è urinato addosso?

“No, quale pipì, si cagò sotto…Chiuse bruscamente la diretta a cinque minuti dalla fine. Un attacco di diarrea. Se la fece sotto in diretta. Questa non l’ho mai raccontata a nessuno”.

Telecronisti di oggi?

“Sandro Piccinini è il più bravo”.

Alla Rai c’è il Processo di Enrico Varriale.

“Varriale è un mio prescelto. L’ho fatto assumere io in Rai quando lavorava al Canale 21 di Napoli. C’era Manca presidente socialista. Gli ho detto che il padre di Varriale era socialista. “Prendiamolo!”, mi fa”.

Il tuo prescelto ti ha “scippato” il Processo del lunedì.

“M’ha chiesto il permesso, la testata del programma è mia”.

E tu?

“Gliel’ho dato. “Fallo, tanto non ti temo”. E infatti non lo vede nessuno il suo Processo”.

Nemmeno tu?

“Sono in onda a quell’ora, ma non lo vedrei comunque. Mi fa senso. E’ una mia creatura cui hanno dato un nome posticcio”.

Che cosa vedi della tua Rai?

“Vedo sempre “Novantesimo minuto” con la Ferrari e Mazzocchi”.

Bravi?

“Si vede che lo fanno come una professione forzata. Non sono nati con l’istinto per quella cosa. Mazzocchi l’ho portato io in Rai. Poverina la Ferrari…”.

Perché?

“La incontravo all’Hilton che non si dava pace. “Non capisco perché mi hanno tolto lo sport. Tutte invidie, gelosie, cattiverie”. Ora la Monica Maggioni l’ha ripresa. Non ci ho mai parlato con la Maggioni, ma a orecchio mi piace molto”.

Ne hai avute di vallette.

“Mariella Scirea non solo una valletta. La sentivo più mia. Vedova di un calciatore famoso e tifosa. Si poteva permettere di entrare in collisione con il giornalista. La morte del marito ne ha ingrandita la personalità del triplo”.

Tante belle ragazze. Mai avuto uno sbandamento?

“Diciamo di no. Tu sei un giornalista di razza, anche fosse stato credi che te lo direi? Mia moglie sta in clinica e torna domani. Se mi muore, poi la responsabilità è tua”.

Vabbè, mi liquidi così?

“Ti do uno scoop su Michela Rocco di Torrepadula, l’ex moglie di Mentana. Bedi Moratti mi telefonò perché le serviva come attrice in suo film. “Mi basta per una puntata”, mi disse. Non l’ho mai più rivista”.

Il segreto del Processo?

“Sono passati tutti da me. Dalla vita politica a quella artistica. Ho avuto Pertini collegato in diretta. Andreotti e D’Alema. Berlusconi l’ho avuto in diretta sei, sette volte. Ho avuto in studio anche Gianni Agnelli, contro la volontà di Boniperti”.

Perché non voleva Boniperti?

“Era convinto che fossi contro la Juve”.

Non ne conosco tanti che hanno avuto empatia con Gianni Agnelli e Silvio Berlusconi allo stesso tempo.

“Berlusconi non ha coperto molto la vita privata, Agnelli sì. Ha avuto una cura certosina in questo”.

Si sono mai invaghiti delle tue vallette?

“Meglio non dirlo. A Berlusconi piacevano tante, almeno sei o sette in particolare. Ad Agnelli un paio. Paola Perissi, in particolare”.

Si sono incontrati?

“La prima volta alla presentazione della Panda. “È la cosa più bella della tua trasmissione”, mi disse Agnelli della Perissi. “Te la cedo”, feci io. “Magari” ha detto lui e si sono abbracciati”.

Altri passaggi scabrosi?

“Quella volta ai mondiali ’90 che m’hanno lanciato Schillaci. Doveva essere il colpo a sorpresa. Lui era ancora nudo nella stanzetta degli ospiti. Mi buttai su di lui, lo abbracciai e lo ricacciai dentro”.

Quella volta della pornostar allo stadio.

“Dissi che gli operatori ancora la stavano montando. Questo succede perché io vado a braccio...”.

Hai avuto Maradona opinionista.

“Ospite fisso. Avevo questa attricetta in trasmissione con me. Una volta ero già in studio che partiva la diretta e Diego non arrivava. “Dove cazzo sta?”, urlavo. Se ne stava chiuso in camerino con l’attricetta”.

Si risposa con l’ultima fidanzata.

“Ti do una bella notizia. L’ho incontrato la settimana scorsa all’Hilton. “Diego, perché non ti prendi il figlio?”, gli ho detto. “Ci sto pensando”, mi ha risposto. Quasi sicuramente lo riconoscerà. Il nipotino è tale e uguale a lui”.

Questa sì è una notiziona.

“Maradona e il figlio s’incontrano spesso all’Hilton. Diego sta sempre là. Ogni tanto chiede una massaggiatrice in camera. Lui è il più grande personaggio della storia del calcio. Non c’è paragone con Messi o Pelè”.

Migliaia di ospiti. Con quali hai avuto più feeling?

“Con i calciatori non ho mai legato. Nessun calciatore è venuto in casa mia, al contrario dei dirigenti e delle vallette”.

La tua idea dei calciatori di oggi?

“Sono televisivi. Si controllano. Fai fatica a scoprire cosa pensano. Quelli dei miei tempi non gliene fregava niente. Vale anche per gli allenatori”.

Il più telegenico?

“Herrera era un talento naturale. Il suo erede è Mourinho. I calciatori opinionisti sono tutti uguali nel vestire e nelle pose. Non mi piacciono. Lo puoi scrivere, non me ne frega niente”.

Ti piace Ilaria D’Amico?

“È la migliore. Buffon mi era più simpatico prima. Capendo che la carriera va a finire, parla da manager, da giornalista, assegna i voti”.

Si sta apparecchiando il futuro.

“Non era così prima. Lasciando la moglie e mettendosi con questa, una giornalista famosa, è cambiato”.  

Il Biscardi romanista.

“Mi piace Rudi Garcia. Lo conosco. Ma quando la Roma passa all’Hilton, mi allontano, non voglio dare fastidio. Dino Viola è stato il più grande come presidente. Di Sensi non parlo, è morto”.

James Pallotta ti piace?

“L’ho conosciuto. Pensavo non fosse la persona giusta, ma ho cambiato idea. Lui è originario di Rieti, dove io ho la casa di campagna. Mi piace che è venuto a trovare i suoi parenti sepolti”.

Parliamo di dirigenti.

“Sono cambiati anche loro. Non che prima fossero più puri. Avevano i loro contatti. Oggi conta solo il business. È centrale. Il discorso calcistico scema”.

Il tuo amico Luciano Moggi.

“Mi hanno detto che a Torino abita nel piano sotto quello di Agnelli, il presidente. Se è vero, è una bomba”.

Raccontami il tuo Moggi.

“Era la copia leggermente sbiadita di Italo Allodi. Italo è stato il primo general manager alla Moggi. Aveva carta bianca. Poteva fare tutto. Comprare i giocatori, parlare con gli arbitri, con gli allenatori e i giornalisti. Moggi è una creatura di Allodi”.

Con Luciano vi sentite?

“Ogni tanto. Lui vuole venire in trasmissione”.

E tu?

“Vediamo. Qualche volta lo inviterò”.

A proposito di Moggi. La recente sentenza della Cassazione parla di “associazione per delinquere” e “frode sportiva”. Dice anche che la sua influenza si estendeva sui media e anche sul tuo Processo.

“Sentenza equa. Moggi era uno che non nascondeva di fare tutto per la sua società. Quale giornalista non baro può negare questo? Quelli come Moggi dettavano le regole del calcio. Come faceva Allodi ai suoi tempi. Luciano aveva il potere che hanno tutti i manager, solo che lo ostentava”.

Ti chiamava per condizionare il tuo Processo?

“Come no, lo faceva con tutti”.

Hai cominciato nel 1980.

“Ti do un’esclusiva. Il Processo nacque nell’appartamento di Biagio Agnes, allora direttore generale della Rai e tifoso Napoli. Lo considero il padre putativo del processo. Ti dico una bella cosa di Biagio”.

Dimmela.

“Berlusconi voleva rompere il contratto con Raffaella Carrà. Non funzionava. Io misi insieme Agnes, la Carrà e Berlusconi per risolvere la cosa. Raffaella tornò in Rai. Mi fece vedere un anello favoloso. Glielo regalò Berlusconi”.

Gli arbitri.

“Sanno di avere una grande responsabilità e se la giocano in base al carattere.  C’è chi impone i suoi diktat. Chi lo fa perché è tifoso di una squadra. In Italia non si può dire, ma è così. Gli arbitri hanno le loro simpatie e a volte possono anche non resistere”.

Molti sono tifosi della Juventus?

“Non posso fare il nome, se no mi querela, anche perché la figlia fa la giornalista. Uno di loro mi disse: “Due anni che arbitro in serie A e ho dovuto acquistare due cantine per tutti i regali che mi facevano”. Mica roba da poco. Molte automobili”.

Il più grande arbitro italiano secondo Biscardi.

“Lo Bello padre. In trasmissione ho il figlio Rosario collegato da casa sua in Sicilia. Fa la moviola”.

Il miglior allenatore.

“Helenio Herrera. Carisma unico”.

Quello italiano?

“Ho una preferenza da sempre per Fabio Capello. Lo stimavo già da giocatore e poi da allenatore. Come uomo è eccezionale”.

A 40 anni di Processo ci arriviamo?

“Ho una salute di ferro grazie a Dio. Non ho bisogno di medici. Speriamo bene”.

La tv allunga la vita.

“Si dice, ma non è vero. Più di qualcuno è morto”.

Addio al grande Aldo Biscardi: ecco le sue 10 citazioni più famose! Scrive la redazione di Cittaceleste l'8/10/2017. Il suo addio ha lasciato senza parole il mondo del calcio, di cui è stato protagonista assoluto, senza se e senza ma. Con il suo “Processo del Lunedì”, Aldo Biscardi, ha colorato di simpatia e professionalità l’inizio di ogni settimana della nostra vita calcistica. Per questo, oggi, noi abbiamo deciso di omaggiarlo, regalandovi e regalandoci le 10 citazioni più famose dell’Aldone Nazionale, destinate – come lui – a rimanere nella storia:

“Abbiamo uno sgoop clamoroso!” 

“Io sono come Joyce, Pascoli, Leopardi e Pasolini. È il destino dei grandi poeti essere dileggiati”.

“Le polemiche fioccano come nespole”.

“La sequenza filmata della pornostar che si è esibita nuda allo stadio di Piacenza non è pronta. Gli operatori la stanno ancora montando”.

Non parlate in più di tre o quattro per volta che sennò non si capisce niente”.

“E’ una notizia importante, per radio la possono vedere tutti”.

“Non ci accavalliamo!”.

“Dobbiamo andare con il piede per terra”.

“Denghiù”. (dalla pubblicità di un corso d’inglese).

“Dove giocherà Baggio l’anno scorso?”

 Morto Aldo Biscardi: «Parlate non più di due per volta»: antologia delle sue frasi mitiche. Frasi iperboliche, strafalcioni, inciampi lessicali: antologia delle frasi che hanno reso celebri il «Processo del lunedì» e il suo ideatore, scrive Luca Bottura (ha collaborato Francesco Carabelli) su "Il Corriere della Sera” l'8 ottobre 2017.

Ciao Aldo, che lo Zingarelli ti sia lieve. Anche se per salutarti aspettiamo la conferma della Var.

Viva il «Che»?

“Per lei il pluralismo è un opzional” (a Silvio Berlusconi, maggio 1993)

Oriano Fallaci. “Stiamo dimostrando la fallacità degli arbitri” (aprile 2013)

Ce l’ho muro. “Spalletti non lo vediamo più, è andato ad allenare in Unione Sovietica” (marzo 2013)

Brigate rozze. “Del Piero è rinato, cosa incredibile se si pensa che è uno che c’ha mi pare quasi 33 anni! Corno, che era uno dei suoi EVERSORI, si è dovuto ricredere” (febbraio 2008)

Il secolo breve. “Allora, questa è l’ultima puntata del 1907 noi ci rivediamo il 14 gennaio del prossimo anno... ” (dicembre 2007)

Nesti a carico. “L’inevitabile scheda di Carlo Nesti” (marzo 1988)

Magic bis. “Parlate non più di due per volta se no non si capisce” (aprile 2011)

Condoni. “La ringrazio a nome del Presidente della Repubblica e del Consiglio, abusivamente, ovviamente” (dicembre 2001)

Zazza grande. “Do la parola a Zaccheroni”. “A Zazzaroni”. “A Zazzaroni, è uguale” (maggio 2001)

Dirittura d’Arrigo. “Dovete finirla! Qui si va sempre nel cul de sac (pausa) Ahahahaha” (dicembre 2000)

Bum!. “Leggiamo qualche mail che riassuma il bombardamento che c’è su questo tema” (marzo 2000)

La valletta dell’Eden. “Una valletta straordinaria… io ne ho avute trentotto, ma una con gli occhi così profondi, che non si vedono tanto e con le labbra così carnali mai…” (marzo 2009)

Sonno felice. “Ciao a tutti i miei amici, Rampulla primo piano, che non vedo e sento da parecchio tempo, ora è al telefono con noi, ciao Felice!” (dicembre 2010, Rampulla si chiama Michelangelo)

Dite, dite. “Incrocio le dite” (dicembre 1994)

Sedere è potere. “Il nostro regista inquadrava sempre i glutei della Cacciatori, che tra l’altro è una gran bella ragazza” (dicembre 1999)

Santi in paradiso. “Il moviolone me l’ha chiesto pure il Vaticano per l’attentato al Papa” (giugno 2007)

Iu Uelcom. “Denghiu” (pubblicità per corso d’inglese De Agostini, gennaio 2001)

1977: LA RIVOLUZIONE ANTICOMUNISTA.

Le date.

A Roma Luciano Lama, segretario della Cgil, va all’università La Sapienza per un comizio. Viene contestato dagli studenti e i giovani di Autonomia Operaia assaltano il palco e costringono Pci e Cgil alla fuga. 17 febbraio 1977

Scontri all’università di Bologna. Francesco Lorusso, venticinque anni, militante di Lotta Continua, viene ucciso da un carabiniere. Seguono giorni di guerriglia urbana, Francesco Cossiga, ministro degli Interni, invia i blindati per presidiare il centro della città. Viene chiusa Radio Alice. 11 marzo.

A Roma la polizia sgombera l’università occupata dall’Autonomia. Nella giornata scoppiano scontri nel quartiere San Lorenzo, con lancio di molotov e colpi di pistola da parte dei manifestanti contro la polizia. Viene ucciso l’agente Settimio Passamonti, ventitré anni. 21 aprile.

A Roma durante una manifestazione scoppiano scontri con la polizia nei quali resta uccisa Giorgiana Masi, diciotto anni, studentessa. 12 maggio.

A Milano durante una manifestazione di protesta per la morte di Giorgiana Masi scoppiano nuovi scontri tra polizia e movimento. L’agente Antonio Custra, venticinque anni, viene ammazzato da un colpo di pistola. 14 maggio

A Milano un gruppo di brigatisti tende un agguato a Indro Montanelli. Viene colpito alle gambe con otto colpi di pistola. 2 giugno.

A Bologna convegno contro la repressione. Le diverse anime della contestazione si scontrano. C’è chi inneggia alla lotta armata. Di fatto è la fine del movimento. 23-25 settembre.

A Torino agguato a Carlo Casalegno, giornalista e vicedirettore de La Stampa. La colonna torinese delle Brigate Rosse gli spara al volto: morirà il 29 novembre dopo tredici giorni di agonia. 16 novembre

Tano D’Amico: «Gli anni Settanta, la lotta, le pistole, l’invisibile». Intervista di Cecilia Ferrara del 29 giugno 2017 su "Il Dubbio". Non è facilissimo intervistare Tano D’Amico, il fotografo dei movimenti degli anni 70. Non che non sia generoso e non si conceda, al contrario, ma non è un intervistato docile, non risponde alle domande che vuoi tu e come vuoi tu, divaga, non ti fissa un appuntamento perché dice di non sapere mai dove sarà: «La gente pensa che io stia tutto il giorno a casa. Non è così». In questo caldo mese di giugno però è stato possibile intercettarlo per quattro lunedì (il 3 luglio sarà l’ultimo appuntamento) da Zazie nel Metro, un bar del Pigneto a Roma Est che ha organizzato “I lunedì dell’immagine”, quattro incontri con Tano D’Amico per parlare di periferie, del ‘77 e del movimento delle donne. L’abbiamo incontrato prima dell’appuntamento intitolato “E’ stato sconfitto il 77?” e da prassi gli abbiamo chiesto cosa c’è stato prima degli anni Settanta, come ha iniziato a fare il fotografo. Si è subito ribellato: «Via, smettiamola con queste cose… – risponde irritato – Ti spiego: io ho sempre amato le immagini, ma di qui a pensare di fare il fotografo come mestiere ce ne passa. Non l’ho mai pensato, neanche negli anni Settanta. Semplicemente era il modo più adatto per me per vivere e per vedere quello che stava davanti ai miei occhi perché si formavano davanti a me immagini che non si erano mai viste. Io conoscevo un po’ la storia delle immagini e in quegli anni vedevo cose che non c’erano mai state. Non solo, si iniziava a vedere un “ceto” che prima non c’era mai stato, per la prima volta si affacciavano alla soglia della storia quelle persone che la storia l’avevano sempre subita: le donne che erano sempre passate per minoranza, i disoccupati, i senza casa, i carcerati, i pazzi, i senza potere».

Ha detto che ha iniziato a vedere immagini che non aveva mai visto, che differenza c’è in questo tra il Sessantotto e il Settantasette?

«Io sorvolerei sul Sessantotto che è troppo celebrato. Quello che c’era prima e che c’è stato dopo secondo me è più importante. Parlando di immagini che non avevo mai visto: per prima cosa era come le persone scendevano in piazza. Sembrava che comparissero tutte insieme, come se fosse passato prima qualcuno con un pennello e una vernice magari bianca, avesse tracciato una linea e tutti si affacciavano su quella linea senza bisogno di capi, di condottieri, si compariva tutti quanti insieme. Quando scendevano tantissime persone in piazza, notavo che scendevano per conoscersi, per parlarsi, molto più che per ascoltare uno che parla. Ecco, persone che parlano insieme. Queste sono le mie prime immagini. C’è un momento in cui sembra che tutti compaiano sul palcoscenico, per questo le mie foto sono fortemente orizzontali, perché se è vero che ogni uomo e ogni donna è un segmento verticale è anche vero che molti segmenti verticali insieme compongono una linea orizzontale».

Un po’ come il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo insomma.

«Sì, un po’ come il Quarto Stato, ma se mi posso permettere più bello».

Lei è stato testimone di alcuni eventi fondamentali del ‘ 77…

«Come tutti… diciamo che io ho fatto caso ad avvenimenti persone e cose che erano sotto gli occhi di tutti, ma ognuno vede quello che vuole vedere nel modo in cui lo vuole vedere. Comunque non è che ho lavorato in strada da solo. Le mie immagini forse comparivano di più anche se pubblicate su giornali marginali, su poster, stampate male. Ma la domanda vera è dove sono le foto della grande stampa di 40 o 50 anni fa? Un grande giornale ha usato le mie immagini per parlare del ‘ 77 ma le ha usate oggi, non le ha usate 40 anni fa».

Che immagini usavano 40 anni fa?

«Le immagini che servivano a loro, immagini in cui chi scendeva in piazza compariva come un mostro che minacciava la quiete pubblica, qualcosa di minaccioso. Le mie immagini non trovavano spazio in nessun giornale, nemmeno il mio che era Lotta Continua. Questo perché mostrare l’umanità, la bellezza delle persone che scendevano in piazza era inviso a tutti. Tanto che venivo preso in giro dai miei compagni in strada, ero diventato una macchietta perché lavoravo tutti i giorni ma non si vedeva mai una mia immagine sul giornale. Allora c’era chi affettuosamente mi diceva: “Tano ma ti ricordi di mettere il rullo la mattina dentro la macchina? Ti sei accertato che i dentini abbiano agganciato il rullino?». Fu un momento anche di riflessione sul ruolo delle immagini per esorcizzare e quindi coprire la novità. Fotografare i movimenti è difficile, gli aspetti di novità arrivano come dei lampi, bisogna coglierlo nelle linee dei volti che cambiano, nei gesti, negli angoli delle membra. Chi fotografa i lampi fotografa la novità, ma lo può fare solo se li aspetta. Se non li aspetta si limita a fare foto di tenebra. La mia diversità si vide nei primi lavori sui nuovi giornali. Potere operaio del lunedì, sembrò che non aspettasse altro che il mio modo di vedere. Una mia immagine fu per un periodo la testata di Potere operaio del lunedì ed era l’immagine di operai sardi che parlavano insieme. Era su fondo bianco, sembrava quasi mi fossi portato dietro il fondale, perché gli operai erano sulla riva del mare, aspettavano gli autobus su una strada in riva al mare. Ecco anche in questo caso era come se fossero comparsi, tutti insieme, su un palcoscenico».

Cosa successe quando comparvero le pistole alle manifestazioni?

«Il mio modo di fotografare era diverso anche nelle foto di documentazione: cercavo che ci fosse di più. La cosa in più era il contesto, perché se uno mostra un giovane che tira un sasso quel giovane si prende 5 anni, 7 anni. Non dico di nascondere certe cose ma di imparare dai classici che hanno sempre mostrato quello che accadeva – nella pittura, nella fotografia, nel cinema e nel teatro – senza mandare nessuno in carcere. Serve studio e impegno. È necessario mostrare il contesto, la bellezza delle istanze. C’è una mia fotografia molto gettonata, quella della ragazza con il fazzoletto, che in quel fotogramma commette forse tre reati insieme: ha un fazzoletto che copre il volto, resiste alla forza pubblica ed è lei che mette la mano per “bloccare” la polizia. Ma nessuno si è mai sognato di cercarla e di portarla in tribunale perché avrebbero ampliato la bellezza delle sue istanze che erano quelle delle donne, in confronto a cui i reati che stava commettendo erano ben poca cosa. Nelle mie immagini si è visto di tutto, ma anche – m’illudo – tutto quell’invisibile che sono le motivazioni, i perché, l’affetto che le tiene insieme. Per decenni ho occultato una mia immagine, quella di Daddo e Paolo, perché pensavo di nuocere. Vent’anni dopo fu lo stesso Daddo a rimproverami: «Dovevi farla uscire subito», mi disse. È vero che da giovane dicevo sempre che una bella immagine non fa mai male, una cattiva immagine fa sempre uno o più danni. Ma non mi sentivo di farlo con la vita degli altri».

La foto in questione è quella della manifestazione in piazza Indipendenza del 2 febbraio 1977 in cui rimasero feriti due militanti di sinistra Leonardo “Daddo” Fortuna e Paolo Tomassini e un poliziotto, Domenico Arboletti. Nella foto si vede Daddo che solleva con un braccio il compagno già ferito come per portarlo via, con in mano una pistola. Che momento fu quello?

«È stata la nascita del ‘ 77. Per l’attacco che subirono. Quella di Paolo e Daddo fu una risposta all’attacco di due agenti che non si sapeva fossero della polizia: non avevano nessun contrassegno e di fatto volevano con la loro macchina spezzare il corteo in due. Quando il corteo si è compattato e non ha fatto passare l’automobile è sceso un signore con il mitra e un altro con una pistola. Era il giorno dopo in cui i fascisti erano entrati nell’università e avevano ferito uno studente, avere delle armi non era così strano. Quell’immagine mostra due giovani che non volevano perdere, a nome di tutti quanti, le conquiste passate che erano anche affettive, di solidarietà. Quando vent’anni dopo comparve quell’immagine in un blog di Repubblica che si chiama Fotocrazia fui attaccato duramente, però con citazioni di Omero (che aveva raccontato un fatto simile), Virgilio, Tasso e Ariosto, insomma non era male».

Un’altra manifestazione raccontata tantissimo per immagini è stato il G8 di Genova. Che paragone con il ‘ 77?

«Ecco Genova 2001 dimostra come le immagini possono seppellire un avvenimento. Il modo in cui si è visto l’omicidio, la morte in diretta di Carlo Giuliani. Quel modo da “macchina” – come le telecamere piazzate al porto di Napoli che di tanto in tanto riprendono un omicidio di camorra – ecco io penso che non faccia un buon servizio all’umanità. Rappresenta l’abdicazione dell’essere umano a vantaggio della tecnologia. Le immagini di Genova che cosa raccontano? Molte perpetuano il terrore che la polizia e i carabinieri volevano imporre. E venendo all’omicidio di Carlo Giuliani, dopo due anni che il video girava ovunque su internet, la magistratura ha detto che i carabinieri hanno fatto un uso corretto delle armi da fuoco. L’immagine che non è partecipata, l’immagine abdicata, l’immagine da macchina non da essere umano non è capace di raccontare il contesto. La verità non è mai nei verbali della polizia, nelle sentenze dei tribunali. La verità, quella vera, che rimane nella memoria, è nei romanzi. La verità bisogna farla. Non è qualcosa che esiste e che le macchine fedelmente riportano, troppo comodo, non è così. La verità è una creazione dell’uomo, la più bella forse, ma in natura non esiste, è l’uomo che la farà vedere mettendo insieme le cose, mostrando il contesto. Una macchina questo non lo potrà mai fare, la verità è un insieme di ricerche, una ricerca che non finisce mai che l’umanità può fare».

Sulle Onde di Radio Alice correva il ’77 ribelle, scrive Luciano Lanna l'8 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Quarant’anni fa l’emittente bolognese venne chiusa dalla polizia, arrestate le sue “voci”. La radio del movimento studentesco interpretò il cambiamento della società dell’informazione facendo saltare i vecchi schemi della militanza. Quarant’anni fa, il 12 marzo 1977, il giorno dopo l’uccisione a Bologna dello studente Francesco Lorusso, la polizia fa irruzione nei locali di Radio Alice, li sigilla e arresta tutti gli animatori. I media ufficiali avevano scatenato una vera e propria crociata contro l’emittente, con l’accusa di essere stata la diretta responsabile degli scontri violenti seguiti alla morte del giovane studente. Per dirla tutta, lo studente, un 25enne militante di Lotta Continua, era stato freddato da un colpo d’arma proveniente dalle forze dell’ordine dopo che una bottiglia molotov aveva raggiunto un autocarro. Ma la morte dello studente dette origine a ulteriori e pesanti scontri di piazza. Radio Alice aveva solo mandato in onda, come faceva per tutto quello che accadeva in città, la cronaca degli eventi. Del resto, è Umberto Eco, curiosamente attento ma spesso critico nei confronti dell’ala creativa del ’ 77, a difendere la redazione della radio dalla campagna denigratoria nei suoi confronti. Fatto sta che la chiusura determina la fine di un anno vissuto in prima persona da quella radio e che è stato decisivo per l’immaginario di una generazione. Tutti gli arrestati vengono portati in questura e successivamente trasferiti nelle carceri di San Giovanni in Monte. Ovviamente, in seguito vengono tutti prosciolti dalle accuse mosse nei loro confronti. Radio Alice riaprirà circa un mese dopo e continuerà le trasmissioni per ancora un paio d’anni, ma senza l’apporto degli originali fondatori e senza più la stessa vocazione, tanto che la frequenza della radio verrà ceduta a Radio Radicale. Quell’avventura era iniziata ai primi di gennaio del ’ 76, con le prime trasmissioni di prova dalla mansarda al civico 41 di via del Pratello, dall’idea di un gruppo di amici e studenti del Dams, il primo dipartimento universitario in Italia di “arte, musica e spettacolo”. «Quando Maurizio Torrealta venne a casa mia a propormi di fondare una radio – ha ricordato Franco Berardi Bifo, uno degli animatori – la trovai una idea bellissima. Pensai: sappiamo cantare, fare gli speaker, ballare, praticamente possiamo fare tutto: ma la macchina?». E così si aggregano quelli che avevano le competenze tecniche, come Torrealta o Andrea Zanobetti, ingegnere elettronico. Si decide di mandare in onda tutt’altro da quello che si ascoltava dalla Rai: brani di libri, comunicazioni sindacali, poesie e letteratura, lezioni di zen e di yoga, analisi politiche, dichiarazioni d’amore, commenti ai fatti del giorno, ricette non solo macrobiotiche, favole della buonanotte, liste della spesa, la musica dei Jefferson Airplane, degli Area o di Beethoven. E tutte le trasmissioni, sulla frequenza di 100.6 megahertz, si aprono e si chiudevano sempre col brano Lavorare con lentezza, del cantautore pugliese Enzo Del Re. È la versione bolognese, forse più creativa ed effervescente di altre per la presenza in città del Dams, di ciò che stava andando in onda in tutta Italia dopo la sentenza della Corte che aveva dichiarato anticostituzionale il monopolio statale sull’etere. S’era d’un tratto aperto un vero e proprio vuoto giuridico, nel quale in brevissimo tempo si inserì un circuito di piccole emittenti locali improvvisate, le cosiddette “radio libere”. Da questo punto di vista, osserva – in I sogni e gli spari. Il ’ 77 di chi non c’era (Azimut) – Emiliano Sbaraglia, «il 1977 produsse un esempio unico e irripetibile di comunicazione radiofonica: cambiano radicalmente le tecniche di informazione: si modificano, ampliandosi e migliorandosi, le possibilità di recupero di materiale informativo, i metodi di trattamento dello stesso, la pubblicazione e la diffusione di una notizia». D’un colpo irrompe in Italia l’epopea di Radio Popolare a Milano, di Radio Sherwood a Padova, di Radio Città Futura e Radio Onda Rossa a Roma ma non solo… Nascono infatti anche Radio University a Milano e Radio Alternativa nella Capitale e tante altre emittenti “di destra”. Interessante la recensione che L’uno, il supplemento “politico” di Linus, pubblica nel numero di marzo ’ 77: «C’è il solito coretto di scena post- brechtiano, tipo Dario Fo… Poi parlano alcuni giovanotti… Dicono che i servizi segreti sono infiltrati… Poi si mette su un altro disco, questa volta è una melopea dylaniana contro i grassi borghesi, le signore puttane che giocano a canasta… Poi si riprende il dibattito e si parla della strategia della tensione, della manovra della stampa borghese che mette in risalto gli elementi da fotoromanzo presenti negli atti di terrorismo e di equivoca criminalità comune. Altra musica, mitteleuropea ( Berlin, mein Berlin). Poi interviene un parlamentare che rincara la dose: le istituzioni sono in sfacelo, ma non da oggi; fin dai tempi di Salvatore Giuliano e della strage di Portella della Ginestra; ancora prima, dallo sbarco degli americani con i mafiosi». Quindi la sorprendente constatazione: «Tutto questo – si leggeva insomma agli inizi del ’ 77 sul supplemento di Linus – non viene trasmesso da una radio libera “democratica”, come si potrebbe pensare. Ma da Radio University, emittente milanese “fascista”…» ( che trasmetteva addirittura dalla sede della federazione provinciale del Msi). Non si notavano differenze, concludeva l’anonimo recensore, con le programmazioni, le parole e i suoni con le radio legate all’estrema sinistra. E tutto questo era vero, nella condivisione generazione di un immaginario e di una sensibilità esistenziale che accomunava il profondo dei giovani di allora, che alla notizia dei sigilli a Radio Alice, mentre Radio University trasmette in diretta le fasi drammatiche della chiusura dell’emittente bolognese, il conduttore Walter Jeder invitava i suoi ascoltatori a solidarizzare con i redattori bolognesi perché spiegava «potrebbe succedere anche a noi». Insomma, Radio Alice è il simbolo di tutto un più vasto fenomeno che stava trasformando la comunicazione e l’informazione nel nostro paese. Ma perché quel nome? La suggestione veniva dal nome del personaggio di Lewis Carroll, l’autore di Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio. Era accaduto che nel ’ 75 era uscito un saggio di Gilles Deleuze, autore caro ai giovani di quella fase, dal titolo La logica del senso e che analizzava proprio i luoghi e la mente della protagonista degli scritti di Carroll. Come se non bastasse, dal ’ 76 e fino al novembre ’ 77 Gianni Celati, docente di letteratura anglo-americana al Dams, tiene un seminario in forma di lavoro collettivo sulla figura di Alice nel paese delle meraviglie. Tra i suoi studenti, il futuro narratore Enrico Palandri, Andrea Pazienza in arte Paz e Roberto Freak Antoni, giovani creativi che rappresenteranno al meglio lo spirito del ’ 77. «Il nome di Alice era già stato messo in giro alla controcultura americana ed era diventato una parola d’ordine per riferirsi a quel tipo di aggregazione sparsa e senza gerarchie che è stato chiamato movimento», si legge in Alice disambientata, il libro che raccoglie i materiali del seminario e che verrà pubblicato l’anno successivo dalle edizioni “L’erba voglio” di Elvio Fachinelli. Fatto sta, che quel seminario tenuto nel ’ 77 finisce per definire la figura fiabesca di «Alice come emblema e, in qualche modo, nome del nuovo movimentismo giovanile, almeno a Bologna. La stessa Alice che, come ha ricordato Marco Belpoliti, suscitava contemporaneamente le reazioni polemiche dei «giovani barbuti con tascapani militari», gli ideologizzati e militanti che erano convinti che l’argomento fosse «futile e lontano dai problemi della società». Ecco, un personaggio fantastico, un simbolo dell’immaginario, si tramuta in elemento di discrimine: da una parte chi è in sintonia con i tempi nuovi, dall’altra chi resta attardato ai vecchi stilemi ideologici. D’altronde, i partecipanti al seminario ne erano consapevoli. Così scrivevano sulla scelta di una dimensione tutta “fantastica”: «Quando l’eroe parte per il fuori, va fuori dal villaggio dove non esistono più i rapporti di alleanza e parentela che gli forniscono i modelli culturali di comportamento. La fiaba insegna un modello di comportamento per zone dove l’individuo non è protetto dai rapporti sociali di alleanza e parentela, trasmette i modi per stabilire questi rapporti sociali anche fuori dal villaggio». Insomma, Alice diventa una figura che quell’anno compare un po’ dappertutto, metafora di un universo giovanile aperto, che sfugge – si legge nel libro – «all’elaborazione d’una linea e ad esportare verso l’esterno questa linea come proposta di discorso egemonico». Ancora: «Non parliamo di utopia. Anche l’utopia è un modo di ridurre le contraddizioni a uno schema fisso… La controcultura ha posto una questione minima: tutti i rapporti da stabilire sono affettivi, i rapporti politici sono quelli già esistenti nella nostra società e non piacciono a nessuno tranne ai politici». È la riscoperta generazionale del “personale”, dell’esistenziale, del comunitario, rispetto ai vecchi rapporti astratti, societari, istituzionali, politici: «L’ipotesi venuta dalla controcultura – leggiamo ancora in Alice disambientata – non è un’utopia, riguarda un problema di circolazione: un corrersi dietro tutti, cercando di darsi a vicenda dei rapporti d’identificazione affettiva». E in conclusione il seminario riconosce che i “mondi della vita” emergenti nella società in quel ’ 77, soprattutto tra le giovani generazioni, non sono più rappresentabili dalle istituzioni o dei partiti, quanto dalle reali comunità giovanili, un mondo fatto di pluralità e differenze: «Le tribù in movimento sono tante e molto differenziate, e con teorie di campo tanto dissimili». Ecco, quell’icona e Radio Alice rappresentavano al meglio la rottura con le vecchie forme della militanza e aprivano la strada a nuove forme di comunicazione. Tant’è vero che il quando il 9 febbraio ’ 76 iniziano le trasmissioni vere e proprie di Radio Alice, si aprono proprio con la musica di White Rabbit, un brano degli Jefferson Airplane che non poteva non ricordare il coniglio bianco compagno d’avventure dell’Alice ispiratrice. E, da subito il flusso quotidiano di informazione è continuo, senza alcuna interruzione, come invece accadeva con la Rai o con altre emittenti libere. Sarà proprio questa l’innovazione rappresentata dal prepotente ingresso di Radio Alice nel mondo della comunicazione. Un’innovazione che, nel 2004, verrà celebrata dal film Lavorare con lentezza, diretto da Guido Chiesa e sceneggiato insieme al collettivo Wu Ming. Qui le vicende di due ragazzi bolognesi si mescolano a quelle dei movimenti studenteschi del ’ 77 e delle trasformazioni antropologiche, politiche e nella comunicazione di quell’anno. E mentre queste cose accadono, sullo sfondo – a cominciare dal brano del titolo – si ascolta sempre, come una sorta di colonna sonora quotidiana, quanto va in onda sulle frequenze di Radio Alice.

Film d'epoca e documentari inediti: ecco la rivolta del '77. Per la prima volta in tv anche due documentari militanti come Pagherete caro, pagherete tutto del 1975 e Festival del proletariato giovanile al Parco Lambro (1976), scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 1/03/2017, su "Il Giornale". Il 1977. Uno degli anni più complicati della storia italiana. Nasce un movimento universitario che scavalca a sinistra non solo il Pci ma anche i precedenti movimenti figli del '68, come Lotta Continua. La tensione politica sale alle stelle e per la prima volta una rivolta, fatta a colpi di cortei e radio libere. Il movimento però degenera rapidamente. Tra le idee dadaiste degli Indiani metropolitani e l'invito alla violenza di chi porta le P-38 nei cortei sono rapidamente le seconde a vincere. Eppure alcune cose dello spirito del '77 è arrivato sino a noi. Ecco perché a quarant'anni da quei fatti il canale Iris ha deciso di dedicare quindici film, in cinque serate consecutive proprio al '77 e dintorni. Protesta, politica, canzoni, terrorismo, amore libero: insomma tutto il mix di elementi contraddittori di quegli anni di piombo ma non solo è trattato nel ciclo Black Out (presentato ieri a Milano) che andrà in onda da sabato 11 a mercoledì 15 marzo. La data di partenza non è scelta a caso, l'11 marzo '77 a Bologna venne ucciso il militante Francesco Lorusso. Tra i film alcuni d'epoca che danno l'idea di come si sia creato il clima culturale che portò al '77: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), San Babila ore 20: un delitto inutile (1976) e La classe operaia va in paradiso (1971). Per la prima volta in tv anche due documentari militanti come Pagherete caro, pagherete tutto del 1975 e Festival del proletariato giovanile al Parco Lambro (1976). L'unico limite dell'iniziativa che ha un bel supporto documentale è quello che, a parte un filmato introduttivo e uno speciale a cura di Tatti Sanguineti (forse ce ne sarà anche uno di Maurizio Costanzo), il pubblico è lasciato solo, in alcuni casi, con delle pellicole (molto ideologiche) che richiederebbero un po' di inquadramento per essere capite. Soprattutto dai giovani.

17 febbraio 1977, gli studenti demoliscono Lama, scrive Paolo Delgado il 17 Febbraio 2017, su "Il Dubbio". Quarant’anni fa il segretario della Cgil veniva contestato alla Sapienza dagli studenti della sinistra ex parlamentare che lo accolsero con fischi e bastoni. Il palco venne giù come fosse di cartapesta, per qualcuno fu una frattura drammatica, per altri fu l’episodio più liberatorio del “decennio rosso”. La sola cosa che avevano in comune era la reciproca ostilità, una sensazione condivisa di estraneità totale, una punta di disgusto ricambiata senza alcuna cordialità. A quarant’anni di distanza ancora non si capisce bene chi prese la decisione sciagurata di spedire Luciano Lama, segretario della Cgil, in mezzo all’università di Roma occupata da un Movimento che il Pci considerava a un passo dal fascismo conclamato e che avrebbe visto il Pci e il sindacato come nemici assoluti anche senza le carinerie che l’Unità elargiva a getto quotidiano. Fu una decisione stupida ancor più provocatoria, e tanto inspiegabile che poi, per anni, Cgil, Federazione romana e Sezione universitaria del Pci si sono rimpallati la responsabilità della brillante trovata. Non poteva che finire malissimo: fu chiaro da subito. Il Movimento si preparò all’indesiderato appuntamento con una di quelle assemblee fluviali ed estenuanti che erano all’epoca merce comune. Ore e ore passate nell’aula I di Lettere, dal primo pomeriggio del 16 febbraio sino a notte inoltrata, accumulando proposte per poi confutarle, difendendo a spada tratta linee di condotte alternative ma che tutti, in fondo, sapevano destinate a essere comunque travolte dagli eventi. Quando uno dei principali leader dell’ala dura di Autonomia, esasperato, prese alla fine la parola per chiedere: «Tutto bene, ok. Ma i bastoni dove li mettiamo?» la sterzata fu accolta con sollievo generale. Finalmente la verità. Non significa che la scelta del Movimento fosse lo scontro fisico. Se nessuno riteneva che si dovesse accettare l’offerta degli organizzatori del comizio, disposti a far parlare dopo il super sindacalista anche un «esponente del movimento studentesco», la linea maggioritaria era favorevole a una contestazione morbida e ironica, a base di sberleffi, non di mazzate. Ma tutti, anche i più creativi tra gli indiani metropolitani, sapevano benissimo che il rischio che le cose prendessero un’altra piega c’era tutto. Chiedersi dove mettere i bastoni non era segno di estremismo e di propensione alla violenza. Era semplice realismo. Non poteva che andare male, ma andò anche peggio del previsto. Anche questo fu chiaro sin dal primissimo mattino, quando i militanti del servizio d’ordine del Pci e i funzionari del sindacato cominciarono ad affluire alla Sapienza, anticipando di un’oretta il segretario. Arrivavano con le facce tirate di chi marcia in territorio nemico e si aspetta l’agguato dietro ogni angolo. Sembrava l’avessero fatto apposta, e probabilmente era proprio così, a rimarcare nei particolari la distanza, anzi la contrapposizione antropologica, l’antagonismo anche estetico, rispetto ai “diciannovisti “che da 15 giorni occupavano l’università di Roma. Gli stessi che una decina di giorni prima avevano sottoposto il cronista del “quotidiano fondato da Antonio Gramsci” a un beffardo processo popolare. Capo d’accusa: “Affermazioni deliranti”. Sentenza, passibile di immediata esecuzione: “Espulsione a vita dall’università”. In quelle prime decine di minute, mentre il servizio d’ordine del Pci montava un palco improvvisato e la tensione s’impennava assai più del palchetto, il popolo del Pci e quello del Movimento si guardavano in silenzio, scoprendo quasi con sorpresa una differenza ormai totale, verificando la profondità di un abisso che non era più colmabile. Le scritte degli indiani, fatte nella notte, accoglievano i funzionari del partito che sosteneva con la sua astensione il governo Andreotti e quelli del sindacato che chiedeva agli operai di sacrificarsi in nome dell’ “interesse generale”. “Nessuno L’ama”, “I Lama stanno in Tibet”. I comunisti le degnavano appena di uno sguardo ma bruciavano d’indignazione: come ci si poteva permettere una simile mancanza di rispetto? Gli insolenti guardavano i sindacalisti con disprezzo anche maggiore, o forse con un’alterità che non permetteva più neppure il disprezzo. Quella gente, con le loro facce torve, la mascelle serrate, le divise d’ordinanza da burocrati così volutamente opposte a quelle altrettanto d’ordinanza ma variopinte e fantasiose del Movimento, non la si poteva più bollare, come si era fatto dal ‘ 68 in poi, come semplicemente “revisionista”, come compagni che miravano allo stesso obiettivo, una mondo diverso e più giusto, ma per una strada sbagliata, arrendevole, genuflessa, sconfitta in partenza. Quello ormai era direttamente il nemico in prima persona. Era, nel momento storico dato, il sostegno e il principale puntello dell’assetto di cui persino “i revisionisti” erano comunque stati considerati critici pur se non abbastanza severi. Gli slogan iniziarono ancora prima che Luciano Lama cominciasse a parlare. La derisione surreale e un po’ demenziale, “Fatti una pera, Luciano fatti una pera” sul tono di Guantanamera, bruciava forse anche più della critica politica, dell’accusa di tradimento: “Lama ti prego non andare via: vogliamo ancora tanta polizia”. Tra il palco, circondato dal servizio d’ordine del Partito, e la massa di minuto in minuto più folta dei ragazzi di Movimento, sotto la scalinata di Lettere, non c’erano che pochi metri. “Luciano” era terreo al momento dell’arrivo nella zona nemica, attorniato dall’immancabile codazzo di funzionari e dal servizio d’ordine, quasi una replica caricaturale delle immagini che dall’Urss raccontavano in ogni Tg la mesta fine dell’Ottobre rosso. Lo era ancora di più quando infine prese la parola, probabilmente già consapevole dello sbaglio commesso, per pronunciare un discorso che non sarebbe mai arrivato alla fine e del quale comunque si persero anche le prime parole, subissate dal fragore dei fischi, dagli slogan strillati a voce sempre più alta. A determinare una deflagrazione comunque inevitabile furono i palloncini. Tanti, colorati e innocui. L’arma scelta dagli indiani per marcare la distanza tra il grigiore plumbeo di chi chiedeva ai sacrificati di sacrificarsi sempre più e la festosità disperata del Movimento. Il quadrato intorno al palco rispose con i sassi, forse per esasperazione, forse perché costretti dalla loro stessa favola, che li voleva impegnati a fronteggiare una forma moderna e camuffata di fascismo. Nulla come quel discorso di Luciano Lama, segretario della Cgil, coperto dagli slogan ostili, pronunciato solo a uso delle persone che occupavano il palco mentre di fronte la sassaiola diventava sempre più fitta, racconta il ‘ 77. Più delle autoblindo spedite da Cossiga a Bologna meno di un mese dopo. Più delle istantanee che concentrano l’attenzione sulle armi in piazza, e così facendo falsano la storia. Più dei girotondi che trasmettono l’immagine di una gioiosità che era mimata e copriva invece un malessere profondissimo. Lama chiuse di corsa il suo discorso, troncandolo di netto, quando si rese conto che la situazione era definitivamente sfuggita di controllo. Fece in tempo ad abbandonare il palco e il campo un attimo prima che quei bastoni ai quali si era alluso la sera precedente entrassero in azione. Una sola carica, decisa e travolgente, non preordinata, forse neppure decisa da nessuno. Spontanea. Il palco venne giù come fosse di cartapesta, e in un certo senso lo era davvero. Poche ore dopo la polizia arrivò in forze a sgombrare l’università. Giusto per confermare che nulla di quanto era stato rinfacciato a Lama e tramite lui all’intero Movimento operaio istituzionale poche ore prima era infondato. Non fu tanto il giudizio politico a tracciare allora nel Movimento una linea di demarcazione che resiste e ancora separa gli ormai incanutiti. Fu una questione di sentimenti prima che di analisi politica. Di emozioni, non di mozioni. Per qualcuno, soprattutto per chi militava o dirigeva gli ex gruppi impegnati nel tentativo votato a certo fallimento di trasformarsi in partitini, si trattò di una tragedia, di una lacerazione drammatica che avrebbe dovuto essere a ogni costo evitata e che andava adesso ricucita quanto prima. Ancora oggi ricordano il 17 febbraio 1977 come un giorno di lutto. Per molti altri fu il momento di massima gioia, il singolo episodio più liberatorio dell’intero decennio rosso, e tale è rimasto nei decenni. Nell’assalto al palco del sindacalista dei sacrifici non c’era solo il rifiuto della linea decisa da un Pci che abboccava all’amo teso dal potere democristiano, quello illustrato in anticipo da Moro e Andreotti al dubbioso ambasciatore americano Gardner. In sintesi: «Dobbiamo prendere misure che gli operai non accetterebbero ma che grazie al sostegno del Pci invece passeranno. Poi però proprio l’aver sostenuto quelle misure provocherà un crollo di consensi a favore del Pci». Strategia mirabile che avrebbe colto tutti i risultati previsti nel giro di due anni. Non c’era neppure soltanto il compimento di una divaricazione che dal 1968 in poi si era fatta sempre più profonda e che aveva in realtà già toccato il punto di non ritorno quando, nel 1970, una serie di articoli dell’Unità denunciò Adriano Sofri per essere entrato illegalmente alla Fiat comiziando, chiedendone di fatto un arresto che arrivò puntuale e chiuse il leader di Lotta continua in carcere per mesi. Tutto questo certamente pesava, ma ancor più a fondo s’agitava un rifiuto globale di quel che il movimento comunista era stato sino a quel momento. Della sua passione per l’ordine. Del suo culto della disciplina, sia pur ribattezzata “disciplina di partito”. Della sua ipocrisia tattica camuffata da ardimentose piroette strategiche. Del suo culto del partito e di chi nel partito comandava. Della sua religione dell’obbedienza. Della sua abitudine a colpire il popolo in nome del popolo. Della sua struttura plumbea. Del suo grigiore costitutivo. Nelle sue componenti più innovative e nei suoi momenti migliori, quello del ‘ 77 è stato soprattutto un Movimento contro il “comunismo reale”. Il primo e sinora l’unico che abbia provato ad aggredire non gli orpelli ma il cuore stesso degli errori commessi dal movimento comunista non in nome della sua revisione e neppure in quello di un ritorno alla sua purezza, ma in nome della capacità di evolversi e cambiare imparando dagli errori senza rinnegare le radici. Per questo la cacciata di Lama, che della mesta e gelida realtà del movimento comunista era emblema, è ancora oggi la data chiave di quell’anno distante. E forse per questo è così difficile consegnare il ‘77 alla nostalgia e alla storia.

Settantasette, parole ed immagini. Tano D'Amico è l'autore dietro le foto che hanno raccontato il Movimento del '77: le proteste, gli scontri, le speranze di una generazione entrata nella storia muovendo i primi passi dal cortile delle Sapienza. Intervista a Tano D'Amico di Michele Smargiassi su “Robinson” (La Repubblica) il 19 febbraio 2017.

Vide gli zingari felici. Ne salvò i volti per noi, con le sue fotografie. Tano D’Amico, 74 anni e un sorriso da Gavroche, “compagno fotografo”, fotografo dei nomadi, degli occupanti di case, una lunga storia che comincia prima e finisce dopo il ’77: ma quell’anno, anche per lui, fu unico. L’anno in cui l’universo si mosse.

Vorrei partire da una foto non tua. Il militante incappucciato che spara in via De Amicis. Temo che l’icona del ’77 sia quella.

“Vollero farla diventare così. Non è un’immagine, è uno scalpo. Era l’immagine che tutta una cultura politica aspettava. Non solo quella di destra. In quel periodo lavoravo a Lotta Continua, e il ’77 lo odiavano pure lì. Certo, ricordo cosa scrisse Umberto Eco, che quella fotografia seppellì il movimento, ma ricordo cosa pensai io quando la vidi sulle prime pagine dei giornali: che era una brutta immagine, e che le brutte immagine prima o poi scompaiono”.

Brutta ideologicamente?

“No no, anche in senso estetico. Se vedessi un’immagine così in un film direi che è brutta, non perché c’è uno che spara. Le immagini sparatorie nei film di Peckinpah sono bellissime. Quella che dici tu invece è un’immagine repellente. Al di là di quello che rappresenta (lo sai vero che quello che si vede non è quello che ammazzò l’agente di Polizia?), diede origine a cose disastrose, un gruppo di giovanissimi che si vendettero gli uni gli altri… penso che le immagini si giudichino anche dal loro futuro”.

Del ’77, tu cercasti solo belle immagini?

“Penso che le belle immagini abbiano un posto nell’universo. Quando l’universo vede una brutta immagine, s’arrabbia. Certe foto invece vengono accolte dall’universo: penso alle due Polaroid di Moro nel carcere delle Br. Appena le vidi pensai a due icone bizantine. Nell’ultima foto Moro non fa caso ai suoi assassini che ha davanti, si appella all’universo, a noi, è già al di là, tutti lo volevano morto. Quella foto mi ha commosso più delle sue lettere”.

Prima di quella foto tutto era ancora aperto. E tu eri il fotografo “del movimento”.

“Ma io non volevo fare il fotografo del movimento. Io volevo fare il movimento, stare nel movimento. Sapevo che invece il fotografo deve mettersi da parte per osservare. Però trovavo brutte le immagini del movimento. Cosa ci potevo fare: ero figlio di emigranti siciliani a Milano, da bambino m’infilavo nei musei, erano gratis e caldi d’inverno e c’erano guardiani gentilissimi. C’era un’immagine che mi ricordava il mio Sud, un gruppo di donne normanne. Il pittore, lo seppi dopo, si chiamava Van Gogh. Forse per questo vedevo subito quando un’immagine smuoveva o bloccava qualcosa e lo dicevo. E i compagni: allora domani al corteo le foto le fa Tano”.

Fotografo precettato dal proletariato.

“Nelle assemblee dicevano Tano, tutti fotografano i fatti, tu fotografi i nostri desideri. Ebbi grande affettuosa libertà”.

Il fotografo dei desideri...

“Be’, non potevo fare diversamente. Mi mandavano nei posti dove era successo qualcosa ma coi treni di allora e pochi soldi per il biglietto arrivavo tre giorni dopo, non mi restava che cercare gli avvenimenti nei volti delle persone. Imparai a leggere la storia negli occhi della gente”.

Cosa ci leggevi?

“Bellezza. Passavo ore nel cortile della Sapienza, tra i ragazzi che sonnecchiavano, leggevano libri, si baciavano. In un libro Chomsky ha scritto che in quel cortile maturava la storia. Poi seguivo quei ragazzi in strada, nei cortei, fotografavo la loro grazia. Ma quelle immagini non uscivano mai sui giornali. I compagni mi prendevano in giro: Tano, ma lo metti il rullino nella macchina? I giornali volevano immagini di scimmie assetate di sangue, di assassini reali o potenziali. Le mie immagini erano intrattabili. Ero diventato una macchietta, il fotografo che fa foto che nessuno vede. Allora venne a casa mia una vera e propria commissione politica, autonomi, femministe, gay, indiani metropolitani… Mostrai le foto. Alcuni si misero a piangere. Bisogna fare un libro, dissero. Fecero una colletta, i soldi dentro un sacco del pattume. Il libro uscì, la bellezza fu vista”.

Eppure hai scattato anche tu fotografie “di fatti”. Il giorno in cui ammazzarono Giorgiana Masi...

“Ho condiviso la buona e cattiva sorte dei movimenti, è una favola che evitassi il conflitto. Quel giorno feci una foto a un agente in borghese armato. Mi pareva un’immagine banale, tutti sanno che ci sono gli agenti in borghese. Non era neppure la foto dell’uomo che sparò a Giorgiana, era un altro posto. Però la sera al telegiornale sento il ministro degli Interni garantire che non c’erano agenti in borghese, allora mi vesto e faccio il giro dei giornali con quella foto. Il primo giorno tutti scrissero che il ministro avrebbe dovuto dimettersi, poi tornò la solidarietà fra potere e stampa”.

C’è una foto di “fatti” che invece tenesti per te. Perché? Era una brutta foto?

“Tu dici la foto di Paolo e Daddo, uno ferito l’altro che lo sorregge e tiene in mano due pistole, dopo gli scontri del 2 febbraio all’università di Roma. Vero, non la feci vedere a nessuno. Vent’anni dopo, quando incontrai Daddo nella redazione del Manifesto, proprio lui mi rimproverò: ma perché non l’hai pubblicata? E io: ma era la tua vita, c’era il tuo sangue… E lui: no, è tua, è il tuo lavoro”.

Il ’68 era stato spensierato nel concedersi agli obiettivi. Il ’77 vide in ogni fotografo un delatore.

“Non volevo essere carnefice. Sapevo per esperienza che tutta la cultura del mondo s’apparecchia per difendere quello che già c’è, e che avrebbe usato certe foto per criminalizzare quel che si oppone. La verità è che nessuno voleva guardare il faccia il movimento del ’77. A destra e a sinistra. Mi ricordava l’Orwell di Omaggio alla Catalogna: gli anarchici odiati da tutti. Un movimento di cui tutti avevano paura perché metteva in discussione i ruoli, anche quelli dei giornalisti e dei fotografi. Quella che dà fastidio al potere, quella che non doveva essere vista era l’umanità delle persone. Invece sono queste le immagini che rimangono vive, che oggi si fanno ancora interrogare. Una bella immagine quando è fatta è fatta. L’universo lo sa”.

Il Movimento del Settantasette, 40 anni fa. Malesseri e speranze in una stagione di crisi. Nelle rivendicazioni dei giovani di allora si leggono i segni premonitori di cambiamenti futuri: i ragazzi erano cresciuti con la scolarizzazione di massa ma le aspettative risultavano frustrate, scrive Maurizio Caprara il 4 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera".

1. Con la scuola di massa, più istruzione. Non sempre i lavori ambiti. Sono trascorsi quarant’anni. Il 1977 fu per una parte dei giovani italiani un gran frullatore: di malesseri, speranze, violenza, intuizioni, abbagli, rivendicazioni. Affioravano i segni premonitori di una crisi dei partiti tradizionali che si sarebbe aggravata più avanti. Cresciuti con la scolarizzazione di massa, i ragazzi di quarant’anni fa vivevano meglio di come avevano vissuto i rispettivi genitori durante o dopo la guerra. Le conquiste del 1968 erano date per scontate. Le aspettative di molti tuttavia risultavano frustrate: per tanti era difficile trovare posti di lavoro adeguati al grado di istruzione raggiunto. Nell’irradiarsi dall’università alle scuole, questa frustrazione si mescolò ad altro. Ne derivarono richieste di programmi di studio aggiornati, proteste inventive. L’ondata di assemblee e manifestazioni cominciò perché fascisti, a Roma, il 1° febbraio avevano sparato su uno studente di sinistra ferendolo gravemente. La fanatica brutalità dell’Autonomia operaia rese ancora più pericolosa una spirale di scontri di piazza. In cortei nei quali non erano rari barricate e lanci di bottiglie Molotov, si aggiunse il ricorso a pistole contro carabinieri e polizia. Presto, gli spazi di azione per le anime maggioritarie del Movimento si estinsero. Tra autonomi e altri studenti di sinistra si ebbero confronti duri, anche fisici. Il quarantesimo anniversario del Settantasette può essere un’occasione per riflettere su come i sistemi democratici debbano recepire, indirizzare e selezionare, depurandoli dall’intolleranza, istanze e disagi di settori della società che si sentono ai margini delle decisioni. Prima che sia tardi.

2. La ritirata di Lama tra ironia e violenza. «I Lama stanno nel Tibet» venne scritto su un muro de «La Sapienza» di Roma prima che, il 17 febbraio, arrivasse il segretario della Cgil Luciano Lama. Un suo comizio doveva servire al Pci per dimostrare che l’università occupata da studenti non poteva fare a meno del sindacato italiano con più tesserati, guidato da un comunista autorevole. Le anime del Movimento reagirono in maniere diverse. Soltanto con alcune critiche i gruppi della «nuova sinistra», tranne Lotta continua su posizioni aspre. Gli Indiani metropolitani, l’«ala creativa», contestando il comizio al grido di «Ti prego/ Lama/ non andare via/ vogliamo/ ancora/ tanta polizia». Quando gli «Indiani» lanciarono palloncini con liquido colorato contro i servizi d’ordine di Cgil e Pci, questi, non capendo di che si trattasse, risposero con una carica. Finì male. Gli autonomi assaltarono il palco con spranghe, bastoni e pezzi di asfalto (nella foto). La ritirata di Lama fu una sconfitta per il più grande Partito comunista dell’Occidente che dall’anno precedente, per la prima volta dal 1947, in Parlamento si era avvicinato alla maggioranza astenendosi sulla fiducia al governo del democristiano Giulio Andreotti. Fu giorno nero anche per la parte ampia del Movimento che preferiva verso il Pci le armi della critica alla «critica delle armi».

3. Sperimentazione, autogestioni: una scuola da cambiare. L’insegnamento nelle scuole italiane meritava aggiornamenti che tardavano. Nei programmi didattici lo studio era considerato in troppi casi slegato dal lavoro. A fare rumore furono le contestazioni intimidatorie dei settori più estremi del Movimento che pretendevano dai professori presi di mira il «6 politico» nelle secondarie o il «18 politico» nelle università. Ma quegli obiettivi non appartenevano né a tutti gli studenti né all’intero Movimento, una parte consistente del quale richiedeva «sperimentazione didattica»: corsi sugli argomenti più vari, dall’economia al cinema, dal teatro alla sessualità. Se ne organizzarono alcuni durante autogestioni e occupazioni di scuole.

4. L’autocoscienza, fermenti e idee del femminismo. «La vostra violenza/ è solo/ impotenza», gridavano i cortei femministi denunciando stupri e soprusi subiti da donne. Si deve anche a quei momenti se oggi è più alto nella nostra società il disprezzo per i troppi delitti che hanno vittime di sesso femminile. Nel 1977 in Italia soltanto 35 donne su cento lavoravano o erano in cerca di lavoro. Il femminismo ha contribuito a farne salire in seguito il numero, riducendo su questo aspetto la distanza del nostro Paese da altri Stati europei. Nel Movimento l’«emancipazione» era giudicata da molte ingannevole rispetto alla «liberazione» della donna. Sommarietà e fondamentalismi non furono assenti. Una delle attività dei collettivi femministi consisteva nell’«autocoscienza»: riunioni nelle quali ogni componente comunicava alle altre propri problemi e pensieri intimi. Occasione di crescita, in vari casi. Non per tutte fu, psicologicamente, una passeggiata. Per fidanzati e mariti — il comportamento privato dei quali, in contumacia, veniva esaminato con la lente di ingrandimento nei collettivi — la tutela della privacy fu un’utopia. Inconfessabile.

5. Volti coperti. E scoperti, con trucco. Le foto dei giornali spesso ricordano le manifestazioni del 1977 con volti di manifestanti coperti da fazzoletti o passamontagna. Immagini scattate durante cariche di polizia, quando candelotti lacrimogeni rendevano l’aria irrespirabile, o nel corso di assalti a sedi di partito e blocchi stradali. Eppure i visi, non soltanto scoperti, anche truccati, furono un elemento non marginale delle proteste del 1977. Mai prima di allora nell’Italia repubblicana il ricorso a ceroni, kajal e matite varie aveva avuto una diffusione così ostentata e vasta per dimostrazioni politiche. A usare il trucco con vistosità teatrali non erano esclusivamente ragazze. Tra gli Indiani metropolitani, per i maschi poteva essere di ordinanza. Lo scopo: mettere in evidenza una irregolarità, un’anomalia, una diversità ritenute ragioni di orgoglio.

6. Il sangue. Le morti. Fuoco sulle speranze. L’11 marzo a Bologna in scontri con i carabinieri venne ucciso Francesco Lorusso, 24 anni, di Lotta continua. Il giorno seguente a Roma una manifestazione nazionale del Movimento con decine di migliaia di persone venne sfibrata da autonomi con le P38 o con armi improprie che assaltarono negozi, gettarono bottiglie incendiarie contro una sede della Dc e bar, scatenarono guerriglia in più punti del centro della capitale d’Italia. Le violenze furono per il ministro dell’Interno Francesco Cossiga, democristiano, motivo di porre divieto anche a una manifestazione indetta dai radicali per il 12 maggio, terzo anniversario del referendum sul divorzio, in piazza Navona. Ragazzi non organizzati si trovarono sbandati tra drappelli dei settori più estremi pronti allo scontro, agenti in borghese con armi in pugno. Cadde colpita da un proiettile Giorgiana Masi, studentessa di 19 anni. La speranza di cortei senza sangue si indebolì ancora di più.

7. Un altro lato della gioventù. Morire in servizio a 25 anni. A Milano il 14 maggio l’agente Antonio Custra fu ucciso in via De Amicis. Aveva 25 anni, il salario di un lavoratore. Le immagini di autonomi che sparavano segnarono un’epoca.

8. Il ministro Cossiga, gli infiltrati e la repressione. L’Autonomia operaia raccoglieva nel 1977 migliaia di persone e suoi spezzoni erano terreno di reclutamento per formazioni terroristiche. Per quanto non maggioritari, gli autonomi avevano beneficiato di ambiguità e indulgenze di una parte del Movimento e riuscirono a deviare il corso degli eventi in diversi cortei e assemblee. Ma una storia del 1977 non può essere scritta senza tener conto di quanto detto dal ministro dell’Interno di allora, Francesco Cossiga, in un libro del 2010, Fotti il potere: «La contestazione, la violenza politica e il terrorismo minacciavano l’autorità dello Stato e tutti i partiti a cominciare dal Pci mi chiedevano d riportare l’ordine con ogni mezzo. C’era solo un modo per farlo: usare la forza. Fu per questo che, dopo aver infiltrato nelle organizzazioni più estremiste alcuni agenti provocatori, diedi ordine di lasciare liberi i manifestanti di mettere a ferro e fuoco le città. Dopo due o tre settimane la gente non ne poteva più e così, forte del consenso popolare, potei scatenare la repressione».

1977, la rivoluzione che cancellò la rivoluzione, scrive Paolo Delgado il 3 gennaio 2017 su "Il Dubbio". I giovani manifestanti chiudono con la cultura della presa del potere, che dal 1917 russo arriva fino al ’68. Può sembrare del tutto sproporzionato e quasi irriverente azzardare confronti tra il ‘77 italiano e la grande rivoluzione che 60 anni prima aveva rovesciato il secolo e il mondo. Il paragone è certamente impossibile se si guarda alla portata degli eventi. Non così se ci si concentra invece sulla cartografia sociale e politica che il ‘77 ridisegna. Il ‘77 italiano certifica la fine della lunga fase inaugurata dal ‘17 russo, annuncia la fine di quel mondo, l’impraticabilità di quel modello di rivoluzione. Quello del ‘77 è stato un Movimento contro il ‘68, segnato dal radicale rifiuto della ossessione partitistica che aveva dato vita ai gruppi della sinistra extraparlamentare, della separazione tra le sfere del politico e del privato. Il ‘68, come il 1917, è il passato. Il 1977 è il presente. I botti che nella notte del 31 dicembre congedarono il 1976, anno di elezioni politiche finite con una sostanziale parità tra Dc e Pci, anno che di conseguenza aveva per la prima volta visto il Pci non opporsi a un governo monocolore democristiano e anzi sostenerlo con l’astensione, salutarono il 1977 ma solo sul calendario. Politicamente e culturalmente quello che oggi definiamo “il 77” era cominciato già da un pezzo e sarebbe proseguito ancora a lungo. A differenza del ‘68, quanto l’esplosione era stata pressoché contemporanea in tutta la penisola come del resto in tutta Europa e in mezzo mondo, il cosiddetto ‘77 si presentò in momenti diversi di città in città. A Milano era iniziato nell’aprile del 1975, con la settimana di rivolta e scontri seguita alla morte di Claudio Varalli, ucciso da un fascista il 16 aprile, e di Giannino Zibecchi, investito da un gippone della polizia il giorno successivo. Era proseguito con la nascita dei Circoli del proletariato giovanile, la pratica degli espropri nei negozi e nei ristoranti più cari, la teorizzazione del diritto al lusso, sino agli scontri dell’8 dicembre ‘76 per l’inaugurazione della stagione alla Scala. L’anno seguente, nel ‘77 propriamente detto, gli epicentri del Movimento furono Roma e Bologna. L’onda raggiunse gli operai di Torino, i protagonisti principali del decennio rosso, solo nel ‘79, con l’ultima grande ciclo di conflittualità operaia alla Fiat. Può sembrare del tutto sproporzionato e quasi irriverente azzardare confronti tra il ‘ 77 italiano e la grande rivoluzione che sessant’anni prima aveva rovesciato il secolo e il mondo. Il paragone è certamente impossibile se si guarda alla portata degli eventi. Non così se ci si concentra invece sulla cartografia sociale e politica che il ‘ 77 ridisegna, costringendo a depositare nei ripostigli della memoria quella precedente. Il ‘77 italiano certifica la fine della lunga fase inaugurata dal ‘17 russo, annuncia la fine di quel mondo, l’impraticabilità di quel modello di rivoluzione. Quello del ‘ 77 è stato un Movimento contro il ‘ 68, segnato dal radicale rifiuto della ossessione partitistica che aveva dato vita ai gruppi della sinistra extraparlamentare, della separazione tra le sfere del politico e del privato, della concezione sacrificale che rinviava la festa rivoluzionaria a dopo la conquista del palazzo d’Inverno di turno, di un’idea della rivoluzione intesa come presa del potere, dell’universalismo egualitario che il 1917 aveva ereditato dal 1789 e di lì era arrivato senza scosse al ‘68. La musica del ‘ 77 era diversa, tanto distante dai movimenti del passato recente quanto la rabbia punk di Anarchy in Uk lo era dalle utopie del rock impegnato della West Coast hippie. In quella lunghissima assemblea permanente che si svolse a Lettere dal 2 febbraio, giorno dell’occupazione della città universitaria, al 17 febbraio, data della cacciata di Lama dall’università e dello sgombro militare della stessa, si parlava davvero di tutto, senza ordine del giorno, senza presidenza, senza tentativi di strutturare il dibattito. Però il tema che appena pochi anni prima sarebbe stato dominante, l’interrogativo su come dare uno sbocco organizzativo a quel conflitto spontaneo, quasi non figurava nell’agenda. Il Movimento del ‘ 77 guardava al presente, sostituendo all’orizzonte lontano della rivoluzione a venire quello immediato del “qui e ora”. Puntava sulla spontaneità, sulla creatività e sull’autonomia senza inseguire la chimera bolscevica del “soggetto rivoluzionario”. Rompeva ogni barriera tra privato e pubblico, convinto che il “personale” fosse del tutto “politico”. Rifiutava l’universalismo per esaltare le differenze, instaurando il primato di una mitologia “differenzialista” opposta e forse non meno malintesa e pericolosa di quella egualitaria che aveva sin lì tenuto banco. Ma tutto il bagaglio che dal Movimento del ‘77 veniva negato e rinnegato, il ‘68 lo aveva ereditato dalla cultura dei movimenti rivoluzionari, per come si era definita a partire dall’Ottobre di Pietrogrado. La rottura del resto era anche più profonda. Gli studenti e i militanti del ‘68, anche in questo ereditando una cultura politica antecedente alla stessa rivoluzione russa, identificavano un soggetto sociale rivoluzionario, per alcuni l’operaio- massa, gli operai di linea e dequalificati delle grandi fabbriche, per altri i popoli del Terzo mondo destinati ad accerchiare le roccaforti imperialiste, al quale si rivolgevano pretendendo di mettersene al servizio e spesso mirando a guidarlo e indirizzarlo. Ma era sempre e comunque altro da sé. I ribelli del ‘ 77 sentivano e sapevano di essere loro stessi il soggetto sociale sfruttato e condannato a una vita grama. Erano la prima generazione che sperimentava sulla propria pelle la fine della società affluente e l’inizio dell’era del precariato e del neo- schiavismo, erano quindi loro stessi il soggetto rivoluzionario. Si spiegano così l’urgenza, la violenza e anche la sostanziale disperazione di un movimento che reagiva mimando la gioia, mascherando l’angoscia sotto le parvenze beffarde e dissacranti degli indiani metropolitani e del situazionismo riscoperto, ma alla fine inevitabilmente arrivando a uno scontro che era violentissimo perché la posta in gioco non lasciava spazio a possibili mediazioni. I ragazzi del ‘ 68 sapevano che, se sconfitti, sarebbero comunque tornati alle loro origini e avrebbero ripreso il loro posto nei ceti medi o medio- alti, come moltissimi hanno effettivamente fatto. Quelli del ‘ 77 erano senza rete e lo avvertivano a pelle. Come in ogni cesura storica, la nettezza del taglio si coglie meglio guardando a ritroso di quanto non si percepisse nel fuoco degli eventi. Gli elementi nuovi e inediti marciavano fianco a fianco con i bagliori estremi dell’epoca al tramonto, tra i quali nessuno era più abbacinante delle Brigate rosse, organizzazione comunista ancora del tutto interna alla logica rivoluzionaria inaugurata dal 1917 e dunque sospettosa e diffidente quasi quanto il Pci di fronte a quello “strano movimento di strani studenti”, come lo definì un fortunato pamphlet dell’epoca. Sul piano del fronteggiamento politico immediato, il nemico principale del Movimento del ‘77 fu il Pci, e lo fu da subito. Il primo febbraio, in piena città universitaria, viene ferito da una rivoltellata fascista lo studente Guido Bellachioma. Il giorno dopo, mentre in piazza della Minerva Walter Veltroni arringa a nome della Fgci alcune centinaia di studenti, migliaia di manifestanti assaltano e incendiano la sede del Fronte della Gioventù in via Sommacampagna, dietro piazza Indipendenza, con l’immancabile scia di scontri con la polizia e con i gruppi fascisti usciti dalla sede in fiamme. Una macchina della polizia in borghese taglia all’improvviso il corteo e viene bersagliata di sassi. Uno dei poliziotti, Domenico Arboletti, esce e senza qualificarsi spara alcuni colpi. Dal corteo rispondono al fuoco, l’agente cade ferito gravemente. Il suo collega esce a sua volta col mitra spianato, ferisce prima Paolo Tommassini, poi Daddo Fortuna che tentava di portare via il compagno ferito trascinandolo con una mano e tenendo con l’altra sia la sua pistola che quella di Tommassini. Dopo la sparatoria il corteo rientra nella città universitaria e la occupa. Il giorno dopo Ugo Pecchioli, “ministro degli Interni” del Pci dichiara: «Collettivi autonomi e fascisti svolgono da tempo un’azione parallela e concomitante, ma non sono due realtà opposte. E’ la medesima logica che li muove, l’odio per le istituzioni democratiche». Per la prima volta l’estremismo rosso non è solo messo sullo stesso piano di quello nero secondo la logica degli “opposti estremismi” ma è direttamente identificato con una forma di fascismo. Nei giorni seguenti il cronista dell’Unità Duccio Trombadori viene “processato” dall’assemblea riunita a Lettere ed «espulso a vita per affermazioni deliranti» dalla città universitaria. Il bando si allarga in realtà anche ai partitini della sinistra radicale che si vogliono eredi del ‘68. E’ in questo clima che si arriva alla folle scelta di organizzare il comizio di Lama nell’università occupata, il 17 febbraio. L’esito di quella provocazione e il seguito renderanno la lacerazione più profonda e incolmabile: gli scontri, il palco abbattuto, il segretario della Cgil messo in fuga con il servizio d’ordine del sindacato mai così plumbeo e torvo, il successivo arrivo delle ruspe a sgombrare l’università e poi, meno di un mese dopo, l’esplosione della capitale rossa, Bologna, in seguito all’uccisione di Francesco Lorusso, i blindati di Cossiga spediti a ripristinare l’ordine dopo 4 giorni di rivolta, la manifestazione nazionale del 12 marzo a Roma, aperta dai bolognesi che scandiscono “Bologna è rossa del sangue di Francesco”, che assalta la sede nazionale della Dc in piazza del Gesù, saccheggia un’armeria sul lungotevere, apre a ripetizione il fuoco sulla polizia, incendia il commissariato di piazza del Popolo. Non che in precedenza tra Movimento e Pci corresse buon sangue. Ma la critica si era sempre limitata a bersagliare “il revisionismo” del partitone, la sua rinuncia alla via maestra rivoluzionaria. Nel ‘ 77 le cose cambiano: il Pci è individuato come parte integrante dello Stato, sponda politica eminente di quella trasformazione sociale complessiva di cui i ragazzi del ‘ 77 si sentivano, a ragione, vittime e nemici mortali. La deriva che porterà i partiti socialdemocratici a gestire in prima persona la gigantesca riorganizzazione degli assetti sociali che, a partire proprio dalla fine dei ‘ 70, cancellerà le conquiste di un secolo instaurando una sorta di neoschiavismo inizia in quell’anno, così come entra in scena allora, per la prima volta, il soggetto sociale prodotto da quel riassetto. Se a distanza di 40 anni non riusciamo a guardare al ‘ 77 con la stessa distaccata nostalgia che avvolge il ‘68 è perché in quell’anno si è presentato, da ogni punto di vista, il mondo in cui viviamo oggi. Il ‘ 68, come il 1917, è il passato. Il 1977 è il presente.

Sogni, errori, libertà. Il nostro ‘77 fu diverso, scrive Carlo Rovelli il 14 febbraio 2017, su "Il Corriere della Sera". L’idea che il mondo andava cambiato è stata sconfitta ma non fu inutile. Quei valori sono rimasti radicati in noi. Leggo in questi giorni diversi articoli sul movimento giovanile che è passato sull’Italia nel 1977, quarant’anni fa, breve e intenso come una folata di vento. Non mi riconosco in questi articoli. Mi sembra non parlino di quanto ci dicevamo, pensavamo e sentivamo io e i miei amici in quegli anni lontani. Io non so fare analisi storiche e sociologiche e non voglio confondere la mia esperienza personale, mia e di qualche amico, con un fatto storico. Ma allora erano molti gli amici intorno a me che sentivano come me, e da qualche parte ci sono ancora. Scrivo qualche riga per loro, i miei tanti amici di allora, e anche per chi magari è curioso di sentire un ricordo diverso. Alcuni di quegli amici hanno un ricordo magico e mitico di quegli anni. Un momento intensissimo di scambio, sogni, entusiasmo, voglia di cambiare, voglia di costruire insieme un mondo diverso e migliore; lo ricordano con nostalgia intensa, fino a rendere grigia l’immagine di quella che è stata la vita poi. Per me non è così. Avevamo vent’anni, e a vent’anni la vita è spesso splendida e rovente, almeno nel ricordo. Non è il profumo della storia, è il profumo della giovinezza. Per me quegli avvenimenti sono stati sì magici e bellissimi, ma perché sono stati l’inizio, perché ne ho tratto delle cose. Hanno aperto un percorso. Non hanno reso la vita successiva meno colorata: sono stati la scoperta collettiva di colori che sono rimasti con me. Certo, l’anno successivo al 1977 è stato vissuto da molti di noi come una disfatta. La voglia luminosa di cambiare il mondo, che ci era sembrata per un attimo aprire possibilità vere, si scontrava contro la realtà. Naufragava, prima colpita dalla reazione delle istituzioni, quella che allora chiamavamo la repressione; poi sconcertata per la violenza di quello che adesso chiamiamo terrorismo. Eravamo in tanti a dirci e sapere bene che la lotta armata in Italia non avrebbe portato a nulla di buono, che era solo una reazione estrema e sciocca, in realtà disperata, a sogni che si chiudevano. I «compagni che sbagliano», lo sapevamo in tanti, erano ragazze e ragazzi con un senso morale più assoluto degli altri, e, come purtroppo spesso accade, accecati da questo. Noi volevamo altro, e per un momento, insieme, in tanti, avevamo pensato fosse possibile. Che fosse possibile andare in quella direzione. Quale direzione? I grandi sogni hanno la caratteristica che quando svaniscono sembrano inconcepibili. Talvolta nella storia i sogni più inconcepibili si realizzano: contro ogni aspettativa dei realisti, la rivoluzione francese abbatte il predominio dell’aristocrazia, il cristianesimo conquista l’impero romano, un allievo di Aristotele conquista il mondo e i suoi amici fondano biblioteche e centri di ricerca, i seguaci di un predicatore arabo cambiano l’ordine del pensiero di centinaia di milioni di persone, eccetera eccetera. Più spesso, grandi sogni si scontrano contro la forza del quotidiano, durano pochissimo o poco, crollano, vengono dimenticati. Sono i tanti rivoli della storia che, bene o male, non portano da nessuna parte. I movimenti del Trecento per una chiesa povera, le comunità utopiche del XVIII secolo, o il sogno egualitario del comunismo sovietico; oppure le fantasie naziste che appassionavano tanto la gioventù, forse oggi il Califfato… Ma più spesso ancora quello che succede è più complesso, e la storia segue percorsi tortuosi. Il Direttorio elimina Robespierre, Wellington batte Napoleone, e il re di Francia torna sul trono: la rivoluzione ha perso… Ma ha perso davvero? Il movimento delle suffragette per il diritto di voto alle donne è sconfitto al tempo della prima guerra mondiale. Ma ha perso davvero? I movimenti storici sono fatti di idee, giudizi etici, passioni, modi di vedere il mondo. Spesso non vanno da nessuna parte. Talvolta però lasciano tracce che continuano ad agire in profondità sul tessuto mentale della civiltà, la cambiano. La nostra civiltà, l’insieme dei valori in cui crediamo, è il risultato di molti sogni, di molti che hanno saputo sognare intensamente al di là del presente. Il movimento del ‘77 italiano non è comprensibile da solo. È stato un’espressione tarda, non certo l’ultima, ma una delle ultime, consapevole di questo, e per questo intensa, di uno di questi grandi sogni che ha spazzato non l’Italia ma il mondo intero per un breve ventennio che va dagli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta. Sono stati anni in cui una parte considerevole della gioventù del mondo intero ha sognato e sperato intensamente di poter cambiare la realtà sociale in modo molto radicale. Non è stato certo un movimento di pensiero strutturato e coerente, anzi, era disperso in mille rivoli. Ma nonostante le grandi diversità, tutti questi rivoli sentivano con assoluta chiarezza di appartenere allo stesso fiume, dalle piazze di Praga alle università di Città del Messico, dal campus di Berkeley a Piazza Verdi a Bologna, dalle comuni hippie rurali e urbane della California ai guerriglieri sudamericani, dalle marce cattoliche per il Terzo mondo agli esperimenti dell’anti-psichiatria inglese, da Taizé a Johannesburg, nella strepitosa differenza di atteggiamenti specifici, c’era un reciproco intenso riconoscimento di appartenere allo stesso grande fiume, di condividere uno stesso grande sogno. Di «lottare», come si diceva allora, per un mondo molto diverso. Era il sogno di costruire un mondo dove non ci fossero forti disparità sociali, non ci fosse dominio dell’uomo sulla donna, non ci fossero confini, non ci fossero eserciti, non ci fosse miseria. Era il sogno di sostituire la collaborazione alla lotta per il potere, di lasciarsi alle spalle i bigottismi, i fascismi, i nazionalismi, gli identitarismi, che avevano portato le generazioni precedenti a sterminare cento milioni di esseri umani durante le due guerre mondiali. I sogni si spingevano lontano: un mondo senza proprietà privata, senza gelosia, senza gerarchie, senza chiese, senza stati potenti, senza famiglie chiuse, senza dogmi, libero. Dove non avevamo bisogno degli eccessi del consumismo, e si lavorava per il piacere di fare, non per lo stipendio. Solo a nominare oggi queste idee sembra di parlare di delirî. Eppure eravamo in tanti a crederci, in tutto il mondo. In quegli anni ho viaggiato molto, in diversi continenti, e ovunque incontravo giovani con questi stessi sogni. Di questo parlavamo i miei amici ed io in quell’anno, il 1977. Non certo della paura del precariato. Se vogliamo ricordare qualcosa di quelli anni, è questo che io ricordo. Vivevamo in case aperte. Si dormiva un po’ qui e un po’ là. Sapevamo bene che l’eroina è pericolosissima e chiunque avesse un po’ di cervello se ne teneva lontano. Ma sapevano anche che marijuana e Lsd non lo sono, e si offriva uno spinello con la semplicità con cui si offre un bicchiere di vino. L’Lsd era tutt’altro: un’esperienza potente e importante, da trattare con attenzione e rispetto, ma che poteva insegnare molto. L’occupazione principale, come è d’uso per ogni gioventù, era innamorarsi e disperarsi per amore; ma il sesso era moneta quotidiana, un modo per incontrarsi e conoscerci con tutti, dell’altro sesso come del proprio. Era preso sul serio, come il centro della vita, quasi con religione. E come per ogni religione, di sesso e amore si voleva riempire la vita. E di amicizia, di musica, di inventarsi modi di essere insieme, diversi da quelli grigi e competitivi delle generazioni precedenti. Si provava a vivere in comune, si provava a non essere gelosi, si provava a condividere. Ci si azzuffava e ci si disperava come in ogni famiglia, ma il senso di essere una grandissima famiglia sparsa per il pianeta, era forte: un grandissima famiglia che si adoperava insieme, come esploratori delle stelle, a costruire un mondo nuovo, molto diverso… Io mi sono sempre immaginato che le comunità quacchere dei primi coloni europei in America, i compagni di Gesù in Palestina, i primi cristiani, i giovani italiani del Risorgimento, i compagni di Che Guevara in Bolivia o gli allievi di Platone nell’Academia… si sentissero un po’ così…Quel mondo non l’abbiamo costruito, non c’è ombra di dubbio. La disillusione è arrivata presto. Alcuni dei progetti li abbiamo abbandonati perché ci sono sembrati sbagliati. Molti altri semplicemente perché sono gli altri che hanno vinto. La plausibilità di quei sogni si è sciolta per la mia generazione come neve al sole. Ci siamo separati, ciascuno è andato nella vita seguendo una sua strada. È stato inutile sognare? Non credo. Per due motivi. Il primo è che per molti di noi quei sogni hanno rappresentato il nutrimento fertile su cui costruire la vita. Alcuni di quei valori sono rimasti radicati dentro di noi e ci hanno guidato. La libertà di pensiero estrema di quegli anni, in cui tutto sembrava possibile ed esplorabile e qualunque idea sembrava modificabile, è stata la sorgente per cui molti di noi hanno fatto quello che poi hanno fatto nella vita. Il secondo motivo non so se sia credibile o no. Ma esiste lo stesso. Spesso nella storia i sogni di costruire un mondo migliore sono stati sconfitti. Ma hanno continuato a lavorare sotterraneamente. E alla fine hanno contribuito a cambiare davvero. Io continuo a credere che questo mondo sempre più pieno di guerra, di violenza, di estreme disparità sociali, di bigottismo, di gruppi nazionali, razziali, locali, che si chiudono nella propria identità gli uni contro gli altri, continuo a credere che questo mondo non sia l’unico mondo possibile. E forse non sono il solo.

FASCISTI-COMUNISTI PER SEMPRE.

Pansa: "Vi racconto l'Italia in cui tutti, o quasi, gridavano Eia Eia Alalà". Nel suo nuovo libro Giampaolo Pansa autore del «Sangue dei vinti» ricostruisce l'ascesa del fascismo e il consenso di massa al regime. Che molti dimenticano..., («erano tutti fascisti dice Pansa e poi hanno fatto finta di essere stati tutti antifascisti»).

Camilleri: «Gli scontri con Sciascia la vita da cieco e il No al referendum». Lo scrittore: a volte ho paura del buio, quando sarà il momento vorrei l’eutanasia. Io le riforme le voglio: ma questa è pasticciata, scrive Aldo Cazzullo il 18 novembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Novantun anni, 102 libri, 26 milioni di copie solo in Italia: Andrea Camilleri è lo scrittore più importante che abbiamo. «Vorrei l’eutanasia, quando sarà il momento. La morte non mi fa paura. Ma dopo non c’è niente. E niente di me resterà: sarò dimenticato, come sono stati dimenticati scrittori molto più grandi. E quindi mi viene voglia di prendere il viagra, di ringiovanire, pur di vivere ancora qualche anno, e vedere come va a finire. Vedere che presidente sarà Trump: uno tsunami mondiale, un Berlusconi moltiplicato per diecimila. E vedere cosa sarà del mio Paese». «A guardare l’Italia ridotta così, mi sento in colpa. Avrei voluto fare di più, impegnarmi di più. Nel Dopoguerra ci siamo combattuti duramente, ma avevamo lo stesso scopo: rimettere in piedi il Paese. Oggi quello spirito è scomparso». Renzi non è un buon presidente del Consiglio? «No. È un giocatore avventato e supponente. Mi fa paura quando racconta balle: ad esempio che il futuro dei nostri figli dipende dal referendum. Mi pare un gigantesco diversivo per realizzare un altro disegno». Quale? «Mi sfugge, ma c’è». Al referendum andrà a votare? «Pur di votare No mi sottoporrò a due visite oculistiche, obbligatorie per entrare nella cabina elettorale accompagnato. Io le riforme le voglio: il Senato deve controllare la Camera, non esserne il doppione. Ma questa riforma è pasticciata. E non ci consente di scegliere i nostri rappresentanti». Spera nei Cinque Stelle? «Non mi interessano. Non ci credo. Mi ricordano l’Uomo Qualunque: Grillo è Guglielmo Giannini con Internet. Nascono dal discredito della politica, ma non hanno retto alla prova dei fatti: Pizzarotti è stato espulso dal movimento; la Raggi non mi pare stia facendo grandi cose». Se vince il No cosa succede? «Entra in campo Mattarella. Che si comporterà bene; perché è un gran galantuomo». «Galantuomo era mio padre Giuseppe, anche se avevamo idee politiche opposte. Lui aveva fatto tutta la Grande guerra nella brigata Sassari. Adorava il suo comandante: Emilio Lussu. Vide morire Filippo Corridoni. Poi divenne fascista e fece la marcia su Roma. Però quando il mio compagno Filippo Pera mi disse che non sarebbe più venuto a scuola perché era ebreo, mio padre si indignò: “È una sciocchezza che il Duce fa per il suo amico Hitler”. Lealtà, fedeltà alla parola data, ironia, arte di guardare oltre le cose: sotto molti aspetti Montalbano è il ritratto di papà. Fu mia moglie Rosetta a farmelo notare. I padri si innamorano sempre un po’ delle mogli dei figli; e Rosetta a lui ha voluto molto bene». «Il matrimonio dei miei genitori era stato combinato. Nozze di zolfo, toccate anche a Pirandello: gli zolfatari facevano sposare i loro eredi per concentrare la proprietà, e ritardare il fallimento cui erano condannati. Però il matrimonio dei miei era riuscito. Quando mio padre morì, Turiddu Hamel, il sarto, si inchinò al passaggio della bara. Hamel era l’antifascista del paese. Mi raccontò che, quando stava morendo di fame perché entrava e usciva dal carcere, papà gli aveva commissionato una divisa nera: “E sia chiaro che non lo faccio per sfregio…”. “To patri sapiva campari” mi disse il vecchio sarto: Giuseppe Camilleri sapeva vivere». «Anche io sono stato fascista. Avevo sedici anni quando il Duce annunciò la guerra: ascoltai il discorso dagli altoparlanti in piazza. Tornai a casa entusiasta, e trovai nonna Elvira e nonna Carolina in lacrime. Tutte e due avevano perso un figlio nelle trincee: “A guerra sempre tinta è”, la guerra è sempre cattiva. Anche mio padre la conosceva. E conosceva gli inglesi». «Il primo a dirmi che in realtà ero comunista fu il vescovo di Agrigento, Giovanbattista Peruzzo, piemontese di Alessandria. Leggevo le firme delle riviste del Guf, Mario Alicata, Pietro Ingrao, e mi riconoscevo. Ma la vera svolta fu un libro, che mi fece venire la febbre e mi aprì gli occhi: La condizione umana di Malraux». «Nell’estate del ’42 andai a Firenze al raduno della gioventù fascista. C’era il capo della Hitler Jugend, Baldur von Schirach, venuto ad annunciare l’Europa di domani: un’enorme caserma, con un unico vangelo, il Mein Kampf. C’erano ragazzi e ragazze di tutta l’Europa occupata: Francia, Spagna, Polonia, Ungheria; le ungheresi erano bellissime, facemmo amicizia parlando latino. Sul fondale c’era un’enorme bandiera tedesca. Protestai: “Siamo in Italia!”. Così issarono anche un tricolore. Ma Pavolini mi individuò tra la folla, mi chiamò, e mi rifilò un terribile càvucio nei cabasisi: insomma, un calcio nelle palle. Finii in ospedale. Il prefetto, che era amico di mio padre, mi fece trasferire in una clinica privata, nel caso che Pavolini mi avesse cercato». «Fui richiamato il primo luglio 1943. Mi presentai alla base navale di Augusta e chiesi la divisa. “Quale divisa?”. Mi mandarono a spalare macerie in pantaloncini, maglietta, sandali e fascia con la scritta Crem: Corpo reale equipaggi marittimi. La mia guerra durò nove giorni. Nella notte dell’8 luglio il compagno che dormiva nel letto a castello accanto al mio sussurrò: “Stanno sbarcando”. Uscii sotto le bombe, buttai la fascia, tentai l’autostop: incredibilmente un camion si fermò. Arrivai così a Serradifalco, nella villa con la grande pistacchiera dove erano sfollate le donne di famiglia. Zia Giovannina fece chiudere i cancelli e mettere i catenacci: “Qui la guerra non deve entrare!”. Arrivarono gli americani e abbatterono tutto con i carri armati». «In testa c’era un generale su una jeep guidata da un negro. Passando vide una croce, là dove i tedeschi avevano sepolto un camerata fatto a pezzi da una scheggia. Il generale battè con le nocche sull’elmetto del negro, e la jeep si fermò. Prese la croce, la spezzò, la gettò via. Poi diede altri due colpi sull’elmetto, e la jeep ripartì. Sfilarono altri sedici uomini. Io ero annichilito dalla paura. L’ultimo mi sorrise e mi parlò: “Ce l’hai tanticchia d’olio, paisà? Agghio cogliuto l’insalatedda…”. Erano tutti siciliani. Mi sciolsi in un pianto dirotto, e andai a prendere l’olio per l’insalata. Poi chiesi chi fosse l’uomo sulla jeep. Mi risposero: “Chisto è o mejo generale che avemo; ma como omo è fitusu. S’acchiama Patton”». «Noi comunisti siciliani le elezioni le avevamo vinte. Alle Regionali dell’aprile 1947 il Blocco del popolo prese 200 mila voti più della Dc. Il Primo maggio mi ritrovai con gli amici a festeggiare, e mi ubriacai. Arrivò la notizia di Portella della Ginestra: gli agrari avevano fatto sparare sui compagni. Vomitai tutto. Da allora non ho più toccato un goccio di vino». «Leonardo Sciascia era di un anticomunismo viscerale. Eravamo molto amici, ma abbiamo litigato come pazzi. Nei giorni del sequestro Moro lui e Guttuso andarono da Berlinguer e lo trovarono distrutto: Kgb e Cia, disse, erano d’accordo nel volere la morte del prigioniero. Sciascia lo scrisse. Berlinguer smentì, e Guttuso diede ragione a Berlinguer. Io mi schierai con Renato: era nella direzione del Pci, cos’altro poteva fare? Leonardo la prese malissimo: “Tutti uguali voiauti comunisti, il partito viene prima della verità e dell’amicizia!”». «Un’altra cosa non mi convinceva di Sciascia. Nei suoi libri a volte rendeva la mafia simpatica. A teatro gli spettatori applaudivano, quando nel Giorno della civetta don Mariano distingue tra “uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quaquaraquà”. Leonardo mi chiedeva: ma perché applaudono? “Perché hai sbagliato” gli rispondevo. Altre volte rendeva la mafia affascinante. “Lei è un uomo” fa dire a don Mariano. Ma la mafia non ti elogia, la mafia ti uccide; per questo di mafia ho scritto pochissimo, perché non voglio darle nobiltà. Eppure a Leonardo ho voluto un bene dell’anima. Andavo di continuo a rileggere i suoi libri. Per me erano come un elettrauto: mi ricaricavano». «Da quando sono diventato cieco, i pensieri tinti mi visitano più spesso. Cerco di scartarli; però tornano. A volte mi viene la paura del buio, come da bambino. Una paura fisica, irrazionale. Allora mi alzo e a tentoni corro di là, da mia moglie. Per fortuna ho Valentina, cui detto i libri: è l’unica che sa scrivere nella lingua di Montalbano, anche se è abruzzese. Fino a poco fa vedevo ancora le ombre. Sono felice di aver fatto in tempo a indovinare il viso della mia pronipote, Matilde. Ora ha tre anni, è cresciuta, mi dicono che è bellissima, ma io non la vedo più. Di notte però riesco a ricostruire le immagini. L’altra sera mi sono ricordato la Flagellazione di Piero della Francesca. Ho pensato all’ultima volta che l’ho vista, a Urbino — aprirono il Castello apposta per me —, e l’ho rimessa insieme pezzo a pezzo. È stato meraviglioso».

Caro Camilleri, tu di Sciascia non hai capito nulla, scrive Valter Vecellio il 22 novembre 2016 su "Il Dubbio". La questione della denuncia per calunnia a Berlinguer non andò come ha raccontato l'autore di Montalbano. E non è vero che, ne "Il giorno della civetta", «la mafia è stata resa simpatica». Il 20 novembre di sedici anni fa Leonardo Sciascia ci lascia. Il Corriere della Sera, coincidenze che sono - dice Sciascia - «incidenze», il giorno prima pubblica una lunga intervista ad Andrea Camilleri, curata da Aldo Cazzullo. Il titolo: "Gli scontri con Sciascia, la mia vita da cieco e il NO al referendum". A un certo punto, Camilleri dice: «Nei giorni del sequestro Moro lui e Guttuso andarono da Berlinguer e lo trovarono distrutto: KGB e CIA, disse, erano d'accordo nel volere la morte del prigioniero. Sciascia lo scrisse. Berlinguer lo smentì, e Guttuso diede ragione a Berlinguer. Io mi schierai con Renato: era nella direzione del PCI, cos'altro poteva fare? Leonardo la prese malissimo: "Tutti uguali voi comunisti, il partito viene prima della verità e dell'amicizia"?». Non ricordo interventi particolari di Camilleri, nei giorni della polemica che oppose Sciascia a Berlinguer e Guttuso. Forse ci sono stati, probabilmente privati. Di pubblici non ne ho trovato traccia. Ma non è questo il punto. Il fatto è che le cose non sonno andate come le racconta Camilleri. Di come si siano svolti i fatti posso dare testimonianza diretta, avendo avuto possibilità di sentire dallo stesso Sciascia cos'era accaduto. In sintesi: nel maggio del 1977, e dunque molto prima dei giorni del sequestro Moro, Sciascia si incontra con Enrico Berlinguer, per parlare di cose che riguardavano la Sicilia; è accompagnato da Guttuso, che era stato tramite per ottenere l'appuntamento. Siccome il giorno prima c'era stato l'incontro di una delegazione democristiana con una delegazione comunista, e secondo i giornali e la televisione in questo incontro si era anche parlato di una potenza o di potenze straniere che potessero avere mano nel terrorismo italiano, ad un certo punto, finito il colloquio sulle cose siciliane con Berlinguer, Guttuso domanda se sia vero che avevano parlato di paesi stranieri, e se uno di questi paesi stranieri era la Cecoslovacchia. Berlinguer risponde di sì; e del resto non era una confidenza, non era un segreto, perché tutti ne parlavano. Berlinguer, quindi, non fa altro che riferire un sentito dire, l'aveva sentito dai democristiani, ne era a conoscenza e lo diceva. Lo stesso giorno dell'incontro con Berlinguer, Sciascia viene invitato a colazione dal pittore Bruno Caruso, al quale racconta questo fatto, esprimendo anche un senso di ammirazione per la sincerità di Berlinguer: come un elogio nei riguardi di Berlinguer, che era tanto spregiudicato e tanto libero da ammettere che si fosse parlato di quella cosa. Passati due anni, Sciascia è deputato, membro della Commissione Moro. A un certo punto viene un eminente democristiano, al quale chiede se sa qualcosa di potenze straniere che danno una mano al terrorismo italiano, di sospetti, di indizi. L'eminente democristiano dice di non saperne nulla. Al che Sciascia ribatte: «Ma guardi, due anni fa, io ho avuto fortuitamente un incontro con Berlinguer, il quale mi ha raccontato tranquillamente questa cosa: quindi com'è che lei non ne sa nulla?». Tutto qui, l'intervento di Sciascia in Commissione Moro. Da lì però, esce alquanto deformato, come se Berlinguer avesse fatto delle confidenze su cose che risultavano a lui e non che lui avesse saputo dai democristiani. Questa deformazione provoca la smentita di Berlinguer, e in seguito la querela per diffamazione. Sciascia replica con una denuncia per calunnia. Guttuso è il testimone chiave, ma si allinea con Berlinguer, smentendo Sciascia. Il quale però poteva smentire Guttuso, perché il pittore, in presenza di un'altra persona, nella Pasqua del 1980, aveva ricordato il colloquio che aveva avuto con Berlinguer e il fatto che Berlinguer aveva parlato della Cecoslovacchia. Peccato che il giudice, che ha avuto tra le mani sia la querela di Berlinguer sia la denuncia di Sciascia, si sia limitato ad ascoltare Berlinguer e Guttuso, non ha ascoltato Sciascia e quel che aveva da dire; e archiviato tutta la vicenda. Questi i fatti, molto diversi da come li racconta Camilleri. Camilleri poi, ancora una volta (l'aveva già fatto sul Fatto quotidiano), si accoda a una tesi che non definisco perché dovrei fare ricorso all'invettiva volgare: quella di aver reso, nei suoi libri, la «mafia simpatica. A teatro gli spettatori applaudivano, quando nel Giorno della civetta don Mariano distingue tra "uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quaquaraquà". Leonardo mi chiedeva: "ma perché applaudono? "- "Perché hai sbagliato", gli rispondevo. Altre volte rendeva la mafia affascinante. "Lei è un uomo", fa dire a don Mariano. Ma la mafia non ti elogia, la mafia ti uccide; per questo di mafia ho scritto pochissimo, perché non voglio darle nobiltà?». Per restare al solo Giorno della civetta: famosissima la pagina evocata da Camilleri, che però omette dal ricordare che quella davvero importante è quella che viene prima: quando il capitano Bellodi sente che il mafioso - anche grazie alle protezioni politiche di cui gode a Roma - gli sta per sfuggire dalle mani. Lo capisce, e pensa a Cesare Mori, il "prefetto di ferro" che Mussolini aveva mandato in Sicilia, e che aveva stroncato il brigantaggio; quando poi Mori comincia a pestare i piedi alla mafia, che è già entrata nel regime, il prefetto viene nominato senatore e rimosso. I metodi di Mori erano brutali, all'insegna del «fine giustifica i mezzi», al di là e al di sopra delle leggi. Fare come Mori, pensa per un attimo Bellodi. Una tentazione che scaccia subito: no, dice, bisogna stare nella legge. Piuttosto quello che serve è indagare sui patrimoni, mettere la Finanza, mani esperte, come hanno fatto in America con Al Capone, a frugare sulle contabilità, e non solo dei mafiosi come Mariano Arena: annusare le illecite ricchezze degli amministratori pubblici, il loro tenore di vita, quello delle mogli e delle loro amanti, censire le proprietà e comparare il tutto con gli stipendi ufficiali; e poi, come scrive Sciascia: «tirarne il giusto senso». Quello che anni dopo fanno Beppe Montana, Ninì Cassarà, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino: che cercano di «tirare il giusto senso» appunto indagando sulle tracce lasciate dal denaro, che non puzza, ma una scia la lascia sempre, a saperla leggere, a volerla trovare. «Tirare il giusto senso», significa anche Anagrafe Patrimoniale degli Eletti; significa che ministri, parlamentari, amministratori pubblici devono vivere come in una casa di vetro, e devono rendere conto del loro operato agli elettori, che devono essere messi nella condizione di sapere. Se quei suggerimenti fossero stati accolti, probabilmente molte cronache giudiziarie, di ieri e oggi, ce le saremmo risparmiate. L'altra pagina importante e amarissima è l'ultima. Bellodi è tornato a Parma, c'è una festa, e si racconta una storia: quella di un medico del carcere che si mette in testa di cacciare i mafiosi sani dall'infermeria e ricoverarvi i detenuti malati. Il medico una notte è vittima di un'aggressione, un pestaggio all'interno del carcere. Nessuno lo aiuta, tutti gli dicono che è meglio lasci perdere. Il medico è un comunista, si rivolge al partito. Anche il partito gli dice di lasciar perdere. Il medico allora si rivolge al capomafia, e gli aggressori vengono puniti. Un aneddoto amarissimo, e non ne sfuggirà il senso, il significato. Poi, vengono i Camilleri a dirci che Il giorno della civetta è un romanzo che fa l'apologia della mafia!

Sciascia, il carabiniere, la mafia, l'antifascismo..., scrive Valter Vecellio il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il carteggio e l'amicizia tra lo scrittore di Racalmuto e Renato Candida. In un suo saggio del 1972 che racconta la storia della mafia, Leonardo Sciascia racconta che questa parola - mafia, appunto - appare nel primo vocabolario siciliano compilato nel 1868 da Antonino Traina: si ipotizza che addirittura sia stata importata dal Piemonte, «sulle ali della spedizione dei Mille di Garibaldi». Tuttavia, spiega lo scrittore, per lo studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè «mafia» è solo «una ipertrofia» dell'ego ribellista. Poi, con Giuseppe Rizzotto, autore nel 1862 de «I mafiosi di la Vicaria» (una prigione di Palermo) la mafia diventa «associazione». Ma, annota Sciascia, sarà un procuratore, Alessandro Mirabile, a parlarne come di «setta» nelle sue requisitorie. Sottolinea Sciascia: «Alcuni, anche in buona fede, credono che applicando la parola alla cosa si tenda a creare un pregiudizio. È ingiusto, affermano costoro, che a Milano una banda di rapinatori sia una semplice banda, mentre in Sicilia diventa cosca». Sciascia, su questo, è netto: «La parola mafia è stata applicata alla cosa, o la cosa ha preso quel nome, in forza di una distinzione qualitativa? questa distinzione già vien fuori nel 1838 da una relazione di don Pietro Ulloa, allora procuratore generale a Trapani». Ulloa, fin da allora, parla di «oscure fratellanze», «sette segrete che diconsi partiti», un popolo che «le fiancheggia, magistrati che le proteggono? al centro di tale dissoluzione c'è una capitale col suo lusso e le sue pretensioni feudali in mezzo al secolo XIX». Commenta Sciascia: «Leggeremo mai, negli archivi della commissione parlamentare antimafia, una relazione acuta e spregiudicata come questa di don Pietro Ulloa?». Dubbio, considerazione, che vale non solo per le commissioni parlamentari, ma anche per il tanto che si dice (e si scrive) generalmente di mafia. Non si vuole dire, con questo, che se ne parla (e se ne scrive) troppo; sicuramente però se ne parla (e se ne scrive), spesso a sproposito. Alcuni lo fanno, e lo hanno fatto, con buona, sprovveduta, intenzione (e pazienza, anche se la loro indubbia buona fede comunque un certo danno lo procura); altri si costruiscono una carriera, cementano posizioni di potere, tutelano interessi molto concreti, di "roba" (e come aveva ragione Leonardo Sciascia, in quel suo famoso articolo sul Corriere della Sera redazionalmente titolato "I professionisti dell'antimafia": la quotidiana cronaca ce lo ricorda). Per fortuna c'è anche qualcosa di buono in quello che si scrive e si dice. Più che "buono" (anzi decisamente prezioso, utile nel senso più pieno ed estensivo del termine) è, per esempio, un libro scritto più di cinquant'anni fa: "Questa mafia", scritto da un carabiniere, l'allora comandante dei carabinieri di Agrigento Renato Candida: uno che la mafia, la "Cosa Nostra" la respira, e vive tutti i giorni; e la capisce, la penetra. È un libro "secco", asciutto, un saggio che non è solo un saggio, pagine di un "diario" che però raccolgono anche una formidabile "appendice" costituita da documenti e relazioni? Un libro che attira l'attenzione di un giovane ma già vigile Sciascia, noto (anche a Candida) per aver pubblicato "Le parrocchie di Regalpetra", per il suo lavoro editoriale, per gli articoli scritti con piglio radicale sul milanese Giorno: dove racconta le ancora sconosciute realtà di Misilmeri, Niscemi, Canicattì, Villalba. Magistrale l'intervista con Giuseppe Genco Russo, il capomafia di Mussomeli, pubblicata su Mondo nuovo? Sciascia scrive a proposito di Questa mafia una recensione con toni di entusiasmo; e ne nasce un'amicizia che dura nel tempo. Candida diventa poi il modello di carabiniere a cui Sciascia si ispira per il suo capitano Bellodi, protagonista de "Il giorno della civetta". Pubblicato il libro, Candida ne riceve, qualche tempo dopo, il meritato "ringraziamento": sotto forma di trasferimento, alla scuola allievi ufficiali di Torino. Promosso, e rimosso. Si può dire, con il senno di oggi, che gli sia andata perfino bene. In quegli anni così s'usava, nei confronti di chi troppi piedi pestava, e troppo forte. Col tempo altre, più drastiche e sanguinose misure saranno prese: prima la "chiacchiera"; poi il rimprovero d'essere "chiacchierato". Infine la mortale carica di tritolo o la raffica di kalashnikov. La Cosa Nostra certo ha enormemente mutato i suoi connotati, da quegli anni ormai lontani; è ormai altro, da quello che hanno scritto Candida e Sciascia. Non solo è salita molto a Nord, la mafiosa palma; è diventata una ormai inestricabile foresta; e tanto più insinuante e pericolosa in quanto silenziosa, discreta. Non se ne parla più, non si mostra più. Segno, evidentemente, che non ha più bisogno di parlare, di mostrarsi. Fino a qualche settimana fa per entrare in possesso di una copia di Questa mafia, la cui tiratura da tempo risultava esaurita, bisognava confidare nella pazienza e nel portafoglio: il libro era reperibile nel circuito delle librerie antiquarie e a buon prezzo (per l'antiquario, s'intende); oppure si doveva confidare nel raro colpo di fortuna che può capitare a chi fruga nelle bancarelle dell'usato, dove tra tanta paccottaglia capita di trovare qualche "perla".  Ma ora il libro è stato meritoriamente ripubblicato e dunque entrarne in possesso è più facile. Ne abbiamo un documento non di stretta attualità, ma neanche un "solo" documento di storia: è un testo che ci fa conoscere fatti di 'ieri', ma fondamentale per comprendere quelli di "oggi". L'amicizia che lega Candida a Sciascia (e Sciascia a Candida, ovviamente), è ben descritta in un articolo pubblicato, in origine, su La Stampa dell'11 novembre 1988, e poi compreso nella raccolta "A futura memoria" (Bompiani).  Scrive, Sciascia: «Ci siamo conosciuti nell'estate del 1956. Io avevo da qualche mese pubblicato "Le parrocchie di Regalpetra". Candida lo aveva letto, mandò a dirmi che desiderava che ci incontrassimo. Ci incontrammo a casa mia, a Racalmuto: un uomo simpatico, aperto, spiritoso. E debbo anche dirlo, e sarà magari perché ne conoscevo pochi: ma era il primo funzionario dello stato veramente antifascista che io avessi incontrato. La sua radice di avversione alla mafia era appunto questa: il suo antifascismo? Diventammo amici. Ci incontravamo spessissimo, almeno due volte per settimana, in paese o nella mia casa di campagna; e ad Agrigento, nel suo ufficio. Stava scrivendo il suo libro sulla mafia. Quando lo ebbe finito, lo portai a Caltanissetta, dall'amico editore Salvatore Sciascia: che subito, senza alcuna esitazione, lo pubblicò. Qualcuno osò poi dire che io, sollecitato dal mio amico Luigi Cortese, capogruppo comunista all'assemblea regionale, avevo chiesto a Candida di tagliare quelle parti del libro che prospettavano collusione tra comunisti e mafiosi: nulla di più falso; e del resto, nel libro, qualche elemento in questo senso si trova. Non erano i comunisti, che preoccupavano Candida in quanto comandante del gruppo carabinieri di Agrigento, ma i democristiani. E tentò, proprio tra i giovani democristiani, di seminare coscienza antimafiosa?». Ecco: direi che questo brano chiarisce bene la qualità dell'amicizia tra lo scrittore e il carabiniere; di che pasta sono fatti l'uno e l'altro. Ma c'è molto altro, in quel bell'articolo di Sciascia, che "descrive" che tipo di carabiniere e di uomo sia stato Candida, di come l'Arma debba essere orgogliosa di averlo avuto tra i suoi "fedeli", e di come, fino a quando in questo paese ci saranno persone come Candida, si possa ancora sperare i qualcosa di buono. Questa mafia è ricca di preziose informazioni, di radicale impegno, impegnato radicalmente, si potrebbe dire; racconta la divisione tra giovani e vecchi mafiosi, il desiderio di affermazione dei primi, la preoccupazione dei secondi di non pregiudicare gli equilibri e le posizioni raggiunte, e il dissidio che inevitabilmente ne nasce e che porta all'altrettanto inevitabile guerra. Sciascia ne scrive su Tempo Presente, la bella rivista di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte (siamo, giova ricordarlo, nei primi anni Sessanta): «Di una mafia di sinistra (avendo finora i partiti di sinistra monopolizzato i termini della lotta contro la mafia), nessuno prima del Candida aveva parlato; eppure esiste, e in molti centri dell'agrigentino riesce a battere sistematicamente la mafia di centro-destra. Ciò non toglie che l'essenza della mafia risieda in quell'ideale di ordine di cui si è detto. Peraltro, è da notare che la scelta di un partito in Sicilia è determinata da circostanza che niente hanno a che fare con un ideale politico: rivalità di gruppi, di famiglie o semplicemente di individui; gelosie e invidie? Ho davanti agli occhi un opuscolo sulla vita del sindacalista Salvatore Carnevale, indubbiamente liquidato per sentenza della mafia; a un certo punto si legge che col Carnevale le vittime della mafia, sindacalisti ed esponenti della sinistra, sono finora trentotto; e viene il sospetto che si faccia un po' di confusione. Perché bisogna distinguere tra delitti esterni e delitti interni; e se tra questi trentotto non ci siano soppressi per misura interna e per ragioni che non hanno niente a che vedere con la politica. Ma tant'è: un morto serve sempre, nel nostro retorico paese». E ancora: «leggendolo gli è avvenuto di dare "quella definizione della mafia che ha avut un certo corso e che credo resti ancora accettabile: la mafia è un'associazione per delinquere con fini di illecito arricchimento dei propri associati e che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato. Definizione che ognuno da questo libro può trarre o su questo libro verificare». Ben si capisce, ora, perché Sciascia nei suoi libri, quando immagina il personaggio di un investigatore, di una persona che cerca la verità, puntualmente ne modella il ritratto di Candida, quello che è stato, è riuscito ad essere. "Questa mafia", di Renato Candida, Salvatore Sciascia editore Pagg. 214, euro 22

Gli italiani? Sono fascisti dentro. Il nuovo libro di Tommaso Cerno in uscita in questi giorni, racconta come la mentalità del Ventennio sia ancora oggi diffusa nella politica, nella società, nella cultura del nostro Paese, scrive Tommaso Cerno il 20 novembre 2015 su “L’Espresso”. Pubblichiamo l’introduzione del libro di Tommaso Cerno, “A noi”, in libreria dal 20 novembre (Rizzoli, pp. 310, € 19). Si dice che un bambino nasca con la camicia, quando viene alla luce avvolto nel sacco amniotico. Quel sacco sembra un abito, cucito addosso durante i nove mesi dentro il ventre di mamma. E noi di chi siamo figli? L’Italia in cui viviamo, l’Italia del nostro Ventennio, quello che chiamiamo l’epoca di Berlusconi e Renzi, è nata con la camicia? Proviamo ad azzardare un’ipotesi: l’Italia è nata con la camicia nera. Proprio così, fasciata nel sacco amniotico del fascismo, da cui cerca a fatica di liberarsi da settant’anni, senza riuscirci davvero. Nel dopoguerra la retorica antifascista può avere dato l’impressione di un taglio netto con i vent’anni precedenti, ma come il “politicamente corretto” non cancella il razzismo, non ridà la vista a un cieco chiamandolo non vedente, l’affermazione di essere antifascista, per quanto eticamente giustificabile, non basta a cancellare ciò che del fascismo è dentro di noi. Dentro di noi perché italiano come noi, forse più di noi. In tutto il corso della sua storia, il fascismo fu senza dubbio un fenomeno rivoluzionario, giovanile, si direbbe oggi “rottamatore”. Mussolini contribuì a ringiovanire l’Italia, a partire dalla sua classe politica, così come consentì per la prima volta nella storia del nostro Paese ai ceti medi di entrare nelle stanze del potere. Questo significa che ebbe un legame con il Paese molto più radicato, profondo, osmotico di quanto si pensi. Un legame possibile solo quando c’è un collante. E questo collante viene proprio dall’essenza dell’italiano, dalle radici del nostro modo di essere, dal nostro rapporto con il potere, da ciò che non muta sulla nostra penisola al di là del regime o del governo, più o meno democratico, che ci capita di eleggere o di contestare. Impegnati come siamo a ripeterci che il fascismo è finito, oppure che si manifesta solo nei simboli esplicitamente esibiti del regime, dentro i partiti dell’ultradestra xenofoba, che alzano le croci celtiche nelle manifestazioni, non ci rendiamo conto di una cosa: quei militanti postfascisti sono riconoscibili prima ancora che espongano il proprio pensiero, mentre il fascismo del Ventennio fu un grande movimento di massa. Se ci ostiniamo a cercare il fascismo lì dove è fin troppo facile trovarlo, non facciamo altro che insistere nel non vedere. E perché lo facciamo? Perché abbiamo paura di ritrovarlo dove non ce lo aspettiamo più, nel nostro modo di essere quotidiano, nei nostri difetti di Paese, nel nostro sistema politico e sociale. Annidato là dove sempre è stato, nell’angolo buio della Repubblica che preferisce puntare i fari altrove, dove sa che fascismo non se ne vedrà. Riflettiamo su un fenomeno mediatico di questi ultimi settant’anni. Ancora oggi se accendiamo il televisore e ci sintonizziamo su un dibattito politico, sentiamo spesso ripetere come un ritornello: «Siete fascisti!». Si ascolta così tante volte, da essere assaliti dalla curiosità di capire perché. Un giorno il fascista in questione è Matteo Renzi, tacciato di metodi spicci da destra e da sinistra, addirittura da una parte del suo stesso partito, il Partito Democratico; il giorno appresso, invece, ci si riferisce a Silvio Berlusconi, accusato di avere addormentato il Paese come un nuovo Duce, di averlo assopito in una sorta di Ventennio che potremmo definire, piuttosto che regime dal volto umano, regime dal mezzobusto umano, trattandosi di un’anestesia televisiva pressoché totale. Questa anestesia, però, ha generato la propaganda di governo, come tutti i regimi democratici e non, ma ha generato anche i suoi anticorpi: l’antiberlusconismo militante. Un terzo giorno l’epiteto di fascista è attribuito alle epurazioni del Movimento 5 Stelle e a Beppe Grillo, accusato di essere l’uomo solo che decide per tutti, quando il tal deputato è espulso dal gruppo parlamentare perché “ribelle” alla linea ufficiale. Fino a Matteo Salvini, il leader leghista dell’era post-bossiana, il quale, abbandonato il divino Po e la sacra ampolla, si fa crescere la barba e si reinventa una specie di marcia su Roma per allargare il consenso, ormai troppo stringato, del suo Nord. La morale è che, almeno a parole, qui siamo tutti fascisti, destra e sinistra, alti e bassi, belli e brutti. Saremo anche il Paese delle generalizzazioni, ma c’è davvero da chiedersi cosa stia capitando a noi italiani. Perché, all’improvviso, ci accusiamo l’un l’altro di fascismo? Perché dopo la fine del regime, dopo l’epopea della Resistenza, dopo sette decenni di democrazia quella parola torna sulle labbra di tutti noi, usata con sufficienza, con disinvoltura? Forse perché il 1945, la data che mette fine ai regimi fascista e nazista in Europa, non è una data che l’Italia abbia davvero digerito. Certo sul piano ufficiale, nei proclami, nelle affermazioni di principio, così come nella retorica di Stato, il fascismo è morto e sepolto, giace sotto strati e strati di antidoto costituzionale, democratico, parlamentare. Eppure, nella vita di tutti i giorni, nel profondo degli italiani, la censura del modus vivendi mussoliniano non corrisponde affatto a una cesura, perché molti atteggiamenti del regime - che già provenivano dal passato - si sono conservati, pur con i naturali ammodernamenti, nel futuro: pensiamo ad esempio all’Italia bigotta e bacchettona che fa e non dice, al maschilismo diffuso in tutte le fasce sociali. Pensiamo alla distanza fra regole scritte e regole davvero applicate. Pensiamo all’usanza politica del dossier, all’insabbiamento dei misteri di Stato, alla corruzione come sistema di governo, all’utilizzo dell’informazione come macchina per controllare l’opinione pubblica prima ancora che per informarla, alle regole non scritte delle gerarchie comuniste del dopoguerra, dove il valore della “fedeltà coniugale” garantiva la scalata ai vertici del Pci (Partito Comunista Italiano) proprio come del Pnf (Partito Nazionale Fascista). Per arrivare, infine, all’uomo forte, al leaderismo craxiano, berlusconiano, renziano, incarnazioni del bisogno primario di un capo. Sono solo coincidenze? No, siamo nati davvero con la camicia nera. C’è un filo conduttore che unisce il fascismo “a noi”, proprio come era il saluto ai tempi del Duce. A noi del fascismo è giunto più di quello che vogliamo ammettere. Un’eredità che arriva dritta nell’epoca di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Un’eredità che non si manifesta nell’esibizione di simboli e bandiere, ma nei piccoli gesti, nei modi di pensare, nelle abitudini malate del nostro Paese che non mutano con i governi. Abitudini che ritroviamo nel fascismo di Benito Mussolini, nei risvolti del regime e del carattere del Duce che facevano del fascismo e del suo capo, prima ancora che una dittatura e un dittatore, un modello d’Italia e di italiano, simili nei difetti al popolo. Difetti che non sono scomparsi, sono solo mutati di sembianza. E che ritroviamo ancora oggi. Se sappiamo dove andare a cercarli.

L'ITALIA ANTIFASCISTA. 

Il fascismo dell’odierno antifascismo. Lettera a Fiano di Diego Fusaro del 12 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano".

Caro Emanuele Fiano, mi spiace farglielo presente. Mi spiace turbare e contraddire l’edulcorante storytelling a cui lei, in buona compagnia, ha aderito e che ora cerca di trasformare in legge. Non ce la beviamo. Lo sappiamo che oggi l’antifascismo è la nobile categoria che legittima nuove pratiche fasciste come la chiusura dei giornali, lo squadrismo mediatico contro i non omologati, la diffamazione permanente di ogni pensiero non ortodosso e subito liquidato en bloc come “fascista”.

Caro Fiano, la sua proposta di legge sembra dare tristemente conferma delle parole di Flaiano. I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti. Lasci stare l’antifascismo, che fu una cosa seria: parlo dell’antifascismo di un Gramsci o di un Gobetti, per intenderci. L’antifascismo in presenza di fascismo, per essere più precisi. L’antifascismo patriottico legato all’idea di liberazione nazionale. Tutto il contrario, dunque, del vostro antifascismo liturgico, folkloristico e fumettistico in assenza palese e conclamata di fascismo. Pier Paolo Pasolini lo denunciava già con la categoria di “antifascismo archeologico”. E scriveva: “Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più. (…) Ecco perché buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. Insomma, un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo”.

Ho il forte sospetto che queste parole, mutatis mutandis, si attaglino perfettamente alle sue battaglie, caro Fiano. Soprattutto se penso che lei e le sinistre passate dalla lotta al capitale alla lotta per il capitale usate l’antifascismo in assenza di fascismo per accettare senza esitazione il capitalismo realmente esistente, con il suo carico di violenza economica. Sì, lo dico apertamente: ho il sospetto che combattere oggi il manganello fascista, per fortuna estinto, serva come alibi per non combattere il manganello invisibile dell’economia di mercato (Jobs act, spending review, fiscal compact). O forse addirittura per approvarlo e favorirlo. In altri termini, il nuovo fascismo – quello della società di mercato -, per richiamarci ancora a Pasolini, “non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico”. Cosa fate, in concreto, signor Fiano, lei e il suo partito contro questo fascismo, oggi il solo realmente esistente?

Caro Fiano, il fascismo non si combatte così. Dalla pancia del Paese affiorano pulsioni di estrema destra e il Pd pensa di affrontarle con divieti, bollini e punizioni per il Web. Bisogna invece combattere ogni giorno l'egemonia culturale reazionaria, sempre più diffusa. Non è facile, certo, ma è l'unico modo, scrive Fabio Chiusi l'11 luglio 2017 su "L'Espresso". Ci sono diverse tentazioni antidemocratiche nel dibattito sorto intorno alla legge Fiano contro la propaganda fascista. La prima, dei sostenitori, è definire “fascista” chiunque vi si opponga, quando naturalmente non servono nostalgie del Ventennio per porre una semplice domanda: che cosa è, esattamente, “propaganda”? Il testo parla di “immagini” e “contenuti propri” di fascismo e nazismo, delle “relative ideologie”, di richiamarne pubblicamente “la simbologia e la gestualità”. In alcuni casi, abbastanza per identificare uno squadrista; in molti altri - dalla satira alla ricerca, passando per tutte le sfumature consentite dalla libera espressione in democrazia - no. Non perché essere fascisti è un’opinione come le altre, ma perché un conto è criminalizzare la violenza e il razzismo come metodo di lotta e seduzione politica, o vietare la ricostituzione di un partito totalitario, come nelle già vigenti leggi Scelba e Mancino; un altro è criminalizzare un braccio teso, la vendita di un santino del Duce o la diffusione di una sua foto su Facebook per la loro sola esistenza. Proprio su Internet peraltro, secondo la norma, essere fascisti è di “un terzo” più grave: perché? Il principio della rete come aggravante di reato è un concetto che ruota nelle menti dei legislatori italiani almeno dal ddl Lauro del 2009, in cui il senatore Pdl ipotizzava un aumento di pena per il proposto, e bocciato, reato di “istigazione ed apologia dei delitti contro la vita e l’incolumità della persona” nel caso fosse compiuto tramite “telefono, Internet e social network”. Oggi si parla di “strumenti telematici e informatici”, ma è singolare pensare che una trasmissione televisiva più o meno velatamente razzista, o un titolo di giornale, siano minori veicoli di propaganda. Singolare, a meno che non si inquadri l’idea all’interno dell’ossessione che i liberal di tutto il mondo hanno sviluppato per la propaganda digitale dopo l'elezione di Donald Trump - senza peraltro prendersi la briga di definirne i contorni, o spiegarci perché dovrebbe essere più pericolosa di quella “offline”. Anche questa di criminalizzare la propaganda e le menzogne che oggi chiamiamo inspiegabilmente “fake news”, invece di neutralizzarle con le idee, i fatti e la civiltà, è una tentazione antidemocratica, tale da avere allarmato perfino lo Special Rapporteur ONU per la libertà di espressione, David Kaye. Il problema è che quando si sfonda la soglia della criminalizzazione della propaganda ideologica non si sa bene dove si va a finire. Certo, c’è una diffusa e montante tentazione autoritaria a destra, al punto che sempre più è il linguaggio dei Salvini e delle Le Pen a fare quella che Antonio Gramsci chiamava “egemonia culturale”: un rapporto di dominio, sì, ma più subdolo e pervasivo perché fondato sul consenso, prima che sulla coercizione, e sempre “necessariamente pedagogico”. Anche questo è un dato di realtà con cui fare i conti, utile per decifrare gli strepiti di chi maschera la volontà di giustificare, assolvere, minimizzare dietro al faro del libero pensiero. Ma una volta rotti gli argini, le acque fluiscono verso anfratti che potrebbero allagare la stanza della democrazia, più che quella degli estremisti, sempre peraltro dotata di insospettabili anfratti. Pubblicare un testo di propaganda fascista diventa dunque reato, anche quando è di interesse storico? Un video su YouTube con i discorsi di Joseph Goebbels - il vero padre della propaganda contemporanea, che andrebbe studiato nel dettaglio, non consegnato all’oblio - è materia da codice penale? Domande che, in una certa misura, si ponevano già, ma che oggi si ripropongono con maggiore forza. Domande che somigliano molto da vicino a quelle poste nei mesi in cui i terroristi di ISIS occupavano il web con le loro strategie di comunicazione. E cosa è più democratico, tentare la via difficile - mostrando ma contestualizzando, diffondendo ma senza essere megafoni - di ottenere una opinione pubblica informata e adulta abbastanza da valutare da sé l’orrore, o pretendere - nell'era della disintermediazione, uno sforzo quasi certamente vano - di trattarla come un consesso di infanti a cui appiccicare un bollino rosso, un divieto, così che il male finisca sotto il tappeto? E ancora: cosa distingue essenzialmente la propaganda estremista, o fondamentalista, da quella politica? Il passo, insegnano i regimi autoritari di oggi, non di ieri, è più breve di quanto sembri. Si pensi alla Cina, e alla recente norma che prevede lo screening, da parte di due revisori, di ogni contenuto audio-video pubblicato in rete, con conseguente censura di tutti quelli che non aderiscono ai “valori di fondo del socialismo”. Nessuno sostiene che Fiano e i sostenitori della sua legge abbiano Pechino come modello; il pericolo, tuttavia, è aprire le porte a una ratio che rende possibile adottarlo, se ritenuto necessario. Resta poi l’ultima obiezione, più profonda: che il fascismo è un cancro difficile da estirpare, un male apparentemente incurabile della contemporaneità che è meglio prevenire, dissolvere piuttosto che risolvere. Inutile fare di Cinque Stelle - gli epuratori a mezzo blog - e leghisti improbabili difensori delle libertà civili: se si vuole privare il fascismo del terreno che lo fa germogliare, bisogna inaridirlo ogni giorno, non con le leggi ma con la dimostrazione quotidiana del rispetto di rapporti di vita e potere democratici, da parte di ogni fazione politica. L’intolleranza non si batte coi divieti, né tantomeno scimmiottandone slogan e forme, ma con l’intransigenza e l’orgoglio di appartenere a un mondo in cui si ha memoria di che accade un saluto romano dopo l’altro. Coltivare la passione del passato e della verità storica, incentivarla in ogni forma: questo sì si sottrae a ogni tentazione antidemocratica. E, infatti, sembra proprio l’ingrediente mancante al dibattito in corso.

Ma la Storia non si distrugge. Fascista è comprimere idee e libertà, anche se queste non costituiscono minaccia concreta alle istituzioni o alla sicurezza pubblica, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 12/07/2017, su "Il Giornale". Fascista non è essere fascista o simpatizzante del Ventennio ma impedire con la forza che qualcuno lo sia. Fascista è comprimere come proposto dall'onorevole Fiano del Pd - idee e libertà anche se queste non costituiscono minaccia concreta alle istituzioni o alla sicurezza pubblica. Fascista è cancellare, distruggere come vorrebbe fare la Boldrini monumenti e architetture che, anche nel male, sono un pezzo di storia di questo Paese. Fascista, insomma, è essere comunista, ideologia peraltro molto più sanguinosa e tragica della prima. Quella che sembra la classica polemica estiva l'inasprimento delle norme contro l'apologia del fascismo è in realtà un pericoloso rigurgito illiberale. L'Italia si è già dotata di leggi per impedire la ricostituzione di un partito fascista e di strumenti per vigilare che nostalgie o passioni restino confinate nella sfera privata. Invadere pure quella, sanzionando anche la mera circolazione o il possesso di documenti, foto e ridicoli gadget che rimandano al Ventennio, non solo è tecnicamente impossibile, ma è cosa da dittatura. Siamo al rogo dei cimeli, alla caccia alle streghe. Oggi il fascismo, domani a chi tocca? Perché no, ai comunisti, a lungo alleati e simpatizzanti dell'Unione Sovietica di Stalin (abbiamo invece vie dedicate a Stalingrado, città eretta in onore di un boia). E perché no, mettere al bando tutto ciò che riporta a Pio IX, il Papa che si oppose con le armi all'Unità d'Italia. Questa offensiva estiva contro le basilari libertà di opinione non solo è umiliante per una democrazia, è più semplicemente stupida. La circolazione delle idee e dei loro simboli non può costituire reato. Abbiamo più cautele nei confronti dei simpatizzanti dell'Isis che di un innocuo bagnino affascinato dal Duce. Per espellerli infatti occorre provare che la loro infatuazione sia sul punto di trasformarsi in atti pericolosi, trovare indizi di una complicità attiva con terroristi conclamati. Se per fascismo intendiamo il pericolo di quel preciso periodo storico possiamo dormire sonni tranquilli. Non invece se per fascismo intendiamo un rigurgito di leggi illiberali. Perché per metterle in atto non necessita portare la camicia bruna e intonare Faccetta nera. A volte basta la faccia rassicurante di un deputato del Pd. Come quella di Fiano.

La zarina rossa vera nemica della cultura. Nella vanità di Laura Boldrini c'è un disprezzo così profondo per la cultura e per la civiltà italiana che ogni spirito libero dovrebbe considerare con preoccupazione, scrive Vittorio Sgarbi, Mercoledì 12/07/2017, su "Il Giornale". Laura Boldrini andrebbe interdetta, essendo pericolosa a sé e alla democrazia. Non avendo un partito reale (se non il partito comunista del cuore), e sperando che non ci siano giochi contro gli elettori, possiamo confidare che non sia rieletta. Parlo con tutta la gravità e la serietà che la questione richiede. Nella vanità di questa donna c'è un disprezzo così profondo per la cultura e per la civiltà italiana che ogni spirito libero dovrebbe considerare con preoccupazione. Esco da un luogo sacro, voluto dal fascismo nel 1925, e che ha dato anche il nome a una strada: «Piazza della Enciclopedia italiana». Ha una vaga idea la Boldrini di cosa sia l'Enciclopedia italiana? Ne ha una vaga idea di chi l'abbia fondata? Il filosofo Giovanni Gentile non è stato soltanto un «monumento» del fascismo, ministro della pubblica istruzione e senatore, fondatore di quel «monumento» che è l'Enciclopedia Treccani e di quell'istituto che accolse numerosi collaboratori non fascisti, come il socialista Rodolfo Mondolfo ma fu, nel 1936, l'antagonista del nuovo ministro dell'educazione nazionale Cesare Maria de Vecchi, che Gentile accusò di «inquinare la cultura nazionale», e fu critico sulle leggi razziali. Eppure Gentile fu assassinato il 15 aprile del 1944 davanti a casa sua, a Firenze, alla Villa di Montalto al Salviatino dal gruppo partigiano fiorentino aderente al Gap, di ispirazione comunista. Lo uccisero Bruno Fanciullacci, Elvio Chianesi, Giuseppe Martini, Antonio Ignesti, Liliana Benvenuti Mattei; e il partito comunista ne rivendicò l'esecuzione nonostante la disapprovazione del comitato di liberazione nazionale, Cln. Si tratta dei compagni della Boldrini, assassini a favore dei quali la Boldrini ha affermato «i monumenti fascisti offendono chi ha liberato il nostro paese». Già si era pronunciata contro l'obelisco con la scritta «Dux» davanti al Foro italico. Io sono a disagio davanti ai comunisti come lei che rivendicano l'assassinio di Gentile. Le reazioni che leggo sono tutte di indignazione per l'ignoranza di questo presidente per caso e nemica giurata della cultura a somiglianza di Goebbels cui è attribuita la frase: «Quando sento la parola cultura, metto mano alla pistola» (in realtà coniata da Hanns Johst). Questo è l'animo della Boldrini, così come è tornato a manifestarsi oggi attraverso l'espressione di un radicale manicheismo di cui lei porta la contraddizione nel nome. Quando fu eletta infatti, ma nessuno lo ha ricordato, io associai il suo nome a quello di Arrigo Boldrini, partigiano come a lei piace, e che, prima iscritto al Partito Nazionale Fascista e reclutato nella milizia volontaria per la sicurezza nazionale ovvero fra le camicie nere, nel '43 aderì al Partito Comunista e fu, a partire dal 1944 comandante della brigata Garibaldi, responsabile dell'eccidio di Codevigo, dove furono uccisi, dal 28 aprile del 1945 (quindi dopo la Liberazione) alla metà di giugno dello stesso anno, centotrentasei persone, trucidate e seviziate per pura vendetta. Per rispetto di quei morti io, portando quel nome la smetterei di insultare la memoria dei morti e di parlare a nome dei partigiani. A partire dall'eccidio di Codevigo, dovremmo cominciare a ricordare i milioni di vittime del comunismo di cui la Boldrini non si vergogna. È la sua anima non democratica, manichea. Le ha ben risposto Barbara Palombelli: «Una democrazia forte non ha paura dei simboli del passato, non cancella o ritocca i monumenti, non si occupa di un signore nostalgico che inneggia a Mussolini». La Boldrini è titolare di un «non pensiero», che la mette in inquietante concorrenza con la Raggi, sindaca di Roma. Poveri noi!

Alessandra Mussolini: "La proposta di Fiano una cagata pazzesca. Mio nonno ha fatto parte della storia d'Italia", scrive il 12 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". Laura Boldrini in stile-Isis vuole radere al suolo gli edifici e i monumenti che ricordano il fascismo e il piddino Emanuele Fiano vuole inasprire la legge che punisce l'apologia vietando, de facto, la parola "Mussolini", oltre a gadget, magliette e libero pensiero? Una risposta, tagliente, arriva da una delle parti in causa più toccate dalla vicenda, da Alessandra Mussolini, la "Duciona", la nipote di Benito Mussolini. La risposta viaggia in prima pagina sul quotidiano Il Tempo, dove la deputata di Forza Italia si spende in un accorato intervento. "Gentile Direttore - premette -, generalmente in estate la parte più modesta della politica non trova di meglio da fare che inventare proposto di legge bizzarre al solo scopo di avere un briciolo di notorietà o dare un sorriso agli accaldati vacanzieri. Quest'anno è toccato al renziano Fiano...". Dunque, si passa all'attacco. La Mussolini spiega che "potenzialmente i deliri del collega Pdcostituiscono una chiara discriminazione nei confronti di discendenti diretti (come la sottoscritta) di personaggi che hanno fatto una parte rilevante della storia d'Italia". Quindi, la Duciona ricorda che "l'ordinamento italiano già prevede sanzioni per l'apologia del fascismo, e portare in Aula una proposta che preveda il carcere per chi usa simbologia o gestualità che richiamano il periodo storico del ventennio in un momento nel quale chiudono esercizi commerciali, migliaia di clandestini sbarcano sulle coste italiane, la minaccia terrorismo è in casa nostra, i cittadini italiani perdono posti di lavoro e le tasse continuano ad aumentare dimostra tutta la pochezza politica del Pd e sancisce l'incapacità nel saper affrontare e risolvere i veri problemi dei cittadini". Il pezzo è serrato, l'attacco spietato, contro "una classe dirigente" che "si riduce a cadere nel ridicolo con proposte anacronistiche". E dopo aver ricordato che l'Italia ha un "assetto democratico robusto", la Mussolini lancia la sua sfida. "Qualora la proposta dovesse incontrare il favore del Parlamento, non esiterei un solo istante ad autodenunciarmi poiché per la norma sarei un reato vivente con l'aggravante che ho in casa ricordi e cimeli della mia famiglia e spesso mi chiedono anche di autografare foto d'epoca raffiguranti mio nonno Benito Mussolini". Ed eccoci, dunque, all'affondo finale: "Per concludere - scrive la Duciona, scatenata - definirò questa iniziativa usando le parole del compianto Fantozzi: una cagata pazzesca! Saluti romani, cioè da Roma".

Fascismo, "Quella del Pd una legge da cretini, che figura di m...", scrive Vittorio Feltri il 13 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". Ha pienamente ragione il nostro valente Filippo Facci a definire stupida la legge proposta dal dem Fiano che vieta lo spaccio e il possesso di gadget commemorativi del fascismo. Oltre che stupida e pure ridicola, rivela la salute mentale e il livello culturale di chi intende approvarla. A meno che si tratti di un ingenuo diversivo finalizzato a distogliere l’attenzione della opinione pubblica dai problemi drammatici che presentemente affliggono l’Italia. È in atto una violenta polemica sulla incapacità del governo di gestire l’invasione inarrestabile degli stranieri, una vera e propria emergenza. Si dice che la sinistra sprovveduta si sia addossata la responsabilità di organizzare i salvataggi in mare e trattenere i migranti nel nostro Paese di Pulcinella, e che ora si arrabatti nel tentativo di porre riparo agli errori commessi. C’è poi la questione finanziaria: siamo asfissiati dalle tasse e da un debito mostruoso in costante aumento. L’economia di conseguenza non tiene il passo con quelle europee. Insomma dovunque posiamo lo sguardo scorgiamo una grana, e come reagisce l’orchestrina diretta da Gentiloni? Suona il piffero stonato dell’antifascismo antiquato e becero. Ipotizza di punire con anni di carcere coloro che in qualche modo (non si precisa quale) alimentano l’apologia del regime defunto 70 anni fa, lasciando ai pochi sopravvissuti, testimoni dell’epoca, confusi ricordi per giunta storpiati da una storiografia dilettantesca. Si considerano minacce per la democrazia bottiglie di vino modesto etichettate con l’effigie di Benito Mussolini, orologi scadenti che sfoggiano nel quadrante il testone del Duce con elmetto d’ordinanza. Paccottiglia patetica, con qualche valenza ironica, cui si attribuisce una inesistente forza propagandistica capace di risuscitare i famigerati manipoli manganellatori e dediti a far ingoiare olio di ricino ai compagni. I quali non si rendono neppure conto che così possono ricostruire un pizzico di simpatia verso le camicie nere e molta antipatia per quelle rosse che, quando sono in difficoltà, disseppelliscono un nemico ridotto a scheletro. Un tempo chi dava la caccia ai fantasmi veniva rinchiuso in manicomio, adesso è accolto in Parlamento dove poi si diletta a scrivere leggi comiche, autentiche barzellette. Nell’arte di ingigantire una mosca, trasformandola in aquila agli occhi del popolo, svetta la Repubblica che ieri è riuscita nella impresa di dipingere un bagnino di Chioggia quale dittatore da spiaggia, uno con oratoria trombonesca e con piglio cameratesco in grado di risvegliare il disciolto partito del Mascelluto. Una operazione buffonesca con la quale le spedizioni punitive, di cui erano specialiste le squadracce, si sono evolute nei metodi, passando dagli sfollagente ai giornali impugnati come randelli. Il povero bagnino di Chioggia, un mite nostalgico che non ha mai fatto male ad alcuno, di nome Gianni Scarpa, è stato spolpato vivo perché accusato di affittare sdraio (del ventennio?) e di appendere nel proprio stabilimento balneare frequentatissimo cartelli duceschi recanti slogan di questo tenore: «Zona ad alta frequenza di gnocche». Roba ideologica elettrizzante. Secondo avviso: «Non rompete i coglioni. Massima educazione antidemocratica e a regime». Dove è lo scandalo? Scarpa è stato denunciato e sarà iscritto nel registro degli indagati. Linciato dai quotidiani progressisti, sarà presto costretto a chiudere l’attività, nonostante sia assai produttiva, e avremo qualche disoccupato in più grazie all’antifascismo di maniera. A Fiano, capo partigiano fuori stagione, ci limitiamo a chiedere perché ritiene sia il caso di combattere i simboli patetici del Duce (maiuscolo, caro proto), imprigionando chi li maneggia, mentre non fiata per criticare quelli di Stalin che non mi pare si sia comportato meglio del collega. Se il dirigente del Pd avesse dei dubbi, gli consigliamo di leggere, se sa leggere, la biografia di baffone, molto istruttiva. A Fiano occorre rammentare cosa fossero i gulag, cosa accadesse in Siberia, il disastro della Unione Sovietica e dei suoi satelliti. Mai sentito parlare di sterminio di ebrei in Russia e dintorni? Episodi irrilevanti? Dia una scorsa ai libri di un tal Solgenitsin, cui Giorgio Napolitano dedicò un saggio denigratorio.

Prima di varare leggi cretine bisognerebbe almeno informarsi sulla materia che si affronta. Altrimenti si rischia di fare una figura di merda. Giusto, Fiano e soci? Vittorio Feltri

La7, Feltri a In Onda: "I discorsi politici mi hanno rotto i coglioni, la gente ne ha le balle piene", scrive il 12 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". Prima o poi qualcuno doveva dirlo al soporifero duo David Parenzo e Luca Telese, conduttori di In onda su La7. Per diversi minuti, durante la puntata di ieri, il dibattito si è arrovellato sull'attualità politica, una noia mortale che il direttore di Libero, Vittorio Feltri, in collegamento esterno ha esplicitato senza freni: "Non invitatemi più. Questi discorsi politici mi hanno rotto i coglioni in un modo pazzesco". Invitato solo dopo a parlare, Feltri era ormai spazientito: "No no - ha risposto a Parenzo - io devo andare a cena". Quando finalmente il dibattito si è concentrato su temi più concreti, come l'emergenza immigrazione e la protesta a Porto Gruaro, Feltri si è sfogato partendo da una provocazione: "Io personalmente me ne frego degli immigrati. Abito in collina a Bergamo, in mezzo al verde: a me che mi frega dei migranti? Però quelli che stanno a Quarto Oggiaro e hanno a che fare con questi signori di colore, magari se ne fregano meno di me. Io me ne sbatto proprio dei migranti, ne arrivino quanti ne vogliono. Ho 74 anni, tra qualche anno sarò morto… ma che cazzo me ne fotte a me degli immigrati?". E poi ha rincarato la dose contro Parenzo: "Tu non abiterai in un tugurio, per cui stai bene e te ne fotti degli immigrati. Ma sì dai, diciamoci le cose sinceramente! Tu te ne fotti degli immigrati, io pure, tutti quelli in studio se ne fottono degli immigrati perché non hanno a che fare con loro. Mentre coloro che hanno a che fare coi migranti si incappellano, si incacchiano e protestano". Finché poi ha lanciato la stilettata finale: "Il problema non è mio, ma riguarda il popolo che ne ha piene le balle. Lo capite o no?".

Vittorio Feltri: “M5s? Chi li vota ne ha piene le scatole e vi manda a fare in culo. Non mi invitate più, mi sono rotto i coglioni”, scrive Gisella Ruccia il 12 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “M5s? Riesce a ottenere dei consensi perché è un partito completamente diverso rispetto agli altri e, dato che gli italiani ne hanno piene le scatole della politica, se trovano un partito che rompe questa tradizione monotona della chiacchiera, è chiaro che sono attratti dal M5s”. Sono le parole del direttore di Libero, Vittorio Feltri, nel corso di In Onda Estate (La7). “Quindi, l’elettore comune quando va in cabina elettorale, traccia la croce sul M5s e, siccome è da solo e non lo vede nessuno, vi manda tutti a fare in culo e fa così”, aggiunge Feltri, mimando il gesto dell’ombrello. Poi lancia un monito ai conduttori, Luca Telese e David Parenzo: “Vi ammiro molto, perché vi appassionate ancora a questi discorsi di politica. Io invece vi prego di non invitarmi più perché questi discorsi mi hanno rotto i coglioni in un modo pazzesco. Quindi, basta. Risparmiatemi la continuazione di questo dibattito”.

Peggio dei fascisti ci sono solo gli antifascisti, scrive Filippo Facci il 12 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". È proprio una legge stupida, come tutte le leggi che non saranno neanche dannose perché si riveleranno inutili, all' italiana, accomodate, non applicate, aggiustate a colpetti di giurisprudenza, una pacchettina sulle spalle dell' onorevole Pd Emanuele Fiano (primo firmatario) che incasserà l' ennesimo medaglione richiesto dalla comunità ebraica, che beninteso, fa il proprio lavoro di eterna recriminazione e sfruttamento dei sensi di colpa di destra e sinistra: ma quando riesce a mettere d'accordo i grillini e Salvini e persino la logica, beh, qualche domanda la Comunità dovrebbe porsela. Per esempio questa: non sarà mica stupida davvero, una legge come questa? Ma stupida-stupida, controproducente, buona per rendersi antipatici a qualsiasi persona assennata di qualsiasi partito. Serviva proprio, la legge? C'era l'attualità della «propaganda del regime fascista e nazifascista» da punire sino a 2 anni e 8 mesi? Se proprio obbligati, potevate fare almeno una legge finto-moderna che prevedesse un'aggravante per i trascurati siti internet che fanno propaganda fascista e nazista, insomma una cosa magari egualmente criticabile, ma almeno tecnica, aggiornata, sul pezzo. Invece la legge si occupa di «immagini» e «simboli» e loro «produzione, distribuzione, diffusione o vendita»: di che cosa. Esattamente? Di che parliamo? Parliamo dei manigoldi che vendono magliette col profilo di Mussolini, degli scemotti che si fanno fotografare mentre fanno il saluto romano, del sangiovese con l' etichetta del Duce, dei vecchietti che alle fiere militari vendono cimeli per rincoglioniti nostalgici (vera ossessione di Fiano da anni) e quindi di busti, gagliardetti, paccottiglia, poi ecco, ci sarebbe il problema dei francobolli e delle monete e delle riviste e dei manifesti, le foto, i vestiti, tutto il collezionismo, l'arte, in teoria l' architettura, magari l' Eur. Nel marzo del 2015 il tribunale di Livorno aveva assolto quattro tifosi veronesi che avevano fatto il saluto romano durante una partita, in quanto slegato, il saluto, a un concreto pericolo di una concreta riproposizione di un movimento politico fuorilegge: il Pd di Emanuele Fiano invece li avrebbe voluti incarcerare, presumiamo. L'anno scorso l'ebreo Filippo Bolaffi (amministratore dell'omonima casa d' aste nata con la filatelia più d' un secolo fa) la mise così: «Io non terrei mai in casa certi reperti, ma proibirli significa negare la storia». Così sulla Stampa nel gennaio 2016. E dovevano ancora approvare un'altra legge stupida e inapplicata, quella sul negazionismo storico (giugno 2016) che introduceva la galera da 2 a 6 anni quando la propaganda e l'incitamento all' odio razziale si fossero fondate «in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra». Fu un altro inutile casino, perchè si citavano «la Shoah o i crimini di genocidio» come se appartenessero a una classificazione storica tra loro diversa (festeggiò solo l'Unione delle Comunità Ebraiche, infatti) e come se sulla definizione dei genocidi (altri genocidi) non fioccassero disaccordi di natura storica: bene, ora si lasciava tutto nelle mani dei magistrati. Morale: uno studioso di sinistra come Marcello Flores (direttore dell'Istituto storico della Resistenza e curatore della Storia della Shoah per Utet) si ritrovò indirettamente d' accordo con Carlo Giovanardi o con Pietro Ichino: quella legge era un pasticcio infernale. Quello degli armeni fu genocidio o massacro? E che si doveva fare coi libri serissimi che nelle biblioteche negavano certi crimini di guerra come fece anche Montanelli con l'uso dei gas italiani in Etiopia? E quello di Srebrenica fu genocidio o no? E che dire dei tribunali di Buenos Aires che negarono lo status di genocidio alla repressione militare argentina? E che dire di quei libri che ancor oggi giustificano o «contestualizzano» i milioni di morti dello stalinismo? Persino Giorgio Napolitano scrisse cose imbarazzanti sul ruolo di Solzenicyn durante l'intervento sovietico a Budapest nel 1956, che facciamo? Ecco, a proposito: l'anno scorso Il Giornale allegò una copia del "Mein Kampf" come documento storico: non fu propaganda? I libri no, i francobolli sì? Parentesi: in Italia il "Mein Kampf" è sempre stato pubblicato da un'editrice decisamente di sinistra (la Kaos) che editava anche libri di Karl Marx, Dario Fo, Luigi Pintor e Mino Pecorelli: significa che il suo pubblico di sinistra era sensibile alla propaganda nazista? No, ovviamente: significa solo che i libri non si censurano (mai) e che le idee non sono (mai) reati anche se ieri l'onorevole Fiano spiegava ai grillini che «il fascismo non è un'idea, è un crimine». Una scemenza che non bisogna aver paura di definire scemenza, perché confonde le idee con gli uomini che se ne impossessano: criminali erano Stalin o Mao, non il comunismo di Karl Marx; criminale era Pol Pot, non il Partito dei Lavoratori in cui prosperò; criminale era Hitler, non il nazionalsocialismo che gli preesisteva da trent' anni; Emanuele Fiano può ritenere criminale anche Mussolini, se vuole, non sarebbe il solo, ma non il fascismo dei precursori Marinetti, D' Annunzio, Prezzolini, Papini, Georges Sorel (col suo sindacalismo rivoluzionario) e tutto ciò che fa comunque parte delle idee, non degli uomini che se ne sono fatti scudo. Non dei vecchietti che il Pd di Renzi vorrebbe punire, rompendogli le palle perché collezionano cimeli nostalgici che gli ricordano la giovinezza. E poi? Che cosa faremo? Lasceremo che inneggiare a Stalin o a Bin Laden invece resti normale? Proibiremo anche quello? Rischieremo di dover dar ragione all' onorevole Renato Brunetta che provocatoriamente (speriamo, diosanto) ieri proponeva di introdurre nella legge Fiano anche l'apologia di comunismo? Ma basta domande. La risposta l'abbiamo già tutti: è una legge stupida. Filippo Facci

"Quel cane è fascista, non lo vogliamo". Filippo Facci, la verità sul segugio camerata l’8 novembre 2016 su “Libero Quotidiano”. Il primo tempo è ambientato nel consiglio comunale di Albenga. È la sera di giovedì 3 novembre e maggioranza e opposizione stanno discutendo di sicurezza. Si sapeva che il comando dei vigili stava per comprare un cane antidroga (ufficialmente: stava per istituire un’unità cinofila) perché quello dello spaccio è un problema molto sentito e la criminalità locale è molto cresciuta, ma qualcosa nell' acquisto del cane è andato storto e il centrodestra vuole capire perché. «Il sindaco vuole solo cani del Pd, e, se possibile, per il sì al referendum» tuonano i consiglieri di Forza Italia e Lega Nord. Pausa di stordimento. Poi riattaccano: «Risulta che al comando dei vigili, in cui si erano iniziate le prime trattative, sia stato suggerito l’allevamento "Decima Mas" visti i prezzi più convenienti, ma che poi sia intervenuta la Cgil per proibire l’acquisto di cani fascisti». Rumore in sala. A parlare è Eraldo Ciangherotti, consigliere di Forza Italia che per qualche ragione ha in mano una foto del Duce e quella di un pastore tedesco. Un membro della maggioranza, bevendo un caffè al bar, gli ha raccontato questa strana storia. E il dibattito, in aula, si scalda. La maggioranza dapprima ci gira intorno alla democristiana: «La politica sulla sicurezza di questa amministrazione», taglia corto l’assessore Manlio Boscaglia, «è basata sul riportare i vigili in strada e sul potenziamento della videosorveglianza»; «attualmente le nostre risorse», precisa il sindaco piddino Giorgio Cangiano, «non ci permettono di investire per acquistare un cane». I consiglieri si guardano in faccia. «Non neghiamo il problema dello spaccio e della microcriminalità», conclude il sindaco, «ma le iniziative intraprese al momento non contemplano questa possibilità». Non hanno i soldi per il cane. Albenga ha un bilancio di 41 milioni di euro e il cane ne costerebbe 800, dopodiché, tra addestramento e mantenimento, si arriverebbe a 7mila. Ci credono tutti. Il dibattito esplode. L'opposizione: «Avete appena speso 35 mila euro per comprare un secondo autovelox per fare cassa, ma l’amministrazione del Pd non vuole tirare fuori i soldi per il cane». Tra l’altro risulta che la delibera per comprarlo stesse per arrivare in giunta, ma poi dev’essere successo qualcosa. Si mormora di un veto non solo della Cgil, ma anche del cugino piddino del sindaco. Boh. Ed è proprio il sindaco il primo a cedere: «Il motivo principale per cui abbiamo deciso di respingere la proposta è che prevede dei costi per noi eccessivi... poi, certo, il nome dell’allevamento da cui proviene, "Decima Mas", ha un ruolo nella nostra scelta». Decima Mas. È il nome del corpo d' armata della Repubblica Sociale (dove militò anche Dario Fo con Valter Chiari, Enrico Maria Salerno e Giorgio Albertazzi), ma anche il nome dell’allevamento che aveva fatto l’offerta più conveniente e, pare, qualificata. «È una questione di rispetto per la storia di Albenga», aggiunge il sindaco, «perché se dovessimo prendere un cane antidroga lo faremmo da un altro allevamento, non da uno che porta il nome della milizia anti-partigiana». Fine primo tempo. Lo scrivente approfitta per ricordare che nel giornalismo, quando una storia c' è, non serve sprecare avverbi e aggettivi. Secondo tempo, dove intervengono anche l’Associazione partigiani e Forza Nuova. È il 5 novembre quando la sezione locale dell’Anpi (l’associazione partigiani, appunto) scende dall' iperspazio e interviene con solennità: «Condanniamo fermamente la leggerezza con cui un rappresentante delle istituzioni si permette di trattare il periodo del fascio. È vergognoso che in consiglio comunale si mostri una foto del duce». Ah, il problema è la foto. Il presidente dell’Anpi di Albenga, Claude Acasto, ce l’ha con Eraldo Ciangherotti (Forza Italia, odontoiatra, cattolicone) per quell' immagine portata in aula. «Chiediamo che tutte le istituzioni», insiste l’Anpi, «intervengano per stigmatizzare questa stupidata. Albenga è conosciuta come una delle città che ha dato il contributo più alto alla causa della Resistenza, l’antifascismo è un valore fondante della nostra città che non può essere sbeffeggiato e calpestato per argomenti così futili come l’acquisto di un cane». Eh, appunto. «Su questo avevamo già espresso i nostri più che legittimi dubbi», insiste tuttavia l’associazione, «non solo per la spesa, ma anche per il richiamo al canile di Ancona della Decima Mas». Manca nessuno? Sì: l’Anpi di Ceriale (5000 abitanti al confine con Albenga) fa sapere che «concorda appieno con le considerazioni dell’Anpi di Albenga». Ce lo segniamo. E, sull' allevamento, aggiunge che «il canile (sic) ha raggiunto una certa notorietà ostentando simboli chiaramente nostalgici-fascisti». Parentesi: l’allevamento "Decima Mas" (senza X) non sta proprio ad Ancona ma ad Agugliano (Marche) e non è la cuccia di un nostalgico che ha il busto del duce in tinello, ma un allevamento qualificato e conosciuto in tutto il mondo che ha fornito cani alle forze dell’ordine statunitensi, per dire; probabilmente avete visto i loro cani in qualche video sulle ricerche dei superstiti del terremoto. Sono pastori tedeschi hanno passato gli esami della Protezione Civile e che hanno vinto tutti i concorsi e campionati possibili, ma chissà, forse sono cani fascisti. Forse l’Anpi preferirebbe un pastore bergamasco (nel senso di cane) col barilozzo di cordiale. Dimenticavamo il fondamentale intervento di Forza Nuova, che dice cose sensate e perà è Forza Nuova: «Prendiamo atto che il sindaco rifiuta di contrastare il mercato della droga utilizzando tutti gli strumenti che potrebbe avere a disposizione, negando l' arrivo di un esperto cane antidroga per una stupida pregiudiziale antifascista... gli ricordiamo che gli Eroi della Decima Flottiglia Mas si resero protagonisti di azioni talmente ardite da meritarsi medaglie d' oro al valore militare e, soprattutto, il rispetto del nemico». Bene. Hanno parlato tutti? Quasi: «Bau», ha infine dichiarato una fonte che ha preferito mantenere l’anonimato. Titoli di coda. Del cane. Filippo Facci

MALEDETTO 25 APRILE.

«Vi racconto di mio zio ucciso dopo il 25 aprile». Caro Aldo, la sua risposta sul fascismo e il comunismo mi ha portato a riaprire la bella scatola di legno intagliata piena di ricordi del mio nonno paterno. Un vecchio ritaglio di giornale racconta di un suo fratello, lo zio Michele. Uomo buono, competente e fiducioso, era dirigente della Magneti Marelli, commissariata, come tutto in quel tempo, voglia o non voglia, prima dal regime fascista poi dal Cln. Occorreva stare zitti e pagare se non volevi compromettere la produzione e far perdere posti di lavoro. Non passarono molti giorni dal 25 aprile che un gruppetto di partigiani andò a prelevarlo sotto gli occhi della moglie e due figli piccoli per portarlo in una zona di campagna, presso il cimitero di Crescenzago, crivellarlo di colpi e lasciare il cadavere a ridosso di un fosso. Era il 5 maggio del ‘45, il terribile conflitto era finito per tutti tranne per quei non pochi partigiani assetati di vendetta: zio Michele fu una delle tante, troppe persone uccise per motivi politici nell’immediato dopoguerra. Da allora la mia famiglia espone il Tricolore alla finestra, non solo per non dimenticare, ma soprattutto per affermare la nostra appartenenza, grati di vivere in un Paese libero. Laura Soliveri 20 luglio 2017

Risponde Aldo Cazzullo. Cara Laura, Grazie per la sua splendida lettera, che non mi sono sentito di tagliare. Dopo il 25 aprile ci furono, com’è noto, moltissime esecuzioni sommarie. Vanno condannate. Ma non furono tutte uguali. Ci furono violenti, molti dei quali erano stati partigiani (magari dell’ultima ora), che regolarono nel sangue questioni private, dettate da antiche rivalità o da odio sociale. Ci furono comunisti, in Emilia ma non solo, che ritenevano imminente la rivoluzione e pensarono di portarsi avanti eliminando con spietatezza ideologica proprietari agricoli, sacerdoti, partigiani «bianchi» e altre persone che ritenevano ostili al loro progetto liberticida (sul confine orientale il massacro era già cominciato prima del 25 aprile, come a Porzus). Credo che l’assassinio di suo zio, cara Laura, sia a cavallo tra queste due categorie. Ci furono poi esecuzioni di criminali di guerra che alla sensibilità contemporanea appaiono inaccettabili — tutti hanno diritto a un processo —, ma all’epoca apparvero inevitabili. Anche alla luce dell’amnistia — firmata dal leader comunista Togliatti — che lasciava impuniti financo i torturatori, purché le torture non fossero particolarmente efferate e continuate; e con questa motivazione vennero mandati liberi uomini che avevano evirato altri uomini, perché non di tortura continuata si trattò. Ne riparleremo, perché vorrei raccontarle sia la storia nascosta di un borgo sull’Appennino toscano, sia la fine del maggiore Meyer, sia una pagina di Beppe Fenoglio.

Un terribile passo di Beppe Fenoglio, risponde Aldo Cazzullo domenica 23 luglio 2017. Caro Aldo, quindi sulle vendette partigiane lei dà ragione a Pansa? Luca Rossi, Torino

Caro Luca, I libri di Pansa scrivono cose vere. Chi dice che erano già conosciute sbaglia; altrimenti, perché i suoi libri hanno venduto così tanto e sono stati tanto discussi? Sono cose che si devono sapere. Così come si deve sapere quel che è accaduto prima: Boves, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, la Benedicta… Ricorderò sempre il giorno dell’aprile 2010 in cui arrivai in un borgo dell’Appennino tosco-emiliano, nel cuore dell’Italia rossa. Stavo facendo un’inchiesta sull’ascesa della Lega nelle regioni ex comuniste, e lì la Lega aveva preso il 40%. Prima era molto forte il Msi, poi An; ma nessuno mi voleva dire il motivo. Poi un signore anziano mi raccontò una storia del 1945: in paese erano arrivati i partigiani, avevano preso suo zio e altri tre capifamiglia benestanti, li avevano portati sul monte Tondo, li avevano costretti a scavarsi la fossa e avevano sparato; suo zio si era salvato, gli altri erano stati uccisi. Alle vedove fu fatto sapere dove trovare i corpi. Ripeto: ci furono dopo il 25 aprile esecuzioni segnate dall’odio sociale; ce ne furono altre dettate da un preciso disegno ideologico; e ci furono regolamenti di conti che oggi ci sembrano inaccettabili ma all’epoca parvero inevitabili — tutti hanno diritto a un processo —; anche perché è difficile che vent’anni di dittatura e venti mesi di guerra civile con deportazioni, incendi, torture, impiccagioni passino senza conseguenze. A Villadeati il maggiore Meyer aveva fucilato civili inermi, compreso il parroco, don Ernesto Camurati, che aveva offerto la propria vita per salvare i fedeli. Un partigiano, Bartolomeo detto Trumlin, promise ai concittadini che a guerra finita avrebbe portato il tedesco in paese. Meyer fu arrestato e chiuso in carcere. Trumlin se lo fece consegnare e lo portò a Villadeati. La storia ufficiale parla di esecuzione, ma in Monferrato gira un’altra versione: «Ho mantenuto la parola, qui fuori c’è il maggiore Meyer. Fate in fretta» avrebbe detto Trumlin ai parrocchiani di don Ernesto. C’è un terribile passo di Beppe Fenoglio in Una questione privata, in cui un vecchio dice a Milton: «Tutti, tutti li dovete ammazzare, perché non uno di essi merita di meno. La morte, dico io, è la pena più mite per il meno cattivo di loro. Con tutti voglio dire proprio tutti. Anche gli infermieri, i cucinieri, anche i cappellani. Ascoltami bene, ragazzo. Io ti posso chiamare ragazzo. Io sono uno che mette le lacrime quando il macellaio viene a comprarmi gli agnelli. Eppure, io sono quel medesimo che ti dice: tutti, fino all’ultimo, li dovete ammazzare…». Questo ovviamente non era il sentimento di Beppe Fenoglio, che non fece male a nessuno (e votò monarchia al referendum). Ma era un sentimento che esisteva nei luoghi in cui la guerra civile era stata più dura.

25 aprile tra divisioni e polemiche tra Roma e Milano. Mattarella: “Ricordiamo senza odio né rancore, grati alla Brigata ebraica”. Nella capitale doppio corteo, uno dell’Anpi e l’altro della Brigata ebraica (contraria alla presenza di organizzazioni palestinesi alla sfilata dei partigiani) che ha ribadito: «La storia è qui, il resto sono menzogne», scrive il 25/04/2017 “La Stampa”. Settantadue anni fa hanno combattuto fianco a fianco per liberare l’Italia dal nazifascismo. Oggi si è celebrata quella ricorrenza, una festa di Liberazione sì ma anche di divisione. Così è successo a Roma, dove questo 25 Aprile ha avuto due piazze, una dell’Anpi e una della Comunità ebraica, contraria alla presenza delle organizzazioni palestinesi alla sfilata dei partigiani. A Milano ha prevalso l’unità, non senza qualche contestazione arrivata all’indirizzo della Brigata ebraica da parte dei movimenti anti Israele. Una Milano che il sindaco Beppe Sala ha salutato come «centro di un grande progetto per la pacificazione». 

A Roma le celebrazioni si sono aperte con il ricordo istituzionale al Vittoriano: il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha reso omaggio al Monumento del Milite Ignoto all’Altare della Patria. Ma nella Capitale la divisione ha pesato: Anpi da una parte e Brigata ebraica dall’altra, come preannunciato, nonostante gli appelli all’unità. L’ultimo, oggi a Porta San Paolo, del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti: «Mi auguro che da oggi parta una riflessione per ricomporre tutte le componenti che lottarono per ridarci questa libertà». A via Balbo il vicepresidente della Comunità ebraica romana Ruben Della Rocca ha tagliato corto: «La storia è qui, il resto sono solo menzogne». Il rabbino capo Riccardo Di Segni ha aggiunto: «Il terrorismo che in questi anni sta devastando l’Europa ha avuto una scuola importante e noi sappiamo qual è», e a margine ha spiegato: «Alludevo ai palestinesi». Ma si è anche augurato che «il prossimo anno si torni in piazza insieme». Il valore della memoria «affinché la storia di un passato così buio non torni più» è stato l’auspicio della sindaca Virginia Raggi, che ha partecipato ad entrambi i cortei «con la stessa passione»: «Il 25 Aprile è una festa di tutta l’Italia». Ed è spettato al presidente Anpi Roma Fabrizio De Santis parlare della sua come di una «piazza unitaria e senza polemiche». 

Corteo unitario a Milano dunque, e divieto di sfilare nella zona del cimitero dove sono sepolti i repubblichini per l’estrema destra. Dal palco di Piazza Duomo il presidente nazionale dell’Anpi Carlo Smuraglia ha salutato così i manifestanti: «Eccolo qui il nostro 25 aprile, decine di migliaia di persone in piazza per una festa», ma ha anche ammonito chi «coglie l’occasione per fare provocazioni sciocche e inutili» e «le strumentalizzazioni fatte da chi ritiene l’Anpi inutile perché i partigiani sono sempre di meno: sciocchezze». Il sindaco Sala ha parlato della sua città come «libera, aperta e accogliente»; presenti anche i segretari confederali di Cgil e Uil. 

A Genova sempre Smuraglia ha ricordato a piazza Matteotti che «ci sono ancora troppi fascisti in giro, non importa se con la camicia nera o fascisti dentro. Quanto ci vuole perché lo Stato faccia il suo dovere?». Nel Cosentino vandali hanno danneggiato l’ingresso del campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, mentre ad Ascoli Piceno sono state ricordate anche le vittime del terremoto. E ha assunto anche toni contro il razzismo il corteo di Benevento al quale ha partecipato un nutrito gruppo di migranti. A Cagliari un gruppo di donne ha sfilato portando a piedi la bicicletta in ricordo delle partigiane che durante il conflitto davano una mano, spesso come staffette, alla lotta. 

A Torino, al cimitero Monumentale, c’è stato l’omaggio ai caduti con corteo e deposizione delle corone di fiori ai cippi. Ieri sera a Cuneo si è tenuta una fiaccolata in memoria di Giulio Regeni. A Firenze in piazza Unità Italiana è stata deposta la corona di alloro alla base al Monumento ai Caduti di tutte le guerre alla presenza delle autorità. Partigiani, sindacati e sinistra antagonista hanno sfilato insieme. A Napoli cerimonia al Mausoleo di Posillipo e in piazza Carità davanti al monumento a Salvo D’Acquisto. A Bari deposizione delle corone di alloro al sacrario dei caduti d’Oltremare alla presenza delle autorità. A Palermo deposta in mattinata la corona di fiori presso il cippo del Giardino Inglese.  

Il 25 aprile non c'è più nulla da festeggiare, scrive il 26 Aprile 2017 Vittorio Feltri su "Libero Quotidiano". Dopo 72 anni siamo ancora qui a festeggiare il 25 aprile e a fingere di lottare contro il nazifascismo inesistente. Mi fanno pena quelli che vanno in giro, di qua e di là, a sfilare come se la liberazione fosse avvenuta ieri. Sono quattro gatti esaltati e patetici. Pochi hanno memoria di ciò che accadde alla metà degli anni quaranta e quei pochi lo ricordano per sentito dire. I partigiani erano una sparuta minoranza di italiani ininfluenti ai fini bellici e sono morti quasi tutti per ovvi motivi di età. I sopravvissuti alla dura legge dell’anagrafe, mosche rosse, hanno come minimo 90 anni e non sono in grado di andare in piazza, è già tanto se si reggono in piedi. Le tristi manifestazioni organizzate ieri sono state alimentate dalla più vieta retorica, che può avere emozionato solo qualche nostalgico delle squallide bandiere vermiglie. Spettacoli di una mestizia struggente. La Resistenza ormai va archiviata per quello che fu: un movimento elitario o, meglio, trascurabile in un Paese fino all’ultimo ad alta densità di fascisti. Ovvio, quando poi il baraccone di Benito Mussolini è crollato sotto i bombardamenti degli alleati e le masse hanno constatato (...) (...) che il conflitto era straperso, mentre i tedeschi si incattivivano con la collaborazione dei repubblichini sui partigiani, il vento è cambiato e le simpatie nei confronti del duce si sono trasformate in odio. Resta il fatto che il descritto mutamento è avvenuto nei tempi supplementari concessi al regime azzoppato il 25 luglio 1943 quando il re spedì il capo in camicia nera sul Gran Sasso. Farla tanto lunga col presunto eroismo di quelli all’epoca definiti ribelli, molti dei quali sbandati (incerti se stare coi fasci o coi comunisti, figli della stessa mignotta) serve soltanto a illudersi che gli italiani, subìto per oltre venti anni il giogo sulle spalle, si siano sollevati contro l’oppressore. Diciamola tutta e senza ipocrisia: non fossero arrivati in nostro soccorso gli angloamericani noi saremmo ancora a piazza Venezia irrigiditi nel saluto romano e inneggianti al dittatore, vendutosi a Hitler per un sacco di lenticchie in cambio di orrende leggi razziali e di una alleanza bellica sciagurata. Nella fase terminale della battaglia in Italia non si sono registrati episodi eroici degni di commemorazione. I nostri nonni si sono semplicemente lasciati andare, causa rancori mai sopiti, a una sanguinosa guerra civile ovvero uno squallido regolamento di conti. Risse e vendette che non è il caso di ammantare di gloria. Quanto all’Anpi, Associazione nazionale partigiani italiani, i cui iscritti sono degli zombie, teniamola pure in vita, ma smettiamo almeno di finanziarla con denaro pubblico. Rappresenta soltanto la propria inutilità.

25 Aprile, giorno del rancore, scrive il 25 aprile 2017 Luigi Iannone su "Libero Quotidiano". Il 25 Aprile è la festa più tediosa e incomprensibile dell’anno. E non lo dico per repulsioni tardo nostalgiche o per fatto estetico e avversione visiva a drappi rossi o similari ma perché è una ricorrenza che si dice ‘democratica’ ma discrimina più persone di quante non ne facciano tutte le altre feste comandate messe insieme. Niente di più che un raduno di vincitori che non hanno mai avuto e, tuttora, non hanno umana pietà per i vinti. In Spagna questa vicenda la superarono subito con la Valle de los Caídos. Un solo cimitero affinché fratelli combattenti su fronti opposti potessero riposare tutti, per sempre e in pace. Da noi, no! L’odio resiste imperituro e si alimenta non raramente su una Storia scritta male e commentata e spiegata ancora peggio. Più che festa trattasi di apologia della contrapposizione perpetua che coinvolge tutti, anche le nuove generazioni. Siamo al caos generalizzato sul fronte della corretta interpretazione storiografica ma all’inquadramento e al rigido manicheismo su quello organizzativo: e così ci ritroviamo partigiani che non vogliono la destra di qualunque forma o colore, ebrei che detestano i palestinesi che vorrebbero sfilare nello stesso corteo, progressisti che disprezzano i barbari leghisti, i trinariciuti che allontanano quelli di Forza Italia perché a lungo alleati dei post-fascisti di Alleanza nazionale, e potremmo continuare per decine e decine di righe. Una penosa vicenda che non conosce sosta ed è ancora più paradossale se si pensa che, con tutte le evoluzioni e involuzioni del caso, va avanti dalla fine della Seconda guerra mondiale. In ogni altro luogo della Terra chi si fregia della patente di democraticità e la celebra in una festa nazionale tende sempre ad accogliere e non a separare. Qui da noi è come una festa di famiglia trasformatosi in serata per Vip dove si fa selezione all’ingresso e si impedisce ai cugini, ai fratelli, ai figli, alle madri di prender parte. Non che vi siano fiumane di persone che bramino per entrare in questa annuale orgia del risentimento collettivo, tuttavia la boriosa selezione risulta stantia. È dunque una festa partita male e continuata peggio, qualificatasi per la peculiarità tutta italiana di quelle variegate colorazioni di rosso che imperversano per le strade e saturano di falsità i nostri libri scolastici (chi ricorda, per esempio, che i civili morti sotto i bombardamenti degli Alleati furono in numero maggiore rispetto alle pur deprecabili stragi naziste?); per una bandiera che simboleggia solo da noi, con una inconsueta potenza espressiva, democrazia e libertà mentre in giro per il mondo se ne guardano bene dal tirarla fuori ad ogni piè sospinto. E poi slogan triti e ritriti e linciaggio morale e politico per chiunque osi dissentire di una virgola rispetto al Verbo resistenziale. E non parlo solo di nostalgici e similari ma anche e soprattutto di coloro i quali hanno pure tentato in tutti questi anni di dare un senso al 25 aprile decrittando deficit e sconcezze, falsità storiografiche e reticenze; tentando in pratica di mettere sul piedistallo un minimo di verità condivisa senza far prevalere gli odi di parte o la difesa di una casacca. Qualcuno, per esempio, ricorda mai che il comunismo in tempo di pace ha mietuto più vittime che il nazismo in tempo di guerra? Lo si può fare? È permesso farlo? Invece, non c’è nulla da fare. C’è così tanta retorica in questa festa astiosa e divisiva, nutrimento quotidiano per gli istigatori di odio, che anche solo replicare alle solite nenie diventa atto para-terroristico e passibile di apologia di fascismo. Perché di questo si tratta. Si ostenta una vittoria militare ma allo stesso tempo una superiorità morale, e si nega con inaudita virulenza verbale e fisica la pietà per i morti dell’altra parte e gli sconfitti. E se per le prime due questioni possiamo intenderne le motivazioni primariamente culturali e politiche in un Paese come il nostro dove c’è necessità costante di un nemico, facciamo invece fatica a comprendere il disprezzo umano e il rancore verso combattenti passati a miglior vita oramai settanta anni fa. Molti di costoro, se non la quasi totalità, lottarono per una idea di Patria che oggi farebbe sorridere le giovani generazioni; ma per quello combatterono e non per altro. E molti di quelli che un attimo dopo la caduta di Mussolini si atteggiarono a strenui paladini dell’antifascismo, avevano passato la giovinezza cantando inni ultra-nazionalistici, concedendosi saluti romani a profusione e ascoltando ‘’il capoccione’’ parlare da Palazzo Venezia. Ma anche questa è cosa nota! E siccome la patria e la bandiera fino a qualche anno fa suscitavano l’orticaria a quasi tutti i rappresentanti del mondo cultural-politico-accademico come diretta conseguenza vi era il fatto che coloro i quali combatterono con in testa l’idea di una Patria da difendere fossero considerati degli illusi e degli sconsiderati. Ma queste convinzioni sono state tanto estese e vorticose che il 25 Aprile riesce comunque a oscurare ogni altra festa nazionale. Vi sono stati periodi anche recenti della nostra storia in cui sembrava dovesse fermarsi anche il battito cardiaco di ogni singolo italiano per permettere alle fanfare di ogni paesello di suonare con inaudita potenza Bella ciao. Gli anni dei governi Berlusconi li ricordiamo tutti; sembrava che un’orda di selvaggi in camicia nera si fosse impossessata del Paese e gli echi della lotta partigiana dovevano perciò ridestarsi con rinnovato ascendente su giovani e meno giovani, nelle scuole e nei luoghi di lavoro, alimentati da una grancassa massmediatica sempre prona. Eppure il 25 Aprile segna con un marchio di sangue una ‘guerra civile’. Una lotta armata fratricida dove fatti cruenti e indegni hanno coperto pagine di eroismi e coraggio. Morti innocenti perché dalla parte sbagliata; giustizia sommaria e violenza su donne inermi, colpevoli di aver condiviso brandelli di vita con un fascista e su anziani rei di aver mantenuto fede ad una idea. La Storia farà il suo corso ma in Italia è un scorrere lentissimo, sfiancante. L’antifascismo è infatti sin da subito divenuto religione laica inattaccabile, ma soprattutto strumento per carriere politiche, nelle università e nelle redazioni di giornali. Ecco perché non raramente si alimenta un fascismo virtuale proprio per mantenere in vita il carrozzone dell’antifascismo reale; antifascismo che per anni è stato predicato da coloro i quali esaltavano i carri armati a Budapest, attendevano l’arrivo di ‘Baffone’ o dipingevano il Maresciallo Tito come un buontempone. Gli stessi che ora sono talmente ideologizzati da essere antifascisti senza fascismo e magari erano usi al saluto romano e poi, in fretta e furia, in quella notte del 24 aprile, smisero la camicia nera per indossare quella rossa. Perché ciò che accadde da quella notte in poi è chiaro a tutti. I vecchi camerati divennero i nuovi compagni che, però, da più di mezzo secolo sono inseguiti dai loro fantasmi e scorgono il fascismo dappertutto. Eppure il fascismo è morto. È finito con Mussolini, e non vi potrà essere alcuna riedizione senza il ‘titolare’. Ma se il fascismo è morto e sepolto, l’Italia resiste ed esiste da tempo immemore. Ecco perché è utile ricordare almeno questo ai tanti soloni della democrazia repubblicana: l’Italia non nacque sulle colline insieme ai partigiani ma esisteva da qualche migliaio di anni. Se ne facciano una ragione.

Maledetto 25 aprile, scrive Nini Spirlì Lunedì 24 aprile 2017 su "Il Giornale". Può esserlo, maledetto, un giorno? Se chiudo gli occhi davanti al calendario e lo vivo come dono del Cielo, di Dio, no. Ogni alba è una carezza del Creatore, una possibilità in più di essere Umano e Divino insieme. E anche un qualsiasi 25 aprile è un regalo della Vita. Ma se, invece, ripongo la Corona del Rosario, tengo la mia Bibbia nella sua custodia di cuoio, cerco di dimenticare lo Scapolare che indosso h24 e la missione che dolcemente mi impone, e apro la porta a questa orrenda e incancrenita celebrazione politica e parziale, allora, sì! Questa giornata è maledetta dalle urla di migliaia di famiglie, colpevoli e innocenti, che chiedono giustizia e vendetta. Che odiano ancora perché sanno o perché non sanno. Che si tramandano livore e inimicizia a prescindere. Che meriterebbero, invece, salvifici silenzi. Oblio, piuttosto che ipocrite fanfare e reboanti proclami. Il fascismo è finito. O, forse no. E, se vive, è per “colpa” dei tanti “antifascisti”, che, da oltre settant’anni, si risvegliano ciclicamente per lucidare le aureole e affilare gli artigli. Se il fascismo “morisse”, a loro rimarrebbe ben poca visibilità e notorietà. E, dunque, è bene tenerlo in vita e garantirsi uno spicchio di telecamera. E il 25 aprile, per molti, è una sorta di Natale, di ferragosto, di Domenica di Pasqua. Un appuntamento solenne con la storia; quella che hanno scritto i vincitori, chiaramente. A prescindere da come abbiano potuto vincere. Combattendo o patteggiando, per esempio. Forse, più patteggiando che combattendo. Ma senza voler polemizzare, una cosa resta evidente. Gli animi, anche dopo lo scoccare del secolo e del millennio, non sono sereni. I cuori non conoscono pace. Le menti non hanno trovato la via. La liberazione da cotanto doloroso ricordo non è avvenuta. E la guerra civile continua. Anche nel ventre delle famiglie che, di quella guerra, non solo non ne hanno sentito le mitraglie, ma non ne possono serbare ricordo, perché nate tempo dopo. Molto tempo dopo. Maledetto 25 aprile di divisioni e malanimi. Veri e presunti.

Ma quale festa della liberazione? Oggi siamo più oppressi di prima, scrive il 24 aprile 2017 Andrea Pasini su "Il Giornale". “Se la libertà significa qualcosa, allora significa il diritto di dire alla gente cose che non vogliono sentire”. Da questo spunto, arrivatomi da George Orwell, mi introduco nel mondo dell’ipocrisia targata 25 aprile. Un sentimento che non si sviluppa soltanto nelle ventiquattro ore dedicate alla Liberazione, ma che permane nella mentalità della sinistra italiana. “È sempre tempo di Resistenza” ha affermato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo scorso anno durante i festeggiamenti. “Una festa di speranza ancor di più per i giovani”, l’ha definita invece nel 2015. Speranze di un futuro diverso. Ma quale futuro può nascere con il sostegno inesistente di questa classe politica. Un futuro in cui manca il rispetto per la propria nazione? In cui si canta Bella Ciao ignorando quanti morti, da un fronte all’altro, la storia ci ha portato in dono. Ricordo ancora una frase, di dodici mesi fa, pronunciata dalla più alta carica del nostro Paese: “Battersi per un mondo migliore è possibile e giusto”. Per questo motivo vi dico che serve una nuova giornata della Liberazione. I cittadini italiani si trovano nuovamente ed infinitamente vessati. Serve una nuova Liberazione, ma dall’attuale classe politica. Classe politica egoista ed arrivista capace di riempirci le orecchie con i suoi discorsi composti da bei virtuosismi. Parole che evocano la libertà, la giustizia, l’onestà, ma che nascondo l’orgoglio lugubre di un passato nefasto, lasciando aperto uno spiraglio in direzione del comunismo. Vergognoso. Una bassezza culturale figlia della falsità, incapace di concepire dei limiti. Serve un nuovo 25 aprile, una giornata per celebrare la riconquista della dignità dell’Italia. Una giornata non sia tinta di rosso o marchiata da una falce ed un martello, ma che abbia come punti di riferimento l’abbattimento delle tasse, la distruzione della pachidermica burocrazia e ridoni fiducia ad un popolo sull’orlo del suicidio. Una Liberazione da un governo ingiusto capace solamente di spendere i soldi da noi guadagnati con estremo sacrificio. Danaro, regalato, per mantenere i clandestini, che arrivano in numero sempre maggiore sulle nostre coste. Una Liberazione dalle istituzioni che mantengo i rom tutelandoli ben più degli italiani. Permettendogli di non lavorare, di non pagare le imposte e di usufruire di tutti i servizi per i quali paghiamo uno sproposito. Una Liberazione da un sistema vessatorio a dir poco criminale. Sistema che ci obbliga a pagare senza darci nulla in cambio. Una Liberazione da una politica anti-tricolore che vede i nostri connazionali costretti a vivere nelle automobili o sotto i ponti, mentre ai clandestini viene concessa la possibilità di alloggiare in alberghi. Abbiamo il dovere di batterci per una nazione in cui le istituzioni non siano nemiche delle imprese. Uno Stato volenteroso di aiutare i suoi cittadini a trovare un lavoro, mantenerlo e costruirsi un percorso. Uno Stato che metta gli italiani al primo posto e chiunque purché non sia nato da Bolzano a Palermo. Quale Liberazione può essere festeggiata sapendo che ogni giorno aumenta la povertà nelle famiglie italiane? Partiti di destra, di sinistra e movimenti vari hanno tradito il proprio popolo. Ci fanno credere che la libertà sia nostra, ora e per sempre, dopo essere stata “conquistata” il 25 aprile 1945. Ci tradiscono parlando di speranza, ma il domani racconta di teste chinate e sguardi persi. Sventolano le loro bandiere, mentre un’altra serranda viene abbassata senza che nessuno dica niente. La sovranità e la dignità ci spettano di diritto, questo dobbiamo rivendicare il 25 aprile. Gridandolo forte, con tutto il fiato che abbiamo in gola. È ora di ricordalo a questi politici. È ora di ricordarlo a noi stessi. Serve una rivoluzione per combattere tutto questo schifo che giorno dopo giorno ci sta distruggendo. La nostra storia è in pericolo, le nostre radici e la nostra dignità vanno al macero. Tutto questo ha un unico mandante ed esecutore il sistema politico-finanziario, le lobby che vogliono renderci schiavi, che vogliono portarci via tutto quello che siamo stati in grado di costruire nel tempo. Il lavoro dei nonni, dei padri, degli avi bruciato nel nulla. Noi dobbiamo lottare, non celebrare una festa che non esiste. Quale Liberazione? Quale libertà? Oggi siamo più oppressi e schiavi di prima, ce ne vogliamo rendere conto o no? Vogliamo riprenderci, con coraggio senza avere paura, la nostra vita e la nostra rispettabilità? Perché adesso il problema incombe sulle nostre teste, ma domani a pensarci saranno le nuove generazioni, nonché i nostri figli. Vogliamo costringerli a vivere un’esistenza da vittime? Io no, non ci penso neanche lontanamente. E voglio combattere per riconquistare la vera libertà. 

"La Resistenza è solo un falso mito. La retorica della Liberazione è finita". Parla Arrigo Petacco, giornalista, storico e scrittore. "Sono state dette molte balle". Intervista del 24 Aprile 2016 su “Il Tempo”.

«Il 25 aprile, finché c’è stato il Partito comunista italiano, è stato molto festeggiato. Adesso assai meno perché sulla Liberazione e sulla Resistenza ci hanno costruito sopra un sacco di castelli di carta». A parlare, in questa intervista a Il Tempo è Arrigo Petacco, giornalista, storico, scrittore, autore anni fa della celebre intervista ad Indro Montanelli in cui il giornalista toscano parlò della guerra in Abissinia cui aveva partecipato, dicendo che «era come il West per gli americani: la nuova frontiera, un paese nuovo dove costruirci un’esistenza diversa. Andammo laggiù pure per sfuggire alle liturgie del regime. Ma anche lì arrivarono i gerarchi tronfi e buffoni. Fu il trionfo delle bischerate di Starace. Ci sentimmo traditi».

Petacco, quali sarebbero i castelli di carta?

«Diciamolo chiaramente, se non ci fossero stati gli americani la Resistenza non ci sarebbe mai stata. Si tratta di una retorica enorme e anche di qualche balla. All’epoca al Pci della patria non gliene fregava niente e il gruppo storico dei comunisti "inventò" il mito della Resistenza affinché sembrasse una lotta di popolo».

Non starà esagerando?

«L’hanno fatta in ottantamila partigiani che, poi, non erano neppure comunisti. Io sono stato un partigiano quando avevo 16 anni. Pochi anni dopo la guerra scrissi un libro, senza mitologia, "I ragazzi del 44", la storia di un partigiano un po’ per caso alle prese con problemi più grandi di lui, che mi venne rifiutato. Trenta e passa anni dopo, quando ero divenuto famoso per altre cose, me lo pubblicarono. Mi viene in mente il mito dei garibaldini dopo l’Unità d’Italia».

Che c’entrano i garibaldini con il 25 aprile?

«Ai tempi dell’Unità nazionale i garibaldini erano degli eroi del momento poi, col passare del tempo ne rimase solo uno, ma tutti si dicevano garibaldini. Oggi i partigiani che hanno fatto la Resistenza son tutti morti. O quasi. Ma sul mito della Resistenza, come sull’essere stati partecipi alla spedizione dei Mille ai tempi di Garibaldi, sono state costruite carriere, anche da chi non c’era affatto. Molte persone, io li definisco i partigiani del giorno dopo, ne han fatto una professione, magari con un bel fazzoletto rosso al collo».

Se come lei sostiene la Resistenza è stata un falso mito, perché gli italiani ci credono da così tanto tempo?

«Ci han creduto perché gli italiani son fatti così, come hanno fatto a credere per 20 anni a Benito Mussolini?».

Vuol dire che al popolo italiano piace salire sul carro del vincitore?

«Dopo il Risorgimento i famosi Mille di Garibaldi erano diventati 25mila. È normale salire sul carro del vincitore, lo fanno anche negli altri paesi, solo che in Italia lo facciamo con più entusiasmo».

C’è un libro che avrebbe voluto scrivere e non ha scritto?

«Sulla Resistenza "Il sangue dei vinti", l’ha scritto il giornalista Giampaolo Pansa, sulle esecuzioni e i crimini dei partigiani, un libro che ha avuto successo perché scritto da un giornalista che era visto come un uomo di sinistra».

Che intende dire?

«Che quelle critiche così feroci sulla Resistenza scritte da uno non di sinistra sarebbe state considerate una lesa maestà. Adesso le racconto una confidenza: negli anni Settanta, un editor della Mondadori, mi disse che era arrivato il tempo di scrivere un libro contro la Resistenza, ma io non ho mai avuto il coraggio di scriverlo. Pansa ha scritto la verità, verità che alcuni fascisti avevano già scritto prima di lui ma nessuno ci credeva, penso ad esempio a un fascista come Giorgio Pisanò. Non gli hanno creduto perché era ancora un fascista convinto e lo accusavano di essere un diffamatore».

Sul fascismo ha scritto diversi libri revisionisti. Lo rifarebbe?

«Io ho rotto un tabù, a sinistra mi hanno definito un revisionista, ma io me ne vanto».

Tempo fa sul Blog di Beppe Grillo ha sostenuto che Mussolini non fece uccidere Giacomo Matteotti. Ne è sicuro?

«Mussolini non aveva nulla a che fare con l’omicidio Matteotti, che fu ucciso dai fascisti che volevano impedire a Mussolini di fare un governo coi socialisti. Tenga presente che eravamo nel 1924, prima della svolta autoritaria. Mussolini ripeteva che gli avevano gettato il cadavere di Matteotti tra i piedi. Uno storico serio ha il dovere di spiegare che Mussolini non aveva nessun vantaggio dall’assassinio di Matteotti».

Una previsione: domani per il 25 aprile si riempiranno le piazze?

«In piazza andranno in pochi, la retorica della Liberazione e della Resistenza è finita».

Indro Montanelli: Da una guerra nasce la Repubblica. "La guerra perduta ha cambiato i destini d’Italia. Dal disastro militare fu travolto il fascismo, tra le macerie dell’8 settembre nacque la Resistenza, gli errori e le colpe della monarchia che aveva avallato l’intervento a fianco della Germania nazista portarono alla Repubblica. Sulla restaurata democrazia italiana pesa quest’ombra tragica: d’essere stata figlia della disfatta, e tenuta a battesimo dai vincitori. Circostanze che, sia chiaro, non vanificano i valori della democrazia, e nemmeno quelli della Resistenza, che fu un fenomeno politicamente e moralmente importante; con molte migliaia di morti e molti eroi: ma che fanno dubitare della ragionevolezza — e dell’opportunità — d’un certo trionfalismo ritualistico al quale siamo stati assoggettati. I discorsi enfatici che accompagnano le commemorazioni del 25 aprile 1945 rischiano di suscitare più disagio che consenso. Il 25 aprile segnò l’epilogo di una tragedia nazionale. I Paesi seri non sono usi a festeggiare le sconfitte, e non pretendono di barare con la storia: e la storia colloca l’Italia — beninteso, l’Italia di Mussolini — tra le nazioni che combatterono e persero la Seconda Guerra Mondiale. Poi, dal profondo buio morale del «tutti a casa!» scaturirono fiamme di riscossa, venne la guerra partigiana. Che nacque e si sviluppò perché l’Italia si era arresa, e i Tedeschi ne avevano occupato due terzi, e pretendevano di chiamare alle armi — tramite il vassallo di Salò — dei giovani che non ne volevano sapere. E non ne volevano sapere soprattutto perché la Germania era spacciata. Ho la convinzione che molti Italiani preferirebbero ricordare il 25 aprile con il silenzio, e con un omaggio di fiori ai morti. Nient’altro. Senza voler annoverare tra i fasti militari della storia patria le rese, attorno appunto al 25 aprile, di unità tedesche le quali non chiedevano, da giorni, altro che di arrendersi — e non riuscivano a farlo solo perché v’erano difficoltà tra gli Angloamericani e i Sovietici — e senza mitizzare quell’insurrezione generale dell’Alta Italia che fu un gesto politico — come tale probabilmente giusto — ma che fu scatenata contro il vuoto: Tedeschi e fascisti erano allo sbando, non c’era più nulla contro cui insorgere. Non si tratta di dissacrare. Ciò che di alto e nobile vi fu nella Resistenza resterà per sempre. Si tratta di resistere alle tentazioni della retorica resistenziale. La guerra perduta fu una guerra fascista, da ogni punto di vista. Mussolini decise di precipitarvisi, mentre la Germania hitleriana assestava colpi mortali all’Esercito francese, per non essere escluso dalla divisione del bottino. Lo fece per iniziativa personale, ignorando i sentimenti degli Italiani, e dando per scontata la vittoria tedesca. Entrò nel conflitto portandovi le Forze Armate che il regime ‘guerriero’ aveva forgiato, prescrivendo che ogni ragazzetto dovesse dormire con la testa sullo zaino e il moschetto in mano. Quelle Forze Armate erano inadeguate ai compiti, e anche di questo Mussolini portava la responsabilità. Scadente l’armamento, superati i mezzi (tranne che per la Marina), pessimo l’addestramento, in maggioranza politicizzati, arrivisti, incapaci i comandanti. Arrogatosi il comando delle Forze Armate, sottraendolo al re, il duce non ebbe una sola idea creativa. Cominciò la guerra con due simulacri d’offensiva, contro la Francia agonizzante e in Libia fino a Sidi-el-Barrani; progettò tardivamente e, per volontà di Hitler, finì col rinunciare alla conquista di Malta, che sarebbe stata vitale; volle solo qualche centinaio di morti da buttare sul piatto della bilancia. Poi restò al rimorchio dei Tedeschi, e una volta che volle fare da sé — con la campagna di Grecia — fu il disastro. L’avversario era piccolo, mediocremente armato, ma costrinse a un vistoso ripiegamento o allo stallo le forze prima di Visconti Prasca, poi di Soddu, infine di Cavallero. Dovette accorrere la Wehrmacht a darci man forte. La colpa della catastrofe militare ricade sul fascismo, questo è indubbio. Ma stiamo una volta di più attenti a non autoingannarci, sostenendo — come hanno fatto alcuni storici — che la guerra fu combattuta male dagli Italiani perché era guerra del regime e della borghesia, non di popolo. Se con questo s’intende che la guerra non fu sentita, nulla da eccepire. Se si vuole intendere, invece, che, ove fosse stata sentita, l’Italia avrebbe dato prova di straordinarie capacità militari, da eccepire c’è parecchio. Alle carenze materiali si sommarono carenze morali — o civiche — che non dipendevano da una maggiore o minore popolarità della guerra, ma che a tutti i livelli, cominciando dai generali, venivano di lontano. Erano il frutto intossicato di secoli in cui, per necessità, la furbizia fu il surrogato della forza. Rimane vero che i cattivi comandanti fanno i cattivi soldati. Quanto quei comandanti fossero impari alle loro responsabilità — non per mancanza d’intelligenza, merce che abbonda in Italia, ma per mancanza di carattere — lo si vide nella prova dell’8 settembre 1943. La fuga della famiglia reale e di Badoglio, umiliante, fu probabilmente inevitabile. Ma la calca di alti ufficiali — a cominciare da Roatta, capo di Stato Maggiore dell’Esercito, cui era affidata la sorte di molte centinaia di migliaia di soldati sparsi in mezza Europa — sul molo di Ortona a Mare, per inerpicarsi sulla corvetta Baionetta, fu una pagina ignobile. Il fuggi-fuggi che serpeggiava nei reparti era assai meno riprovevole dell’abbandono dei capi. Queste viltà furono riscattate da atti di valore di reparti e di uomini. E anche dalla lotta partigiana e dalle imprese del piccolo Esercito del Sud che, a Montelungo e dopo Montelungo, fece bene il suo dovere, tra la diffidenza o almeno l’indifferenza degli ex nemici divenuti alleati. Sulla Resistenza il discorso, già accennato del resto, dev’essere rispettoso e onesto (e si parla della Resistenza post-8 settembre, non dell’antifascismo di più vecchia e genuina data). La sua rilevanza politica fu enorme. Lì si formarono i lieviti che poi ebbero sviluppo nei decenni successivi, i CLN (e il CLNAI) prefigurarono gli schieramenti ideologici del dopoguerra, anche se taluni partiti, come quello d’Azione, ebbero folgorante successo iniziale e rapida morte, composti com’erano da ufficiali senza truppa. La Resistenza migliorò — benché meno, forse, di quanto si pretenda — l’immagine degli Italiani nei confronti degli Angloamericani, cui si poté dimostrare che tanti volontari erano in armi contro i Tedeschi e contro i ‘repubblichini’. Notevole fu anche la rilevanza morale della Resistenza: anche se sbocciò e dilagò — la lealtà ci costringe a rilevarlo — quando il fascismo era caduto per effetto di altre forze e la Germania era irreparabilmente in declino. Scarsa fu, invece, l’importanza della Resistenza italiana dal punto di vista militare, almeno in questo senso: che le scadenze fondamentali della guerra — presa di Roma, sbarco in Normandia, crolli tedeschi sul fronte russo — non furono influenzate dalla Resistenza italiana, ed è facile capire perché. Erano in azione i più potenti eserciti che la storia dell’umanità avesse mai conosciuto, e la sorte della Germania veniva decisa sui fronti occidentale e orientale. Infatti, la Linea Gotica era ancora salda, e i Tedeschi tenevano in pugno il Nord Italia, quando già le armate angloamericane e sovietiche calpestavano il suolo tedesco. Questa è la verità: che va onorata anche quando contraddice una consolidata mitologia, anche quando ha risvolti amari". Indro Montanelli, Da una guerra nasce la Repubblica, in C. Graffigna (a cura di), Italia: Ventesimo secolo, Selezione del Reader’s Digest, Milano 1985, pp. 298-299

Resistenze. Penso per prima cosa al mio professore di liceo, che ci diceva: “Liberazione, ma da chi?” Scrive Salvo Vitale il 25 aprile 2017 su "Telejato". In realtà, a quella data, cioè nel 1945, noi siciliani eravamo stati “liberati” da un pezzo, pochissimi i colpi sparati, nella marcia degli americani da Gela a Palermo. Qualche scaramuccia più cruenta si era avuta nel catanese per la presenza di un forte contingente tedesco che gli americani avevano scaricato sulle spalle degli inglesi. Non ci eravamo liberati dal nemico, sol perché numericamente insufficiente ad affrontare l’offensiva alleata, e che, pertanto si era ritirato, come i soldati borbonici davanti a Garibaldi, non ci eravamo liberati da noi stessi, perché nessuno aveva usato un’arma, non ci eravamo liberati dai fascisti, perché erano quasi tutti rimasti ai loro posti diventando collaborazionisti. E soprattutto non ci eravamo liberati dalla mafia, che aveva spianato la strada agli americani e aveva in cambio ricevuto lucrosi affari e incarichi. Il momento della liberazione parve invece essere arrivato due anni dopo, quando, il 20 aprile 1947 il Blocco del Popolo vinse le elezioni. Sembrava che tutto dovesse cambiare: c’era la fame di terra, la promessa di distribuzione delle terre incolte, la volontà e la capacità di organizzare le lotte per la conquista dei feudi da parte di alcuni sindacalisti, disposti a mettere a rischio anche la propria vita. Può essere affascinante l’ipotesi che la nostra Resistenza sia stata quella, ma che si sia tragicamente realizzata con la strage di Portella della Ginestra e con lo sterminio di una quarantina di sindacalisti. E a questo punto le differenze cominciano a delinearsi: la Resistenza era stata una “lotta armata”, oltre che un’insurrezione o una lotta di popolo contro un nemico interno, il fascismo, e contro il suo alleato esterno, il nazismo. La Resistenza aveva avuto un supporto logistico da parte degli alleati, che avevano rifornito di armi e assistenza alcuni nuclei più agguerriti, diffidando comunque dei gruppi troppo orientati a sinistra. La Resistenza aveva potuto usufruire di un forte comitato di Liberazione, attorno al quale si erano stretti tutti i nuclei antifascisti. Nulla di tutto questo invece nelle lotte contadine per la conquista delle terre del biennio 46-48. I contadini si battevano per il rispetto della legalità, ovvero per l’applicazione di una legge dello stato, i decreti Gullo. Non avevano armi, ma solo la loro voglia di lottare insieme contro i gabelloti, ovvero contro il braccio armato dei grandi latifondisti. Il P.C.I. e il P.S.I, a parte il grande dispendio di forze impiegate nella creazione di strutture organizzative (Federterra, Federbraccianti ecc.) non avevano potuto e saputo dare, ma non poteva essere altrimenti, una carica offensiva e difensiva forte che potesse fungere da risposta alle prepotenze armate dei mafiosi. Lo Stato se ne stava a guardare, potendo i mafiosi contare su tutta una serie di complicità che andavano dall’ordine pubblico all’amministrazione della giustizia, al controllo dei voti nelle campagne. A chiudere il cerchio l’atteggiamento americano, che mai avrebbe permesso, dopo gli accordi di Yalta, la creazione di una regione gestita dalle sinistre al centro del Mediterraneo. E così, quella che poteva essere una vittoria che avrebbe segnato la fine della mafia, si tramutò in una sonora sconfitta e nella perpetuazione del sistema atavico di controllo delle campagne e dei lavoratori. Si può chiamare questa la “nostra resistenza”? Erano partigiani i contadini in lotta? Qualcuno ci provò: Placido Rizzotto, per esempio, proveniva dall’esperienza partigiana al nord e su questa traccia stava cominciando ad organizzare i contadini. Anche di Giuseppe Maniaci, sindacalista di Terrasini, si sa che non era disposto ad accettare alcuna prepotenza. Tutto questo avrebbe significato lotta armata, cioè autentica Resistenza contro un nemico interno, la mafia, altrettanto feroce quanto i fascisti. Non fu così perché le condizioni per una guerra armata erano tramontate e perché i dirigenti contadini lottavano per il trionfo della giustizia dello stato. Adesso ha un senso definire partigiani tutti coloro che si impegnano nella lotta alla mafia? Non c’è dubbio che essere partigiano è qualcosa di affascinante, ma molto lontano dalla realtà, perché i mafiosi usano la pena di morte, mentre gli inermi cittadini, ma anche lo stato, si attengono alle norme della società civile, a meno di non indulgere a pericolose complicità. Perso in questa domanda scrivo qualcosa…

Partigiano d’altra sponda ho conosciuto mafiosi, anziché fascisti, la differenza non era poi molta:

stesse indicibili violenze, stesso sistema di paura, stessa scientifica teoria del silenzio, stesso teschio come simbolo.

Sempre col vecchio dilemma, se rispondere allo stesso modo o se scegliere la non–violenza,

se subire l’esercizio del ricatto e sperare nella protezione dello stato, oppure organizzare passaggi di lotta dura.

Nella teoria del rosso si amalgamano le arance, i gelsi, il melograno, il pomodoro, il sangue.

Ogni giorno trangugi la bibita e ti predisponi all’assuefazione.

Nei casi di ordinaria eversione c’è l’emarginazione, per la scheggia impazzita c’è l’eliminazione.

D’improvviso mi ricordo che il 25 aprile 1977 Radio Aut metteva in onda le prime prove di trasmissione. Sono passati appena tre anni e quella che poteva essere una micidiale arma d’offesa, in fin dei conti si è ridotta a sparare proiettili a salve, un pesce costretto a boccheggiare per mancanza d’ossigeno, di linfa vitale. Ogni velleità ha finito con il fare i conti, con il dileguarsi, davanti al muro invalicabile che ci è stato costruito attorno. Reagisco alla sensazione d’impotenza mettendo sul piatto canti di resistenza e canti di lotte sociali d’ogni tipo, a cominciare da “Contessa”. (Da Salvo Vitale “Cento passi ancora” Edizioni Rubbettino)

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

Gli antifascisti che non vinsero. La sorte amara di Giustizia e Libertà. A 80 anni dall’assassinio di Carlo Rosselli e del fratello Nello un libro di Marco Bresciani ripercorre le vicende di intellettuali che cospirarono contro il regime di Mussolini, scrive Paolo Mieli il 2 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera". Il nome veniva dal rovesciamento di quello del gruppo anarchico fondato a Napoli nel 1865 da Michail A. Bakunin: «Libertà e Giustizia». La nascita è databile all’agosto del 1929, quando giunsero a Parigi Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Saverio Nitti, evasi dal confino di Lipari. Ad accoglierli trovarono Gaetano Salvemini, Alberto Cianca e Alberto Tarchiani. A loro si sarebbero nel tempo aggiunti Umberto Calosso, Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Augusto Monti, Silvio Trentin, Vittorio Foa, Aldo Garosci, Leone Ginzburg, Andrea Caffi, Michele Giua, Max Ascoli, Franco Venturi e molti altri. Nessun gruppo o partito dell’epoca ebbe una concentrazione di cervelli di pari livello, sottolinea Marco Bresciani nelle pagine iniziali del saggio Quale antifascismo? Storia di Giustizia e Libertà, pubblicato da Carocci. Fondamentale fu per GL la generazione che si era formata all’inizio del Novecento, tutti grandi lettori de «La Voce», la rivista che Giuseppe Prezzolini fondò nel 1908. Le biografie politiche dei giellisti, scrive Bresciani, «erano accostabili, per certi versi e almeno per un tratto, a quelle di non pochi fascisti della prim’ora: la lontana ascendenza, o comunque la lealtà all’album di famiglia mazziniano; l’adesione al mito di una nuova rivoluzione nazionale; la passione interventista militante; l’avversione per il massimalismo socialista e la rivendicazione combattentistica postbellica». Fondamentale fu per tutti loro l’avversione all’esperienza di governo del liberale Giovanni Giolitti. La cultura di inizio Novecento, sostiene Bresciani, «trovò nell’antigiolittismo un comune denominatore (negativo)». Sotto la pressione dell’esperimento giolittiano di nazionalizzazione e insieme di democratizzazione del Paese, «si aprì una faglia profonda tra la classe dirigente liberale e classe intellettuale, che l’interventismo prima, il fascismo e l’antifascismo poi, in vario modo avrebbero cercato di ricomporre». La cultura antigiolittiana, con tutti i suoi strascichi, «fu il terreno d’incubazione dell’uno come dell’altro, depositando e accumulando molti dei materiali più innovativi — ed esplosivi — del nuovo secolo». La «virulenta critica antigiolittiana» e la «bruciante passione interventista» lasciarono nell’opinione pubblica «tracce ambigue (se non torbide), che riaffiorarono nella campagna per il rinnovamento della politica nazionale postbellica». Del resto ancora nel 1958 Salvemini ricordava che, nel 1922, ai tempi della marcia su Roma, tra Mussolini e Giolitti avrebbe scelto il primo. E non era l’unico. Ernesto Rossi aveva collaborato al «Popolo d’Italia», il quotidiano del movimento fascista, dal 1919 al 1922. Silvio Trentin, nel 1919, guardava a Mussolini come «artefice sicuro della rinascita» nazionale. Nicola Chiaromonte — come scrisse poi nel libro Il tarlo della coscienza (il Mulino) — fu in una fase iniziale attratto dalla figura di Mussolini. Identiche suggestioni ebbe Ferruccio Parri. Augusto Monti si spinse ad apprezzare le «buone intenzioni» mussoliniane. Anche coloro che sarebbero poi approdati ad una «versione intransigente di antifascismo» — è il caso di Rossi e Ascoli — furono a lungo esposti alla tentazione di guardare al fascismo come «rivolta generazionale». Paradossalmente la storia di GL e quella del fascismo, quantomeno nella sua fase iniziale, sono «indissolubilmente intrecciate»: ed è proprio su questo «comune terreno» che si possono «meglio comprendere le ragioni della loro contrapposizione». Dopo questa infatuazione iniziale, i giellisti adottarono la tesi di Piero Gobetti che identificava nel fascismo «l’autobiografia della nazione». Ma — come fece osservare uno di loro, Nicola Chiaromonte — si trovarono in contraddizione con la tesi gobettiana quando nell’ottobre del 1929 Rosselli, Lussu, Rossi e Tarchiani appoggiarono, nell’ottica del tirannicidio, l’attentato di Fernando De Rosa al principe Umberto. La difficile condizione di «fuorusciti» alimentò tra loro polemiche virulente. La collaborazione di GL con gli altri avversari del regime fascista — come è ben documentato nella Storia della Concentrazione antifascista di Santi Fedele (Feltrinelli) — suscitò le perplessità di Salvemini, emigrato a Boston, che raccomandava a Rosselli di lavorare piuttosto con i «giovani» e i «giovanissimi» rimasti a vivere sotto il regime. Ad un tempo i giellisti furono criticati da Togliatti, che su «Lo Stato Operaio» nel settembre del 1931 scriveva: «I quadri intermedi piccolo-borghesi di Giustizia e Libertà non hanno più davanti a sé, oggi, altra prospettiva che quella di dare il cambio ai limoni spremuti del riformismo». E persino da Max Ascoli che, emigrato a New York, accusò i suoi amici di essere inclini «ad agire prima che a pensare» e di assomigliare (nei loro ragionamenti) ai fascisti. Anche Chiaromonte obiettò che il loro antifascismo stava diventando una sorta di «fascismo a rovescio». Analoghi rilievi vennero da Umberto Calosso. Rosselli, e Lussu, Salvemini e Trentin, Rossi e Ascoli, scrive Bresciani, «avevano faticato a decifrare la novità e la radicalità del fascismo nella strisciante guerra civile del 1919-22». Una cultura «impregnata di umori antigiolittiani, di ardori interventisti e di slanci combattentisti», non aveva loro consentito di mettere bene a fuoco il fenomeno. Anzi, i «cascami impolitici» di quella cultura li aveva spinti a «identificare ogni esito della crisi postbellica con la stagione di Giolitti o anche solo a sottovalutarne la significativa discontinuità». Alcuni di loro «avevano stentato a riconoscere l’effettiva minaccia incombente sulle istituzioni liberali e parlamentari». Altri si erano lasciati suggestionare dal «messaggio di rinnovamento radicale del movimento di Mussolini». Ma una volta che ebbero maturato un convincimento antifascista, presero il regime sul serio e furono — soprattutto Salvemini e Trentin — «più attrezzati a comprenderlo di quanto non lo fossero tanti socialisti, comunisti e liberali». Nell’aprile del 1934, però, Salvemini accusò Rosselli di essere sempre di più «un fuoruscito… vivente di sogni e di parole astratte». E, stimolato da questa lettera, nel novembre di quello stesso anno così Rosselli elencò e stigmatizzò gli errori degli antifascisti: «Presentare il fascismo come in procinto di cadere da un istante all’altro; esagerare l’importanza dei movimenti esistenti; impiegare un tono roboante, minaccioso; esagerare nelle critiche di dettaglio e nello scandalismo, anziché attaccare le fondamenta e guardare all’insieme; condurre le requisitorie su motivi prevalentemente sentimentali o sulle violenze del passato; assumere verso coloro che stanno ancora nel Paese il tono di una aristocrazia antifascista; aver l’aria di difendere la così detta democrazia prefascista o le pseudo-democrazie esistenti; negare alcunché si sia fatto di utile sotto il regime; contestare a Mussolini ogni qualità, oppure, con esagerazione opposta, risolvere il fascismo in Mussolini; non insistere abbastanza sull’elemento positivo dell’antifascismo». Si distingue già allora Calosso il quale — «con spirito di raro anticonformismo», scrive Bresciani, e «infrangendo ogni canonico schema di classe» — riconosce che il reclutamento fascista è stato «anche contadino e operaio fin dalle origini», sicché è impossibile negare «le radici popolari del fascismo». La parte del movimento rimasta in Italia nel frattempo fu devastata dalle delazioni e dalle due retate torinesi, quella dell’11 marzo 1934 e quella del 15 maggio 1935, che misero fuori combattimento Leone Ginzburg, Carlo Mussa Ivaldi, Carlo Levi, Sion Segre, Vittorio Foa, Massimo Mila, Michele Giua, Augusto Monti, Franco Antonicelli, Cesare Pavese, Norberto Bobbio, Piero Martinetti, Giulio Einaudi, Ludovico Geymonat. Ed è qui che arriva il momento dell’apertura ai comunisti. Per quel che riguarda il regime dell’Unione Sovietica, il più lucido appariva Andrea Caffi che già nel 1932 , dopo aver definito la rivoluzione d’Ottobre «un positivo, generale sollevamento delle masse popolari», considerava il regime staliniano «un grandioso meccanismo per la coercizione e lo sfruttamento degli individui», notava le sue «evidenti affinità con i mostruosi parti dell’epoca nostra» e metteva in guardia dall’Unione Sovietica che, invece di costituire «un contrappeso ai regimi di reazione capitalistica», stava diventando «un elemento di questa costellazione reazionaria». Nella Vita di Carlo Rosselli (Vallecchi) Aldo Garosci nota come, invece, i giudizi del leader di Giustizia e Libertà dal 1934 in poi siano molto più generosi nei confronti dell’esperimento comunista. Bresciani attribuisce a Rosselli un corsivo redazionale comparso su «Giustizia e Libertà» (gennaio 1935) nel quale, in evidente polemica con Caffi e con Lionello Venturi, che aveva sottolineato le somiglianze tra i regimi fascista e comunista, è scritto: «Si possono combattere la dittatura russa e i suoi sistemi: non si deve però mai dimenticare che questa dittatura scaturisce dalla più grande rivoluzione del mondo moderno, si esercita su un Paese profondamente rinnovato e offre un vasto bilancio di opere per cui ogni parallelo tra dittatura russa e dittatura fascista è viziato alla base». La guerra civile spagnola, fin dagli inizi nel 1936, fu per Rosselli occasione per adottare quello che Bresciani definisce «un linguaggio insolitamente brutale, disponibile a giustificare qualsiasi violenza in chiave antifascista». Cosa che lo portò a scontri con Caffi, Lussu e Garosci. E, all’epoca dei processi staliniani, in Rosselli continuava ad affiorare, secondo Bresciani, «l’intrico di tentennamenti e cedimenti verso l’esperimento sovietico e il regime staliniano». Nei suoi scritti «si registrava una sempre più netta identificazione di anticomunismo e fascismo». La condanna delle «pratiche terroristiche» di Stalin si fece sempre più «fioca». Rosselli fu ucciso, assieme al fratello Nello, nel bosco di Bagnoles-de-l’Orne da fascisti italiani e francesi, secondo modalità ben esposte da Mimmo Franzinelli in Il delitto Rosselli 9 giugno 1937: anatomia di un omicidio politico(Mondadori). Morì che aveva da poco dato alle stampe un lungo saggio dal titolo Per l’unificazione del proletariato italiano, nel quale proponeva una sorta di partito unico dell’antifascismo. Ma, nonostante molti incontri tra giellisti e comunisti del calibro di Giuseppe Berti, Eugenio Curiel, Ruggero Grieco, quel che accadde in Spagna nella seconda fase della guerra civile, in Unione Sovietica e soprattutto le conseguenze del patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939, resero poco concreta la prospettiva da lui indicata. Alla notizia dell’accordo tra Hitler e Stalin, Cianca e Garosci scrissero per il giornale del gruppo un editoriale dal titolo esplicito: Crisi di un ideale. Infine il Comitato direttivo di GL si disperse nel giugno del 1940, al momento in cui le truppe di Hitler fecero il loro ingresso nella capitale francese. Ma il lavoro di questo straordinario gruppo di attivisti antifascisti e intellettuali raffinati ebbe eco nel Manifesto di Ventotene (scritto da Spinelli, Rossi e Colorni al confino, tra l’inverno del 1941 e la primavera del 1942) e nel Partito d’Azione fondato a Roma, in clandestinità nella casa di Federico Comandini, il 4 giugno del 1942. Anche se, precisa Bresciani, la storia del Pd’A deve essere tenuta «ben distinta» da quella di Giustizia e Libertà. Dopodiché, constata lo storico, nel dopoguerra gli ex giellisti «si presentarono (e si sentirono) più come vinti che come vincitori». A un suo personaggio — Andrea Valenti identificabile con Leo Valiani — Carlo Levi, ne L’Orologio (Mondadori), fa dire: «Eravamo partiti che volevamo la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Italia, e poi di alcune riforme, e poi di partecipare al governo e poi di non esserne cacciati. Eccoci ormai sulla difensiva: domani saremo ridotti a combattere per l’esistenza di un partito, e poi magari di un gruppo o di un gruppetto, e poi, chissà, forse per le nostre persone, per il nostro onore e la nostra anima». Sarebbe andata proprio così. Ma Levi lo aveva capito già nel 1950. Il libro di Marco Bresciani Quale antifascismo? Storia di Giustizia e Libertà (Carocci, pagine 237, e 27) viene presentato il 4 maggio a Torino (ore 16.00) presso l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza (Istoreto) da Andrea Ricciardi. L’incontro fa parte dell’iniziativa «Giellismo e azionismo. Cantieri aperti» (4-5 maggio), che è ormai un appuntamento fisso per lo studio di questo filone politico. A Bresciani è stata assegnata la prima edizione del premio Giorgio Agosti, creato nell’ambito dei «Cantieri», a pari merito con Renato Camurri, curatore del volume Pensare la libertà. I quaderni di Antonio Giuriolo (Marsilio). Tra i libri su questi temi: Aldo Garosci, Vita di Carlo Rosselli (Vallecchi, 1973); Santi Fedele, Storia della concentrazione antifascista (Feltrinelli, 1976); Mario Giovana, Giustizia e Libertà in Italia (Bollati Boringhieri, 2005).

Giustizia e Libertà. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giustizia e Libertà fu un movimento politico liberal-socialista fondato a Parigi nell'agosto del 1929 da un gruppo di esuli antifascisti, tra cui emerse come leader Carlo Rosselli. Il movimento era vario per tendenze politiche e per provenienza dei componenti, ma era comune la volontà di organizzare un'opposizione attiva ed efficace al fascismo, in contrasto con l'atteggiamento dei vecchi partiti antifascisti, giudicati deboli e rinunciatari. Il movimento Giustizia e Libertà svolse anche un'importantissima funzione di informazione e sensibilizzazione nei confronti dell'opinione pubblica internazionale, svelando la realtà dell'Italia fascista che si nascondeva dietro la propaganda di regime, in particolare grazie all'azione di Gaetano Salvemini, che era stato l'ispiratore del gruppo e il maestro di Rosselli. Alla fine del 1926, Carlo Rosselli, antifascista, iscritto al Partito Socialista Unitario (PSU) di Filippo Turati e del compianto Giacomo Matteotti, allievo del liberal-socialista Gaetano Salvemini, venne arrestato e condotto prima nel carcere di Carrara e in seguito in quello di Como.

Nel dicembre del 1926 fu deliberato nei suoi confronti il provvedimento di confino per 5 anni da scontare a Lipari. Tentò la fuga più volte, senza successo. Solamente il 27 luglio 1929, a bordo di un motoscafo, assieme ai compagni di confino Francesco Fausto Nitti e Emilio Lussu (avvocato e leader del Partito Sardo d'Azione), riuscì nell'impresa e, il 1º agosto, via Marsiglia, raggiunse Parigi. Rosselli e Lussu si trasferirono all'Hôtel du Nord de Champagne, a Montmartre; qui, dopo pochi giorni, ebbe i natali il movimento Giustizia e Libertà, grazie anche al contributo di altri fuoriusciti antifascisti, tra cui proprio Salvemini, residente in Saint-Germain-en-Laye presso l'abitazione del giornalista Alberto Tarchiani. Il simbolo del movimento - una fiamma, con nel mezzo le sigle G e L - fu disegnato da Gioacchino Dolci, un altro esule che aveva partecipato all'organizzazione dell'evasione di Rosselli da Lipari. Oltre agli esuli succitati, aderirono al nuovo movimento anche Alberto Cianca, Raffaele Rossetti, Francesco Fausto e Vincenzo Nitti. I triumviri incaricati di guidare il movimento furono Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Alberto Tarchiani.

Giustizia e Libertà non nasceva come partito, ma come movimento rivoluzionario e insurrezionale in grado di riunire tutte le formazioni non comuniste che intendevano combattere e porre fine al regime fascista, cavalcando la pregiudiziale repubblicana. Così si apriva il primo numero del periodico pubblicato dal gruppo: «Provenienti da diverse correnti politiche, archiviamo per ora le tessere dei partiti e fondiamo un'unità di azione. Movimento rivoluzionario, non partito, "Giustizia e libertà" è il nome e il simbolo. Repubblicani, socialisti e democratici, ci battiamo per la libertà, per la repubblica, per la giustizia sociale. Non siamo più tre espressioni differenti ma un trinomio inscindibile.» L'obiettivo di "Giustizia e Libertà" era quindi quello di preparare le condizioni per una rivoluzione antifascista in Italia che non si limitasse a restaurare il vecchio ordine liberale, ma in grado di creare un modello di democrazia avanzato e al passo con i tempi, aperto agli ideali di giustizia sociale, sapendosi inserire nella realtà nazionale e in particolare raccogliendo l'eredità del Risorgimento. Riprendendo le idee di Piero Gobetti, di cui era stato collaboratore, Rosselli considera il fascismo una manifestazione di antichi mali della società italiana e si propone quindi non solo di sradicare il regime mussoliniano, ma anche di rimuovere le condizioni politiche, sociali, economiche e culturali che lo avevano reso possibile. Il motto, coniato da Lussu, era "Insorgere! Risorgere!" e anche - come recita il primo bollettino mensile di GL - "non vinceranno in un giorno, ma vinceranno": anche se non saranno tutti loro i diretti testimoni di questa vittoria, lo sarà l'Italia repubblicana. Nel 1930 Carlo Rosselli pubblicò a Parigi, presso la Librairie Valois, il testo teorico del movimento, Socialisme Libéral, scritto l'anno precedente a Lipari; il testo sarà per la prima volta ristampato in Italia nel 1945, a cura di Aldo Garosci. Secondo Norberto Bobbio, gli intenti e le conclusioni a cui Carlo Rosselli vuole giungere sono, prima tra tutte, la necessità di una "rottura tra marxismo e socialismo" e, dunque, la possibilità di essere socialisti senza essere marxisti. Se il socialismo era stato considerato, in modo peculiare dal movimento operaio italiano, inscindibile dal sistema marxista, era giunto il tempo di riconsiderare il suo ruolo alla luce di una compatibilità possibile con il liberalismo: «Il socialismo inteso come ideale di libertà non per pochi ma per i più, non solo non è incompatibile con il liberalismo, ma ne è teoricamente la logica conclusione, praticamente e storicamente la continuazione. Il marxismo, e ancora una volta bisogna intendere per marxismo una visione rigorosamente deterministica della storia, ha condotto il movimento operaio a subire l'iniziativa dell'avversario, e una sconfitta senza precedenti.» (Carlo Rosselli.)

In una lettera a Garosci, Gaetano Salvemini, al contrario, stroncò senza riserve il socialismo liberale di Rosselli e non si astenne dal definirlo come «l'eruzione vulcanica di un giovane entusiasta e non un'opera critica, equilibrata e sostanziosa in cui era incapsulata una idea fondamentale: la ricerca di un socialismo che facesse sua la dottrina liberale e non la ripudiasse o assumesse di fronte ad essa una posizione indifferente o equivoca». Dopo la confluenza del partito donde proveniva Rosselli, il PSULI di Turati, Treves e Saragat, nel Partito Socialista Italiano di Pietro Nenni (luglio 1930), Giustizia e Libertà iniziò a conformarsi come un vero e proprio partito politico. In tale ottica, Rosselli stipulò un accordo con il Partito Socialista che riconobbe in GL "il movimento unitario dell'azione rivoluzionaria in Italia". Nell'ottobre del 1931, tale accordo fu esteso alla Concentrazione Antifascista, un'associazione di partiti antifascisti alla quale aderiva anche il Partito Repubblicano Italiano. Ciò sancì l'ingresso di Giustizia e Libertà nella "Concentrazione" e l'inclusione della stessa nel comitato esecutivo dell'organizzazione, composto da tre elementi in rappresentanza del PSI, del PRI e di GL, scelti di comune accordo. La Concentrazione Antifascista sembrò così conformarsi come un'associazione di tre forze politiche autonome e paritarie. L'accordo tra le tre formazioni politiche fu, tuttavia, ben presto segnato da numerosi contrasti: socialisti e repubblicani criticavano come un'"invasione di campo" il programma pubblicato da Rosselli nel primo numero dei Quaderni di Giustizia e Libertà, giudicato operaistico e giacobino. Inoltre, non era ben visto dal PRI e da GL il fatto che il Partito Socialista si orientasse verso un accordo con il Partito Comunista. Questo portò, nel maggio del 1934, allo scioglimento della Concentrazione Antifascista. Nel frattempo in Italia si erano formati clandestinamente altri nuclei antifascisti legati a GL, presenti soprattutto a Milano, dove si trovavano Ferruccio Parri, Riccardo Bauer e Umberto Ceva; a Bergamo, con Ernesto Rossi, in collegamento con il gruppo milanese; a Torino ove nel 1934 e maggio'35 vengono arrestati Franco Antonicelli, Norberto Bobbio,Umberto Cosmo, Giulio Einaudi, Leone Ginsburg, Carlo Foà, Vittorio Foa, Michele Giua, Carlo Levi, Gino Levi, Piero Luzzati, Massimo Mila, Giulio Muggia, Cesare Pavese, Battistina Pizzardo, Luigi Salvatorelli, Sion Segre Amar, Gioele Solari; a Firenze, con Nello Traquandi; a Roma, con Francesco Fancello e Vincenzo Torraca; in Sardegna, con Dino Giacobbe, Cesare Pintus e Michele Saba. Il gruppo venne subito decapitato a seguito di una spiata che condusse all'arresto (dicembre 1930) di Rossi, Bauer, Fancello, Traquandi, Parri, Torraca, Ceva ed altri. Condannati, Rossi e Bauer scontarono nove anni di carcere, poi commutati in confino, scontati a Ponza e a Ventotene; Fancello e Traquandi: cinque anni di carcere e cinque di confino; Parri: due di carcere e cinque di confino.

Nel febbraio 1936, in Spagna, dopo un periodo di grandi difficoltà politiche e sociali (moti rivoluzionari duramente repressi, sospensioni delle libertà civili, drammatiche condizioni sociali della popolazione nel quadro di un sistema economico ancora semifeudale), il Fronte popolare (comprendente il Partito Comunista di Spagna, all'epoca di estrazione marxista e filosovietica) vinse le elezioni. Le forze nazionaliste e antibolsceviche, che vedevano in pericolo gli interessi delle classi dominanti e le ancestrali tradizioni spagnole (anche religiose), passarono presto al contrattacco: nel luglio i militari di stanza in Marocco, guidati dal generale Francisco Franco, attuano un pronunciamento (colpo di Stato militare) contro il governo repubblicano. I militari, che speravano in una vittoria facile e breve, si trovarono contro una massiccia resistenza popolare che riuscì in poco tempo a fermare l'avanzata delle truppe ribelli e a riequilibrare la situazione. Anche una parte dello stesso esercito (marina e aviazione) si schiera con la Repubblica. Mentre i governi democratici restavano indifferenti, erano gli intellettuali e i militanti antifascisti di tutta Europa a sentirsi in dovere di portare il loro contributo alla lotta dei repubblicani spagnoli. Ovviamente Giustizia e Libertà fu subito in prima linea. Rosselli convocò tempestivamente una riunione dei gruppi antifascisti per organizzare un'azione comune. In un primo tempo però il partito comunista e il partito socialista decisero di non intervenire in Spagna per non creare problemi politici al governo repubblicano. Così Giustizia e Libertà decise di agire autonomamente insieme ad altri gruppi antifascisti minori (socialisti massimalisti, anarchici) e, grazie alla disponibilità della CNT-FAI, il sindacato anarchico che organizzò la resistenza in Catalogna, fu creata una Colonna Italiana, composta in maggioranza da anarchici ma aperta ad antifascisti di tutte le tendenze politiche e al comando di Carlo Rosselli. Solo successivamente, dopo l'appoggio dell'URSS ai repubblicani spagnoli e la nascita delle Brigate internazionali, i partiti comunista, socialista e repubblicano si accordarono per formare una legione unitaria, la Brigata Garibaldi, che operò lontano dalla Catalogna. La formazione di Rosselli si trovò isolata e, con la militarizzazione della resistenza popolare, si aprirono contrasti tra gli anarchici intransigenti, insofferenti a ogni disciplina, e lo stesso Rosselli. Quest'ultimo, che nel frattempo si era ammalato, decise di lasciare la Spagna temporaneamente per curarsi ma, il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de-l'Orne, poco dopo il suo rientro in Francia, venne ucciso insieme al fratello Nello da sicari di una formazione della destra francese filofascista.

Dopo l'omicidio dei fratelli Rosselli, la guida del movimento venne assunta da Emilio Lussu, che impresse a GL una forte impronta socialista. Ciò provocò il dissenso e il distacco di numerosi componenti, tra i quali Alberto Tarchiani, che andò ad affiancare Randolfo Pacciardi alla direzione della pubblicazione repubblicana La Giovine Italia (1937). Giustizia e Libertà si indebolì ulteriormente a causa della "diaspora" conseguente alla minaccia bellica della Germania nazista. Nel settembre del 1939 Salvemini, rifugiatosi negli Stati Uniti, diede vita alla Mazzini Society, di cui il giornalista Max Ascoli assunse la presidenza. La nuova associazione si proponeva di contribuire all'orientamento dell'opinione pubblica americana di fronte alla questione italiana, ma aveva una forte connotazione repubblicana e liberaldemocratica. Con l'ingresso delle truppe tedesche in Francia, quasi tutti i dirigenti cercarono scampo altrove. Alberto Tarchiani raggiunse Salvemini a New York e assunse la segreteria della Mazzini Society. Paolo Vittorelli, rifugiatosi al Cairo, fondò Giustizia e libertà - Egitto, che svolse un'intensa attività propagandistica rivolta soprattutto ai militari italiani prigionieri dei britannici. Anche Lussu, nel giugno del 1940, fu costretto a lasciare la Francia per il Portogallo e quindi per l'Inghilterra. Nell'ottobre 1941 Silvio Trentin e Francesco Fausto Nitti sottoscrissero in Francia, ancora a nome di GL, un accordo unitario con comunisti e socialisti. Contemporaneamente (1941), dal confino di Ventotene, Ernesto Rossi, insieme al comunista dissidente Altiero Spinelli e al socialista Eugenio Colorni, redasse il Manifesto di Ventotene, il primo documento ufficiale prefigurante l'istituzione di un'Unione europea di tipo federalista. Nel gennaio 1942, negli Stati Uniti, un gruppo riunito attorno a Bruno Zevi fondò i "Quaderni Italiani", che divennero luogo di dibattito sui temi del liberalsocialismo. Lussu rientrò clandestinamente in Francia nel luglio 1942 e si incontrò con esponenti socialisti e comunisti per un patto d'unità d'azione dei partiti italiani di sinistra. L'accordo fu firmato il 3 marzo 1943 a Lione e fissava il quadro di un impegno programmatico a costituire un Comitato d'azione per l'unione del popolo italiano, alle cui decisioni i militanti dei tre partiti dovevano essere vincolati. Giustizia e libertà si dissolse, sostanzialmente, con il progressivo rientro in Italia dei suoi militanti, dopo il 25 luglio 1943 e la loro adesione ad altri partiti. In particolare, Emilio Lussu rientrò a Roma il 15 agosto e fu subito inserito negli organismi di vertice del Partito d'Azione. Tale operazione fu una precisa scelta politica del gruppo dirigente azionista, in particolare di Ugo La Malfa. Rossi aderì al P.d'A. dopo un convegno a Milano, tenutosi tra il 27 e il 28 agosto, mentre Spinelli attese ancora alcuni mesi (dic. 1943). Trentin giunse in Italia il 6 settembre e fu subito investito della direzione veneta del Partito d'Azione. Il 29 ottobre 1943, Emilio Lussu scrisse al “centro meridionale del Partito d'Azione” che mai il partito avrebbe collaborato con Badoglio e con la monarchia e di non preoccuparsi che GL scomparisse, perché “GL e PdA sono la stessa cosa e sarebbe fuori luogo ora far questione di denominazione”.

In Italia, un gruppo degli oppositori democratici ancora a piede libero aveva sentito l'esigenza di costituire un nuovo soggetto politico. Il 4 giugno 1942, nella casa romana di Federico Comandini, infatti, si era formato clandestinamente il Partito d'Azione. La nuova formazione era costituita, in particolare, da personalità repubblicane di estrazione liberal democratica come Ugo La Malfa, Adolfo Tino e Mario Bracci, insieme a personalità del mondo progressista e radicale come Guido Dorso, Tommaso Fiore, Luigi Salvatorelli, Adolfo Omodeo e ai liberalsocialisti di Guido Calogero, Norberto Bobbio e Tristano Codignola. L'elaborazione politica di quest'ultimi si era sviluppata in via del tutto autonoma da quella di Giustizia e Libertà. I giellisti aderirono progressivamente al nuovo partito che, dopo l'8 settembre 1943, rappresentò l'organizzazione a cui facevano riferimento i combattenti partigiani delle Brigate Giustizia e Libertà. Oltre a Lussu, Rossi e Trentin, entrarono nel P.d'A. anche Alberto Tarchiani e Alberto Cianca (per ricordare solo gli esponenti principali). Il Partito d'azione riuscì a presentarsi come un partito che lotta per un cambiamento radicale della società italiana rompendo, ovviamente, con intransigenza con il fascismo e l'Italia pre-fascista, contrapponendosi in questo ai liberali; per una società laica e secolarizzata, contrapponendosi ai democristiani, per una società democratica progressista ma pluralista e con ordinamenti politici liberali, contrapponendosi ai comunisti ancora saldamente legati all'Unione Sovietica. Per questi motivi distintivi riuscì a raccogliere vasti consensi tra le persone desiderose di combattere contro il nazi-fascismo, caratterizzandosi comunque come un movimento piuttosto elitario. Durante la guerra partigiana, il Partito d'azione fu attivo nell'organizzazione di formazioni partigiane, tra le quali si ricordano le brigate Giustizia e Libertà. Numericamente, le formazioni GL (dette "gielline" o "gielliste") erano seconde soltanto a quelle "garibaldine", riconducibili al Partito Comunista. I partigiani giellini si riconoscevano per i fazzoletti di colore verde. Tra costoro - tutti facenti parte del Partito d'Azione - si possono ricordare Ferruccio Parri, nominato dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) comandante militare unico della Resistenza, Antonio Giuriolo e Riccardo Lombardi, nominato nel 1945 prefetto di Milano dal CLN dell'Alta Italia (CLNAI).

Il Partito d'Azione, fondato nel 1942, fu l'erede principale del movimento GL ma, nell'immediato dopoguerra si divise in due correnti: una socialista, guidata da Emilio Lussu, e una liberaldemocratica, guidata da Ugo La Malfa. Riccardo Lombardi e Vittorio Foa tentarono invano di organizzare una terza corrente che fungesse da ponte fra le due ali estreme. La divisione interna si manifestò insanabile: dopo che la minoranza liberaldemocratica aveva già aderito al Partito Repubblicano Italiano, il 20 ottobre 1947 la maggioranza socialista confluì nel Partito Socialista Italiano e il Pda fu sciolto. Una componente minoritaria del Partito d'azione (Piero Calamandrei, Tristano Codignola, Aldo Garosci, Paolo Vittorelli) non confluì nel Partito Socialista Italiano e, al momento dello scioglimento del partito, formò il movimento “Azione Socialista Giustizia e Libertà” che mantenne la proprietà della testata giornalistica L'Italia Socialista (già: L'Italia libera), con la direzione di Garosci. “Azione Socialista Giustizia e Libertà”, l'8 febbraio 1948, a Milano, poi, dette vita all'Unione dei Socialisti, insieme ad alcuni ex giellini indipendenti. L'Unione dei Socialisti partecipò alle elezioni politiche del 1948 nell'ambito della coalizione di Unità Socialista, insieme al PSLI. Il 31 gennaio 1949 confluì ufficialmente nel PSLI che, nell'occasione, cambiò il suo nome in PSDI. Successivamente, il 1º febbraio 1953, la componente ex azionista del gruppo di Calamandrei e Codignola uscì anche dal PSDI e formò Autonomia Socialista, insediandosi nella vecchia sede fiorentina del soppresso movimento “Azione Socialista Giustizia e Libertà”. Nel frattempo, il 18 gennaio 1953, lo scrittore Carlo Cassola, rifondò ufficialmente Giustizia e Libertà, ma il nuovo movimento si dissolse dopo solo tre mesi. Il 18 aprile 1953, infatti, in vista delle elezioni politiche del 1953, si costituì il movimento Unità Popolare, con l'obiettivo di far fallire la cosiddetta legge elettorale "truffa" varata dal governo De Gasperi. Confluirono nel nuovo movimento sia Autonomia Socialista di Calamandrei, sia Giustizia e Libertà di Carlo Cassola che un gruppo di dissidenti di sinistra del PRI (Unione di Rinascita Repubblicana), guidati da Oliviero Zuccarini e al quale, successivamente, aveva aderito anche Ferruccio Parri. Aderirono ad Unità Popolare anche ex-azionisti ed intellettuali come Leopoldo Piccardi, Federico Comandini, Giuliano Vassalli e Carlo Levi; il movimento ebbe anche il sostegno di Adriano Olivetti e del suo Movimento Comunità, di Carlo Bo, Norberto Bobbio, Mario Soldati e Leo Valiani. Tuttavia, colto il risultato di non fare scattare per un pugno di voti il premio di maggioranza a favore dei vincitori (la DC e gli alleati centristi), il raggruppamento non riuscì a proporsi come centro di coagulazione di un socialismo democratico di ispirazione non marxista. Dopo l'adesione dell'ala liberaldemocratica (Piccardi, Valiani) nel costituendo Partito Radicale, nel 1957 il movimento votò, a maggioranza, la sua dissoluzione e la confluenza nel Partito Socialista Italiano. Tra i contrari: Oliviero Zuccarini rientrò nel PRI e Aldo Garosci lasciò temporaneamente la politica. Le battaglie laiche, antimonopoliste e antiautoritarie condotte dal Mondo diretto da Mario Pannunzio sfociano nel 1955 nella costituzione del Partito radicale, che comprendeva fra i fondatori numerosi militanti di estrazione giellista e azionista, fra i quali spiccavano Ernesto Rossi e Leo Valiani. Questa esperienza, fra le più innovative del panorama politico italiano, entrò in crisi all'inizio degli anni sessanta, a causa della dura contrapposizione a proposito del "caso Piccardi" fra l'ala di origine azionista (rappresentata da Ernesto Rossi) e quella di origine liberale (guidata dallo stesso Pannunzio), che lasciò un lungo strascico di rancori personali. Successivamente, singole personalità, fuori e dentro i partiti, nei sindacati, nelle associazioni e sulle colonne dei principali giornali italiani, ripresero e rilanciarono alcuni temi cari a quest'area politica - le fondamenta della democrazia, la difesa della Costituzione, la laicità delle istituzioni repubblicane, lo sviluppo di una forte etica pubblica. Si pensi, per esempio, a Vittorio Foa, Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Leo Valiani, Giorgio Bocca. Soltanto a partire dagli anni novanta si tentò di riallacciare i rapporti all'interno della diaspora giellista e azionista, dapprima con la costituzione, nel 1993, del Movimento d'azione Giustizia e Libertà[20] (alla cui presidenza fu chiamato Aldo Garosci), in seguito con la costituzione della Federazione nazionale dei circoli Giustizia e Libertà, il cui coordinatore è Vittorio Cimiotta. Quest'ultima è un'"associazione di associazioni" (facente capo allo storico Circolo "Giustizia e Libertà" fondato a Roma nel 1948) priva di finalità di tipo partitico, ma esclusivamente di studio e diffusione del patrimonio ideale, culturale e politico di GL e del Pda. Su questi temi collaborò con le fondazioni, gli istituti storici, gli archivi e le associazioni con questo comune interesse. A Torino, nel 1993, si costituì il Movimento d'Azione Giustizia e Libertà (con finalità di politica riconducibili ai partiti della sinistra) sotto l'egida culturale di Alessandro Galante Garrone e di Guido Fubini che lo presiedette sino al decesso. Dal 2010 è presidente Antonio Caputo; ha organizzato e coorganizza importanti eventi, come la manifestazione del 29 aprile 2001 al Cinema Eliseo di Torino che fu occasione per diffondere l'appello di Bobbio, Galante Garrone, Sylos Labini, Pizzorusso, per battere col voto la cosiddetta "casa delle Libertà"; il Palavobis del 2002, "se non ora quando" del 2011. Esprime la linea attualizzata dell'azionismo torinese, inteso come metodo che intende coniugare pensiero e azione, nella difesa e attuazione della Carta costituzionale e dell'affermazione dei principi sempre attuali di Giustizia e Libertà.

PRIMO MAGGIO. FESTA DEI LAVORATORI: SOLITA LITURGIA STANTIA ED IPOCRITA.

Primo maggio, Festa dei lavoratori? No! Festa dei violenti e degli immigrati.

1° MAGGIO, PERCHE' LA FESTA DEL LAVORO? (CHE NON C'E'...) Scrive Domenica 30 Aprile 2017 Luigi Garofalo su "Leggo". Tre 8. La festa dei lavoratori che si festeggia il primo maggio è figlia della rivendicazione, coniata in Australia nel 1856, di “otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire” perché nei Paesi che si stavano rapidamente industrializzando, si lavorava 11-12 ore in condizioni spesso bestiali. È una festa figlia delle lotte del movimento operaio e socialista.  Perché si festeggia il 1^ maggio?  Perché la prima volta è stato festeggiato nell’Illinois (USA) nel 1867: nonostante l’entrata in vigore di una legge che stabiliva la giornata lavorativa di otto ore, molti imprenditori non volevano rispettarla: per le vie di Chicago sfilarono 10mila operai, il più grande corteo mai visto fino ad allora. In Italia nel 1947 la festa del lavoro e dei lavoratori è diventata ufficialmente festa nazionale. Da diversi anni, a causa dell’alta disoccupazione, si dice che il primo maggio è la festa del lavoro…che non c’è. 

Lavoro che non c’è, riflessioni sulla Festa dei lavoratori, di Giuseppe Saluppo su "La Gazzetta molisana" il 30 aprile 2017. La chiamano festa dei lavoratori, ma in realtà il 1° Maggio, ormai da qualche decennio, si è trasformato in una cerimonia funebre. Con la disoccupazione schizzata al 13% e quella giovanile (15-24 anni) che supera il 44%, con disoccupati e inattivi che vorrebbero lavorare ma non hanno prospettiva che arrivano al 25%. Festa del Lavoro? Si è già parlato, più o meno scherzosamente, del suo opposto: festa del non lavoro. E dunque, se così è, si può ancora parlare di festa? E’ vero, ci sono timidi segnali di ripresa ma, purtroppo, restano forti criticità. Con la disoccupazione giovanile alle stelle, una tassazione soffocante e un territorio che invecchia. E’ la fotografia, per certi versi impietosa, del nostro Molise. I numeri descrivono un territorio che procede a tentoni, alla ricerca di un rilancio possibile ma sostanzialmente fermo. Un primo maggio in cui il senso della festa è sostituito dalle preoccupazioni per il futuro, per il lavoro che non c’è; sostituito da quel senso di precarietà, dalla paura del domani, dal rischio di non farcela, non solo di chi il lavoro l’ha perduto, ma anche di chi il lavoro non l’ha ancora avuto: i nostri figli. Il “libero mercato del lavoro” sta spingendo i nostri giovani fuori dalla Regione, trasformandola in una terra di vecchi dove si sta rinunciando all’energia vitale, alla creatività, alla capacità di lavoro e di progetto perché i giovani saranno sempre più, una minoranza. Dovrebbe dunque essere chiara l’enormità economica, politica, umana della questione del lavoro, dove le aziende chiudono i battenti e nessuna capacità politico- progettuale crea alternative credibili di crescita. L’unico binario percorribile per inseguire un futuro migliore e regalare alle nuove generazioni un mondo del lavoro diverso è la legalità, la dignità e il rispetto della vita. Ideali limpidi da proteggere e rivendicare ad ogni costo. Perché, disoccupazione e precarietà uccidono il futuro e l’economia.

Quei cortei senza operai: gli immigrati in prima fila. Fino a pochi anni fa sfilavano manovali e tute blu. Ora non si sentono più rappresentati dai sindacati, scrive Riccardo Pelliccetti, Mercoledì 3/05/2017, su "Il Giornale". L'immagine non sorprende, ma fa riflettere. L'Italia è diversa e i sindacati pure, così il Primo maggio 2017 fotografa una realtà su cui spesso non ci soffermiamo: il cambiamento sociale. Rapido e inarrestabile. Certo, per i cultori della società multietnica sono passi verso il paradiso del progresso, un'opinione rispettabile ma non per questo condivisibile. Vedere la prima fila del corteo di Milano, in occasione della Festa del Lavoro, composta totalmente da lavoratori extracomunitari lascia interdetti. In passato ci eravamo abituati a veder sfilare le tute blu della Fiat, della Breda, dell'Ilva e di tante altre realtà operaie e industriali italiane. Sono solo un ricordo. Eppure i lavoratori italiani sono ancora tantissimi, anzi la stragrande maggioranza: sono oltre 22 milioni gli occupati in Italia (tra lavoratori dipendenti e autonomi) tra i quali gli stranieri sono poco più di due milioni. Un numero corposo ma parliamo del 10 per cento della forza lavoro. Per quanto in molti distretti industriali la manodopera dei migranti sia una realtà consistente, la media nazionale rivela che nove lavoratori su dieci sono italiani. Ma, a guardare le immagini del corteo del Primo maggio, le proporzioni sembravano opposte, anche se oltre un milione di stranieri è iscritto al sindacato. Ma forse c'è un altro motivo, senza bisogno di scomodare il passato. Tra quel 90 per cento di lavoratori italiani ve ne sono pochi che desiderino sfilare in corteo sotto i vessilli sindacali e, men che meno, che vogliano marciare in prima fila. Forse perché sono disillusi e delusi dai sindacati italiani che, in questi anni, non hanno fatto niente di più che avventurarsi in qualche conflittualità politica, mostrando di essere più partiti che associazioni di lavoratori. E molto spesso sono impegnati più a difendere i privilegi che a tutelare i diritti. Certo, in questa congiuntura economica e con il mercato del lavoro anoressico non c'è grasso che cola ma allora, a maggior ragione, dovrebbero tornare a essere rivoluzionari e proporre ricette che siano al passo con i tempi. Per esempio, è inutile arroccarsi sull'articolo 18 per difendere posizioni anacronistiche, quando da anni l'unica nuova occupazione è il cosiddetto precariato. Come accade nel pubblico impiego, dove i dipendenti a termine guadagnano la metà rispetto a uno assunto a tempo indeterminato, ma senza la tutela del posto fisso. Un controsenso, una vergogna di cui sono corresponsabili i sindacati, che hanno piantato i piedi solo per difendere chi è già garantito, il quale talvolta può anche permettersi di essere un fannullone senza temere alcunché. Detto questo, non vi è nulla di strano né di sorprendente se il Primo maggio i lavoratori extracomunitari sfilano in corteo, ci mancherebbe. Ma quella prima fila ha tanto il sapore della resa dei lavoratori italiani. Certo, meglio questa immagine di quella vista a Trieste, dove nel corteo sventolavano le bandiere con la stella rossa dei partigiani titini. Più che una festa del Lavoro, qualcuno ha preferito celebrare l'anniversario della sanguinosa occupazione jugoslava di Trieste, cominciata il Primo maggio 1945. Per qualcuno il tempo si è fermato assieme ai propri neuroni. Qualcun altro invece pensa di anticipare i tempi. I sindacati forse sono convinti che questa metamorfosi possa garantirgli un futuro. Può darsi che non abbiano tutti i torti (a guardare i rapporti dell'Istat, se non vi saranno inversioni di tendenza, gli stranieri in Italia saranno oltre 20 milioni entro il 2065).

Tra l'ipocrisia dei sindacalisti e la violenza dei centri sociali: il solito Primo maggio. Nelle piazze va in scena il copione di sempre: da una parte l'ipocrisia dei sindacati, dall'altra gli antagonisti violenti, scrive Chiara Sarra, Lunedì 1/05/2017, su "Il Giornale". Da una parte l'ipocrisia dei sindacati, in piazza a difendere il lavoro che loro stessi hanno ucciso. Dall'altra centri sociali e antagonisti, sempre pronti a vandalizzare e provocare la polizia, costretta a caricare per evitare disordini e eccessi. Va in scena il solito copione del Primo maggio. La giornata dedicata ai lavoratori è iniziata con l'omaggio dei segretari generali di Cgil, Cisl e Uil a Portella della Ginestra, in provincia di Palermo, a 70 anni dall'eccidio. "È un Primo maggio di impegno e non di festa perchè c'è poco da festeggiare", ha detto Carmelo Barbagallo (Uil), "Siamo qui per rivendicare l'opportunità di far riprendere l'economia del Paese mettendo al centro del dialogo l'articolo 1 della Costituzione, cioè che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. E vediamo di non affondarla sul lavoro". "Il messaggio di oggi deve essere lavoro, lavoro, lavoro", aggiunge, Annamaria Furlan (Cisl), "Siamo qui contro le mafie, siamo qua per mettere al centro del dialogo sul futuro il tema dell'occupazione dei nostri giovani che non trovano lavoro e sono costretti ad abbandonare il nostro Paese. Abbiamo bisogno delle loro intelligenze per proiettarci nel domani". Intanto a Milano si svolgeva sotto la pioggia il corteo dei sindacati che hanno sfilato insieme ai migranti. Un centinaio di persone, soprattutto uomini ma anche donne, di origine egiziana, senegalese, ivoriana e di altre nazionalità, con tamburi, bandiere rosse con la scritta "Proletari di tutti i Paesi unite", tradotta in diverse lingue e striscioni come "Migranti del mondo benvenuti" e "Basta con gli spacciatori di paura". E l'immancabile "Bella ciao" che ha accompagnato il corteo fino alla fine, in piazza della Scala. Tensioni e scontri invece a Torino dove la polizia ha bloccato i manifestanti dei centri sociali per impedire loro l'accesso in piazza San Carlo dove sono previste le manifestazioni ufficiali. I dimostranti hanno così tirato uova contro le forze dell'ordine, che hanno risposto con cariche di alleggerimento.

Se i sindacati festeggiano ciò che hanno ucciso. Nove milioni di italiani a rischio povertà. Invece che autocelebrarsi nelle piazze, i sindacalisti dovrebbero fare un esame di coscienza, scrive Carlo Lottieri, Lunedì 1/05/2017, su "Il Giornale". I dati diffusi nell'imminenza della festa dei lavoratori offrono una rappresentazione eloquente dei disastri conseguenti a decenni di alta tassazione e regolazione. Lo studio realizzato da Unimpresa, in effetti, mette il dito nella piaga, ricordando come ben nove milioni di italiani siano a rischio povertà. Invece che autocelebrarsi nelle piazze, allora, i sindacalisti dovrebbero fare un esame di coscienza e rivedere le proprie linee di condotta. Se manca il lavoro e se anche quanti hanno un'occupazione spesso possono contare su retribuzioni modeste, questo si deve al fatto che lo Stato pesa come un macigno sull'economia: esso sottrae un'enorme quantità di risorse e, oltre a ciò, impedisce quello sviluppo dei rapporti contrattuali che è alla base di ogni crescita. Avere eliminato i voucher, ad esempio, renderà ancora più difficile la vita di tante imprese e ostacolerà ancor più quanti cercano di guadagnarsi da vivere. Se il miglioramento delle condizioni di vita deriva sempre e soltanto dalla libera inventiva, dall'impegno e dal moltiplicarsi degli scambi, in questi anni i governi (spesso subendo i diktat sindacali) hanno fatto quasi tutto il possibile per impedire la crescita. E se ora l'esecutivo salverà 13mila posti di Alitalia, sarà solo per bruciare risorse che - qualora lasciate nelle tasche di chi le ha prodotte - con ogni probabilità potrebbero crearne molti di più. Una delle ultime battaglie di retroguardia è stato il «no» al lavoro festivo, conseguente alla pretesa d'imporre a tutti come devono vivere. Ma questa logica autoritaria, nei fatti, può solo aumentare la disoccupazione. Le strutture corporative che condizionano la vita produttiva (la Cgil e non solo), ogni Primo maggio scendono in piazza in nome dei lavoratori e a «difesa del lavoro», ma sono impegnate in attività che impediscono a molti giovani e meno giovani di costruirsi un futuro. Il sistema di tutele che è stato costruito spesso nega la possibilità d'interrompere un rapporto di lavoro anche quando il dipendente non è giudicato interessante dall'azienda. Tutto ciò, unito al prelievo fiscale esorbitante, frena molte imprese dall'assumere e spinge pure a trasferire fuori dalle frontiere i propri impianti. Statalismo e demagogia sono all'origine del disastro italiano. Se i sindacati non lo comprendono e non cambiano rotta, sperare in un futuro migliore è proprio da ingenui o da sprovveduti.

Ecco la verità sul crac Almaviva: il Tribunale dà la colpa alla Camusso. Nessuna volontà di dare attuazione agli accordi. E la Cgil paga le spese, scrive Patricia Tagliaferri, Mercoledì 3/05/2017, su "Il Giornale". Anche quest'anno, tante belle parole sui diritti dei lavoratori dal palco del concertone del primo maggio, in piazza San Giovanni. Salvo poi scoprire che non sempre i sindacati remano a favore di coloro che dovrebbero tutelare. Nulla di inedito. Questa volta, però, è anche un giudice a certificare che è andata così nella dolorosa vicenda di Almaviva, costata il licenziamento a 1.666 dipendenti del call center di Roma. La sentenza riportata da Il Messaggero è clamorosa, perché le carte giudiziarie raccontano una storia diversa da quella che solitamente passa dalle organizzazioni sindacali. Per il Tribunale del Lavoro di Roma ai licenziamenti dello scorso dicembre si è arrivati anche per colpa del comportamento dei sindacati che «hanno chiaramente dimostrato di non voler dare attuazione agli accordi firmati». Nella fase finale del confronto, poi, scrive il giudice, «non hanno chiesto alcuna interruzione della trattativa per attendere la consultazione dei lavoratori», così che il referendum fra i lavoratori si svolse a licenziamenti già partiti. Altro che concertazione, insomma. Sono accuse pesanti, quelle messe nero su bianco dal Tribunale, che offrono uno spaccato inedito su quello che normalmente si intende per confronto sindacale. Il ricorso contro i licenziamenti presentato dalla Cgil-Slc è stato così respinto e il sindacato di Susanna Camusso, oltre ad essere condannato a pagare 3mila euro, è finito sotto accusa, indiretto «complice» della perdita di tanti posti di lavoro. Nella sentenza il giudice ripercorre la vicenda, da quando azienda e sindacati si accordano per aumentare la produttività dei call center di Roma e Napoli. Poi però la Gcil-Slc salta i primi due incontri fissati e un terzo va a vuoto. Un comportamento che non passa inosservato al giudice, che pronunciandosi stigmatizza anche quello delle Rsu, alla cui «lacerazione» attribuisce la responsabilità del mancato accordo. Il risultato finale sono i 1.666 licenziamenti, giunti «per l'esito di un percorso svoltosi nel rispetto di condizioni e termini fissati dalla legge». In altre parole legittimi. Nulla da dire, dunque, su Almaviva, che grazie al lavoro di chi avrebbe dovuto tutelare gli interessi dei dipendenti si è potuta liberare di quelli in esubero.

Il concerto del 1˚ maggio ci costa 900mila euro, scrive "Libero Quotidiano" il 28 aprile 2017. Il Concertone del Primo maggio a Roma, più che ad un rito, assomiglia ad un rituale. Una sorta di piccola Sanremo alternativa, declinata dai sindacati a favore dei lavoratori, che non sono mai in piazza San Giovanni. Sotto al palco giovani e giovanissimi, che poco sanno di lavoro e ancora meno di sindacato. Figuriamoci del significato del Primo maggio. Per la maggior parte di loro è solo una grande occasione per fare una scampagnata a Roma. Eppure Cgil, Cisl e Uil si ostinano a chiamarlo «Concertone». Forse per i costi, visto che la kermesse, fra allestimento, cast, Siae, permessi e spese varie costerà «fra gli 800mila e i 900mila euro». A spiegarlo è Massimo Bonelli, musicista e produttore, che con la sua società «iCompany» produce il Concertone di piazza San Giovanni (che quest’anno sarà condotto da Clementino e Camila Raznovich) insieme alla Ruvido Produzioni di Carlo Gavaudan. Fra i costi non vi sono cachet degli artisti dato che, spiega Bonelli, «la quasi totalità degli artisti non riceve un compenso ma solo un rimborso spese», spiega il promoter, «accettano di esibirsi perché hanno motivi personali, di impegno civile, e poi perché il Concertone è una magnifica vetrina». Ecco, quest’ultima ipotesi è decisamente la più verosimile. Una folla acclamante in piazza, il resto davanti alla Tv. Il concerto dei confederali per la Festa dei Lavoratori ai sindacati, che ne sono solo promotori, non costa nulla. Chi paga il conto, sostanzialmente in linea con quello dello scorso anno secondo Bonelli, sono gli sponsor e la Rai, che manda in onda il concerto. Viale Mazzini sborsa una cifra che oscilla fra i 400 e i 500 mila euro, facendosi carico del grosso delle spese. La parte restante è a carico degli sponsor. La domanda resta quella di sempre: è normale che la Rai paghi l’evento dei sindacati quando il ritorno, sia in termini pubblicitari che di ascolto, non è certo in linea con la cifra spesa? La domanda si rincorre da anni senza trovare una vera risposta. Se non quella di sempre. In fondo il Concertone è la piccola Woodstock de’ noantri (come si dice a Roma) e per riempire il palinsesto del primo maggio un po’ di musica non fa male.

Le magagne del concertone del primo maggio di Roma. Critiche incrociate, budget risicati, aziende in liquidazione e lavoratori in attesa dei pagamenti, scrive Lidia Baratta il 30 Aprile 2014 su “L’Inkiesta”. Guardando sotto il tappeto del concertone del primo maggio a Roma si scoprono tante cose. Dietro le quinte del palco di piazza San Giovanni, dove si esibiscono ogni anno band più o meno emergenti e artisti più o meno conosciuti, si nascondono critiche incrociate tra organizzatori e sindacati, budget sempre più risicati, società in liquidazione e lavoratori che aspettano di esser pagati. Dal 2001 l’evento viene organizzato da Marco Godano, da leggersi con l’accento sulla “o” per non confondersi con Godàno, cognome del leader dei Marlene Kuntz, con il quale il patron della manifestazione non ha nessuna parentela. Godano, un passato da militante di sinistra come dirigente dell’Arci Musica, lavorava già nella precedente gestione del concertone, per poi passare a essere il promoter principale dell’evento con la sua società Primata srl, acronimo di “Primo maggio tutto l’anno”. La società, controllata dal gruppo Godano - che fa capo a Connie Godano - risulta in liquidazione (come le altre tre aziende – su cinque – del gruppo), con 400mila euro di debiti sulle spalle; e dal 2011 non organizza più il concertone di piazza San Giovanni. Dopo lo scioglimento della Primata, la palla poi era passata alla Anyway srl, di cui Godano è amministratore unico, ma in vent’anni di attività ha accumulato più di un milione di debiti. Così «la Anyway ora non organizza più il Concertone», spiega Godano, nonostante il nome della società compaia ancora in fondo al sito dell’evento. «Proprio per mettere a posto i conti, abbiamo passato la mano alla società 1MVideo», nata nel settembre 2013, per iniziare ufficialmente le attività poco più di due mesi fa. Tolta un’azienda in difficoltà, se ne mette un’altra, purché il concerto si faccia. La storia senza lieto fine della Primata, però, non è isolata. Godano, il cui contratto per l’organizzazione del primo maggio scade nel 2015, ha alle spalle un lungo passato nel mondo dello spettacolo e dell’organizzazione di eventi, anche per Confidustria. Il suo curriculum è ricco di imprese ormai inattive, cancellate, liquidate e fallite. Come il gruppo Edo srl, che nel 2003 ha prodotto per la Rai la trasmissione Fiesta. Su Il Giornale di qualche anno fa venne fuori che autori e conduttori del programma si erano dovuti rivolgere agli avvocati per cercare di incassare le retribuzioni dovute. Ma lo speaker radiofonico Joe Violanti, che con Charlie Gnocchi era coautore e conduttore del programma, a distanza di undici anni dice: «I soldi naturalmente sono spariti, nell'assordante silenzio della Rai». E pare che non sia l'unico caso, visto che proprio di recente si è concluso un contenzioso con altri quattro lavoratori per mancati pagamenti da parte della GoEvent srl, sempre del gruppo Godano, e sempre in liquidazione. «È una vicenda destinata a concludersi», spiega l’avvocato Fabio Santoro, che ha seguito i quattro lavoratori. «La società GoEvent srl ha sottoscritto un accordo dopo un contenzioso durato un anno. Il 2 maggio le persone saranno pagate con il pagamento integrale, più gli interessi maturati in un anno. Il contenzioso da parte nostra si può quindi dire concluso con estrema soddisfazione». Le cifre sono «riservate», dice l’avvocato, e comunque dipende dai casi. Ci sono persone che aspettano gli arretrati di due mesi di lavoro, altri di più. Si tratta di qualche migliaio di euro mensile per lavoratore. Non stipendi stellari, insomma. Qualcuno di loro ha anche lavorato per il concertone del Primo maggio, ma Godano precisa che i mancati pagamenti «non riguardavano il concertone». Tant’è. Ma affidare l’organizzazione del concerto della Festa dei lavoratori a uno che non paga i propri dipendenti (tanto più sei quattro non sarebbero i soli ad aspettare ancora pagamenti da Godano, come giurano alcuni suoi ex dipendenti) sembrava quantomeno paradossale. Tanto che Cgil, Cisl e Uil sarebbero intervenuti per sollecitare l’accordo tra l’azienda e i lavoratori non pagati. «Avevamo saputo che c’era qualche problema, in particolare per il mancato pagamento di alcuni fornitori», dice Carmelo Barbagallo, segretario generale aggiunto della Uil. «Per cui abbiamo chiesto alla società di arrivare a una soluzione. Da parte nostra, però, siamo solo promotori del concerto, non ci occupiamo della gestione artistica. Quello che ci interessa è l’affidabilità dell’impresa e dal risultato finale mi pare ottima. Ma siamo anche sindacato, e se veniamo a conoscenza di qualche irregolarità, interveniamo, come è avvenuto». Cgil, sulla questione, ha preferito non rispondere. Dalla Cisl, invece, rispondono dicendo che i sindacati sono «solo i promotori e non gli organizzatori del concerto». In effetti i sindacati con l’organizzazione, soprattutto economica, del concerto non c’entrano proprio nulla. Cgil, Cisl e Uil, che quest’anno per la festa dei lavoratori hanno organizzato un corteo a Pordenone, dal 1990 scelgono l’impresa organizzatrice dell’evento e amen. Le tre sigle si trovano nel logo del concertone. Ma più di loro per il palco di piazza San Giovanni contano gli sponsor privati, che per metà, insieme alla cessione dei diritti alla Rai, garantiscono ogni anno la copertura economica del concertone. Per anni l’evento è stato sostenuto quasi esclusivamente da aziende a controllo statale: oltre alla Rai, Poste Italiane, Trenitalia ed Enel. «Sono quelli che si vedono ai lati del palco», spiega Godano, «gli sponsor più importanti sono Poste italiane, Gruppo Unipol, Eni e Banca Intesa, oltre ad alcuni sponsor tecnici di varia natura». Il sostegno del Comune di Roma, invece, messo in discussione negli anni precedenti dal sindaco Alemanno, che nel 2012 aveva presentato il conto ai sindacati chiedendo 240mila euro, «si concretizza per quanto riguarda i fondamentali servizi di pulizie dell’Ama, così come c’è un sostegno della Regione Lazio per la parte sanitaria, il 118 e la guardia medica. Non dimentichiamo che c’è una piazza con centinaia di migliaia di persone». Ma l’austerity vale anche per il concertone, e anche quest’anno ci saranno altri tagli al budget, che si aggirerebbe su per giù intorno agli 800mila euro. Il 20 aprile, a pochi giorni dalla festa di piazza San Giovanni, Godano dichiarava al Tempo: «Anche quest’anno non sappiamo quanti soldi abbiamo». Dal 2008 a oggi, tra sponsor e diritti tv, si sono persi circa tre milioni di euro. Per questo Godano chiedeva la costituzione di una «fondazione» per mano delle tre sigle sindacali. «Fa parte della situazione complessiva del Paese», taglia corto evitando polemiche, «che ci impone di fare scelte di sobrietà. Non ci lamentiamo: la forza del concertone è sempre stata la creatività, l’impegno, la competenza di quelli che ci lavorano, la generosità degli artisti e l’energia dei ragazzi della piazza. Un mix che non ci ha mai tradito, non abbiamo mai tradito e non tradiremo neanche quest’anno». Va detto, tra l’altro, che gli artisti sul palco percepiscono poco più che un rimborso spese. Grandi big a parte, che quest’anno - non a caso -sembrano latitare (qui l’elenco). Anzi, a vedere l’elenco, gli «avannotti» di cui parlano gli Elio e le storie tese nel loro Complesso del Primo Maggio sarebbero di più dei «pesci grossi». Eppure suona strano che per uno degli eventi live più grandi d’Europa non si sappia su quale budget si possa contare fino a pochi giorni prima. Si naviga a vista, insomma. «Bisognerebbe poter programmare dal 2 maggio quello che succederà l'anno dopo», dice Godano. «Purtroppo fino ad oggi non è stato possibile. Ci vorrebbe un provvedimento ad hoc per sostenere il concertone, che ha un valore sociale importante». Provvedimento ad hoc che, viene naturale ipotizzare, dovrebbe arrivare dai sindacati, che sotto l’evento continuano a metterci la firma. Anche se, precisa Godano, «rispetto al ruolo che hanno, i sindacati fanno abbondantemente il loro dovere». Con qualche piccolo incidente di percorso. Come quando due anni fa Fabri Fibra venne escluso dalla scaletta per via di presunti testi definiti «sessisti» dalle organizzazioni femministe. O quando nel 2007 i sindacati criticarono le parole del conduttore Andrea Riverasul Vaticano e il pm John Woodcock. Ma nonostante qualche incursione dei padroni di casa, con il sindacato e i lavoratori il concertone del primo maggio ha ormai poco o niente a che fare. Tra un pezzo e l’altro, a ricordare ai ragazzi danzanti «a torso nudo» (ancora citazione degli Elii) le radici “impegnate” dell’evento, ci pensa il tema scelto per l’edizione 2014: «Le nostre storie. Accordi e disaccordi delle nostre radici, della nostra memoria e del nostro domani». 

I GIORNALISTI SON TROPPO DI SINISTRA.

Filippo Facci condannato e sospeso per aver criticato l'islam. Scrive Filippo Facci il 17 Giugno 2017 su "Libero Quotidiano". La notiziola è che il Consiglio di disciplina dell'Ordine lombardo dei Giornalisti ha deciso di sospendermi per due mesi dalla professione e dallo stipendio, questo a causa di un articolo che pubblicai su Libero il 28 luglio 2016 e che fu titolato «Perché l'islam mi sta sul gozzo». Una giovane collega, che non conosco, lesse l'articolo - che ebbe un certo seguito - e ritenne di fare un esposto contro di me: c' è gente che in agosto fa queste cose. Il risultato, dopo un pacato processino, è questa condanna incredibilmente severa rispetto alle abitudini dell'Ordine: è una sentenza comunque appellabile e, da principio, avevo pensato di riservare ogni reazione alle sedi competenti, come si dice: poi ho letto le motivazioni del giudice estensore (un avvocato che si chiama Claudia Balzarini) e sinceramente non ce l'ho fatta.

Questo per due ragioni: la prima è temperamentale mia, la seconda riguarda puramente la libertà di espressione garantita dalla Costituzione, che non è solo affar mio. Anticipo solo questo: trovo riprovevole che il regolamento del Consiglio di disciplina permetta che una non-professionista, che ho diritto di giudicare di dubbio livello culturale e di forte condizionamento ideologico, possa privare un giornalista e relativa famiglia dei mezzi di sostentamento per mesi due: e questo, a mio dire, non per una palese violazione di alcuna legge (in particolare viene citata la Legge Mancino, quella che vieta la diffusione di idee fondate sull' odio razziale) bensì, sempre a mio dire, per le sue personali visioni del mondo. Ci sarebbe il problema, ora, di illustrare l'oggetto del contendere (l'articolo) senza che suoni come un pretesto per riproporlo tale e quale: suonerebbe provocatorio e non mi va. Quindi dovrete fidarvi di una sintesi dei concetti che esprimeva: e lo faceva con grande chiarezza, vi assicuro.

Unica premessa: il linguaggio era durissimo, volutamente durissimo: e questo come reazione all' impossibilità, oggigiorno, di esprimersi liberamente sull' islam con lo stesso comune linguaggio che si riserverebbe ad altri temi, senza dover porre tremila distinguo ogni volta: «Ho esagerato consapevolmente e lucidamente», ho detto durante l'audizione all' Ordine.

Dopodichè, passando all' articolo, in esso ho espresso il personale diritto di poter odiare l' islam, tutti gli islam, dunque gli islamici e la loro religione che giudico addirittura peggiore di tutte le altre: perché - anche su questo sono stato chiarissimo, durante il processino - io le religioni le detesto tutte, alla maniera dei razionalisti inglesi: non sono mai stato un teo-con, non m' interessa contrapporre una religione a un' altra: tanto che, su questo giornale, ho espresso critiche durissime anche contro il Papa e il Vaticano (forse l' estensore della sentenza non avrebbe gradito neppure quelle, scrivendo lei su Famiglia Cristiana) e questo senza che nessuno mi denunciasse all' Ordine. Certo, alla teosofia islamica ho riservato un'intolleranza particolare perché trattasi di un credo totalizzante e imperniato sulla sottomissione altrui, o - per fare un solo esempio - sulla considerazione della donna come essere inferiore. Dal mio articolo: «Io non odio il diverso: odio l'islam, perché la mia (la nostra) storia è giudaica, cattolica, laica, greco-latina, rousseiana, quello che volete: ma è la storia di un'opposizione lenta e progressiva e instancabile a tutto ciò che gli islamici dicono e fanno». Da qui un' intolleranza (mia) anche per dettagli che sono liberissimo, credo, di poter detestare apertamente: dalle moschee ai tappeti che puzzano di piedi, dai veli femminili al cibo involuto, dall' ipocrisia sull' alcol a cose più serie come «le teocrazie, il loro odio che è proibito odiare», soprattutto «quel manualetto militare che è il Corano», che a sua volta devo poter criticare esattamente, ritengo, come posso fare col Vangelo o chessò, col Mein kampf: che trattano idee o ideologie - tali sono anche le religioni - e non singole persone. Sempre dal mio articolo: «Odio l'islam perché l'odio è democratico esattamente come l'amare, odio dover precisare che l'anti-islamismo è legittimo mentre l'islamofobia no, perché è solo paura: e io non ne ho, di paura... Odio l'islam, ma gli islamici non sono un mio problema: qui, in Italia, in Occidente, sono io a essere il loro».

Bene. Ora qualche estratto dalla sentenza, del cui livello possiamo avere un'idea sin dall' incipit: «Facci ha respinto con fermezza l'accusa di razzismo. Questa è la premessa che solitamente accompagna tutte le affermazioni di carattere razzista». Chiaro: è come dire che dirsi innocenti, in tribunale, sia un primo indizio di colpevolezza: il livello è questo, e per non essere scorretti tralasceremo gli errori materiali di scrittura (sbagliano a scrivere «jihad», ma a ciascuno il mestiere suo). A ogni modo, «Le affermazioni contenute nell' articolo hanno un evidente carattere razzista e xenofobo»: e qui, francamente, c' è da averne abbastanza dell' espressione «razzista» adottata ormai come termine passpartout quando ha invece un significato etimologicamente e storicamente preciso, vedasi vocabolario: è l' idea che la specie umana sia divisibile in razze biologicamente distinte - con diverse capacità intellettive, valoriali o morali - con la convinzione che un raggruppamento razziale possa essere superiore a un altro. Questo è il razzismo, imparentato con la xenofobia che è, invece, una generica paura dello straniero. Ma se è vero che il mio articolo parla di idee, attenzione, «la parte peggiore è proprio quella che riguarda le idee e che consiste in un attacco e in un offesa ad un intero sistema culturale». E se anche fosse? Siamo al reato di vilipendio islamico? «Facci offende una religione e un intero sistema di valori. Non può non rilevarsi che, per l'islam, il Corano ha un valore diverso di quello (sic) che per le altre religioni rivelate hanno i libri sacri». Ergo, se abbiamo letto bene: il Corano non si può offendere, gli altri libri già di più. Mistero: resta che trattasi, l'articolo, di «attacco diretto, indiscriminato e generalizzato verso un gruppo di persona (sic) che costituisce un quarto del genere umano». Verrebbe da rispondere che gli idioti forse sono anche di più, tuttavia la Costituzione non ci impedisce di criticarli. Nell' insieme, è semplicemente pazzesco. Mi avessero detto «hai ecceduto nel linguaggio e allora ti sanzioniamo», forse avrei capito. Ma questa è un'altra cosa. E rischia, sissignori, di essere lo specchio di un'epoca. Filippo Facci

Facci sospeso perché rivendica il diritto all'odio. Sull'onda degli attentati in Europa, il giornalista rivendicava il diritto ad odiare l'islam e gli islamici. Ora l'Ordine lo ha sospeso per due mesi dalla professione e dallo stipendio, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 17/06/2017, su "Il Giornale". L'Ordine dei giornalisti ha sospeso per due mesi dalla professione e dallo stipendio Filippo Facci, collega di Libero e noto volto televisivo. Nell'articolo finito sotto inchiesta, scritto nel luglio dello scorso anno, Facci rivendicava il diritto ad odiare l'islam e gli islamici. Un articolo molto duro, nella forma e nella sostanza, scritto sull'onda degli attentati fatti nel nome di Allah che in pochi giorni provocarono in Europa oltre cento vittime, la maggior parte delle quali a Nizza. Conosco Filippo Facci e lo stimo, come collega e come intellettuale. È un uomo talmente libero da non aver raccolto quanto il suo talento gli avrebbe permesso accettando solo qualche piccolo e umano compromesso. No, non c'è verso: lui si infiamma e parte in quarta senza remore e limiti. Per questo piace a molti lettori, meno a direttori ed editori. Figuriamoci ai colleghi invidiosi, ai notai del pensiero, ai burocrati del politicamente corretto. Filippo Facci non farebbe male a una mosca (al massimo è capace di farlo a se stesso) e per questo non mi spaventa che abbia rivendicato il «diritto all'odio» di una religione e di una comunità che hanno generato i mostri assassini dei nostri ragazzi. L'odio inteso - nell'articolo è ben spiegato - non come incitamento alla violenza, ma come sentimento contrario a quello dell'amore, «detestare» come opposto di «ammirare». I sentimenti non si possono contenere, ma evidentemente non si possono neppure scrivere. Tanto più se sei un giornalista, se non sei di sinistra, se pubblichi su un giornale di destra, se si parla di islamici. Il tema posto da Facci sul diritto all'odio (Travaglio, tanto per fare un esempio, lo teorizzò nei confronti di Berlusconi) è questione aperta nonostante sia stata affrontata nei secoli da fior di filosofi e da grandi intellettuali. Che a differenza dei colleghi del tribunale dell'Ordine di Milano non sono mai arrivati a un verdetto unanime (e qualcosa vorrà pur dire). Qui non parliamo di una notizia falsa o di fatti e persone specifiche. Siamo di fronte all'opinione di un intellettuale. Il problema non è condividerla o meno. È non censurarla, non soffocarla, non punirla, come abbiamo sempre invocato per chiunque, compreso per Erri De Luca quando istigò al sabotaggio della Tav. Tanti islamici, anche se non terroristi, anche se non lo dichiarano, odiano noi e i nostri costumi. Noi stiamo per premiarli dando la cittadinanza automatica ai loro figli. Però puniamo Facci che non fa mistero dello stesso, reciproco, sentimento. Mi spiace per lui e mi spiace per la categoria così ridotta. Ma soprattutto mi spiace per tutti noi.

Islam, culo e bavaglio, Vittorio Feltri il 17 Giugno 2017 su "Libero Quotidiano" difende Facci: perché ha il diritto di critica. Il nostro eccellente Filippo Facci, editorialista di vaglia, è stato «condannato» a due mesi di disoccupazione per aver pubblicato un articolo nel quale egli manifestava odio e disprezzo nei confronti dell'islam in genere. La dura sentenza non è stata emessa da un tribunale della Repubblica bensì dall' Ordine lombardo dei giornalisti, ente legittimato a punire gli iscritti anche se si limitano a usare un linguaggio considerato dai giudici (improvvisati) volgare e offensivo. Il che è arbitrario. Secondo i colleghi al vertice dell'Albo, Facci merita di essere sospeso dalla professione (chiamiamolo correttamente lavoro) non solo perché detesta i precetti del Corano, ma pure perché la sua prosa cruda non è gradita alla categoria, la quale si ispira al più vieto conformismo e, pertanto, respinge il lessico che contrasti col cosiddetto politicamente corretto. Ormai l'Ordine, pur di adeguarsi alla moda progressista, invece di badare alla correttezza dell'informazione, si preoccupa di imporre agli scribi i propri canoni estetici, per altro discutibili. In sostanza fa la guerra alle parole e ne trascura il significato. Inoltre entra nel merito delle opinioni e se non condivide quelle di un collega le boccia e le sanziona in barba alla Costituzione che, in teoria, le ammette tutte, salvo quelle del fascismo, la cui apologia è proibita. Filippo nel suo pezzo critica ferocemente la religione musulmana (e non solo questa) e coloro che la praticano. Ha ragione o torto? Non importa. Bisogna riconoscere che è un suo diritto non essere d'accordo con gli adoratori di Allah. D' altronde nessuno ha mai impedito agli anticlericali occidentali, italiani in particolare, di essere ostili al cattolicesimo, al cristianesimo. Si è mai visto un cronista perseguito dall' ordine in quanto auspica la sparizione dei preti? Non c' è quindi ragione di prendersela con Facci perché non tollera gli islamici, i cui costumi sono antitetici rispetto ai nostri. Gli si rimprovera di aver fatto ricorso a termini quali «culo» e «merda». Ma ciascuno ha il proprio vocabolario, bello o brutto che sia. Non c' è motivo di censurarlo. Il culo è una realtà che accomuna l'intero mondo animale, quindi anche umano. È il terminale dell'intestino. È obbligatorio ignorarlo? Quanto alla merda, sfido la corporazione a dimostrare con argomenti scientifici che è una invenzione di Filippo tesa a diffamare chi non sopporta la parità tra maschi e femmine e combatte la democrazia in favore dello Stato etico, da noi superato da secoli. Se la merda c' è, e le cloache ne sono piene, non si comprende per quale motivo sia innominabile. Non si cambia la società, amici redattori, ignorando la semantica e confinando all' indice certi sostantivi e certi aggettivi. Tra l'altro non è compito dei giornalisti migliorare ciò che avviene sulla terra; al massimo siamo attrezzati per descriverlo. Cosa che Facci fa egregiamente, e forse per questo gli tappano la bocca senza neppure provare imbarazzo. La libertà è un bene prezioso per tutti tranne che per i soloni dell'Albo, i quali, non riuscendo a beneficiarne (per convenienza?), pretendono di negarla a noi, sono persuasi sia un lusso inaccessibile per gente disinibita come Filippo.

Facci, l’assurda condanna dell’Ordine, scrive Pierluigi Battista il 18 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Il problema non è se Filippo Facci abbia scritto sul suo giornale castronerie o cose condivisibili. Il problema è che a decidere della liceità di ciò che ha scritto e addirittura a punirlo inibendogli per due mesi l’esercizio della professione sia chiamato un organismo per l’appunto nato nel clima del fascismo, in un’atmosfera per così dire poco favorevole all’ossigeno della libera stampa, e che si chiama Ordine dei giornalisti. Un organismo che infatti non ha eguali in tutto il resto delle democrazie occidentali, nessuna esclusa, che forse (forse?) con la libera informazione hanno una consuetudine più collaudata della nostra. Un organismo costoso e inutile, che si regge sul contributo coatto dei suoi iscritti, perché una norma liberticida, nata con il fascismo e purtroppo perfezionata nell’Italia antifascista, obbliga all’iscrizione nell’Albo dei giornalisti se si vuole esercitare, retribuiti e regolarmente assunti, la libertà di espressione in un giornale. Dicono i suoi difensori: ma anche gli avvocati, gli ingegneri, i medici e altri. Solo che gli avvocati, gli ingegneri, i medici hanno alle spalle un corso di studio, una piattaforma di conoscenze e di tecniche indispensabili per dimostrare la loro idoneità per professioni delicate per la vita di tutti. I giornalisti accedono all’Ordine dopo un esame una tantum consultando testi che, come nell’esame di guida, verranno dimenticati il giorno dopo l’acquisizione dell’obbligatorio tesserino. E soprattutto gli ordini degli avvocati, degli architetti, dei medici non mettono bocca sulle opinioni dei loro aderenti. In quello dei giornalisti, o meglio nelle burocrazie che ne detengono le leve, sì: c’è qualcuno, i cui titoli sono tutti da discutere e da vagliare, che si arroga il diritto di decidere cosa Filippo Facci, e tutti i giornalisti come lui, possa o non possa sostenere in piena autonomia e libertà. In un Paese passabilmente normale e liberale, se un giornalista commette un reato nell’esercizio della sua professione deve essere giudicato dalla giustizia al pari di tutti i cittadini. In Italia no: c’è l’organo corporativo che si sostituisce alla giustizia ordinaria e decide che Facci per due mesi non debba ricevere lo stipendio. Un’assurdità, che prescinde totalmente da quello che Facci ha scritto e può essere più o meno condivisibile. Ma in Italia, l’assurdo è normale.

Mentana difende Facci e litiga con i «webeti» «Aboliamo l'Ordine». Il direttore a fianco del collega sospeso: "No a chi sanziona le opinioni". Ma viene attaccato, scrive Luca Fazzo, Martedì 20/06/2017, su "Il Giornale. Guai a Filippo Facci, colpevole di odiare l'Islam; e guai anche a chi osa prendere le sue difese: anche se si chiama Enrico Mentana, dirige il Tg della 7, e alle spalle ha qualche decennio di carriera giornalistica che testimonia per lui. Ma non c'è niente da fare. Domenica sera Mentana sulla sua pagina Facebook attacca frontalmente l'Ordine dei giornalisti, che ha sospeso Facci - giornalista di Libero - per due mesi dalla professione e dallo stipendio per un editoriale considerato razzista: una manciata di ore, e Mentana si trova costretto a pubblicare un nuovo post per rispondere all'ondata di reazioni indignate piovutegli addosso, «direttore ma che cazzo dice?», e via di questo passo: tutte schierate contro Facci, quasi tutte contro Mentana, e in buona parte contro la possibilità stessa che un giornalista pubblichi le sue opinioni. «C'è gente - scrive Mentana nel nuovo post - che concepisce il ruolo del giornalista alla stregua di un altoparlante della stazione: annunci, notizie, nessuna opinione»: e ricorda che tutti i grandi del mestiere, da Montanelli a Bocca, furono anche portatori di opinioni forti. Per i suoi critici, il direttore conia la definizione di «analfabeti funzionali»: che richiama da vicino quella di «webeti», da lui stesso impiegata contro la demenza di molti commentatori via Internet. Quella di Mentana non è la sola voce che si è levata a difesa di Facci: prima Alessandro Sallusti sul Giornale, poi Pierluigi Battista sul Corriere. Ma è a Mentana che vengono riservate le contumelie più esplicite, in nome di una pretesa obiettività dell'informazione. E poco conta che Mentana non abbia in nessun modo condiviso le tesi di Facci, ma abbia posto il problema della libertà di opinione: «Io con gente che sanziona le opinioni non voglio avere nulla a che fare», scrive; e si schiera per l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti, «ora che da inutile è diventato anche dannoso». Ma come è arrivato l'Ordine dei giornalisti a interdire per due mesi Facci? La sanzione dà conto della autodifesa di Facci: «Il giornalista Facci ha respinto con fermezza l'accusa di razzismo (...) egli ha precisato che il suo articolo si riferisce a idee e non a persone e che il suo odio è indirizzato all'Islam come patrimonio di idee». Scrive il Consiglio di disciplina: «Questo Consiglio non deve valutare se Facci sia o meno razzista ma se l'articolo da lui scritto appaia in linea con le regole che i giornalisti si sono date per evitare la diffusione di scritti che possono ledere la dignità delle persone appartenenti a razze o religioni diverse da quella maggioritaria e possano rafforzare e legittimare nei lettori opinioni d natura razzista». Ebbene: «le affermazioni contenute nell'articolo hanno un evidente carattere razzista e xenofobo (...) la parte peggiore dell'articolo è quella che riguarda le idee e che consiste in un attacco e in una offesa ad un intero sistema culturale (...) si ritiene pertanto che Facci con la sua condotta abbia compromesso la stessa dignità della professione, ridotta a grancassa dell'ostilità e del livore contro chi appartiene ad un'altra sfera culturale».

Radio Maria, l'OdG sospende padre Livio. Disse alla Cirinnà: "Ricordati che devi morire". Il prete giornalista si era scagliato in diretta contro la prima firmataria della legge sulle unioni civili: "Adesso brinda a prosecco, alla vittoria. Signora, arriveranno anche i funerali, stia tranquilla”. Ora arriva la condanna a sei mesi di sospensione. E la senatrice lo invita, scrive il 21 giugno 2017 "L'Espresso". Padre Livio Franzaga aveva tuonato parole bibliche contro il ddl, diventato legge lo scorso anno sulle unioni civili. Non aveva gradito e in diretta dai microfoni di Radio Maria aveva espresso tutto il suo disappunto: "Signora Cirinnà, arriverà anche il suo funerale. Glielo auguro il più lontano possibile, ma arriverà anche quello". Questa frase, e quelle a seguire avevano sollevato l'indignazione degli ascoltatori. Ora arriva la sospensione dell'Ordine dei Giornalisti. "Signora Cirinnà, arriverà anche il suo funerale. Glielo auguro il più lontano possibile, ma arriverà anche quello". Sono queste le parole usate dal direttore di Radio Maria Padre Livio Fanzaga per parlare del ddl sulle unioni civili e della senatrice che lo ha proposto. La frase, riportata sulle pagine Facebook degli attivisti per le unioni civili, sta sollevando l'indignazione degli ascoltatori. Lo stesso Fanzaga dice anche che la Cirinnà gli ricorda "la donna del capitolo 17esimo dell'Apocalisse". Personaggio biblico noto anche come la prostituta di Babilonia. Padre Fanzaga non è inoltre nuovo a uscite discutibili: nei giorni scorsi aveva definito le famiglie arcobaleno "sporcizia" e in occasione di Vatileaks aveva detto che i giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi erano "da impiccare".  Monica Cirinnà adesso lo vuole incontrare. E scrive in una nota "Apprendo da fonti di stampa della condanna alla sospensione per 6 mesi dall'Albo di padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, a seguito della pronuncia dell'Ordine dei Giornalisti e del rigetto del suo ricorso alla Corte d'Appello di Milano, a seguito delle espressioni ritenute offensive nei miei confronti. Gli scriverò oggi stesso per invitarlo in Senato per un incontro in nome del dialogo tra le differenze e la riconciliazione, tema che considero centrale per la crescita culturale e civile della nostra società e sul quale ognuno di noi è chiamato a contribuire». Padre Livio sulle unioni civili si era espresso in diverse occasioni, definendo le famiglie arcobaleno "sporcizia" mentre Radio Maria aveva dato al ddl Cirinnà la colpa del terremoto.

Brunella Bolloli per Libero Quotidiano il 21 giugno 2017.

Vittorio Sgarbi, cosa pensa delle censure e delle sospensioni inflitte dall' Ordine dei Giornalisti come quella di due mesi alla penna di «Libero» Filippo Facci e quella di sei mesi a Radio Maria?

«È una forma di totalitarismo. Cioè a me va benissimo dire cose politicamente scorrette, però non c' è ragione per cui un islamico possa dichiarare il suo odio per i cristiani e un cristiano non possa dichiarare il suo odio per gli islamici. Può piacere o no, ma è normale che uno non la pensi come te».

Si chiama libertà di opinione.

«Esatto. Non bisogna fare necessariamente il giornalismo sopra le parti come se fosse il migliore possibile. Anche il giornalismo di parte è grande giornalismo, almeno per quelli che ti ascoltano, che ti leggono e la pensano come te. Quindi, è quasi incomprensibile pensare che ci sia un organo che ancora decide di sanzionare privando qualcuno della libertà di opinione solo perché la pensa in un modo diverso».

Si stabilisce un limite anche alla libertà di espressione?

«Senza dubbio. Si zittisce chi esprime un concetto altro rispetto alla massa allineata e schiacciata su un pensiero unico, per questo ho parlato di totalitarismo, come nei regimi».

Facci è stato sospeso dalla professione giornalistica perché le affermazioni contenute nel suo articolo, Perché l'Islam mi sta sul gozzo, sono state considerate razziste e xenofobe. Lei ha letto quel pezzo?

«Sì, ma il punto non è questo. La cosa assurda è un'altra».

Spieghi l'assurdità.

«È assurdo che l'atto che dovrebbe censurare la mancanza di democrazia e di tolleranza nello scritto di Filippo è un atto a sua volta intollerante e non democratico. Un atto arbitrario. Anzi: possiamo dire che la cacciata di Facci è il "metodo Facci". Cioè l'Ordine ha applicato a lui lo stesso criterio antidemocratico che, di fatto, gli contesta».

Hanno ancora senso queste sanzioni, in un'epoca in cui chiunque può scrivere ciò che vuole, ingiurie comprese, su Internet?

«No. Ripeto: se un islamico ha voglia di uccidere me, io potrò dire di avere voglia di uccidere lui? Poi sono entrambe delle puttanate, e in Rete è pieno, ma non è giusto limitare la libertà di ognuno di esprimere un parere, anche sgangherato che sia. Poi sanzionano Radio Maria che parla contro la legge Cirinnà e mi chiedo: perché non hanno tolto a Travaglio la patente di giornalista quando ha scritto, almeno venti volte sul suo giornale, che Napolitano era il garante del Patto tra Stato e mafia?».

Anche lei se l'era presa con un presidente della Repubblica...

«Io avevo detto che Scalfaro non aveva le palle e mi avevano accusato di vilipendio».

Quante volte è stato censurato?

«Ma io me ne sbatto i c....i».

Attentato alla libertà d’opinione. La libertà di stampa e di pensiero in Italia è stata cancellata, scrive il 23/6/2017 Vittorio Feltri. Chi esprime una opinione diversa da quelle in voga viene sanzionato dall’Ordine dei giornalisti, come se non bastassero le condanne della cosiddetta Giustizia, sempre pronta a minacciare con la galera i cronisti che descrivono, bene o male, la realtà nazionale. Persino Radio Maria, popolare emittente cattolica, è stata zittita dalla commissione disciplinare dell’albo, in primo grado, e da quella romana in secondo. Padre Livio Fanzaga, direttore bergamasco della citata antenna, è stato sospeso dalla professione per sei mesi, durante i quali dovrà tapparsi la bocca nonostante che la Costituzione garantisca a ogni cittadino il diritto di dire ciò che gli garba, ovviamente nel rispetto della legge che vieta calunnie e diffamazioni. Il motivo della punizione non sta in piedi. Il prete criticò aspramente la onorevole del Pd Monica Cirinnà, promotrice del riconoscimento ufficiale delle unioni civili. Per contestarla egli ricorse alla Bibbia, dicendo che la signora, la quale si definisce cattolica, avrebbe dovuto rispondere del suo operato al Padreterno dopo la propria morte. Cosa che per un credente dovrebbe essere scontata. Le parole del sacerdote, prelevate dal testo sacro, non potevano essere offensive per un soggetto che pratica la religione. Da quando in qua il testamento, vecchio o nuovo che sia, può essere interpretato in alcune sue parti quale serbatoio di insulti? Comunque, don Livio è stato incolpato, come se fosse concepibile che un sacerdote non sia autorizzato ad articolare (...) (...) un ragionamento a favore o contro qualcuno sulla scorta della Bibbia. Con tutta la buona volontà non riusciamo a capire il senso di un castigo tanto grave inflitto a un prete che predica da prete. Il problema è che l’Ordine è influenzato dalla ideologia conformistica della sinistra ed è rappresentato prevalentemente da progressisti impegnati a rispettare il politicamente corretto, che per loro è una sorta di Bibbia laica. Trattasi di una organizzazione corporativa ­ medievale ­ sopravvissuta al fascismo e modificata in peggio dal regime democristiano, il quale nel 1963 burocratizzò gli elenchi dei professionisti e dei pubblicisti in modo tanto rigido da renderli conventicole simili a cosa nostra nei metodi e nella sostanza. Ai vertici dell’Albo, come avviene in altre categorie, non si trovano nomi di giornalisti importanti, ma di mezze figure che poi si ergono con libidine a giudici di colleghi più importanti, godendo se riescono a incastrarli. Chi non sta in alto cerca di diminuire chi svetta. Se non posso mettermi al tuo livello, ti abbasso al mio. Questa è la logica imperante. Un uomo come don Livio, che ha trasformato una radiolina parrocchiale in una potenza capace di raggiungere ogni angolo della penisola, è una preda che ingolosisce chi dal mestiere ha ricevuto soltanto frustrazioni e nessun successo appagante. Questo mio discorso L’ordine sovietico dei giornalisti imbavaglia pure i preti. Dopo le assurde sanzioni a Senaldi e Facci di «Libero», sospeso per sei mesi don Livio, popolare patron dell’emittente cattolica, reo di aver attaccato la Cirinnà sulle nozze gay non è teso ad aumentare la simpatia che suscito nei signori dell’Ordine, ma sono convinto che sia lecito. Debbo ricordare di essere stato perseguitato nel 2000 allorché non mi presentai a un processo per aver pubblicato su Libero le foto (precettate) di ragazzi insidiati dai pedofili, e per ritorsione il consiglio disciplinare propose la mia radiazione che, in secondo grado, fu ridotta a semplice censura. Ciò per dire quale fosse l’animo verso di me. Venni processato anche perché ero presidente degli ippodromi milanesi, e assolto avendo fatto presente che Biagi e Montanelli erano stati rispettivamente consiglieri del Bologna calcio e della Fiorentina. Sorvolo sul caso Boffo, che mi costò tre mesi di sospensione. Acqua torbida passata. La commissione poi se la prese ancora con me ­ illegittimamente ­ per la storia della patata bollente, e si accanì sul direttore responsabile di Libero, Pietro Senaldi, censurato. Infine, ma l’elenco sarebbe lungo, Filippo Facci è stato sospeso per due mesi (privato dello stipendio) in quanto gli sta sul gozzo l’islam. Paradossale. Cancellata la libertà d’espressione. L’Ordine non fa la guerra solamente alle parole, ma anche alle idee che non digerisce. Andrebbe abolito subito. Ma la politica lo tiene buono perché lo usa come strumento di pressione e di oppressione. Coloro che non si adeguano siano bastonati.

Il giornalismo secondo Gramsci: 1500 articoli "contro", rivendicati fino al tribunale fascista. Raccolti in un volume appena pubblicato con la prefazione di Canfora e la postfazione di Frasca Polara. Un vero e proprio manuale della professione e le battaglie su molte testate. Fino all'Unità, della quale racconta la genesi del nome, scrive Giovanni Cedrone il 6 aprile 2017 su "La Repubblica". "Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella qualifica professionale". Queste parole, contenute in una lettera a sua cognata Tatiana Schucht dell'ottobre 1931, forse meglio di altre testimoniamo l'indomito spirito con cui Antonio Gramsci si è dedicato al giornalismo. Le parole sono contenute nell'ultimo volume dedicato al fondatore del Partito comunista "Il Giornalismo, Il Giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore dell'Unità" a cura di Gian Luca Corradi (edito da Tessere). A 80 anni dalla sua morte, avvenuta il 27 aprile 1937, Corradi ha raccolto alcuni fra gli oltre 1.500 articoli che Gramsci pubblicò su varie testate (prima di essere recluso nel 1927) e alcune lettere, antecedenti e successive alla carcerazione, nelle quali tocca l'argomento della stampa periodica. L'ideatore del concetto di egemonia si conferma un pensatore aperto e non dogmatico e le sue intuizioni sul giornalismo stupiscono per l'attualità e la lungimiranza. Come sottolinea Giorgio Frasca Polara nella postfazione, "Gramsci avrebbe potuto insegnare, e bene, quel giornalismo serio, informato di cose serie, che oggi sta diventando una rarità non solo in Italia". Non bisogna dimenticare che il contributo di Gramsci al giornalismo italiano è stato enorme: oltre ad aver fondato "L'Ordine Nuovo" e "L'Unità", Gramsci scrisse per almeno una decina di giornali, tra cui "La Città futura", numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese e "Energie nove", quindicinale diretto da Piero Gobetti. Luciano Canfora ricorda nell'introduzione le parole contenute nel verbale d'interrogatorio di Antonio Gramsci nel carcere giudiziario di Milano, datato 9 febbraio 1927, con cui lo stesso pensatore comunista dichiara di essere "pubblicista" prima ancora che "ex deputato al Parlamento". Sui "Quaderni" il fondatore dell'Unità traccia quasi un manuale del buon giornalista: parla di giornalismo "integrale", cioè quello che non solo intende soddisfare tutti i bisogni del suo pubblico, ma intende creare e sviluppare questi bisogni, rimarca poi la necessità per i giornalisti di "seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese". Un sano realismo lo porta a considerare i lettori da due punti di vista, sia come elementi "ideologici, trasformabili filosoficamente", sia come elementi "economici, capaci di acquistare le pubblicazioni e di farle acquistare ad altri". Sottolinea come il contenuto ideologico di un giornale non sia sufficiente a garantire le vendite: conta anche la forma in cui viene presentato. Interviene su quella che chiama "l'arte dei titoli" in cui influisce l'atteggiamento del giornale verso il suo pubblico che può essere "demagogico-commerciale" o "educativo-didattico".

Le riflessioni teoriche di Gramsci si riflettono nella sua attività di pubblicista. Il fondatore del Pci non si occupava solo di politica, ma anche di costume, società, teatro, musica e storia. In una pagina del marzo 1916 di "Sotto la Mole", Gramsci contesta, ad esempio, l'assunto che la malavita organizzata sia solo al sud, un discorso che a 100 anni di distanza risuona quanto mai attuale. Nel maggio 1916 difende il maestro Toscanini per aver scelto una sinfonia di Wagner in un concerto al Teatro Regio di Torino, scelta che, con l'Italia entrata in guerra contro gli Imperi centrali, aveva provocato i fischi del pubblico. Scrive di teatro e in particolare la sua attenzione cade su Pirandello che per lui aveva il merito di creare "delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione". Ragiona poi sul "carattere" degli italiani improntato, secondo lui, all'ipocrisia in tutte le forme della vita: nella vita familiare, nella vita politica, negli affari. "La sfiducia reciproca, il sottinteso sleale - sottolinea Gramsci - corrodono nel nostro paese tutte le forme di rapporti: i rapporti tra singolo e singolo, i rapporti tra singolo e collettività. L'ipocrisia del carattere italiano è in dipendenza assoluta con la mancanza di libertà".

Da un punto di vista storico, le pagine più interessanti sono nelle lettere, soprattutto quelle dal carcere, con il racconto della sua detenzione e le riflessioni sul giornalismo che occupano una parte importante della sua corrispondenza. In una missiva al Comitato esecutivo del Pcd'I del settembre 1923 svela perché fu scelto il nome "l'Unità" per il giornale da lui fondato. Aveva un duplice significato: innanzitutto richiamava all'unità tra operai e contadini, non soltanto nell'ambito del rapporto tra le classi, ma anche nel più generale tema della questione nazionale, "unità" tra nord e sud, tra città e campagna. Nella lettera a Vincenzo Bianco del marzo 1924 emerge il Gramsci "maestro di giornalismo", una pagina che forse qualsiasi giornalista alle prime armi dovrebbe sempre tenere a portata di mano. Prima di iniziare a scrivere - afferma Gramsci - bisogna predisporre uno schema e domandarsi cosa sia veramente importante. Consiglia poi di leggere "Il Manifesto dei Comunisti" che definisce "un capolavoro di chiarezza, di semplicità e di dialettica". Infine invita alla brevità ricordando l'esempio di Andrea Viglongo, suo collaboratore, che allenava a scrivere articoli di al massimo una colonna e mezzo.

La raccolta di scritti ha il grande merito di tracciare con chiarezza un aspetto del profilo di Gramsci forse meno noto, quello del Gramsci giornalista. Un aspetto che conferma, come giustamente sottolinea Canfora, quanto Gramsci sia davvero appartenuto alla cultura italiana di quegli anni molto più che ad una cultura di partito. Pensatore mai banale, marxista irregolare, oggi icona pop e studiato nelle università di mezzo mondo, Gramsci fu anche "maestro di giornalismo" i cui insegnamenti, a distanza di 80 anni, restano più che mai validi.

Ecco a voi una vera e propria perla andata in onda su Rainews24: durante la notte delle elezioni americane, Giovanna Botteri si è lasciata andare alla disperazione: «Che ne sarà di noi giornalisti se non riusciamo più a influenzare l’opinione pubblica?» Parole testuali: «Che cosa succederà a noi giornalisti? Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta ed unita contro un candidato… che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana? Le cose che sono state scritte, le cose che sono state dette evidentemente non hanno influito su questo risultato e sull’elettorato che ha creduto a Trump e non alla stampa!». Forse è per questo che la gente non si fida più di voi? Forse è per questo che non vendete più giornali?  Forse è per questo che dovete andarvene tutti a casa?

Gramsci giornalista senza tabù. «Ci vuole l’articolo di un fascista». Il volume, curato da Gian Luca Corradi, raccoglie scritti, articoli e lettere del fondatore de «l’Unità». L’introduzione è di Luciano Canfora, la postfazione di Giorgio Frasca Polara, scrive Paolo Franchi il 30 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera". «In dieci anni di giornalismo io ho scritto tante righe da poter costituire 15 o 20 volumi da 400 pagine», sostiene Antonio Gramsci il 7 settembre 1931, in una lettera a Tatiana Schucht dal carcere di Turi. In realtà, quanto agli anni di attività, sbaglia per difetto. Il suo primo articolo, così come il suo primo tesserino da giornalista, in qualità di corrispondente dell’«Unione Sarda» da Aidomaggiore, risale al 1910. Ne seguiranno, fino all’arresto, nel 1926, altri 1.500, in forma di editoriale, di commento, di corsivo, di critica teatrale e di quant’altro, sul «Corriere universitario», l’«Avanti!», il «Grido del popolo», la «Città futura», «Avanguardia», «Energie Nove» e vari altri giornali ancora, oltre che, naturalmente, sulle due testate storiche che fondò. Stiamo parlando, ovviamente, dell’«Ordine Nuovo» («Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza, agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo, organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza», scrisse, rivolto agli operai torinesi, sul primo numero, nel maggio del 1919), e «l’Unità», che volle chiamare così (correva l’anno 1924) a significare che doveva essere ben di più di un foglio di partito. Non solo. Al giornalismo, e ai giornalisti, Gramsci dedica, nei Quaderni del carcere, un’attenzione a dir poco sistematica, e riflessioni sovente di sconcertante attualità. Di giornalismo, e di giornalisti, c’è traccia assai ampia nelle sue lettere. Di tutto questo dà conto, nell’ottantesimo della morte, un’ampia e ragionata raccolta di scritti gramsciani, curata, per Tessere, da Gian Luca Corradi (Antonio Gramsci, Il giornalismo, il giornalista, con un’introduzione di Luciano Canfora e una postfazione di Giorgio Frasca Polara) che andrebbe letta e meditata, in particolare, da noi che facciamo questo mestiere, da chi di informazione, per un motivo o per l’altro, si occupa, e da chi più o meno professionalmente fa politica. Gramsci, annota giustamente Canfora, condivise con molti altri leader dell’Ottocento e del Novecento («da Cavour a Mazzini, a Marx, a Turati, a Lenin, a Jaurès», e per l’Italia aggiungerei almeno Benito Mussolini e Pietro Nenni) l’idea che impegno giornalistico e lotta politica fossero in una certa misura consustanziali. Ma considerò e rivendicò l’essere giornalista come il suo lavoro («Sono e mi chiamo Gramsci Antonio, pubblicista, ex deputato al Parlamento», si legge nel primo verbale di interrogatorio, datato 9 febbraio 1927). E fu in primo luogo la sua militanza giornalistica a consentirgli, ha ancora ragione Canfora, «un rapporto di costante e feconda dialettica con le correnti di pensiero, letterarie, artistiche, che si sprigionavano e si esprimevano in quegli anni». Di questo rapporto c’è, nel libro curato da Corradi, una ricchissima testimonianza diretta, cui non posso che rimandare i lettori. Qui vorrei segnalare un tema soltanto. Da uomo e da giornalista libero Gramsci si appassiona (eccome) alla fattura del giornale, alla grafica, al formato, alla scrittura degli articoli (fantastica una sua lettera a Vincenzo Bianco), ai problemi della tipografia e a quelli della distribuzione. Da detenuto a San Vittore, legge cinque quotidiani (ma pure il «Corriere dei Piccoli», «che mi diverte», il «Guerin Meschino», «cosiddetto umoristico», e la «Domenica del Corriere»), a Turi è costretto a ridurli a due, la «Gazzetta del Popolo» e il «Corriere»: e si deciderà presto a serbare solo l’abbonamento a quest’ultimo, perché gli altri quotidiani gli sembrano delle imitazioni mal riuscite del «Corriere», con tutti i suoi difetti, non ultimo «il parlare di antecedenti che non sono stati dati, come se il lettore dovesse conoscerli» (una malattia di cui non si è ancora trovata la cura). Sa benissimo che i quotidiani vivono poche ore, e quanto a lui, da libero cittadino, non ha mai voluto raccogliere i suoi articoli in volume, e nemmeno aderire alla richiesta del fascista Franco Ciarlantini, che nel 1924 gli ha chiesto di scrivere, per una sua collezione, un libro sull’«Ordine Nuovo»: anche se, annota nel 1931, «aver pubblicato un libro da una casa editrice fascista… era molto allettante». Ma il suo oggetto di riflessione è quello che chiama il «giornalismo integrale», che non intende solo «soddisfare tutti i bisogni (di una certa categoria) del suo pubblico», ma vuole «creare e sviluppare questi bisogni, e quindi suscitare, in un certo senso, il suo pubblico ed estenderne progressivamente l’area»: un giornalismo moderno, destinato a diventare «un’industria più complessa e un organismo civile più responsabile», che non può affidarsi a giornalisti formati solo attraverso la «praticaccia». Sostiene, Gramsci, che le stesse riunioni di redazione dovrebbero avere anche questa funzione per così dire pedagogica, diventando così «vere scuole politico-giornalistiche». Un’utopia? Forse sì, come ricostruisce, con arguzia, Frasca Polara. Ma, utopia o no, colpisce che l’idea gli sia venuta in mente, a Gramsci, leggendo in galera un articolo del fascistissimo Ermanno Amicucci. Molti anni prima, Gramsci aveva scritto da Vienna a Mauro Scoccimarro, a proposito di un’inchiesta sul fascismo per l’«Ordine Nuovo». Voleva vi si provocassero anche «giudizi di parte borghese», e faceva tra gli altri il nome di Mario Missiroli, che pure giudicava un «misirizzi». Ma trovava utile anche l’articolo di un fascista, e suggeriva il piemontese Pietro Gorgolini. Libero o in cattività, sapeva distinguere, scrive bene Canfora, «tra valutazione tecnica del mestiere del giornalista e giudizio etico-politico su di un personaggio o di una testata». Come si conviene ai giornalisti di razza.

Quando Ottone censurò l'agguato a Montanelli. Morto a 92 anni il giornalista che negli anni Settanta spostò a sinistra il Corriere emarginando Indro, scrive Daniele Abbiati, Martedì 18/04/2017, su "Il Giornale". I grandi giornalisti non amano i giornalisti, grandi o piccoli che siano. Qualcuno dice: perché li conoscono troppo bene. E forse non hanno tutti i torti. Piero Ottone, all'anagrafe Pier Leone Mignanego, morto il giorno di Pasqua all'età di 92 anni, è stato senza dubbio un grande giornalista. Lo dice la sua carriera, iniziata dal basso, dalla cara, vecchia gavetta, e salita fino all'empireo della poltrona più ambita, quella di direttore in via Solferino, al Corrierone. Primi passi in un altro Corriere, quello Ligure, nel 1945 e nella sua Genova, poi andatura più spedita alla Gazzetta del Popolo di Torino sotto la direzione di Massimo Caputo, dove diviene corrispondente da Londra. Segue la prima esperienza al Corriere della Sera, come corrispondente da Mosca nei delicatissimi anni Cinquanta e quindi come redattore capo. Nel '68, anno altrettanto delicato, più sul fronte interno che su quello internazionale, torna a «casa»: direttore del Secolo XIX, in gergo, il «Monono». A 44 anni, la formazione è ormai ultimata: scrittura solida, evidenti capacità direttive e di guida della macchina-quotidiano. Se ne accorgono anche a Milano, dove lo tengono sotto osservazione e, nel '72, decidono che è lui l'uomo adatto a subentrare a Giovanni Spadolini, autorevole ma grigio, colto ma cauto, troppo cauto. Giulia Maria Crespi vuole (e non soltanto lei...) un Corriere meno moderato, meno conservatore, più aggressivo, più à la page, insomma, in linea con l'aria che tira. E qui ritorniamo al punto di partenza, ai grandi giornalisti che non amano (eufemismo) i giornalisti, in questo caso i grandi giornalisti. Perché al Corriere, Ottone non ci mette né uno né due a scontrarsi con Indro Montanelli, l'inviato principe. Indro non accetta il nuovo corso che fa rima con sinistrorso, ritiene che il Corriere così facendo tradisca prima il proprio lettorato e poi, in subordine, l'elettorato anticomunista. Potete immaginare come abbia preso, l'anno dopo, nel '73, gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini in prima pagina... Il dado era tratto: o Piero o Indro. «Guardando retrospettivamente forse fu un errore licenziarlo», ammise Ottone in una lunga intervista alla Repubblica, tre anni fa. Perché questo accadde, Montanelli non se ne andò dal Corriere, ne fu cacciato, dopo il casus belli di una sua intervista al Mondo in cui, come ricordava Ottone, invitava in sostanza la borghesia a divorziare dal quotidiano di via Solferino. Tutti sanno che senza quello strappo, noi oggi non saremmo qui a (ri)scriverne su queste colonne, visto che da lì, da quella clamorosa rottura, nacque, nel '74, questo Giornale. Auspicando il divorzio della borghesia milanese dal suo foglio di riferimento, Montanelli si propone come suo nuovo «amante». Un amante non occasionale, ma fedelissimo, irriducibile, coraggioso. Così, per tre anni le strade di Ottone e di Indro proseguirono seguendo tragitti lontani, divergenti. Il Corriere a spingere da una parte, il Giornale a resistere dall'altra, colmando il vuoto editoriale che si era creato. Ma c'era in agguato il fattaccio, nipote di un'ideologia distruttiva e figlio di un metodo criminale. E su questo fattaccio di cronaca nera i due big si ritrovarono l'uno contro l'altro: Indro in ospedale, Ottone a preparare la «prima». La mattina del 2 giugno 1977, Montanelli viene «gambizzato» dalle Brigate Rosse. Il giorno dopo, il Corriere titola: «I giornalisti nuovo bersaglio della violenza. Le Brigate Rosse rivendicano gli attentati». Il nome Montanelli è confinato nel lungo sommario (mentre più in basso c'è l'intervista di Enzo Biagi al collega ferito). E molti ripensano a quanto poco i grandi giornalisti etc etc. Poi Indro si rimette in piedi, e torna a correre con il Giornale. E, di lì a poco, anche Ottone esce dal Corriere. Dimissioni, questa volta. Passa alla Mondadori come consulente. Infine, alla Repubblica. Il destino ha voluto che morisse a 92 anni, come Indro. E su questo, purtroppo, non c'è più nulla da discutere.

Ma i giornalisti sono troppo di sinistra? Si chiedono Luigi Curini e Sergio Splendore di Lavoce.info il 20 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". I giornalisti italiani si collocano politicamente più a sinistra dei cittadini. Ne consegue una scarsa fiducia dei lettori nella carta stampata. Perché i giornali non reagiscono? Perché a leggerli e comprarli sono coloro che hanno una posizione ideologica in media più vicina a chi li scrive. Il difficile rapporto tra italiani e stampa. Stando ai sondaggi periodicamente effettuati da Eurobarometro, i cittadini italiani hanno poca fiducia nella carta stampata. Sostanzialmente più di un italiano su due esprime un giudizio negativo a riguardo: negli ultimi quindici anni la media del livello di fiducia verso la stampa è stata complessivamente del 43 per cento, quattro punti in meno del dato europeo nello stesso periodo. Le spiegazioni più ricorrenti riconducono la sfiducia al modello di giornalismo italiano contraddistinto da una propensione al commento, da un alto livello di parallelismo politico e da una stampa che storicamente si è indirizzata a una élite, producendo, come conseguenza, bassi livelli di lettura. In questo quadro, il rapporto tra giornalisti e cittadini rimane tuttavia in secondo piano. Un peccato, a dire il vero, dato che, in una importante ricerca che risale oramai a venti anni fa, si mettevano bene in luce le conseguenze relative alla possibile “discrasia” tra credenze politiche e ideologiche dei giornalisti rispetto ai loro lettori, senza peraltro controllare empiricamente la cosa. Abbiamo dunque voluto esplorare direttamente l’ipotesi mettendo in relazione tra loro i dati relativi al posizionamento politico dei giornalisti italiani raccolti durante la recente ricerca demoscopica The worlds of journalism study con quelli che si possono estrarre da Eurobarometro per quanto riguarda i cittadini italiani, sfruttando il fatto che in entrambi i sondaggi viene somministrata la medesima domanda relativa all’autocollocazione ideologica dei rispondenti lungo una scala che va da sinistra a destra. La figura qui riportata mostra il confronto tra le rispettive distribuzioni di preferenze ideologiche nello stesso periodo temporale (inizio 2015). Come si può facilmente osservare, la distribuzione ideologica dei giornalisti italiani appare marcatamente posizionata più a sinistra rispetto a quella degli italiani in generale. Quello che tuttavia ci interessa è capire la conseguenza di tutto ciò. Prendiamo un italiano che, magari dopo aver letto una serie di tweet o interviste televisive a vari giornalisti, si auto-percepisce complessivamente come lontano ideologicamente da questi ultimi (perché più a sinistra oppure, più plausibilmente, a destra rispetto a tali posizioni). Il cittadino presenterà anche una minore fiducia nella stampa? E se sì, in che misura? I risultati di una semplice analisi logistica mostrano che il fattore ideologico conta, e molto: pur controllando per tutta una serie di fattori considerati rilevanti in letteratura (come il genere, l’età, il reddito, il luogo in cui si vive, l’interesse per la politica e la stessa propria posizione ideologica del singolo rispondente) l’impatto della prossimità ideologica tra italiani e giornalisti non solo si conferma significativo, ma risulta assai rilevante (qui di seguito il link per chi è interessato all’analisi econometrica): la probabilità attesa di avere fiducia nella stampa passa, ad esempio, da poco più del 30 per cento per un italiano che si auto-colloca in modo molto distante dalla posizione media dei giornalisti, a un più che soddisfacente 65 per cento per chi presenta la stessa posizione ideologica registrata, sempre in media, dai giornalisti. I risultati della nostra analisi pongono però anche un ulteriore quesito: se è vero che la prossimità ideologica conta in termini di fiducia verso la stampa, perché la stampa in senso lato non reagisce in qualche modo a questa situazione? Qua le risposte possibili sono due, una ottimista e una meno. Per quanto riguarda la prima, ci si potrebbe (dovrebbe?) attendere che l’accentuata competizione sul mercato editoriale sia in grado presto o tardi di colmare l’apparente disequilibrio che emerge dalla figura sopra (e in parte è quello che sembra stia avvenendo nel panorama delle testate digitali). C’è un “ma”, tuttavia. Sempre i dati dell’Eurobarometro ci mostrano che i lettori più assidui dei giornali sono anche quelli che hanno una posizione ideologica in media più prossima ai giornalisti. Il che potrebbe condurre a un circolo che si auto-riproduce e si auto-rinforza: ovvero lo iato ideologico con gli italiani in senso lato (e la conseguente crisi di fiducia) non risulta alla fin fine davvero rilevante per il mondo editoriale, perché dopotutto chi legge (e compra) i giornali ha la stessa visione del mondo che ha chi ci scrive, e così via. Un apparente paradosso, con esiti complessivi.

La stampa è molto più a sinistra dei cittadini, in Usa come in Italia. Secondo uno studio, “la distribuzione ideologica dei giornalisti italiani appare marcatamente posizionata più a sinistra rispetto a quella degli italiani”, scrive Luciano Capone il 9 Novembre 2016 su “Il Foglio”. L’origine della vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, come molti hanno già segnalato, va ricercata nella ribellione non più sotterranea di una larga fetta della società nei confronti delle élite e di tutto ciò che puzza di establishment: partiti, banche, istituzioni, mondo accademico, corporation, attori, cantanti e soprattutto media. In queste elezioni presidenziali i giornali, settimanali e magazine che hanno espresso un sostegno ufficiale per Hillary Clinton sono stati 500, mentre gli endorsement a favore di Trump sono stati solo 25, in gran parte di piccoli giornali locali: tra i 100 quotidiani più diffusi nel paese, solo due hanno appoggiato il candidato repubblicano, alcuni si sono schierati per i democratici dopo decenni di neutralità e altri non hanno espresso una preferenza a favore ma hanno suggerito di votare “contro Donald Trump”, colui che poi ha vinto le elezioni. Naturalmente lo scollamento tra media e cittadini non è solo un fenomeno americano ma, come hanno mostrato il voto sulla Brexit e l’avanzata di tanti partiti definiti “populisti”, è un fenomeno che riguarda tutte le democrazie occidentali e in particolare l’Italia. Luigi Curini, professore associato di Scienza politica all’Università Statale di Milano, e Sergio Splendore, ricercatore nello stesso ateneo, in uno studio dal titolo “The ideological proximity between citizens and journalists and its consequences”, hanno mostrato con i dati quanto sia profondo il solco ideologico tra media e persone comuni, tra i concetti veicolati dai giornalisti e le convinzioni delle persone, e quanto questo divario sia all’origine della sfiducia dei cittadini nei confronti della stampa. Detto in parole povere, in Italia i giornalisti sono troppo di sinistra ed è anche per questo che, secondo i sondaggi effettuati da Eurobarometro, la credibilità dei giornali italiani è più bassa della già bassa media europea. I due politologi hanno messo in relazione i dati sulle preferenze ideologiche dei giornalisti, ricavati da una specifica ricerca demoscopica, con quelli dei cittadini ricavati dall’Eurobarometro, sfruttando il fatto che in entrambi i sondaggi viene posta la stessa domanda sulla collocazione ideologica lungo un asse che va da sinistra a destra. Il risultato è che “la distribuzione ideologica dei giornalisti italiani appare marcatamente posizionata più a sinistra rispetto a quella degli italiani”, hanno scritto gli autori sul sito Lavoce.info. La logica conseguenza è che maggiore è la distanza politica tra cittadini e giornalisti e maggiore è la sfiducia nei confronti della stampa e ciò vuol dire che chi legge i giornali ha una posizione ideologica più simile a quella dei giornalisti, “il che potrebbe condurre a un circolo che si auto-riproduce e si auto-rinforza: ovvero lo iato ideologico con gli italiani non risulta alla fin fine davvero rilevante per il mondo editoriale, perché dopotutto chi legge i giornali ha la stessa visione del mondo che ha chi ci scrive, e così via”. Salvo svegliarsi un giorno meravigliati e sorpresi del fatto che gli elettori fanno il contrario di ciò che scrivono i giornalisti. Tra l’altro il dato italiano è ancora più paradossale perché i giornalisti non sono solo ideologicamente schierati più a sinistra della popolazione in generale, ma sono molto più a sinistra anche rispetto ai propri lettori. Pochi mesi fa Curini ha pubblicato una ricerca simile sulle idee politiche dei docenti universitari, dal titolo “Experts’ political preferences and their impact on ideological bias”. Anche in quel caso i dati dicevano che la stragrande maggioranza degli studiosi intervistati è di sinistra. E se questa è una caratteristica comune nelle democrazie occidentali, cioè che l’élite accademica tenda ad essere progressista, la peculiarità dei professori italiani è che nel mondo sono quelli più a sinistra di tutti. Visto che in questi mesi in tanti hanno paragonato il successo di Trump a quello di Silvio Berlusconi, bisogna riconoscere che forse il Cav esagerava quando diceva che in Italia i professori e i giornalisti sono tutti comunisti, ma non si allontanava molto dalla realtà. O quantomeno dalla percezione dei cittadini, che poi lo votavano.

Di destra, quindi dimenticato. In memoria di Almerigo Grilz. A 30 anni dalla morte una mostra per il primo giornalista caduto dopo il 1945. E che i colleghi lasciano nell'oblio, scrive Gian Micalessin, Venerdì 19/05/2017, su "Il Giornale". Si chiamava Victor. L'incontrai nel novembre 2002 a Dondo, nel Nord del Mozambico. Durante la guerra civile degli anni '80 tra il governo filosovietico della Frelimo e i guerriglieri anti comunisti della Renamo era stato maggiore dell'esercito. Smessi gradi e divisa si guadagnava da vivere come responsabile della sicurezza della Gmc, una cooperativa rossa di Ravenna presente da decenni nel paese. Ero arrivato lì con il collega Franco Nerozzi e Giancarlo Coccia, storico corrispondente africano de il Giornale per cercare la tomba dell'amico Almerigo Grilz freddato da un colpo alla nuca il 19 maggio 1987 mentre filmava uno scontro tra Renamo e soldati del Frelimo. Bivaccavamo in quel campo grazie alla generosità di Claudio Conficoni, il manager, ex Pci, responsabile locale della Cmc. «Prendete auto e uomini che vi servono... fate come a casa vostra» ripeteva. E mi rideva in faccia se ricordavo che Almerigo Grilz era diventato giornalista dopo esser stato vice-segretario nazionale del Fronte della Gioventù al fianco di Gianfranco Fini. «Ora è morto sbottava - e se anche è stato "fassista" era prima di tutto italiano. Questo è quello che conta». Victor ascoltava silenzioso. Non spiaccicò mezza parola nemmeno quando arrivammo a Caia. Ma quando incominciai a studiare il terreno per capire dove Almerigo era stato colpito fu lui a portarmi nella radura ai margini della città, non lontano da uno zuccherificio. «Di solito disse i ribelli arrivavano da qua». Guardai l'ultimo filmato di Almerigo, le ultime immagini della sua cinepresa. Tutto corrispondeva. Victor sorrise. E fu lui, nonostante il pericolo, ad accompagnarmi a Gorongoza, la zona dove a 10 anni dalla fine delle ostilità la Renamo nascondeva ancora le armi. La zona dove i ribelli avevano sotterrato il cadavere di Almerigo dopo una lunga ritirata notturna. Lì all'imbrunire del 21 novembre 2002 trovammo il grande albero di Muthongo sotto cui riposava. Allora Victor m'abbracciò e mi sussurrò parole mai dimenticate. «Ero il comandante di Caia, forse c'ero pure io a sparare al tuo amico, ma ci tenevo ad aiutarti perché la guerra è finita e a nessuno interessa più se un giornalista stava con noi o con i nostri nemici. I morti sono tutti fratelli». Non qui in Italia. A Trieste l'Ordine dei Giornalisti, a cui Grilz era iscritto, ignora da 30 anni la richiesta d'accogliere una lapide con il suo nome accanto a quelle per l'inviato Rai Marco Luchetta e gli operatori Alessandro Ota, Dario D'Angelo e Miran Hrovatin, morti tra Bosnia e Somalia. Fuori da Trieste non va meglio. Grilz oltre ad aver raccontato guerre e guerriglie tra Afghanistan, Libano, Etiopia, Mozambico, Filippine, Cambogia e Birmania scriveva per il Sunday Times e firmava reportage trasmessi da Cbs ed Nbc negli Stati Uniti, da Channel4 in Inghilterra e dal Tg1 Rai qui in Italia. Eppure nonostante quel curriculum, nonostante sia stato il primo caduto su un campo di battaglia dal 1945 Almerigo Grilz continua ad essere un «inviato ignoto» per gran parte dei giornalisti italiani. Una damnatio memoriae sconcertante per una categoria che annovera con orgoglio colleghi come Adriano Sofri, condannato per l'omicidio Calabresi, Bernardo Valli, orgoglioso dei 5 anni trascorsi nella Legione Straniera e una legione di reduci della sinistra extraparlamentare come, Paolo Mieli, Toni Capuozzo, Enrico Deaglio, Lucia Annunziata, Gad Lerner, Paolo Liguori, Andrea Marcenaro, Carlo Panella, Riccardo Barenghi e Lanfranco Pace. Ma i giornalisti si consolino. A destra non è andata meglio. Fini a Trieste pernottava regolarmente nella casa di Almerigo, ma una volta divenuto presidente della Camera, si è ben guardato dal muovere mezzo dito per sottrarre l'amico all'oblio collettivo. Poco importa. Di una vita conta la storia. La storia di un ragazzo che, unico tra le fila di una destra sclerotizzata, comprendeva, già negli anni '70, l'importanza dell'informazione e imbracciava macchine fotografiche e cineprese anche quando guidava cortei e manifestazioni. La storia di un giornalista che seppe trasformare la passione politica in passione professionale. La storia di un uomo che, non appena la politica smise di regalargli emozioni, l'abbandonò per trasferirsi sulle prime linee del mondo. Perché se il giornalismo era la sua passione, l'avventura era la sua vita.

Le immagini, i filmati e i racconti: omaggio dei compagni d'avventura. Oggi apre l'esposizione a Trieste con 90 pannelli su 35 anni di reportage. E a settembre sarà in edicola anche un fumetto, scrive Fausto Biloslavo, Venerdì 19/05/2017, su "Il Giornale". «La sveglia è chiamata poco dopo le 5. (...) Fa freddo, l'erba è umida e c'è una nebbiolina brinosa tutto attorno. Riteniamo opportuno iniziare la giornata con un sorso di whisky, che fa l'effetto di una fiammata in gola» scrive Almerigo Grilz il 18 maggio 1987 sul suo diario di guerra dell'ultimo reportage in Mozambico. «In pochi minuti la colonna è in piedi. I soldati, intirizziti nei loro stracci sbrindellati raccolgono in fretta armi e fardelli. (...) Il vocione del generale Elias (...) li incita a muoversi: Avanza primera compagnia! Vamos in bora!. In no time siamo in marcia». Per Almerigo sarà l'ultimo giorno di appunti. All'alba del 19 maggio, il proiettile di un cecchino gli trapasserà la nuca mentre filma la scomposta ritirata dei guerriglieri della Renamo respinti dai governativi nell'attacco alla città di Caia. Grilz è il primo giornalista italiano caduto in guerra dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Trent'anni dopo Gian Micalessin e chi vi scrive, i suoi compagni di avventura nei reportage, gli dedicano a Trieste, la città dove è nato, la mostra fotografica Gli occhi delle guerra - da Almerigo Grilz alla battaglia di Mosul. Un'esposizione unica in Italia con 90 pannelli su 35 anni di reportage dall'invasione israeliana del Libano nel 1982 fino al caos della Libia, la terribile guerra in Siria e la sanguinosa battaglia contro il Califfo in Irak. La mostra e il catalogo contengono anche le foto scattate da Almerigo nel corso della sua breve, ma intensa attività in Afghanistan, Etiopia, Filippine Mozambico, Iran, Cambogia e Birmania. L'esposizione, che si inaugura oggi alle 18.30 con l'assessore alla Cultura di Trieste, Giorgio Rossi, al civico museo di guerra per la pace Diego de Henriquez rimarrà aperta fino al 3 luglio. Della mostra fa parte una selezione delle pagine più significative delle agende (Guarda la gallery con le immagini) che Almerigo Grilz utilizzava per annotare con precisione ogni momento dei suoi reportage corredando il tutto con disegni e mappe dettagliate. La futura vocazione e la passione del giornalista emerge pure dalle pagine dei Diari del giovane Grilz con un Almerigo adolescente che disegnava scene di battaglie storiche e descriveva gli avvenimenti della sua Trieste. Il pubblico potrà sfogliare anche le bozze del fumetto Almerigo Grilz - avventura di una vita al fronte (Ferrogallico editore), dalla passione politica al giornalismo, che verrà pubblicato in settembre. Un percorso nella memoria di un giornalista scomodo e volutamente poco ricordato per il suo attivismo a destra, nel Fronte della gioventù, negli anni Settanta, che non a caso Toni Capuozzo ha definito l'«inviato ignoto». Oggi alle 19.30 Almerigo verrà ricordato a Trieste anche in via Paduina davanti a quella che è stata la sede nel Fronte, l'organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano. Al museo de Henriquez accanto alle foto scorrono i filmati realizzati da Almerigo con la cinepresa Super 8. E l'invito in studio nel 1986 di Ambrogio Fogar nel programma Jonathan dimensione avventura dove Grilz con Egisto Corradi, storica colonna del Giornale e Maurizio Chierici del Corriere della Sera parlano del mestiere di inviato di guerra e dei suoi pericoli. I video comprendono anche i reportage di oggi sui Paesi senza pace come Afghanistan, Siria, Libia, Irak realizzati grazie al progetto del giornale.it, Gli Occhi della guerra e al sostegno dei nostri lettori. E non manca il documentario L'Albero di Almerigo (guarda il video) che racconta la ricerca e il ritrovamento in Mozambico dell'antico albero ai piedi del quale riposa Almerigo Grilz. La mostra nel trentennale della sua scomparsa vuole essere anche un tributo ai reportage in prima linea, in un periodo di media in crisi e un omaggio non solo a Grilz, ma a tutti i giornalisti che hanno perso la vita sul fronte dell'informazione per raccontare le tragedie dei conflitti. Nel 1986 in Mozambico, un anno prima di morire, Almerigo annotava sul suo diario: «Mi sporgo fuori per filmarli: non è facile, occorre stare appiattiti a terra perché le pallottole fischiano dappertutto. Alzare troppo la testa può essere fatale».

LA TRUFFA DELL'ANTIFASCISMO.

Sul tema una carrellata di opinioni, la cui natura ideologica traspare palesemente in alcuni di loro, rispetto al cospetto imparziale di altri. Entrambe le posizioni hanno diritto di sede.

Renzo De Felice. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La neutralità di questa voce o sezione sull'argomento Storia è stata messa in dubbio. Motivo: La voce è strutturalmente sbilanciata nel rilevare critiche rivolte contro De Felice, sottovalutando il fondamentale impatto innovativo derivante dalle sue ricerche, sia in Italia che nel resto del mondo. «Lo storico non può essere unilaterale, non può negare aprioristicamente le "ragioni" di una parte e far proprie quelle di un'altra. Può contestarle, non prima però di averle capite e valutate.» (Renzo De Felice). Renzo De Felice (Rieti, 8 aprile 1929 – Roma, 25 maggio 1996) è stato uno storico italiano, considerato da alcuni il maggiore studioso del fascismo, allo studio del quale si dedicò sin dal 1960 e fino all'anno della sua morte. Figlio unico, Renzo De Felice conseguì la maturità nel 1949 presso il liceo classico Marco Terenzio Varrone. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi di Roma La Sapienza e nell'anno accademico 1951-1952 ottenne il passaggio al secondo anno del corso di laurea in Filosofia. Durante gli studi universitari si era iscritto al Partito Comunista Italiano e, secondo la testimonianza del suo collega di studi Piero Melograni, decise il suo passaggio al corso di laurea in Filosofia, perché lo studio della stessa gli sembrava – in una prospettiva marxista – indispensabile per fondare adeguatamente gli studi di carattere storico, che lo appassionavano sin dalla sua iscrizione a Giurisprudenza. Era un militante di ispirazione trotskista e, nel 1952, fu arrestato insieme a Sergio Bertelli mentre preparava una contestazione contro la visita a Roma del generale statunitense Matthew Ridgway, veterano della guerra di Corea e comandante della NATO. Alla fine degli anni ottanta, interrogato su cosa avesse conservato dell'ideologia coltivata in gioventù, rispose: «Oggi nulla, salvo che l'essere stato marxista e comunista mi ha immunizzato dal fare del moralismo sugli avvenimenti storici. I discorsi in chiave morale applicati alla storia, da qualunque parte vengano e comunque siano motivati, provocano in me un senso di noia, suscitano il mio sospetto nei confronti di chi li pronuncia e mi inducono a pensare a mancanza di idee chiare, se non addirittura ad un'ennesima forma di ricatto intellettuale o ad un espediente per contrabbandare idee e interessi che si vuol evitare di esporre in forma diretta. Lo storico può e talvolta deve dare dei giudizi morali; se non vuole tradire la propria funzione o ridursi a fare del giornalismo storico, può farlo però solo dopo aver assolto in tutti i modi al proprio dovere di indagatore e di ricostruttore della molteplicità dei fatti che costituiscono la realtà di un periodo, di un momento storico; invece sento spesso pronunciare giudizi morali su questioni ignorate o conosciute malamente da chi li emette. E questo è non solo superficiale e improduttivo sotto il profilo di una vera comprensione storica, ma diseducativo e controproducente.» Nella facoltà di Filosofia, quale titolare del corso di Storia Moderna, insegnava il professor Federico Chabod: per De Felice quello con Chabod fu un incontro decisivo: prese a frequentare assiduamente le lezioni ed i seminari tenuti dallo storico liberale e, nell'ambito di uno di questi, scrisse un saggio sugli ebrei nella Repubblica Romana del 1798-1799, del quale Chabod sollecitò la pubblicazione. Ma chi più ebbe influenza sul giovane De Felice, secondo quanto da egli stesso riferito, fu il suo maestro e poi amico Delio Cantimori. Ormai definitivamente orientato verso lo studio della Storia, De Felice preparò quindi la sua tesi di laurea - relatore lo stesso Chabod - con titolo Correnti di pensiero politico nella prima repubblica romana, che discusse il 16 novembre 1954 ottenendo il massimo dei voti con lode. Nel 1956 ottenne una borsa di studio presso l'Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, fondato da Benedetto Croce e diretto dallo stesso Chabod. Sempre nel 1956 fu tra i firmatari del Manifesto dei 101, sottoscritto da intellettuali dissenzienti verso l'appoggio dato dal partito all'invasione sovietica dell'Ungheria. Insieme a molti dei firmatari del manifesto, De Felice lasciò il PCI, iscrivendosi al Partito Socialista Italiano. In seguito preferì rinunciare a ogni militanza politica e lasciò anche il PSI. L'uscita dal partito costò a De Felice alcuni anni di isolamento, che durarono sino all'incontro con la futura moglie Livia De Ruggiero, figlia dello storico liberale Guido De Ruggiero scomparso nel 1948, e il sacerdote e studioso cattolico don Giuseppe De Luca. Con l'appoggio di Rosario Romeo, ottenne l'incarico di professore ordinario presso l'Università di Salerno dove insegnò dal 1968 al 1971. Nel 1970 fondò la rivista Storia Contemporanea edita da Il Mulino, che diresse sino alla morte. Nel 1972 si trasferì all'Università "La Sapienza" di Roma, ove insegnò Storia dei partiti politici, prima alla facoltà di Lettere e poi, dal 1979, in quella di Scienze politiche; infine, nel 1986, passò a occupare la cattedra di Storia contemporanea. Alla vigilia delle elezioni politiche del 1976 firmò insieme ad altri cinquanta intellettuali un manifesto pubblicato da Il Giornale di Indro Montanelli, nel quale si invitavano gli elettori a votare «dal PLI al PSI», criticando come «moda del giorno» le dichiarazioni di voto di molti intellettuali per il PCI, allora in costante ascesa tanto da far apparire probabile il "sorpasso" sulla Democrazia Cristiana come primo partito. Intervistato sulla sua adesione, De Felice spiegò di avere l'impressione che tanti intellettuali «votino comunista nel timore di perdere la qualifica di uomini di cultura. Noi, al contrario, non crediamo che la cultura "liberale", della quale siamo partecipi, abbia come logico sviluppo la scelta comunista. È proprio una scelta opposta». Durante il novembre 1977 partecipò a Roma a un'udienza del Tribunale internazionale Sacharov, dal nome del dissidente sovietico Andrej Dmitrievič Sacharov, sulle violazioni dei diritti umani nell'URSS e nell'Europa orientale comunista. Nel 2012, negli archivi della Stasi, polizia segreta della Germania Est (DDR), è stata rinvenuta una scheda su De Felice, segnalato per essere intervenuto attivamente nella fase preparatoria dei lavori, nel corso dei quali la DDR fu accusata di abusi. Ha fatto parte del consiglio editoriale del Journal of Contemporary History. De Felice è morto di tumore, a 67 anni, nella notte tra venerdì 24 e sabato 25 maggio 1996 nella sua casa romana di Monteverde vecchio in via Antonio Cesari, tumore probabilmente legato all'epatite cronica che da vent'anni lo affliggeva. Tra i suoi studenti divenuti a loro volta storici, vi sono Emilio Gentile, Giovanni Sabbatucci (entrambi considerati i più importante storici contemporanei del fascismo) e Francesco Perfetti. Inizialmente De Felice si dedicò allo studio della storia moderna, concentrandosi in particolare sul giacobinismo italiano. Sebbene abbia prodotto sul tema un considerevole numero di pubblicazioni, la sua attività come studioso del giacobinismo fu in qualche modo oscurata dalla successiva e ben più ampia produzione storiografica sul Novecento e soprattutto sul fascismo. Ciononostante, secondo Giuseppe Galasso, «De Felice resta nella storiografia sul giacobinismo, se non con lo stesso rilievo che in quella sul fascismo, certo con una non minore legittimità di ricerca e risultati». Gli studi di storia contemporanea iniziarono con il volume Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (1961), studio commissionatogli dall'Unione delle comunità israelitiche. Da tale filone scaturì l'interesse che contraddistinse più marcatamente la sua carriera di storico e che lo propose spesso all'attenzione del grande pubblico: la storia del fascismo. In otto volumi (il primo Mussolini il rivoluzionario è del 1965, l'ultimo Mussolini l'alleato. La guerra civile, fu pubblicato incompleto e postumo nel 1997) partendo dalla vita di Mussolini, affronta oltre venticinque anni della storia d'Italia, dando un'interpretazione originale del fenomeno fascista, suscitando consensi e critiche. L'interpretazione che De Felice dà del fascismo si articola su tre temi fondamentali: l'origine socialista del pensiero di Mussolini e la differenza fra il fascismo e le dittature di destra contemporanee, la distinzione fra il "fascismo movimento" e il "fascismo regime", la realizzazione di un consenso determinante a garantire stabilità e successo al regime fascista. Al di là degli elogi e delle critiche, l'interpretazione che De Felice offre del fascismo e della dittatura mussoliniana ha comunque il merito di aver suscitato una nuova stagione di studi e riflessioni sul fascismo. Quando De Felice pubblicò il primo volume della monumentale biografia di Mussolini, la storiografia e la cultura italiane erano divise da barriere ancora molto rigide e una ricerca che contraddicesse l'interpretazione storiografica prevalente del fascismo, di Mussolini e della guerra di liberazione, si esponeva a forti critiche e pesanti polemiche; lo storico venne accusato dalla sinistra di giustificare il fascismo e di eccessiva adesione al personaggio oggetto del suo lavoro. D'altra parte, le sue ricerche, poi riconosciute da buona parte degli accademici come generalmente serie e scrupolosamente documentate, furono spesso piegate (con evidenti forzature delle tesi defeliciane) dai seguaci delle teorie revisionistiche al fine di negare le responsabilità storiche del fascismo. Il mondo antifascista reagì accusando De Felice di "revisionismo" e accomunandolo spesso a storici invisi e considerati anch'essi revisionisti. De Felice reagì, da una parte ribadendo le sue tesi in libri discussi ma sempre di tono "scientifico", dall'altra, con articoli che pubblicò su Il Giornale, o in alcune interviste rilasciate a Giuliano Ferrara, sul Corriere della Sera, utilizzando il mezzo giornalistico per aprire il dibattito sul fascismo a un pubblico non di soli specialisti. In definitiva il lavoro svolto da De Felice permise l'inizio di un nuovo modo di porsi riguardo allo studio degli anni del fascismo, affrancando quest'ultimo "dagli stereotipi e dalle secche dell'antifascismo di maniera". De Felice viene considerato lo storico italiano che, accedendo agli archivi di stato ed a quelli del regime fascista, ha ricostruito più in profondità, dedicando l'ultima parte della sua vita ad una opera monumentale (8 volumi per quasi 6000 pagine con ricca documentazione), la biografia storica di Mussolini. La sua opera, ricca di nuove interpretazioni rispetto alle correnti storiografiche tradizionali, rappresenta un esempio di approfondimento storico metodico e documentato del ventennio fascista ed in particolare della parabola mussoliniana. De Felice ha creato una vera e propria scuola storiografica: oltre a Emilio Gentile, diversi allievi ne hanno proseguito gli studi, (molti raccolti intorno alla rivista Nuova storia contemporanea) da Giuseppe Parlato a Francesco Perfetti, a Giovanni Sabbatucci. Al di fuori della sua scuola, la sua opera è stata oggetto anche di critiche da parte di storici accademici. Tra i critici Giorgio Rochat ha evidenziato la scarsa attenzione prestata ai problemi fondamentali della politica militare del Duce; l'autore afferma che: «De Felice non aveva alcun interesse per le forze armate, dimenticate nei primi cinque volumi della sua biografia di Mussolini malgrado le responsabilità di costui nella politica militare» e che «lo scarso interesse di De Felice per le questioni militari lo porta anche nell'ultimo volume della biografia a scelte discutibili» oltre a sottolineare anche l'assenza nella sua opera di riferimenti al ruolo decisivo svolto da Mussolini nelle politiche repressive in Libia: «nella monumentale biografia che De Felice dedica a Mussolini non è mai citato il vivo interesse con cui il Duce seguiva la repressione». È stata criticata inoltre l'assenza di una analisi della politica bellica di Mussolini in Etiopia e delle sue decisioni sull'impiego dei gas; a tale proposito Angelo Del Boca ha scritto: «A nostro avviso De Felice non ha messo sufficientemente in risalto la gravità dell'aggressione a uno stato sovrano e i metodi spietati che hanno caratterizzato la campagna [...] per fare un solo esempio De Felice liquida la questione dell'impiego sistematico degli aggressivi chimici, forse il peggior crimine che si può imputare al fascismo, con una sola riga.». Relativamente alle occupazioni balcaniche, Teodoro Sala scrive della «sottovalutazione delle questioni balcaniche operata da Renzo De Felice quando ha ricostruito la politica estera fascista» e di «uso magmatico delle fonti introdotto nell'opera monumentale dedicata da De Felice a Mussolini». Riguardo l'interpretazione da parte di De Felice della politica estera intrapresa da Dino Grandi, lo storico britannico MacGregor Knox scrive di: «singolare interpretazione della diplomazia e della strategia fascista» e di «ancor più bizzarra adorazione per l'ambiguo collaboratore e rivale Dino Grandi», mentre lo storico australiano R.J.B Bosworth parla di «ricomparsa di Grandi nel 1988 in veste di eroe dell'interpretazione revisionista del regime data da Renzo De Felice». Sempre riguardo l'interpretazione di De Felice della politica estera fascista, Teodoro Sala condivide il concetto di una "continuità" del fascismo rispetto al periodo liberale ma scrive anche che «si insiste in modo francamente artificioso sulla prevalenza che il fascismo avrebbe dato, fino alla metà degli anni trenta, a una politica degli interessi nazionali contrapposta a quella successiva fondata più sugli interessi ideologici». Lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, pur citando varie volte De Felice e apprezzandone alcuni lavori, scrive anche di «impressionante trascuratezza riguardo alle fonti tedesche, cosa che per l'interpretazione del periodo bellico porta necessariamente ad uno stravolgimento della prospettiva». Lo storico Thomas Schlemmer elogia gli autori italiani più giovani per "aver messo in dubbio la tesi, che risale a Renzo De Felice, secondo la quale il fascismo sarebbe fuori dal cono d'ombra dell'Olocausto". Infine è stata criticata la tesi defeliciana di una sostanziale equivalenza morale delle due parti in lotta. Ancora Bosworth: «la tesi revisionista diventa inaccettabile quando storici e memorialisti accampano un'equivalenza morale tra le due parti in lotta».

Lo strano revisionismo all'italiana, scrive Dino Cofrancesco il 12 Aprile 2008 su “L’Occidentale”. E’ difficile capire per quali ragioni in quella vasta e composita area politica e culturale che si riconosce nel centro-destra, ogni tanto qualcuno ritenga di dover rimettere in questione i momenti più alti della storia nazionale: l’atto fondativo della comunità politica italiana—v. i simboli del Risorgimento e di Casa Savoia—e la nascita della nuova forma di Stato seguita alla caduta del fascismo e alla sconfitta militare—v. i simboli della Resistenza e della Repubblica. Un tempo si squalificava l’uno per esaltare l’altro. La saggistica di destra, ad esempio, minimizzava la lotta partigiana, contestava il referendum istituzionale, mostrava le lacerazioni dell’Italia liberata, contrapponeva alle miserie del presente l’eroica epopea del passato, evocava gli spiriti sdegnosi di Cavour, Garibaldi, Mazzini che mai si sarebbero riconosciuti nei loro lontani eredi e nella patria tornata ad essere. A sinistra il quadro era diverso: il Secondo Risorgimento, la Resistenza, aveva finalmente restituito al popolo lo scettro della sovranità sicché ora gli italiani non più sudditi passivi di una storia scritta da altri -- dalle élite del potere, dai loro notabili e dai loro intellettuali — avrebbero potuto partecipare, in virtù della democrazia non solo formale ma sostanziale scolpita a caratteri indelebili negli articoli della Costituzione Italiana, alla costruzione del loro avvenire. E’ vero che non tutta la destra, specie al Sud, sentiva il ‘mito risorgimentale e che non tutta la sinistra era disposta a credere nel salto di qualità che per alcuni, seppur c’era stato, in poco volger d’anni, aveva visto esaurire la sua dinamica innovativa (v. la Resistenza tradita), ma in ogni caso quei due miti di fondazione rimanevano estranei, se non ostili, l’uno all’altro. Solo i piccoli partiti laici — a cominciare dal Partito d’Azione—riuscivano a tenere assieme il 1861 e il 1946. Per gli altri, se una data era veneranda, l’altra era da dimenticare: chi cantava Fratelli d’Italia non poteva che provare disagio e fastidio nel sentire Bella ciao e viceversa.

 Da quando un grande maestro della ricerca storica, Renzo De Felice, ha lanciato sul mercato delle idee il ‘revisionismo’, si sono registrati, nei fronti ideologici, significativi slittamenti di senso e di valore che, come in una quadriglia, hanno fatto scambiare le posizioni. La giustizia resa ai vinti del 1945 (i fascisti), a poco a poco, è stata rivendicata per tutti gli altri vinti della storia, almeno di quella moderna. Se il ventennio non fu quello descritto dalla vulgata antifascista — come De Felice, giustamente, definiva le opere dei Guido Quazza, dei Nicola Tranfaglia & C.— perché lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie dovevano continuare ad essere considerati i prototipi del malgoverno di Satana? Quegli esecrati monarchi non avevano costruito strade e persino qualche ferrovia, non avevano favorito industrie e commerci, non avevano fondato orti botanici e teatri, chiese ed enti di beneficenza? Il riconoscimento di quel tanto o poco di buono che avevano lasciato le odiate dinastie nemiche dei patrioti e dell’Italia, come capita in una cultura fragile, priva di nerbo concettuale, per dirla col vecchio Croce, doveva convertirsi nella demistificazione, non priva di compiacimento, dei presunti ‘buoni’. Si vedano i libri (già ricordati in questa sede) di Angela Pellicciari — prefati da Rocco Buttiglione e apprezzati da un ‘antimoderno’ come Franco Cardini — o gli articoli sul Giornale di Ruggero Guarini. Quest’ultimo di recente ha condensato, sul periodico on line Il Velino, tutti i luoghi comuni del revisionismo allargato e in una lettera a Dell’Utri così ha fatto parlare la Signora Italietta: < La rivoluzione napoletana del 1799, con cui si pretende che sia incominciato il mio Risorgimento, non avvenne mai. Quel che avvenne fu una vittoria dei conquistatori francesi che dopo aver sbaragliato l’esercito borbonico, messi in fuga il re e la regina e soffocato nel sangue la resistenza dei Lazzaroni, permisero ai giacobini locali, che non avevano mosso un dito, di fondare una repubblica fantoccio. |…| Il Risorgimento non fu, come il termine lascia credere, un movimento di popolo, ma una lunga serie di cospirazioni e sommosse ordite da movimenti elitari e sfociate in una serie di guerre di conquista combattute e vinte dal Piemonte (col sostegno di un’esigua minoranza di “patrioti” e di alcuni Stati europei) per annettersi tutti gli altri staterelli preunitari. |…| Quale Italietta liberale? – Le molte migliaia di fucilazioni con cui nell’ex Regno delle due Sicilie furono represse, durante i miei primissimi anni di vita, le ultime resistenze filoborboniche (briganti o partigiani?), nonché l’inizio della grande fuga degli emigrandi verso le Americhe (in pochi decenni circa venti milioni di disperatissimi miei figli onorarono la mia nascita scappandosene altrove) dicono che gli inizi della mia storia dopo l’unità, dipinti come sereni e operosi dai suoi apologeti, furono segnati dal terrorismo di stato e dell’accresciuta miseria delle sue popolazioni più derelitte>. Come si vede, rispuntano a destra gli slogan di una storiografia—anche letteraria, teatrale e cinematografica -- che imperversò nel ’68 e che affondava le sue radici in una cultura che, da Alfredo Oriani a Piero Gobetti, da Antonio Gramsci al primo Salvemini, aveva alimentato il non-conformismo degli anni dieci, l’antigiolittismo eversivo e, da ultimo, l’interventismo del radioso maggio inteso a rigenerare la flaccida provincia italiana con una vera. Alla base di questo anticonformismo déjà vu—ripreso da Marcello Dell’Utri che, dopo Francesco Storace, ripropone la Commissione ministeriale per la revisione dei libri di testo e da Raffaele Lombardo, che ripete vecchie litanie sul male che ci ha fatto Garibaldi: - possono esserci varie motivazioni.  Innanzitutto, una volontà di provocazione, di épater les bourgeois, ma sempre più ripetitiva e inefficace; la notizia del bambino che ha morso il cane, infatti, colpisce la prima volta ma, a forza di sbatterla in prima pagina, diventa più stucchevole di quella del cane che ha morso il bambino, sicché se oggi uno storico pubblicasse una impegnativa Apologia del Risorgimento farebbe più scalpore di mille Pellicciari, Cardini e Guarini messi insieme.  In secondo luogo, la difficoltà di pensare per et et piuttosto che per aut aut. Nel teatro culturale italiano sembra esserci posto solo per un protagonista alla volta. Se si riabilita Ferdinando I (non si sa come ma tutto è possibile) si sottraggono allo sguardo degli spettatori i ‘martiri napoletani’ del 1799, si cancella il ricordo di uno dei più fulgidi centri dell’Illuminismo europeo (illustrato dai Galiani, dai Filangieri, dai Genovesi, dai Pagano), si relega in soffitta il primo grande capolavoro dello storicismo liberale italiano, il Saggio storico di Vincenzo Cuoco.   In terzo luogo, il preconcetto delle anime belle che non concepiscono nascita di stato nazionale senza il prodotto dell’ambizione; come se in altri paesi europei — ivi compresa l’Inghilterra — il processo unitario non sia stato opera di dinasti scaltri e intraprendenti.   E infine, forse decisivo, il tipico delle nostre scuole che non riusciranno mai a capire che ogni interpretazione di un evento è una costruzione intellettuale quanto mai ardua e complessa. La storia, con la sua miriade sterminata di fatti, non è il supermarket della memoria in cui ciascuno preleva ciò che fa più comodo alla sua tesi, ritenendosi esonerato, nel nostro caso, dal fare i conti con la grande storiografia italiana del passato-- da Volpe a Croce, da Omodeo a Chabod, da Venturi a Romeo, per limitarci a questi sommi che non avevano nulla, proprio nulla, da invidiare ai maestri d’oltralpe—e con la sua esemplare riflessione sulla questione risorgimentale.  A ben guardare, questo dilettantismo è il peggiore lascito di un antico   condannato a precludersi la consapevolezza che qualsiasi spiegazione si possa avanzare sulle vicende umane — fosse pure la più eccentrica — troverà sempre, nei fatti, qualche pezza d’appoggio; sennonché, nelle scuole frequentate dai neo-revisionisti, Max Weber, come il caffè nella tazzina di Luca Cupiello. Non è questo, tuttavia, l’aspetto più preoccupante della polemica sul revisionismo e sui libri di testo. In tutti i paesi occidentali, la storia nazionale è oggetto di ‘revisione’. Si pensi, nell’Europa dell’Ottocento, all’imponente dibattito sulla Rivoluzione francese, sulla sua genesi, sulla sua natura, sui suoi protagonisti cui partecipano le più robuste menti filosofiche della Germania del tempo, da Kant a Hegel! O, negli Stati Uniti, alla guerra d’indipendenza interpretata in modi differenti -- per gli uni, i democratici ovvero i republicans-, è l’inizio di un novus ordo seculorum, per gli altri, i liberalconservatori ovvero i federalists, è la riappropriazione, da parte degli inglesi d’oltreoceano di diritti storici e di libertà (al plurale) che Londra aveva conculcato. In seguito, l’altro evento traumatico — la guerra civile — attiva un ancor più lacerante conflitto di interpretazioni e porta a scovare fatti – arbitri, violenze, genocidi—destinati a pesare come macigni nell’immaginario collettivo e, puntualmente, portati da Hollywood sugli schermi. In tutti questi casi, però, la ricostruzione storica rappresenta un’arma brandita dai partiti-- e dalle loro retrostanti aree culturali-- in una lotta politica che si svolge all’interno del regime ma che lascia fuori la comunità politica, due dimensioni che vanno accuratamente distinte. La comunità politica, infatti, è l’edificio, il territorio, il contenitore istituzionale, in cui si svolge la competizione per il potere e si confrontano i partiti con le loro diverse, talora irriducibili, visioni del mondo. Il regime politico, al contrario, si riferisce all’assetto interno dell’edificio, alla suddivisione e all’assegnazione degli spazi, ai ruoli di autorità, alle regole che debbono presiedere all’elezione degli amministratori. La prima, se si vuole, si trova in prossimità dello Stato, il secondo, in prossimità del governo. Orbene ciò che colpisce nelle battaglie storiografiche combattute in Italia è che le tesi contrapposte non si propongono solo di fornire agli avversari risorse culturali per l’andata al governo ma rimettono sistematicamente in discussione la stessa ‘comunità politica’. Non si tratta, in altre parole, di decidere se nella tormentata fabbricazione del bene collettivo Francia siano state più importanti le dinastie esaltate da Charles Maurras o i soldati dell’anno II celebrati da Michelet e dalla’ Terza Repubblica—il prevalere dell’una o dell’altra tesi, evidentemente, decide quale subcultura politica ha più titoli per governare l’hexagone. Da noi, dietro le controversie ideali, ci sono spesso l’arrière pensée del, la rottura di una continuità, l’orgogliosa rivendicazione di una diversità irriducibile. Di qui il rifiuto--ostentato e provocatorio -- dei simboli comuni: Nei dollari americani ci sono tutti: Washington, Hamilton Madison; nel Pantheon francese, stanno fianco a fianco Giovanna d’Arco e Luigi IX, il Roi Soleil e Napoleone, il Louvre e la Bastiglia. In Italia, invece, i simboli convivono nei monumenti, nelle facciate di enti, scuole, ospedali, nella toponomastica dei comuni ma non nei cuori di quelle che Barrès chiamava le familles spirituelles di una nazione. Un repubblicano che passa davanti alla statua equestre di Vittorio Emanuele II o un monarchico che guarda l’esile figura di Mazzini scolpita nel marmo provano entrambi una sensazione di disagio. Non è vero che la modalità retorica nazionale sia quella dell’embrassons-nous — le immagini dei padri della patria a braccetto nell’iconografia risorgimentale hanno sempre attivato le ironie di chi --: il nostro famedio ha un numero limitato di posti.

Dal revisionismo al rovescismo. La Resistenza (e la Costituzione) sotto attacco, scrive Angelo d’Orsi il 18 gennaio 2010 su “Micro Mega” (Temi Repubblica). Pubblichiamo un capitolo dal volume "La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico", a cura di Angelo del Boca (Neri Pozza Bloom, pag. 384, € 20). Nell’ottobre 2006, il giornalista Giampaolo Pansa pubblicava un volume che avrebbe dovuto essere legato strettamente al precedente, fortunatissimo Sangue dei vinti, un’opera beneficiata da uno spettacolare lancio del sistema mediatico, con notevolissime, immediate ricadute sul piano politico. Se quel libro voleva essere la rivelazione di fatti tenuti nascosti per sei decenni – tale il messaggio che sostanziò la campagna propagandistica – i successivi del medesimo autore, apparivano quasi dei metalibri, complemento polemico rispetto al primo, stazioni di una personale via crucis dell’autore: lo scrivano – il «pennarulo», per dirla en napolitain – travestitosi da studioso di storia, sfidava i professionisti della ricerca, non soltanto producendo un risultato di enorme successo, e, grazie a esso, ergendosi a loro accusatore, con sonori squilli di trombe e roboanti rulli di tamburi di guerra. L’imputazione? Essere professionalmente non all’altezza del compito, e addirittura nascondere per fini ideologici, o peggio, spinti da conformismo politico (vittime o complici; magari i soliti «utili idioti» della vecchia propaganda anticomunista), nei confronti del «politicamente corretto», ossia della «verità di partito», o quanto meno «di parte»; essi, nella requisitoria di Pansa, avrebbero per decenni nascosto la vera, intera verità di cui pure erano o potevano essere a conoscenza. Non casualmente, dopo avere polemizzato, già nelle aspre tenzoni legate al Sangue dei vinti, contro l’angusta pedanteria di professori che pretendevano addirittura l’indicazione delle fonti su cui egli aveva «lavorato», l’autore andava rivendicando la propria formazione storica, avvenuta all’Università di Torino, con una tesi sulla Resistenza nelle sue zone, l’Alessandrino. Ho detto via Crucis, in quanto in realtà tutta l’operazione-Pansa, oltre ad avere un significato, prima di tutto, bassamente commerciale, era una delle tante rese dei conti che nel sottobosco intellettuale italiano si andavano consumando relativamente ad appartenenze o a militanze nell’area vicina o contigua alle forze politiche della tradizione operaia, socialista, comunista. Insomma, «revisionando» i risultati della ricerca sulle «questioni scottanti» legate alla Resistenza, e ancor più al post 25 aprile, l’autore sembrava esercitare il suo commiato, aspro ed egolatrico, dalla sinistra, accusata di essere, in sostanza, disonesta, retrograda, succube dell’occhiuto, nefasto esercizio dell’egemonia gramsciano-togliattiana. Un tema assai caro a una sovrabbondante pubblicistica, passata dall’era craxiana a quella berlusconiana, che, via via più convinta della giustezza della battaglia contro la pretesa egemonia comunista, ne ha fatto una sorta di leitmotiv. Benché, con eccesso di malizia, forse, vi fu chi sospettò allora che le ambizioni di Pansa fossero di tipo politico, o di giornalismo «che conta» (direzione Corriere della Sera, ad esempio), in realtà il giornalista Pansa era parte – divenuta subito prediletta dai media di area di centrodestra – di una non piccola, anche se non estesa, conventicola: i rovistatori della Resistenza, che hanno la specialità, o endogena, o insufflata dalla committenza politico editoriale, di raschiare nelle pieghe della storia, per snidare il nascosto, ma soltanto se questo sia passibile di uso politico e mercantile, e, soprattutto, se questo «nascosto» emani odore di putrescenza, o sia in grado, appunto, di rovesciare, ribaltare, le acquisizioni storiografiche: ossia la «storia di sinistra», quella che De Felice e i suoi adepti bollarono, con sussiegoso disdegno, come «vulgata antifascista», e poi, semplicemente, «vulgata». E poiché nella maggior parte dei casi la putrescenza è assente, la si inventa, o meglio si condisce con il proprio putridume interiore i fatti, a partire da una impostazione che, come è stato osservato, è prima che anticomunista, «anti-antifascista». Non casualmente, fu sempre pratica corrente di De Felice di non citare mai i lavori dei suoi antagonisti, cioè coloro che venivano deietti nell’inferno della storiografia «ideologica», ossia «di sinistra»: il che, a prescindere dai contenuti della querelle, costituisce già un errore di prospettiva. La storiografia non può essere individuata come «di destra» o «di sinistra», ma soltanto come buona o cattiva, vale a dire seriamente fondata, o meno. Insomma, l’accusa di ideologismo, proveniente dalla sponda revisionistica, andrebbe semplicemente ribaltata su chi la scaglia. E, in ogni caso, appare segno di debolezza – oltre che di insopportabile arroganza – il voler evitare di confrontarsi con ipotesi interpretative e impostazioni metodologiche diverse dalle nostre. Dunque, eccoci alla ricerca sistematica della storia «nascosta», la storia «negata», la storia «menzognera», la storia «sequestrata», la storia «violentata»…, ossia la storia che mostrerebbe (questa la reductio ad unum) il ruolo nefasto, esercitato appunto dal Partito comunista italiano, e dai tanti suoi utili idioti, gli intellettuali «organici», espressione con cui nel disinvolto quanto grottesco lessico revisionistico, vengono etichettati tutti coloro che al PCI erano stati legati, anche indirettamente, coloro che pubblicavano presso casa Einaudi, oltre che sotto le insegne canoniche delle Edizioni Rinascita e, poi, degli Editori Riuniti. L’idea sottesa a questo tipo di atteggiamento e di procedura, è – se vogliamo nobilitarli – che la storia fino a un certo momento sia stata «ostaggio» della cultura di sinistra, a sua volta egemonizzata dal PCI. Costoro, gli intellettuali (non solo gli storici) di sinistra, sotto l’occhiuta regia di Togliatti e, in seguito, del togliattismo, sarebbero stati «i padroni della memoria». Via via che il clima politico generale andava cambiando, e diveniva un fatto concreto lo «sdoganamento» del neofascismo (ormai, nella versione corrente, «postfascismo»), tra gli anni Ottanta e i Novanta, ossia tra Craxi e Berlusconi, i revisionisti prendevano coraggio, occupavano spazi (in particolare si segnalano le pagine, non solo quelle culturali, del Corriere della Sera, foglio in cui ha imposto la linea, su queste tematiche, Ernesto Galli della Loggia), e facevano proseliti, nella loro crociata, che, oltre che anti-antifascista, sostanzialmente era anticomunista, o meglio ancora, in termini più generali, antirivoluzionaria (benché il termine possa apparire desueto). Il revisionismo ha posto sotto attacco, in effetti, a partire dagli anni Sessanta, tutto il ciclo delle rivoluzioni, da quella Francese a quella Bolscevica, fino alla Resistenza, nella quale fu presente, come una componente importante, l’istanza rivoluzionaria, di un cambiamento epocale, e di un sovvertimento sociale a favore delle classi subalterne. Associandosi all’anticomunismo, questo revisionismo, anche nella versione estrema, portato avanti da giornalisti, ma anche da storici, giungeva a sostenere che tutto quello che sappiamo in merito a fascismo, antifascismo, Resistenza, è menzogna, o perché fondata sulla falsità, o perché basata sull’occultamento; responsabili delle menzogne e dei nascondimenti della verità, sono «i comunisti», da Gramsci fino ai suoi pronipoti, con un particolare accanimento su Togliatti, presentato, spesso e volentieri, egli stesso come un soggetto storico su cui esercitare l’arte speciosa del rovesciamento, e come ispiratore delle trame storiografiche negatrici della verità, infine rimessa a posto dai Pansa e sodali, i vendicatori della storia. Dunque, se quello che si sa è menzogna, si tratta di costruire una «verità alternativa». E più si urlano le verità alternative, più esse sono costruite in modo plastico, condite possibilmente da eros e thanatos, più si allarga il bacino d’utenza. Più i libri smerciano le copie, più aumentano i «passaggi» televisivi (con un rapporto di reciproco beneficio tra l’una cosa e l’altra), più il ceto politico se ne occupa, e un prodotto cartaceo diviene strumento di lotta politica. Non è un caso che il successo dell’«operazione Pansa» sia stato preparato da un lungo lavorio, che parte almeno dagli anni Ottanta, volume dopo volume della mastodontica biografia mussoliniana di Renzo De Felice. Che De Felice abbia dei meriti, è fuori discussione, ma che il suo lavoro avesse anche un fine politico, è altrettanto indubbio, e del resto lo stesso studioso si è incaricato con prese di posizione pubbliche, specie nelle due note interviste, rilasciate a distanza di un ventennio, di trarre risultati politico-ideologici a una ricerca presentata sempre come «disinteressata». E senza quel lavoro, e quegli impulsi ideologici, il revisionismo all’italiana non avrebbe avuto cittadinanza. De Felice, dunque, a partire dai primi anni Sessanta, quando venne allo scoperto come studioso del fascismo, aveva reiteratamente etichettato il proprio metodo nei termini classicamente positivistici del minatore che scava nelle latebre del passato, portandone alla luce i tesori (i documenti), aggiungendo, ad abundantiam, di essere assolutamente «obiettivo», dimenticando l’avvertenza salveminiana: «lo storico che si dichiara obiettivo o è uno sciocco, o un uomo in malafede, quasi lupo travestito da agnello». Salvemini invitava alla «probità»: dichiarare le proprie passioni, innanzi tutto, e prendere «le contromisure nei loro confronti». Il che significa essere onesti, sul piano intellettuale, e rigorosi sul piano del metodo. Ma, nella biografia del duce, contraddicendo il proprio assunto, fin dal primo volume (1965), De Felice aveva operato un pieno ricupero alle glorie patrie del figlio del fabbro romagnolo, sconnettendo, nel prosieguo del lavoro, il cattivo nazismo dal fascismo («che non era poi così male», come si espresse, all’ingrosso, uno dei grands commis di questo apparato ideologico, Giuliano Ferrara), usando (e abusando) la categoria della «modernizzazione» oltre che, ovviamente, di quella del «consenso». Categorie che, nell’analisi del fascismo sono del tutto lecite, ma da usarsi con cautela. E senza enfatizzare né l’una, né l’altra; soprattutto, senza recidere i nessi tra fascismo (movimento e regime) e l’uso della violenza, della sopraffazione, dell’intimidazione. E il sostegno a Mussolini giunto da poteri non propriamente modernizzatori come il Vaticano. Ma ritorniamo a Pansa, e al revisionismo, inteso come teoria e pratica della revisione programmatica, che sarebbe giunto alla sua estremizzazione, il rovescismo, agli inizi degli anni Duemila, ma che aveva palesato già vent’anni prima il suo obiettivo, che ancor prima che culturale era direttamente politico; ad ogni modo, esso non si collocava affatto nell’alveo delle problematiche storiografiche, né aveva un intento conoscitivo. A seguito di una intervista (al Corriere della Sera), in cui De Felice invitava a lasciar cadere la retorica dell’antifascismo, vi fu chi – Alessandro Galante Garrone, tra i primissimi – comprese quale fosse il punto d’arrivo, di un combinato disposto, che metteva accanto, come pezzi di una batteria, revisionismo (pseudo)storiografico e proposte politico istituzionali (erano gli anni della annunciata Grande Riforma, della vaticinata Seconda Repubblica). L’obiettivo di tanto fuoco, in vero, era la Costituzione Repubblicana, cui si voleva metter mano, per un «adeguamento», che ricordava, nella sostanza, la medesima operazione che in termini storiografici si pretendeva di compiere rispetto al ventennio fascista e al biennio resistenziale. Tra De Felice, in specie l’ultimo De Felice, e Pansa, il rapporto sussiste ed è indiretto; fra i due esiste naturalmente una distanza siderale, ma il nesso v’è, e il secondo non sarebbe pensabile senza il primo. Diretta invece la filiazione dal primo degli pseudostorici della Resistenza chiamata sbrigativamente «guerra civile», il giornalista repubblichino Giorgio Pisanò; ma Pansa s’inseriva nel solco tracciato da divulgatori disinvolti quali Arrigo Petacco, Silvio Bertoldi, e un nugolo di altri che non sempre hanno avuto il beneficio del grande successo di pubblico, ossia del massiccio sostegno mediatico. Proprio tale successo, impossibile del resto in epoca preberlusconiana, faceva di Pansa, a partire dal 2003, il principe dei rovistatori. L’obiettivo perseguito da costoro è, come dicevo, la ricerca del sensazionale, o ancora meglio del maleodorante, del putrescente: e, se non c’è, lo si inventa, lo si amplifica, e lo si sbatte in prima pagina. Che questa operazione sia fatta senza alcun criterio storico, senza le cautele minime di qualsivoglia studioso, poco importa. Se gli autori di libri di tal fatta, vendono, troveranno editori disposti a scommettere su di loro, giornali, radio e televisioni pronti a parlarne, e un pubblico abilmente stuzzicato e quindi incuriosito, non dei fatti, così come si sono effettivamente svolti, ma delle notizie (il giornalismo attuale ci ha abituato a una perfetta disconnessione fra le due parole, un tempo legate consequenzialmente: le notizie come la fotografia e radiografia, quando si va un po’ oltre i dati empirici, dei fatti accaduti). Quel pubblico, in sostanza, viene convogliato verso il misterioso, verso il segreto, verso il maligno, verso l’erotico, verso il sadico, verso il macabro: ossia verso ciò che suscita attenzione di massa, che eccita interesse della radio e soprattutto della televisione; ebbene allora il risultato è conseguito. Del resto, l’obiettivo massimo – raggiunto da Pansa– è che la propria opera diventi un film o uno sceneggiato TV. Ho affermato che la filiazione del Pansa «storico» della Resistenza e del primissimo dopoguerra, ci porta a un attivista neofascista, già militante della RSI, giornalista e politico nel MSI (di cui fu rappresentante al senato per un ventennio), Giorgio Pisanò. Nella sua febbrile attività volta a screditare l’antifascismo, e a riabilitare il duce, e il fascismo in generale, costui negli anni Cinquanta pubblicava un’opera a suo modo capitale, che fissava lo stilema interpretativo della Resistenza nei termini di guerra civile. A tale fonte a dir poco inquinata, si abbeverarono i rovistatori di cui sopra, Pansa per ultimo, ma con maggiore dovizia. Ma vediamo chi è il revisionista numero uno, in fatto di «storiografia» sulla Resistenza, Giorgio Pisanò. Ci affidiamo a una fonte inequivoca, un suo libro autobiografico-memorialistico. La decisione di restare nel campo repubblicano (la RSI, insomma) dopo l’8 settembre, viene motivata dall’autore come difesa della «sua dignità di italiano» e de «l’onore della bandiera» di fronte al «rovesciamento di fronte» del Regno....

A sinistra gli storici, a destra i cantastorie, scrive Luigi Iannone su “Il Giornale” il 30 novembre 2016. Quiz della sera …facile, facile.

1) Morto lo storico Claudio Pavone. Per i media è stato colui il quale ha sdoganato il termine di guerra civile.

2) Ernesto Galli della Loggia esce in questi giorni con un libro (Credere, tradire, vivere) in cui si descrivono tutti i passaggi, a fine guerra, dei fascisti nelle fila del PCI e si parla esplicitamente della “truffa dell’antifascismo”.

3) Dovunque mi capiti di cliccare sul telecomando mi imbatto in programmi di Storia in cui: a) si parla solo di fascismo o nazismo come se il mondo iniziasse e finisse negli anni Trenta del secolo scorso; b) i conduttori-giornalisti sono Carlo Lucarelli, Aldo Cazzullo o Paolo Mieli nella migliore delle ipotesi.

4) In qualunque libreria io vada, nella sezione Storia, trovo sempre una caterva di libri revisionistici di Pansa.

Fatta salva la condivisione per questi loro, seppur tardivi, posizionamenti in tema di revisionismo, trattasi tuttavia di persone provenienti o attualmente ancora ‘dimoranti’ in quel mondo che per comodità linguistica definiamo di sinistra.  Un mondo che da sempre detta ‘tempi e modi’ dell’analisi storiografica e delle sue ricadute nel dibattito politico. E allora, secondo voi, cari lettori, tutto ciò può rappresentare una delle principali motivazioni per le quali mi vengono dei ‘travasi di bile’ ogni qualvolta guardo atterrito i soliti volti noti che, invece di andare ai giardinetti dopo aver mostrato le loro miserrime capacità nel ventennio passato, pontificano di nuovo sulla ricomposizione della diaspora post An e si dicono pronti a riorganizzare la Destra politica?

Giampaolo Pansa. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giampaolo Pansa (Casale Monferrato, 1º ottobre 1935) è un giornalista, saggista e scrittore italiano. Nativo di Casale Monferrato, dopo gli studi classici si iscrisse a Scienze Politiche presso l'Università degli Studi di Torino, dove ebbe come docente Alessandro Galante Garrone. Si laureò con una tesi intitolata Guerra partigiana tra Genova e il Po. Sposato con Lidia, nel 1962 ha avuto un figlio, Alessandro, ex amministratore delegato di Finmeccanica. Agli inizi degli anni sessanta entrò nel quotidiano torinese La Stampa. L'elenco delle sue collaborazioni è il seguente:

1961-1964: La Stampa (direttore Giulio De Benedetti). Uno dei suoi servizi più noti del periodo fu sul disastro del Vajont[3];

1964-1968: Il Giorno (direttore Italo Pietra), si occupò delle cronache dalla Lombardia;

1969-1973: La Stampa, inviato da Milano (direttore Alberto Ronchey). Scrisse per il quotidiano torinese sulla strage di piazza Fontana;

(dopo una breve parentesi al Messaggero di Roma come redattore capo) 1º luglio 1973- ottobre 1977: inviato per il Corriere della Sera (direttore Piero Ottone). Durante il periodo al Corriere Pansa scrisse con Gaetano Scardocchia l'inchiesta che contribuì a svelare lo scandalo Lockheed;

novembre 1977-1991: La Repubblica, inviato speciale (direttore Eugenio Scalfari). Nell'ottobre 1978 assunse la vicedirezione[4]. Riprese a scrivere per il quotidiano romano nel 2000 come editorialista;

1983-1984: crea la rubrica «Quaderno italiano» su Epoca (direttore Sandro Mayer);

1984-1987: crea la rubrica «Chi sale e chi scende» su L'Espresso (direttore Giovanni Valentini);

1987-1990: crea la rubrica «Bestiario» su Panorama, (editore Mondadori, direttore Claudio Rinaldi, Pansa fu condirettore);

1990- settembre 2008: il «Bestiario» prosegue su L'Espresso (direttore Giulio Anselmi, poi Daniela Hamaui).

Nella carriera di Pansa hanno avuto un ruolo preponderante i giornali del Gruppo L'Espresso (la Repubblica e L'Espresso), con i quali Pansa ha collaborato ininterrottamente dal 1977 al 2008. Negli anni della sua collaborazione alla Repubblica, Pansa è stato tra i rappresentanti della linea editoriale vicina alla sinistra di opposizione, senza risparmiare critiche anche al Partito Comunista Italiano. Sono note inoltre alcune sarcastiche definizioni che Pansa ha dedicato a politici italiani, come quella di "Parolaio rosso", per Fausto Bertinotti o quella di "Dalemoni", allusiva al cosiddetto "inciucio" tra Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi ai tempi della Bicamerale. Pansa non fu tenero neanche con i colleghi giornalisti: nel 1980scrisse su la Repubblica un articolo intitolato «Il giornalista dimezzato», in cui stigmatizzava il comportamento, da lui giudicato ipocrita, dei colleghi che, a suo dire: "cedeva[no] metà della propria professionalità al partito, all'ideologia che gli era cara e che voleva[no] comunque servire anche facendo il [proprio] mestiere". Il 1º ottobre 2008, trovandosi in contrasto con la linea editoriale, lasciò il Gruppo Editoriale L'Espresso. Da allora ha scritto sui seguenti giornali:

ottobre 2008-dicembre 2010: Il Riformista (direttore: Antonio Polito);

settembre 2009-luglio 2016: Libero, dove nel gennaio 2011 ha portato il «Bestiario» (direttore: Maurizio Belpietro (2009-2016), Vittorio Feltri (2016-in carica);

settembre 2016: La Verità (il nuovo quotidiano fondato da Belpietro).

La sua attività ha avuto come principale interesse la Resistenza italiana, già oggetto della sua tesi di laurea (pubblicata da Laterza nel 1967 con il titolo Guerra partigiana tra Genova e il Po). Nel 2001 Pansa pubblica Le notti dei fuochi, sulla guerra civile italiana combattuta tra il 1919 e il 1922, conclusa con la presa del potere da parte del fascismo. Nel 2002 esce I figli dell'Aquila, racconto della storia di un soldato volontario dell'esercito della Repubblica sociale italiana. Con questo libro comincia il ciclo «dei vinti», cioè una serie libri sulle violenze compiute da partigiani nei confronti di fascisti durante e dopo la seconda guerra mondiale. Escono successivamente Il sangue dei vinti (vincitore del Premio Cimitile 2005), Sconosciuto 1945 e La Grande Bugia. Nel 2011 esce Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri, in cui ritrae l'Italia degli umili tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX attraverso la storia dei propri nonni e genitori. In particolare per Il sangue dei vinti, Pansa è stato oggetto di critiche in quanto avrebbe "infangato" la Resistenza utilizzando, a detta dei detrattori, quasi esclusivamente fonti revisioniste di parte fascista[8] accuse che Pansa ha sempre respinto con decisione, sostenendo di aver utilizzato fonti di diverso colore politico e di aver spesso descritto i crimini che certi esponenti fascisti avevano commesso ai danni dei partigiani prima di essere a loro volta uccisi. Durante la presentazione dei suoi libri in alcune occasioni Pansa è stato oggetto di contestazione da parte di centri sociali di estrema sinistra che accusano l'autore di revisionismo. In un caso ci sono stati tafferugli tra gruppi di sinistra e di destra, entrambi presenti all'evento. Tali episodi sono stati condannati dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dal presidente del Senato Franco Marini. Vi è stato anche chi, come Galli della Loggia, ha giudicato positivamente il lavoro di Pansa, chiedendosi però come mai l'Italia si permetta di far luce sui crimini ignorati della sua storia solo quando sono gli intellettuali di sinistra a renderli noti al grande pubblico. Anche lo storico Sergio Luzzatto, dopo una iniziale perplessità su Il sangue dei vinti, che comportò da parte sua anche dure prese di posizione, dichiarò in seguito che nelle sue opere «nulla si inventa» e c'è «rispetto per la storia». Il libro successivo, La Grande Bugia, è dedicato proprio alle reazioni suscitate da Il sangue dei vinti. Anche quest'opera è stata oggetto di critiche. I gendarmi della memoria ha chiuso il trittico aperto da Il sangue dei vinti: è un atto di accusa contro quanti, a suo avviso, non accettano alcuna forma di ripensamento o di autocritica su quel periodo.

E' morto Claudio Pavone: aprì il dibattito sulla Resistenza come guerra civile. Aveva 95 anni, la sua opera "Una guerra civile" è stato uno snodo centrale della storiografia sugli anni tra il 1943 e il 1945, scrive Simonetta Fiori il 

29 novembre 2016 su "La Repubblica". È scomparso a Roma Claudio Pavone, tra i più autorevoli storici italiani e uno degli ultimo grandi maestri del Novecento. Classe 1920 - avrebbe compiuto 96 anni domani 30 novembre - è autore di libri importanti, capaci di cambiare lo sguardo sulla storia. Nel suo lavoro più celebre, Una guerra civile (1991 Bollati Boringhieri), sostenne che la Resistenza oltre a essere una guerra di liberazione dai nazifascisti fu anche una guerra civile tra italiani. Una lettura profondamente innovativa, che non mancò di suscitare discussione nelle file del partigianato. Ma gli argomenti usati da Pavone - e la sua specchiata biografia di resistente - finirono per risultare più forti rispetto alle critiche. E oggi quel suo lavoro figura come un titolo spartiacque, capace di segnare gli studi storici e il senso comune intorno alla guerra partigiana. Nato pochi anni prima dell'avvento di Mussolini, Pavone crebbe sotto la dittatura che non gli impedì di maturare una coscienza civile: l'8 settembre 1943, a Roma, assiste al disfacimento delle forze armate e dell'apparato statale, prende contatti con il Psiup -  Partito Socialista d'Unità Proletaria - e diventa assistente di Eugenio Colorni, figura storica dell'antifascismo. Il 25 aprile del 1945, giorno della liberazione, Pavone è a Milano: di quella giornata ricorderà l'incredibile anarchia, "tra pulsione di festa e spettacolo di morte". Misura e sensibilità resteranno componenti fondamentali di una personalità colta ed elegante, che avrebbe coltivato la sua passione civile attraverso lavori storiografici fondamentali. Per moltissimi anni, nel dopoguerra, svolse il lavoro di archivista. Ebbe un ruolo importante nella sistemazione dell'Archivio Centrale dello Stato. La frequentazione con i documenti gli consente di approfondire il suo interesse per la storia. Dalla metà degli anni Settanta riceve un incarico all'università e fino alla pensione sarà professore a Pisa. La prima opera rilevante sul piano storiografico si intitola "La continuità dello Stato: Istituzioni e uomini": lo studioso vi sostiene la tesi della continuità dello Stato, degli apparati burocratici e dei funzionari, nel passaggio tra il regime fascista e la democrazia. Tesi storiografica innovativa che inaugurò un nuovo filone della ricerca anche sul piano metodologico (allo stesso tema è dedicato il volume più recente "Alle origini della Repubblica"). La sua opera più famosa porta come sottotitolo "Saggio storico sulla moralità nella Resistenza". Ricchissimo di materiale documentario, e forse anche frutto dell'esperienza diretta vissuta da combattente, il libro punta per la prima volta la lente storiografica sulle motivazioni, i comportamenti, le aspettative dei partigiani. Un'opera cardine della storiografia, che "sdogana" la nozione di guerra civile, fino a quel momento invalsa soltanto nella pubblicistica neofascista. La Resistenza secondo Pavone è stata una triplice guerra: patriottica contro l'invasore tedesco, civile tra italiani fascisti e italiani antifascisti, e di classe tra rivoluzionari e classi borghesi. Non mancarono le polemiche, ma Pavone ebbe dalla sua parte figure antifasciste della statura di Vittorio Foa e Norberto Bobbio, che aveva partecipato all'elaborazione dell'opera. Caposcuola di un revisionismo di sinistra, Pavone non avrebbe poi esitato a intervenire nella battaglia politico-culturale contro un "neorevisionismo" anti-antifascista che voleva deformare la storia d'Italia, rendendola più adatta al nuovo corso politico inaugurato nel 1994 da Silvio Berlusconi e i postfascisti. Intellettuale rigoroso, fu allergico alle "sciatterie" di ricostruzioni storiche strumentali. E tra le imprese cui teneva di più era anche la sua rivista "Parolechiave", con cui indagava i temi della contemporaneità. Sposato, tre figlie, ha poi incontrato la seconda moglie, la storica Anna Rossi-Doria, con cui ha condiviso tantissimi anni di amore e di ricerca.

Pavone, lo storico di sinistra che scoprì la "guerra civile". Ma dopo Montanelli e Cervi. Il suo libro del 1991 fu fondamentale (pur con troppe omissioni) per riaprire il dibattito sulla Resistenza, scrive Francesco Perfetti, Mercoledì 30/11/2016, su "Il Giornale". È trascorso esattamente un quarto di secolo da quando, nel settembre del 1991, apparve in libreria il ponderoso lavoro di Claudio Pavone dal titolo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza. L'opera ebbe un immediato successo e finì, subito, al centro di un vasto e articolato dibattito storiografico per il fatto che introduceva in un certo senso come concetto storiografico neutro la locuzione «guerra civile». Pavone, scomparso ieri a Roma all'età di 96 anni, era uno studioso di formazione marxista, ben conosciuto per la sua attività di archivista e ricercatore, ed era stato anche attivo nel movimento partigiano. Già qualche tempo prima della pubblicazione di quel suo celebre volume aveva sollevato il problema di sdoganare la categoria interpretativa di «guerra civile» utilizzata largamente, sino ad allora, quasi soltanto dalla letteratura neofascista, anche se, ad onor del vero, al di fuori delle sacche del «nostalgismo», già nel 1983 Indro Montanelli e Mario Cervi avevano intitolato proprio L'Italia della guerra civile un loro volume della fortunata serie dedicata alla storia d'Italia. La verità è che l'ortodossia resistenziale si rifiutava, al netto delle giustificazioni morali o politiche, di concepire l'idea stessa che i fascisti potessero essere considerati «uomini» come gli altri impegnati a combattere una guerra. Vi ostava l'idea che i fascisti, durante i sanguinosi anni di guerra civile, avessero considerato «antinazionali» e «traditori» i loro avversari e, ancora, vi ostava il fatto che, in nome dell'«unità della Resistenza» a guida comunista, essi fossero percepiti come un elemento da espellere dalla considerazione storica. Bisognava negare ai fascisti, proprio in virtù dell'oblio del concetto di guerra civile, qualsiasi forma di possibile legittimazione come forza nazionale. Si trattava di una scelta, del resto, coerente con il progetto togliattiano di conquista della società civile e politica. Il volume di Claudio Pavone, nato da un suggerimento di Ferruccio Parri, aveva avuto, dunque, una lunga gestazione ed era apparso subito come profondamente innovativo rispetto alla lettura tradizionale della Resistenza. Esso partiva dalla distinzione fra «una Resistenza in senso proprio e forte, quella combattuta nel Nord, politicamente e militarmente, da una cospicua minoranza», e «una Resistenza in senso ampio e traslato» che era venuta «man mano assumendo anche per chi non vi aveva partecipato o aveva cercato di circoscriverne, manometterne o emarginarne la memoria un ruolo di legittimazione dell'intero sistema politico repubblicano e della sua classe dirigente». Le vicende succedutesi nell'Italia repubblicana dall'espulsione delle sinistre dal governo all'indomani dell'esperienza ciellenista fino al progetto di «arco costituzionale» come riedizione del Cln avevano finito per mettere in crisi, mostrandone tutta l'inadeguatezza, una lettura «monocorde» della Resistenza. E, quali che ne fossero le presse e i risultati, lo studio di Pavone finiva per muoversi in una prospettiva di tipo revisionistico. Secondo lo studioso, nel periodo compreso fra l'armistizio dell'8 settembre 1943 e il 2 maggio 1945 furono combattute tre guerre: una guerra di liberazione nazionale o guerra patriottica, una guerra civile e una guerra di classe. La prima fu diretta contro lo «straniero», segnatamente i «nazisti» con una precisa connotazione politico-ideologica; la seconda si manifestò attraverso la contrapposizione dei partigiani ai fascisti e fu di tipo volontaristico e ideologico; mentre la terza riguardò il carattere di lotta al fascismo come lotta del proletariato contro il padronato propria delle frange comuniste della Resistenza con caratteristiche o suggestioni di tipo insurrezionale di massa. L'impatto del saggio di Pavone sulla storiografia fu enorme. La legittimazione del concetto di «guerra civile» fu accettata, per esempio, da Norberto Bobbio e da Vittorio Foa, che, senza mezze parole, dichiarò di essere sempre stato «irritato» di fronte a chi «negava il carattere di guerra civile alla lotta partigiana». La rifiutò, invece, un cattolico come Sergio Cotta, il quale, anzi, rigettò anche la «tripartizione» della Resistenza in tre guerre combattute su «fronti» diversi sostenendo, invece, che la Resistenza fu un'unica, grande guerra. Comunque sia, l'opera di Claudio Pavone segnò davvero un passo avanti nella ricerca storiografica e inaugurò una nuova stagione di riflessione e di studi. Anche se, va pur detto, in termini di contenuto, essa non si distaccò troppo dalla vulgata tradizionale della sinistra culturale allora egemone nel Paese. Per esempio, il contributo alla lotta di liberazione dei militari italiani che si trovavano all'estero al momento dell'armistizio si pensi all'eccidio di Cefalonia è stato completamente sottovalutato. Non solo. Il massacro di Porzus, dove i partigiani della Brigata Osoppo furono trucidati da partigiani comunisti, è liquidato in sei righe. E, ancora, viene citata una sola volta la figura di Alfredo Pizzoni, presidente del Clnai e capo della Resistenza ma che, troppo liberale e troppo patriota filo-inglese, venne messo alla porta e sostituito dal socialista Rodolfo Morandi, gradito ai comunisti. E sporadici sono i riferimenti, soltanto cinque, all'eroe della Resistenza Edgardo Sogno. Si potrebbe proseguire. Ma non vale la pena.

Gli eroi dell'Arma dei Carabinieri? I partigiani rossi li hanno cancellati, scrive il 29 novembre 2016 Francesco Specchia su “Libero Quotidiano”. Salvo D’Acquisto non era affatto solo. C’era -per dire- il maggiore Giovannini che intercalava coi i suoi «Porcomondo!» le inalazioni di Muratti accese al contrario, un vecchio trucco per sfuggire ai cecchini. Giovannini prima aiutò gli sloveni a sbarazzarsi dei crucchi; e poi, nella Milano invasa dai carrarmati, faceva il Robin Hood della liberazione con la sua “Banda Gerolamo”. C’erano anche il generale Caruso della «banda» omonima, a cui i nazisti estrassero 13 denti ma non la dignità; e il brigadiere Ioppo, il suo pard, pestato come un tamburo dal muto lamento: entrambi uniti nel dolore, e scampati alla deportazione («un eroismo diffuso a prescindere dai gradi», commenta Bruno Vespa) grazie un camion uscito fuori strada. C’erano il maggiore Di Iorio che alzava le barricate dalla stazione Roma San Giovanni; e il maggiore Bellini che, a Bussolengo, per tre volte, respinse le SS finchè un panzer dell’armata Himmler non gli sfondò le mura della caserma. E c’erano gli infoibati di Tito, i martiri delle Fosse Ardeatine, gli uomini in divisa dispersi per ordine del gerarca Kappler «la cui presenza a Roma avrebbe impedito la razzia e le deportazioni nel ghetto ebraico». Erano in tanti, i piccoli grandi eroi affondati nella storia oggi descritti nel bel libro del giornalista del Corriere della sera Andrea Galli, Carabinieri per la libertà. L'Arma nella Resistenza: una storia mai raccontata (Mondadori, pp 168, euro 18). Il libro di Galli paga un debito con la storia, ne riscrive una pagina volutamente dimenticata dalla pubblicistica ufficiale della Resistenza. Parla di 2753 carabinieri morti ammazzati col moschetto poggiato sull’omero; e che non si piegarono al servizio della Rsi, perchè «avevano una dignità che non poteva spingerli a difendere i prepotenti contri i deboli» (come disse uno di loro, il maggiore maceratese Pasquale Infissi, dimenticato perfino a Macerata). Questo libro è un vaso di Pandora, appunto, di dignità perdute. E disvela una sorta di «eroismo diffuso che non teneva conto dei gradi»; l’espressione, felice, è di Bruno Vespa che la usava per presentare questo saggio romanzato al Pavilion Unicredit Milano, con l’autore osannato da Paolo Mieli, da monsignor Vincenzo Paglia, dal generale Enzo Bernardini e dal critico letterario del Corriere Antonio D’Orrico. Platea robusta usi obbedir tacendo. Tutta pervasa del senso d’appartenenza all’Arma, la commozione degli alamari cuciti sulla pelle -avrebbe detto il generale Dalla Chiesa. Andrea Galli s’è comportato da speleologo della memoria. S’è inoltrato negli archivi, ha strappato indizi e mozziconi di cronaca tra i documenti dimenticati della Benemerita. E dalla vicenda proprio di Ettore Giovannini ne ha sfilata un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora: ogni racconto concatenato all’altro, in una sfilata di atti di coraggio impietosamente dimenticati. «Perchè questo libro esce solo ora? Perchè ci siamo dimenticati di loro? Perchè c’è dolo...» commenta, con placida ferocia, Paolo Mieli qui in funzione di storico «perchè i carabinieri erano fedeli all’istituzione monarchica, perchè il sacrifico di Salvo D’Acquisto consegnatosi al posto dei partigiani che causarono l’attentato sacrosanto di via Rasella provocò, negli anni, una sorta di ostracismo dell’Arma da parte dell’ideologia di sinistra. E perchè al confine orientale i carabinieri, amati dalla popolazione, finirono nelle foibe titine, uscendo automanticamente dai registri dei martiri della Resistenza...». I carabinieri del libro di Galli -ha ragione Antonio D’Orrico- assolvono, attraverso un’epica romanzesca, una funzione quasi di «filosofia della storia»: «Con la loro storia non potevano mettersi al servizio di chi non aveva storia». E giù con le citazioni delle buone azioni in alta uniforme delle copertine di Beltrame e Molino sulla Domenica del Corriere; con l’evocazione delle indagini letterarie dei Racconti del maresciallo di Mario Soldati, che proprio in un sottufficiale dell’Arma aveva scovato lo spirito del «Maigret italiano». Ma non è tanto questo che rende Carabinieri per la libertà un afflato letterario degno d’esser letto. «Qui c’è, soprattutto, un messaggio morale per le nuove generazioni», dice il Comandante generale Tullio Del Sette, il cui padre, tra l’altro, era tra i carabinieri deportati e dimenticati. Il messaggio morale degli eroi del silenzio. Il suddetto libro è davvero la sceneggiatura di una nazione, fatta di tanti Salvo D’Acquisto. Più di quanti il cuore e l’orgoglio avrebbero potuto immaginare...Francesco Specchia

Nel libro di Ernesto Galli della Loggia l’Italia che non sa cambiare. In «Credere, tradire, vivere», edito dal Mulino, l’autore sottolinea la difficoltà degli intellettuali ad ammettere i proprio errori e denuncia la confusione tra politica e morale, scrive Aldo Grasso il 24 ottobre 2016 su “Il Corriere della Sera”. Benedetto Croce sosteneva che «ogni vera storia è sempre autobiografica». Verissimo: nei giudizi, nelle ricostruzioni, nelle analisi è impossibile prescindere dalle proprie esperienze personali, dagli studi che ognuno di noi ha fatto, dalle persone che ha incontrato. Basta ammetterlo, con franchezza. Per questo Ernesto Galli della Loggia in Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica (il Mulino) non si rifugia dietro quella forma di anonimato accademico («il noi delle tesi di laurea», diceva Roland Barthes) che normalmente usano gli storici di professione, specie quando parlano di cose recenti in cui, in qualche modo, sono coinvolti: «Di qui — scrive l’autore — la natura alquanto inconsueta di questo libro: insieme libro di storia e di ricordi, di vicende pubbliche da un lato e di sentimenti personali dall’altro. E proprio in un grumo di sentimenti (e risentimenti, perché non dirlo) è da cercare l’origine del tema di fondo delle sue pagine: la difficoltà, l’impossibilità di cambiare». In una puntata della settima stagione di Grey’s Anatomy (anch’io ci metto qualcosa della mia vita), la grande Shonda Rhimes mette in bocca a Meredith queste parole: «Quando diciamo cose tipo “Le persone non cambiano”, facciamo impazzire gli scienziati. Perché il cambiamento è letteralmente l’unica costante di tutta la scienza… È il fatto che le persone cerchino di non cambiare che è innaturale, il modo in cui ci aggrappiamo alle cose come erano invece di lasciarle essere ciò che sono, il modo in cui ci aggrappiamo ai vecchi ricordi invece di farcene dei nuovi». Il cambiamento, con tutti i rischi che comporta, è il motore dell’esistenza. Perché allora ci rifugiamo nell’immobilismo delle idee, in una sorta di eden di specchiata moralità, finanche nel gattopardismo? Con questo libro variegato, Galli della Loggia ci regala l’esempio più efficace della sua maniera di affrontare la storia. Seguendolo lungo le vie più personali che qui tratteggia, ci troviamo ad avere un’immagine molto più precisa, molto più concreta di questi anni, a partire dal fatidico Sessantotto. Anni che abbiamo vissuto, ma anche anni che la memoria storica cerca di levigare, smussando i contrasti e le non poche contraddizioni. Nel parlare di questo libro non vorrei seguire il filo cronologico per non rovinare al lettore il piacere delle trame, per non rivelargli come va a finire. Preferirei parlare di alcuni temi che ricorrono e si rincorrono come leitmotiv, come fari nella notte per le nostre povere risorse intellettuali stremate dagli eccessi d’informazione. Uno di questi è appunto «quel presunto tipico vizio italiano che sarebbe il voltagabbanismo/trasformismo. Vizio storico italiano ma, beninteso, degli “altri” italiani, sempre di quelli dell’altra parte, non della nostra, che invece, come si sa, è immancabilmente quella degli italiani bravi e virtuosi per definizione». Insomma, è possibile «cambiare» senza necessariamente «tradire»? La democrazia non dovrebbe essere il luogo per eccellenza della mobilità delle idee? Anche i padri della Patria, come Camillo Benso conte di Cavour, non hanno forse seguito itinerari tortuosi prima di arrivare, nel caso specifico, a un fulgido esempio di liberalismo progressista? La tesi dell’autore è questa: in politica cambiare opinione è normale, spesso necessario (senza per questo essere additati al pubblico ludibrio). L’unica condizione per un personaggio pubblico è però di ammettere che si è cambiati. C’è un momento storico che spiega questo atteggiamento moralistico? Il capitolo «Autobiografie della nazione» andrebbe letto e riletto, riga per riga. Perché parla dei conti mai chiusi con il fascismo, della politica che stinge nella morale (e diventerà molto ambigua quando si parlerà di «questione morale» con Enrico Berlinguer), del peso della memoria e della funzione liberatrice dell’oblio. Galli della Loggia si sofferma sul caso Bobbio, quando nel dicembre del 1988 compare sulla prima pagina della «Stampa» un articolo in cui l’insigne filosofo confessa alcuni atteggiamenti «servili» tenuti durante il fascismo. Quello che colpisce non è l’onesta confessione di Bobbio quanto la reazione di alcuni suoi famosi sodali (da Alessandro Galante Garrone a Giorgio Bocca) che insultano chi tenta una qualche riflessione su quella sorprendente dichiarazione. Il passaggio dal fascismo alla democrazia è stato piuttosto caratterizzato da un trasformismo di massa e la «conversione» altro non è stata che dimenticanza (nel mio piccolo ho più volte descritto il passaggio «indolore» dalla Eiar alla Rai, con la beatificazione di quasi tutti i dirigenti storici compromessi). È stata proprio la mancanza di un processo di autoconsapevolezza sugli errori del passato ad acuire la confusione tra politica e morale, a far considerare il cambiamento con diffidenza, a dividere il mondo tra buoni e cattivi. Negli anni Sessanta era quasi impossibile non essere di sinistra: «Fu per l’appunto il mio caso. Il caso di chi allora diventò di sinistra quasi naturalmente: perché, guardandosi intorno, erano lì le idee che apparivano più moderne e più vive, lì soprattutto stavano le persone che incontravi e ti colpivano per la loro spregiudicatezza, la loro cultura e la loro capacità critica». Era in quell’ambito culturale che si cercavano i padri ideali, che si interpretavano i fermenti che arrivavano dall’estero, che i laici potevano avvicinarsi al mondo cattolico attraverso le «aperture» del Concilio Vaticano II. Ma era sempre in quell’ambito che si sarebbero presto sviluppati i germi dell’estremismo, le ondate di radicalismo manicheo, le pulsioni antiparlamentari dei gruppi gauchisti, le ideologie più utopiche o assassine. Anni terribili in cui bisognava avere il coraggio di cambiare idea, anche se per molti illustri maître à penser il cambiamento è avvenuto troppo tardivamente. L’idea che mi sono fatto sui Sixties è che sono stati un periodo decisivo di storia sociale (il nascente benessere e la segregazione razziale, il sogno americano e Il giovane Holden, il dottor Spock e la gioventù bruciata) attraverso l’accumulo di sensazioni, di filmati, di spot pubblicitari, di telegiornali e soprattutto di canzoni. Le idee innovative erano nell’aria, si respiravano con entusiasmo. Poi è arrivato il Sessantotto, il tanto evocato e osannato Sessantotto, che avrebbe ucciso tutto, con la sua pesantezza ideologica, con la sua illusione di sovvertire strutture ed equilibri del capitalismo. Non dunque un punto di partenza, ma un fatale arrivo. E poi c’è tutta la storia dell’egemonia culturale della sinistra, degli orfanelli del «Politecnico» di Vittorini, di una cultura che cercava risposte politiche alle proprie inquietudini, delle scelte di campo che talvolta obbligano alla cecità. Rappresentando se stesso all’interno di queste narrazioni che riguardano la storia del nostro Paese, la sua identità (il compromesso storico, la Biennale del dissenso di Venezia, il rapimento di Aldo Moro, l’ascesa di Bettino Craxi, la questione morale di Berlinguer, l’avvento di Berlusconi, l’idea perduta di patria…), e sono narrazioni una più interessante dell’altra, Galli della Loggia stringe un ideale patto di lealtà conoscitiva con il lettore. Pur esponendosi in prima persona, lo storico non è mai un semplice io, ma una specie di sistema complesso: dove si trovano molte funzioni, molte particolarità secondarie che legano rapporti reciproci e subiscono attrazioni vicendevoli, mentre ruotano attorno a un nucleo centrale. Ma qual è questo nucleo? È l’uso della storia. Nella sua pagina più importante, quella su cui edifica tutto il libro, l’autore pone una distinzione fondamentale tra uso politico della storia e vocazione pubblica della storia: «L’uso politico è quello che non si fa scrupoli di manipolare in vario modo i fatti o loro aspetti specifici ritenuti cruciali per giudizio universale (tacendoli o distorcendoli palesemente)… la vocazione pubblica della storia, il suo uso pubblico, è invece quella caratteristica dell’indagine storica connessa al clima generale, alla temperie ideale, dell’epoca in cui l’autore vive». Nella vita, ogni persona intelligente compie un cammino tortuoso, possibilmente di maturazione. Perciò cambia idee, si confronta continuamente con l’immagine virtuale dell’epoca, cerca di vincere l’atrofia della memoria, prende atto di quel misterioso «sentire comune» o «spirito del tempo» che la storiografia filosofica ha chiamato Zeitgeist. E infatti le pagine più trascinanti sono quelle in cui l’autore depone per un attimo la corazza dello storico e in veste di chroniqueur traccia del suo passato, delle sue avventure esistenziali, degli incontri decisivi: l’esperienza di «Mondoperaio», gli incontri con Livio Zanetti, Lamberto Sechi, Giorgio Fattori e Claudio Rinaldi, la lunga amicizia con Paolo Mieli, l’avventura di «Pagina», lo scontro con gli einaudiani di ferro… La storia delle idee lascia il posto a immagini vive e riccamente articolate. Oggi lo storico non ha più, come certi suoi colleghi del passato, punti fissi d’orientamento: le grandi ideologie, la divisione in classi, le organizzazioni sociali. È più solo, paradossalmente più nudo. La storia insegna, ma prima ancora segna.

Galli della Loggia racconta i suoi trasbordi politici in una Italia che non è mai cambiata. Liberi ma soltanto a sinistra. Il ricollocamento avviene solo in un perimetro ristretto, scrive Gianfranco Morra su "Italia Oggi", Numero 274 pag. 10 del 18/11/2016. È possibile cambiare idea politica senza essere definito voltagabbana, trasformista, traditore? Una domanda oggi attualissima, mentre circa 300 parlamentari hanno cambiato casacca anche più di una volta. Cerca di rispondere Ernesto Galli della Loggia, del quale è giunto in libreria un curioso libro: Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica (Il Mulino, pp. 356, euro 24). Nel quale una sicura e informata storiografia si alterna con una garbata e schietta autoconfessione. I salti politici appartengono alla natura del nostro popolo. L'Italia ha iniziato il suo cammino di unificazione quando Cavour, liberale conservatore, ha fatto una apertura alla sinistra di Rattazzi, rottamando D'Azeglio: «stai sereno, Massimo». Seguirono poi gli anni del trasformismo di De Pretis, del mazziniano e garibaldino Crispi per il quale «la monarchia ci unisce e la repubblica ci divide», dell'opportunismo di Giolitti e del salto di Mussolini dal socialismo al fascismo. Un fascismo che cadde per volontà dei suoi gerarchi pentiti, mentre la monarchia cambiava le alleanze. Con un popolo quasi tutto fascista, che, quando le cose andarono male, si mise in attendismo, mentre solo alcune decine di migliaia si combatterono fra di loro in una guerra civile. Terminata la quale gli italiani erano diventati antifascisti. Anche non pochi fascisti si erano Redenti (come li chiama lo studio di Mirella Serri, edit. Corbaccio) e in gran parte confluirono nella sinistra. Compresi alcun padri della repubblica antifascista. Nel 1935 Norberto Bobbio scrisse a Mussolini una «infame lettera» (sono sue parole) per assicurarlo della sue fede fascista. E, grazie anche alla protezione del triunviro De Bono, vinse la cattedra universitaria a Camerino. E Piero Calamandrei, ancora nel 1940, collaborò alla stesura del nuovo codice di Procedura civile voluto dal Guardasigilli fascista, Grandi. Pochi come Della Loggia erano in grado di parlare con cognizione di causa dei mutamenti politici. Anche se ha bevuto sempre latte di sinistra, ne ha fatti tanti e li riconosce con sincerità: ventenne si iscrisse al Psi, appoggiò la contestazione studentesca, i suoi miti (Vietnam, Cuba) e i suoi padri surrogati, votò Pci negli anni Settanta, quando era giornalista di «Paese sera», poi si sentì radicale, divenne infine un intellettuale di Craxi. È sempre andato nel senso giusto, anche se nessuno può dubitare della sua buona fede. Lo confessa lui stesso con schiettezza: «Io seguii la corrente, in nessun senso sono stato una vittima». Sappiamo tutti che a partire dagli anni Sessanta per un uomo di cultura le porte erano aperte soprattutto se aveva la divisa di sinistra. Nel 1974 Galli ebbe l'incarico universitario di Storia contemporanea a Perugia solo dopo aver dato assicurazioni al dirigente culturale del Pci. Egli lo confessa senza difficoltà, nessuno può dubitare che lo meritava pienamente e ancor meno che tanti docenti con le sue stesse capacità, ma renitenti a quell'aggancio ideologico, sono rimasti fuori. La dittatura gramsciana sulla cultura era totale, anche grazie al menefreghismo della Dc, che da «partito dirigente» si era degradata a «partito dominante». Nella mia facoltà bolognese, forse la più cattocomunista d'Italia, si era diffusa l'abitudine che chi leggeva «Il giornale» comprasse anche la «Repubblica» con cui, prima di entrare, incartava l'altro. Un totalitarismo culturale per non pochi aspetti ancora più forte di quello del fascismo. L'ultima svolta di Galli fu per Craxi. Ormai deluso del comunismo ne capì subito le novità: far nascere finalmente in Italia una socialismo democratico europeo; far cadere il pericoloso inciucio, chiamato «compromesso storico», fra Moro e Berlinguer. Ma ne intuì, anche, i limiti. Non solo quelle ruberie, che lo porteranno alla fuga, ma anche difetti di carattere. Nel momento in cui il popolo italiano, stanco dei partiti politici, cercava un leader carismatico, non poteva essere attratto dalla sua intelligenza fredda, dall'eloquio secco, dalla condotta acida e altezzosa. Mancava di quelle doti «populiste», che condurranno alla vittoria il suo successore Berlusconi. La democrazia è un regime che favorisce i cambi delle idee. Del tutto legittimi, quando non sono mossi da motivi abietti. E vi sono momenti storici in cui solo cambiando idee e programmi è possibile migliorare la situazione. Purtroppo nella nostra repubblica i cambiamenti o non ci sono stati o non hanno cambiato nulla. Lo mostra la seconda repubblica che non è stata diversa dalla prima. Due schieramenti, uno dei quali accusava l'altro di un comunismo che non c'era più e l'altro, il pericolo di un fascismo che non era più possibile. Il gioco continuava: la destra trovava qualcosa da dire solo riesumando un cadavere contro cui combattere, la sinistra inventava un pericolo per avere una ragione di esistere e nascondere così le sue impotenza e decadenza. In questa situazione Della Loggia ha smesso di saltare. Ha fatto una indigestione di utopie, ma ora il futuro è morto prima di nascere, cambiare non si può, è giunto il momento di una dieta di contenimento: «Sono divenuto un cane sciolto genericamente democratico». Ottima consapevolezza, ma anche insufficiente. Come mostrano gli articoli che settimanalmente pubblica, esemplari per lucidità e chiarezza, critici e sollecitanti. Ma anche quasi sempre inconclusivi e inconcludenti. Un sublime gioco intellettuale, che per lo più ci dice con acutezza cosa non va, senza indicare che cosa si dovrebbe fare. Il pulmino della sinistra, nel quale si è seduto in tutti i posti e strapuntini, è fermo per mancanza di benzina. Non serve più. Ma senza comprarne uno nuovo come si fa a partire?

Il tradimento degli storici e la truffa dell'antifascismo. Galli della Loggia mostra come l'ortodossia di sinistra abbia impedito all'Italia di comprendere il suo passato, scrive Fiamma Nirenstein, Martedì 29/11/2016, su "Il Giornale". Il nuovo libro di Ernesto Galli della Loggia "Credere, tradire, vivere" edito da il Mulino è un classico da conservare in biblioteca: lo è per il modo in cui è costruito, con l'enunciazione di una tesi originale e poi la sua dimostrazione, arricchite da un ricco corredo di citazioni, da ricordi personali che si intersecano col mestiere accademico di Galli. È un classico anche per l'importanza della intenzione storiografica che lo ispira e che vuole trasmettere, smontando la cosiddetta «narrativa» di sinistra. Essa, come Galli dimostra, domina la storiografia, affligge anche la maggioranza dei testi scolastici e ha enormi responsabilità sull'epos collettivo del popolo italiano: la storiografia traditrice è uno dei grandi responsabili dell'antifascismo obbligatorio sostitutivo di qualsiasi riflessione sincera su ciò che è accaduto all'Italia degli ultimi cento anni. Il testo dunque si sviluppa lungo un carattere basilare della identità politica italiana, quella riassunta dal secondo verbo nel titolo: «tradire», un'attitudine italiana spiegata da tutti gli angoli e con malcontenuta indignazione. Da un'epoca all'altra della politica italiana, quella che porta dentro il fascismo, e poi fuori di esso costruendo la Repubblica, e via via nelle varie vicende di un'egemonia politica di sinistra che diventa «la nuova ortodossia», ogni passaggio è stato caratterizzato da migrazioni ideologiche di massa evidentissime, e tuttavia mai ammesse, mai elaborate, ci dice Galli, fino a una svolta definitiva, quella del «revisionismo» di cui Galli è stato uno degli storici protagonisti. Tutte le rotture ideologiche, per altro evidentissime, sono invece state sempre affermate come buone ragioni per cui, anzi, si resta identici a quello che si era prima. Si trasmigra senza darne conto, a volte neppure a sé stessi, o si resta nello stesso ambito fingendo di trasmigrare, o ci si inventa formule apparentemente nuove (come il «centro sinistra») destinate invece alla conservazione dell'esistente dualismo post fascista fra comunisti e cattolici. Ambedue incapaci di guardare con sincerità al passato, ambedue decisi a incarnare la perfetta virtù antifascista. Così il fascista di un tempo si ammanterà di valori resistenziali, e di fatto non sarà mai pronto a ammettere di aver intrapreso una nuova strada; l'Italia dell'arco costituzionale e dell'unità democratica è stata costruita su questo segreto. Di conseguenza il fascismo non sarà mai elaborato. Questa pessima abitudine si riflette sulla intangibilità del comunismo, monade a lungo quasi intonsa nonostante i suoi delitti e le sue pene; sulla incapacità socialista di sferrare un vero colpo definitivo al moralismo comunista, che invece scatenandosi ebbe la meglio su Craxi. I meandri della politica italiana, attraverso la crisi dei partiti e la «questione morale», con l'epoca di Berlusconi che Galli vede bene come sia stata criminalizzata e fantasticata come un'era di pericolo fascista, invece che esaminata obiettivamente, hanno fatto molta fatica a elaborare la crisi inevitabile che finalmente montava sull'onda lunga della crisi del comunismo. Galli della Loggia ricorda con citazioni stupefacenti quanto odio abbia suscitato (si pensi al caso di Giorgio Bocca fra quelli che lo hanno accusato di essere addirittura uscito dall'ambito dell'antifascismo), solo per il suo lavoro di storico «revisionista». Un ruolo che egli racconta di aver condiviso con alcuni intellettuali, e nota il ruolo propulsivo del Corriere della Sera di Paolo Mieli nel rileggere finalmente la storia negata. Le note del libro sono una miniera di citazioni per capire come il voltagabbanismo possa essere indorato e nobilitato, da Croce, trattato con rispetto ma con sincerità, a Norberto Bobbio ai giornalisti comunisti e a mille altri intellettuali che sono le pietre di fondazione dei guai in cui tuttora versa l'Italia. È con autentico stupore e ironia che vengono elencate le bugie più evidenti. Un esempio su mille, le parole del manuale di Camera e Fabietti edito da Zanichelli L'età contemporanea. I due autori parlano del terrorismo delle Brigate rosse lavando via il «rosso» e trasformandolo in nero: «Al terrorismo nero si salda quello che si dichiara rosso e proletario ma che in realtà matura in ambienti universitari e piccolo borghesi e consegue oggettivamente gli stessi risultati del terrorismo nero, cioè... genera disordini... da cui può nascere solo un'involuzione reazionaria di origine fascistoide». È una delle tante interpretazioni umoristiche del passato che disegnano la indispensabile fede nella sinistra «antifascista» che è stata e resta la fede fondamentale su cui l'Italia del dopoguerra si disegna. È sull'«ortodossia antifascista» che si disegna una dogmatica descrizione del fascismo come «strumento del capitale» che ha creato la patologica negazione della elementare realtà di un fascismo di massa causato da molteplici ragioni che invece storici come De Felice hanno esaminato gridando nel deserto. La menzogna ha alimentato la sinistra per tanti anni. Ogni legittimazione, a partire da quella del nuovo Stato italiano, ha avuto come marchio quello dell'antifascismo nella sua versione depurata da ogni falla, ogni frattura, ogni errore. «Il trasformismo di massa» fu dell'intera classe dirigente, politici, burocrati, professori universitari, magistrati, militari, industriali, vissuti con pieno agio all'ombra del fascio, i quali si trasferirono senza colpo ferire nella «repubblica democratica nata dalla resistenza». Il riciclaggio silenzioso è stato in seguito, racconta Galli, il sistema prescelto da ogni gruppo sociale e politico in vena di cambiamento: zitti zitti piano piano, si cambia senza riconoscerlo, scivolando via. L'arco costituzionale, l'unità democratica, il centro sinistra... Tutte queste espressioni sono di fatto la casa dei buoni a fronte della quale perfidi nemici disonesti, vere carogne sempre di destra, tramano per un nuovo fascismo. «L'inautenticità si instaurò nel cuore della repubblica» per esaltare la collettiva «trasformazione democratica» dice Galli. Il finale cui si arriva, percorrendo molto bene tutta la storia recente, suggerisce che adesso è ora di restituire all'Italia «la dimensione stessa del proprio passato... perché possa esserci un futuro». Ma resta sul lettore il peso schiacciante di ciò che è stato, e che si legge in ogni riga della maggioranza della stampa italiana, nell'atteggiamento di ancora troppi intellettuali, politici o, semplicemente, cittadini.

DEMOCRATICI: SOLO A PAROLE.

L'ultima follia della Boldrini: censurare la democrazia. Nel Mantovano eletta una consigliera "fascista". La presidente s'infuria e chiede l'aiuto di Minniti, scrive Massimo Malpica, Mercoledì 14/06/2017, su "Il Giornale". Come volevasi dimostrare. I «fasci» vincono e gli autoproclamati difensori della democrazia si ritrovano sull'orlo di una crisi di nervi. La storia è nota: nel piccolo comune di Sermide e Felonica, provincia di Mantova, tra le liste in corsa c'è «Fasci italiani del Lavoro», partito creato da Claudio Negrini, e la cui figlia, Fiamma, è candidata sindaco. Non è la prima volta che sulla scheda compare quel simbolo al profumo di Ventennio. Il partito col fascio littorio aveva già presentato una sua lista alle elezioni nel 2002, nel 2007 e nel 2012, senza mai sollevare polemiche. Stavolta succede l'imponderabile. Ben 334 elettori votano per Fiamma, il 10,41 per cento dei votanti. E la ragazza, 20 anni, si ritrova consigliera comunale. E pensare che a una settimana dal voto, in seguito a una sassaiola «social» contro Negrini e il suo partito, papà Claudio aveva pensato di evitare le polemiche chiamandosi fuori: «Inizialmente volevo sospendere la campagna elettorale per tutelare i membri della lista - aveva raccontato all'Adnkronos - ma sia l'intervento di mia figlia Fiamma che quello degli altri due candidati sindaci Mirco Bortesi e Anna Maria Martini, che ringrazio, mi hanno fatto cambiare idea». La storia di tolleranza di provincia diventa però un clamoroso successo elettorale, rendendo virale la vicenda. E moltiplicando i mal di pancia. Tra i più fastidiosi, quello accusato dalla terza carica dello Stato, Laura Boldrini. Che ha chiesto «aiuto» a Marco Minniti, lamentandosi con il titolare del Viminale per quella lista col fascio littorio «presentata e ammessa» alle elezioni, con una decisione che «desta forti perplessità». Cercando conforto in leggi e regolamenti contro l'affronto, Boldrini pesca le «istruzioni per la presentazione e l'ammissione delle candidature» diramate dalla direzione dei servizi elettorali del ministero a maggio scorso. Lì, ringhia, c'è scritto che vanno ricusati «i contrassegni con espressioni, immagini o raffigurazioni che facciano riferimento a ideologie autoritarie (per esempio, le parole fascismo, nazismo, nazionalsocialismo e simili)». E invece i «fasci del lavoro» sono passati indenni. Di fronte alla «questione di particolare gravità» sollevata dalla furiosa Boldrini, Minniti scatta senza indugi. E il prefetto di Mantova revoca i malcapitati funzionari della sottocommissione responsabili della svista-attentato alla democrazia. Che, però, appunto, è democrazia. E non può toccare la volontà manifestata dagli elettori che hanno scelto di portare la Fiamma candidata per i «Fasci» dentro il Consiglio comunale del paese del Mantovano.

«Un risultato straordinario», esulta papà Negrini, che invece di alimentare le polemiche fa sfoggio di fair play: «Quello non è il fascio littorio ma il fascio della Repubblica sociale italiana, sono 15 anni che presento lo stesso simbolo in tutt'Italia e nessuno ha mai avuto nulla da ridire. Vorrà dire che la prossima volta lo cambierò».

«Abbattete la statua di Colombo, istiga all’odio!», scrive Greta Marchesi il 23 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Dopo l’eliminazione dei monumenti dei confederati, nel mirino anche lo scopritore del Nuovo Mondo. L’accusa: era uno “spietato” uccisore di nativi americani. I media statunitensi l’hanno battezzata la “guerra delle statue” e nell’ondata di repulisti dei monumenti sudisti potrebbe finire anche la statua a Cristoforo Colombo nel cuore di Manhattan. Lo scopritore dell’America, certo, ha poco a che fare con la Guerra di Secessione, ma a “condannarlo” all’abbattimento potrebbe essere l’accusa di essere stato un conquistatore «spietato» che ha ucciso e schiavizzato migliaia di nativi americani al momento dello sbarco nel Nuovo Mondo. Dopo i fatti di Charlottesville (in cui una attivista antirazzista è rimasta uccisa durante un corteo da un suprematista bianco), la decisione di eliminare i simboli di odio e divisione ha coinvolto già moltissime amministrazioni locali statunitensi, soprattutto degli Stati del Sud: dal Kentucky alla California, gli “eroi sudisti” sono stati rimossi dalle strade delle città americane, per ordine dei sindaci. Così dalle piazze sono spariti i busti di Nathan Bedford Forrest e Roger Brook Taney ed è partita una vera e propria caccia alle streghe contro i simboli riconducibili ai confederati. Ora anche a New York è iniziata l’inquisizione: il sindaco italoamericano Bill de Blasio sta per nominare una commissione, con il mandato di analizzare i monumenti della Grande Mela, in cerca di «simboli che possono istigare all’odio, alla divisione o al razzismo e all’antisemitismo» da eliminare dagli arredi urbani. A finire sul banco degli imputati, dunque, anche l’italiano Colombo, la cui statua sovrasta il Columbus Circle di New York, all’ingresso di Central Park. Il monumento, eretto nel 1892 su un piedistallo di circa 21 metri in occasione del quattrocentesimo anniversario della scoperta dell’America, è uno dei luoghi più cari ai newyorkesi, perchè da questo punto vengono misurate tutte le distanze ufficiali dalla città di New York. Ad accusare l’esploratore genovese è stata la Speaker del Consiglio cittadino Melissa Mark- Viverito: «C’è un dibattito in corso nei Caraibi e soprattutto nel mio paese di origine, Puerto Rico, dove si sta valutando se debbano esistere o meno delle statue di Cristoforo Colombo. La domanda è: che cosa significa la sua effige per le popolazioni locali? Si tratta di un conquistatore che ha portato oppressione». Insomma, la colossale statua di Colombo al centro di Manhattan sarebbe un simbolo di odio e, come tale, andrebbe abbattuta. Parole infuocate, che hanno subito suscitato polemiche soprattutto nella nutrita comunità italo- americana. E la questione potrebbe risultare particolarmente scivolosa proprio per il sindaco de Blasio, che nel 2013 ha marciato alla Columbus Day Parade e ha sempre sostenuto il proprio legame con la comunità d’origine della sua famiglia. «La figura storica di Colombo è complessa, ci sono alcuni aspetti problematici nella sua vicenda» , aveva dichiarato all’epoca, giustificando la sua partecipazione alla festa con il fatto che ormai era diventata «una celebrazione dell’eredità italiana e non più una celebrazione del personaggio storico». In questi giorni, invece, ha scelto di non commentare le dichiarazioni della collega Mark- Viverito. Una reticenza imbarazzata, la sua, che non è passata inosservata e che dimostra quanto possa essere spinoso infilarsi nel ginepraio del revisionismo storico. La commissione, una volta riunita, avrà 90 giorni di tempo per vagliare la storia di statue e monumenti accusati d’istigazione all’odio, in base a quello che lo stesso de Blasio ha definito «standard universale». Quale questo sia, tuttavia, sarà difficile stabilirlo e, soprattutto, rischia di essere un boomerang che, sulla scia di un neo-maccartismo, potrebbe spogliare la Grande Mela di alcuni tra i suoi monumenti più rappresentativi.

In difesa di Cristoforo Colombo, scrive il 23/08/2017 Federico Mollicone su “Il Giornale”. Continuano gli sfregi alle statue di Cristoforo Colombo, notizia di queste ore, e la mobilitazione di città e Stati contro la memoria e i simboli della scoperta dell’America da parte del navigatore genovese e il Columbus Day-iniziato qualche anno fa e proseguito tutt’ora per rivendicare i diritti di un sedicente movimento indigenista-si sta trasformando in una vera e propria campagna razzista e iconoclasta ai danni della grande e radicata comunità italo-americana. Ora addirittura il sindaco di New York, Bill De Blasio, il cui cognome testimonia una evidente origine italiana, istituirà una commissione per valutare in 90 giorni, quali monumenti di personaggi della storia americana siano da rimuovere perché istigano al razzismo e alla discriminazione compresa la statua di Colombo di Columbus Circle da cui si misurano le distanze di New York. Pazzesco. Ben diverso è il clima rispetto a quando nel 1892, in occasione del 400° anniversario della scoperta dell’America, l’Italia donò all’America proprio quella statua tra celebrazioni e grande entusiasmo degli americani. Siamo, ormai, alla damnatio memoriae retroattiva. Cristoforo Colombo è stato per secoli il simbolo dell’orgoglio italiano e della grande tradizione di esploratori e navigatori italiani, nonché quello dell’amicizia tra il popolo italiano e quello americano, ma ora sta diventando il bersaglio e il simbolo di un’epoca, quella delle scoperta delle Americhe, in cui vi furono certo episodi efferati in nome della evangelizzazione forzata e della conquista delle materie prime, ma su cui la Chiesa ha già ufficialmente chiesto il perdono e che in realtà non ha visto certo Colombo trai protagonisti più crudeli. Senza Colombo, come ha giustamente dichiarato la storica americana Libby O’ Connel, l’Europa non avrebbe mai contribuito a scoprire e fondare la civiltà americana. E proprio un simbolo della poesia americana, Walt Whitman, lo celebrò con questa lirica:” Ancora una parola al mio canto, antico Scopritore, quale mai venne rinviata a figlio della terra – se ancora odi, odimi, mentre proclamo come ora – terre, stirpi, arti, evviva per te, lungo l’interminabile sentiero che rimonta sino a te – un vasto consenso da nord a sud, da est a ovest, applausi dell’anima! acclamazioni! echi reverenziali! Un molteplice, immenso ricordo di te! oceani e terre! Il mondo moderno per te, nel pensiero di te!” Chissà cosa scriverebbe oggi per difenderlo. Per quanto riguarda lo schiavismo, che certo ci fu, bisogna ricordare che in quei tempi era purtroppo normale per la morale e le leggi dell’epoca e applicare ora un filtro retroattivo politically correct è stupido e pretestuoso visto che, solo per esempio, Abramo Lincoln e gli altri presidenti rappresentati sul Monte Rushmore “possedevano” schiavi. Che facciamo scalpelliamo i loro volti dalla montagna?

Il Governo italiano dovrebbe intervenire per via diplomatica, come abbiamo richiesto pubblicamente, per chiedere ufficialmente al governo degli Stati Uniti la tutela dei monumenti dedicati a Cristoforo Colombo e il rispetto del Columbus Day, inteso come giorno di affermazione dell’orgoglio italiano negli Usa e di amicizia tra i due popoli. Questo non escluderebbe di dedicare un altro giorno alla memoria della cultura indigena che deve essere certo rispettata e celebrata ma senza iconoclastie e discriminazioni incrociate.

Usa, Los Angeles cancella il Columbus Day: «Celebrazione di un genocidio». Rivolta degli italo-americani, «offesi» dalla decisione della città californiana e dagli attacchi alle statue del navigatore genovese, scrive Andrea Marinelli il 31 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". L’ondata di revisionismo storico che ha colpito gli Stati Uniti abbattendo statue e simboli confederati in tutto il Paese non ha risparmiato la celebrazione del Columbus Day a Los Angeles. Dopo la decapitazione di un busto a Yonkers e la possibile rimozione di una statua a New York, ieri il consiglio comunale della città californiana ha deciso, con quattordici voti favorevoli e appena uno contrario, l’abolizione della festa nazionale dedicata a Cristoforo Colombo, che sarà rimpiazzata da una giornata per commemorare «le popolazioni indigene, aborigene e native» vittime del genocidio — affermano gli attivisti che hanno sostenuto l’iniziativa — commesso dal navigatore genovese: un gesto che, secondo la mozione promossa nel novembre 2015 dal consigliere comunale Mitch O’Farrell, discendente della tribù Wyandot, si allinea all’esempio di numerose città americane, fra cui Seattle, Albuquerque e Denver, e, soprattutto, «ristabilisce la giustizia», ma contro cui si sono battute le organizzazioni italoamericane, che con il Columbus Day, il secondo lunedì d’ottobre, celebrano la propria eredità culturale.

La celebrazione di un genocidio. «A nome della comunità italiana, dico che vogliamo celebrare con voi, ma non vogliamo farlo a spese del Columbus Day», ha affermato Ann Potenza, presidentessa dell’associazione Federated Italo-Americans of Southern California, cercando di difendere la festività — istituita a livello federale da Franklin Roosevelt nel 1937 — in un’aula stipata di attivisti nativi americani che ne chiedevano l’immediata sostituzione. Il tentativo estremo della comunità italoamericana non è bastato tuttavia a convincere Chrissie Castro, vice presidentessa della Los Angeles City-County Native American Indian Commission, secondo la quale la città doveva «abolire la celebrazione, sponsorizzata dallo Stato, del genocidio delle popolazioni indigene». Festeggiare in un altro giorno, ha sostenuto Castro durante l’infuocata seduta del consiglio comunale, «sarebbe stata un’ulteriore ingiustizia».

La frattura italoamericana. La stessa comunità italoamericana di Los Angeles, però, si è divisa sul destino del Columbus Day. L’unico voto contrario è stato quello del consigliere comunale Joe Buscaino, italoamericano di prima generazione, che ha provato a salvare la festività ricordando i pregiudizi di cui erano stati vittime gli italiani negli Stati Uniti. «Non curiamo un affronto con un altro affronto», ha chiesto ai colleghi ricordando che «tutte le nostre culture individuali sono importanti». Favorevole all’abolizione era invece il consigliere comunale Mike Bonin, i cui bisnonni arrivarono dall’Italia in California, secondo il quale la celebrazione del Columbus Day sminuirebbe i traguardi raggiunti dai propri antenati, «che giunsero negli Stati Uniti per costruire qualcosa, non per distruggere». La decisione di rimpiazzare il Columbus Day con l’Indigenous People Day, ha spiegato, «è solo un piccolo passo per scusarci e fare ammenda».

L’ideologia esasperata. Eppure per molti italiani d’America la guerra dichiarata a Colombo — la cui miccia fu accesa nei primi anni Novanta da una provocatoria copertina di Time che si chiedeva se il navigatore genovese fosse un eroe oppure un aggressore — rappresenta uno schiaffo in faccia all’intera comunità. «Quello che sta succedendo in questa grande Nazione, e che si espanderà probabilmente in altri continenti, è a dir poco anti democratico, anti storico e deplorevole, frutto di ignoranza e di una ideologia esasperata. Come tanti italo-americani, mi sento offeso e attaccato», dichiara al Corriere della Sera Vincenzo Arcobelli, rappresentante eletto al Consiglio Generale Italiani all’estero per gli Stati Uniti, che denuncia «gli atti vandalici e violenti portati avanti da gruppi radicali di estrema sinistra» commessi contro le statue dell’esploratore italiano e di Italo Balbo a Chicago. «Abolire la giornata di Colombo o rimuoverne una statua significherebbe eliminare un pezzo di storia, di cultura e di tradizione italiana».

Colombo o Riina? La confusione di Jacopo Fo, scrive Domenica 15 ottobre 2017 Aldo Grasso su "Il Corriere della Sera". «Cristoforo Colombo, un italiano, era un assassino, torturatore, schiavista, e bisogna rompere questa italica censura sulla verità dei fatti e insegnare ai ragazzini che di Colombo c’è da vergognarsi che fosse italiano, tale quale a Totò Riina». Al coro degli iconoclasti americani, politicamente corretti, si aggiunge ora la voce di Jacopo Fo. Difficile spiegargli che è sempre un errore leggere la storia della fine del secolo XV, per quanto crudele ed efferata, con gli occhi di oggi. Difficile soprattutto perché il suo illustre padre, il premio Nobel Dario Fo, nel 1963 scrisse una commedia dal titolo «Isabella, tre caravelle e un cacciaballe» dove Colombo veniva accusato di crimini infami: ladro, assassino, mentitore, schiavista (la Rai l’ha riproposta nel 1992 in occasione delle Colombiadi!). Insomma Colombo è rappresentato come un personaggio spregevole. Nel prologo Fo padre spiegava che Cristoforo era stato riportato a una dimensione «più umana» e lo ritraeva, assieme agli altri personaggi della commedia, con toni grotteschi, caricaturali, con un finale paradossale. Al giullare è concessa ogni licenza. Colombo non sarà stato un santo, ma la sua determinazione ha messo in atto quel grandioso processo di trasformazione che si chiama «età moderna». Paragonarlo a Toto Riina, definirlo «cane rognoso», come scrive Jacopo Fo, comporta solo un grosso rischio: far ricadere sui padri le colpe dei figli.

Usa, non solo le statue sudiste: "Via il monumento a Italo Balbo". Ma gli italo-americani: "Fa parte della nostra storia". Manifestazione a Chicago davanti alla colonna dedicata al gerarca in Balbo Drive. Il leader della protesta: "Rimuoviamola e cambiamo nome alla via", scrive il 24 agosto 2017 "La Repubblica". La furia iconoclasta contro le statue sudiste che sta animando il dibattito statunitense trova ogni giorno nuovi bersagli: dopo il monumento a Cristoforo Colombo a New York, ora tocca a Italo Balbo. Un gruppo di manifestanti si è riunito a Chicago davanti al monumento che ricorda il gerarca regista della trasvolata atlantica, il volo attraverso l'Oceano di uno stormo di idrovolanti italiani nel 1933. Il leader della protesta, John Beacham, ha non solo chiesto di rimuovere il memoriale ma anche di ribattezzare Balbo Drive, dedicandola a Ida B. Wells, una protagonista delle lotte per l'emancipazione degli americani di colore. La popolarità di Balbo a Chicago risale al successo della crociera aerea sull'Atlantico, seguita da un lungo tour nelle metropoli statunitensi. All'epoca, prima dell'invasione dell'Etiopia, i rapporti tra il regime fascista e gli Usa erano buoni e in tutte le città il "trasvolatore" fu accolto da folle festanti. E così venne donata una colonna romana, proveniente dagli scavi di Ostia, con sulla base l'iscrizione inglese - oggi molto logora - che recita: "L'Italia fascista sotto il comando di Benito Mussolini dona a Chicago come memoriale e simbolo dello squadrone atlantico guidato da Balbo". La colonna fu inizialmente sistemata nel padiglione italiano dell'esposizione del "Secolo del progresso", poi spostata nel Burnham Park non lontano dal lago Michigan. Balbo è morto nei primi giorni della seconda guerra mondiale, abbattuto per errore dalla contraerea italiana in Libia. E già al momento dell'ingresso degli Stati Uniti nel conflitto contro l'Italia venne posto il problema del monumento "fascista" di Chicago. Ma all'epoca non venne considerato un simbolo politico, quanto il ricordo di un momento che aveva creato un ponte tra i due popoli. E anche oggi le associazioni italo-americane dell'Illinois sono contrarie alla rimozione della colonna: "Fa parte della nostra storia". Ma tra gli avversari della colonna non ci sono solo esponenti democratici. La questione è stata posta nel consiglio cittadino da Edward Burke, un politico di lungo corso e avvocato fiscalista di Donald Trump, che difende le statue sudiste ma vuole cacciare quella di Balbo e cancellare il nome della via: "Non dimentico quello che è successo nella seconda guerra mondiale".

Stop a "Via col vento": "È suprematista". Ennesimo delirio buonista in Usa: Memphis toglie dai cinema il capolavoro perché razzista, scrive Roberto Fabbri, Martedì 29/08/2017, su "Il Giornale". Ma cosa sta succedendo agli americani? Possibile che il virus del fanatismo ideologico, di destra come di sinistra, stia davvero prendendo piede là dove domina la cultura più pragmatica del mondo? Possibile che dopo decenni di semina di luoghi comuni del «progressismo» sessantottino nelle università degli Stati Uniti sia arrivato il tempo del raccolto, con un'intera generazione forgiata al pensiero unico del «politicamente corretto»? Fa rabbrividire, ma sembra proprio così. Dopo gli scontri di Charlottesville, in questa calda estate americana il tema del razzismo è diventato incandescente, e se già sembrava abbastanza folle che si fosse cominciato ad abbattere monumenti ottocenteschi in nome dell'unità nazionale, adesso cominciano a far paura altri simboli del passato. L'ultimo caso riguarda uno dei film più celebri della storia del cinema: «Via col vento». Il kolossal hollywoodiano degli anni Trenta dedicato alle tragiche vicende della schiavitù e della guerra di Secessione è stato visto almeno una volta da quasi tutti gli americani di ieri e di oggi. Ai nostri giorni è considerato una pietra miliare della cinematografia, ovviamente contestualizzata ai tempi in cui fu realizzato: per i più giovani, può anche essere considerato una sorta di affascinante documentario storico. Eppure, c'è chi ritiene che «Via col vento» non sia più degno di essere visto in pubblico: troppo diseducativo, troppo vicino alla visione del mondo dei «suprematisti bianchi» di cui sono piene in questi giorni le pagine dei media che la attaccano. È questa la decisione dell'Orpheum Theatre, storico cinema di Memphis, la città del blues nel Tennessee. Lo stop alla programmazione del capolavoro di Victor Fleming è stato deciso dopo la proiezione dello scorso 11 agosto, cui hanno fatto seguito reazioni insolitamente contrastate. Tanto è bastato agli organizzatori dei calendari dell'Orpheum per bollare il film come «indelicato per una grande percentuale del nostro pubblico» e cancellarlo dalla programmazione dell'anno prossimo. È questa l'ennesima dimostrazione dei danni che possono provocare i social network: una infima minoranza di attivisti, che si spacciano per portavoce di un'opinione pubblica che è in realtà incalcolabilmente più vasta e che ha altro da fare che perder tempo su Facebook, riesce a condizionare le scelte chi di dovrebbe tener conto del diritto di ciascuno a non subire censure deliranti travestite da tutela della «delicatezza» di una parte (sempre la stessa) del pubblico. Clark Gable, Vivian Leigh, Leslie Howard e crediamo anche Hattie McDaniel, l'attrice di colore che interpretava la parte della «mamie» nella villa lussuosa dei latifondisti bianchi, si rivoltano nelle loro tombe. E chissà cosa dirà Olivia de Havilland, la Melania di «Via col vento» che con i suoi 101 anni non ha perduto smalto e carattere. Il mese scorso ha sporto denuncia contro chi a suo dire ha infangato la sua immagine in una serie televisiva. Ora l'ultima superstite di quel fantastico cast potrebbe far sentire la sua voce contro questo scempio del buon senso.

Quell'ipocrisia antirazzista che viene da lontano.

Sacco e Vanzetti, novant'anni fa la condanna a morte che cambiò la storia. I due anarchici italiani furono ingiustamente condannati e uccisi nel 1927 sulla sedia elettrica negli Usa, scrive il 23 agosto 2017 "La Repubblica". Novant'anni fa divennero il simbolo dell'ingiustizia contro le proteste sociali. Accusati di un duplice omicidio nel corso di una rapina, dopo un processo farsa, gli emigrati anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti furono processati negli Usa in un clima antisindacale e xenofobo, e condannati alla sedia elettrica. Entrambi facevano parte del collettivo anarchico italo-americano in lotta contro il razzismo. A nulla valse la confessione di un detenuto che aveva partecipato al colpo e che disse di non averli mai visti. La sentenza fu eseguita a Charlestown il 23 agosto 1927. Nel 1977 il governatore del Massachusetts, Michael Dukakis, riconobbe ufficialmente l'errore giudiziario e riabilitò la memoria di Sacco e Vanzetti. In occasione dei 90 anni dalla loro morte e dei 40 anni dalla loro completa riabilitazione, diverse le iniziative anche nella Granda, Bartolomeo Vanzetti era di Villafalletto. Sacco, un calzolaio, e Vanzetti, un pescivendolo, sono state vittime di un'ondata repressiva che investì l'America di Woodrow Wilson. In Italia, comitati e organizzazioni contrari alla sentenza spuntarono come funghi non appena fu annunciata. Non c'è probabilmente un solo quotidiano italiano che non abbia dedicato un articolo a questo caso, ogni 23 agosto, dal 1945 a oggi. La storia di "Nick e Bart", di "Tumlin", come conoscevano Vanzetti a Villafalletto, continua a essere oggetto di ricerche, libri e manifestazioni. Nel 2014, nel cortile della casa natale di Vanzetti è stato proiettato il video "clandestino" dei funerali perché erano state vietate foto e riprese, e nel 2015, il sindaco Pino Sarcinelli ha assegnato la cittadinanza onoraria di Villafalletto a Giuliano Montaldo, regista del film Sacco e Vanzetti con Gian Maria Volontè e la colonna sonora di Ennio Morricone.

La storia dei due anarchici è stata ripresa da cinema e teatro. La loro morte, 80 anni fa, è destinata a rimanere nella nostra mente.

Sacco e Vanzetti, una sporca faccenda nell'America della pena capitale, scrive Andrea Camilleri il 24 agosto 2007 su “La Repubblica". Il secolo che ci siamo lasciati alle spalle appena sette anni fa è stato brillantemente descritto dallo storico britannico Eric Hobsbawm "il secolo breve". Una definizione forse più esatta, però, sarebbe "il secolo compresso", perché mai un periodo di 100 anni ha visto così tante guerre mondiali, così tanti progressi scientifici e tecnologici, così tante rivoluzioni, così tanti eventi epocali ammonticchiati l'uno sull'altro. Il secolo passato sembra come una valigia troppo piccola per contenere tutto quello che è successo: è troppo piena di vestiti vecchi, e ce ne sono alcuni che ci impediscono di chiuderla e metterla via in soffitta una volta per tutte. Uno di questi è il caso di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Nel secolo trascorso, milioni di uomini e donne sono morti in guerre, epidemie, genocidi e persecuzioni, e purtroppo la loro memoria corre serissimo rischio di scomparire. Eppure la morte di Sacco e Vanzetti sulla sedia elettrica 80 anni fa, così come la morte di John e Robert Kennedy sotto i proiettili dei killer, sono destinate a rimanere nella nostra mente. Forse perché, come per i fratelli Kennedy, troviamo ancora difficile accettare le ragioni, o la mancanza di ragioni, della loro morte. E in Italia, dove l'omicidio insensato (o fin troppo sensato) è stato per lungo tempo un elemento del panorama politico, questo disagio lo si avverte con asprezza. Nel caso di Sacco e Vanzetti, sembrò subito chiaro a molti, in Europa e negli Stati Uniti, che il loro arresto, nel 1920 - inizialmente per possesso di armi e materiale sovversivo, poi con l'accusa di duplice omicidio commesso nel corso di una rapina nel Massachusetts - i tre processi che seguirono e le successive condanne a morte erano pensati per dare, attraverso di loro, un esempio. E questo nonostante la completa mancanza di prove a loro carico, e a dispetto della testimonianza a loro favore di un uomo che aveva preso parte alla rapina e che disse di non aver mai visto i due italiani. La percezione era che Sacco, un calzolaio, e Vanzetti, un pescivendolo, fossero le vittime di un'ondata repressiva che stava investendo l'America di Woodrow Wilson. In Italia, comitati e organizzazioni contrari alla sentenza spuntarono come funghi non appena essa fu annunciata. Quando la sentenza fu eseguita, nel 1927, il fascismo era al potere in Italia da quasi cinque anni e consolidava brutalmente la propria dittatura, perseguitando e imprigionando chiunque fosse ostile al regime, inclusi naturalmente gli anarchici. Eppure, quando Sacco e Vanzetti furono giustiziati, il più grande quotidiano italiano, il Corriere della sera, non esitò a dedicare alla notizia un titolo a sei colonne. In bella evidenza tra occhielli e sottotitoli campeggiava un'affermazione: "Erano innocenti". Non c'è probabilmente un solo quotidiano italiano che non abbia dedicato un articolo a questo caso, ogni 23 agosto, dal 1945 a oggi. Nel 1977 fu dato grande risalto alla notizia che Michael Dukakis, all'epoca governatore del Massachusetts, aveva riconosciuto ufficialmente l'errore giudiziario e aveva riabilitato la memoria di Sacco e Vanzetti. In Italia, la loro storia diventò il soggetto di uno spettacolo teatrale, che ebbe grande successo prima di venire trasformato, nel 1971, in un bellissimo film, diretto da Giuliano Montaldo, con splendide interpretazioni e una colonna sonora di Ennio Morricone, che comprendeva anche canzoni di Joan Baez. (Anche l'album di Woody Guthrie, Ballads of Sacco and Vanzetti, del 1960, ebbe un grande successo in Italia.). E nel 2005, la Rai, la televisione pubblica italiana, ha prodotto un lungo programma sui due italiani giustiziati. (Stranamente, per qualche ragione, la Rai non ha mai trasmesso, nonostante ne abbia acquisito i diritti molto tempo fa, The Sacco-Vanzetti Story, un film per la televisione girato nel 1960 da Sydney Lumet.) E adesso un sito italiano ospita una vivace discussione sul caso dei due anarchici. Uno dei tanti partecipanti al dibattito scrive: "L'unica colpa di quei poveracci era di lottare contro il razzismo e la xenofobia". E un altro: "Che cosa è cambiato? La pena di morte in America esiste ancora, certe volte perfino per degli innocenti, e il razzismo e la xenofobia sono in aumento". E un terzo: "È impossibile fare paragoni fra quel periodo e questo. Oggi i tribunali fanno errori, errori gravi, ma comunque errori, mentre allora fu commesso un omicidio bello e buono, a fini esclusivamente politici. E anche se il razzismo è ancora vivo e vegeto negli Stati Uniti, sono stati fatti grandi passi avanti". Infine, una conclusione: "Fu una faccenda sporca in un'epoca difficile". Una faccenda sporca davvero se gli italiani, solitamente indulgenti verso la terra che ha accolto così tanti loro concittadini bisognosi che partivano emigranti, ci si soffermano ancora, dopo tutti questi anni. Il dibattito, a quanto sembra, è tuttora in corso. Un segnale, forse, che la ferita non si è ancora cicatrizzata. E che ancora, per quanto ci sforziamo, non riusciamo a chiudere quella valigia. Copyright The New York Times Syndicate. Traduzione di Fabio Galimberti.

23 agosto 1927, Sacco e Vanzetti: storia di due emigrati italiani condannati a morte. I due anarchici sono condannati alla sedia elettrica con l’accusa di omicidio durante una rapina. La faziosità del verdetto suscita proteste in tutto il mondo. Per molti la condanna rientra nella «politica del terrore» promossa dal Ministro della Giustizia Usa. Nel 1977 il governatore del Massachusetts ammette gli errori fatti nel processo e ne riabilita la memoria, scrive Silvia Morosi il 22 agosto 2017 su “Il Corriere della Sera".

L’accusa di omicidio. Assassini per l’America, eroi per l’Europa. Esempio di «giustizia crocefissa» (come titolò un giornale), celebrati da Woody Guthrie e Joan Baez, ricordati da Giuliano Montaldo nel 1971 con due indimenticabili Gian Maria Volontè e Riccardo Cucciolla. E’ il 23 agosto 1927. Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anarchici italiani emigrati negli Stati Uniti, venivano condannati alla sedia elettrica con l’accusa di aver ucciso, nel corso di una rapina, il cassiere e la guardia giurata del calzaturificio Slater and Morril. I dubbi sulla loro responsabilità e la confessione di un detenuto portoricano che li mostrava innocenti non valsero a nulla: Sacco e Vanzetti furono condannati a morte. Nel penitenziario di Charlestown, a distanza di sette minuti l’uno dall’altro, furono legati alla sedia elettrica e vi persero la vita in un giorno di agosto di 90 anni fa (qui l’approfondimento «Sacco e Vanzetti: la giustizia crocifissa»).

I due protagonisti. Sacco era un ciabattino della provincia di Foggia; Vanzetti un pescivendolo del cuneese. Il 23 agosto 1977, a cinquant’anni esatti dalla loro morte, Michael Dukakis, durante il suo primo mandato di governatore del Massachusetts, riabilitò la memoria di Sacco e Vanzetti ammettendo che con ogni probabilità, nel giudicare i due anarchici, erano stati commessi errori e ingiustizie. «Al centro immigrazione ebbi la prima sorpresa. Gli emigranti venivano smistati come tanti animali. Non una parola di gentilezza, di incoraggiamento, per alleggerire il fardello di dolori che pesa così tanto su chi è appena arrivato in America». E in seguito scrisse: «Dove potevo andare? Cosa potevo fare? Quella era la Terra Promessa. Il treno della sopraelevata passava sferragliando e non rispondeva niente. Le automobili e i tram passavano oltre senza badare a me», dirà Vanzetti al processo, ricordando l’arrivo a New York sulla nave «La Provence» il 19 giugno 1908, quando ha vent’anni.

Il clima di terrore. Era proprio «ingiustizia» la parola che dominava le opinioni sulla vicenda: la sensazione generale era che alla base del verdetto di condanna di Sacco e Vanzetti vi fosse nient’altro che la politica del terrore che caratterizzava il clima politico statunitense di quegli anni, instaurata indiscriminatamente contro anarchici, operai, sindacalisti e masse popolari che auspicavano un riscatto sociale.

Il processo. La morte di Sacco e Vanzetti volle essere allora, probabilmente, una dimostrazione esemplare. Su di loro si rovesciava il pregiudizio nei confronti degli immigrati: durante il processo, il giudice li chiamò più volte «bastardi». Vanzetti, che conosceva l’inglese meglio di Sacco, pronunciò al giudice queste parole: «Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra, ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole». Riportiamo qui un passaggio dall’epistolario di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti: «Mai, vivendo l’intera esistenza, avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione fra gli uomini» (Bartolomeo Vanzetti, alla giuria che lo condannò alla pena di morte).

Il sostegno di Mussolini. Quando la condanna a morte fu resa nota, le strade si riempirono di gente, e le voci della manifestazione accompagnarono Sacco e Vanzetti fino al giorno della loro morte, dieci giorni dopo. Anche l’Italia fu scossa: Benito Mussolini, nonostante l’ideologia politica lo allontanasse da Sacco e Vanzetti, si adoperò perché i due italiani fossero risparmiati. Anche numerosi intellettuali, tra cui Albert Einstein e Bertrand Russell, sostennero con una campagna Sacco e Vanzetti. Ma ogni iniziativa fu inutile: i due trovarono la morte su una sedia elettrica, scatenando indignazione e rivolte.

La confessione e le manifestazioni. Nemmeno la confessione di un gangster, Celestino Madeiros, che ha ammesso di essere stato lui l’autore della rapina insieme a due complici, porta alla riapertura del processo. Petizioni e manifestazioni si susseguono, in America Latina, negli Stati Uniti, in Europa. Le ambasciate Usa sono assediate. Folle immense manifestano a New York, Detroit, Philadelphia. I funerali sono seguiti da 400.000 persone che portano un bracciale dove è scritto: «La giustizia è stata crocifissa. Ricordatevi del 23 agosto 1927». E’ a causa delle loro idee – che non hanno mai rinnegato durante tutti i lunghi sette anni che hanno preceduto l’esecuzione – che i due militanti sono stati uccisi. Ed è grazie a questa loro fedeltà alle proprie convinzioni che sono entrati nella leggenda del movimento operaio.

La sedia elettrica come strumento di morte. La sedia elettrica fu introdotta negli Stati Uniti nel 1888 per sostituire l’impiccagione, considerata troppo cruenta. Il tempo massimo di sopravvivenza, legati a una sedia elettrica, è di quindici minuti: durante questo arco di tempo, il condannato, colpito da potenti scariche elettriche, muore per arresto cardiaco o crisi respiratoria. Meno cruento, come metodo? La pena di morte è in sé argomento molto dibattuto: in ventuno stati è stata abolita; otto stati sono in moratoria. Lo stato più attivo in questo senso, con il numero più alto di esecuzioni capitali, attualmente è il Texas. Gli Stati Uniti vedono, nella storia delle esecuzioni capitali, l’utilizzo di diversi metodi: dall’impiccagione, alla camera a gas, alla sedia elettrica, all’iniezione letale. Esiste metodo più “umano” di un altro, quando si condanna a morte qualcuno? Senza contare l’effettività del rischio di giustiziare degli innocenti.

Il memoriale. Nel 1977 sono stati completamente riabilitati quando il governatore dello Stato del Massachusetts Michael s. Dukakis riconobbe gli errori giudiziari commessi nei loro confronti. A distanza di quasi 90 anni, Sacco e Vanzetti sono ancora una ferita nella storia americana. Nel 1977 il governatore Dukakis istituì anche il «Sacco and Vanzetti memorial day», celebrato da allora ogni 23 agosto. «Il processo e l’esecuzione di Sacco e Vanzetti - scrisse - devono ricordarci sempre che tutti i cittadini dovrebbero stare in guardia contro i propri pregiudizi e contro l’intolleranza verso le idee non ortodosse, con l’impegno di difendere sempre i diritti delle persone che consideriamo straniere per il rispetto dell’uomo e della verità».

La vicenda al cinema. Boston, 1920. Due immigrati italiani, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, vengono accusati di rapina a mano armato e di omicidio... La storia viene raccontata anche da Giuliano Montaldo nel 1971, in un film che passa alla storia. Nel cast Gian Maria Volontè, Riccardo Cucciolla, Cyril Cusak e Geoffrey Keen. Realizzata quando in Italia era ancora vivo l’eco della strage di Piazza Fontana del 1969 — con l’accusa dei due anarchici Valpreda e Pinelli — la pellicola fa esplicito riferimento a questo avvenimento, nello stesso tempo non si appiattisce sul presente il fulcro della narrazione sono i due anarchici italiani.

Il mistero (svelato) delle ceneri. L’occasione per ritornare sulla vicenda arriva anche dalla pubblicazione del libro di Luigi Botta, «La marcia del dolore» (Nova Delphi, 2017), nome con il quale è comunemente noto il funerale dei due. Questo nuovo volume, contrariamente a quanto si è detto e scritto per decenni spiega come le ceneri di Sacco e Vanzetti – accusati di aver ucciso nel corso di una rapina a mano armata, il cassiere e la guardia giurata del calzaturificio Slater and Morril che trasportavano 16.000 dollari – non siano state mescolate. Bensì suddivise in due urne, che per l’uno e per l’altro hanno seguito strade autonome. Le due metà di Vanzetti sono a Villafalletto e a Boston; una metà di Sacco è a Torremaggiore e l’altra si è persa a casa della moglie Rosa Sacco.

Nicola e Barth sono così lontani? Scrive Piero Sansonetti il 25 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Li uccisero dopo un processo farsa perchè erano anarchici, ma soprattutto perchè erano italiani. Provarono a salvarli in tanti. Da Mussolini a Einstein. Ma non ci fu niente da fare. 1927, 23 agosto: l’establishment americano aveva deciso che quei due italiani dovevano morire sulla sedia elettrica. Siamo sicuri che Sacco e Vanzetti siano così lontani nel tempo? Pensate un po’, per salvarli si mossero personalità molto, molto distanti tra loro: Benito Mussolini, Albert Einstein, Bertrand Russel. Cioè il capo del fascismo e due dei più grandi intellettuali di sinistra del novecento. E poi altre milioni di persone, che manifestarono, furiose, in tutto il mondo. A Boston, a New York, a Parigi, a Roma a Foggia. Ma il governatore del Massachusetts, che si chiamava Alvan Fuller, ed era un repubblicano di sinistra, fu irremovibile, non concesse la grazia. Così come non concesse la grazia il presidente degli Stati Uniti, repubblicano anche lui, Calvine Coolidge. La mattina del 23 agosto del 1927, giusto novant’anni fa, Nicola Sacco, operaio pugliese, e Bartolomeo Vanzetti, pescivendolo piemontese, furono accompagnati nella camera della morte della prigione di Charlestown, vicino Boston, legati alla sedia elettrica e uccisi. Erano stati condannati a morte quattro mesi prima da una corte del Massachusetts. Nicola aveva 37 anni, fu ucciso per primo. Barth ne aveva 39, fu ucciso sette minuti dopo la morte del suo amico. Erano anarchici, ma soprattutto erano italiani: immigrati italiani. Erano arrivati in America da poco meno di vent’anni. Nicola parlava bene l’inglese. Bartolomeo appena appena. Li accusavano di una rapina e di un duplice omicidio avvenuti a Boston, in una fabbrica di scarpe, sette anni prima. Ma loro erano innocenti: assolutamente innocenti. Al processo non fu portata una mezza prova bucata della loro colpevolezza. E fu scartata la testimonianza- confessione di un gangster americano, un certo Celestino Madeiros, il quale aveva ammesso di essere sta- to lui, insieme a due complici, a fare quella rapina sanguinosa. E aveva detto che lui, in tutta la sua vita, Sacco e Vanzetti non li aveva mai visti. Ci vollero 50 anni perché lo Stato del Massachusetts riconoscesse l’errore. Successe nell’agosto del 1977, quando il governatore Mike Dukakis, futuro candidato alla presidenza (sconfitto da Bush padre) firmò la riabilitazione, e diede il via alla costruzione di un museo, e alla realizzazione di una scultura. Dukakis era un tipo che non amava affatto la giustizia sommaria. Era un intellettuale liberal. Tra i tanti candidati alla Presidenza degli Stati uniti, negli ultimi due secoli e mezzo, forse è stato l’unico che si pronunciò a voce altra contro la pena di morte. E pagò caro. In uno degli incontri ufficiali con Bush, in Tv, al quale partecipavano anche i giornalisti, un giornalista gli chiese: «Se un bandito uccide tua moglie, tu sei favorevole o no alla pena di morte per quel bandito?». Dukakis scosse la testa. «No», disse. In pochi minuti, nei sondaggi, Dukakis, che era in testa, perse 10 punti e non li recuperò mai più: la corsa alla casa Bianca si fermò li, il voto di novembre fu una formalità. La storia di Sacco e Vanzetti negli anni settanta fu raccontata in Italia in un film molto commovente e vibrante di Giuliano Montaldo. I due anarchici erano interpretati da Gian Maria Volontè e da Riccardo Cucciolla. La colonna sonora l’aveva scritta Ennio Morricone: erano delle canzoni e le cantò Johan Baetz. Ebbe un grande successo. Andò nelle sale poco più di un anno dopo la strage di piazza Fontana e la morte di Pino Pinelli (anarchico ingiustamente sospettato per la strage) e mentre Pietro Valpreda, anche lui anarchico e anche lui ingiustamente sospettato, era ancora in carcere. Il processo a Nicola e Barth fu un inno al razzismo e al giustizialismo dell’epoca. Il razzismo e il giustizialismo, di solito, vanno a braccetto. Non c’era sostanza giuridica, in quel processo, ma c’era molta, molta politica. La politica subiva un vento di intolleranza, e di fastidio per l’ondata di migranti italiani, che avevano invaso (come si dice adesso) il New England. Una parte della popolazione, soprattutto nei settori più reazionari, non li sopportava, voleva qualcosa di esemplare. E come spesso succede in questi casi, la politica lascia alla magistratura il compito di agire e di compiere atti esemplari. Adopera i giudici come uomini di mano. Al processo si usarono continuamente termini, un testimone riferì che era certo della colpevolezza di Sacco, perché lo aveva visto da dietro. Da dietro? Si, disse lui, ma non c’è dubbio che camminasse con una andatura da straniero. Anzi da italiano. Fu preso in parola. Naturalmente trnare a parlare di Sacco e Vanzetti, della loro storia atroce, serve a ricordarci quando ignobile, ancora oggi, sia la pena di morte. E a sollevare degli interrogativi seri su questo atroce punto debole della democrazia americana. Però a me viene in mente anche qualche altra suggestione. Mentre scrivo del sistema giustizia che rinuncia allo Stato di diritto e si mette a servizio di una campagna politica contro gli immigrati, non riseco a non pensare, un po’, a certi toni, a certe ventate reazionarie di oggi. La giuria di Boston calcolò che la vita di quei due pezzenti italiani valeva molto meno di una campagna politica. Oggi magari non sarà più così. Però. Però… Siamo sicuri che siano così lontani, nel tempo Nicola e Barth?

L’ultimo sudista e l’America di fine stagione, scrive il 16 agosto 2017 Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. GIUSTIZIATO SENZA PROCESSO. L’ultimo soldato sudista è stato giustiziato ieri l’altro a Durham in North Carolina; non si era asserragliato in un bunker, né si nascondeva nella giungla come l’ultimo giapponese. Stava lì in piedi all’aperto in una pubblica piazza, sopra un’aiuola ad attendere i suoi aguzzini. L’ultimo sudista era armato di un vecchio fucile Enfield calibro 58 non funzionante che ha tenuto abbracciato fino alla fine. Un tribunale del popolo ha deciso di giustiziarlo in pubblico, condannandolo a morte senza processo per un reato che ha commesso 157 anni fa. Il reato era, appunto, quello di essere stato un sudista. L’ultimo sudista non era un soldato in carne ed ossa, ma un soldato di bronzo. Una statua eretta nel 1924 “in memoria dei ragazzi che hanno vestito la divisa grigia”, come recitava la targa. Non raffigurava un generale a cavallo, un politico, ma solo un semplice soldato, uno di quelli che nelle guerre ci entra per dovere, ideale, coraggio, follia, amore. Più che un soldato era un simbolo e per questo faceva ancora più paura; perché le armi del significato sono più potenti delle armi della distruzione. E così un folla delirante e invasata di democratici progressisti gli ha messo una cinghia al collo, lo ha abbattuto e poi si è scatenata su di lui con calci e sputi; fantasmi provenienti dal passato che cercano di liberarsi dei propri fantasmi del passato. La rabbia era motivata dall’assassinio, due giorni prima, di una giovane attivista di sinistra uccisa da un razzista bianco di Vanguard America, che ha lanciato la sua auto a tutta velocità contro un corteo. I compagni della ragazza su Twitter hanno scritto: “perché ci criticate? Loro ammazzano le persone mentre noi abbattiamo le statue”. Non fa una piega. In fondo hanno ragione.

COME GLI ISLAMISTI. Eppure, queste immagini di giovani americani che si scagliano contro una statua abbattendola e sputandoci sopra, fanno riflettere su cosa sta diventando l’America; perché assomigliano incredibilmente alla follia iconoclasta dei jihadisti dell’Isis quando distruggono i simboli di una cristianità orientale più antica e immensa di quanto loro siano mai in grado di immaginare. Perché ricordano le immagini delle statue di dittatori abbattute dopo le rivoluzioni con la differenza che l’America è una democrazia e non una dittatura; e che il sudista di Durham, come altri centinaia sparsi in America, non era stata eretto da un tiranno o da un regime ma dal sentimento profondo di una nazione che voleva riconciliarsi nel valore della libertà di essere diversi ma appartenenti ad un unico destino. L’America del 1924, quella che eresse la statua, era una democrazia giovane e vitale che si affacciava con l’ottimismo della sua eccezionalità dal parapetto della storia pronta a lanciarsi nel vuoto di quel ‘900 di cui sarebbe stata protagonista. La statua dell’ultimo sudista non fu voluta da nostalgici confederati, idioti suprematisti bianchi o nazisti dell’Illinois di John Belushi; fu voluta ed accettata fino ad oggi da un’intera comunità per rendere onore a quei giovani che nella Guerra Civile combatterono dall’altra parte, quella sconfitta. Per ricordare a tutti che la forza di una democrazia sta nel saper includere non nell’escludere, nel saper vivere il passato nella consapevolezza non nella paura.

SCHIAVISTI DEMOCRATICI. I “giustizieri della statua” non sanno nulla di tutto questo. Probabilmente non sanno neppure cosa è stata la Guerra civile americana e se interrogati, confonderebbero il generale Lee con il personaggio di un western di Tarantino per il quale “la bandiera sudista è una specie di svastica americana”. Molti di loro, democratici e progressisti, probabilmente non sanno neppure che gli anti-schiavisti erano i Repubblicani che ebbero in Abramo Lincoln il grande campione dell’emancipazione dei neri; e che gli schiavisti erano i Democratici. Forse è per questo senso di colpa che governatori e leader democratici vogliono abbattere le statue sudiste in tutto il paese. Gli incidenti di Charlottesville, dove è morta la ragazza, sono nati proprio per la volontà del sindaco (Democratico) di togliere dal parco della città la statua del generale Lee. E magari qualcuno potrebbe loro spiegare che il più grande schiavista americano fu George Washington che nella sua tenuta di 8000 acri in Virginia faceva lavorare 300 schiavi che gli garantivano un reddito pari al 2% dell’intero Pil della giovane nazione americana. Quindi forse bisognerebbe iniziare ad abbattere le statue del Padre dell’America e togliere la sua faccia dal dollaro, simbolo e strumento del potere globale Usa.

IL COMPLOTTO DEI PESCI SURGELATI. Il Presidente Trump ha denunciato con fermezza il crimine razzista e la morte della giovane ragazza; ma poi, giustamente, ha condannato “le violenze da ambo le parti”, scandalizzando le anime ipocrite del buonismo politically correct. Ma Trump ha ragione. Da mesi l’America è attraversata da violenze di piazza, aggressioni, manifestazioni cruente scatenate dai nipotini di Soros per contestare la sua elezione, secondo quella regola tipica delle sinistra internazionale per cui “la democrazia vale solo se vinco io”. Ed è questo clima di intolleranza diffuso generato dai liberal, che dà l’alibi ai razzisti bianchi di scendere in piazza e dare spazio alla loro violenza e alla loro deforme identità. Certo, la notizia che Jason Kessler il leader di “Unit the Right” il movimento di estrema destra che ha organizzato la manifestazione razzista di Charlottesville, possa essere un ex attivista della sinistra radicale che partecipò ad Occupy Wall Street, aumenta quel clima di sospetto e complotto che da tempo attraversa gli Usa. In realtà, suprematisti bianchi e antifascisti sembrano pesci surgelati e scongelati dal frigobar della storia, che qualcuno sta ributtando nel fiume di questa America, per vedere se possono nuotare. Sembrano pupazzi caricati a molla da un perfetto meccanismo, creati apposta proprio per rappresentare la nuova America di Trump come un saldo di fine stagione; e forse, dopo otto anni di disastro Obama, lo è.

La guerra delle statue che piacerebbe all’Isis, scrive Daniele Zaccaria il 2 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Dai fatti di Charlotteville alla crociata contro le statue di Colombo, si è scatenata una grottesca caccia ai fantasmi di pietra. L’ultima vittima del furore iconoclasta è Cristoforo Colombo: un busto di bronzo del navigatore è stato decapitato in parco di Yonkers, sobborgo a nord di New York; poche ore prima ignoti avevano sfregiato un altro monumento dell’illustre genovese nel Queens, equiparandolo a un «genocida». Gli anonimi vandali sono avanguardie fanatiche, ma non si tratta di atti di ribellione anti- sistema, la loro crociata è sostenuta dalle autorità, letteralmente in balìa dell’ondata politically correctche sta attraversando l’America. A San Francisco e Los Angeles sono state abolite le celebrazioni del Columbus day e persino il sindaco della Grande mela Bill Di Blasio, un italo- americano molto legato alla sua comunità si è adeguato all’aria che tira. In pochi mettono l’accento sul nonsense di questa campagna in cui i paladini dei buoni sentimenti vogliono cancellare gli “orrori” di un passato di cui sono i primi a beneficiare. La guerra ai fantasmi di pietra inizia a Charlotteville lo scorso giugno quando il sindaco decide di far abbattere la statua del generale Robert Lee, comandante dell’esercito sudista durante la guerra di secessione e simbolo dello schiavismo. Senza entrare nel merito ( molti storici hanno riabilitato la figura di Lee, sottolineando i suoi sforzi per tenere unito il Paese a guerra finita), attorno a questa rimozione si è creato un autentico cortocircuito: i gruppi di suprematisti bianchi, il Ku kluks klan e altre frattaglie dell’halt right statunitense sono scesi in piazza per difendere quei monumenti identitari, scontrandosi fisicamente con i giovani antirazzisti che chiedevano a gran voce l’abbattimento e uccidendo una giovane manifestante di 30 anni. Nei giorni seguenti l’indignazione dell’America progressista ha preso forma nella caccia al monumento; nei parchi della Lousiana, della Virginia, del North Carolina, dell’Ohio e di altri Stati sono continui gli attacchi ai simboli dei confederali: tra statue, busti, camei sono circa duemila i monumenti che ritraggono gli eroi sudisti, molti dedicati a militi ignoti, semplici ragazzi morti nella guerra civile. Intanto a Charlotteville le autorità, in attesa di buttare giù la statua equestre di Lee la hanno coperta con un telo nero. Ma la passione, come un gioco estivo globale, ormai varca i confini dell’America dilaga in tutto l’Occidente. Così in Gran Bretagna il Guardian si chiede se non sia finalmente giunto il momento di sloggiare l’ammiraglio Nelson dalla storica colonna di Trafalgar Square a Londra, perché il buon Horacio era un salvatore della patria ma anche un sostenitore dello schiavismo, anzi, «il prototipo del suprematista moderno», giura l’editorialista Afua Hirsch sulle colonne del quotidiano. Stessa musica a Parigi, dove il gauchista Libération lancia la sua “provocazione” sui monumenti che ricordano il suo passato coloniale, da Napoleone in giù. «Il generale Gallieni, eroe della Marna nella Prima guerra mondiale ha compiuto atrocità inenarrabili in Indocina: è giusto che sia celebrato con una statua?», si interroga lo storico Marcel Dorigny. In Olanda il celebre Rijksmuseum di Amsterdam i nomi di migliaia di dipinti e sculture considerati razzisti, sessisti o semplicemente offensivi, come «eschimese» o «selvaggio. Un piccolo esempio: la tela di Simon Maris titolata dall’autore Ragazza negra, da oggi si chiamerà Ragazza con ventaglio, e così via. Statue, abbattute, statue coperte prima di essere abbattute, statue vandalizzate, totem di marmo attorno ai quali si consuma un rito di purificazione collettiva. Ci deve essere qualcosa di profondo in questa caccia ai fantasmi, in questa guerriglia contro la propria cattiva coscienza; alla rimozione fisica corrisponde la rimozione della Storia, vissuta narcisisticamente come un senso di colpa. A Palmira le milizie dell’Isis nella loro folle guerra agli “idoli” hanno sfregiato l’impossibile, brutalizzando il teatro romano del Peritelio, abbattendo siti archeologici, saccheggiando e distruggendo musei, come fecero 20 anni fa i taleban afghani che polverizzarono le statue del Buddah nella valle di Bamiyan. Nella loro idea di un Islam ineffabile e muto vedono in ogni rappresentazione dell’umano e soprattutto del divino un insulto alla purezza religiosa. Che si tratti delle meravigliose moschee sciite, delle allegorie leonine a Raqqa, delle chiesette azire, dei santuari sufi, il furore nichilista vuole una cosa sola: annientare i simboli.

Paradossalmente non sono così diversi dagli abbattitori di statue confederali d’oltreoceano. In fondo, volendo essere coerenti, ben poche vestigia del passato passerebbero indenni l’esame di maturità del politicamente corretto. Prendiamo la piramide di Ghiza; uno scintillante monumento alla schiavitù costruito con il sudore (e la vita) di migliaia di schiavi. E la Grande Muraglia cinese cos’altro non è se non il “muro dei muri” una formidabile barriera contro il multiculturalismo e l’immigrazione? Nella lista, potenzialmente inesauribile possono entrare altri splendori architettonici come le colonne e gli archi della Roma imperiale, celebrativi di massacri e genocidi senza pari, la reggia di Versailles, dimora dell’aristocrazia parassita e reazionaria, o luoghi di raccoglimento come i cimiteri di guerra tedeschi che ospitano le ossa dei cattivissimi soldati nazisti.

Dilaga la protesta anti Trump dei "democratici" solo a parole. In America scende in piazza l'odio. I finti democratici non riconoscono il voto popolare. E marciano contro il nuovo presidente (eletto democraticamente), scrive Andrea Indini, Giovedì 10/11/2016, su "Il Giornale". Sono democratici solo a parole. Perché non rispettano il voto popolare, perché schifano che Donald Trump possa essere stato votato legittimamente da tutti gli americani, perché non accettano che il loro candidato (Hillary Clinton) non possa essere stato eletto. Urla, scontri e arresti: infuria la... Così, questi finti democratici sono scesi in piazza in tutta l'America al grido "Not my president". Non lo riconoscono, insomma. E sputano su ogni singolo voto che è stato depositato nell'urna e, quindi, su ogni singolo americano che ha voluto dare fiducia al tycoon. È bastato realizzare che Trump avesse vinto davvero le elezioni e che quindi fosse il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti perché i finti democratici iniziassero caroselli, proteste e sit in. Fosse successo il contrario, avesse cioè vinto la Clinton, i repubblicani non avrebbero certo sfilato lungo le strade d'America gridando "Not my president". Ma questi sono, appunto, democratici. E così hanno inscenato decine di manifestazioni anti Trump in diverse città degli Stati Uniti. Da New York a Philadelphia, da Boston a Chicago. E così via: Portland, San Francisco e Washington. A Manhattan sono state arrestate una trentina di persone. A Seattle, in una sparatoria nello stesso quartiere in cui si svolgeva la protesta, sono rimaste ferite cinque persone, una delle quali in modo critico. La polizia della città ha, tuttavia, precisato che la protesta e la sparatoria, "una qualche forma di lite personale", non sembrano essere episodi collegati. L'autore della sparatoria è, però, riuscito a fuggire. Le parole di Trump, appena incassato il risultato pieno della vittoria, sono state distensive. "Sarò il presidente di tutti gli americani", ha detto invitando anche chi non lo ha votato a lasciarsi indietro i rancori e le divergenze. Ma i democratici sono per natura rancorosi se le cose non vanno come piace a loro. È così in tutto il mondo. Fa parte del loro dna. "Not my president" è il nuovo slogan scandito dai manifestanti scesi in piazza, ma anche l'hashtag sui social dedicato alla protesta contro l'elezione del candidato repubblicano. A New York la protesta si è svolta lungo la sesta avenue, fino alla Trump Tower. "No Trump! No KKK! - hannop urlato i manifestanti per le strade di Chicago - no agli Usa fascisti!". "He Made America Hate Again", il banner di uno dei manifestanti a Boston giocando sullo slogan usato da Trump in campagna elettorale. Eppure la Clinton è stata sportiva dopo la sconfitta: "Dobbiamo accettare questo risultato... Donald Trump sarà il nostro presidente. Gli dobbiamo una mentalità aperta ad una chance". Gli elettori del Partito democratico, invece, non lo sono. A Washington sono scesi in piazza, diretti alla Casa Bianca, persino un centinaio di liceali.

Trump scatena il peggio della sinistra (filo) americana. Lacrime amare per gli hater di Trump, scrive Massimiliano Greco il 10 novembre 2016 su “Opinione Pubblica”. Trump ha vinto, e scene di panico e isteria collettiva sono dilagate in tutta America (e non solo). O meglio, non proprio tutta l’America, ma quella parte, nettamente minoritaria, che ha finora vissuto in una utopia liberal. Scene a dir poco spassose. La Clinton ha perso e questo ha provocato del vero malessere fisico e psicologico ai suoi sostenitori. Si va dalla gente che minaccia il suicidio, a scene di pianto collettivo, passando per le urla belluine. In questi due giorni abbiamo assistito a scene assolutamente spassose, con la sinistra americana letteralmente in lacrime; e non parliamo solo di ragazzini, ma anche di adulti. Compresi i giornalisti della CNN, uno dei quali, un afroamericano, ha detto che la vittoria di Trump è una reazione dei bianchi nei confronti del primo presidente nero. “Come lo spiegherò ai miei figli?” frigna. Scene di pianto ovviamente anche fra i sostenitori della Clinton radunatisi la notte delle elezioni in attesa dei risultati. Scene di delirio collettivo apparentemente inspiegabili, quanto meno negli adulti. In effetti, si nota una assoluta mancanza di padronanza delle proprie emozioni, ma non solo: questa è gente che 8 anni di Obama, 8 anni di retorica immigrazionista, eterofobia, “self hating” e diritto-umanismo hanno fatto credere di vivere in un’utopia, in un magico mondo in cui i problemi reali delle persone comuni non esistono. In effetti, il solo nominare gli esponenti della classe lavoratrice, quelli con basso titolo di studio, ancora peggio se uomini bianchi ed etero, provoca nei liberal fastidio, repulsione, e anche rabbia senza limiti. Una utopia in cui tutto era permesso (a patto di avere i soldi, ma questa gente di solito viene mantenuta o ha comunque un reddito elevato e tanto, troppo tempo a disposizione) ogni capriccio lecito, ogni insensatezza ammessa e ogni problema, critica, oppure opinione contraria, bandita. Una simile umanità non potrebbe non essere emotivamente fragile. E non poteva non detestare fin nel midollo la classe lavoratrice, tranne quei suoi esponenti che potevano essere incasellati in una delle creature mitologiche tanto care ai sinistri: immigrati, neri, gay, etc. I sinistri odiano i lavoratori perché refrattari al politicamente corretto. Rinfacciano loro titoli di studio inferiori, li accusano di essere ignoranti, ma poi non sono in grado di argomentare in maniera sensata perché Trump sarebbe un pericolo, mentre Hillary andava bene. Ecco la spiegazione fornita da una pagina americana: "I liberal hanno perso le elezioni come punizione da parte dei lavoratori bianchi, stanchi di essere derisi da elitisti e sfaccendati che li chiamano razzisti, sessisti, e privilegiati. I liberal rispondono alla propria sconfitta continuando a sfottere i lavoratori bianchi". In questi otto anni in America centinaia di persone sono state licenziate o censurate per aver espresso pareri o persino fatto delle battute che urtavano la sensibilità di minoranze ristrettissime o quella, ancora più estrema, dei liberal. Nelle scuole e nelle università americane si è giunti, in certi casi, a inserire degli avvisi nei libri, in cui si mette in guardia gli studenti che il contenuto potrebbe ledere la loro sensibilità. E così, dopo essersi illusi di essere maggioranza, che Trump fosse la fine del mondo, e che siccome loro erano contro Trump, allora questi non avrebbe mai vinto, la delusione dei liberal è stata tremenda, e le loro reazioni pietose. E i pianti non sono cessati neppure oggi, e hanno raggiunto dimensioni che avrebbero fatto la felicità di Freud e Jung. Per esempio, alla Cornel University, nello stato di New York, gli studenti si sono radunati fuori per piangere e consolarsi a vicenda, con i professori che, invece di rimproverarli, li consolavano. Gli studenti hanno confessato di aver provato un forte stress emotivo nello scoprire che una cosa del genere, cioè la vittoria di Trump, era possibile. Come dicevamo prima si tratta appunto di un distacco dalla realtà. Purtroppo, non si sono limitati a piangere, ma si sono riversati nelle strade a spaccare finestre, a danneggiare auto e, in generale, a dar prova, ancora una volta, di cretinismo democratico e infantilismo politico. Scene di guerriglia urbana scatenata da gente immatura bravissima a invocare la democrazia da esportazione (tramite i bombardieri) ma pronta a ripudiarla quando il risultato non le piaccia (referendum in Crimea, elezione di Assad e di Putin, vittoria di Trump…). La minoranza nera, coccolata da anni di propaganda liberal che ne attribuisce tutti i difetti e le mancanze al razzismo dei bianchi, ha dato il peggio di sé. O aggredendo presunti elettori di Trump. Ci sono anche stati casi in cui hanno incendiato la bandiera americana o un fantoccio raffigurante Trump. E pensare che si tratta in larga parte di gente che, vuoi perché sostenitrice di Sanders, vuoi per snobistico disprezzo, non era nemmeno andata a votare. In ogni caso, violenze a parte, si tratta di giorni spassosi, che hanno avuto un forte eco anche in Italia, dove tutti gli intellettuali, i politici e i giornalisti hanno più volte insultato Trump ed erano pronti a osannare la vittoria della Clinton, e invece sono rimasti delusi. Fra questi ricordiamo Mentana, Roberto Saviano, Romano di Lista Civica, Furio Colombo, Matteo Renzi, Gad Lerner, Alan Friedman, Giovanna Botteri, e tanti altri. Alcuni di questi sono tuttora latitanti, altri hanno fatto buon viso a cattivo gioco, schierandosi con il nuovo presidente americano. Altri, come Saviano, insistono nell’attaccare il nuovo presidente americano. Massimiliano Greco. Nato a Siracusa, si occupa prevalentemente di politica estera e strategia. Ha scritto "Battaglia per il Donbass" (Anteo Edizioni, 2014) 

La sparata del renziano: "Trump? Il suffragio universale è un problema". Fabrizio Rondolino, giornalista de l'Unità e renziano di ferro, critica il popolo americano per aver votato Donald Trump alle ultime elezioni americane, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 09/11/2016, su "Il Giornale". "Il suffragio universale comincia a rappresentare un serio pericolo per la civiltà occidentale". Quando il popolo vota qualcuno di sgradito alla sinistra, questa si riscopre elitaria e dimentica la democrazia. Anzi: la cancella. Era già successo con la Brexit, quando commentatori e giornalisti cominciarono a dire che quello degli inglesi era stato un errore, che gli elettori non erano informati, ignoranti, di pancia, populisti. Si sta ripetendo oggi con l'elezione di Donald Trump. In toni ancor più drammatici. Fabrizio Rondolino, giornalista dell'Unità e renziano di ferro, si è lasciato andare ad un indefinibile commento su Twitter. E immaginiamo che in molti a sinistra abbiano pensato lo stesso, senza però trovare il coraggio di metterlo per iscritto: "Il suffragio universale comincia a rappresentare un serio pericolo per la civiltà occidentale". Da una conquista ad un problema, ecco. Addio democrazia. Per i sinistri vince l'ignoranza quando trionfano i candidati a loro sgraditi, quando gli eletti escono dai rigidi binari del politicamente corretto su cui fanno correre i loro treni "certificati" dal bollino di (falsa) democrazia. Sui social network si è ovviamente scatenata l'ironia contro Rondolino. Qualcuno ha preso di mira anche la campagna referendaria per il Sì: il giornalista infatti ha come immagine del profilo Twitter proprio un invito ad approvare la riforma di Renzi. "Ecco perché vogliono il Sì - dice qualcuno - così sarà l'ultimo voto che darete". "Per Rondolino non dovremmo più votare", aggiunge Mario. È la nuova sinistra, bellezza. Quella che si è da tempo tolta la tuta da lavoro per vestire il tailleur radical chic. Oggi più che mai sotto choc.

Quell'ondata di disprezzo per chi ha scelto Trump. La sinistra dà la colpa agli elettori americani: "Ignoranti", "Pericoli dal suffragio universale", scrive Paolo Bracalini, Venerdì 11/11/2016, su "Il Giornale". Dopo essere stati per otto anni (con Obama) un popolo illuminato, gli americani sono tornati di colpo una massa di bifolchi. Perché mai hanno votato Trump e non la Clinton? La risposta più accreditata nell'intellighenzia liberal all'italiana è che gli elettori Usa, in maggioranza, sono purtroppo degli ignoranti. L'ex direttore del Tg1 (in quota Prodi) Gianni Riotta porta a supporto delle cifre: «Elettori maschi bianchi non laureati Trump 72%, Clinton 23%». Chi non ha studiato vota Trump, quelli più intelligenti i Democratici. Analisi peraltro fornita dalla stessa Hillary Clinton, che in un comizio prima del voto definì «un branco di miserabili» gli elettori del tycoon, e nel discorso dopo la sconfitta ha salutato i suoi come «la parte migliore dell'America». L'antica sindrome della superiorità morale. Anche se la «parte peggiore» della società, però, coincide con l'elettorato a cui dovrebbe parlare la sinistra: gli operai, la classe media, «i minatori della West Virginia». Che invece vengono citati, con evidente disprezzo, come simbolo dell'americano medio ottuso e razzista nell'articolo di Repubblica sulla volgarità della famiglia Trump, anzi del «clan Trump» o «tribù dei Trump», descritti come una famiglia di cafonazzi interessati solo a soldi e sesso: «Al seguito del padre padrone la slovena Melania con spacco davanti, l'altra figlia Tiffany concepita mentre papà era sposato con la mamma di Ivanka - scrive travasando bile il corrispondente del quotidiano di De Benedetti, Vittorio Zucconi - Un presepe nel quale si potrebbe andare a spulciare su chi andasse a letto con chi e perché. Questa dei Trump è una versione da tv pomeridiana per casalinghe disperate dell'Oklahoma e per minatori della West Virginia». Quei buzzurri senza laurea che hanno portato Trump alla Casa Bianca. «Trump è il simbolo dell'America profonda, quella cafona, tracotante e ignorante che non legge giornali né libri» spiega anche Roberto Saviano, che però consiglia di farci l'abitudine: «è un'America con cui comunque bisogna misurarsi». Il problema è all'origine, nel fatto che questi hanno diritto di voto. Lo segnala l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sull'Unità: «Siamo davanti a uno degli eventi più sconvolgenti della storia del suffragio universale. Qualche volta l'esito di votazioni a suffragio universale è stato anche foriero di gravissime conseguenze negative per il mondo» scrive Napolitano. Riflessioni che nascono sempre quando il suffragio universale fa vincere candidati non di sinistra, altrimenti anche il voto degli ignoranti è prova di saggezza. Sempre su Repubblica Francesco Merlo, collaboratore a peso d'oro della Rai, racconta un incubo: «Trump è il remake di Buffalo Bill che stermina gli indiani, la tradizione razzista rivendicata come la verità dell'America, è una carogna per bene, il gangster al servizio della legge». Va forte anche l'ironia sul colore dei capelli di Trump, sfottuto da chi si indignava per la minima battuta su Obama. L'arancione è volgare, il nero invece fa chic.

Non solo maschi bigotti. Quanti errori e bugie sugli elettori di Donald. Altro che America rurale, tra i sostenitori anche ispanici, donne e il 45% dei laureati, scrive Manila Alfano, Venerdì 11/11/2016, su "Il Giornale".  Il popolo che ha scelto Trump oggi si vede già diverso. Diverso perchè non era mai stato capito, forse neppure tanto studiato. Liquidato come «la pancia del Paese», gli arrabbiati, i delusi e gli astiosi, quelli lasciati fuori. Gli analisti li avevano descritti come una categoria piuttosto semplice: per lo più maschi, rabbiosi, sessisti, bigotti e ignoranti. E invece no. Non solo. Non solo loro. Oggi, che a sventolare le bandierine della vittoria sfilano famiglie con bambini, studenti, tanti uomini e donne di mezza età, ci si accorge che esiste una realtà ben più stratificata e complessa. Il voto per Trump non è stato di impulso e di rabbia. L'America che ha scelto l'imprenditore con il sogno della politica non è solo quella becera e depressa. Chi ha scelto il Tycoon è perchè lo ha voluto. Ci ha ragionato e lo ha preferito alla Clinton. Lei che evidentemente non è riuscita a trascinare i giovani, i latinos o gli afroamericani, le donne, lei che sarebbe dovuta essere l'erede di quel sogno americano democratico, non ha convinto. Certo, non si può dire che non la abbiano preferita a Trump, anzi. Ma non lo hanno fatto in massa, è mancato il sostegno decisivo e fondamentale, non sono tornati i numeri che sì, avrebbero fatto la differenza. È mancato l'entusiasmo e la convinzione, tanto che in Stati che non dovevano neanche essere indecisi ma clintoniani si sono scoperti a favore di Trump. A eleggere il 45esimo presidente degli Stati Uniti d'America non sono stati solo i rozzi e gli operai, a volerlo alla Casa Bianca si è mobilitata la «working class» bianca che ha pagato il prezzo più alto di una delocalizzazione industriale che in 35 anni ha ridotto del 36% i posti di lavoro nel manifatturiero nella quale Trump è riuscito a vincere 7 voti su 10 tra gli uomini la cui istruzione si è fermata alla scuola dell'obbligo o alle superiori, ma anche la middle class. Secondo l'Economist i laureati con o senza master che l'hanno votato sono molti più di quelli che i sondaggi avevano contato, così come nelle aree metropolitane i suoi supporter sono molti di più delle aspettative. Per non parlare delle aree rurali che i sostenitori di Trump toccano cifre da record: 92 per cento. Pro-Trump anche la maggioranza dei cittadini dai 65 anni in su, categoria che ha visto negli ultimi anni un forte incremento della propria precarietà. Infine, hanno influito indirettamente anche fenomeni di natura razziale. Innanzitutto un calo di 5 punti percentuali nella partecipazione al voto degli afro-americani, i quali con le loro proteste pre-elezioni hanno alimentato le ansie nei cittadini bianchi. Anche l'elettorato latino-americano ha sì supportato Hillary, ma non nelle proporzioni che ci si aspettava e il 29% del voto «hispanic» è andata comunque a Trump. E poi, chi ha scelto Trump è perchè si è sempre sentito fuori dal sistema. Fuori dal consorzio politico. E ha voluto dire: al diavolo la vecchia classe politica, il cosiddetto establishment. Vecchie lobby di potere addio. Chi ha scelto Trump ha voluto chiarire anche questo. Oggi, falliti i sondaggi, le previsioni, le analisi bisogna riconoscere il peso di questo popolo che fino ad ora è stato snobbato. A differenza di Obama, Hillary Clinton è una donna che qualsiasi americano associa automaticamente con un establishment economico e finanziario discreditato. Insomma, c'è un popolo che aspetta solo di essere scoperto. E capito.

Il delirio degli irriducibili che ora schiumano rabbia. L'ascesa del «gorilla» Trump scatena lo psicodramma della sinistra chic: una catastrofe peggio del terremoto, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 10/11/2016, "Il Giornale". È in corso un vero dramma tra i democratici italiani dopo la tranvata clamorosa arrivata dagli Usa. Giornalisti liberal filo Pd, tifosi della Clinton, «esperti» di politica americana (col cuore a sinistra) che dopo aver twittato pronostici trionfali di vittoria e insulti al «gorilla» Trump sono spariti dai radar, generando profonda ansia tra i loro follower. «Qualcuno ha notizie di Vittorio Zucconi?» si chiedono su Twitter, in attesa che il corrispondente di Repubblica dia segni di vita, dopo aver descritto per giorni il tycoon come un troglodita sessuomane («Hillary sa cosa sono i codici nucleari. L'altro pensa che siano numeri di telefono di modelle e starlet disponibili»). Compatibilmente col fuso orario, Zucconi poi riappare, afflitto per la discesa nel baratro degli Usa come tutti gli altri vedovi inconsolabili della stagione Obama. Tipo Beppe Severgnini, americanista (ma anche anglista) del Corriere traumatizzato dopo la valanga Trump. Consegnare a lui l'America, assicurava Severgnini, «è come affidare lo Space Shuttle a un gorilla», a nessuno verrebbe in mente. Tranne agli elettori americani. A questo punto, l'unica è pregare: «God bless America - twitta la penna brizzolata - Dio benedica l'America. E, già che c'è, butti un'occhiata a tutti noi...». Lapidario Carlo De Benedetti, l'imprenditore tessera numero uno del Pd: «Trump è un imbroglione, dice di valere due miliardi di dollari ma ne vale 200 milioni». Dopo le magre figure fatte con la Brexit, ripetersi con le presidenziali Usa non è il massimo. Fortuna che almeno Gad Lerner ha un capro espiatorio cui attribuire la cantonata pubblicata sul suo sito alla vigilia del voto: «Dieci motivi per dormire ragionevolmente tranquilli e svegliarsi senza Trump». La profezia diventa virale sui social, che sbeffeggiano Lerner (nuovo acquisto della RaiTre a guida Bignardi), finché il giornalista è costretto a intervenire, scaricando la colpa sul giovane collaboratore («Di previsioni sbagliate ne ho collezionate parecchie - scrive a Dagospia - ma questa va invece attribuita al suo legittimo autore, bravo e in questo caso sfortunato: il mio amico Andrea Mollica»). In pieno shock, con sintomi evidenti, la deputata Pd Ileana Argentin che la spara grossa: «Questa elezione è una tragedia, non potevamo avere una notizia più brutta, dev'essere che il 2016 è un anno bisestile. Incredibile, una disgrazia dopo l'altra. Per me l'elezione di Trump è peggio del terremoto francamente» azzarda la parlamentare Pd, prima di affrettarsi a precisare - dopo le polemiche sul paragone col sisma - che «i terremotati sono nel mio cuore, non si può strumentalizzare quel che ho detto». Effetti collaterali della vittoria di Trump sui nervi sensibili della sinistra italiana. Tradita ancora una volta dai sondaggi, pompati dai media amici. «Tiè, beccate sta sventagliata blu» (il blu è il colore dei Democratici Usa) ha twittato improvvidamente Filippo Sensi, portavoce del premier Renzi, davanti ai primi exit poll che sembravano confermare la mappa del voto favorevole alla Clinton. Tutto sbagliato. Mancava l'esperienza di Walter Veltroni, un altro democratico listato a lutto per Trump alla Casa Bianca. L'ex leader del Pd, sull'Unità, aveva consigliato prudenza: «I sondaggi ormai sono cinquine al lotto». Quel che è certo, spiegava Veltroni, è che la sua vittoria sarebbe una catastrofe planetaria: è «il candidato più estremista che sia mai apparso sulla scena delle elezioni americane», con lui si apre «una grave crisi delle sue istituzioni democratiche», tanto che Veltroni sente ormai chiaramente «scricchiolare la democrazia», nientemeno. La soluzione? Il renziano Fabrizio Rondolino, nell'attesa, individua il problema: «Il suffragio universale comincia a rappresentare un serio pericolo per la civiltà occidentale». Luciana Littizzetto, comica politicamente schierata e profumatamente retribuita dalla Rai, sente invece altri tipi di rumori, visto che pubblica - con la consueta eleganza - la foto di un gabinetto con il volto di Trump sul muro e un water al posto della bocca del tycoon: «Questo è quello che ci riserva il futuro, buongiorno un corno». Messaggio quantomeno più incisivo di quello di Laura Boldrini, che si dice «sorpresa per l'esito del voto negli Stati Uniti», ma da femminista ci tiene ad assicurare che «Hillary non è stata sconfitta perché donna ma perché percepita come espressione dell'establishment». Si consola invece, con una lettura originale, l'ex piddino Stefano Fassina, convinto che la vittoria di Trump è «la vittoria degli operai contro il neoliberismo». Convinto lui. Meglio così che inconsolabili.

Feltri umilia Severgnini e sinistri: "Piangete per Trump, ecco chi mi sembrate", scrive “Libero Quotidiano" il 10 novembre 2016. "Tutti attaccavano Donald Trump per lo stile sgangherato più che per quello che diceva, e lì ho capito che avrebbe vinto perché intercetta meglio degli altri la gente comune, sa parlare a questa gente a differenza di una signora, Hillary Clinton, che parla solo ai loro amici". Vittorio Feltri, intervistato da Pietro Senaldi, commenta così il suo editoriale "preveggente" del marzo scorso sul Giornale, quando solo tra i giornalisti italiani osava predire un futuro da presidente per il vulcanico tycoon candidato repubblicano. Gli americani dopo la bolla del 2008 non si sono mai veramente ripresi, osserva Feltri, "proprio come noi e infatti in Italia Trump avrebbe vita facile". Un pensiero anche per tutti gli opinionisti di sinistra, da Severgnini a Rondolino a Riotta, che gridono ora alla "crisi della democrazia occidentale": "Tutti signori che volevano il socialismo reale e la democrazia sovietica, volevano Stalin e ora criticano Trump. Sono come quei bambini che se non giocavano in attacco portavano via la palla". La verità è che la gente è stanca e irritata di politicamente corretto, apertura totale agli stranieri, trascurare i cittadini indigeni a favore degli extracomunitari, e quando c'è da votare si vedono i risultati.

Vittorio Feltri l’11 novembre 2016 su "Libero Quotidiano": "Donald Trump ha vinto perché conosce i bisogni della gente". I sondaggi si sono rivelati sbagliati. I commentatori, inclusi quelli italiani, hanno preso lucciole per lanterne. Nessuno aveva capito dove andava e che cosa cercava l’America. Molti dei nostri più illustri (sulla carta) politologi in pratica sono andati fuori pista. La vittoria di Donald Trump era data come improbabile e, invece, è arrivata netta è indiscutibile. Perché? L’analisi del successo repubblicano non è difficile. La gente oggi quando vota non si ispira alle ideologie ma alle esigenze della tasca. Dà il suffragio a chi ritiene possa fare il suo interesse. Così è stato negli Usa e così sarà in Italia allorché verrà il momento (se verrà) di recarsi alle urne. I democratici della signora Clinton vivono in un altro mondo rispetto a quello di Trump, il quale parla dalla tribuna come tu parli a casa tua, in scioltezza, dicendo quello che pensi e non quello che supponi piaccia a chi ti ascolta. Donald sarà anche un coglione ma non è un finto coglione. Mentre Hillary è una finta intelligente e un’autentica oca. Ovvio che in un confronto tra i due risulti più credibile il primo è prevalga in caso di elezione. Lui maneggia con disinvoltura la materia economica perché vi è immerso quotidianamente, conosce le aspettative del popolo e i suoi problemi legati alla sopravvivenza. La sua avversaria poverina blatera, ripete con ossessiva insistenza i luoghi comuni del politicamente corretto per compiacere i sedicenti intellettuali, gente distante un chilometro dalla cruda realtà. Già. Gli intellettuali. Persone insensate che si sentono superiori al prossimo solo perché discutono tra loro con l’intento di darsi ragione l’una con l’altra. Chi dissente è un buzzurro e va escluso dalla élite degli idioti intelligenti per autoproclamazione. Lo stesso individuo se vota a destra (semplifico) è un tipo spregevole, ignorante e cafone, se invece vota a sinistra si trasforma per incanto in un cervellone. Ma in cabina elettorale, dove nessuno ti vede, fai quel cavolo che vuoi. Nessuno ti giudica. Pertanto è tutto più facile: dai la preferenza a Trump e una volta tracciata la croce sul suo nome ti liberi da ogni imbarazzo e fai il gesto dell’ombrello. Tiè. Ecco giustificato o almeno spiegato il trionfo di Donald. Che nessuno aveva previsto? Non è vero. Qualcuno - pochi - lo avevano ipotizzato. Per esempio io. Che nel marzo di quest’anno scrissi un articolo sul supplemento del Giornale in cui annunciavo la vittoria di Trump, convinto come ero che gli americani avrebbero apprezzato i suoi discorsi anticonformistici pronunciati in un linguaggio terra terra. Non avevo torto. Non mi do per questo delle arie, per carità. Ma ripropongo oggi quel mio pezzo ai nostri lettori affinché verifichino che non racconto balle. Il titolo era: «E io vi dico perché più odiano Donald e più ce la può fare». Non sono un profeta. Ma solo un orbo nel Paese dei ciechi. Di Vittorio Feltri

I razzisti chic che ora negano il diritto di voto. In America scendono in piazza contro Trump e in California c'è voglia di secessione. In Italia la sinistra vuole abolire il suffragio universale e insulta gli elettori bianchi, scrive Salvatore Tramontano, Venerdì 11/11/2016, su "Il Giornale".  Il voto non è più un diritto per tutti. Messa così sembra lo slogan di qualche gruppo reazionario che sogna di asfaltare le battaglie democratiche del Novecento. Solo che questa volta i nemici del suffragio universale sono mascherati da progressisti, perlomeno è così che si definiscono. Vivono nel cuore delle grandi metropoli, occupano le cattedre delle università, scrivono romanzi e saggi di un certo successo, sono ospiti fissi nei programmi di opinione in tv e si tengono stretti come feudi gli spazi in prima pagina di ciò che resta dei giornali. Sono ex capi di Stato e politici che straparlano in pubblico dei diritti delle minoranze. Sono chef, rockstar, integralisti vegani, donne impegnate in ogni festa per i diritti civili, banchieri illuminati, attori con il grugno preoccupato per le sorti della nazione. Questo vale negli Stati Uniti, in Europa e naturalmente anche in Italia. Certe cose fino a qualche tempo fa le buttavano lì, tra di loro, come provocazione: certa gente non dovrebbero farla votare. Come a dire che la democrazia sta diventando pericolosa e ci vorrebbe una patente di sana e robusta costituzione o almeno un esame di idoneità. Adesso sono sbottati e si scagliano con rabbia e fastidio contro quello che marchiano come l'elettore tipico di Donald Trump, quello con cui Alessandro Baricco cerca di intavolare un dialogo, il famigerato proprietario di una ferramenta del Wyoming. Chi è questo sconosciuto? È bianco, è cristiano, è frustrato, deluso, di cultura populista e popolare, invidioso delle élite, malfidato, se è donna tutti stanno lì a precisare che non ha studiato e sotto sotto è masochista, visto che tradisce il suo genere votando il maschilista con il gatto rosso in testa. Sono insomma degli incivili. Ma soprattutto - come spiega il presidente emerito Napolitano su L'Unità - sono pericolosi. Sono gli stessi della Brexit, gli stessi che lo hanno costretto quando era al Quirinale a mettere in quarantena le elezioni. Fino a quando questa gente voterà è meglio che a scegliere chi governa sia un vecchio oligarca che si è appropriato di un potere extracostituzionale. Ecco allora i tre premier nominati senza passare dal voto. Al suo coro si accoda ora proprio uno dei tre, quell'Enrico Letta che intervistato dalla Stampa canta il de profundis alla democrazia di tutti. Ezio Mauro su Repubblica si interroga sulla malattia del tempo, sui «forgotten men» che si lasciano incantare dal pifferaio Trump, una nuova schiatta, una nuova razza, il dio sconosciuto della democrazia a stelle e strisce. E il peccato originale di questi guastatori della cultura dominante è il loro essere fuori dai radar non solo del potere, ma anche del marketing, dei sondaggisti, di sociologi ed economisti. È un branco fuori dal branco. L'errore che gli oligarchici fanno è liquidarli con disprezzo senza neppure cercare di capire le ragioni del loro malcontento. Anche se molti di loro sono operai senza più fabbriche e classe media senza più futuro. Questo perché con la Brexit e con Trump è emersa la grande ipocrisia della sinistra occidentale: non sa capire il popolo perché è convinta che puzzi. Sono passati cinquant'anni da quando Martin Luther King e il presidente Lyndon Johnson lottarono per eliminare gli ultimi ostacoli al suffragio universale. Era il 1966 e due sentenze della Corte suprema stabilirono che poteva votare anche chi non aveva un'istruzione minima. Era una battaglia per i neri e contro il razzismo. I finti democratici del 2016 stanno di fatto sostenendo che chi non ha la loro stessa cultura non dovrebbe votare. Non arrivano a cambiare le leggi ma stanno portando avanti una campagna diffamatoria contro i bianchi, cristiani, poco istruiti. È una delegittimazione a posteriori. È un marchio sulla pelle. È una forma ipocrita di razzismo. È la morte della democrazia.

Ora gli anti Trump invocano persino una "Primavera araba". Mentre continuano le proteste contro il nuovo presidente Usa, islamici e Fratelli Musulmani chiedono una Primavera araba. E una giornalista evoca "un assassinio presidenziale", scrive Giovanni Giacalone, Sabato 12/11/2016, su "Il Giornale". L’esito elettorale statunitense non va proprio giù all’“hummus” anti-Trump, a livello nazionale ma anche globale. La Clinton e i suoi sostenitori apparivano sicuri della vittoria, probabilmente non avevano messo in conto una possibile sconfitta, come del resto non l’avevano fatto i sondaggisti, i media e gli “esperti” che davano Trump per spacciato. Una doccia fredda inaspettata e una forte delusione che traspariva durante il discorso della Clinton davanti ai suoi elettori, anche perché la candidata democratica non ha soltanto perso, ma ha subito una pesante sconfitta, perdendo entrambe le camere, ora a maggioranza repubblicana. Ovviamente adesso c’è chi accusa il sistema dei Grandi Elettori per la sconfitta della Clinton, appigliandosi a statistiche che lasciano il tempo che trovano e che probabilmente non sarebbero state tirate in ballo se avesse vinto la candidata democratica. Le reazioni degli anti-Trump sono risultate eloquenti fin da subito, quando migliaia di manifestanti sono scesi per le strade di molte città americane con modalità, coordinazione e tempistiche che destano serie perplessità in quanto alla natura spontanea del fenomeno, per protestare contro il risultato delle elezioni. Un vero e proprio caso di estremismo politico violento su vasta scala. Invocando “inclusione”, “tolleranza”, “anti-islamofobia”, “abbattimento dei muri”, i manifestanti hanno distrutto auto, appiccato incendi, lanciato bastoni incendiari contro le forze di polizia, bloccato strade, defecato e urinato su immagini del neo-eletto Trump. Ovviamente tutto in nome dell’“antifascismo” e nel rispetto della democrazia. In poche parole, il meccanismo elettorale va bene, ma soltanto se l’esito li soddisfa. L’elezione di Donald Trump fa paura, ma non per la retorica elettorale utilizzata dal candidato e, a quanto pare, risultata vincente. Trump fa paura per le sue posizioni e per le possibili ripercussioni a livello globale che rischiano di stravolgere totalmente asset e meccanismi dimostratisi deleteri su scala globale: l’immigrazione illegale e incontrollata (che come definito dallo stesso Buzzi, è più redditizia del traffico di droga), la degenerazione dei rapporti con la Russia (unico paese che ha preso misure serie ed efficaci per contrastare il terrorismo islamista), la crisi in Ucraina, l’allargamento della NATO a oriente e la disastrosa campagna a favore delle “Primavere Arabe” che non ha soltanto rischiato di portare al potere gli islamisti, ma che ha devastato paesi come Siria, Libia e in maniera minore l’Egitto. Non è certo un caso che Mamdouh al-Munir, membro della Fratellanza Musulmana egiziana, ha definito l’elezione di Trump “un disastro” per il mondo arabo e islamico. Ora, che per i Fratelli Musulmani la sconfitta della Clinton sia una catastrofe non è certo “segreto di pulcinella”, tanto che venne contestata in piazza al Cairo durante la rivolta anti-Morsy. Quello che fa invece sorridere è come al-Munir allarghi la “catastrofe” a tutto il mondo arabo-islamico, appropriandosi così di una rappresentatività che di certo non appartiene all’organizzazione islamista radicale. Nel frattempo alcuni segnali interessanti emergono sul web: in primis, in concomitanza con le rivolte violente in strada nella notte dell’esito elettorale, appariva su Craigslist, database molto popolare negli Stati Uniti che ospita annunci dedicati al lavoro, eventi, acquisti, incontri e quant’altro, un annuncio pubblicato a Seattle per “combattere l’Agenda Trump”, fatto già ampiamente documentato da Occhi della Guerra ieri. Sempre ieri, il sito dell’analista Daniel Pipes mostrava un tweet, alquanto controverso, pubblicato da Hussam Ayloush, leader del CAIR (organizzazione islamista con base in Usa e ritenuta vicina ai Fratelli Musulmani) nella notte del 9 novembre, proprio in concomitanza con l’esito del voto e le manifestazioni di strada: “Ok, repeat after me: Al-Shaab yureed isqat al-nizaam”. Trattasi di uno slogan delle Primavere Arabe: “Il popolo vuole buttare giù il regime”. Un altro fatto, decisamente più grave, è quello di Monisha Rajesh, giornalista presso il britannico Guardian, che in un tweet invoca un “assassinio presidenziale”: “It's about time for a presidential assassination" (è giunto il momento per un assassinio presidenziale). Il tweet era diretto a un altro giornalista, Mark C. O’Flahery che risponde: "haaaa – that's all we’ve talked about for the last hour" (haaa-abbiamo parlato solo di questo nell’ultima ora). Gli account Twitter e Facebook della Rajesh risultano attualmente disabilitati ma il fatto resta di una gravità inaudita.

Trump è anche dentro voi che lo detestate, scrive Vittorio Sgarbi, Sabato 12/11/2016, su "Il Giornale".  Il Trump che è in noi? In ognuno è facile trovarlo. A partire da tutti i suoi antagonisti. Come è facile vederlo nell'arroganza patetica e senile di De Niro, che lo sfida, che lo minaccia! Lo faccia ora; e inizi a picchiare tutti gli americani che hanno votato Trump. Madonna può esibire il Trump che è in lei, mantenendo la sua promessa sessuale con quelli che hanno votato (l'hanno pur fatto) per Hillary, come premio di consolazione. Ed è il Trump che è in Cher che le ha fatto dire: «Se vince lui sarò costretta a lasciare il pianeta». Lo lasci, lo lasci, anche per aver superato i limiti di età. E il Trump gigante che è in Lady Gaga, mentre abbraccia l'assassina, vecchia guerrafondaia, Hillary? Gaga dimentica che, per ora, Trump non ha ucciso nessuno, in Iraq e in Libia, lasciando bambini senza madri e madri senza bambini. E il Trump che è nella faccia di Obama, mentre stringe davanti al mondo la mano al nemico, con evidente razzismo antropologico? Dal basso, dove ora sta, mostra di guardarlo dall'alto del suo decoro di torturatore di Guantanamo. Perché dobbiamo riconoscere che il nero è superiore al bianco. Rassegniamoci. Hillary infatti era nera dentro. E abbiamo dimenticato il Trump che era in Grillo quando chiamava Veronesi, sì il santo laico Veronesi, «Cancronesi»? E il Trump che è in Renzi quando rottama tutti i «compagni», e sorride a Enrico Letta, mentre lo accoltella? Trump è impresentabile perché parla di donne, ed è sessista con donne consenzienti; mentre i sederi esibiti al Gay pride sono asessuati, sfere celesti, puro spirito. Tra mille dichiarazioni ipocrite, il Fatto ci regala alcuni pensieri perfetti di Clint Eastwood, da sparare in bocca a De Niro: «Trump dice anche cose sbagliate, ma riesco a capire da dove viene e ciò che vuole»... «Trump è la scelta migliore per gli Usa: basta politicamente corretto, lui dice ciò che pensa in un paese di leccaculo». Chiunque può vedere Trump nel governatore De Luca, nel suo stile, di fronte all'Hillary italiana, Rosi Bindi, che lo accusa di corruzione, approfittando della carica di presidente dell'Antimafia, conquistata senza combattere (soprattutto la mafia). Finalmente ognuno può scatenare il Trump che è in lui, e attaccarsi al Trump. C'è invero qualche resistenza, in chi preferisce prudentemente risparmiarsi ed essere debolmente reattivo. Ecco: non c'è traccia di Trump in Mattarella che, sapientemente, dichiara: «Dobbiamo impedire che in Italia parti di territorio possano diventare non luoghi. Scrive Marc Augé che la ricostruzione dei borghi antichi è l'antidoto alla fine culturale dell'Europa. E l'integrità di un luogo si difende anzitutto restituendogli la vita nella sua pienezza, non solo salvaguardandone la memoria ma restituendogli vita». Tutto vero, tutto giusto. Ma cosa c'entra Marc Augé? Chi ha portato a Noto Mattarella per vedere la Cattedrale ricostruita? Chi ha sempre predicato la ricostruzione «dove era e come era» per il Teatro La Fenice, per il Teatro Petruzzelli, per i luoghi travolti dai terremoti, in quel parlamento di cui era silente membro Mattarella? Sono stato io, metodicamente e tenacemente. E allora perché citare, con elegante distacco, Augé? Perché non Vito Teti o Carlo Petrini? Noi i «non luoghi» li abbiamo fatti tornare luoghi. E Mattarella lo sa, ma non lo dice. Risponde Clint: «Sono stufo del politicamente corretto. Questo non si fa, questo non si dice. Certi politici si muovono come se camminassero sulle uova. Quando ero giovane io, certi argomenti non erano tabù e non erano considerati razzisti». Lady Gaga che protesta: «L'amore batte l'odio», con le donne pacifiste che gridano, rimpiangendo la guerrafondaia Hillary «un sogno infranto che ci sbarra la porta». Ma a chiudere la Nato, a interrompere i bombardamenti, a smetterla di uccidere innocenti, sarà Trump. Ridicoli, ipocriti.

Ma i veri arrabbiati hanno scelto Donald. Criticato, denigrato e scorretto ma Trump è portavoce di una generazione intera, scrive Stenio Solinas, Sabato 12/11/2016, su "Il Giornale". Non essendo miliardario, non guardando i reality show, non potendo evadere le tasse nemmeno volendo, non avendo per moglie una ex modella, ma avendo, magra consolazione, sufficienti capelli bianchi e neri per evitare ogni discutibile riporto colorato, Donald Trump non è il mio tipo ideale e politico. Però, senza essere americano, altro elemento non secondario, da ragazzo sono stato un lettore ammirato di John Steinbeck e di William Faulkner, i cantori di quell'America povera e disperata in fuga dalla Grande depressione, i contadini dai «colli rossi», i proletari, la classe operaia che la crisi del '29 colmava di disperazione e di rabbia, l'urlo e il furore della loro protesta, la dignità amara di chi aveva perduto tutto e sognava un'impossibile rivolta sociale. E siccome sono i loro eredi del Duemila che compongono «l'esercito di Trump», i perdenti della globalizzazione in cerca di riscatto, è evidente che il fenomeno Trump va ben al di là del personaggio Trump. Il non averlo capito, il non capirlo, il non volerlo capire, provoca un curioso effetto di straniamento. I poveri divengono ipso facto brutali, la gente semplice, una massa incolta, i pensionati una categoria rancorosa, i disoccupati gente che non vuole lavorare. La grande stampa progressista e ben pensante, buonista e politicamente corretta, quella che ha sempre sulle labbra e sulla penna una parola dolce per gli umiliati e gli offesi, si accorge d'improvviso che gli umiliati e gli offesi puzzano, e non ne sopporta l'odore. Diciamoci la verità, quella messa in atto contro Trump è stata una vera e propria «macchina del fango»: la moglie dipinta come una troia (non era politicamente corretto, ma andava bene lo stesso), per di più immigrata clandestina, lui come un maniaco sessuale (vecchi video riciclati come nuovi, testimonianze tardive di pizzicotti e complimenti spinti), il suo partito come pronto ogni due per tre a farlo fuori, il suo elettorato come un insieme di utili idioti complessati. Sessanta milioni di americani, già. Si badi bene, tutto questo avveniva avendo come contraltare non Madre Teresa di Calcutta, ma una delle donne e delle famiglie più potenti d'America, la consorte di un presidente a suo tempo sì predatore sessuale, quella che come segretario di Stato fu tra le artefici del disastro libico, la maneggiona che tramite il Comitato nazionale democratico boicottava il rivale Bernie Sanders in corsa per la nomination, la donna dalla più ricca campagna presidenziale della storia... Se era questa la sinistra democratica, ci si sorprende che abbia vinto la destra? Però, «è così volgare» sospirano i profondi conoscitori degli States (infatti, si è visto...), nonché i vedovi della Clinton e di Obama, anzi degli Obama: come dimenticare «l'orto di Michelle». Più che un giudizio estetico è un pregiudizio da estetista, nel senso di salone di bellezza. Ed è curioso che provenga da quel mondo intellettuale che ha sdoganato ogni estetica del brutto, che va in visibilio per ogni rottame artistico, che applaude ogni «provocazione» (la chiama così) dell'arte contemporanea, che al cinema si esalta con lo splatter, l'eccesso, il cattivo gusto, che non disdegna il porno, i sexy shop e naturalmente legge il marchese de Sade. Irridono all'esteriorità di Trump, senza accorgersi di quanto Donald ci sia dentro di loro. Piaccia o no, Trump in America vuol dire populismo e per quanto in Europa ci si affanni a definire il populismo una patologia della politica, un'altra incarnazione del fascismo, insomma, bisognerebbe cominciare a chiedersi il perché di questa rivolta contro le élites, le classi dirigenti, l'establishment. Quanto cioè quest'ultime rappresentino ancora qualcosa di valido, in grado di dare una risposta che vada oltre se stesse, il loro potere, il mantenimento del loro potere. A rischiare di divenire una patologia è semmai il continuare a definire di destra e di sinistra gli schieramenti in campo, basandosi su una dicotomia che non corrisponde più alla realtà. Il «destrista» Donald è stato a suo tempo un supporter dei Clinton, la «sinistra» (ahimè in tutti i sensi) Hillary trasuda finanza e privilegi da tutti i pori. La vera partita si gioca fra i teorici della globalizzazione e i loro critici e avversari, tutto il resto è fuffa e noia. La fuffa e la noia con cui la stampa del Giornalismo Collettivo Egemone e Permanente riempie quotidianamente le sue pagine e che, essendo composto di analfabeti, l'«esercito di Trump» comunque non legge.

Trump duro con i clandestini? Obama ne ha espulsi 2,5 milioni. Trump annuncia: "Caccerò via 3 milioni di clandestini". La sinistra si indigna. Ma lo ha fatto anche Obama. E nessuno ha mai detto nulla, scrive Sergio Rame, Lunedì 14/11/2016, su "Il Giornale". La sinistra insorge. Tuona - ancora una volta - contro Donald Trump. A fare infuriare benpensanti e progressisti è stata l'intervista a 60 minutes della Cbs in cui il neo presidente degli Stati Uniti ha confermato il pugno duro contro gli immigrati clandestini. Ha promesso che ne caccerà due-tre milioni. E, mentre i democrat si stracciano le vesti, il professor Niels W. Franzen, direttore di "Imigration clinic" della University of South Carolina, smonta il teorena del repubblicano "brutto e cattivo". "la presidenza Obama è stata una delle più severe in questo senso - spiega alla Stampa - con oltre 2,5 milioni di deportati dal 2009 al 2015". "Quello che faremo è buttare fuori dal Paese o incarcerare le persone che sono criminali o hanno precedenti criminali, membri di gang, trafficanti di droga". Il provvedimento, annunciato in campagna elettorale e confermato ieri sera ai microfoni della Cbs, colpirà "due o tre milioni" di immigrati che risiedono clandestinamente negli Stati Uniti, ma non sarà la sola misura che verrà adottata da Trump. Verrà poi rafforzata la barriera anti immigrati, che divide gli Stati Uniti dal Messico, con alcune parti in muratura e altre in recinzione. "In alcune aree il muro è più appropriato - spiega il neo inquilino della Casa Bianca - sono molto bravo in questo, vale a dire nelle costruzioni, ci possono essere alcune recinzioni". I progressisti hanno subito storto il naso. Peccato che in tema di immigrazione non dicano come le cose stanno veramente. Innanzitutto il muro tra gli Stati Uniti e il Messico non è stato costruito dai repubblicani, ma da Bill Clinton nel 1994. In secondo luogo, nemmeno Obama premio Nobel per la Pace è mai stato tanto tenero con i clandestini. "Gli Stati Uniti - spiega Franzen sulla Stampa - attualmente deportano tra i 300 e i 400mila clandestini ogni anno, la presidenza Obama è stata una delle più severe in questo senso con oltre 2,5 milioni di deportati dal 2009 al 2015. Al netto di coloro che sono stati fermati al confine. Quindi i meccanismi sono già oliati da un punto di vista tecnico". 

Un muro che esiste già, scrive Francesco Manta il 13 novembre 2016 su “Gli Occhi della Guerra”. Uno dei punti chiave della campagna elettorale sui quali si è accanita l’anti-propaganda del mainstrem mediatico internazionale è la costruzione del famoso muro di separazione sul confine tra gli Stati Uniti ed il Messico, secondo una aggressiva logica di limitazione dell’immigrazione clandestina verso il Paese a stelle e strisce. Proprio oggi è stata infatti diffusa la notizia di alcune dichiarazioni del nuovo Presidente americano sull’espulsione dal Paese di oltre tre milioni di immigrati clandestini, così come sono stati fatti dei riferimenti circa la realizzazione di questo muro. La realtà dei fatti è abbastanza diversa rispetto a ciò che viene sostenuto dai detrattori del tycoon americano. La costruzione delle barriere lungo la frontiera tra Messico e Stati Uniti risale al 1994, sotto la presidenza di Bill Clinton, articolata in tre diverse operazioni messe in atto nei tre stati americani che condividono i 3140 km di frontiera con il Messico: Gatekeeper in California, Hold-the-Line in Texas e Safeguard in Arizona. Secondo gli ultimi dati di riferimento, la lunghezza delle barriere fisiche ad oggi presenti lungo il confine raggiungerebbe i 930km, cui si aggiungono altre aree lungo le quali sono presenti telecamere e sensori elettronici costantemente monitorati dalla US Border Patrol, la forza di polizia che si occupa della sicurezza ed impenetrabilità dei confini continentali americani. Poco più di dieci anni dopo il piano di Clinton, il governo repubblicano ha avvertito la necessità di incrementare le misure di sicurezza lungo quello che i messicani chiamano il “Muro della Vergogna”. Il deputato californiano Duncan Hunter ha avanzato la proposta dell’allungamento di tale barriera, per un totale di 1123 km da San Diego, in California a Yuma, in Arizona. La proposta è stata revisionata diverse volte prima di essere approvata in via definitiva da entrambe le camere nel dicembre 2006, sotto il nome di “Secure Fence Act”, nome in codice della proposta di legge HR 6061, e firmata dall’allora Presidente George W. Bush. L’opera di ampliamento è andata avanti per circa 4 anni, quindi anche sotto la presidenza Obama, senza che nessuno si sia mai preoccupato di sollevare la questione del trattamento subito dai clandestini che tentassero, spesso invano, di valicare la frontiera per accedere negli Stati Uniti. Migliaia di arresti e decine di morti ogni anno, ma soltanto dopo la campagna elettorale di Trump la stampa si è posta la questione degli ispanici immigrati o potenziali tali. La frontiera, infatti, è volta a contenere il flusso di cittadini centroamericani che, attraverso il Messico, tentano di giungere in America settentrionale: tra essi guatemaltechi, honduregni, salvadoregni e nicaraguensi. La questione, pur ignorata, è lampante agli occhi dell’osservatore attento. Uno degli esempi più clamorosi di questa separazione, già esistente, è la città di Nogales, divisa tra la contea di Santa Cruz in Arizona e lo stato di Sonora in Messico, tagliata in due da questa barriera alta quattro metri e culminata da filo spinato. La città è tristemente nota poiché, oltre ad essere di per sé vittima fisica di questa separazione, si trova nell’area che registra la maggiore incidenza di morti e arresti nel tentativo di attraversamento del confine. Dati ufficiali riportano di oltre 5000 persone morte nel tentativo di attraversamento, contro le centinaia di migliaia di arresti lungo i punti sconnessi di questa barriera, il 97% dei quali lungo la zona sud-occidentale del confine, in corrispondenza del confine di San Diego/Tijuana tra la California e la Baja California.

Il Messico deporta più immigrati degli Usa, scrive il 25 febbraio 2017 Roberto Vivaldelli su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". “In questo momento, il Messico sta deportando molto più immigrati provenienti dall’America Centrale di quanto non stiano facendo ora gli Usa: molti direbbero che stiamo facendo il lavoro sporco per loro”. È quanto afferma a Foreign Policy Chris Wilson, vice direttore dell’Istituto Woodrow Wilson International Center for Scholars del Messico. A differenza di quanto molti possano pensare, quando si tratta di sicurezza e controllo dell’immigrazione, il Messico non scherza affatto. E la cooperazione con gli Stati Uniti, nonostante le minacce di Donald Trump e la diatriba sul Muro, è più viva che mai. Un rapporto, quello tra le forze dell’ordine Usa e messicane, che si è consolidato negli ultimi anni, con un obiettivo comune: frenare l’immigrazione clandestina. In queste ore, il Segretario di Stato Americano Rex Tillerson è in Messico per incontrare il presidente Enrique Peña Nieto. Accolto all’aeroporto dall’ambasciatrice statunitense a Città del Messico, l’obiettivo della visita di Tillerson, naturalmente, è quello di tentare di ricucire i rapporti diplomatici con le autorità messicane: la collaborazione in atto tra i due Paesi è troppo importante e funzionale, al di là del Muro. Ad accompagnare il Segretario di Stato c’è anche il generale John Kelly, Segretario della Sicurezza Interna degli Stati Uniti d’America. Come racconta Molly O’Toole in un interessante servizio pubblicato su Foreign Policy, il principale problema per gli Stati Uniti non è rappresentato dai messicani, ma dall’immigrazione proveniente dall’America Centrale: “Gli attraversamenti illegali verso gli Stati Uniti dal Messico sono tra i più bassi degli ultimi 40 anni, con il flusso che si è invertito a partire dal 2009 come conseguenza alla crisi e – scrive Molly O’toole – Piuttosto, la rotta migratoria passa attraverso Paesi segnati dalla violenza e dal caos, come il “Triangolo d’oro”, ossia Gautemala, Honduras ed El Salvador. E non si tratta solo di centroamericani. L’immigrazione globale – da Haiti, Cuba, Camerun e Somaila – ha spinto più persone a utilizzare questo percorso verso gli Stati Uniti”: La collaborazione tra Usa e Messico Washington ha versato miliardi di dollari di aiuti al Messico e ai paesi dell’America centrale e ha raggiunto degli accordi bilaterali per fermare le migrazioni verso gli Stati Uniti. Il Messico ha risposto intensificando notevolmente le detenzioni e deportazioni, raddoppiate tra il 2013 e il 2016. Sempre più migranti, inoltre, decidono di rimanere in Messico e fare domanda di status di rifugiato nel Paese, piuttosto che cercare di raggiungere gli Stati Uniti. Per questo motivo gli Usa non possono assolutamente permettersi di minare i rapporti con Città del Messico: da qui la visita strategica del Segretario di Stato Tillerson, che dovrà “smussare” i toni e le provocazioni di The Donald e cercare di rasserenare gli animi, dopo che i vertici governativi messicani hanno già dichiarato di “non accettare” la nuova politica migratoria dell’amministrazione Trump. E’ nell’interesse di entrambi i Paesi continuare a collaborare e non arrivare ad uno scontro che sarebbe deleterio e controproducente. Firmati martedì, i nuovi ordini di Trump in materia d’immigrazione rappresentano un cambio di rotta rispetto all’amministrazione di Barack Obama – che, va sottolineato, aveva il record di immigrati deportati– e lancia una linea ferrea molto più dura in materia d’immigrazione. Le nuove misure consentono, in maniera più semplice, ai funzionari degli Stati Uniti di procedere con le espulsioni e rimpatri immediati per chi entra illegalmente nel Paese. Le misure introducono, inoltre, un’espulsione accelerata senza udienza fino a due anni dall’entrata degli Stati Uniti. Nel frattempo, gli elettori sembrano gradire la politica del tycoon: il 52% degli americani appoggia, infatti, la stretta sull’immigrazione. E’ quanto emerge dal sondaggio Harvard-Harris, pubblicato da The Hill.

SONO DEMOCRATICI. LE PROFEZIE ARROGANTI DEI COMUNISTI E LE PROTESTE DEI PERDENTI. "Beh, signore e signori, dite ciò che volete su Mr. Trump, ma certamente porterà dei cambiamenti alla Casa Bianca, stiamo a vedere quali". Così parlò Barack Obama nel 2011 quando, durante la cena dei corrispondenti alla Casa Bianca ridicolizzò Donald Trump. La prima profezia di Fassino: "Grillo fondi un partito, vediamo quanti voti prende". Era il 2009 quando Piero Fassino fece la sua prima "profezia". Disse a Beppe Grillo di fondare un partito così, aggiunse, "vediamo quanti voti prende". La frase diventò un tormentone del web dopo il buon risultato dei 5 Stelle alle elezioni. La seconda profezia di Fassino: "Un giorno si segga al mio posto e vediamo". Piero Fassino ci è ricascato. Alla consigliera comunale dei 5 Stelle Chiara Appendino, che lo criticava, ha detto: "Un giorno lei si segga su questa sedia e vediamo se sarà capace di fare tutto quello che oggi ha auspicato di saper fare". E poi ha aggiunto: "E comunque lo decideranno gli elettori". L’Appendino è diventata Sindaco di Torino. Per il M5s torinese la frase è suonata come una seconda profezia. Già nel 2009 Fassino fece la sua celebre uscita a Repubblica Tv in cui disse: "Beppe Grillo fondi un partito e vediamo quanti voti prende". Frase che diventò un tormentone dopo il buon risultato dei 5 Stelle alle politiche del 2013. 

Quando Obama “sfotteva” Trump, scrive Matteo Carnieletto il 13 novembre 2016 su “Gli Occhi della Guerra”. Barack Obama come Piero Fassino. È la prima cosa che si pensa guardando un filmato del 2011, durante la cena per i corrispondenti, in cui il presidente americano e il comico Seth Meyers prendono in giro Donald Trump. Il tycoon non la prende benissimo. Non ride né muove un sopracciglio. È impassibile. Chissà che cosa starà pensando. Fatto sta che oggi, a distanza di cinque anni, si è preso la Casa bianca, sfrattando Obama. Meyers prende in giro la capigliatura di Trump, parlando di volpi come parrucchini ed altro. Ma è Obama a dare il meglio di sé: “Michele Bachmann è qui, però,da quanto ho capito, e lei sta pensando di correre per il posto di presidente, il che è strano perché ho sentito che lei è nata in Canada. Sì, Michele, giusto per farti sapere: è così che si inizia. E poi ci sono voci maligne che penso potrebbero davvero ferire Mitt Romney. Ho sentito che ha approvato l’assistenza sanitaria universale, quando era governatore del Massachusetts. Qualcuno dovrebbe andare a fondo della questione e conosco la persona la giusta…Donad Trump. Ora so che sta subendo un po’ di critiche ultimamente ma nessuno è più felice, nessuno è più orgoglioso di mettere a tacere la storia di questo certificato di nascita di Donald”. “E questo è perché finalmente si può concentrare sulle questioni che contano come: abbiamo abbiamo finto l’atterraggio sulla luna? Che cosa è davvero accaduto a Roswell? dove sono Biggie o Tupac? Ma mettiamo tutto questo da parte. Tutti noi conosciamo le sue credenziali e la sua vasta esperienza, per esempio in un episodio recente della versione delle celebrità di The Apprentice in una steackhouse, la squadra di quest’uomo non impressionò i giudici dell’Omaha Steaks. C’era un sacco di amarezza ma tu, Donald, hai capito che il vero problema era una mancanza di leadership così non hai biasimato Lil Jon o Meatloaf ma hai licenziato Gary Busey. E sono questo tipo di decisioni che mi tengono sveglio la notte. Ce l’abbiamo fatta sir! Dite tutto quello che volete ma di certo Donald Trump porterà dei cambiamenti alla White house, come possiamo vedere”. Erano cinque anni fa. Il tycoon è stato zitto. Ha saputo aspettare. E, alla fine, ha preso la sua rivincita. Cosa dirà adesso Obama?

QUELLI CONTRO...IL SUFFRAGIO UNIVERSALE.

Auguri agli anti-suffragio universale, scrive Alessandro Gilioli il 14 novembre 2016 su "L'Espresso”. Le proposte di abolire o limitare il suffragio universale sono vieppiù crescenti, e con autorevoli quanto sdegnati testimonial. Tuttavia esse potrebbero andare incontro a un curioso ostacolo: chi può decidere di abolire o limitare il suffragio universale? Improbabile infatti che la decisione di abolire il suffragio universale venga presa a suffragio universale. Intanto, difficilmente la proposta passerebbe. Ma se anche passasse, nel caso tale nuova norma nascerebbe gravida di contraddizioni, in quanto a legittimità: sarebbe infatti stata decisa da un soggetto - l'elettorato universale - che si è appena deciso non essere legittimato per decidere. Quindi ciccia. Esclusa questa possibilità, per la sua doppia debolezza intrinseca, si dovrebbe pensare ad altre strade. Ad esempio, che uno più robusto degli altri si alzi un mattino e dica: ohi, da oggi non c'è più il suffragio universale, ho deciso io. Tecnicamente si chiamerebbe "golpe" e non si può dire che sia esattamente una soluzione innovativa, nel mondo, ma ammettiamo che vada così. Che quindi il suffragio universale venga abolito per imposizione di uno più robusto che ha deciso di abolirlo. A questo punto si aprirebbe un ancor più stimolante dibattito: con che cosa sostituirlo, questo suffragio universale appena abolito? Intuitivamente un'ipotesi sarebbe che il tizio più robusto, quello che ha fatto il golpe, agisca in modo classico: invece del popolo, che non sa un cazzo e non capisce un cazzo, decide tutto lui con i suoi amici. Anche in questo caso però lo scenario non sarebbe inedito: il tizio robusto e i suoi amici che decidono tutto vengono chiamati infatti, da sempre, "giunta militare". E dato che questa soluzione, in passato, non ha dato buoni frutti e non ha una bella immagine, è difficile che venga riproposta tale quale. Se ne deduce che occorre trovare un altro modello per sostituire il suffragio universale che non sia solo il tizio robusto e i suoi amici che decidono tutto. Taluni, ad esempio, propongono di lasciare il diritto di voto, ma di rivederlo in qualche modo. Ad esempio, restringendolo attraverso esami di cultura generale o di conoscenza politica. Non sai cosa sono la voluntary disclosure o il quantitative easing? Confondi Craxi con Bixio, Monti con Tremonti e Scalfaro con Scalfari? Credi negli Ufo e nelle scie chimiche? Lasci il Caps Lock quando esprimi la tua opinione su Facebook? Non voti più. L'idea è percorribile ma aprirebbe alcuni interessanti interrogativi sui criteri di questo esame per concedere - o soppesare - il diritto di voto. Ad esempio, è più giusto escludere chi non ha letto I Promessi Sposi o chi non sa montare una Billy dell'Ikea? Chi non sa dov'è Andorra o chi non sa come far ripartire un motorino ingolfato? Chi ignora le tabelline o chi ignora l'igiene personale? Chi mette il parmigiano sulla pasta alle vongole o chi si sputtana lo stipendio in Gratta e Vinci? E se poi bisogna togliere il diritto di voto a chi crede negli Ufo e nelle scie chimiche, perché lasciarlo a chi è certo di cose ancora più assurde come l'Immacolata Concezione di Maria o un Paradiso dove i credenti sono premiati con 72 vergini? E ancora: come si fa questo esame, con un colloquio davanti a una commissione tipo la Maturità o con un test a risposta multipla che viene poi valutato da un computer? E i componenti della Commissione (o i preparatori del test a risposta multipla) come e da chi vengono scelti? Con una Commissione o con un test a risposta multipla (e così all'infinito)? Tutte domande che costringono a loro volta a cercare dei criteri di questo esame, appunto, e qui bisogna ripartire daccapo, a meno che non si ritorni alla soluzione "tizio robusto che decide i criteri" (cioè di nuovo "golpe") oppure si stabilisca che i criteri per decidere come fare l'esame per limitare il suffragio universale vengano decisi a suffragio universale, il che tuttavia ci riporterebbe alla contraddizione di cui sopra. Altrettanto complessa sarebbe la decisione di escludere dal voto persone di una determinata fascia d'età, oppure di dare un valore minore al loro voto come i millesimi di chi in un condominio ha solo una cantina. Per carità, anche tale proposta è del tutto legittima, ma a decidere che oltre una certa età il voto vale meno, esattamente, chi sarebbe? Cioè la soglia verrebbe decisa a suffragio universale, così di nuovo smentendo in partenza l'assunto che si vuole affermare, vale a dire che il suffragio universale non è legittimato a decidere? Oppure la soglia verrebbe decisa solo da quelli sotto una certa soglia? Ma quale soglia, se non è stata ancora decisa? Insomma, vivissimi auguri a tutti gli anti-suffragio universale. Hanno di certo ottime ragioni nel mostrare quali orrori produca un sistema così arbitrario, relativista e volatile come quello del suffragio universale, ma non è semplicissimo stabilire quali altri sistemi potrebbero sostituirlo, e con quale legittimità. Ad esempio, potrebbe alzarsi uno e proporre di escludere dal voto quanti siano contrari al suffragio universale. E gli riuscirebbe difficile, agli anti-suffragio universale, dire che questa idea è meno valida e legittima della loro.

Ecco chi sono i “colti” che sostengono che gli ignoranti non possono votare, scrive Carlomanno Adinolfi il 15 novembre 2016. “Togliamo il voto agli ignoranti” è oramai l’ultimo grido di battaglia della sinistra dem, abbarbicata nel proprio onanismo pseudointellettuale grazie al quale si è auto-incoronata depositaria della cultura e dell’intelligenza globale. Fioccano ovunque analisi di voto, identiche a quelle post-Brexit e basate in realtà sugli exit-poll, ovvero i sondaggi storicamente meno attendibili e in un’elezione dove già i sondaggi di intenzione di voto hanno fatto una pessima figura, grazie alle quali si cerca di dimostrare che a votare Trump (e la brexit) siano stati solo i redneck, gli ignoranti, gli stupidi, i contadinotti – ma contemporaneamente anche i più ricchi – mentre a votare la Clinton siano stati i laureati, i colti, gli acculturati, le grandi élite di pensiero e gli abitanti delle grandi metropoli, quindi più moderni e meno retrogradi, ma che per il cortocircuito autogiustificazionista corrispondono in maniera inspiegabile ai più poveri, alle classi più disagiate d’America. Ci sarebbe da ridere solo per il fatto che chi ha totalmente sbagliato l’analisi pre-voto ora pensa di farci una dettagliatissima analisi post-voto pretendendo di essere credibile. Ma basterebbe anche solo guardare le proteste isteriche degli anti-Trump per smontare questa fragile analisi: ragazzi che bruciano delle New Balance in diretta facebook perché prodotte da un’azienda che ha appoggiato Trump, uomini e donne che in una simil parodia di Blair Witch Project piangono istericamente strappandosi i capelli singhiozzando “we are all gonna die”, moriremo tutti, ovviamente stando ben attenti a filmarsi con lo smartphone per poter pubblicare il loro dramma esistenziale sui social. Parliamoci chiaro: è piuttosto complicato venirci a dire che questi rappresentino uno spaccato della classe culturale. O forse no. Forse il problema è che davvero questa gente è lo specchio dello stato culturale di questa società. D’altra parte viviamo nell’era che ha regalato il Nobel alla letteratura a Bob Dylan per mancanza di scrittori premiabili, siano essi anche soltanto degli “autori socialmente impegnati” pronti a scrivere romanzi o saggi scritti con una pesantezza narrativa unica spacciata per “introspezione” che parlano di minoranze o di drammi esistenziali alla Muccino. Viviamo soprattutto nell’era in cui la casta culturale è dominata da personaggi di spettacolo, conduttori di programmi televisivi, comici, telegiornalisti a cui a volte magari capita di scrivere un libro che tutti compreranno ma nessuno leggerà. Prendiamo ad esempio la variegata “élite intellettuale” statunitense che ha appoggiato la Clinton. Di fatto parliamo di cosiddetti vip che svariano da cantanti ad attori che di certo non sono né grandi compositori o poeti né grandi registi che ci hanno donato capolavori immortali. Beyoncé, Miley Cirus e Jennifer Lopez che sculettano in body e calze a rete sul palco fra coriandoli, raggi laser e balletti che richiamano movimenti sessuali, ci vengono presentati come personaggi di cultura che possono spocchiosamente definire ignorante una fetta di popolazione. Anche Robert De Niro che a 70 anni suonati minaccia con un monologo ridicolo di voler picchiare Trump – qualcuno gli dica di uscire dal personaggio di Toro Scatenato o del boss mafioso, forse ha avuto un’overdose di metodo Stanislavskij – per quanto un mostro sacro della recitazione è pur sempre un attore e non un creatore di letteratura cinematografica. I vari George Clooney o Chloe Moretz o Eva Longoria (sì, la casalinga disperata…) alla fine non sono neanche mostri di recitazione, ma sono comunque considerati opinion maker di spessore culturale, e questo la dice lunga più sugli esponenti della cultura ufficiale che sugli “ignoranti” che non seguono i loro consigli. Poi certo, ci sono i “geni” che grazie al loro QI altissimo e superiore a 140 (il limite oltre il quale si è considerati super intelligenti) possono frequentare i circoli esclusivi. Tra questi Madonna (140 di QI), talmente intellettuale e colta da promettere pompini ai sostenitori della Clinton. E poi c’è Sharon Stone (154 di QI), grande sostenitrice della moglie di Bill e da tutti considerata un genio di grande cultura. Sì, esattamente la Sharon Stone che cercò di iniettare il botox nei piedini del figlioletto adottato per evitare che avessero le rughe.  Sì va bene, parliamo degli Stati Uniti dove il livello culturale medio non è esattamente il fiore all’occhiello della nazione, dove i professori dei licei pubblici vengono trattati come dei bidelli perché ritenuti inutili – contano solo le grandi scuole private accessibili solo ai privilegiati che sono gli unici a poter diventare “colti” ovvero elettori della Clinton, ma attenzione perché i ricchi in realtà votano tutti Trump – e dove i laureati nelle università che non siano il MIT o Harvard o Yale al massimo possono fare i lavapiatti da McDonald’s. Ma non è che nell’Italia che una volta fu culla della cultura ora siamo messi poi tanto meglio. Gli stessi che criticavano Berlusconi per aver importato tramite Mediaset il modello culturale americano, giustamente ritenuto rozzo e di bassissimo livello, sono ora gli stessi che lodano quello stesso modello e i suoi rappresentanti. A parte alcuni blogger ritenuti opinionisti (qualcuno ha detto Saverio Tommasi?) che stigmatizzano l’ignoranza fascista mentre condannano il dittatore Boko Haram, o altre illustri esponenti della cultura come Alba Parietti o Beatrice Borromeo, abbiamo il renziano Giorgio Gori (il signor Parodi, per chi non lo conoscesse) che aspramente afferma “gli ignoranti non dovrebbero votare”. Per carità, in molti affermano che sia un giornalista molto competente e intelligente, ma di fatto a livello culturale verrà ricordato come l’inventore di Master Chef e L’Isola dei Famosi. Accanto a lui un altro grande renziano, Fabrizio Rondolino, direttore de L’Unità, per cui oramai “il suffragio universale comincia a rappresentare un serio pericolo per la civiltà occidentale”. Sì proprio il Rondolino che avrebbe dovuto essere il consigliere della campagna elettorale di Daniela Santanché qualora ci fossero state le primarie del centrodestra del 2012, ma questo ai nemici di Trump è meglio non ricordarlo. Laureato in filosofia e sicuramente molto intelligente, ma a livello culturale ha contribuito solo come consulente speciale della prima edizione del Grande Fratello. Tutti “creatori” di trasmissioni che fanno tendenza e che sono “culturalmente influenti” soprattutto in quella generazione millennial che, ci dice Repubblica con una brillante analisi, se fosse stata l’unica a votare avrebbe garantito la vittoria alla Clinton e la sconfitta della Brexit. Insomma a ben guardare gli “intelligenti” e i “colti” sarebbero quelli che fondano le loro opinioni votando le nomination del Grande Fratello Vip o i prossimi conduttori dei talent scegliendoli da quelli attuali. O peggio quelli che leggono Saviano e che con la puzza sotto al naso ti dicono che le massime autorità culturali dell’Italia sono il romanziere napoletano esperto di copia-incolla e di pensieri twitter che fanno girare la testa anche a Nichi Vendola, oppure il comico giullare Benigni, o magari Fabio Volo.  Tutta la stessa pletora di persone che ti dicono che “il fascismo si cura leggendo”, e giustamente contrappongono Saviano, Benigni e Dario Fo a Pound, Marinetti, D’Annunzio, Gentile, Céline, Brasillach, La Rochelle, Ricci, Ungaretti, Albertazzi e Pirandello. Beata ignoranza. Carlomanno Adinolfi

Il disastro della sinistra è nato quando ha sostituito gli “sfruttati” con le “vittime”, scrive Adriano Scianca il 14 novembre 2016. Perché la sinistra perde? Non tanto le elezioni, quanto il contatto con i territori, i popoli, la gente minuta. Pensiamo al suicidio globale della sinistra dei poteri forti con Trump, ma anche a quello locale, ma emblematico, della sinistra barricadera avvenuto a Magliana. Fatti molto diversi per dinamiche e importanza, certo, ma che raccontano entrambi di un popolo che volta le spalle a una sinistra ormai incapace di sentirne il grido di dolore, quando non direttamente impegnata a provocarlo essa stessa. Ecco, perché questo accade? Per molti e complessi motivi, ovviamente, ma uno in particolare merita di essere sottolineato. È la deriva del boldrinismo. Che è una tendenza politica generale, nata prima dell’elezione alla presidenza della Camera di Laura Boldrini, ma da costei incarnata e rappresentata in modo quasi parossistico. Si tratta dell’abbandono delle grandi questioni sociali per abbandonarsi al ridicole battaglie del tutto marginali si questioni formali, inessenziali, ideologiche, relative alla sensibilità di alcune categorie sociali. Insomma, è il motivo per cui a un certo punto smetti di combattere le battaglie di classe e ti impunti su quelle di genere. Non che il vecchio classismo di estrazione marxista fosse esente da pecche, ovviamente, ma aveva almeno reali capacità di rappresentanza. Oggi la sinistra rappresenta solo se stessa. Questa deriva è avvenuta quando ha sostituito, nel suo sistema di pensiero, lo “sfruttato” con la “vittima”. Ora, per difendere lo sfruttato, la sinistra doveva innanzitutto indagare il meccanismo dello sfruttamento. Gran parte dell’ideologia di sinistra dell’ultimo secolo e mezzo riguarda proprio l’indagine scientifica di tale dinamica sociale, indagine che è ovviamente contestabile, ma che aveva il pregio di una pretesa di oggettività: non conta come ti senti tu, anche se ti trovi da dio nella catena di montaggio sei sfruttato lo stesso, per via del plusvalore etc etc. La vittima, invece, è tale solo in virtù della sua sensibilità e tu non hai alcuno strumento concettuale per dirle che in realtà non lo è, perché non puoi contestare una sensazione interiore. Una volta compiuto questo passo esiziale, quando fai un congresso di partito o butti giù un programma politico e qualcuno alza la mano e ti dice “mi sento offeso in quanto donna / gay / ciccione / molisano / radioamatore”, tu sei obbligato a prendere sul serio la sua lamentela e a darle dignità politica. Pensate a quella che è una delle battaglie boldriniste per definizione, quella per i diritti dei gay. Questo mondo, negli anni ’80, ha deciso di darsi per nome una sigla, Lgb. Ovvero lesbiche, gay e bisessuali. Poi, negli anni ’90, è divenuto Lgbt, perché i trans si ritenevano discriminati a essere inclusi nelle altre categorie. In questo modo, però, si discriminavano i non eterosessuali ancora confusi sulle loro preferenze. È nato quindi l’acronimo Lgbtq, inserendo i queer. E gli intersessuali, quelli che una volta erano detti “ermafroditi”? Perché la loro esperienza deve essere appiattita su lesbiche, gay, bisessuali, trans e queer? Ecco allora l’ultima variante, l’acronimo impronunciabile Lgbtqi. E se domani se ne uscisse uno che va nei giorni pari con gli uomini e nei giorni dispari con le donne? Perché non farsi carico della sua specifica sofferenza? E allora chiamiamolo “alternista” e inseriamolo nell’acronimo. E così via. Una volta imboccata la china del politicamente corretto, ogni categoria politica salta e ci si trova su un piano inclinato in cui non si può più risalire il piano inclinato. Si scivola giù, nell’abisso delle battaglie irrilevanti, nel narcisismo individualistico, nella marginalità politica. Va a finire che prendi solo i voti dei Lgbtqi, salvo poi accorgerti al momento dei risultati che l’acronimo conta più lettere che persone. Adriano Scianca

LA DEMOCRAZIA DEI TIRANNI INTELLETTUALI.

Saviano e gli intellettuali (anti)democratici, scrive Francesco Maria Del Vigo il 18 novembre 2016 su "Il Giornale. Ohhhh. Ci mancava un appello… Era un po’ che ne attendevamo uno con estrema apprensione. Quando un intellettuale – o sedicente tale – è in crisi di identità e preda della sua vanità, di solito, mette il suo nome in calce a un appello. Per far vedere di esistere. Firmo dunque sono. Celeberrimo, dalle nostre parti, lo schifoso appello contro il commissario Luigi Calabresi. Oggi su La Repubblica compare l’ennesimo appello. Indovinate un po’ con chi se la prendono lorsignori? Coi populisti. Leggiamo l’incipit perché è stranamente sincero: “Come la Brexit, la vittoria di Donald Trump ancora una volta ci ha colto di sorpresa”.  Oh, finalmente un’ammissione: non ci hanno capito un belino di quello che stava succedendo sotto i loro occhi, sotto le finestre delle loro case foderate di libri e quindi probabilmente insonorizzate e lontane dal vociare del popolaccio-populista. Gli intellettuali dunque issano bandiera bianca e ammettono di essere fuori dal tempo e dallo spazio? Assolutamente no. Parte subito al reprimenda con tono grave e solenne: “Questi eventi non possono che galvanizzare i populisti del Vecchio continente, in vista degli appuntamenti elettorali o degli importanti referendum che si terranno nei prossimi mesi in Austria, Italia, Paesi Bassi, Francia e Germania. Ovunque, i partiti moderati sono minacciati. È dunque urgente agire”. Traduzione: bisogna bloccare la pericolosa avanzata delle destre e dei movimenti populisti. Gli elettori la pensano in modo diverso? Certo, perché è tutta colpa della realtà post fattuale, della post verità. Noi, poveretti, non ce ne siete accorti, ma l’Economist l’ha già detto e l’Oxford dictionary lo ha messo a verbale: viviamo nell’era della post verità. Cosa significa? Significa che la nostra società è avvelenata dalle menzogne politiche che dilagano sui social network e i cittadini le prendono per buone, senza nemmeno verificarle. Ed è per questo – e solo per questo! – che poi i cittadini votano Brexit o Trump. E qui più che un sociologo o un massmediologo, bisognerebbe chiedere l’aiuto di uno psicanalista. Perché è evidente che questa storia della post-verità è un’autogiustificazione per chi, dopo aver sbagliato le previsioni, ora continua a negare la realtà. D’altronde quando ci si avvicina al voto l’intellettuale radical reagisce come i mercati: si agita, gli vengono le bolle, manifesta segni di insofferenza. Quanto fastidio verso un’usanza così plebea come il voto… Tra le menti luminose che hanno proposto il manifesto Sandro Gozi, Daniel Cohn-Bendit, Felipe Gonzalez, Roberto Saviano e Wim Wenders. Insomma, quelli che credono di essere l’avanguardia della masse – gli intellettuali -, ora sono diventati la retroguardia dei poteri forti, i lacché dei burocrati che comandano senza nessuna investitura popolare. Alla faccia della democrazia.

Manifesto intellettuale. L’ennesimo, scrive Luigi Iannone il 18 novembre 2016 su "Il Giornale". Ennesimo “Appello degli intellettuali”, questa volta è per salvare l’Europa dai populisti (… e aggiungerei dai ‘popoli’). Tra i promotori Daniel Cohn-Bendit, Felipe Gonzalez, Roberto Saviano, Wim Wenders. A darne notizia è, ovviamente, il quotidiano La Repubblica, precisando che politici, uomini d’arte e cultura stanno creando una piattaforma per far sentire la voce dei cittadini nella Ue e prevenire le derive nazionaliste. Ecco cosa ho scritto di loro e dei noiosi manifesti intellettuali nel mio “L’ubbidiente democratico”: <<(…) una razza in espansione composta da quelli che Montanelli definiva firmaioli in grado di soggiogare anche chi avrebbe dovuto redimerla per tempo. Sacerdoti dell’ortodossia conformistica sempre pronti ad apporre l’aristocratico sigillo ai manifesti intellettuali. Oramai una categoria dello spirito. Pronti a firmare di tutto, anche le vecchie cambiali, purché la loro mano apponga l’autografo su quella che agli occhi della massa appaia come una nobile causa. Consumati commedianti reattivi oltre ogni umana comprensione nei confronti di ingiustizie perpetuate in piccolo ogni anfratto del globo terracqueo. Il loro punto di forza sta in una non comune capacità camaleontica evolutasi nei decenni e, al contempo, in una ferrea corazza ideologica grazie alla quale ogni irrilevante analisi, ogni pur modesta considerazione assume un significato intimidatorio e definitivo. Perché c’è nettezza di pregiudizi (prima ancora di giudizi) e mai il benché minimo brontolìo di un rimorso. (…). In linea di massima, si tratta di una compagnia di giro sulle cui battaglie civili sarebbe bene soprassedere. Sanno tutto e la sanno lunga, fino a far detonare il proprio ego smisurato in un’arma dialettica anche per vendette cruente perché non c’è argomento politico, questione sociale o etica, approfondimento scientifico o dilemma teologico in cui non si sentano in dovere di mettere becco e sul quale con insolente spocchia non fondino ed impongano un modello gnoseologico incontrovertibile. Sei un comico? Una cantante? Uno stilista di intimo? Uno studioso di sistemi elettorali? Un docente di diritto tributario? Un sondaggista? Un fotografo di grido? Uno scrittore di chiara fama? Ti sei occupato per tutta la vita di recitare stornelli romaneschi? Ciò nonostante ti senti in dovere di firmare un manifesto che tocca le basi filosofiche, etiche, religiose della società contemporanea. Non importa quale grado di preparazione tu abbia su uno specifico tema. Nulla suscita la tua resistenza. Le tue certezze prendono possesso della scena ed esulano dall’umano bisogno di armarsi di un minimo di umiltà e di ritrosia di fronte al groviglio delle problematiche. Beninteso, non che sia vietato esprimersi, ma il darsi buona coscienza attraverso l’apposizione di una firma e l’espressione compunta è da vigliacchi. E poi, come facciano ad essere preparati, ad avere certezze perentorie e a sproloquiare con dovizia di particolari su ogni argomento resta un mistero insondabile oltre che una ennesima fonte di ansia per noi, comuni mortali, sempre corrosi da dubbi, mendichi di ogni microscopico pezzetto di verità. Invece, mai una piega, una titubanza. Solo certezze apodittiche accompagnate da ricercate eccentricità e sentenze pronunciate rapidamente e senz’appello. Ma a dar fastidio è l’ossessiva ripetitività della liturgia: centinaia e centinaia di firme (ma quanti intellettuali ci sono in giro?), paginate di giornali ridondanti di nomi più o meno famosi, faccioni bene in vista e prime fila di teatri-occupati con la scusa di dover supportare mediaticamente la battaglia civile>>.

La democrazia degli intellettuali? Finisce in tirannia. La repubblica partenopea del 1799, nata sull’esempio della rivoluzione francese, segnò il trionfo del giacobinismo meridionale. Ma guai a chi lo dice, scrive Marcello Veneziani giovedì 09/12/2010, su “Il Giornale”. Abbasso il tiranno viva la Repubblica, abbasso la tradizione viva la Costituzione, abbasso la fede viva la Cultura, abbasso le feste popolari viva la stampa. E a sud viva la rivoluzione degli incorruttibili. Sembra il manifesto dell’eroica lotta contro il berlusconismo, e invece è il sunto epico della repubblica partenopea del 1799. Se la storia è maestra di vita, la rivoluzione napoletana è un monito perfetto per il nostro tempo. Elogiata dalla storiografia dominante, portata a esempio di progresso, giustizia, libertà e cultura contro l’oscurantismo autoritario e rozzo del potere, è il paradigma rovinoso di una dittatura intellettuale. Di recente ne tesseva gli elogi il Corriere della sera e ne accennava con favore lo storico Luciano Canfora, ma non c’è intellettuale «illuminato» che non esalti la rivoluzione del 1799. Invece io vorrei raccontarvi quel che i testi scolastici o canonici non scrivono. Una storia più cruenta delle terribili repressioni a sud postunitarie, di cui oggi tanto si parla. Dunque, torniamo a Napoli nel ’700. Grande capitale europea con grandi sovrani, fiorisce la cultura in città e l’industria. Poi la decadenza. La monarchia borbonica si chiude in un paternalismo autoritario, feste farina e forca, superstizioso e diffidente verso la cultura. Brucia l’esempio della rivoluzione francese, il patibolo per i reali, parenti dei sovrani napoletani. Gli intellettuali di corte con i loro giornali invece s’innamorano di quel che succede a Parigi e rovesciano la monarchia. Piantano l’albero della libertà, arriva la repubblica a Napoli. Basta con la tradizione, il re e la religione. E chi non ci sta, sono dolori. Intere popolazioni insorgono contro la repubblica e contro gli intellettuali giacobini, e allora comincia la mattanza. Le città rimaste fedeli al re e alla religione vengono distrutte dai soldati francesi e dai loro collaborazionisti napoletani, i giacobini. Decine di migliaia di morti di cui nessuno parla; si parla invece delle decine di condannati a morte dal Borbone. Avevano la sola colpa di restar fedeli al loro Re e alla loro Fede; alle loro pigre superstizioni, se non volete parlare di tradizioni. I rimedi per liberarli da trono e altare furono peggiori del male, più cruenti. Erano rozze le bande sanfediste del cardinale Ruffo che ad esempio uccisero alcune decine di patrioti repubblicani ad Altamura, tuttora ricordati; ma si dimentica che prima di quel massacro migliaia di abitanti dei centri vicini, di Trani, Andria, Carbonara, Gioia del Colle, Ceglie, Mola di Bari, furono sterminati da giacobini e francesi. Come in Vandea. Comitati, monumenti, libri, film, fiction, opere teatrali raccontano la Repubblica illuminata e il sacrificio di ferventi rivoluzionari. Ma nessuno ricorda quella gente. Marmaglia, vittime di una calamità naturale chiamata progresso, giustizia, illuminismo, emancipazione. «Lo spettacolo è terribile. Cadaveri da per tutto, nelle strade e nelle case, tutti o parte bruciati dal fuoco delle case che sono state molto danneggiate; dei quartieri non più esistono, le fabbriche cadono, il teatro bellissimo è incenerito... la desolazione, il terrore vi comandano. Seguitano colà le uccisioni... gli orrori circa le violenze alle donne sono inesprimibili... pure le monache». La cronaca è tratta dal diario di un testimone dell’eccidio di Trani, seguito a quello di Andria, il magistrato Gian Carlo Berarducci. Fu pubblicato solo cento anni dopo. «I morti seppelliti finora, parte alla Madonna del Pozzo presso Bisceglie, parte verso Barletta, diconsi circa 2000. Altri ve ne sono», mentre centinaia di scampati si nascosero nei sotterranei di Santa Maria la Neve, «si diede l’orina da bere ai bambini, in altri luoghi si uccisero quelli che piangevano». Trani e Andria avevano rifiutato di issare la bandiera giacobina e avevano sventolato la bandiera del regno borbonico e la bandiera nera in segno di resistenza a oltranza; ma diventò il sigillo del loro lutto. «Trani arde e il fumo giunge fin qui» scrive Berarducci. Le città vicine, spaventate dai massacri, preferirono la resa. Così Cetara fu distrutta, scempi nell’entroterra campano. Così in Molise o in Terra di Lavoro, nonostante fra’ Diavolo, meridionalista inconsapevole. Il Terrore. Quando il cardinale Ruffo riconquistò il sud, anch’egli con l’aiuto di stranieri, la flotta russo-turca al largo dell’Adriatico, vi furono feste popolari e religiose: «In Trani, Bisceglie, Corato, Ruvo, in tutti i luoghi vicini si sta nell’allegria massima». Il proclama reale dei ritornati borbonici elargiva non per magnanimità ma per riconquistare consensi e stabilità, «perdono generale alle città e individui, salvo alcune eccezioni». La rivoluzione napoletana colonizzò il sud imponendo un modello astratto ed estraneo. L’esito fu la sanguinosa frattura tra la repubblica settaria delle élite e degli intellettuali giacobini e il popolo meridionale. Quella rivoluzione segnò la definitiva rottura tra riforme e tradizione, avvelenò la monarchia, creò un abisso tra élite e popolo, e in quel vuoto precipitò la borghesia meridionale. Lasciò il regno di Napoli in condizioni peggiori di come l’aveva trovato. «La ruina», come la chiamò Vincenzo Cuoco, cominciò con la Rivoluzione e proseguì con la Restaurazione. Cuoco in un primo tempo seguì la rivoluzione, ma poi da liberale si dissociò e sostenne che le rivoluzioni importate e calate dall’alto sono rovinose per i popoli. Quando cadde la Repubblica esplosero i peggiori istinti della plebe e la dinastia borbonica finì in balìa dei suoi cinici alleati, gli inglesi. Le repressioni seguenti furono volute soprattutto dall’ammiraglio Nelson (una curiosità: il primo Mac Donald sbarcato al sud duecento anni prima dei fast food fu un generale britannico che fece a polpette gli insorti). La reazione borbonica risentiva del tragico esempio francese: il regicidio, il massacro della Vandea e la ghigliottina. Cuoco osservò: «Il male che producono le idee troppo astratte di libertà è quello di toglierla mentre la vogliono stabilire». Si sacrifica l’umanità reale a un’umanità ideale. Difatti con la repubblica partenopea fu instaurata a Napoli la censura e furono eliminati i Sedili del popolo che rappresentavano, pur rozzamente, le istanze popolane. Memorabile è l’ordine che Eleonora Fonseca Pimentel e i giacobini dettero all’arcivescovo di Napoli: fingere che il sangue di San Gennaro si fosse sciolto per dare l’illusione alla plebe che il protettore di Napoli non fosse ostile alla repubblica. Fu un esempio di manipolazione del consenso attraverso l’uso cinico e superstizioso della fede. Ingannare il popolo in nome della libertà e del progresso è un tratto tipico dell’ideologia giacobina. Da più di due secoli i peggiori crimini contro l’umanità si compiono a fin di bene. Questa fu la dittatura degli intellettuali, che seppe distruggere ma non costruire.

MAI DIRE BEST SELLER. LA CULTURA COMUNISTA E L’INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

La scuola obbliga a comprare il libro di Saviano. Il caso in un liceo di Forlì. Gli studenti obbligati a comprare “La paranza dei bambini”. E scoppia la polemica, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 15/01/2017, su "Il Giornale". Compito di un buon insegnante è, anche, consigliare ai propri studenti buoni libri da leggere, e invogliarli con ogni iniziativa possibile ad avvicinarsi agli autori. E compito di un buon dirigente scolastico è quello di organizzare al meglio, con massima efficacia e radioso successo, le iniziative di supporto alla lettura. Ma fra due intenzioni virtuose, a volte può insinuarsi il peccato. Ed è un peccato leggere la circolare indirizzata due giorni fa dal dirigente scolastico del Liceo classico statale «G.B. Morgagni» di Forlì «ai docenti e agli studenti delle classi quarte e quinte» in relazione alla presenza in città di Roberto Saviano, il prossimo 15 marzo. «L'iniziativa rappresenta un'importante occasione per incontrare uno degli scrittori più famosi del momento e per leggere il suo ultimo romanzo La paranza dei bambini», si legge. E fino a qui, tutti pensiamo a una buona scuola. Ma quando si legge «L'adesione all'iniziativa deve riguardare l'intera classe con l'acquisto da parte degli studenti del romanzo al costo di 16 euro», l'intento pedagogico finisce con lo sfumare - se non nell'indottrinamento ideologico - nel business («Non appena verranno comunicate le adesioni da parte del nostro Liceo, dell'Istituto tecnico commerciale e del Liceo scientifico, l'ufficio stampa di Saviano - Feltrinelli, ndr - contatterà l'amministrazione comunale per reperire gli spazi idonei», è il laconico finale della circolare). Presentazione, con obbligo di acquisto. La soluzione per tutti i problemi del comparto editoriale italiano. Si potrebbe introdurre anche ai festival letterari (magari è la volta buona che falliscono). E poi uno si chiede come faccia un autore a scalare le classifiche di vendita. Tre scuole, tremila studenti, tremila libri. Questa settimana il libro di Saviano La paranza dei bambini (Feltrinelli) è secondo assoluto in classifica. E per arrivarci gli sono bastate «solo» 6.800 copie. I consigli di lettura sono il sale dell'insegnamento. E gli incontri con l'autore un modo straordinario per invogliare i ragazzi. La «militarizzazione» delle classi (da parte di un istituto che peraltro usa i fondi strutturali europei) inutile e forse controproducente. Per il resto, ormai Roberto Saviano è così mainstream, persino a Forlì, che può sopportare tutto. La sua presentazione sarà un successo. Per la cronaca, la circolare ce l'ha fatta avere il padre di un ragazzo che non vede l'ora di non andarci.

Tomasi di Lampedusa, il profeta che la sinistra rifiutò di ascoltare. Lo scrittore siciliano nel descrivere l'Italia del 1860 parlava della propria, e anche di quella di oggi. Svelandone i difetti, scrive Stenio Solinas, Giovedì 20/07/2017 su "Il Giornale". Occhio alle date. Sessant'anni fa muore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, due anni dopo il suo Gattopardo, pubblicato postumo, spacca in due la società letteraria dell'epoca e vince lo Strega. Erano quelli gli anni dei fatti d'Ungheria, si registrava il primo decennio post bellico, alla lira veniva assegnato l'oscar per la moneta più stabile e di lì a poco l'Italia avrebbe festeggiato il centenario della sua unità. Dibattere su progresso e regresso, conservazione e rivoluzione, ovvero, e semplificando, essere pro o contro quel romanzo in un'ottica ideologico-politica aveva in fondo la sua ragione d'essere. Come spesso succede da noi, l'ineffabile mondo della sinistra culturale d'allora, che del Gattopardo aveva negato e/o svilito il valore artistico sulla base che si trattasse di un romanzo di destra, nel giro di poco ne magnificherà la versione cinematografica in quanto di sinistra: la regia era di Luchino Visconti e dietro l'opera c'era l'imprimatur e la benedizione del Pci. Di questo trasformismo intellettuale all'italiana, chi ne ha voglia può leggersi tutti i particolari nel libro esemplare di Alberto Anile e Mara Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo, uscito per le edizioni Le Mani quattro anni fa e nel quale c'è anche un puntuale resoconto delle polemiche intellettuali intorno al romanzo stesso. Sessant'anni dopo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa è considerato senza se e senza ma un grande scrittore e Il Gattopardo un monumento letterario del Novecento e bene fa Maria Antonietta Ferraloro a dedicargli questo L'opera-orologio (Pacini, pagg. 80, euro 12) analisi puntuale e documentata del suo meccanismo interno, il suo solidarismo e la sua filosofia della storia, il bestiario che lo attraversa, l'elegia memoriale e il tradimento della letteratura di genere, il cosiddetto romanzo storico compiuto dal suo autore. Bene fa anche l'autrice a definire il romanzesco «se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi» del nipote Tancredi allo «zione» principe di Salina, «parole fra le più citate, vituperate e fraintese della nostra storia letteraria recente». Anche perché l'assunto del Gattopardo è un altro, «il tutto sarà lo stesso mentre tutto sarà cambiato», in peggio, naturalmente, che è la riflessione del principe e che è poi quanto è avvenuto in Sicilia e in Italia. Restando nel campo della letteratura, quello Strega del 1959 vide il Gattopardo vincere su La casa della vita di Mario Praz e Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini e esclusi dalla cinquina erano stati Primavera di bellezza di Fenoglio, Il ponte della Ghisolfa di Testori, Il povero Piero di Campanile. Avete presente lo Strega d'oggi?

Sessant'anni dopo, dunque, siamo tutti consapevoli che Il Gattopardo è un classico e imprigionarlo nella gabbia delle ideologie ha poco senso. Ma sappiamo anche che quell'accusa di essere un romanzo di destra dimostra la miopia della sinistra d'allora, tanto più colpevole perché ne indica la sostanziale incomprensione di che cos'era stata e di che cos'era divenuta l'Italia, inescusabile per una classe intellettuale che si professava militante, moderna e progressista. Il letterato Tomasi di Lampedusa, che di professione «faceva il principe», come aveva dichiarato a un giovane giornalista perplesso, vedeva in realtà più lontano e con più lucidità di tutti quegli intellettuali impegnati che quella realtà si ostinavano a spiegare senza però conoscerla. Raccontando l'Italia del 1860, Lampedusa in realtà ci metteva di fronte a quella di un secolo dopo, che ne aveva ereditato tutti i difetti senza nemmeno preoccuparsi di correggerli: fallimento nel selezionare la classe dirigente, fallimento del potere liberale nel costruire una narrazione nazionale, mancanza di prospettive di lungo termine, vittoria dell'accomodamento sulla serietà. Il suo non era il lamento di un aristocratico decaduto o di un nostalgico nei confronti del tempo andato, era l'amarezza di un italiano di fronte al fallimento di una nazione. Sessant'anni dopo, il paragone è ancora più avvilente, una decadenza alimentatasi nel suo aver continuato a scambiare il cinismo e la furbizia per intelligenza, l'arrivismo e il trasformismo per progetto politico. L'età del boom ci sembra oggi una mitica età dell'oro e insomma si è arrivati al punto di rimpiangere la Seicento. Occhio alle date. «Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore continueranno a credersi il sale della terra». Un profeta, Tomasi di Lampedusa, oltre che un grande scrittore.

Viaggiare in Sicilia sulle orme del "Gattopardo". Un libro mappa, a colpi di piccoli indizi, i luoghi che hanno ispirato il capolavoro, scrive Felice Modica, Giovedì 20/07/2017, su "Il Giornale". Cosa direbbe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, di fronte alla messe di iniziative per i sessant'anni dalla sua morte, che cadranno il 23 Luglio 2017? A Ficarra, piccolo borgo sui Nebrodi, la scrittrice Maria Antonietta Ferraloro e il direttore artistico di Naxoslegge, Fulvia Toscano, hanno ideato il progetto culturale «In viaggio con Tomasi» e promuoveranno una due giorni dedicata allo scrittore, che coinvolgerà varie località siciliane. Historica, editore ufficiale dell'iniziativa, nella collana cahier di viaggio, ne pubblica gli atti nel bel volume Itinerari siciliani. Topografie dell'anima sulle tracce di Tomasi di Lampedusa, a cura di Maria Antonietta Ferraloro, Dora Marchese e Fulvia Toscano. Con contributi di Tanino Bonifacio, Maria Grazia Insinga, Laura Sanfilippo, Alberto Samonà, Giuseppe Nuccio Iacono, Francesco Giubilei. Ferraloro ha ricostruito un periodo poco noto della vita di Tomasi scoprendo Ficarra, importante luogo gattopardiano, che occupa uno spazio bene identificabile all'interno dell'architettura narrativa del romanzo. Già, chissà cosa direbbe Tomasi, di fronte agli sforzi immani di tanti studiosi che si affannano a ricostruirne la vita segreta, il percorso affettivo, i drammi interiori, attraverso piccoli, a volte quasi insignificanti indizi Impresa disperata, considerando la riservatezza dell'uomo. Per il principe ha ricordato una volta il figlio Gioacchino Lanza Tomasi - la distruzione delle memorie fu un impegno costante. Pare gettasse quotidianamente nell'immondizia carte, archivi e fotografie come la carcassa del povero Bendicò Allora, è compito di biografi e critici, tirar fuori dai «vecchi cassetti che non si desiderano più frequentare» mille piccole tessere a comporre l'anima di un uomo complicato. Ma forse proprio questo, avrebbe voluto, il principe: la capacità di essere compreso decifrando i piccoli indizi, magari non proprio per caso sopravvissuti. A Ficarra lo scrittore si fermò, nell'Estate del '43, in fuga, prima da Palermo e poi da Capo d'Orlando, con madre e moglie, in un feudo che era appartenuto ai Filangeri, ora di proprietà dei cugini Piccolo. È quasi certo che l'episodio d'apertura del romanzo, del soldato borbonico trovato morto nel giardino dei Salina, addossato ad un albero di limoni, sia ispirato a un fatto di guerra avvenuto proprio a Ficarra, avente per protagonista uno sfortunato militare tedesco. Inoltre, il cacciatore Ciccio Tumeo, fedele a Don Fabrizio, porta lo stesso cognome di un dipendente dei Piccolo e di un giornalista di Ficarra appassionato lampedusiano. Il viaggio continua con Augusta, sulle tracce della Lighea, il lungo racconto sulla donna sirena abitatrice del Limes. Ancora, a Palma di Montechiaro, fondata dai Lampedusa nel XVII secolo, a Santa Margherita del Belice, a Donnafugata, castello ora museo, dove rifulge l'abito indossato da Claudia Cardinale nel film di Visconti e a villa Piccolo di Calanovella dei cugini Casimiro e Lucio. Dare un nome reale ai non-luoghi di questa topografia dell'anima non è esente da rischi. La Sicilia di Tomasi è quella di un grande intellettuale convinto di dover conciliare l'essere siciliano con la cultura internazionale, ma è anche l'espressione di un mondo aristocratico sconfitto. Che va molto più d'accordo coi contadini che coi borghesi. Un mondo tragico di dimore e affetti distrutti da guerre, terremoti, incuria. L'isola di macerie di un uomo stremato, disilluso, cui è incorso il peggiore fra i destini: sopravvivere alla perdita di ciò che si ama.

I NEMICI DELLA LIBERTA DI STAMPA? QUELLO CHE NON SI DEVE E NON SI PUO’ SCRIVERE.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto.

Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai.  

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

CAPOLAVORI BOCCIATI LEVI O GRASS, UN RIFIUTO NON SI NEGA A NESSUNO. Scrive Paolo Mauri il 17 settembre 2012 su "La Repubblica". Ho letto con ritardo Lolita e Il Gattopardo ", scherzava Ennio Flaiano su l'almanacco del pesce d' oro del 1960, evocando in facili versi due casi letterari esplosi sul finire degli anni Cinquanta e che ancora durano, ma anche due libri accolti con una certa diffidenza e rifiutati dagli editori. Lolita fu respinto da Bompiani e da Garzanti che aveva già avuto i suoi guai con i tribunali per via dei Ragazzi di vita di Pasolini e fu pubblicato invece da Mondadori (editore piuttosto prudente per tradizione) con un forte successo di vendite. Del Gattopardo uscito nel dicembre del ' 58 da Feltrinelli nella collana diretta da Giorgio Bassani su indicazione di Elena Croce, si sa tutto: Vittorini lo aveva consigliato a Mondadori, ma Mondadori non aveva tenuto conto del parere del suo illustre consulente. Sempre Vittorini aveva invece escluso che un romanzo simile potesse figurare nei Gettoni, la collana di autori nuovi da lui diretta per Einaudi. Perché Einaudi non lo pubblicasse in un'altra collana non si sa: si sa invece che la lettera di rifiuto giunse al principe di Salina poco prima che morisse: non avrebbe mai saputo a quale successo era destinato il suo romanzo. Gian Carlo Ferretti pubblica ora presso Bruno Mondadori un libro singolare intitolato Siamo spiacenti che è, come dice il sottotitolo, la "Controstoria dell'editoria italiana attraverso i rifiuti dal 1925 a oggi". Informatissimo e titolare di molti altri lavori sulla nostra produzione libraria, specie di carattere letterario, Ferretti ha frugato a lungo negli archivi degli editori e nelle memorie degli scrittori e molto materiale ha raccolto di prima mano da vari testimoni e protagonisti, con una premessa: rifiutare i libri è una prerogativa degli editori e spesso, anche se non sempre, fa bene anche agli autori. Questo per dire che molti rifiuti risalgono semplicemente a quella che si chiama politica editoriale e infatti un libro rifiutato da un editore trova la propria strada presso un altro (è il caso di Pasolini di cui Mondadori rifiutò la raccolta di versi L' usignolo della Chiesa cattolica, bocciata poi anche da Bompiani, nonostante il parere favorevole di Vittorio Sereni e di fatto non accolse più tardi il Pasolini narratore lasciando che andasse da Garzanti). Ci sono però casi in cui non si tratta tanto di politica editoriale ma di miopia, come testimonia la vicenda di Se questo è un uomo di Primo Levi respinto da Einaudi per ben due volte: nel ' 47 il giudizio positivo di Natalia Ginzburg non è condiviso da Pavese, nel ' 52 Pavese è morto ma il rifiuto si ripete. Einaudi pubblicherà il capolavoro di Levi solo nel ' 58, con il successo che sappiamo. Nel frattempo la casa editrice De Silva diretta da Franco Antonicelli lo aveva pubblicato in duemilacinquecento copie. Sempre in quegli anni Einaudi (ma anche Vallecchi) rifiuta Casa d' altri di Silvio D' Arzo, che viene giudicato gracile. Sulla scheda di lettura Pavese annota: "Non m' interessa affatto. A morte". D' Arzo, scomparso a soli trentadue anni, diverrà poi un autore di culto. Per restare in casa Einaudi vi sono alcuni rifiuti riconducibili a Italo Calvino, alla sua proverbiale prudenza, ma anche al suo gusto e ad un certo disinteresse per la narrativa italiana di quegli anni. Memoriale di Paolo Volponi, per esempio, rimane per mesi nei cassetti di Calvino, senza che l'autore riceva un minimo cenno di assenso o di dissenso. Alla fine Volponi (sostenuto da Pasolini) dà il romanzo a Garzanti che lo pubblica nel ' 62. Tuttavia il rapporto con Garzanti si raffredda perché Volponi, scrittore di alto valore letterario, non sfonda sul piano delle vendite. In segreto Volponi darà anni dopo a Giulio Bollati, divenuto direttore della Einaudi, il suo nuovo romanzo, Corporale. Un tomo di oltre cinquecento pagine che Bollati fa arrivare nelle librerie senza annunci per mettere Garzanti di fronte al fatto compiuto. Tornando a Calvino c' è ancora da registrare la sua opposizione a Testori che aveva proposto I racconti della Ghisolfa nel ' 57. Testori si farà poi strada con Feltrinelli con grande rammarico di Roberto Cerati: un direttore commerciale molto speciale che oggi è presidente della casa editrice torinese. Ancora nel ' 63 Calvino non capisce la novità della Scoperta dell'alfabeto di Luigi Malerba, una raccolta di racconti che giudica "grezzi e con poca sostanza, mi pare neorealismo paesano stile 1946 ma senza lirismo". L' esordio di Malerba, forse proprio perché molto originale, fu respinto da diversi editori prima di trovare in Ennio Flaiano un lettore entusiasta che lo portò da Bompiani dove fu pubblicato nel ' 63. Insomma, come dice Ferretti più volte, c' è una Provvidenza laica che presiede anche al mondo del libro e aggiusta i pasticci combinati da editori e consulenti. Così se Alberto Mondadori dice di no a Gadda nel ' 48 per Il pasticciaccio, ci sarà Garzanti a subentrare sia pure diversi anni dopo, ma qui bisogna aggiungere che è anche a Gadda che va riportata la responsabilità di un difficile rapporto con l'editore, avviato fin dal ' 43. Sull' appunto di Gadda è lo stesso Alberto Mondadori a scrivere: troppi soldi. Tra l'altro Gadda gli chiede di liberarlo da un impegno con Vallecchi per la cifra di 210.000 lire. Ferretti ripercorre la sua controstoria editore per editore: anche dai rifiuti si capisce il taglio culturale e il farsi di una vicenda complessa con i suoi alti e bassi, nel senso che un progetto editoriale attraversa momenti diversissimi e certi giudizi sono spesso dettati dalla contingenza. Per non voler essere spregiudicato, Einaudi, per esempio, boccia nel ' 63 il libro inchiesta di Fofi sull' Immigrazione meridionale a Torino provocando il licenziamento di Raniero Panzieri e di Renato Solmi che lo avevano appoggiato. E per voler essere spregiudicato e vicino agli studenti in lotta, siamo nel ' 68, non pubblica il saggio di Giovanni Getto sul Barocco in prosa e in poesia portato in casa editrice da Guido Davico Bonino e per il quale era stato firmato un contratto: Getto, tra i più prestigiosi titolari di cattedra, è naturalmente oggetto di contestazione. Vicenda drammatica, come qualcuno ricorderà, perché Getto, già in profonda crisi personale, arrivò persino a tentare il suicidio. Il saggio fu subito accolto dalla Rizzoli e vinse nel ' 69 il Premio Viareggio. Qualche anno dopo fu sempre Rizzoli a pubblicare L' autobiografia di Giuliano di Sansevero di Andrea Giovene, di cui Ferretti non parla, anche se l'immenso volume deve essere stato respinto da più di un editore se è vero che l'autore dichiara di aver deciso di stamparlo in proprio dopo "un accenno di tentativi avanzati senza crederci". Il volume di Giovene fu inviato un po' a tutti quelli che contavano nel mondo letterario, ma senza nessun esito. Uno studioso finlandese lo lesse e lo fece pubblicare tradotto a Stoccolma. Il caso nacque così e Rizzoli lo stampò a sua volta in cinque volumi. Nonostante il successo, anche di critica, il libro scomparve fino ad una recente ristampa presso Elliot. Nel 1961 Valentino Bompiani si ritrova tra le mani un libro già stampato senza che lui ne sapesse nulla: è Il tamburo di latta di Günter Grass. Bompiani lo legge e lo manda al macero (cinquemila copie) nonostante fosse già stato annunciato dal Notiziario della Casa. I diritti vengono ceduti a Feltrinelli, la casa editrice più giovane e vivace in quegli anni, che lo pubblica l'anno dopo con un successo strepitoso. Sembra che a Bompiani avessero dato fastidio alcuni passi "scandalosi" e altri addirittura blasfemi nei confronti della Chiesa. (Ottimi elementi, si sa, per un incremento delle vendite). Anche molti dei bestseller del nostro passato prossimo hanno conosciuto il rifiuto editoriale. Lo stesso Ferretti, divenuto direttore editoriale degli Editori Riuniti, bocciò un libro di Andrea Camilleri, che era già stato accettato dal suo predecessore, Giuliano Manacorda. Persino La donna della domenica fu all'inizio respinto da Mondadori e da Rizzoli, ma solo per ragioni economiche (i due autori chiedevano un anticipo troppo alto). Poi Mondadori lo pubblicò con l'esito che conosciamo. Susanna Tamaro incassò ventisei rifiuti in dieci anni per le sue due prime opere, rimaste per altro inedite, nonostante l'appoggio di letterati influenti come Claudio Magris. Oggi gli esordienti si sono moltiplicati a dismisura: l'editoria appiattita sui consumi coltiva, in mancanza di meglio, scrittori piccoli piccoli, nella speranza che uno su mille divenga un caso. Ma l'essere pubblicati o anche solo l'essere respinti, non ha più il valore, pur sempre relativo, di un tempo. Alla fine i grandi rifiutati del secolo scorso restano quelli di sempre: Tomasi di Lampedusa e Morselli soprattutto. Di Tomasi abbiamo detto. Guido Morselli, che pure aveva degli estimatori di grande livello, non riuscì a vincere la sua lunghissima battaglia e si suicidò. Poi divenne un caso grazie ad Adelphi. Il record dei rifiuti spetta, comunque, a Giuseppe Cerone, malinconico caso di uno scrittore fantasma che si specializza nell' essere, appunto uno scrittore rifiutato e di questo narra, un po' come, ma in misura assai diversa, capita ad Antonio Moresco. Cerone tentò anche di entrare nel Guinness dei primati, ma anche lì fu respinto perché l'americano Bill Gordon aveva ricevuto più rifiuti di lui.

Quello che non si deve scrivere, scrive il 15 novembre 2014 "Varesedaybyday". Come si fa il giornalista in un giornale di provincia? Dove sta il confine tra ciò che posso e devo scrivere e quello che invece è da evitare? Queste sono alcune tra le domande che questo pomeriggio si sono posti i partecipanti al convegno tenutosi presso il Teatrino Santuccio di Varese. L’approccio etico al giornalismo, ovvero l’applicazione norme non scritte che tutti i professionisti dovrebbero rispettare per comunicare la notizia in modo veritiero e oggettivo, è un tema molto attuale. La preoccupazione dell’ordine per quelle che potrebbero essere le conseguenze di un approccio troppo personale al lavoro ha portato alla stesura di tredici carte deontologiche che tutelano, forse eccessivamente, i diritti delle persone citate negli articoli giornalistici. Queste carte hanno la presunzione di mettere per iscritto l’etica, quando invece l’uomo già sa cosa è bene e cosa è male, anche se talvolta è più comodo far finta di non sapere. Certamente in un articolo bisogna discutere di cose che interessano il pubblico, ma l’etica è un valore universale in rapporto stretto con il rispetto della persona. Gianni Spartà, ex cronista della Prealpina, afferma che “ogni uomo è nudo dietro le sbarre” e conclude citando Vittorio Garrieso: “non esiste un giornalismo oggettivo, ma uno onesto o disonesto”. Ognuno ovviamente filtra la notizia e la propone con il suo stampo personale, ma se è un bravo giornalista sa anche qual è il confine tra ciò che è vero, ciò che si deve e si può dire e ciò che è irrilevante. Così resta aperta la domanda: “Che cosa merita di essere notizia, ma soprattutto, come è meglio fare notizia?”

La Boldrini vuole imporre il buonismo per legge. Lo studio della commissione istituita dalla presidente: "Per evitare l'odio bisogna controllare l'informazione", scrive Giorgia Meloni, Presidente di Fdi-An, Venerdì 28/07/2017, su "Il Giornale".  Caro Direttore, vogliono che le persone siano uccise per strada per la loro opinione politica, come capitato alla deputata britannica anti Brexit Jo Cox? No? E allora è necessario limitare la libertà di espressione, mettere dei filtri a internet, istituire un «gran giurì che garantisca la correttezza dell'informazione». Sarà lo Stato a stabilire cosa è vero e cosa è falso, cosa si può dire e cosa no, quali parole è consentito utilizzare e quali sono vietate, cosa può essere visto e scritto su internet e cosa debba essere oscurato. Ti sembra eccessivo? Allora sei intollerante, xenofobo, razzista e pure pericoloso. Non è la trama di uno scadente film di fantascienza, di quelli con gli alieni di cartapesta con un faro rosso legato sulla testa con lo spago, ma è il documento conclusivo della Commissione istituita dal presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini, per prevenire «i fenomeni d'odio». Il ragionamento logico (se così vogliamo definirlo) del documento è il seguente: esiste una «piramide d'odio» nella quale «stereotipi negativi, rappresentazioni false o fuorvianti, insulti, linguaggio ostile» costituiscono la base delle discriminazioni, dei messaggi d'odio e degli «atti di violenza fisica, fino all'omicidio, perpetrati contro persone in base a qualche caratteristica come il sesso, l'orientamento sessuale, l'etnia, il colore della pelle, la religione o altro». Lo «studio» della Commissione sostiene, in altre parole, che esiste un collegamento diretto di causa ed effetto tra un'informazione «non corretta» e la violenza. Da qui la conseguenza del ragionamento: per contrastare la violenza e gli omicidi dei pericolosi xenofobi che affollano le nostre società è giusto e necessario controllare l'informazione. Ma questa è un'aberrazione pericolosa e un'idiozia di cui ridere se non fosse pericolosa. È una tentazione che la sinistra ha da sempre e che ritorna con forza ogni qual volta la sinistra si trova in difficoltà perché perde consenso tra l'opinione pubblica. Invece di ascoltare la voce del popolo, la sinistra vuole controllarla. Perché per questa gente la democrazia è una bella cosa, ma solo finché la maggioranza dice e pensa ciò che vogliono loro. Se emerge un'opinione non gradita, è sufficiente etichettarla come intollerante, xenofoba, razzista o, meglio ancora, fascista. E il problema è risolto. Se la Commissione della Boldrini ha un merito è quello di essere talmente grottesca da smascherare il gioco liberticida che la ispira. Così, nella pericolosa categoria degli «stereotipi e false rappresentazioni», la Commissione inserisce anche l'opinione condivisa dal 48,7% degli italiani: «In condizione di scarsità di lavoro, i datori di lavoro dovrebbero dare la precedenza agli italiani». Ma questa è una posizione che Fratelli d'Italia sostiene apertamente e che in molte Nazioni evolute è legge dello Stato, come negli Stati Uniti, anche sotto la presidenza del democratico Obama. Ma, nella relazione conclusiva della Commissione, troviamo, tra le «pericolose» opinioni da correggere, anche molto altro: la convinzione sostenuta dal 52,6% degli italiani secondo la quale «l'aumento degli immigrati favorisce il diffondersi del terrorismo e della criminalità»; la contrarietà del 41,1% all'apertura di una moschea sotto casa e l'opinione negativa sui rom sposata dall'82% degli italiani. Insomma, per la sinistra la soluzione ai problemi come l'immigrazione incontrollata, il terrorismo, l'islamizzazione forzata dell'Europa, la criminalità dei rom e il degrado è molto semplice: basta vietare per legge di parlarne e di scriverne. Cara presidente Boldrini, caro «gran giurì», cari inquisitori del terzo millennio: non credo che il popolo italiano rinuncerà così facilmente alla propria libertà. Noi siamo figli della democrazia greca, del diritto romano e della cultura europea, non delle satrapie d'Oriente o dell'oscurantismo islamico. E ora accusatemi di diffondere «stereotipi culturali».

E "Repubblica" scopre l'odio ad personam, scrive "Il Giornale", Venerdì 28/07/2017. È più di una settimana che Repubblica si scervella: come mai Renzi è così odiato, poverino? Il primo pistolotto è di Massimo Recalcati, esimio psicanalista e saggista che si domanda: «Ma possibile che ogni atto, ogni pensiero, ogni gesto politico di Renzi sia sbagliato? Non è un po' sospetto?». Poi hanno detto la loro Guido Crainz, Roberto Esposito, Tomaso Montanari, Emanuele Felice. L'ultima dotta analisi è di Massimo Ammaniti, altro psicopatologo e professorone che «assiste con sconcerto a insulti e accuse sprezzanti che coinvolgono Renzi...». Ma come? Dov'era Repubblica, quotidiano diretto da Mario Calabresi, e dove tutte queste teste pensanti quando un odio ancora peggiore investiva Berlusconi per più di vent'anni? Come sempre due odi e due misure.

Libertà di stampa, così i giornali si dividono sulle accuse a Grillo, scrive l’Agi il 27 aprile 2017. Dal rapporto 2017 di Reporters sans Frontieres, l’organizzazione internazionale che ogni anno fa il punto sullo stato di salute dell’informazione nel mondo, emerge che l'Italia nella classifica annuale guadagna 25 posizioni passando dal 77/o al 52/o posto. Restano però "intimidazioni verbali o fisiche, provocazioni e minacce", e "pressioni di gruppi mafiosi e organizzazioni criminali". Tra i problemi indicati anche l'effetto di "responsabili politici come Beppe Grillo che non esitano a comunicare pubblicamente l'identità dei giornalisti che danno loro fastidio". La reazione del leader M5s al rapporto non si è fatta attendere: "Oggi ho scoperto di essere io la causa del problema di libertà di stampa in Italia. Lo afferma il rapporto di Reporters Sans Frontieres appena pubblicato", scrive Grillo sul suo blog. Ecco come hanno commentato i quotidiani italiani la vicenda:

"Chi di rapporto colpisce, di Rapporto perisce". Per poter dare più autorevolmente dei servi ai giornalisti che non la pensano come lui, Grillo ha spesso usato il Rapporto di "Reporter senza frontiere" sulla libertà di stampa che colloca l'Italia nelle posizioni di bassa classifica. Quest'anno le cose vanno un po' meglio. Ma se non vanno ancora bene, dicono gli estensori della ricerca, è anche per colpa delle liste di proscrizione che Grillo è solito pubblicare sul proprio blog con i nomi dei cronisti sgraditi. Insomma, chi di Rapporto colpisce, di Rapporto perisce. Ma ecco l'ennesima giravolta del grand'uomo. Trovandosi per una volta lui dentro la lista dei cattivi, prende cappello e ne attacca gli autori, fino a ieri portati a modello, accusandoli di essere passati al soldo dei giornali. Massimo Gramellini - Il Corriere della Sera 

Reporters sans Report. Resta da capire come mai, quando le opposizioni criticavano la Rai occupata da B., gli organismi internazionali si preoccupavano non per chi la criticava, ma per chi la occupava, mentre oggi che le critiche vengono dai 5Stelle e dalle sinistre sciolte, cioè dagli esclusi dalla spartizione, il monopolio governativo sull'informazione non è più un vizio da combattere, ma una virtù da difendere. Il guaio è che ormai la percezione della realtà è talmente falsata dai gargarismi propagandistici sul populismo, le post-verità e le fake news, che anche chi la osserva dall'esterno è costretto a indossare occhiali deformanti. E giunge a conclusioni paradossali: se il pericolo per la stampa libera viene da chi critica la propaganda governativa, da sempre principale produttrice ed esportatrice di fake news, e non dal partito di governo che caccia la Berlinguer dal Tg3 perché non allineata, chiude Ballarò di Giannini perché non allineato e bombarda Report perché non allineato, allora anche in Turchia e in Russia la libera stampa è minacciata non da Erdogan e da Putin che arrestano i giornalisti scomodi (quelli che hanno la fortuna di non crepare in circostanze misteriose con largo anticipo sulla tabella di marcia) e chiudono i giornali di opposizione, ma da chi protesta contro gli arresti e le serrate. C'è una bella differenza - o almeno dovrebbe esserci - fra le opposizioni che criticano i Minculpop governativi e i governi che attaccano i pochi giornalisti e testate che sfuggono al loro controllo. Marco Travaglio - Il Fatto quotidiano

Prima era il verbo ora non vale più. Si capisce che a Beppe Grillo non faccia piacere, scoprire che nel rapporto annuale di Reporters senza frontiere sulla libertà di stampa in Italia c'è finalmente il suo nome, ma purtroppo tra le cause e non tra i rimedi della malattia dell'informazione. Grillo naturalmente non ci sta, a essere indicato come l'unico politico che condiziona la libera stampa. Lui che da otto anni a questa parte cita il rapporto di Rsf a ogni suo comizio, lui che al primo vaffa day ci spiega che la nostra informazione è inquinata, lui che promette notizie pulite e anzi pulitissime quando i Cinquestelle andranno al potere, non accetta di essere additato come il principale responsabile delle minacce ai giornalisti, addirittura accanto alla mafia e all'Isis. Sebastiano Messina - La Repubblica

La libera stampa? Chi la minaccia non è (solo) Grillo. Non ho mai avuto troppa fiducia in questa speciale classifica, né oggi mi sento minacciato da Beppe Grillo nonostante mi onori di ospite quasi fisso nella sua personale lista di giornalisti da mettere all'indice. Anche perché per passare dalle parole ai fatti è necessario sedere nella stanza dei bottoni, cosa che oggi, per fortuna non è. Semmai - come ho già avuto modo di dire - a limitare la libertà siamo noi giornalisti, soprattutto i colleghi che fanno tv che accettano, immagino liberamente, di trattare grillini a condizioni vergognose (niente contraddittorio, domande spesso concordate, ospiti in studio al massimo se scelti da loro in quanto simpatizzanti). Personalmente ho scritto di tutto su Beppe Grillo, compreso ricordare il suo passato di evasore fiscale, e non ho mai ricevuto una querela. A differenza di quanto accade con i magistrati, con i quali siamo in perenne contenzioso legale. Alessandro Sallusti - Il Giornale

I giornalisti sono scribacchini abilitati, ossia omologati, al servizio del potere editoriale di turno, genuflesso ad una certa ideologia cosiddetta di sinistra o ad una lobby economica mirante solamente all’esercizio del potere per usufruire di privilegi creatasi ad arte.

La Boldrini alla Meloni: nessun bavaglio per legge. La risposta del portavoce della Boldrini, Roberto Natale, Sabato 29/07/2017, su "Il Giornale". L'onorevole Giorgia Meloni, sul Giornale di giovedì, dà una rappresentazione del tutto distorta della Commissione Jo Cox, istituita dalla presidente Boldrini alla Camera sui «fenomeni di odio, intolleranza, xenofobia e razzismo». Chi voglia leggere la relazione finale - reperibile all'indirizzo camera.it/leg17/1313 - appurerà che affermazioni come «sarà lo Stato a stabilire cosa è vero e cosa è falso», oppure che «per contrastare la violenza e gli omicidi dei pericolosi xenofobi è giusto e necessario controllare l'informazione», non hanno nulla a che vedere con le proposte avanzate dalla Commissione, che sono lontanissime da ogni idea di «ministero della Verità». Sarà utile inoltre ricordare che la Commissione Jo Cox ha mostrato una forte attenzione al pluralismo fin dalla sua modalità di composizione. Sono stati infatti chiamati a farne parte un deputato per ogni gruppo politico, esperti, rappresentanti di associazioni e di organismi internazionali. Tra di loro, per il gruppo Fratelli d'Italia, l'onorevole Giovanna Petrenga, che ha partecipato ai lavori della Commissione e che non risulta aver mai sollevato le obiezioni che oggi esprime l'onorevole Meloni. Né a voce durante le riunioni, né presentando emendamenti al testo della relazione finale nei venti giorni che i componenti della Commissione hanno avuto a disposizione. Roberto Natale, portavoce della presidente della Camera Laura Boldrini.

Luoghi pubblici e norme private, scrive Alessandro Gilioli il 28 luglio 2017 su "L'Espresso". Per aver condiviso questa vignetta di Biani sono stato sospeso da Facebook per 24 ore. La vignetta è una parodia di un manifesto fascista e razzista del '44. Non è difficilissima da capire. Niente di grave, s'intende, il mio ban: e sarà capitato a tutti o quasi quelli che qui mi leggono. Un po' come alle medie, quando la prof ti mandava in corridoio o dietro la lavagna una ventina di minuti per punizione. Ci trattano come dei ragazzini, i padroni della rete. Sanno che loro sono onnipotenti, noi nelle loro mani. La nostra possibilità di parlare - di diffondere le nostre opinioni - è in mano a un ignoto poliziotto che è allo stesso tempo legislatore e giudice. Un poliziotto-giudice-legislatore che esercita il suo potere in assoluto e che non sempre è intelligentissimo: quando ho chiamato Facebook, mi hanno risposto che probabilmente il "revisore" (così vengono chiamati, quelli che impongono i ban) che mi ha messo in punizione non parlava italiano e non ha capito. Questo almeno è quanto mi ha detto l'ufficio stampa di Facebook, a cui come giornalista - quindi "privilegiato" - mi sono rivolto. Così come mi sono rivolto a Luca Colombo, country manager di Facebook in Italia, insomma il numero uno dell'azienda in questo Paese. Che sostiene di non sapere nulla di ban e sospensioni, lui non se ne occupa, «non so nemmeno se a sospendere sia un algoritmo o una persona». Il capo di Facebook in Italia che rifiuta di dirti quali sono i meccanismi dei ban. Trasparenza zero, opacità totale.

La pagina dei “Principi di Facebook” è in dieci punti, come i comandamenti: ciascuno è di poche righe, ma tutti sono carichi di intensità e pieni d eccellenti propositi. Il primo, ad esempio, si intitola recita: «Gli utenti dovrebbero avere la libertà di condividere tutte le informazioni che desiderano e avere il diritto di contattare online chiunque, qualsiasi persona, organizzazione o servizio, purché entrambi acconsentano al contatto». Bellissimo, no? Ma non è meno importante il principio numero 3 secondo il quale «gli utenti dovrebbero avere la libertà di accedere a tutte le informazioni rese loro disponibili da altri utenti; gli utenti dovrebbero inoltre disporre degli strumenti pratici necessari in grado di facilitare, velocizzare e rendere efficienti la condivisione e l'accesso a tali informazioni». La parola libertà compare otto volte, ma non mancano altri termini fondamentali: benessere, accesso, legislatore, perfino uguaglianza. L'ultimo punto, intitolato “Un unico mondo” è un inno all'internazionalismo: «Il servizio di Facebook dovrebbe trascendere i confini geografici e nazionali ed essere disponibile per gli utenti di tutto il mondo». La filosofia di fondo di tutta la pagina sembra in piena continuità con l'articolo 11 della Dichiarazione universale dell’uomo e del cittadino del 1789: «La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell'uomo. Ogni cittadino può dunque parlare, scrivere e pubblicare liberamente, salvo a rispondere dell'abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge». Insomma, la tavola dei principi di Facebook sembra la carta costituzionale di uno Stato: uno Stato transnazionale, con quasi due miliardi di cittadini, che qui però si chiamano utenti. E che abitando nel social sono tenuti a rispettarne «i termini e le normative» che appaiono su un'altra pagina interna, dove si scopre come e quanto i padroni del giardino Facebook si ergono a presidenti, sindaci, giudici e guardie di tutto lo Stato, a partire dalla condizione fondamentale: «Ci riserviamo il diritto di rimuovere tutti i contenuti o le informazioni che gli utenti pubblicano su Facebook, nei casi in cui si ritenga che violino la presente Dichiarazione o le nostre normative». Le condizioni generali di servizio sono un contratto unilateralmente imposto da Facebook. In buona sostanza, sono “legge”; e la loro violazione permette ai padroni del giardino privato il diritto di rimuovere ogni genere di contenuto. Tuttavia “Mr Facebook” non è soltanto legislatore e poliziotto nel suo guardino privato ma anche giudice: poche righe più avanti nel medesimo documento, con grande magnanimità stabilisce che «se abbiamo eliminato dei contenuti e l'utente che li ha pubblicati ritiene che ci sia stato un errore, ha la possibilità di presentare ricorso». Il ricorso in questione, naturalmente, deve essere presentato a Facebook e, altrettanto naturalmente, è valutato e deciso dallo stesso Facebook.

Ma la vita nel sito di Zuckerberg non scorre in modo tanto diverso rispetto alle strade, alla piazze e ai negozi del fornitore di servizi online più grande del mondo ovvero Google. Basta, anche in questo caso, scorrere i termini d’uso di Mountain View. Tipo: «Potremmo riservarci il diritto di esaminare i contenuti per stabilirne l’eventuale illegalità o contrarietà alle nostre norme, e potremmo altresì rimuovere o rifiutarci di visualizzare dei contenuti qualora avessimo ragionevole motivo di ritenere che violino le nostre norme o la legge. Potremmo sospendere o interrompere la fornitura dei nostri Servizi all’utente qualora questi non rispettasse i nostri termini o le nostre norme oppure qualora stessimo effettuando accertamenti su un caso di presunto comportamento illecito». L’aggettivo possessivo “nostro” è ripetuto cinque volte in tre righe. Nel leggere queste policy si può fingere di non capire, per vivere in modo leggero e spensierato la propria esistenza sui social network; ma non si può non capire sul serio un messaggio che non potrebbe essere espresso più chiaramente: loro sono i padroni, noi gli ospiti; loro fanno le norme, noi possiamo o obbedire o andarcene. Benché per ciascuno, ormai, i servizi in rete siano pezzi integrante dell'esistenza almeno online, Google graziosamente “ci ospita” e altrettanto graziosamente ci offre supporto nella nostra vita online ma senza mai smettere di ricordarci che siamo ospiti, peraltro in debito di gratitudine, all’interno del loro giardino privato. Sono loro a decidere se e per quanto potremo continuare ad utilizzare determinati servizi e, soprattutto, se i nostri contenuti potranno o meno restare accessibili al mondo intero. E non pensate che i giardini più recenti siano diversi da quelli dei loro avi: navigando nelle condizioni generali di servizio di Twitter, la musica non cambia: «Twitter si riserva il diritto (ma non avrà l’obbligo)», si legge nelle prime righe delle condizioni di servizio, «di rimuovere o rifiutare, in ogni momento, la distribuzione di Contenuti sui Servizi, di sospendere o chiudere utenze e di richiedere la restituzione di alcuni nomi utente senza alcuna responsabilità nei confronti dell’utente». Parole che, anche in questo caso, non lasciano spazio alcuno a dubbi. I padroni della piattaforma hanno potere di vita e di morte sui contenuti degli utenti senza che nessuno possa rimproverargli alcunché.

E qui va sfatato un mito, un pensiero erroneo ma estremamente diffuso: quello secondo il quale, trattandosi di società private, Facebook e gli altri colossi del web possono fare tutto quello che vogliono in modo assolutamente arbitrario e senza rispondere a nessuno se non a se stessi. Va sfatato intanto per un semplice principio di buon senso che si applica a qualsiasi altra attività privata, cioè il rispetto per alcune regole comuni di utilità collettiva: anche il ristoratore sotto casa è un'attività privata, ma se in cucina ci sono gli scarafaggi la collettività ha il diritto di intervenire, per motivi igienici. Allo stesso modo, non esiste alcun principio di “assolutezza” dei social network e delle corporation digitali rispetto alle società in cui operano: altrimenti, per coerenza, dovremmo accettare l'idea che un giorno uno di questi siti vieti il suo ingresso alle persone con un particolare colore della pelle, oppure cancelli i contenuti di un determinato partito, perché tanto «è una società privata e può fare quello che vuole». E c'è di più, per quanto riguarda alcuni di questi siti, come ad esempio Facebook e Google. C'è cioè il fatto che la loro potenza, la loro forza, la loro diffusione ha fatto sì che ormai superano di gran lunga la dimensione della semplice potenzialità per entrare nella sfera del bisogno, quindi in certo senso del diritto. Per capirci: in molti settori, ormai, un'azienda che non è su Facebook è come se fosse morta; lo stesso dicasi per un politico o per un giornalista, per un cantante, per un artista; e tante altre professioni ancora, per le quali l'esistenza sul social network di Zuckerberg è ormai una condicio sine qua non di sopravvivenza. Possono, queste persone, rischiare di essere espulse sulla base di un codice del tutto arbitrario e privato? Ma, aldilà degli aspetti economici e professionali, senza Facebook, Google o Twitter una parte importante della popolazione del mondo oggi, probabilmente, si ritroverebbe isolata e impossibilitata a comunicare come ormai si è abituata a fare: le sue relazioni sociali, amicali, affettive sono quindi alla mercé di un gruppetto di misteriosi decisori che stanno da qualche parte nel mondo, tra l'Irlanda e la California, e che decidono se, quanto, quando bannarci, a loro totale giudizio: e a loro solo ci possiamo appellare, non a un “giudice terzo”, se siamo stati parzialmente o totalmente espulsi.

Scrive Peter Ludlow, nel suo libretto intitolato “Il nostro futuro nei mondi virtuali” che «i mondi virtuali e i social network sono meno democratici delle nostre società reali e i gestori li amministrano come dittatori, senza rendere conto ai propri utenti-cittadini. Ne decidono il bello e il cattivo tempo. Se bandire qualcuno dalla community, per esempio. Il paradosso: man mano che i mondi virtuali acquistano popolarità, vengono gestiti in modo sempre più autoritario. Ed è qualcosa di cui preoccuparsi». Per lo studioso americano, «se i network sono gestiti in modo non democratico né trasparente possono essere manipolati per servire gli interessi di un individuo invece che del gruppo; e, in secondo luogo, c'è il rischio che i mondi virtuali ci rendano avvezzi a vivere in ambienti poco democratici, dove sono aboliti i diritti frutto di secoli di lotte, progresso e conquiste civili. In altre parole, le dittature on line ci rendono più passivi nei confronti di un possibile dittatore nel mondo reale». Sicché, secondo Ludlow, «è necessaria una sorta di nuovo illuminismo dei mondi virtuali, dove i gestori offrano nuovi strumenti per condurre esperimenti di democrazia: strumenti con i quali gli utenti stessi possano sviluppare i propri sistemi politici e di governance. La giurisprudenza del mondo reale, da parte sua, deve cominciare a considerare i mondi virtuali non più come proprietà di un'azienda, ma come vere "nazioni". Altrimenti finiremo sotto il pugno di un despota ogni volta che andremo su Internet».

L'allarme di Peter Ludlow sulla “tirannia dei mondi virtuali” è del 2010 ma da allora è stato completamente ignorato, tanto dalle corporation stesse quanto dai governi e dalla politica. Molti i motivi, tra i quali l'egemonia culturale del mantra “privatistico”, diffuso in Occidente dai tempi di Reagan e Thatcher, ma mai davvero contestato neppure dalla sinistra, con poche eccezioni. Tuttavia, forse, tra le ragioni per cui nessuno cerca almeno di “temperare” un equilibro così squilibrato c'è anche la graduale e contemporanea sottrazione di sovranità politica complessiva dagli stati nazionali verso i vari poteri economici sovranazionali, una tendenza globale che ha reso molto più deboli i governi in generale. Una tendenza di cui anche il trasferimento “legislativo” dai codici degli Stati democratici alle norme private delle corporation è nel contempo causa ed effetto.

I problemi di Internet? Nascono fuori dal web. Luogo di libertà, ma anche di odio. Di crescita ma anche di appiattimento. Di conoscenza ma anche di inganni. Due studiosi spiegano perché la rete sfugge a ogni semplificazione. E come dai troll alle fake news quasi tutte le questioni spinose on line abbiano cause off line, scrive Fabio Chiusi il 27 luglio 2017 su "L'Espresso". Da mesi il discorso pubblico su Internet è monopolizzato dal tentativo, affannoso e spesso vano, di cancellare dalla rete odio, estremismo, propaganda, minacce e abusi. Non passa giorno senza che un leader politico chieda rimozioni più efficaci, e un gigante del web vi risponda con iniziative più o meno efficaci per metterci una pezza. Ma stiamo solo grattando la superficie, spiegano Whitney Phillips e Ryan M. Milner in un saggio da poco pubblicato da Polity, “The Ambivalent Internet. Mischief, Oddity, and Antagonism Online”. Perché il problema non è Internet, e nemmeno i social media. Per spiegarlo, i docenti della Mercer University e del College of Charleston hanno steso uno splendido, complesso catalogo intellettuale della varietà delle forme espressive in rete, abitandone i meandri più oscuri, e insieme descrivendoli equipaggiati del più aggiornato sapere scientifico in materia. Entrambi hanno risposto via mail, con un’unica voce, alle domande dell’Espresso.

Phillips e Milner, al cuore del vostro libro c’è il concetto di “ambivalenza”. Ovvero che «le stesse tecnologie che facilitano cooperazione, connessione e senso di comunità possono agevolare discordia, ansia e alienazione» tra chi sta ai margini di un gruppo sociale. Mi chiedo se ciò implichi l’impossibilità di ridurre i rischi della vita in rete senza ridurne allo stesso tempo i benefici o se, invece, sia possibile affrontare separatamente il bene e il male su Internet.

«Il concetto di ambivalenza on line è una matassa che non si può sbrogliare; gli stessi strumenti che possono essere sfruttati per fini di progresso positivo possono anche, almeno in potenza, venire impiegati per scopi distruttivi. Ciò detto, esistono modi per affrontare specifiche piattaforme e comunità in rete separandone i comportamenti positivi e distruttivi. Il trucco sta nel considerare l’unicità di ciascuno strumento e nel comprendere l’impatto di ogni comportamento. Non nell’emettere generiche sentenze sull’intera rete Internet o sui social media nel complesso».

Su una cosa però i leader in tutto il mondo sembrano essere d’accordo: i colossi web devono fare di più contro l’odio on line e la propaganda terroristica, rimuovendone i contenuti più rapidamente. Ha senso chiedere ai gestori dei social media di diventare sceriffi dei contenuti?

«Tentare di affrontare il problema dell’odio on line è ragionevole e necessario. Tuttavia il vero problema è molto più profondo di Internet, e sta nel comprendere perché si prendano posizioni d’odio. È sbagliato pensare che risolvendo in qualche modo la questione della moderazione dei commenti on line si risolva anche quel problema, che in realtà è più ampio. Il che non significa che dovremmo smettere di cercare di rendere Internet un luogo più sicuro, ma che dovremmo renderci conto di quanto sia complesso ciò che stiamo cercando di combattere: gli attriti off line, le intolleranze off line, le ingiustizie off line. Che di certo si riflettono nei comportamenti in rete, ma che non sono di per sé stessi la causa primaria di alcunché».

Ma odio, propaganda, trolling, cyberbullismo e altri esempi negativi di ambivalenza on line sembrano essere un’emergenza, o quantomeno un fenomeno in crescita.

«Sono un problema in rete, ma non l’unico. Altri comportamenti insidiosi sono altrettanto problematici. Per esempio, la tendenza ad appiattire l’intero spettro delle ripercussioni politiche ed emotive di una particolare questione a singoli contenuti decontestualizzati: una sola immagine, o tweet o meme. Non considerare la complessità del contesto di una notizia o di una vita può rendere molto difficile rispondere in modo etico al dolore altrui. Magari questo tipo di reazioni non raggiunge il livello di una molestia razzista premeditata, ma tutte insieme creano un ambiente privo di compassione, in cui la responsabilità collettiva di trattare gli altri con cura e rispetto sfuma ed è più facile abbandonarsi a forme più ovvie di antagonismo».

Il problema, scrivete nel libro, è che non abbiamo una teoria complessiva che ci insegni come rispondere alle molteplici forme di ambivalenza on line. Ed è ancora più problematico se, come aggiungete, i danni prodotti in rete hanno caratteri di immediatezza, persistenza e reperibilità «distinti da qualunque esperienza» negli spazi fisici. La vostra soluzione è «lavorare con, non contro, l’ambivalenza». Che significa?

«Prima di tutto, significa non imporre soluzioni universali a comportamenti e strumenti ambivalenti. Per esempio, chiediamo di giudicare le forme di espressione on line caso per caso, facendo attenzione ai loro effetti tangibili, piuttosto che dichiarare che lo strumento, la piattaforma o il comportamento X, nel complesso, è buono o cattivo. Semplicemente, farlo non aiuta. E ricordiamoci che il bene di uno può essere il male dell’altro. In sostanza, quindi, adottare la prospettiva dell’ambivalenza significa dare per scontato che ogni cosa è complessa, e concentrarsi su ciò che può essere detto, e fatto, all’interno di un particolare contesto». 

Parlando di identità in rete, e del gioco di maschere e ruoli che vi si accompagna, scrivete che «vero e falso sono concetti relativi, sia off line che on line». Viviamo nell’era della “post-identità”, più che in quella della “post-verità”?

«Semmai oggi l’identità è sempre più importante, in particolare con l’ascesa di odio e molestie on line che proprio su di essa si basano. Se il mondo fosse davvero “post-identitario”, non ci sarebbero persone bersagliate per il colore della pelle, il sesso o l’affiliazione religiosa da soggetti che si sentono superiori per alcuni aspetti della loro identità. Si pensi poi all’importanza della politica identitaria nel 2017, incluso il suo ruolo nell’elezione di Donald Trump. Ma anche senza considerare queste forme di antagonismo, si può dire che ogni singola cosa una persona faccia in rete, inclusa la scelta di ingannare il prossimo, deriva da ciò in cui crede negli spazi fisici».

«L’ambivalenza ci dice più del centro che della periferia», scrivete. È una professione di metodo: studiare il normale tramite l’anormale, lo strano, l’eccessivo. Come lo sono a volte i memi, e qualunque prodotto di ciò che definite lo “storytelling collettivo” della rete. A vostro dire è un modo di mettere in mostra i valori culturali correnti. Se le cose stanno così, un meme diventa un’epifania, ci svela a noi stessi. Non andrebbero dunque celebrati, invece che deprecati?

«Noi non chiediamo di combattere e contenere l’ambivalenza, ma di riconoscere che tutte le forme dell’espressione folkloristica, on line e off line, riflettono logiche e norme culturali più ampie. Può darsi siano da celebrare, ma anche no; a volte vale la pena combatterle, come quando normalizzano razzismo e misoginia. In fondo ciò che sosteniamo è che sia possibile imparare molto anche da comportamenti che sembrano irrilevanti o palesemente strani. Magari apprenderemo cose sconvolgenti, ma non sono che il segnale che c’è ancora molto altro da imparare. Di nuovo, nel bene e nel male».

Esperti e politici se la prendono con l’anonimato in rete. Nel volume ricordate invece che gli effetti disinibitori dell’anonimato possono anche facilitare compassione e apertura emozionale, almeno quanto l’aggressione, e perfino spingere a comportamenti di esplicito aiuto.

«Le loro accuse spesso ne universalizzano un solo aspetto, senza considerarne altri. Uno è il fatto che individui che vivono in condizioni di oppressione possono sfruttarlo per rivelare segreti scomodi al potere; un altro è consentire loro di esprimersi liberamente senza il timore di subire aggressioni fisiche: basti pensare quanto è importante nella sfera della sessualità. La migliore risposta ai duri e puri dell’anti-anonimato è offrire loro questo tipo di controesempi. Ed enfatizzare il fatto che la risposta più efficace non è mai binaria; ci sono sempre aree grigie da tener presenti».

Una costante del vostro testo è la “legge di Poe”, la difficoltà cioè di distinguere espressioni genuine e satiriche, in mancanza di segnali paralinguistici e, spesso, dell’intero contesto di uno scambio comunicativo. Se il significato è molto più ambivalente in rete, come regolamentare le “fake news” senza moltiplicare il rischio di censurare contenuti legittimi? 

«Quando consideriamo le “fake news” è cruciale concentrarci non solo sui sintomi, ma sulle più ampie questioni culturali che li causano. Le false narrazioni si diffondono, prima di tutto, perché ci sono persone che credono, o vogliono credere, a una certa narrazione. La causa, naturalmente, non risiede esclusivamente nella tecnologia, e dunque non può essere risolta dalla tecnologia; come molte altre delle questioni poste dall’on line, il problema si pone prima off line».

Ma nell’era iperconnessa di Trump, l’ambivalenza degli spazi digitali promuove oppure ostacola la democrazia, o nuove forme di democrazia?

«La risposta è sì: gli spazi digitali promuovono e allo stesso tempo ostacolano la democrazia, proprio come il più ampio concetto di “espressione”, formalizzato nel sistema legale del libero pensiero negli Stati Uniti, la promuove e ostacola. La libertà di espressione di alcuni si traduce nello zittire o nell’entrare in conflitto con altri, indipendentemente da dove si realizzi. La questione sottostante, dunque, non è che gli spazi e gli strumenti on line sono ambivalenti, incoraggiando sia elementi pro-Trump sia di resistenza a Trump, ma che il discorso politico è esso stesso ambivalente. E può sparire in qualunque momento, a seconda di quali idee politiche siano espresse, da chi e per quale ragione».

Oggi, tuttavia, c’è un assunto particolarmente pervasivo, a livello sociale: che dovremmo incolpare Internet per i problemi riguardanti il modo in cui ci esprimiamo. Va accettato o combattuto?

«Dovremmo combatterlo con forza. I problemi che riguardano come ci esprimiamo sono indubbiamente profondi e profondamente irritanti on line, in larga parte a causa dell’amplificazione data dalla rete e dalle domande di natura etica sollevate dalla legge di Poe: come rispondere al meglio, se non sai nemmeno cosa stai leggendo davvero? Detto ciò, diffidiamo degli argomenti che suggeriscono che le peggiori forme di abuso online, trolling e “fake news” inclusi, derivino direttamente dagli spazi e le libertà in rete, ovvero che sia “colpa di Internet”. Gli strumenti digitali di certo alzano la posta dell’etica e aumentano la visibilità di forme espressive problematiche, ma forniscono insieme anche dei modi per combatterle. Inoltre, è fondamentale ricordare che quelle questioni sono antecedenti alla rete. Concepire l’ambiente digitale come la causa ultima di tutto rischia di far dimenticare quanto vecchi siano questi problemi. Le soluzioni durevoli vengono unicamente dalla società, non dalla tecnologia».

I motivi per cui un libro non viene pubblicato da un determinato editore sono assai variegati: l’ironico titolo del pamphlet dell’editor americano Pat Walsh promette di elencare «78 ragioni per cui il vostro libro non sarà mai pubblicato». Insomma, non tutto quello che viene scritto arriva in libreria, scrive il 23 febbraio 2013 Oliviero Ponte Di Pino. «Ci sono i rifiuti per inaccuratezza, per insabbiamento o per incapacità. Ci sono i rifiuti per viltà, e quelli per prudenza. I rifiuti ideologici, i rifiuti sacrosanti, le ribellioni all’insipienza o all’arroganza. I rifiuti tecnici, quelli per cause di forza maggiore, quelli elegiaci che vorrebbero ma proprio non possono e già rimpiangono, quelli dovuti. I rifiuti basati su una poetica, o sulla linea di una casa editrice. I rifiuti spiritosi, imbarazzati, balbettanti, insinceri; i rifiuti sdegnati, e quelli che semplicemente dicono: non mi piace.» (Mario Baudino, Il gran rifiuto. Storie di autori e di libri rifiutati dagli editori, Milano, Longanesi, 1991, pp. 8-9)

I motivi per cui un libro non viene pubblicato da un determinato editore sono assai variegati: l’ironico titolo del pamphlet dell’editor americano Pat Walsh promette di elencare «78 ragioni per cui il vostro libro non sarà mai pubblicato» (mentre quelle «per cui invece potrebbe anche esserlo» sarebbero solo 14...). Insomma, non tutto quello che viene scritto arriva in libreria: secondo Xlibris, partner strategico della Random House Venture specializzato in pubblicazioni a spese dell’autore, per ogni libro pubblicato negli Stati Uniti ce ne sono nove che restano inediti (Harper’s Magazine, dicembre 2000). 

Un libro può essere rifiutato perché, semplicemente, «non è abbastanza bello». Oppure perché l’autore «considera la sintassi un optional», o magari perché nella lettera d’accompagnamento esalta eccessivamente la genialità della propria fatica letteraria. Ma anche perché il genere o il tema dell’opera non rientra negli interessi della casa editrice, perché non è possibile trovare una collocazione adatta all’interno delle sue collane o perché è già in programma un titolo simile. Perché viene giudicato di qualità scadente. Perché viene ritenuto scarsamente vendibile o perché è troppo costoso da produrre. O semplicemente perché il gusto dell’editore non entra in risonanza con quel testo.  Ovviamente le caratteristiche dell’opera devono corrispondere agli interessi culturali e commerciali della casa editrice, oltre che alla sensibilità di chi legge. 

Tuttavia nella miriade di sigle che affollano il panorama editoriale italiano, la possibilità che un «manoscrittaro» riceva una certa attenzione è tutt’altro che remota: in questo settore i cacciatori di talenti, che hanno l’ambizione di scoprire il prossimo mega seller o il futuro Premio Nobel, sono molto numerosi. Inutile avvertire che già una prima occhiata sarà sufficiente a scartare buona parte del materiale che inonda le segreterie editoriali: è semplicemente impubblicabile, da chiunque. Il fatto che un titolo non sia ritenuto adatto da una casa editrice non significa che un altro editore, con caratteristiche e sensibilità diverse, non possa decidere di pubblicarlo, facendone magari un successo. La storia dell’editoria è ricchissima di libri che, scartati da uno o più editori, magari con giudizi perentori, hanno poi trovato il favore del pubblico. Tuttavia non è affatto scontato che quel titolo avrebbe avuto lo stesso esito con il primo editore: uno degli ingredienti più preziosi per il successo di un libro è l’entusiasmo della casa editrice.  Tratto da Oliviero Ponte di Pino, I mestieri del libro, Tea, Milano, 2008

Le quote rosa in letteratura non bastano più, devono essere anche nere. C’è sempre una minoranza che si sente più discriminata. Altro che notte degli Oscar: da un sondaggio emerge che in America i libri vengono fatti e scritti da donne bianche (meglio se omosessuali). Polemiche multiculturali, scrive Simonetta Sciandivasci su "Il Foglio" il 2 Febbraio 2016. Chi controllerà che i discriminati non discriminino a loro volta? "Essere una donna non fa di te un'esperta della marginalizzazione di persone di colore o disabili": cruda assai Hannah Ehrlich, direttrice marketing e pubblicità della Lee&Low, la più grande casa editrice americana di letteratura per bambini (sul sito è specificato anche che è "multiculturale"). E, non paga, ha aggiunto che le signore in carriera, quelle emancipate che fanno i briefing e che Vecchioni cantava essere stronze come gli uomini, non per forza combattono, combatterebbero o combatteranno per l'accesso al potere (chiamiamolo emancipazione, è meno antipatico) di terzo sesso, minoranze etniche e varia umanità emarginata. Pensierini che arrivano a seguito della diffusione, oltreoceano, di un sondaggio che la stessa casa editrice ha condotto per misurare la temperatura delle pari opportunità nel settore e dal quale è emerso che il rosa ariano è la tinta unita del potere di chi fa e scrive libri. Degli intervistati (tra loro anche alcuni della venerata, influentissima Penguin Random House), il 78 per cento erano donne bianche, l'88 per cento donne bianche omosessuali e per il (trascurabile) resto neri, asiatici, ispanici: tutti concordi nell’affermare che il genere sessuale è ancora uno traino decisivo per una carriera. Dopotutto, lo scorso anno, una ricerca del Publisher's Weekly misurò che tra gli stipendi di uomini e donne c'era un gap tipo Death Valley, cioè 20 mila dollari in più per (l'ex?) sesso forte, mentre pochi giorni fa Barack Obama ha detto e scritto che "it's time for equal pay". Tuttavia, i sondaggi servono pure a leggere le percentuali che, nel caso dell'indagine della Lee&Low, palesano come l'editoria americana sia in mano alle donne, ma a un tipo preciso di donne: benestanti, bianche, omosessuali e decisamente poco interessate al multiculturalismo. Quest'ultimo dato non è un'inferenza pregiudiziale o arbitraria: si evince soffermandosi su storie e autori che vengono pubblicati. Lee&Low stima che, negli ultimi diciotto anni, i libri per l'infanzia con un contenuto "multiculturale" non hanno superato il 10 per cento della produzione editoriale. La letteratura non è politica, non può e non deve pretendere quote di rappresentanza: per quanto le ricerche e le rivendicazioni per l'abolizione delle differenze (Giovanni Maddalena, su questo giornale, ha vaticinato l'eliminazione di quella, per decreto, tra uomini e animali) ci escano dalle orecchie, Lee&Low si fa una domanda più importante, più fine. Domanda che, a sua volta, impone a noi di interrogarci su quanto e cosa ci toglie un'egemonia culturale, soprattutto quando contestarla è scivoloso, perché si tratta di un'egemonia erede di una sudditanza che in quel passaggio di eredità ha trovato il suo legittimo riscatto. Sul cosa perdiamo: il confronto con quello che non conosciamo, innanzitutto. Una lacuna incommensurabile, poiché per andare incontro all'ignoto, a chi non è coraggioso (cioè il 95 per cento della popolazione mondiale) serve la letteratura. E, anche, perdiamo la possibilità che tutti coloro che non sono bianchi, ricchi, femmine possano avere una voce e che quella voce scombussoli innanzitutto i bianchi, i ricchi e le femmine. Il femminismo posticcio, allora, ha tradito quello originario, inconsapevole com'è del fatto che nelle rivoluzioni "l'origine è la meta" (lo diceva quel cervellone di Karl Krauss), diventando lotta alla differenza da che era lotta per la differenza, ma ha pure tradito il nuovo conio della sua missione, arroccandosi nelle sue conquiste, anziché usarle per dare un megafono ad altri subalterni. “Donne d’Italia” (Bruno Vespa); “Il ‘900 è donna” (Lucrezia Dell’Arti); “Le nuove signore della scrittura” (Giorgio Ghiotti); “Il cuore nero delle donne” (Autori vari). Sono alcuni titoli di libri pubblicati di recente in Italia. Essendo, questo, un paese dove le sveglie della civiltà suonano invano, di certo non si può nemmeno azzardare l’ipotesi che l’editoria sia in mani femminili, ma, almeno, che le donne siano un filone letterario tra i più commerciali (quindi, prossimo alla noia seriale), possiamo lasciarcelo sfuggire.

I nemici della libertà di stampa, scrive Alessandro Gilioli su “L’Espresso” il 27 aprile 2017. «Esistono molti modi diversi per bruciare un libro: e il mondo è pieno di gente che corre su e giù con i fiammiferi accesi». (Ray Bradbury)

I nemici della libertà di stampa sono moltissimi, sapete? Molti di più di quanti ne conosca la nostra filosofia - o la nostra fede politica.

I nemici della libertà di stampa sono i mafiosi, certo, ma a volte pure i magistrati, gli uomini in divisa e ogni tanto perfino quelli in tonaca porporata.

I nemici della libertà di stampa sono quelli che vogliono imporre leggi speciali e diverse a seconda che un contenuto sia su carta o sul web.

I nemici della libertà della stampa sono le corporation del web che censurano contenuti facendo prevalere le loro private e arbitrarie policy sulle Costituzioni delle democrazie.

I nemici della libertà di stampa sono i paradisi fiscali che nascondono gelosamente patrimoni e reati, lontanissimi da ogni trasparenza, da ogni diritto di sapere la verità sui potenti del mondo.

I nemici della libertà della stampa sono i politici di tutti i partiti - tutti, tutti, tutti - che telefonano ai direttori e agli editori.

I nemici della libertà della stampa sono i politici che danno una notizia a un cronista oggi in cambio di un favore a lui o alla sua parte domani.

I nemici della libertà di stampa sono i politici che vogliono un tribunale per decidere quali news sono fake e quali no, che questo tribunale sia l'Agcom o una giuria popolare.

I nemici della libertà di stampa sono i politici, gli imprenditori e i potenti in genere che mandano le "diffide alla pubblicazione", ogni giorno una diversa, se volete ci faccio una Treccani.

I nemici della libertà di stampa sono i politici, gli imprenditori e i potenti in genere che minacciano, annunciano o fanno querele temerarie o infondate - più del 90 per cento delle querele intentate contro i giornalisti alla fine sono tali.

I nemici della libertà di stampa sono i politici, gli imprenditori e i potenti in genere che minacciano, annunciano o fanno cause civili altrettanto temerarie o infondate, e per fermarli basterebbe imporre loro di pagare la cifra che hanno chiesto, se alla fine risulta che hanno torto.

I nemici della libertà di stampa sono gli editori che non coprono legalmente chi scrive sui loro giornali, assunto o precario che sia.

I nemici della libertà di stampa sono gli editori che non pagano i giornalisti e non si accorgono che così ammettono che i loro contenuti hanno valore zero, e poi pretendono di vendere dei contenuti che loro stessi reputano a valore zero.

I nemici della libertà di stampa sono gli editori che hanno interessi fuori dall'editoria e usano i loro giornali per le proprie aziende.

I nemici della libertà di stampa sono gli editori che nella loro veste di imprenditori individuano la soluzione politica o il partito politico più conveniente ai loro interessi e indirizzano la loro testata in quella direzione.

I nemici della libertà di stampa sono gli inserzionisti che con la forza dei loro soldi ricattano e mettono a tacere ogni notizia a loro sgradita.

I nemici della libertà di stampa sono i giornalisti che per carriera, timore, convenienza o reverenza si adeguano al potente di turno o semplicemente hanno paura ad andare contromano rispetto al loro ambiente.

I nemici della libertà di stampa sono i giornalisti che di fronte a un dato di realtà contrario ai loro pregiudizi o alla loro visione delle cose, invece di rifletterci lo ignorano, lo sminuiscono, lo negano.

I nemici della libertà di stampa sono i giornalisti che non frequentano autobus, bar, mercatini e marciapiedi ma salotti, corridoi damascati e poltrone in pelle di gente potente.

I nemici della libertà di stampa sono i giornalisti che non si fanno domande, che non sono curiosi, che non sono autocritici, che sono pigri.

I nemici della libertà di stampa sono i lettori (utenti, ascoltatori, spettatori etc) che non si fanno domande, che non sono curiosi, che non sono autocritici, che sono pigri.

I nemici della libertà di stampa sono i lettori (utenti, ascoltatori, spettatori etc) che vanno sempre in cerca della conferma del proprio pregiudizio, e i giornalisti che glielo offrono su un piatto d'argento, in una spirale senza fine verso il peggio.

I nemici della libertà di stampa siete voi che quando un'inchiesta giornalistica tocca un politico che odiate è oro colato, quando tocca un politico che amate invece è spazzatura, gossip, complotto e manovra.

I nemici della libertà di stampa sono tutti quelli che - giornalisti, editori, lettori, utenti - si convincono di ciò che a loro conviene e così credono di aver salvato la buona fede, l'onestà intellettuale.

I nemici della libertà sono questi e molti e moltissimi altri.

Ognuno guardi a se stesso, e ai suoi amici piuttosto che ai suoi avversari, se la libertà di stampa gli è davvero più amica di ogni altra cosa.

Il linciaggio di Pansa: a sinistra era un dio a destra è un infame. Per anni i salotti di sinistra hanno acclamato Pansa come un dio. Ma da quando non dice più quello che piace loro, lo hanno relegato tra i reietti della penna, scrive Vittorio Feltri, Domenica 08/03/2015, su "Il Giornale". Giampaolo Pansa, noto giornalista che ha lavorato alla Stampa, al Giorno, al Corriere della Sera, alla Repubblica, all'Espresso, al Riformista (ora è a Libero), ha scritto un altro libro: La destra siamo noi. Ne ha pubblicati tanti e ne ho perso il conto. Il titolo dell'ultimo fa capire subito il contenuto: pendiamo tutti da qualche parte, dipende dai momenti e dalla convenienza. Giampaolo è stato povero. Da ragazzo era molto studioso, obbediente alla famiglia e si è laureato con una tesi pubblicata da Laterza (che è un editore e non il numero delle scopate messe a segno in un sol giorno dall'autore). Finita l'università trovò subito un posto in redazione e cominciò l'attività di cronista, quella in cui è riuscito meglio. Si è guadagnato da vivere con le virgole, ha svirgolato per anni e anni e seguita a svirgolare come un pazzo. Credo che per lui riempire fogli di parole sia come bucarsi per un drogato: non può farne a meno. Senza la «roba» nero su bianco, Pansa non campa. Se sta tre ore senza picchiettare sui tasti, va in crisi di astinenza. Il mestiere di scrivere è il peggiore. Quando ti dedichi a esso, ti ammali di una malattia grave, pensi che la tua esistenza abbia un senso solo se la racconti; altrimenti non ha significato, sei morto. Giampaolo è stato un maestro inimitabile di giornalismo finché ha dato l'impressione di essere di sinistra, stando cioè dalla parte dei vincitori, sempre di moda. I suoi articoli sul Corriere e sulla Repubblica erano considerati gioielli, giustamente. Egli in effetti si era inventato un modo di narrare i fatti italiani e le gesta dei protagonisti talmente originale da piacere a chiunque, anche a coloro che lo invidiavano. Per lustri e lustri fu indicato al popolo come il più bravo della categoria. Poi, dato che il tempo è democratico, invecchiò e iniziarono per lui i guai. Guai si fa per dire. Poiché non era direttore (l'unica figura professionale non soggetta a licenziamento per questioni anagrafiche), fu cortesemente invitato a sloggiare dall' Espresso, testata che fornisce a chi vi lavora il certificato di autentico progressista. Se ne andò in pensione, ma non smise di scrivere. E furono libri, uno dietro l'altro, uno più dissacrante dell'altro e, per giunta, di successo. Il sangue dei vinti ebbe sui lettori un effetto clamoroso: quelli di destra lo apprezzarono, soddisfatti di constatare che finalmente uno scrittore dicesse il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa; quelli di sinistra, automaticamente, lo condannarono con una sentenza inappellabile: Pansa si è rovinato, è diventato fascista. Da quel momento, il maestro è stato collocato fra i reietti della corporazione degli scribi, espulso dall'elenco degli autori di qualità, meritevole di uscire dal club dei grandi maestri e di entrare in quello dei cattivi maestri. I libri di Giampaolo si vendono, eccome se si vendono, ma sono giudicati dagli intelligentoni merce avariata. La vicenda di quest'uomo talentuoso e perbene è paradigmatica dell'imbecillità italiana; il tuo voto in pagella non dipende da ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni. Pansa di sinistra era un dio; Pansa di destra è una grandissima testa di cazzo. I cittadini (non solo italiani) hanno opinioni variabili, tanto è vero che una volta votano di qua e un'altra di là, ma si arrogano il diritto di dare della banderuola ai giornalisti che mutano fede pur non avendone una e che si limitano a osservare la realtà con spirito laico, riferendo ciò che vedono e sentono, filtrando il tutto attraverso il proprio spirito critico. Una realtà complessa e in continuo divenire la cui valutazione non può avvenire sempre con lo stesso metro, ma necessita di costanti revisioni e aggiornamenti. Non c'è nulla di statico a questo mondo, tantomeno il cervello degli uomini che s'imbottisce quotidianamente di nuove informazioni e, perché no, suggestioni. Pansa, che conosco da 40 anni, non è mai stato fermo nelle proprie convinzioni come un paracarro; è stato ed è un coltivatore di dubbi, disponendo di un'intelligenza superiore alla media. Quando era di sinistra aveva qualche pensiero di destra; ora che dicono sia di destra ha qualche inclinazione a sinistra e la manifesta senza ipocrisia. Non fosse che per questo, Giampaolo è da ammirare. Uno della cui onestà bisogna fidarsi. La sua prosa non è contraddittoria; è frastagliata, ricca di umori e di amori. Va accettata per quello che è: lo specchio del casino nel quale ci dibattiamo in Italia da secoli.

“Il Mulino mi ha rifiutato per motivi ideologici”. Lo storico Alessandro Orsini, il cui saggio sulle Br fu bocciato dall’editore bolognese: “Dimostrando che il terrorismo rosso degli anni Settanta è figlio legittimo del Pci ho infranto un tabù. E questo non è piaciuto agli ex comunisti”. Intervista di Tommy Cappellini. Tratto da Il Giornale dell’8 settembre 2010. Fa un po’ paura pensare che negli uffici della casa editrice il Mulino, una delle più importanti del nostro Paese, lo scontro ideologico che ha segnato la Guerra Fredda, gli anni Settanta e la Prima Repubblica sia ancora molto vivo e capace di influenzare la scelte editoriali. Tuttavia i rifiuti di pubblicare i saggi di Giovanni Orsina L’alternativa liberale. Malagodi e l’opposizione al centrosinistra (in seguito accettato da Marsilio e in libreria a fine mese) e di Alessandro Orsini Anatomia delle Brigate Rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario (poi pubblicato da Rubbettino) lasciano intendere che al Mulino certe guerre ideologiche non siano ancora finite.

Professor Orsini, anche lei «vittima» di un rifiuto editoriale poco scientifico?

«Se il mio saggio non avesse avuto il successo che poi ha raccolto, sarei più cauto, ma a questo punto posso affermare che la stroncatura ricevuta da parte del Mulino non è stato un buon esempio di lettura editoriale. L’impressione che alcuni studiosi hanno ricavato leggendo la relazione di rifiuto è che sia stata viziata da un pregiudizio ideologico. So da alcune fonti che il Mulino si è poi pentito di aver rifiutato il libro».

Partiamo dal libro, allora. 

«Ci sono voluti dieci anni di lavoro per portarlo a termine. La mia tesi è che le Brigate rosse siano il frutto più puro e coerente di una tradizione rivoluzionaria che affonda le sue profonde radici nelle sette di tipo gnostico nate nel Seicento, nell’ambito della Riforma, e, più in particolare, nella rivoluzione giacobina del 1793. Questo fenomeno ha poi trovato il suo pieno sviluppo nel marxismo-leninismo e nelle rivoluzioni bolscevica, cinese e cambogiana».

Come dire, le Br non erano quei quattro gatti che qualcuno pensava. 

«Al contrario. La vulgata ha sempre affermato che dietro le Br, di volta in volta, non c’erano altro che la Cia o la Dc, interessate a creare le condizioni per un colpo di Stato di destra, oppure, sulla scia di Luciano Canfora, si è detto che le Br non erano altro che “quattro imbecilli, ignoranti e forse anche prezzolati”. Io sostengo che questa interpretazione meccanicamente dietrologica ci abbia allontanato dalla comprensione di un’esperienza drammatica che, per giunta, non fu solo italiana».

L’idea che se ne è fatto?

«In una sorta di rito di rimozione collettiva la sinistra ha sempre negato che le Br appartenessero al suo stesso universo culturale. Facevano invece parte appieno della tradizione della sinistra rivoluzionaria. Sono stato uno dei pochi che è andato a leggersi tutti i documenti disponibili che le Br hanno prodotto: rivendicazioni di omicidio, di ferimento, risoluzioni strategiche, commemorazioni di brigatisti uccisi dalla forze dell’ordine, lettere private e volantini. Si è sempre detto che le Br scrivevano in modo pedante, che leggere i loro scritti era una perdita di tempo, ma questa indagine era quantomeno doverosa per entrare nel loro universo mentale».

Cosa ne ha concluso?

«La “linea di lavoro” delle Br si inseriva consapevolmente in quella di Lenin, Mao, Pol Pot: cioè purificare la società capitalista attraverso un uso spropositato della violenza. Nel capitolo “Il ruolo del Pci nella nascita delle Br”, poi, prendo in considerazione il ruolo pedagogico del Partito comunista nella formazione del brigatismo rosso. Funzione necessaria, ancorché insufficiente, ma comunque concreta. Tale conclusione non poteva trovare d’accordo alcuni ex comunisti che si sono confrontati con il mio libro. Una volta presentato il libro al Mulino lo hanno respinto con una relazione breve, ideologica, poco argomentata, che pareva avesse come fine lo stroncare il saggio».

E lei che ha fatto?

«L’ho presentato a Rubbettino, che nel giro di pochissimo tempo lo ha pubblicato, considerandolo un libro di valore, con la prefazione del noto storico americano Spencer Di Scala. Rubbettino è poi stato contattato da importanti editori americani e ha firmato un contratto per la cessione dei diritti alla Cornell University di New York. Anatomia delle Brigate rosse sarà pubblicato, oltre che negli Stati Uniti, anche in Gran Bretagna, Canada, Australia, Sud Africa e in molti Paesi europei. Dopo la stroncatura del Mulino, il mio libro è stato definito “un libro di grande prestigio intellettuale” dal Journal of Cold War Studies, rivista edita dal Mit. Sono stato poi invitato a tenere lezioni, tra gli altri atenei, ad Harvard, al Mit, alla John Hopkins, alla Brookings di Washington. Ho già in programma un altro percorso di lezioni universitarie all’estero che toccheranno anche Gerusalemme. In Italia, invece, ho trovato molti guai».

Quali? Di fatto lei ha una voce su Wikipedia americana e nessuna su quella italiana… 

«Alcuni professori italiani mi hanno sollecitato a costruire la mia carriera accademica all’estero affermando che le porte qui mi erano ormai precluse nell’ambito del mio settore di ricerca, la sociologia politica. Hanno inoltre aggiunto che in Italia pubblicare un saggio di valore non ha alcuna importanza se non si fa parte di una precisa lobby accademica».

Marta Russo: delitto a La Sapienza 20 anni dopo. Genesi di un libro rifiutato. La controinchiesta scottante sul delitto a La Sapienza sarà in vendita su Amazon. La firma Vittorio Pezzuto, scrive Patrizio J. Macci su "Affari italiani", Lunedì 10 aprile 2017. Venti rifiuti sommari, decine di mail che hanno solcato il web con motivazioni di una banalità sconcertante, risposte scompiscianti, rinvii e palleggiamenti. “MARTA RUSSO - Di sicuro c’è solo che è morta”, la corposa e documentissima contro-inchiesta scritta dal giornalista Vittorio Pezzuto in occasione del ventennale del celebre omicidio a "La Sapienza" (9 maggio 1997), sembrava destinata a non trovare alcuno spazio in libreria. Sarà invece proposta dal più grande editore internazionale dal 19 aprile: parliamo di Jeff Bezos, patron di Amazon. Basterà collegarsi allo store del sito e con un semplice clic acquistarne una copia, in versione sia cartacea sia e-book.

Un libro che per tutti non s'aveva da pubblicare. Intanto vi proponiamo un piccolo campionario delle motivazioni con le quali è stato di volta in volta rifiutato: uno "sciocchezzaio" che ci aiuta a comprendere lo stato attuale dell'editoria italiana e soprattutto le ragioni della sua profonda crisi.

FRASI FATTE, FRASI DETTE:

"Guardi, a noi questa storia interessa moltissimo e il suo lavoro di ricerca storica è stato veramente enorme”.

"Bene, mi fa piacere sentirlo."

"Però vede, lo stile del libro è troppo enfatico, ricorre a volte a frasi fatte e appare talmente schierato a favore dagli accusati che il lettore è spinto a parteggiare per il lavoro dei magistrati."

"Addirittura."

"Intendiamoci, consideriamo questa vicenda giudiziaria una vera schifezza però così non va. Che ne dice di mandarci fra qualche mese un proposal...".

"...un che? Intende una proposta?"

"Sì, insomma... La proposta di un capitolo asciugato con stile più asettico, più idoneo allo stile della nostra casa editrice. Se riscrive il libro in questo modo può darsi che poi il nostro consiglio di amministrazione si decida nel tempo alla sua pubblicazione."

"Grazie, ci penso su e le farò sapere."

CI VORREBBE UNA SPONSORIZZAZIONE:

"Buonasera, mi chiamo Vittorio Pezzuto e..."

"Sì certo, la conosco. Dica."

"Volevo proporle la pubblicazione di un libro-inchiesta sul caso Marta Russo. A maggio cade il ventennale dell'omicidio e poiché siete una casa editrice specializzata in saggi di cultura liberale..."

"... Mhh. Un libro del genere però non si ripaga solo col mercato. Occorrerebbe un sostegno, uno sponsor all'edizione..."

"Addirittura?"

"Eh sì. Il problema è che su questi temi c'è una forte concorrenza del web..."

"Del web?! Veramente la Rete è spesso sinonimo di insulti, approssimazione, fonti incerte..."

"Guardi, se proprio insiste può mandarmi una scheda dell'opera e nel caso le faccio sapere."

"Faccio prima a mandarle, per sua cultura personale, l'intero volume. Sono circa 500 pagine..."

"... Ah, una cosa corposa."

"Beh, sì. È un libro, mica un tweet."

L’EDITORE DI QUALITÀ:

"Guardi Pezzuto, diamo per scontato che il suo libro sul caso Marta Russo sia un capolavoro. Per quale motivo però dovremmo pubblicarlo?"

"Forse proprio perché, come dice lei, si tratta di un capolavoro."

"Ehh, fosse così semplice..."

L’EDITORE “MILANESE”:

"Buongiorno, mi chiamo Vittorio Pezzuto e ho avuto il suo numero da (...). La chiamo perché, dopo aver scritto qualche anno fa la biografia di Enzo Tortora, ho appena ultimato un'accurata contro-inchiesta sul caso Marta Russo in occasione del prossimo ventennale di questo omicidio che tanto ha diviso l'opinione pubblica. Mi rivolgo alla sua casa editrice perché mi dicono essere seria ma soprattutto perché da molti anni pubblica libri coraggiosi di denuncia...".

"Guardi, a parte queste note di colore che non interessano nessuno..."

"Sì?"

"...Io la inviterei a recarsi ogni tanto in libreria per vedere cosa viene pubblicato. Scoprirà che la storia che propone è molto vecchia”.

"Veramente in libreria mi capita di andarci, e vi scopro sempre nuovi libri sulla prima e sulla seconda guerra mondiale, per non parlare di nuovi tomi sulle Brigate Rosse, sulla morte di Pasolini, sul caso Moro...".

"Io la inviterei a non accostare il caso Moro a un banale episodio di cronaca nera che non ha avuto alcun risvolto politico e giudiziario!".

“Ma veramente...".

Venti anni fa il delitto Marta Russo. "Questo libro non s'ha da pubblicare". IL CASO LETTERARIO. Dopo "Applausi e sputi" dedicato a Enzo Tortora, Vittorio Pezzuto ha ultimato il suo lavoro su Marta Russo, uccisa la mattina del 9 maggio all'università La Sapienza. Ben dieci editori hanno rifiutato il manoscritto, "perché...", scrive Lunedì 7 marzo 2016 Patrizio J. Macci su "Affari italiani". L'anno prossimo cade il ventennale dell'omicidio di Marta Russo, la studentessa universitaria romana colpita da una pallottola in un viale dell'Università "La Sapienza" la mattina del 9 maggio 1997. Quale momento più adatto per portare in libreria un volume accurato che ricostruisca finalmente una storia che ha appassionato e diviso l'Italia? Il libro ci sarebbe già e il suo autore, il giornalista Vittorio Pezzuto, peraltro è già un autore conosciuto: per Sperling&Kupfer ha scritto anni fa "Applausi e sputi", la biografia 'definitiva' di Enzo Tortora che ha riscosso un ottimo successo di critica e di vendite, tanto che da questa è stata tratta poi una fiction di due puntate trasmessa in prima serata su Rai Uno. Pensava quindi che questa sua nuova opera, scritta con estremo rigore documentale ma dallo stile avvincente, potesse facilmente incontrare l'interesse delle maggiori case editrici italiane. E invece no. Con sua grande sorpresa, ha finora collezionato una lunga serie di cortesi rifiuti o eloquenti silenzi. Col paradossale risultato che questo libro che non riesce a trovare un editore si è così trasformato in un piccolo caso editoriale. Sollecitato a parlarne, Pezzuto sceglie con Affaritaliani il registro amaro del disincanto: "La buona notizia è che col decimo rifiuto mi considero ormai un vero scrittore".

Non sembra particolarmente abbattuto.

"Per carattere non mi arrendo facilmente. E mi considero semmai arricchito da questa esperienza: adesso penso di comprendere meglio i meccanismi che in gran parte regolano le scelte dell'editoria italiana nella saggistica".

E quali sarebbero?

"Pubblicare libri di personaggi televisivi confidando nell'affetto dei teleutenti, rincorrere i temi del momento con testi spesso buttati giù in fretta ma ben infiocchettati (adeguandosi al dibattito sui social network, scarsa profondità dell'analisi inclusa), proporre saggi critici contro i protagonisti politici del momento - ieri Berlusconi, oggi Renzi e in parte Salvini - che sappiano solleticare il lettore che 'odia' il potente di turno. Forse non è un caso che la saggistica resti la Cenerentola di un mercato editoriale in perenne crisi, di idee ancor prima che di vendite. Col risultato che in Italia si legge sempre meno. Spesso ci si reca in libreria per regalare un libro, non per leggerlo".

Torniamo al suo lavoro sul caso Marta Russo. Non sarà che questa storia è ormai troppo lontana nel tempo?

"Mi permetta allora di sorridere guardando i banconi delle librerie, sui quali vengono accatastati decine di saggi sulla seconda guerra mondiale nonché la quarantatreesima biografia di Hitler e la cinquantottesima biografia di Mussolini. Di quest'ultimo in queste settimane tre diverse case editrici propongono i diari scritti durante la Prima guerra mondiale. Roba freschissima, che immagino affascini centinaia di migliaia di potenziali lettori. E per carità di Patria sorvolo sulla continua emorragia di volumi dedicati al caso Moro così come sui dieci libri pubblicati in contemporanea nel quarantennale della morte di Pier Paolo Pasolini".

Può darci un'anticipazione sulle reali novità della sua controinchiesta?

"Mi sono avvicinato a questa storia senza pregiudizi, costruendomi un imponente archivio personale che comprende 18 faldoni contenenti i documenti dell'inchiesta e del processo (interrogatori, perizie balistiche, intercettazioni ambientali e telefoniche, trascrizioni delle udienze in Corte d'Assise), tutti i take Ansa sul caso lanciati dal 1997 al 2011 nonché circa 8mila articoli ed editoriali apparsi sui maggiori quotidiani e periodici. Ben presto mi sono accorto che i conti non tornavano: assenza di qualsivoglia movente, arma mai ritrovata, testimonianze dell'accusa fragili e contraddittorie, perizie balistiche ballerine (le due particelle di bario e di antimonio trovate sulla finestra della Sala assistenti non erano ad esempio residui di polvere da sparo ma molto probabilmente residui di frenatura d'auto), errori fondamentali nella lettura degli orari dei tabulati telefonici, ecc. Su tutto l'esigenza della Procura di trovare un qualsivoglia colpevole per rassicurare l'opinione pubblica già scossa da molti delitti insoluti nella Capitale. In coda al volume propongo anche due ipotesi alternative a quella ufficiale, sancita dalle reiterate sentenze di condanna (peraltro espiate per intero) di Scattone e Ferraro".

Quali sarebbero?

"Spiacente, per conoscerle dovrete leggervi il libro. Non ho infatti perso la speranza che prima o poi venga pubblicato".

È vero che il direttore della saggistica di una delle principali case editrici le ha detto che il suo libro è bellissimo ma che purtroppo questa storia non interessa più a nessuno?

"Verissimo. Va detto che è stato sfortunato. Pochi giorni dopo è esploso sulle prime pagine di tutti i quotidiani lo 'scandalo' di Giovanni Scattone, che si era visto regolarmente assegnare una cattedra a tempo indeterminato nella scuola pubblica. Mi sono così permesso di mandargli una cortese mail con il link all'home page del Corriere della Sera, limitandomi a osservare che probabilmente uno di noi due si era sbagliato. In quei giorni è infatti tornato alla ribalta nazionale un caso giudiziario che nella coscienza di molti è considerato ancora irrisolto".

Un altro editore le ha invece spiegato che non volevano pubblicare il volume perché temono che possa essere citato in giudizio.

"Valutazione legittima ma curiosa. Il mio libro riporta in effetti le critiche che decine di opinionisti e cronisti rivolsero all'epoca contro i magistrati inquirenti per le carenze della loro inchiesta. Non vennero querelati allora, non vedo perché vent'anni dopo debba esserlo un testo che riprende questi giudizi con tanto di citazione puntuale alla pagina. Che dire? Ho l'impressione che nella povera editoria italiana abbondi l'autocensura. Vien voglia di parafrasare un aforisma del grande Leo Longanesi: non è che in Italia manchi la libertà di stampa, semmai mancano gli editori liberi".

Nel motivare il proprio rifiuto, alcune case editrici le hanno invece spiegato che un'opera del genere non reggerebbe il mercato.

"Mi dovrebbero allora spiegare quante copie devi vendere per poter considerare un'opera riuscita dal punto di vista commerciale. Parliamoci chiaro: in Italia se un testo di saggistica supera le mille copie vendute è festa grossa. Io resto convinto che solo a Roma un libro sul caso Marta Russo ne venderebbe almeno cinque volte tanto. Ma forse il problema è proprio questo...".

In che senso?

"Nel senso che far uscire una contro-inchiesta nel ventennale della morte di Marta Russo scatenerebbe inevitabilmente interesse mediatico e polemiche, con lo strascico obbligato di decine e decine di articoli. Obbligando così i protagonisti dell'epoca (in primis poliziotti e magistrati) a una fastidiosa riflessione sul proprio operato".

Qualche sbaglio l'avrà pur commesso anche lei, no?

"Certamente. Vede, se avessi raccontato questa vicenda sotto forma di romanzo non credo che avrei avuto difficoltà a vedermela pubblicata. Intreccio avvincente, personaggi improbabili, colpi di scena a ripetizione: è un legal thriller che non può non appassionare. Ho commesso invece un errore imperdonabile: accantonare del tutto ogni fantasia e riportare con estrema fedeltà i fatti così come si sono effettivamente svolti, convinto come sono che non vi sia nulla di più inedito e scioccante di quanto è stato rimosso e fatto dimenticare. La verità spaventa".

No, il dibattito culturale no: infatti non ce n'è traccia. Si discute di populismo (senza populisti) e di Europa (solo con i filo-Ue). Per il resto la sfilata dei soliti noti, scrive Luigi Mascheroni, Mercoledì 19/04/2017, su "Il Giornale". Il fatto che Michela Murgia, insieme a Concita De Gregorio, sia la scrittrice in assoluto più presente alla fiera del libro di Milano (partecipa a dodici incontri in cinque giorni, wow!, un vero record), è la garanzia di come «Tempo di Libri», alla sua prima edizione, sia già identico alla brutta copia del Salone di Torino che vorrebbe farci dimenticare (quando la Murgia viaggiava solo a sei-sette presenze a edizione). E invece, così, la nuova fiera di Milano che comincia oggi ci ricorda che essere donna, televisiva, di sinistra, politicamente corretta e organica all'asse mediatico Repubblica-RaiTre-l'Einaudi antiberlusconiana- Feltrinelli è il profilo migliore per la «brava presenziatrice» da festival del libro. Olè. Bei tempi quando al Ligotto di Torino il programma era scandito dai nomi così radicalmente progressisti di Severgnini, Saviano, Fo (Dario o Jacopo), Daria Bignardi e Carofiglio... Infatti, sono gli stessi nomi di «Tempo di libri». Visto che in fondo qui si parla di romanzi, se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.

E così, per cambiare tutto rispetto al Salone di Torino, «Tempo di libri» è rimasto esattamente come ce lo potevamo immaginare prima ancora che fossero presentati ospiti, temi e incontri: organicamente orientato dal punto di vista politico-ideologico. Del resto, se non fosse stato così, non sarebbe stato un evento culturale. La cultura, o è di sinistra o non è.

Programma, programma! Si compulsi il programma prima di parlare! Ecco qui, programma online (). Gli unici politici presenti sono Enrico Letta, Laura Boldrini, Giuliano Pisapia e Lidia Ravera. Ah, già. I politici di sinistra sono gli unici che leggono e che scrivono, hanno ragione loro. Come non detto... Comunque c'è un doverosissimo ritratto letterario di Asor Rosa (modera Antonio Gnoli di Repubblica, strano). C'è una lezione giornalistica di Corrado Formigli (ma anche una di Carlo Freccero, dài...). C'è il tridente democratico Mazzantini-Mazzucco-Janeczek, uhmmmm... le quote rosa in narrativa... non vogliamo perdercele per nulla al mondo... Ci sono attori impegnati. Gifuni e Timi (strano che non ci sia Elio Germano...). Attenzione: c'è un bilancio su Tangentopoli 25 anni dopo. Olè! Da una parte Piercamillo Davigo e dall'altra... Come nessuno? E il contraddittorio? La memoria a senso unico. Obbligo di svolta a sinistra. La cultura è confronto, dibattito, anche scontro. Qualche esempio tratto dal programma di «Tempo di libri»? Beh, ci sono molti incontri sul populismo (senza populisti, ma con Revelli e Damilano). Due incontri sull'America di Donald Trump (senza trumpiani, ma c'è Alan Friedman). Tre sull'Europa (senza anti-europeisti, ma con la Boldrini). E quattro sul gender (senza cattolici, ma con Alessandro Cecchi Paone e Luxuria). Ah, giovedì pomeriggio si parla di eutanasia. Con Beppino Englaro. Per fortuna non siamo più ai tempi di Berlusconi al potere, altrimenti qualcuno tirerebbe fuori ancora il conflitto di interessi. Applicato ai libri ad esempio si può declinare nel fatto che la direttrice della fiera di Milano, Chiara Valerio, partecipa a nove incontri, presentando quattro volte il suo Almanacco del giorno prima (Einaudi), due volte Storia umana della matematica (Einaudi) e due Spiaggia libera tutti (Laterza). La sinistra libera tutto. Non c'è niente da fare. Manca solo la beffa. Chessò, un incontro su un autore di riferimento della cultura di destra, riscoperto da sinistra. Non so... a caso... Tolkien riletto da Michela Murgia... Cazzo, c'è anche quello. Domenica, alle 18,30. Sala Verdana. Coraggio. Tra meno di una settimana «Tempo di libri» è finito. No, non è vero... Stiamo scherzando. Dài, quando si parla di libri va tutto bene, basta che si faccia qualcosa per incentivare la lettura, invogliare i più giovani a cominciare a leggere e convincere i meno giovani che c'è sempre tempo per ricominciare. Una fiera dei libri è prima di tutto una festa. Inutile frignare sulla vecchia storia della sinistra snob e prendi-tutto e della destra ignorante e rosicona. In realtà, non esistono più né l'una né l'altra. E poi a «Tempo di libri» ci sono anche cose meno istituzionali, più curiose e scorrette. C'è ad esempio un ricordo di Witold Gombrowicz (venerdì alle 14,30), c'è il politologo francese Éric Zemmour che sui temi del multiculturalismo e dell'islamizzazione dell'Europa farà scintille (sabato alle 14,30) e c'è un incontro sulla traduzione italiana del Finnegans Wake di Joyce in cui è impegnata Mondadori da anni... Insomma c'è luce, in fondo in fondo. Il problema, però, è che in fondo al tunnel, finito «Tempo di libri», domenica 23, dal 18 maggio inizia già il Salone del libro di Torino. A pensarci bene, un incubo.

La serva serve”, scrive Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano il 28 aprile 2017. Evviva, siamo un paese libero e informato, grazie a una stampa scevra da condizionamenti e soprattutto a una tv affrancata da ogni pressione! Il rapporto di Reporters Sans Frontières ha scatenato un coro unanime e liberatorio di esultanza nel mondo politico e giornalistico per la scoperta che l’Italia passa dal 77° al 52° posto nella classifica dei paesi più liberi. Siamo sempre ultimi in Europa (eccetto Ungheria e Grecia), fra la Papuasia-Nuova Guinea e Haiti, ma questo è perché Grillo si ostina a ritenere serve le penne e le testate più indipendenti del mondo. Sennò saremmo primi. Chi lo dice? I partiti che controllano militarmente le tv assolte da Rsf e i giornaloni controllati dai padroni del vapore assolti da Rsf. Insomma il vino è buono perché l’ha detto l’oste. Tana liberi tutti – scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano nell’editoriale di oggi 28 aprile 2017, dal titolo “La serva serve”. I conflitti d’interessi nelle proprietà editoriali? Leggende metropolitane. Il duopolio collusivo della Rai in mano al governo e di Mediaset in mano a B.? Fregnacce. I soldi pubblici per tenere artificialmente in vita giornali senza lettori in cambio di periodiche genuflessioni a Palazzo Chigi? Fake news. L’editto rignanese costato il posto a Giannini, Berlinguer, Mercalli e prossimamente a Ranucci e financo a Dall’Orto? Bazzecole. Le menzogne impunite che stampa e tv si rimpallano e rilanciano contro chi sta fuori dal giro? Post verità. Rsf assolve i giornaloni leggendo i giornaloni, che ricambiano i complimenti a Rsf, e il cerchio si chiude. Dev’essere un bel sollievo, per Repubblica-Espresso, La Stampa e Il Secolo XIX, che fino a un anno fa appartenevano a tre gruppi diversi e ora sono come il Giornalone Unico di Nanni Moretti, scoprire di averla fatta franca. Ma anche per il Sole 24 Ore di Confindustria, che taroccava copie vendute e abbonamenti. E pure per Caltagirone, l’editore purissimo che per spirito missionario costruisce anche qualcosina qua e là, dunque sperava tanto nelle Olimpiadi per il suo afflato decoubertiniano (localizzato sotto le Vele di Calatrava a Tor Vergata e nei cantieri della Metro C), poi ci è rimasto male per la fine di quel sogno virginale e, per contagio, il suo Messaggero se l’è presa con la sindaca Virginia. E anche l’Unità, salvata da quell’apostolo di costruttore passato da B. a Renzi, ma soprattutto a Gramsci, poi per puro caso ha fatto affari d’oro col Pd. Nemmeno una riga, su queste pinzillacchere, nel rapporto di Rsf. E nemmeno su Saviano, collaboratore della meritoria ong, che ha dovuto difendersi non solo dalle minacce della camorra, ma pure dagli insulti dell’Unità, che l’anno scorso lo definì “mafiosetto di quartiere” (parola di Rondolino). Ora che B. non c’è più, o almeno così dicono, tutto è perdonato (fuorché a Grillo, si capisce). E pazienza se Renzi fa le stesse cose di B., affidando le liste di proscrizione agli Anzaldi & Guelfi, degni eredi degli epurator Storace & Gasparri: infatti le loro liste, diversamente da quelle grilline, si avverano. L’altro giorno Anzaldi, capo-comunicazione di Renzi, si complimentava su Il Dubbio col direttore del Tg1: “Se Orfeo ha censurato Consip, vuol dire che è l’unico vero giornalista in circolazione: accorto e lungimirante”. Averne, di direttori così. Massimo Gramellini, sul Corriere, segnala il contrappasso di Grillo che prima usava Rsf per dare dei servi ai giornalisti e ora l’attacca perché danno del censore a lui. Già. Ma è proprio sicuro che, al netto di quel fascista di Grillo, la stampa italiana sia più libera e più bella che pria? Certo, criticare il sistema dalla prima pagina del Corriere, con un bel programmino su Rai3, dove puoi fare la marchettina al nuovo Sette dell’amico Beppe, è dura. Ma un po’ di prudenza non guasterebbe. Specie dopo un anno di propaganda a reti ed edicole unificate spacciata per informazione sul referendum costituzionale, una roba talmente nord-coreana da suscitare la rivolta del 60 per cento degli elettori. Ma ecco Repubblica, sempre al top. La settimana scorsa Sebastiano Messina chiedeva la testa di Sigfrido Ranucci, reo di leso Renzi, leso Benigni e leso vaccino: “Salvare Report da se stesso, allontanandolo velocemente dal sinistro latrato degli spacciatori di bufale”, dove il cane che latra bufale (quali?) era l’erede di Milena Gabanelli. Ieri, fischiettando, il Messina ci ha regalato un’antologia degli attacchi ai giornalisti. I suoi? Macché. Quelli di Renzi? Mavalà. Solo quelli di Grillo. Il quale ne ha dette e fatte di tutti i colori, ma ultimamente ha pure chiesto di smentire alcune bufale. Non – come scrive sul Corriere Goffredo Buccini – quelle dei “cronisti che osano infastidire la Raggi”, ma dei cronisti di Repubblica, Corriere e Messaggero che sono riusciti a tagliare tutti e tre la stessa frase da un sms di Di Maio alla Raggi, per ribaltarne il senso e potergli dare del bugiardo, mentre i bugiardi sono loro. E forse, fra chi denuncia una balla e chi la fabbrica, c’è una certa differenza. Ora però bando al pessimismo: festeggiamo anche noi la Liberazione della stampa da ogni giogo e censura (Grillo a parte). Lo dice anche l’editore più illuminato del bigoncio, reduce dall’annessione di Rcs Libri a Mondadori e dallo strepitoso flop del primo salone del Libro alla milanese: la presidentessa di Mondazzoli Marina Berlusconi. Che, intervistata dal sempre ficcante Daniele Manca del Corriere, annuncia la sua prossima missione: “Abbattere i muri pensati per sbarrare la strada alla libertà di espressione, alla libera circolazione delle idee e opinioni, al rispetto di chi non la pensa come noi”. E qui l’intervistatore sfodera tutta la sua temerarietà: “A chi sta pensando? A Trump? Alla Le Pen? A Grillo?”. La poveretta stava pensando all’editto bulgaro di suo padre. Ma il Corriere niente: non gliel’ha proprio lasciato dire.

Lo Stato sentenzia che le ONG non si toccano. E Saviano fa l’apologia di Al-Nusra dalla De Filippi, scrive Mauro Bottarelli il 28 aprile 2017 su "Rischio Calcolato". Come volevasi dimostrare, il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, ha capito suo malgrado cosa significhi toccare un nervo scoperto. Anzi, un filo dell’alta tensione. Dopo aver improvvidamente avanzato l’ipotesi che alcune ONG impegnate nel salvataggio dei migranti potessero essere finanziate dagli stessi trafficanti di uomini, ieri sera ha fatto una parziale retromarcia, dicendo che le sue sono ipotesi di studio e non prove, almeno al momento attuale. Atteggiamento sbagliato: un magistrato deve indagare in silenzio e, quando l’ipotesi accusatoria che persegue pare solida, allora parla. C’è però un problema: quante indagini quantomeno strampalate ha conosciuto questa stanca Repubblica, senza che il 90% della stampa e ben due ministri di punta, come quelli di Interno e Giustizia, sentissero il dovere di schierarsi preventivamente contro? Siamo sicuri che Minniti e Orlando sarebbero scesi in campo, se non si fosse trattato d immigrazione, ONG e accoglienza? Io no. Anche perché, se Catania ha esagerato nelle esternazioni, Roma (intesa come centro del potere) ha messo in campo una forza delegittimatrice che non si vedeva da tempo. Ad esempio, da quando una parte del pool Mani Pulite decise di dare un’occhiata ai rubli di Mosca in direzione Botteghe Oscure. Non c’è niente da fare: il potere in questo Paese non è solo cristallizzato, è una stalattite mortale per chiunque le si avvicini. Io capisco che Andrea Orlando, candidato alla segreteria del PD, abbia sentito l’impulso irrefrenabile di dire qualcosa di sinistra a poche ore dalle primarie di domenica ma, esattamente come il procuratore di Catania, anche lui avrebbe dovuto spogliarsi dei panni del ministro e parlare da dirigente di partito: invece no, è stato Largo Arenula a dire chiaro e tondo da che parte sta in questa vicenda. La quale, tra l’altro, è agli inizi, all’acquisizione di prove: ma, state certi, è anche alla fine. Il retromarcia di ieri sera di Buccaro parla la lingua di uno che ha capito come si sta al mondo e, vedrete, che tutto finirà in una bolla di sapone: le ONG ne usciranno più pulite dell’Olandesina del mitico spot sul sapone degli anni Settanta. Anche perché, guarda caso, le coincidenze si sprecano. Mentre il procuratore di Catania meditava su quanto detto al mattino ad “Agora” e si preparava alla mezza smentita all’Ansa dell’ora di cena, ecco che a Roma i pm avanzavano le richieste di condanna per “Mafia capitale”, mega-processo legato proprio all’attività di alcune coop e al duo Buzzi-Carminati, operanti nel settore dell’accoglienza: un comparto che “fa guadagnare più della droga”, come disse – intercettato – il ras delle cooperative, Salvatore Buzzi. La stessa formula usata da Buccaro per motivare la sua accusa di probabili pagamenti alle ONG da parte dei trafficanti, anche per colpire l’economia italiana. In un caso è Vangelo, anzi la madre di tutte le inchieste recenti, nell’altro trattasi pressoché di un mitomane. Eppure, come ci ricorda “Panorama” dell’8 febbraio 2017, nell’articolo di Chiara Degl’Innocenti, “Mafia Capitale è stata archiviata. Non sono emersi “elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio” e così la posizione di 113 indagati nell’inchiesta viene, appunto, archiviata perché il reato al centro di tutte le indagini, l’associazione di stampo mafioso regolata dall’articolo 416 bis, non sussiste”. Insomma, se il procuratore di Catania ha ecceduto nelle esternazioni, forse trasportato dal clamore dell’inchiesta, quelli di Roma hanno forse ecceduto nel muovere delle accuse enormi: avete notizia di stampa indignata o, peggio, ministri che richiamassero alla continenza? Zero. L’unico magistrato fuori registro in Italia è Buccaro. Anzi, a essere fuori registro, è l’argomento della sua inchiesta: l’accoglienza non si tocca. Proprio poco fa, dall’inchiesta sul terrorismo di cui è titolare la procura di Brindisi sono scaturiti un arresto in Germania e un’espulsione: le persone coinvolte avrebbero avuto legami con Amis Amri, l’attentatore di Berlino, poi freddato a Sesto San Giovanni. Ma lo stesso Viminale, quello che ha visto il suo titolare entrare in tackle scivolato sull’inchiesta di Catania durante il question time alla Camera, non aveva confermato che Amri era un lupo solitario, senza alcun aggancio o complice in Italia? Come vedete, nel corso di un’inchiesta le cose possono cambiare. Solo per Zuccaro c’è la certezza che tutto sia già scritto: le ONG sono candide come vestali. Punto, lo certifica lo Stato. Ma se ieri è stato il giorno delle polemiche, domani sarà quello del rito di purificazione televisiva. Già, perché il sito di “Repubblica” ci informa, bontà sua, che domani sera sarà ospite ad “Amici” da Maria De Filippi il cantore della verità assoluta, Roberto Saviano, con una simil-piece dedicata indovinate a chi? Ai volontari che salvano i migranti! Lascio all’aulica prosa di “Repubblica” deliziarvi con i particolari: “L’audio di un bombardamento in Siria dopo gli applausi, le risate e il tifo. Sabato 29 aprile ad “Amici”, su Canale 5, Roberto Saviano porta il rumore della paura e della morte. Nello studio si crea un silenzio irreale… Il suo intervento nel programma di Maria De Filippi parte da un frammento dal documentario premio Oscar “Caschi bianchi”, per parlare della guerra “a tre ore di volo da qui” che in sei anni ha causato oltre 450mila vittime, e dei migranti. Nei giorni della feroce polemica sul ruolo delle Ong, Saviano mette al centro del racconto due storie esemplari, quella di Khaled Omar, 31 anni, volontario dei caschi bianchi che ha salvato centinaia di vite – ed è stato ucciso durante un bombardamento – e quella di Ileana Boneschi, 28 anni, l’ostetrica di Medici senza frontiere che fa nascere i bambini in situazioni estreme. Sotto le bombe, stremate dalla fame”. Che meraviglia assoluta, non vi pare? Nemmeno la “Cura Ludovico” di Arancia Meccanica era arrivata a tanto: tra un ballerino e un cantante, ecco il nuovo eroe dei Due Mondi che ci racconta le gesta dei meravigliosi volontari delle ONG. E cosa utilizza per farlo? gli “Elmetti bianchi”, ovvero la protezione civile di Al-Nusra, di fatto dei fiancheggiatori a pieno titolo dei terroristi operanti in Siria, come ormai dimostrato da decine di documenti! E il tutto, in prima serata del sabato su Canale5, rete ammiraglia di Mediaset: questo sì che meriterebbe l’apertura di un’inchiesta per apologia di terrorismo internazionale ma, state certi, finirà solo con un botto di auditel e la canonizzazione in vita di Saviano, demiurgo che plasma la kora del politicamente corretto e spaccia per eroici salvatori dei supporter dei tagliagole. D’altronde, hanno vinto l’Oscar. Siamo alla circonvenzione di incapace di Stato, Kubrick era un dilettante e Orwell un mitomane. Saviano poi parla di “guerra a tre ore da qui”, per farci capire quanto siamo insensibili, non come quegli angeli delle ONG: e dove cazzo era Saviano quando la sinistra di governo che ora si strappa le vesti contro la Procura di Catania apriva le sue basi militari per bombardare a un’ora da qui, in Serbia? E, vi assicuro, che dopo l’assalto al Parlamento macedone di ieri notte, debitamente silenziato dai media italiani (dovevano dare conto di Matteo Renzi che cantava “Ricominciamo” di Adriano Pappalardo durante una visita a Corviale), proprio quel fronte balcanico tornerà a farsi sentire: anche a livello di flusso di profughi, visto che dopo l’ingresso del Montenegro nella NATO, la Macedonia e la sua tratta di confine con l’Albania rappresentano il corridoio perfetto verso l’Europa e per la nascita del progetto pan-albanese di destabilizzazione tanto perseguito dagli USA. Non a caso, l’ambasciata statunitense di Skopje è stata attivissima nello schierarsi subito con i partiti di minoranza nel loro tentativo, questo sì golpistico, di fare eleggere uno speaker della Camera fuori dalle norme parlamentari. Mi sono rotto i coglioni di dover ribaltare la realtà distorta tutti i santi giorni, ve lo confesso. Ma non mi arrendo. Giuro che, parafrasando Nanni Moretti quando ricordava agli italiani che si meritavano la mediocrità da uomo medio di Alberto Sordi, io non mi merito Roberto Saviano. E la realtà, per quanto vi faccia ingoiare tonnellate di bocconi amari, alla fine emerge sempre. Come in Canada, dove il premier-sex symbol, Justin Trudeau, ha messo in pratica un po’ troppo in fretta la metafora di Ricucci, quella del lanciarsi facilmente in attività omosessuali con le terga altrui. E questi grafici ce lo mostrano: i canadesi, a parole accoglienti e sprezzanti di quel gretto vicino di casa che è Donald Trump, cominciano ad averne pieni i coglioni loro stessi di profughi. Come certifica il “Financial Times”, non “L’eco del balilla”, “il passaggio di migranti dal confine del Quebec è triplicato su base annua e anche il dato dell’Ontario è aumentato moltissimo”. E, come ci mostra questo grafico basato su un sondaggio della Reuters, ben il 46% dei cittadini canadesi è contrario alla politica del governo sull’immigrazione e chiede maggiori espulsioni. Di più, addirittura il 40% dice che l’immigrazione illegale rende il Paese meno sicuro. Che cazzo di razzisti questi canadesi, quando Saviano ci delizierà con un’intemerata contro questi Grizzly senza cuore? Magari a “Forum”, tra un litigio e l’altro sull’eredità di zia Mariuccia? Ma nessuna paura, è solo una sparuta minoranza di razzisti, le istituzioni canadesi sono sane, liberali e aperte verso chi scappa da Trump: insomma, mica troppo. Lo conferma Anthony Navaneelan, avvocato di Toronto che si occupa proprio di immigrazione: “Abbandonare una richiesta avanzata negli Stati Uniti e venire in Canada dopo una decisione negativa delle autorità statunitense o, ancora, non avanzare richiesta di asilo ma aver passato comunque molto tempo negli USA, sono tutti aspetti molto negativi. Più a lungo stai lontano dal tuo Paese di origine, più è difficile che qui le istituzioni decidano che tu sia un rifugiato”. Insomma, aperti sì ma coglioni no. Quella è una prerogativa italiana.

Ma anche in Germania c’è qualche rogna con gli atteggiamenti buonisti, come ci mostra questo grafico: i cittadini tedeschi hanno infatti scoperto, immagino con enorme gioia, che sono fino a 270mila i cittadini siriani che hanno maturato il diritto di portare tutti i membri della loro famiglia in Germania, questo su un totale di 431.376 che hanno presentato richiesta d’asilo nel 2015 e 2016. Auguroni. E se questi due grafici, elaborati da uno studio Vladimir Shalak della Russian Academy of Science, l’istituto che ha sviluppato il sistema di analisi dei contenuti per Twitter (Scai4Twi), ci mostrano come – dall’analisi di 19mila tweets originali – Germania e Austria siano i Paesi più aperti verso i rifugiati, invitati a recarsi lì attraverso il social, quest’altro ci mostra da dove sono generati quei tweets: USA e UK, solo il 6% viene davvero dalla Germania! Comunque tranquilli, non c’è nessuna pianificazione riguardo l’ondata migratoria, è tutto assolutamente spontaneo e figlio legittimo della fuga da guerre, fame, carestie, disturbi gastrici, suocere rompicoglioni e altre emergenze umanitarie. E, ovviamente, il procuratore di Catania è, a prescindere, un mitomane di Stato. Auguri, il futuro da schiavi sarà duro da sopportare. Ma ve lo siete cercato. Buon Saviano per domani sera, io ho altri programmi per il 29 aprile.

Saviano & Travaglio: Gli Scopiazzatori, scrive su "Ultima Voce" il 6 Aprile 2017 Gianni Lannes. Cosa accomuna Travaglio e Saviano? Saccheggiare il lavoro intellettuale altrui. Vi racconto una breve storia. Ecco una consorteria di furbetti che sperano sempre di farla franca e di non essere scoperti. Rubare non è un bene. Il plagio reca danno ai veri autori e poi non è etico. Alla voce furto delle opere di ingegno altrui troviamo la scuderia di Repubblica: Augias, Galimberti, Saviano, insomma pennette in salsa tricolore; una combriccola utile a chi comanda per orientare i consumatori, pardon, i lettori. Fanno pure i moralisti d’accatto (sic!) e vanno pure per la maggiore un giorno sì e l’altro pure nei salotti tv, ma poi si appropriano del lavoro altrui spacciandosi addirittura per scrittori e giornalisti. Facile, ad esempio pubblicare ovvero ricicciare inchieste sulle mafie che altri realizzano, rischiando concretamente la pelle. Nel 2011, capitò a più riprese, che Marco Travaglio, attuale direttore responsabile del Fatto Quotidiano, plagiasse integralmente intere mie indagini giornalistiche su don Verzé, il San Raffaele e Nichi Vendola, pubblicate qualche anno prima su TERRA NOSTRA, e poi ripubblicate dal medesimo senza citare la fonte e senza virgolette, sul settimanale L’Espresso e sul giornale Il Fatto Quotidiano. Travaglio non aveva avuto neanche il garbo di cambiare almeno il titolo, mentre il direttore del settimanale di De Benedetti fece finta di niente, invece di cacciarlo a pedate nel fondoschiena. Anche l’ordine dei pennivendoli era distratto. Travaglio si limitò ad inviarmi un’e-mail di scuse. E Saviano: il sedicente esperto di ecomafie? Peggio ancora, come ha attestato il procedimento giudiziario giunto in Cassazione – in ambito civile – intentato nei suoi confronti dagli autori di inchieste sulla camorra in Campania. Dopo il successo di vendite costruito a tavolino dalla Mondadori del piduista Berlusconi, il pompato dal sistema è approdato sull’altra sponda di Repubblica. E così ha preso a saccheggiare impunemente all’estero, prima di tutto in Albania, sperandola di farla franca, ma adesso è stato preso definitivamente in castagna da un giornale online nordamericano. In Italia, la brava Giulia Fresca aveva messo alle strette questo eroe da barzelletta già nel 2010, sulle pagine online di Articolo 21, mentre nello stesso anno il professor Alessandro Dal Lago aveva stroncato Gomorra nel memorabile saggio Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee. A scuola una volta, campioni del genere del furto letterario si bocciavano inesorabilmente, invece oggi si promuovono addirittura a paladini delle libertà civili. Che paradosso mentre i tempi correnti ammazzano l’etica. Gianni Lannes

Roberto Saviano. Contraddizioni o libertà. 21 aprile 2010. Proponiamo alla riflessione e alla discussione dei lettori di Nazione Indiana il seguente testo di Wu Ming tratto da Wumingfoundation/Giap. Ricapitoliamo: Berlusconi attacca Gomorra. Lo aveva già fatto, ma stavolta è più esplicito. Saviano giustamente fa notare che Berlusconi è proprietario della casa editrice che pubblica il libro, e chiama in causa quest’ultima: “Si esprimano i dirigenti, i direttori, i capi-collana”. Si esprime invece Marina Berlusconi, più in veste di figlia che di editrice. Saviano commenta la lettera di Marina senza abbozzare, senza toni concilianti, anzi, chiamando in causa la Mondadori con maggiore perentorietà. Il messaggio é: “Voglio sentire chi in casa editrice ci sta per davvero, voglio sentire chi la Mondadori la manda avanti”. La contraddizione si acuisce. Da autore Mondadori e autore di Gomorra, Saviano occupa una postazione strategica, e più di altri può chiamare al pettine certi nodi, nodi che riguardano anche noi. Far venire i nodi al pettine è tanto un dovere civico e politico, quanto un compito specifico dello scrittore. Pubblicando con Mondadori, Saviano ha generato conflitto. Conflitto non effimero, ma che opera in profondità. Comunque vada, é più di quanto abbia fatto l’opposizione. Se Saviano fosse rimasto in una nicchia di ugual-pensanti, nel ghetto dei presunti “buoni”, non avrebbe acuito nessuna contraddizione, né generato alcun conflitto. Stare simultaneamente “dentro” e “contro”, diceva l’operaismo degli anni Sessanta. “Dentro e contro” era la posizione, era dove piazzare il detonatore. Sia chiaro: l’alternativa non è mai stata “fuori e contro”. L’alternativa è sempre stata “dentro senza rompere i coglioni”, oppure “dentro senza assumersene la responsabilità”. Dentro fingendo di star fuori, insomma. Come tanti, come troppi. Un “fuori dal sistema” non esiste. Il sistema è il capitalismo, ed é ovunque, nel micro e nel macro, nei rapporti sociali e nelle coscienze, nelle giungle e in cima all’Everest. Noi abbiamo sempre detto – e ancora diciamo – che tutti quelli che combattono “il sistema” lo fanno dall’interno, dato che l’esterno non c’è. Il potere non è fuori da noi, è un reticolo di relazioni che ci avvolge, un processo a cui prendiamo parte, ma ovunque vi sia un rapporto di potere, là è anche possibile una resistenza. Sei anni fa WM1 spiegò, per l’ennesima volta, la nostra posizione sul “pubblicare con Einaudi”. Lo fece per filo e per segno su Carmilla. Lo fece perché è sempre stato nostro costume – e ancora lo è – rendere conto pubblicamente delle nostre scelte, soprattutto se ci viene richiesto dai lettori. Tra le altre cose WM1 scriveva: Negli ultimi anni, le polemiche “boicottomaniache” hanno rischiato di fare il gioco degli yes men, dei leccaculo: chi chiede agli autori di sinistra di “andarsene da Mondadori” non capisce che così facendo il loro posto nella casa editrice e nell’immaginario collettivo (una posizione a dir poco strategica) sarebbe preso da autori e manager di destra (i quali non vedono l’ora), con piena libertà di spargere la loro merda incontrastati. Queste frasi risalgono a due anni prima dell’uscita di Gomorra. Sono cose che, in seguito, lo stesso Saviano ha dichiarato in più occasioni, e diversi altri autori hanno ribadito, anche di recente. Da anni difendiamo questa postazione avanzata e scomodissima, esposti sia agli attacchi della destra sia a continue raffiche di “fuoco amico”. La nostra posizione sul pubblicare con Einaudi è identica dal principio, è la stessa dichiarata in quel vecchio testo e ancora prima. Non siamo noi il corpo estraneo alla tradizione e al catalogo Einaudi, come non siamo noi ad avere corrotto Tizio o Caio, ergo non siamo noi che dobbiamo levare le tende. Mettiamola così: se qualcuno vuole trafugarmi o usurpare qualcosa, io non rinuncio fin da subito, non gli lascio tutto in mano e tanti saluti. Io cerco di lottare, di resistere. Se poi il rapporto di forza é schiacciante, prenderò un fracco di botte, ma almeno avrò tentato. E’ meglio prenderle dimenandosi che prenderle stando fermi. In quelle note del 2004, WM1 descriveva un berlusconismo in forte crisi. I sintomi c’erano tutti, ma quell’analisi – sei anni dopo possiamo dirlo – li sopravvalutava. Eppure…Eppure sei anni fa la partita non era persa. Il berlusconismo arrancava, non sfondava, il logoramento era evidente. Non tutti i pozzi erano avvelenati. L’elenco di passi falsi, sconfitte e defaillances non ce l’eravamo sognato noi, erano tutte cose appena accadute. L’anno prima tre milioni di persone avevano marciato a Roma contro la guerra in Iraq. Due anni dopo, la “devolution” (la più grande scommessa del berlusco-leghismo, un’impresa storica di de-costituzionalizzazione del Paese) sarebbe stata bloccata dal voto referendario. Non sono falsi ricordi. C’era ancora un blocco sociale, una “forza storica” che si opponeva e impediva al berlusconismo di sfondare. Quella forza storica, però, da sola non bastava. Ed é stata boicottata, sabotata, massacrata prima dalla “opposizione” che dal governo. E inoltre ha commesso degli errori, continuando ad affidarsi a certi rappresentanti. Quel che è successo dopo lo sappiamo. Oggi tutto é più difficile, ma per noi la sfida, la sfida politica, è ancora “resistere un minuto più del padrone”. L’Einaudi é un campo di battaglia importante, e finché avremo munizioni e fiato continueremo a combatterci sopra. Ce ne andremo solo se e quando, presto o tardi, le condizioni si faranno intollerabili. E’ la strategia sbagliata? Tutto può essere. Ma é quella che abbiamo scelto e di cui rendiamo conto da sempre. Noi possiamo fare errori, scazzare previsioni, fare passi falsi, ma agiamo sempre con coscienza, prendendoci le nostre responsabilità, sottoponendoci al pubblico scrutinio, facendo autocritica. Dopodiché, le scelte di ciascuno verranno giudicate sul lungo periodo, commisurate ai risultati ottenuti sul campo, alla traccia lasciata, al contributo dato alla sopravvivenza di un barlume di senso nella propria e altrui vita.

Qualche parola su Saviano. Al di là di alcune mosse e prese di posizione stridenti e da noi non condivise, abbiamo sempre difeso e continueremo a difendere Saviano dagli attacchi stupidi o interessati. Saviano è un collega, un amico, un compagno di strada. Per questo gli abbiamo sempre detto le cose fuori dai denti, e abbiamo segnalato quali rischi gli facesse correre la sua trasformazione in comodo simbolo, vessillo rassicurante e buono per tutti i frangenti, abito d’indignazione pr’t-à-porter. Tra le altre cose, nel 2009 scrivemmo: … “Saviano è tutti noi”. Vada avanti lui ché ci rappresenta così bene. Soffra lui per conto nostro, è il destino che si è scelto. Bel ragazzo, tra l’altro. Saviano è l’uomo più strumentalizzato d’Italia […] La voce di Saviano è rimasta invischiata tra scelte fatte più in alto, politiche d’immagine e “stato delle cose” realpolitiko: Saviano con Shimon Peres con Donnie Brasco con Salman Rushdie con Veltroni, Saviano alla scuola di formazione del PD nel Mezzogiorno e così via. Dev’essere ben chiaro che Saviano non può comportarsi in altra maniera: ha davvero bisogno di questa ossessionante presenza pubblica, di questo over-statement di solidarietà anche pelosa, perché gli garantisce incolumità. Il paradosso è che, dietro il cordone sanitario, lo scrittore svanisce e resta solo il testimonial […] Saviano dovrà lottare con le unghie e con i denti per ri-conquistarsi come scrittore. Da qualche settimana, sui giornali e in rete, circola una pubblicità, un’immagine che abbiamo fin da subito trovato molto vera e perciò raggelante, perfetta rappresentazione del dispositivo che riproduce Saviano come soggetto non libero. Dal 2006, per continuare a vivere, Saviano ha dovuto agire perché non calasse l’attenzione: gli è toccato essere sempre visibile, essere una presenza costante nella sfera pubblica. In ogni momento, il forte rischio era che questo sovra-apparire lo inflazionasse, gli facesse perdere potenza. Di fronte a un calo di potenza, la tentazione è di rispondere “aumentando la dose”, per ottenere un effetto in un’opinione pubblica sempre più assuefatta e “tollerante”. Solo che, aumentando la dose, il problema si ripropone a un livello più alto e quindi più impegnativo, meno gestibile. Questo è il dilemma, e Saviano ne è sempre stato conscio: non è un caso che abbia spesso tentato di scartare, che sia sempre tornato a insistere sulla “scrittura”, sullo scrittore. Era il suo modo di fare resistenza, di non far chiudere il dispositivo, di non farsi legare definitivamente. Bene, può darsi che Saviano abbia trovato lo spiraglio. Può darsi che l’acuirsi della contraddizione-Mondadori gli stia fornendo un inedito spazio di espressione non pre-ordinata. Forse il dispositivo è entrato in una crisi almeno passeggera, perché sotto i nostri occhi Saviano “Ë diventato quel che è”. Mai come ora, mai in modo tanto eclatante, Saviano è stato quello che vediamo nella risposta a Marina Berlusconi: un uomo libero. Anche nella reclusione che sconta, un uomo libero. Comunque vada a finire con Mondadori, comunque vada a finire in generale, in questo momento Saviano è libero.

Ma quale icona di sinistra. Saviano, dettaglio imbarazzante: "A Buttafuoco disse che...", scrive il 5 Agosto 2016 Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. Mi sono accorto con ritardo (mica pretenderete che uno si legga Saviano il 3 agosto!) che l'autore di Gomorra mi ha dedicato più di qualche riga sulla Repubblica dell'altro ieri, in un articolo dal titolo suggestivo: "Camorra, la fabbrica dei dossier". In realtà me lo ha segnalato un amico della Direzione investigativa antimafia con un sms divertito: «Se ti hanno arrestato sono disposto a verbalizzare le tue confessioni». Dopo di che ci ho messo un giorno a decrittare le frasi di questo Milionario dell'Anticamorra e ho scoperto che mi dà del giornalista «borderline» e, se ho tradotto bene dal savianese, mi accusa pure di essere contiguo alla camorra. Nella sua lenzuolata ha ricordato un mio scoop dei tempi in cui lavoravo per Panorama, riguardante un'inchiesta che coinvolgeva l'allora premier Silvio Berlusconi: una fuga di notizie per cui la procura di Napoli ha indagato per un paio d' anni anche su di me e sul direttore del settimanale mondadoriano Giorgio Mulè. I pm partenopei dispiegarono un vero e proprio dispositivo di «spionaggio» che consentì di ascoltare per settimane decine di migliaia di telefonate sulle utenze di diversi giornalisti di Panorama. Per questo fa sorridere che oggi Saviano mi appiccichi addosso, citando il pm Vincenzo Piscitelli, un'accusa di «spionaggio» che fa a pugni con il decreto di archiviazione del gip di Roma. Giudice che ha ereditato l'inchiesta da Napoli per la palese incompetenza territoriale degli inquirenti campani e che ha riconosciuto che io e Mulè non abbiamo fatto altro che il nostro lavoro. Le accuse a Berlusconi - Nell' articolo il criptico Saviano è poi partito per la tangente e ha raccontato del rapporto «assai stretto» che avrei avuto con l'avvocato Michele Santonastaso, ex difensore di diversi boss della camorra. Dal 2010 è rinchiuso in cella per i presunti rapporti pericolosi con i suoi assistiti e anche per le minacce rivolte allo stesso Saviano. Ma all' epoca in cui lo incontrai, nel 2008, era solo un legale e molti giornalisti avevano una certa consuetudine con lui, visti i nomi dei clienti. Un giorno per esempio lo incrociai in un bar mentre parlava con la collega Rosaria Capacchione, divenuta poi senatrice del Pd. I motivi per cui ho contattato Santonastaso sono limpidi e certificati. In particolare lo avevo cercato per provare a realizzare un'intervista con il più celebre latitante dei Casalesi, Antonio Iovine, detto O' Ninno. Conservo ancora copia delle domande che gli consegnai. Informai anche il capo della squadra mobile di Caserta del tentativo che stavo facendo e lui tra il serio e il faceto mi propose di imbottirmi di microspie. Ovviamente rifiutai considerando la cosa troppo rischiosa. Alla fine non so se Santonastaso abbia mai consegnato quel mio lungo questionario, di certo le risposte non mi arrivarono. In quegli stessi giorni Santonastaso mi confidò che aveva recuperato delle intercettazioni esplosive e che le avrebbe rese pubbliche. Nei brogliacci il pentito Carmine Schiavone parlava di presunte pressioni subite da pm e investigatori per fargli accusare Silvio Berlusconi. «Da quando stava quel piecoro di omissis che andava cercando che io accusassi Berlusconi. Eh, io gli dissi: ma chi c… lo conosce!», diceva in una telefonata Schiavone. All' epoca il presidente di Forza Italia era premier e la notizia era di grande rilevanza mediatica. Il praticante maldestro - Per potermi consegnare quei brogliacci Santonastaso decise di allegarli a un'istanza di rimessione, ovvero a una richiesta di trasferimento del cosiddetto processo Spartacus ad altre toghe. I tempi erano ristretti e l'avvocato chiese a un suo praticante, tale Davide, di redigere l'atto. La sera prima del deposito il giovanotto entrò nello studio di Santonastaso, dove ero seduto anche io, e iniziò a leggere il documento che aveva preparato. Il linguaggio era colorito e minaccioso e si rivolgeva direttamente a tre presunti nemici dei boss, che secondo Santonastaso imbrogliavano le carte della tenzone giudiziaria: il pm Raffaele Cantone, Roberto Saviano e la già citata Capacchione. Mi sembrò tutto improvvisato e pasticciato. I termini erano decisamente sopra le righe e il giorno dopo successe il patatrac che tutti sanno. L'avvocato dei boss lesse quello squinternato atto d' accusa in aula e subito i giornali rilanciarono la notizia delle minacce dei Casalesi a tre paladini dell'Anticamorra. Il risultato fu che a Saviano fu confermata la scorta che aveva dall' anno prima. Anche per colpa della fretta e di un praticante alle prime armi. Nel novembre 2014 per quelle minacce venne condannato il solo Santonastaso che evidentemente per i giudici non aveva mandanti. Ma io già lo sapevo e ne informai lettori di Panorama, quando decisi di intervistare l'avvocato sul putiferio che era scoppiato e di cui ero in piccola parte responsabile avendo tanto insistito per avere quelle intercettazioni. Nell' intervista (disponibile su Internet per chi voglia verificare come il taglio delle domande fosse di riprovazione rispetto all' iniziativa dell'avvocato) tentai in tutti i modi di far recitare un mea culpa a Santonastaso, che ammise: «Probabilmente il tono era sbagliato. Solo che a scrivere ero io e non i miei clienti. I casalesi non hanno minacciato nessuno, non avrebbero potuto farlo tramite me». I giudici lo hanno confermato. Il plagiatore - Peccato che quella innocua intervista nella testolina di Saviano, forse troppo impegnato a guardare puntate di Gomorra, sia diventata un messaggio inquietante o per lo meno questo mi sembra di aver inteso negli involuti periodi che Saviano ha propinato ai suoi coraggiosi lettori agostani. «O' premio Pulitzèr», come lo ha soprannominato qualcuno, pensa di svelare complotti che non ci sono e di trovare chissà che talpe. E se non fosse chiaro il suo intento, su Facebook esplicita sobriamente il concetto: «"Sbirri" venduti, giornalisti e faccendieri, ecco la rete di spioni che trama in segreto per politici e clan, compromettendo la democrazia». Bum! Io, il bravissimo collega napoletano Simone Di Meo e pochi altri giornalisti non identificati saremmo un rischio per la democrazia. Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Su Di Meo urge aprire una parentesi: è il giornalista che ha avuto la colpa di vincere con la sua casa editrice sino in Cassazione la causa intentata contro Saviano per plagio, perché «o' Pulitzèr» è anche un signor copiatore. Tanto che dall' undicesima ristampa di Gomorra, a pagina 141, è scritto nero su bianco che diversi passi del libro sono appunto di Di Meo, coautore a sua insaputa. Purtroppo due giorni fa Saviano non ha informato i suoi lettori, mentre attaccava Simone, di questo piccolo conflitto d' interesse. Comunque se il Saviano imbronciato (quanto gli piace ostentare la sua aria pensosa) scrive su di me falsità, io adesso vi voglio raccontare due o tre cose vere che so di lui e per esperienza diretta. Macho man e il braccino - Era il 2006 e in Mondadori, dove lavoravo, si favoleggiava di un libro su cui l'azienda puntava molto. Anzi moltissimo. Era di un giovanotto campano sponsorizzato da un grande critico letterario, campano pure lui, di nome Goffredo Fofi. Rita Pinci, all' epoca vicedirettore di Panorama, mi chiamò alla sua scrivania per affidarmi un delicato compito. Avrei dovuto leggere il tomo (bisogna dirlo: la più grande operazione di marketing editoriale degli ultimi vent' anni) e presentarlo in anteprima mondiale sul nostro giornale. Mi consegnarono una bozza cartacea, in gran parte riscritta e tagliata (l'originale, Saviano lo portava in giro con la carriola) dai fenomenali editor della casa editrice di Segrate. Iniziai il primo capitolo e dopo poche righe mi ero quasi appisolato. Con un occhio semiaperto domandai in Mondadori il numero di cellulare di questo Roberto, all' epoca uno sconosciuto ventisettenne, e dandogli del tu gli chiesi di scegliere in mia vece i capitoli più interessanti. Di mio pugno volli aggiungere un breve biografia. Gli domandai due o tre informazioni personali e lui, garbatamente, mi rispose. Tra l'altro mi disse che amava la pallanuoto (non era ancora un fanatico della boxe) e che era fidanzato. Lo scrissi. Apriti cielo. Quando gli rilessi la breve bio, lui, evidentemente già compreso nel personaggio, mi chiese di cancellare quei due particolari «da rivista di gossip». Gli dissi che non ci trovavo niente di disdicevole e lo lasciai che bofonchiava. Quando tornai al giornale il vicedirettore mi disse che Saviano aveva contattato i vertici dell'azienda per far togliere quelle due righette e che dai piani alti avevano telefonato al compianto direttore Pietro Calabrese. Ma le righette rimasero al loro posto. Con grande scorno del Nostro. Nel 2009 mi trasferii nella redazione di Roma e mi piazzai nella postazione di fronte a un vero scrittore, Pietrangelo Buttafuoco, che tutto divertito mi raccontava dell'imbarazzo di Saviano per l'essere diventato un'icona della sinistra, lui che era «un vero camerata». Ridendo mi leggeva alcuni passaggi dei loro scambi epistolari. Secondo lui Saviano aveva ambizioni superomistiche e sognava di andare a fare il paracadutista in Afghanistan al seguito dei carabinieri. Non so se fosse vero, ma un'amica dell'autore di Gomorra, che aveva la ventura di incontrarlo in privato e che lo conosceva da quando era studente, me lo descrisse più che come un pensoso intellettuale di sinistra, come un ardito con la passione per i pugni e gli approcci ruvidi verso le donne. L' ultimo aneddoto riguarda la premiata coppia Fabio Fazio-Saviano. I due insieme con la scorta di sette persone al seguito del Sommo Scrittore sostarono per pranzo in un lussuoso ristorante della Riviera di Ponente, di proprietà di un mio amico. La coppia scelse il tavolo migliore, mentre i bodyguard vennero fatti accomodare un po' distanti. Fazio si avvicinò allo chef: «Una portata a testa per quei signori la offro io» disse soddisfatto della sua magnanimità. Saviano nemmeno si alzò. E il mio amico li fulminò: «Le altre portate per la scorta le offrirò io». Ora vista la parsimonia di cotanto Autore, temo che non apprezzerà la mia richiesta di risarcimento danni. Ma purtroppo, io che non ho mai citato in giudizio nessuno, mi trovo costretto a farlo per l'enormità delle accuse. In attesa di incontrarlo in Tribunale, lo rassicuro: anche se ho visto più volte il Padrino, dall' 1 al 3, non sono un picciotto e i suoi libri non mi disturbano per il contenuto, ma solo perché sono mal scritti. Giacomo Amadori

DIRITTO DI CRONACA E DIRITTO DI STORIA VITTIME DEL DIRITTO ALL'OBLIO.

Uccise Elena con un pugno ora invoca il diritto all’oblio: «È stato più di 5 anni fa». Lettera del legale del killer al sito contro i femminicidi. Condannato a 30 anni in primo grado e in appello, la Cassazione nel 2014 ha ridotto la pena a 17 anni, scrive Gian Antonio Stella il 30 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Che scadenza ha la memoria d’un delitto? Sappiamo quella dello yogurt, dei pandori o del tonno ma qual è la scadenza del ricordo di una morta? Mai, per chi l’amava. Mai. Eppure l’avvocato d’un omicida chiede di rimuovere dal sito dedicato ai femminicidi ogni accenno al suo cliente. Ce l’avrà bene il diritto alla privacy! In fondo, son passati «ben più di cinque anni»… Per carità, non a tutti è dato di provare quanto provò, racconta Alessandro Manzoni, «il nostro Lodovico», che dopo avere ammazzato in un duello «un tale, arrogante e soverchiatore», fu preso da un tale turbamento da indossare il saio col nome di fra’ Cristoforo per seguire «una vita d’espiazione e di servizio, che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso». Anzi, troppe storie di femminicidi han mostrato come non pochi massacratori di fidanzate, mogli, compagne, conservino il loro odio perfino «dopo». Fatto sta che Emanuela Valente, la giornalista e blogger che ha creato e coltiva «inquantodonna.it» per tenere viva la memoria di tutte le poverette che sono state uccise, ha ricevuto recentemente una lettera che l’ha lasciata basita. La firma l’avvocato Germana Cauci. E dice tutto già nell’oggetto: «Cancellazione da ogni sito Web delle notizie e informazioni riguardanti la persona di Cristian Vasili Lepsa».

Ricordate? Si tratta di quel muratore rumeno che alla fine di febbraio del 2011 ammazzò con un pugno in faccia, una martellata terrificante, Elena Catalina Tanasa. La quale, minacciata dall’uomo, aveva inutilmente cercato di rifugiarsi a casa di due amici. L’uomo, «conosciuto dagli amici come un tipo violento e con precedenti», scrisse l’Ansa, «l’aveva inseguita fin dentro l’appartamento arrampicandosi su un albero, aveva fatto irruzione da una finestra e aveva colpito la giovane». La quale, finita in coma, non riuscì a riprendersi e dopo ore di agonia morì. Al processo, come ricorda il difensore della ragazza Moreno Maresi, emerse un quadro piuttosto chiaro. Da una parte c’era lui, Cristian, un ex militare violento che passava ore nelle palestre di body building per farsi un fisico scultoreo. Dall’altra lei, Elena, ricordata dalle amiche come «una ragazza bella, dolcissima, piccolina, fragile, che lavorava e studiava per andare all’università». Un pugno di Cristian era in grado di fare i danni di un’incudine scaraventata su una vetrinetta. I giudici, infatti, non ebbero dubbi: omicidio volontario. E così quelli d’appello: omicidio volontario. Trent’anni di carcere. Tanto più che il delitto era stato preceduto, dissero le sentenze, da «una serie di delitti» consistenti in «maltrattamenti e lesioni» alla ragazza. Massimo della pena. Cristian Vasili Lepsa, però, non si arrende. E ricorre in Cassazione dicendo d’aver colpito la vittima per errore perché si era messa in mezzo a una rissa tra lui e il presunto rivale e lamentando il «mancato espletamento di perizia psichiatrica (…) essendo i fatti espressione di una gelosia patologica e abnorme, tale da escludere o comunque scemare grandemente la capacità di intendere e volere». Un raptus. Solo un raptus: aveva pure lasciato a casa la mazza da baseball… E che fa la Suprema Corte? Gli dà ragione: non era un omicidio volontario ma preterintenzionale… Anzi, non manca una bacchettata ai giudici d’appello: non hanno operato «il necessario discrimine tra la gelosia che, in se stessa, ancorché morbosa, non costituisce un futile motivo, bensì uno stato emotivo e passionale, e la considerazione della vittima come proprio possesso…». Pena ridotta: 17 anni. È il 9 settembre 2014. Nemmeno tre anni dopo, senza che mai la notizia della riduzione di pena sia uscita manco sulla dettagliatissima Ansa regionale, l’avvocato intima a «inquantodonna.it» di correggere l’imprecisione sull’omicidio «volontario». E fin qui, va bene.

Ma non basta: «Vi intimo entro cinque giorni e non oltre a rimuovere ogni informazione in merito al mio assistito poiché detto articolo risulta non più necessario» dato che «la notizia all’epoca ha raggiunto l’utenza nell’espressione del pieno diritto di cronaca». Perché insistere a ricordare quello spiacevole episodio che «ha visto coinvolto il mio assistito ben più di cinque anni fa»? Sic… Insomma, e la privacy? L’Authority ha già risposto: certo, l’interessato ha il diritto di richiedere che i suoi dati vengano aggiornati ma, «al di là del caso specifico, le decisioni adottate dal Garante per accogliere o respingere le richieste di diritto all’oblio si basano su alcuni criteri guida: il trascorrere del tempo è senz’altro l’elemento più importante, ma l’esercizio di un tale diritto può incontrare rilevanti limiti…». Pochi anni bastano per chiedere l’oblio su un omicida?

IL PAESE DEI FARLOCCHI. Chi chiede l’oblio? Ecco le persone che tutela il presunto diritto che piace a tutti. Nel vuoto normativa impera il caos giuridico e giudiziario: l’umiliazione del diritto di cronaca è servita, scrive il 28 Luglio 2017 "Prima Da noi". Diritto all’oblio. Gli indagati della Fira vogliono già essere dimenticati. Nel momento storico e nel Paese dove giudici della Repubblica decidono che delinquenti incalliti come Carminati & soci non sono “mafia”, non stupisce che altri giudici e politici non abbiano adeguata sensibilità verso problemi apparentemente meno importanti come il diritto di cronaca e la privacy. In fondo si tratta solo di diritti costituzionali sui quali si poggia forte la Democrazia (che infatti non gode di buona salute). Dopo quasi 8 anni dall’inizio del nostro calvario professionale grazie all’invenzione del “diritto all’oblio”, dopo aver conseguito record di cui avremmo fatto volentieri a meno, possiamo fare il punto della situazione e capire dove siamo arrivati e cosa succede nel silenzio e nell’inerzia. La verità è che nessuna forza politica attualmente in Parlamento ha la statura, la volontà ed i voti per far approvare una legge semplicemente giusta, onesta e che equilibri i vari interessi in gioco avendo come faro la Costituzione e tutelando i diritti di tutti. Invece è troppo comodo avere uno strumento legale (ma non legittimo) che tappi la bocca ai giornali come una censura postuma spesso senza nemmeno tirare in ballo i giudici. E d’estate è tutto un fiorire di proposte parlamentari per mettere bavagli, controllare il Web e fare qualunque altra cosa che umili gli onesti e premi i delinquenti, quelli veri e quelli sotto mentite spoglie. Non ci stupiamo più di nulla ormai anche noi abbiamo fatto il callo a questo far west. Diffide, intimazioni, minacce, ultimatum a centinaia da parte di chiunque, pure da chi magari non ha mai aperto un codice ma si sente in diritto di dare lezioni e pretendere, perchè subisce «un danno enorme». Nell'indifferenza è nato il "danno da cronaca" cosa che farebbe rivoltare nella tomba i padri costituenti... Così gli scaffali della redazione di PrimaDaNoi.it si popolano di denunce, querele, citazioni per danni, richieste di cancellazione articoli dove l’unico denominatore comune è il presunto “diritto all’oblio”, un diritto che non esiste così come concepito nella mente di alcuni, ovvero far sparire qualunque persona o fatto. Solo qualcuno, i più “antichi”, contestano ancora la presunta diffamazione per le cose scritte e ritenute false ma per quelle la storia finisce subito perchè i documenti riescono ancora a leggerli e capirli tutti.

IL TELEFONO NON SQUILLA PIU'. A proposito dell’ex Mafia Capitale rimarrà storica la denuncia di quell’imprenditore molto coccolato in tutta Italia e in Abruzzo che parlava al telefono con Buzzi ma che non era d’accordo a farlo sapere in giro e così denunciò PrimaDaNoi.it (ma non gli altri giornali che diedero in Italia la notizia). Chissà se poi il documento che certificava che proprio il denunciante era ritenuto un prestanome di quei delinquenti (condannati in primo grado) sarà bastato alla procura per stabilire il valore delle accuse mosse al quotidiano. «Cancellate gli articoli» (di un paio di anni prima) è l’ordine perentorio del figlio di un noto politico, l’erede con qualche problema di giustizia e con le scintille mentre l’avo risulta più esperto di acqua.

L'IMPRENDITORE AMICO DEI POLITICI. Parole cortesi scritte dal legale e inviate per raccomandata anche per tutelare il buon nome dell’imprenditore noto alle cronache giudiziarie e con pendenze di qualche rilievo che accusa, denuncia, diffida, lancia ultimatum perchè abbiamo scritto tutte cose vere ma con violazioni di segreti su indagini vecchie di anni. Indagini che raccontano molto bene i retroscena e gli equilibri fra i potenti imprenditori restii al rischio d’impresa ed i pubblici amministratori. Cancellare tutto, via subito, anche articoli di 30 giorni prima: c’è l’oblio. Nell’elenco dopo ex Mafia Capitale non poteva mancare nemmeno un presunto prestanome della banda della Magliana: «via il mio nome»... e come dirgli di no?

FRATELLI E MARACHELLE. Tra le richieste più simpatiche che ci hanno fatto sorridere (amaramente ma qualche volta sorridiamo anche noi) c’è stata pure la diffida-minaccia dai toni sempre perentori del legale che chiedeva la deindicizzazione di un articolo nel quale si dava conto di una presunta truffa di due fratelli dei quali venivano indicate le sole iniziali. Tra le tante richieste che abbiamo ricevuta questa rimane l’unica a chiedere l’oblio pure delle iniziali. Praticamente il 90% delle richieste tratta vicende tutt’altro che lontane nel tempo o concluse. L’esigenza è quella di cancellare tracce e fatti scomodi. Diritto all’oblio. Il caso PrimaDaNoi.it sul Guardian: humor inglese sulla giustizia italiana. «Articoli che scadono come il latte. Il diritto all’oblio utilizzato per censurare il giornalismo». Diritto all’oblio, Cassazione a parte, la cronaca vince sempre ma l’assedio continua. Il punto sulle decine di ricorsi che pretendono di cancellare articoli anche di poco tempo fa.

L'OMBRA E L'OBLIO. L’oblio serve molto anche ai faccendieri e quei “facilitatori” vicino a molti politici ma sempre nell’ombra o in seconda fila. Perché se poi finisce nelle carte di una grossa indagine lo sputtanamento è nazionale e la carriera di “facilitatore” rischia di essere compromessa con una «semplice ricerca nel web».

L’altro aspetto che caratterizza i nostri tempi e che viene posta come aggravante del nostro lavoro è proprio la «facilità di ricercare le notizie attraverso i motori di ricerche» un punto intollerabile ed inammissibile per molti avvocati i quali ne fanno discendere danni immensi all’immagine dei loro assistiti. Intollerabile, oggi, avere tutte queste informazioni solo digitando parole su Google.

LA BATTUTA DELL'ATTORE. Tra le richieste più “originali” anche quella dell’attore che non voleva più figurare tra suoi colleghi in un apparentemente innocuo articolo: «sto eliminando il mio nominativo da ogni pagina presente sul web, tanti staff di vari siti mi hanno accontentato, sono rimaste poche pagine tra cui la pagina del vostro sito».

Molti, moltissimi siti e quotidiani sono prontissimi ad accogliere istanze nonostante la Corte di Giustizia europea abbia stabilito che le richieste vanno indirizzate a Google e che finora -tranne i giudici che abbiamo incontrato sul nostro cammino- gli articoli di giornale non si cancellano dagli archivi digitali. Centinaia di milioni di link sono già spariti grazie a Google, gli altri cancellati alla fonte dalle diverse testate non si contano ma la verifica non è difficile. Tutti vogliono essere dimenticati, persino quelli che fanno il nostro stesso mestiere e magari è inciampato una volta. Nessuno scrupolo ad interpellare più legali per cancellare articoli di pochi mesi prima.

IL RECORD: 10 ANNI DI RICHIESTE. La palma d’oro ed un premio speciale che prima o poi consegneremo va ad uno storico pezzo grosso della sanità abruzzese che era sempre sui giornali e che ha fatto tanto parlare di sè: tanta gloria e tanti nemici. Ha iniziato a stalkerarci già 10 anni fa ma ancora non conosceva l’oblio e dunque ci ha avvertiti varie volte che ci avrebbe denunciato per diffamazione proponendo una lunga lista di “aggiustamenti” agli articoli. Dopo due anni di “trattative” non ne potevamo più ed abbiamo accolto pochi punti della lista mentre altri avrebbero inficiato la verità dei fatti (troppo comodo…). Tutto a posto: è sparito per un paio di anni e poi è tornato alla carica con le richieste di cancellazione. Da oltre 5 anni ha scomodato vari legali in tutta Italia per intimarci di cancellare articoli che a distanza di anni fanno ormai parte della storia della sanità abruzzese appena prima dei tempi dello scoppio di sanitopoli. Ultima richiesta due mesi fa: la lista conta 7 articoli da cancellare. Un altro suo collega -attivo in Abruzzo anche se dicono gratuitamente- ha chiesto la cancellazione di articoli che raccontavano di una sua vicenda giudiziaria. Ora è pulito.

PEZZI DI STORIA. E già arrivano richieste di cancellazione per i grandi processi abruzzesi ormai di 10 anni fa eppure così attuali ancora oggi. La perdita di memoria sembra essere una ossessione. Il parlamentare molto sportivo al centro di scandali giudiziari e politici almeno la prende bene quando chiede di cancellare forse 50 articoli che parlano di lui. In fondo non si può dire che sentenze e articoli lo abbiano frenato o danneggiato: dopo 20 anni è ancora lì a dimostrazione che cancellare gli articoli non serve a nulla. Ma chiedere di essere cancellati ci sono proprio tutti: procuratori ed ex procuratori insieme a spacciatori, truffatori, si cancellano arresti, sigilli, sentenze, per mafia, camorra, 'ndrangheta non fa differenza se si tratta di fatti importanti per la storia locale...che l'amnesia ci colga tutti e così anche la realtà sarà più lieve. Diritto all’oblio. Gli indagati della Fira vogliono già essere dimenticati. Google deindicizza unilateralmente gli articoli: chi cerca non trova.

CANCELLARE, CANCELLARE TUTTO. Cancellare, cancellare tutti gli articoli che parlano della tratta di prostituzione, droga spaccio e condanne, persino lo spacciatore violento accusato di rissa e già coinvolto in un omicidio di un paio di decenni fa (di cui non c’è nessuna traccia) pretende l’oblio per continuare indisturbato le sue attività pur dimostrando di non essere cambiato di una virgola. L’incipit standard è sempre lo stesso: «notizia falsa» dove per “falso” deve intendersi praticamente sempre quella vera ma datata (anche se di pochi mesi prima), e tutti preferiscono cancellare piuttosto che raccontare tutta la storia. Altri invece si scandalizzano e scrivono indignati perchè hanno scoperto che il giornale ha scritto di loro senza chiedere l’autorizzazione… (vabbè che vuoi che sia…). Cancellare. Poi arriva quello che un paio di anni fa ha patteggiato perchè pizzicato a fare una truffa alla Asl ed il giudice gli dà pure ragione: il colpevole è il giornale che ne ha scritto, il truffatore va tutelato. Cancellato. Se i vigili che strappano migliaia di multe e patteggiano? Chiedono di sparire... altrimenti come si fa? Cancellare. Il traffico di rifiuti pericolosi con condanna? Via, sparire «cose vecchie». Cancellato. 

LE ORDINAZIONI. Poi ci sono pure le richieste con liste di decine di articoli da cancellare solo perchè c’è il loro nome “a prescindere”: come la lista della spesa o come al ristorante quando si ordina…Truffa delle assicurazioni e fideiussioni false in tutta Italia? Ci siamo meritati due ricorsi perchè uno non bastava per stabilire che abbiamo sbagliato a scrivere e a non cancellare articoli che riportavano solo cose vere. Cancellare. Quando le cose stanno così si comprende la sensibilità dei giuristi di professione verso concetti come verità, diritto di sapere, onestà o professionalità nello svolgere un mestiere che per noi (e solo per noi) rimane sacro. Belli i tempi in cui Humphrey Bogart al telefono diceva all’arrogante prepotente di turno «è la stampa bellezza e tu non ci puoi fare niente». Era il potere della verità e dei giornali, cose ormai passate di moda.

Alcune puntualizzazioni sul Diritto di Cronaca, Diritto di Critica, Privacy e Copyright. In seguito al ricevimento di minacce velate o addirittura palesi nascoste dietro disquisizioni giuridiche, al pari loro si palesa quanto segue. I riferimenti ad atti ed a persone ivi citate, non hanno alcuna valenza diffamatoria e sono solo corollario di prova per l'inchiesta. Le persone citate, in forza di norme di legge, non devono sentirsi danneggiate. Ogni minaccia di tutela arbitraria dei propri diritti da parte delle persone citate al fine di porre censura in tutto o in parte del contenuto del presente dossier o vogliano spiegare un velo di omertà sarà inteso come stalking o violenza privata, se non addirittura tentativo di estorsione mafiosa. In tal caso ci si costringe a rivolgerci alle autorità competenti.

Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza.

Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)".

La nuova normativa concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;

può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;

può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;

non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili.

Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa.'''

Da quello che ho capito quello che si teme ancora non è avvenuto. Quindi, mai fasciarsi il capo prima di romperlo. Il credere di essere nei guai ed esserlo, ce ne corre. Quando sarà il momento di difendersi ci vorrà un buon avvocato. Prima nulla si può fare se non attendere gli eventi.

Comunque impara a cavartela da solo, perché quando sei nei guai non c’è nessuno che ti aiuti.

L’Egoismo e la Tirannia non consiste nel vivere come vogliamo noi, ma nel pretendere che gli altri vivano come pare a noi

Pur tuttavia il tempo corre a nostro sfavore.

Se il diritto all’oblio non cancella la storia. Il Garante della Privacy ha bocciato il ricorso di un ex terrorista italiano sulla rimozione da parte di Google dei contenuti sul suo passato, scrive Marta Serafini il 21 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il terrorismo non si cancella. Il Garante della Privacy ha bocciato il ricorso di un ex terrorista italiano sulla rimozione da parte di Google dei contenuti che riguardano il suo passato. Oggetto di discussione, il diritto all’oblio. Risvolto della questione, la lotta tra il diritto alla privacy e il diritto all’informazione. Già nel leggere le prime righe del provvedimento pubblicato ieri nella newsletter del Garante ci si scontra con la complessità del tema. «XY ha finito di scontare la pena nel 2009 per gravi di fatti di cronaca di cui è stato protagonista tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80», recita il testo. Si parla degli Anni di Piombo, di vicende che ci hanno segnato. Il Garante ha deciso di difendere la storia. Eppure non può divulgare il nome del protagonista. Secondo passaggio: XY ha chiesto la rimozione da Google di articoli e di suggerimenti di ricerca che lo associano alla parola terrorista. Ma sia Big G che il Garante gli hanno risposto picche. «Le informazioni di cui si chiede la “deindicizzazione” fanno riferimento a reati particolarmente gravi», recitano le motivazioni. Non importa dunque che dagli Anni di Piombo a oggi sia passato molto tempo. E non importa nemmeno che nel 2013 la Corte di Cassazione abbia dato ragione a un ex Prima linea che faceva una richiesta del tutto simile. Dal maggio 2014 alle richieste «tradizionali» si sono aggiunte quelle che riguardano Internet. Google, adeguandosi a una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, consente l’esercizio del diritto all’oblio anche in Rete. Da allora 33.633 sono le richieste arrivate solo dall’Italia. E se nel 32,2 per cento dei casi Google le ha soddisfatte, in questo ultimo frangente ha deciso di rifiutare, supportato dal Garante. Però non è sempre andata così. Quando si aprì il contenzioso su Renato Vallanzasca, venne fuori che Wikipedia rischiava di dover far sparire centinaia di voci. Allora Jimmy Wales, cofondatore dell’enciclopedia digitale, tuonò: «La storia è un diritto umano. Nascondere la verità è profondamente immorale». Parole che viene difficile non condividere, soprattutto se si parla di terrorismo. Ma che nell’era di Internet hanno implicazioni da non sottovalutare.

DIRITTO ALL’OBLIO. FINE DELLA STORIA!

Per gente indegna. Umanità senza vergogna e con la memoria corta. Nata, ma per i posteri mai vissuta.

Voi umani, dimenticate il passato. Hitler, Stalin ed ogni piccolo e grande criminale innominabile dai giudici avrà la facoltà di essere innominato.

Intervista al dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Cosa c’entra Lei che non è giornalista con il Diritto all’Oblio?

«Io della Cronaca faccio Storia. Ciononostante personalmente sono destinatario degli strali ritorsivi dei magistrati. A loro non piace che si vada oltre la verità giudiziaria. La loro Verità. Oggi però sono intere categorie ad essere colpite: dai giornalisti ai saggisti. Dagli storici ai sociologi. Perché oggi in tema di Diritto all'Oblio e Libertà di espressione, la Cassazione tutela meno del Regolamento Privacy. Una recente sentenza della Cassazione colpisce un giornale (Prima Da Noi) con una interpretazione inedita e pericolosa del diritto all'oblio. Superando le previsioni dei Garanti Privacy e della Corte europea dei Diritti dell'Uomo».

Cosa dice la legge sulla Privacy?

«La nuova normativa, concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca, è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti, o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;

può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;

può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;

non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili».

Cosa prevedeva la Legge e la Giurisprudenza?

«Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta, ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza. Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)"».

Con la novella di cosa si sta parlano?

«La sentenza 13161/16 del 24 giugno 2016 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) entrerà nella storia perché cancella la Storia. La Suprema Corte ha infatti allargato di parecchio la sfera del diritto all’oblio (right to be forgotten) secondo cui si può far valere il diritto ad essere dimenticati, ovvero a fare in modo che il nostro passato non ritorni a galla con una ricerca online anche dopo anni. La Cassazione, ha stabilito che “un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perché pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria”. Vicenda che, ai tempi della richiesta di rimozione dell’articolo, non si era ancora conclusa in giudizio. Spiega Vincenzo Tiani: “La Cassazione richiama la celebre sentenza Google Spain (C-131/12) che ha sancito per prima l’esistenza di un diritto ad essere dimenticati, e le linee guida dell’Art. 29 Data Protection Working Party (WP29) redatte dopo la sentenza (novembre 2014). Peccato che ciò che la Corte di Giustizia Europea (CJEU) ha sancito in quell’occasione è che ogni soggetto ha diritto sì alla de-indicizzazione dai motori di ricerca delle notizie che lo riguardano, qualora lesive della sua dignità, denigratorie, non più rilevanti per l’opinione pubblica, ma mai ha stabilito che tali informazioni dovessero essere rimosse dagli archivi dei giornali, soprattutto laddove tale pubblicazione fosse legale, come nel caso in specie. Ci si riferisce sempre alla lista di risultati che fornisce il motore di ricerca e mai alla notizia di per sé. Se poi andiamo a leggere le linee guida di WP29, al paragrafo 18 questo indirizzo viene confermato. Si dice infatti che la de-indicizzazione non riguarda i motori di ricerca di piccola portata come quelli dei giornali online. Ergo non vi è un obbligo per la testata non solo di rimuovere l’articolo ma neanche di de-indicizzarlo dal proprio motore di ricerca, cosa che avrebbe lo stesso effetto di rimuoverlo visto che lo renderebbe di fatto introvabile.”»

Cosa dice la sentenza Google Spain?

«La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea C-131/12 (Google Spain case, nda), del 13 maggio 2014, ha disposto che i singoli individui possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere specifici risultati che appaiono effettuando una ricerca con il proprio nome, qualora tali risultati siano relativi all’interessato e risultino obsoleti. Un risultato può essere considerato obsoleto quando la tutela dei dati personali dell’interessato prevale rispetto all’interesse pubblico alla conoscenza della notizia cui tale risultato rimanda. E su questo che si deve ragionare. I risultati della ricerca devono essere vagliati per verificare quale dei due diritti fondamentali, quello alla privacy e quello di cronaca, debba prevalere. Ciononostante con la nuova GDPR (General Data Protection Regulation, Reg. 2016/679), che entrerà in vigore nel 2018 sostituendo la ormai obsoleta direttiva 95/46/EC, il Diritto alla Cancellazione (o diritto all’Oblio) è stato introdotto dall’Art. 17. Secondo la nuova norma, qualora sussistano alcuni dei motivi previsti successivamente, l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali […] Tuttavia, al comma 3, si prevedono talune eccezioni. Chi detiene e fa uso dei dati dell’interessato (il titolare del trattamento, il giornale in questo caso) non dovrà dare seguito alla richiesta di cancellazione qualora tale uso sia stato lecitamente fatto:

a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione; 

d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento».

Quali sono stati gli effetti?

«Google rende noti i dati relativi al diritto all'oblio fino al 2015 introdotto da una sentenza della corte di Giustizia Ue nel maggio 2014, che garantisce il diritto dei cittadini europei a veder cancellati sui motori di ricerca i link a notizie personali "inadeguate o non più pertinenti". I link rimossi sono 580mila».

Allora sembra essere tutto risolto!

«Per nulla! Siamo in Italia e per gli ermellini nostrani l’interesse pubblico cessa dopo due anni. Spiega Vincenzo Tiani: “Quello che la Cassazione ha pensato invece è che, scaduti 2 anni e 6 mesi, tale eccezione venga meno. Non solo questa interpretazione mette a repentaglio il diritto alla libera informazione, lasciando spazio a una censura della stampa approvata dalla Corte stessa, ma viola il diritto di difesa (artt. 24 e 25 Cost.) poiché si basa su una legge non scritta e su una interpretazione totalmente libera e priva di solide basi che la possano rendere condivisibile. Il termine di 2 anni e 6 mesi è totalmente arbitrario oltre che ingiustificato. Forse che la stampa sia destinata, in un prossimo futuro, a sopravvivere giusto il tempo di un like su facebook?”»

Cosa ha detto la vittima azzannata degli ermellini?

«"Confesso che ci abbiamo messo più di un giorno per comprendere che si trattava di una sentenza reale ed ufficiale del massimo organo giudiziario – scrive il direttore Alessandro Biancardi il 30 Giugno 2016 su “Prima Da Noi”. La cosa ci ha colpito ulteriormente perchè dopo le pessime esperienze nel piccolo tribunale di provincia riponevamo una certa fiducia nella inappellabile Cassazione. Ci siamo sbagliati ma almeno ora sappiamo di che morte dovremo morire noi, la libertà di stampa e soprattutto la libertà di informarsi. Non spenderemo più parole per esprimere il nostro sdegno ed il nostro disgusto per aver raccolto solo umiliazioni in una guerra che abbiamo deciso di combattere da soli contro tutti per la libertà e la dignità di un Paese quando nessuno sapeva cosa fosse il diritto all’oblio, una invenzione che nella nostra esperienza permette a lobby e pregiudicati di tornare nell’ombra indisturbati. Siamo di fronte ad una situazione più che assurda generata dal giudice dei giudici che condanna un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere ma che ha provocato un danno violando una norma che non esiste e che stabilisce la scadenza di un articolo. Assurdo perchè siamo stati condannati una prima volta perchè non avevamo cancellato l’articolo e pure una seconda volta pur avendolo cancellato ma non abbastanza in fretta. Assurdo perchè gli ermellini dicono in sostanza che i due che si sono accoltellati nel loro ristorante hanno avuto un danno all’immagine (loro e del ristorante) non dalla violenza del gesto di cui si spera siano responsabili ma dal suo racconto rimasto fruibile sul web. Assurdo perchè si stabilisce che in venti anni il Garante della Privacy non ci ha capito niente. La domanda però è: ora ci dite come avremmo dovuto e potuto fare per non incorrere in questa violazione? Dove avremmo dovuto leggere la data di scadenza dell’articolo? Sul retro, sul tappo, sul codice civile, penale, deontologico? A proposito ma un giornalista che cancella articoli siamo sicuri che rispetta le leggi della categoria (l’autocensura è condannata, la post censura no)? Ma sappiamo bene il perchè dopo sei anni siamo i primi ad essere stati condannati per questo: perché la maggior parte dei siti preferisce cancellare per non ‘avere problemi’ nonostante non ci sia una legge che impone il dovere di farlo. Dal canto nostro non riusciremo a far fronte alla mole di danni che abbiamo provocato con 800mila articoli in archivio esercitando correttamente il nostro lavoro di onesti giornalisti e per questo molto difficilmente il quotidiano potrà sopravvivere, schiacciato da superficialità, poteri forti e sentenze impossibili da immaginare in un Paese davvero serio. Ma noi siamo l’ultimo dei problemi, cercheremo giustizia fuori dall'Italia e con il tempo anche la gente capirà, ci volessero anche 20 anni ma alla fine capirà…".»

Ed allora, quali gli effetti sul suo operato?

«Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi internazionali vigenti sul copyright. Le norme internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore di oltre un centinaio di libri con centinaia di pagine che raccontano l'Italia per argomento e per territorio. A tal fine posso assemblare le notizie afferenti lo stesso tema per fare storia o per fare una rassegna stampa. Questo da oggi lo potrò fare nel resto del mondo, ma non in Italia: la patria dell'Omertà. Perchè se non c’è cronaca, non c’è storia. Ed i posteri, che non hanno seguito la notizia sfuggente, saranno ignari di cosa sono stati capaci di fare di ignobile ed atroce i loro antenati senza vergogna».

Diritto all'oblio e libertà, la Cassazione tutela meno del Regolamento Privacy. Una recente sentenza della Cassazione colpisce un giornale con una interpretazione inedita e pericolosa del diritto all'oblio. Superando le previsioni dei Garanti Privacy e della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, scrive Vincenzo Tiani, Law & Digital Communication l'1 luglio 2016. La sentenza 13161/16 del 24 giugno 2016 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) entrerà nella storia, suo e nostro malgrado. La Suprema Corte ha infatti allargato di parecchio le maglie del diritto all’oblio (right to be forgotten) secondo cui si può far valere il diritto ad essere dimenticati, ovvero a fare in modo che il nostro passato non ritorni a galla con una ricerca online anche dopo anni. Il caso. La Cassazione, come riportato dalle parole del convenuto Giornale Online PrimaDaNoi.it, ha stabilito che “un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perché pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria”. Vicenda che, ai tempi della richiesta di rimozione dell’articolo, non si era ancora conclusa in giudizio. La sentenza ricalca l’analoga n. 3/2013 del Tribunale di Ortona. In quel precedente caso, due coniugi erano stati arrestati e poi giudicati innocenti. Il giornale aveva riportato legittimamente la vicenda e, dopo il decreto d’archiviazione per i coniugi, aveva proceduto ad aggiornare l’articolo. Nonostante questo, i coniugi ritenevano lesa la propria immagine in quanto da una ricerca su Google comparivano gli articoli del giornale con la notizia del loro arresto, ma anche quelli della loro innocenza. Anche dopo il parere del Garante della Privacy, favorevole per PrimaDaNoi.it, il giudice ha comunque ritenuto il diritto alla privacy dei coniugi predominante, una volta esaurita la prima necessità di dare la notizia. Anche in quel caso, un diritto di cronaca collegato ad un timer. Ma se ai tempi di quella sentenza il tema del diritto all’oblio era sorto da poco, in seguito al caso Google Spain ancora in corso, in quest’ultima occasione c’erano tutti gli elementi per discostarsi da quella prima sentenza, stando anche il fatto che la materia è delicatissima e in Italia non vige un sistema giuridico dove il precedente è vincolante. Da ultimo, fattore importante anche per la sola richiesta a Google per la de-indicizzazione dal motore di ricerca, in questo caso il processo era ancora in corso e non c’era stata archiviazione come nel precedente. Quali i diritti in gioco. I diritti che ogni giudice in questi casi è chiamato a bilanciare sono due diritti di pari rango come il diritto di cronaca e quello alla privacy. Due diritti riconosciuti anche dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (ECHR). Ciò che stupisce è come gli Ermellini non abbiano tenuto conto della Giurisprudenza, se non italiana almeno europea, che mai in passato ha chiesto la rimozione dei contenuti dall’archivio del giornale, ben sapendo come ciò avrebbe indebolito fortemente la libertà di stampa, fondamentale in una società democratica. Tale scelta della Corte Europea è stata confermata anche in quei casi, come quelli di diffamazione a mezzo stampa, in cui i fatti raccontati nell’articolo erano stati poi smentiti, pur se l’autore aveva sufficienti ragioni e fonti per procedere alla pubblicazione. Perché non appare condivisibile il principio usato dalla Cassazione. La Cassazione richiama la celebre sentenza Google Spain (C-131/12) che ha sancito per prima l’esistenza di un diritto ad essere dimenticati, e le linee guida dell’Art. 29 Data Protection Working Party (WP29) redatte dopo la sentenza (novembre 2014). Peccato che ciò che la Corte di Giustizia Europea (CJEU) ha sancito in quell’occasione è che ogni soggetto ha diritto sì alla de-indicizzazione dai motori di ricerca delle notizie che lo riguardano, qualora lesive della sua dignità, denigratorie, non più rilevanti per l’opinione pubblica, ma mai ha stabilito che tali informazioni dovessero essere rimosse dagli archivi dei giornali, soprattutto laddove tale pubblicazione fosse legale, come nel caso in specie. Ci si riferisce sempre alla lista di risultati che fornisce il motore di ricerca e mai alla notizia di per sé. Se poi andiamo a leggere le linee guida di WP29, al paragrafo 18 questo indirizzo viene confermato. Si dice infatti che la de-indicizzazione non riguarda i motori di ricerca di piccola portata come quelli dei giornali online. Ergo non vi è un obbligo per la testata non solo di rimuovere l’articolo ma neanche di de-indicizzarlo dal proprio motore di ricerca, cosa che avrebbe lo stesso effetto di rimuoverlo visto che lo renderebbe di fatto introvabile. Il diritto all’oblio e Google. Come dicevamo, di diritto all’oblio si è parlato molto negli ultimi 2 anni, da quando la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea C-131/12 (Google Spain case, nda), del 13 maggio 2014, ha disposto che i singoli individui possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere specifici risultati che appaiono effettuando una ricerca con il proprio nome, qualora tali risultati siano relativi all’interessato e risultino obsoleti. Un risultato può essere considerato obsoleto quando la tutela dei dati personali dell’interessato prevale rispetto all’interesse pubblico alla conoscenza della notizia cui tale risultato rimanda. Così Google, nella pagina dedicata alle richieste spiega come queste saranno vagliate per verificare quale dei due diritti fondamentali, quello alla privacy e quello di cronaca, debba prevalere. Questo è quanto avrebbe dovuto fare la parte attrice invece di chiedere al giornale e al giudice la rimozione dell’articolo al giornale. Sarebbe bastata una richiesta gratuita a Google. In caso di risposta negativa si sarebbe potuta rivolgere al Garante della Privacy. E invece, nulla di tutto questo. La conferma nelle eccezioni del nuovo Regolamento Europeo. Con la nuova GDPR (General Data Protection Regulation, Reg. 2016/679), che entrerà in vigore nel 2018 sostituendo la ormai obsoleta direttiva 95/46/EC, il Diritto alla Cancellazione (o diritto all’Oblio) è stato introdotto dall’Art. 17. Secondo la nuova norma, qualora sussistano alcuni dei motivi previsti successivamente, l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali […] Tuttavia, al comma 3, si prevedono talune eccezioni. Chi detiene e fa uso dei dati dell’interessato (il titolare del trattamento, il giornale in questo caso) non dovrà dare seguito alla richiesta di cancellazione qualora tale uso sia stato lecitamente fatto:

a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione; 

d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento;

La lesione del diritto di difesa. Quello che la Cassazione ha pensato invece è che, scaduti 2 anni e 6 mesi, tale eccezione venga meno. Non solo questa interpretazione mette a repentaglio il diritto alla libera informazione, lasciando spazio a una censura della stampa approvata dalla Corte stessa, ma viola il diritto di difesa (artt. 24 e 25 Cost.) poiché si basa su una legge non scritta e su una interpretazione totalmente libera e priva di solide basi che la possano rendere condivisibile. Il termine di 2 anni e 6 mesi è totalmente arbitrario oltre che ingiustificato. Forse che la stampa sia destinata, in un prossimo futuro, a sopravvivere giusto il tempo di un like su facebook? Ci auguriamo di no e che PrimaDaNoi.it faccia ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per ottenere un ribaltamento della sentenza e ristabilire l’importanza del diritto di cronaca.

Diritto all’oblio. La Cassazione conferma: «cancellare sempre articoli anche se attuali». Le testate on line che rendono fruibile l’archivio violano la legge sulla privacy. L’interesse pubblico? Per un articolo finisce dopo due anni, scrive Alessandro Biancardi il 30 Giugno 2016 “Prima Da Noi”. Il giornale on line che ha in archivio articoli viola la legge sulla privacy perchè detiene dati sensibili senza il consenso dell’interessato. Alla fine è arrivata la sentenza della Cassazione che conferma la seconda sentenza del tribunale di Ortona del gennaio 2013 che per la seconda volta in Italia sanciva l’esistenza del diritto all’oblio applicandolo alla cancellazione integrale e totale degli articoli anche dagli archivi dei siti on line. La sentenza si rifaceva integralmente ad una precedente emessa nel 2011 sempre dal tribunale di Ortona che può essere considerata la prima in assoluto in Italia di quel genere. Entrambe le sentenze hanno visto soccombere PrimaDaNoi.it mentre da allora il dibattito su questo controverso diritto è montato fino ad invadere l’Europa e poi gli Stati Uniti. La stessa Cassazione più volte si è espressa in maniera non sempre univoca decidendo caso per caso ma mai si era arrivato ad una decisione tanto drastica. Ancora una volta questo quotidiano è il soggetto soccombente di una sentenza che entrerà nella storia e che apre uno squarcio inimmaginabile sulla fruizione delle notizie e dell’informazione sul web, che taglia di netto la libertà dei giornalisti, limita incredibilmente il diritto di cronaca ma soprattutto dà una mazzata al diritto ad essere informati dei cittadini e a ricercare informazioni.

CHE COSA DICE LA SENTENZA?

La sentenza della Cassazione 13161/16 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) conferma di fatto la sentenza 3/2013 del tribunale di Ortona che aveva stabilito che un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perchè pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria. A nulla era valsa l’eccezione relativa al diritto di cronaca per cui un fatto se è vero non può produrre un danno nè al fatto che la notizia di due anni prima era ancora attuale perchè il processo relativo non era nemmeno iniziato. In quell’occasione scattò una sanzione di 10mila euro e la parte già in primo grado azionò il pignoramento dell’unico mezzo di trasporto del direttore Alessandro Biancardi. Il fatto di cronaca era accaduto nel 2008 ma già il 6 settembre 2010 i titolari del ristorante chiedevano al giornale la cancellazione dell’articolo perchè ledeva l’immagine della loro attività commerciale. Cancellazione rifiutata. Nel frattempo il tribunale di Ortona emette la prima sentenza sull’oblio e ci condanna per un articolo non cancellato ed ancora presente nell’archivio. Il fatto ci induce a cancellare anche l’articolo oggetto del secondo contenzioso ancora in corso a scopo transattivo e per limitare i danni paventati. Il giudice di fatto non ne tiene conto e calcola comunque che il danno è stato procurato dalla data di pubblicazione (2008) a quella di cancellazione (2011) perchè il trattamento dei dati si era protratto oltre lo scopo necessario anche se con finalità giornalistiche. PrimaDaNoi.it, difesa dall’avvocato Massimo Franceschelli, ha proposto ricorso in Cassazione invocando la falsa applicazione della legge sulla privacy e chiedendo la nullità della sentenza perchè i dati sono stati trattati unicamente per finalità giornalistiche e per questo non c’è bisogno di alcuna autorizzazione. Inoltre il fatto del 2008 non poteva beneficiare dell’oblio perchè l’ultima udienza del processo penale sull’accoltellamento si è tenuta il mese scorso (maggio 2016). Si legge nella sentenza della Cassazione: «l’illecito trattamento dei dati personali è stato dal tribunale specificatamente ravvisato non già nel contenuto e nelle originarie modalità di pubblicazione e diffusione on line dell’articolo di cronaca sul fatto accaduto nel 2008 nè nella conservazione e archiviazione informatica di esso ma nel mantenimento del diretto ed agevole accesso a quel risalente servizio giornalistico del 29 marzo 2008 e della sua diffusione sul web quanto meno a fare tempo dal ricevimento della diffida in data 6 settembre 2010 per la rimozione di questa pubblicazione dalla rete (spontaneamente attuata solo nel corso del giudizio)». Dunque sarebbe corretto pubblicare e mantenere in archivio ma solo per un determinato periodo che nessuna legge prevede e che questa sentenza stabilisce “congruo” in due anni e mezzo. Trascorso questo tempo l’articolo non solo dovrebbe essere deindicizzato (sempre a carico della testata on line a differenza di quanto stabilito dalla Corte di giustizia Europea nel 2014) ma sparire dal web completamente. «La facile accessibilità e consultabilità dell’articolo giornalistico, superiore a quelle dei quotidiani cartacei, tenuto conto dell’ampia diffusione locale del giornale online consentiva di ritenere che dalla data di pubblicazione fino a quella della diffida stragiudiziale fosse trascorso sufficiente tempo perchè le notizie divulgate potessero avere soddisfatto gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistico». «Il persistere del trattamento dei dati personali aveva determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione e ciò in relazione alla peculiarità dell’operazione di trattamento, caratterizzata da sistematicità e capillarità della divulgazione dei dati trattati ed alla natura degli stessi, particolarmente sensibili attenendo a vicenda giudiziaria penale». «La Corte di Cassazione», ha puntualizzato l’avvocato Massimo Franceschelli, «ha deciso in senso contrario rispetto al procuratore generale il quale aveva chiesto l’accoglimento del nostro ricorso giudicandolo fondato e spiegando che non potesse applicarsi il diritto all’oblio perchè il processo penale era ancora in corso». In conclusione la Cassazione stabilisce che:

1) Dopo la pubblicazione dell’articolo l’interesse pubblico alla lettura di quella notizia viene meno (qui si dice che bastano due anni e mezzo).

2) Alla richiesta di cancellazione si doveva ottemperare subito perchè trascorso il tempo.

3) Il diritto di cronaca vale all’istante ma non si possono trattare dati sensibili e renderli fruibili al pubblico per sempre perchè dopo un pò prevale la privacy (per mantenerli ci vuole il consenso).

4) Si cancellano anche articoli recenti ed attuali.

Un articolo corretto produce un danno risarcibile per il solo fatto di essere fruibile

IL GOLPE OLTRE IL BAVAGLIO

Confesso che ci abbiamo messo più di un giorno per comprendere che si trattava di una sentenza reale ed ufficiale del massimo organo giudiziario. La cosa ci ha colpito ulteriormente perchè dopo le pessime esperienze nel piccolo tribunale di provincia riponevamo una certa fiducia nella inappellabile Cassazione. Ci siamo sbagliati ma almeno ora sappiamo di che morte dovremo morire noi, la libertà di stampa e soprattutto la libertà di informarsi. Non spenderemo più parole per esprimere il nostro sdegno ed il nostro disgusto per aver raccolto solo umiliazioni in una guerra che abbiamo deciso di combattere da soli contro tutti per la libertà e la dignità di un Paese quando nessuno sapeva cosa fosse il diritto all’oblio, una invenzione che nella nostra esperienza permette a lobby e pregiudicati di tornare nell’ombra indisturbati.

Siamo di fronte ad una situazione più che assurda generata dal giudice dei giudici che condanna un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere ma che ha provocato un danno violando una norma che non esiste e che stabilisce la scadenza di un articolo. Assurdo perchè siamo stati condannati una prima volta perchè non avevamo cancellato l’articolo e pure una seconda volta pur avendolo cancellato ma non abbastanza in fretta. Assurdo perchè gli ermellini dicono in sostanza che i due che si sono accoltellati nel loro ristorante hanno avuto un danno all’immagine (loro e del ristorante) non dalla violenza del gesto di cui si spera siano responsabili ma dal suo racconto rimasto fruibile sul web. Assurdo perchè si stabilisce che in venti anni il Garante della Privacy non ci ha capito niente. La domanda però è: ora ci dite come avremmo dovuto e potuto fare per non incorrere in questa violazione? Dove avremmo dovuto leggere la data di scadenza dell’articolo? Sul retro, sul tappo, sul codice civile, penale, deontologico? A proposito ma un giornalista che cancella articoli siamo sicuri che rispetta le leggi della categoria (l’autocensura è condannata, la post censura no)? Ma sappiamo bene il perchè dopo sei anni siamo i primi ad essere stati condannati per questo: perché la maggior parte dei siti preferisce cancellare per non avere problemi nonostante non ci sia una legge che impone il dovere di farlo. Dal canto nostro non riusciremo a far fronte alla mole di danni che abbiamo provocato con 800mila articoli in archivio esercitando correttamente il nostro lavoro di onesti giornalisti e per questo molto difficilmente il quotidiano potrà sopravvivere, schiacciato da superficialità, poteri forti e sentenze impossibili da immaginare in un Paese davvero serio. Ma noi siamo l’ultimo dei problemi, cercheremo giustizia fuori dall'Italia e con il tempo anche la gente capirà, ci volessero anche 20 anni ma alla fine capirà…. Una cosa la voglio dire chiara e forte: siamo fieri di quello che abbiamo fatto e ci stupiamo ancora oggi, dopo anni di sofferenze e umiliazioni, di come sia ancora forte il nostro senso per la libertà e la legalità. Che non cambia. Siamo fieri di combattere alla stregua dei partigiani di un tempo contro uno strapotere subculturale fascista e totalitario che avvantaggia dittature di ogni tipo e umilia il cittadino qualunque e lo svuota dei diritti fondamentali. Oggi anche il diritto alla conoscenza. Siamo fieri di essere migliori di tantissime persone che rappresentano le istituzioni e che avrebbero l’obbligo di far prosperare questo Paese, far rispettare le leggi, spiegare cosa sia la legalità e la libertà e colpire chi delinque. Tutti dovrebbero avere immenso rispetto per la Costituzione italiana, l’ultimo baluardo per le nostre libertà e diritti, e sulla attività giornalistica è chiara: «La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Questa sentenza invece dice che dopo un pò bisogna essere autorizzati per trattare i dati sensibili e di fatto con la deindicizzazione e la cancellazione degli articoli dal web si applica una censura. Postuma ma sempre censura è. Alessandro Biancardi 

DIRITTO ALL'OBLIO, MA NON PER TUTTI.

Cassazione: "Vittorio Emanuele non ha diritto all'oblìo per morte Hamer". E Repubblica non lo diffamò. In un articolo del 13 ottobre 2007, Maurizio Crosetti scrisse, riferendosi al "principe": "Quello che usò con disinvoltura il fucile all'isola di Cavallo, uccidendo un uomo". Per la Suprema Corte, "se la conclusione della vicenda giudiziaria non consentì alle autorità francesi di muovere contestazioni ad altro titolo, non per questo risulta illegittimo, e quindi diffamatorio, ogni collegamento" del Savoia con "l'incidente", scrive il 3 agosto 2017 "La Repubblica". Per la Corte di Cassazione, Vittorio Emanuele di Savoia "non è esente da responsabilità" per la morte del giovane tedesco Dirk Hamer. Il fatto che i giudici francesi lo abbiano assolto dall'accusa di omicidio volontario "non significa" che il 'principe' "sia esente da responsabilità sotto ogni altro profilo, giacchè assume pur sempre rilievo" "civilistico ed anche etico" che quella morte "avvenne nel corso di una sparatoria a cui partecipò Savoia, al di fuori di ogni ipotesi di legittima difesa". La Cassazione, inoltre, ricorda che Savoia intercettato "rese una confessione" sulla vicenda. Di conseguenza, la stessa Cassazione conferma l'assoluzione "dell'ex direttore di Repubblica Ezio Mauro e di un giornalista" dall'accusa di diffamazione. Il giornalista era Maurizio Crosetti, che in un articolo pubblicato il 13 ottobre del 2007 dal titolo Inchini, auguri e ospiti illustri a Venaria la rivincita dei Savoia, riferendosi a Vittorio Emanuele e per chiarire al lettore di chi stesse scrivendo usò, tra parentesi, questa frase: "Quello che usò con disinvoltura il fucile all'isola di Cavallo, uccidendo un uomo". L'uomo era Dirk Hamer, che la notte del 18 agosto del 1978 ebbe la sfortuna di essere il vicino di barca di Vittorio Emanuele all'isola di Cavallo, in Corsica. Il giovane tedesco dormiva nel suo scafo quando fu raggiunto alla gamba destra da un proiettile esploso dal "principe" con una carabina, sparatoria scaturita dal furto di un gommone. Hamer morì il dicembre successivo, dopo una lunghissima agonia. Aveva 19 anni. "Pertanto - scrive la Cassazione - se la conclusione, nel 1991, della vicenda giudiziaria, iniziata con l'accusa di omicidio volontario, non consentì alle autorità francesi di muovere contestazioni ad altro titolo (non è dato sapere se per il principio del ne bis in idem - ovvero per il principio che un giudice non può esprimersi due volte per lo stesso reato - o per lo spirare dei termini prescrizionali, oppure per l'irrilevanza penale della condotta), non per questo risulta illegittimo, e quindi diffamatorio, ogni collegamento" del Savoia con 'l'incidente' dell'isola di Cavallo dato che "questo collegamento è pacifico nella sua materialità". Dunque, è espressione di opinione critica "certamente legittima" l'articolo del 13 ottobre 2007 "ove si era voluto rimarcare che la partecipazione di Savoia alle celebrazioni per la riapertura della reggia di Venaria era, stanti i trascorsi del personaggio, quantomeno inopportuna". Per la Cassazione, dunque, Vittorio Emanuele di Savoia non ha diritto all'oblìo. Perché, scrive la Corte, il diritto all'oblio "si deve confrontare col diritto della collettività a essere informata e aggiornata sui fatti da cui dipende la formazione dei propri convincimenti, anche quando ne derivi discredito alla persona titolare di quel diritto, sicchè non può dolersi Savoia della riesumazione di un fatto certamente idoneo alla formazione della pubblica opinione". Tanto più, rincara la Cassazione, che Vittorio Emanuele "è figlio dell'ultimo re d'Italia e, secondo il suo dire, erede al trono".

L'ITALIA DELL'ACCOGLIENZA.

Quando la Boldrini diceva: "Aiutare gli italiani? Mai cosa più sbagliata". Dopo i fatti di Nizza e l'aumento della povertà, virale sul web il video in cui la presidente della Camera affermava che è "sbagliato" pensare prima agli italiani, scrive Giuseppe De Lorenzo, lunedì 18/07/2016, su "Il Giornale". Dopo i fatti di Nizza, dopo il terrorismo, dopo le difficoltà economiche e i dati Istat che certificano l'aumento dei poveri nel Belpaese, gli italiani non ne possono più. Sono stanchi, evidentemente, di sentirsi dire che bisogna prima pensare agli altri, prima ai migranti, prima ai profughi. Avrebbero piacere, gli italiani, che i politici nostrani almeno un volta mettessero in cima alla lista chi paga le tasse, chi si prende la briga di andare a votare, chi è disoccupato, chi in difficoltà e via dicendo. Anche per questo è tornato virale sul web un video simbolo del tradimento del Palazzo nei confronti dei cittadini. La protagonista delle immagini è Laura Boldrini, quando nel giugno 2016 andò in visita ufficiale in Marocco. In quell'occasione, la presidente della Camera disse senza mezzi termini che il principale problema del mondo non è il terrorismo, ma "i populismi e i movimenti che vogliono costruire i muri". Pericoli che ovviamente l'Italia ha "in casa", un rischio "da cui dobbiamo guardarci" (leggi destra e Lega Nord). Poi attaccò con veemenza chi vorrebbe aiutare gli italiani: "Mai ricetta più sbagliata - pontificava la Boldrini - di quella di chi dice che bisogna prima pensare ai nostri concittadini".  "Pensare gli italiani? Mai cosa più sbagliata". Ovvio. Che sciocco anche solo farsi passare per l'anticamera del cervello che la politica italiana debba risolvere i problemi degli italiani. Che assurdità. Che stupidaggine. Per la Boldrini bisogna dare spazio "a chi ci abita vicino, al Mediterraneo". Senza dimenticare la necessità di preparare un piano Marshall per i Paesi africani che si affacciano sul mare nostrum. Alla faccia di chi ha la carta d'identità della Repubblica italiana e s'ostina a chiedere aiuto ai propri governanti. Un video umiliante, un pugno nello stomaco. Su WhatsApp gira un filmato che irride la presidente della Camera Laura Boldrini. Un suo discorso sull’integrazione di profughi e migranti viene accostato alle disgustose immagini di un immigrato che si lava il sedere a una fontanella in pieno centro a Roma, alla luce del giorno. Il messaggio è chiaro: ecco il “Paese reale”, e non è quello dei buoni sentimenti ma del degrado quotidiano.

"Tornate a casa vostra". Quando la sinistra sputava sui profughi istriani. Il Pci non conobbe la parola "accoglienza". Per gli italiani di Pola e Fiume solo odio. L'Unità scriveva: "Non meritano la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci il pane", scrive Giuseppe De Lorenzo, giovedì 10/09/2015, su "Il Giornale". "Poi una mattina, mentre attraversavamo piazza Venezia per andare a mangiare alla mensa dei poveri, ci trovammo circondati da qualche centinaio di persone che manifestavano. Da un lato della strada un gruppo gridava: 'Fuori i fascisti da Trieste', 'Viva il comunismo e la libertà' sventolando bandiere rosse e innalzando striscioni che osannavano Stalin, Tito e Togliatti". Stefano Zecchi, nel suo romanzo sugli esuli istriani (Quando ci batteva forte il cuore), racconta così il benvenuto del Pci agli italiani che abbandonarono la Jugoslavia per trovare ostilità in Italia. Quella che fino a pochi attimi prima era la loro Patria. Quando alla fine della seconda guerra mondiale, il 10 febbraio 1947, l'Italia firmò il trattato di pace che consegnava le terre dell'Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia di Tito, la sinistra non conobbe la parola accoglienza. Tutt'altro. Si scaglio con rabbia e ferocia contro quei "clandestini" che avevano osato lasciare il paradiso comunista. Trecentocinquantamila profughi istriani e dalmati. Trecentocinquantamila italiani che la sinistra ha trattato come invasori, come traditori. Ad attenderli nei porti di Bari e Venezia c'erano sì i comunisti, ma per dedicargli insulti, fischi e sputi. A Bologna invece per evitare che il treno con gli esuli si fermasse, i ferrovieri minacciarono uno sciopero. E poi rovesciarono il latte raccolto per le donne e i bambini affamati. Ecco. Bisogna dire che Giorgio Napolitano ha ragione: il Pd è l'erede del Pci. Ma oggi la sinistra italiana, che di quella storia è figlia legittima, dimentica gli orrori del febbraio del '47. Ora si cosparge il capo di cenere e chiede a gran voce che l'Italia apra le porte a tutti i migranti del mondo. Predica l'accoglienza verso lo straniero che considera un fratello, quando per anni ha considerato stranieri i suoi fratelli. Ma gli unici profughi che la sinistra italiana ha rigettato con violenza erano italiani. Istriani e Dalmati. "Sono comunisti. Gridano 'fascisti' a quella povera gente che scende dalla motonave (...). Urlano di ritornare da dove sono venuti", ricorda Zecchi. Non sono le parole di Matteo Salvini. "Tornate da dove siete venuti" era lo slogan del Partito Comunista di Napolitano, Violante, D'Alema, Berlinguer e Veltroni. L'Unità, nell'edizione del 30 novembre 1946, scriveva: "Ancora si parla di 'profughi': altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi". Oggi invocano l'asilo per tutti. Si commuovono alla foto del bambino riverso sulla spiaggia. Lo pubblicano in prima pagina. Dedicano attenzione sempre e solo a chi viene da lontano. Agli italiani, invece, a coloro che lasciarono Pola, Fiume e le loro case per rimanere italiani, la sinistra riservò solo odio. Lo stesso che gli permise di nascondere gli orrori delle Foibe. "Non dovevamo dimenticare che eravamo clandestini, anche se eravamo italiani in Italia".

"Gli istriani difendevano la patria. I migranti invece sono codardi". Roberto Spazzali, direttore dell'Istituto regionale per la storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia di Trieste, invita a non confondere i profughi di oggi con quelli di allora, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 3/02/2016, su "Il Giornale".  Tra i profughi istriano-dalmati e quelli di oggi non ci sono somiglianze. Chi prova ad avvicinarli, chi invita gli italiani ad essere accoglienti nel ricordo di quelle drammatiche pagine di storia, fa un errore. Gli italiani dell'Istria e della Dalmazia furono costretti a lasciare la loro terra e a fuggire in Italia, mal accettati - anzi, osteggiati - da quella sinistra che oggi si professa madre dell'accoglienza. Ma avrebbero voluto difendere la loro patria. A chiarire la posizione degli esuli istriani, fiumani e dalmati è Roberto Spazzali, direttore dell'Istituto regionale per la storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia di Trieste. Durante un incontro in preparazione della Giornata del ricordo, che si svolgerà il prossimo 10 febbraio a Bondeno, non ha usato mezzi termini. "Nel mare di gente che oggi arriva nel nostro Paese - ha detto - c'è un numero cospicuo di giovanotti che, mi pare, accettino di andarsene dalla propria terra al primo bau. Mi chiedo il perché di questa inerzia. Perché non organizzare una difesa sul territorio da parte di soggetti autoctoni? Chi se ne va nelle condizioni di oggi che tipo di rapporto ha con la terra? Gli esuli istriani, fiumani e dalmati furono costretti ad andare via perché non erano stati messi nelle condizioni di difendere la loro terra, anche perché il Partito Comunista di allora, in Italia, guardava ai comunisti jugoslavi con riguardo. Ricordo che la storia d'Europa è una storia di orrori, ma in passato l'Europa ha saputo difendersi. E da questa difesa ne sono nati i grandi movimenti di Resistenza". Sui temi dell'accoglienza è intervenuto anche Rabar, i cui genitori furono esuli da Fiume nel gennaio 1947. "I campi furono 109 da Bolzano a Siracusa - ricorda - Anche a Ferrara ce ne fu uno, in via Romei, dove oggi ha sede l'istituto alberghiero". La vita nei campi era difficile, i tempi erano contingentati ("sveglia alle 7, alle 7,30 colazione, alle 23 silenzio"), la polizia vigilava, e al terzo ammonimento si poteva essere espulsi. "Tutti gli ospiti erano tenuti a provvedere alla vita stessa del campo - aggiunge - Con la mia famiglia fummo poi spostati a Pontelagoscuro, in baracche di legno, senza acqua corrente, con latrine come servizi igienici, condivise con un'altra famiglia. L'accoglienza non fu certo delle migliori". E pensare che erano italiani, con l'unica colpa di aver deciso di rimanere fedeli all'Italia e non piegarsi al "sogno" socialista di Tito. Per questo furono bistrattati dal Partito Comunista Italiano. Per questo a Bologna i generi alimentari destinati loro vennero distrutti dai manifestanti della sinistra. Gli unici "profughi" su cui la sinistra ha più volte sputato. E che ora vuole usare.

LA LUNGA STORIA DEI POPULISMI.

Dal folclore ai populismi: il Pifferaio magico non smette di incantare. Torna il poema di Marina Cvetaeva ispirato alla leggenda di Hamelin. Ancora attuale..., scrive Giuseppe Conte, Lunedì 10/07/2017 su "Il Giornale". La leggenda del Pifferaio di Hamelin, nata nel Medioevo tedesco, ha ispirato molti autori, tra cui i fratelli Grimm e Robert Browning, prima di Marina Cvetaeva, che ci costruisce un poema dall'andamento musicale e teatrale con molta ispirata genialità e molte raffinate soluzioni stilistiche ne L'accalappiatopi (Edizioni e/o, pagg.330, euro 18), ben tradotto da Caterina Graziadei e da lei curato con un dottissimo apparato di note (il testo apparve la prima volta in Italia nel 1983). Il tema della leggenda è entrato nell'immaginario popolare europeo: un borgo invaso dai topi ne viene liberato da un misterioso Pifferaio che al suono del suo strumento allontana tutti i roditori portandoli ad annegare in un fiume. Quando il compenso pattuito gli viene negato, il Pifferaio riprende in mano il suo strumento e questa volta sono i bambini a seguirlo e a scomparire. Che fine facciano bambini è oggetto di diverse varianti: annegano nel fiume anche loro, o il Pifferaio li chiude nella grotta segreta di una montagna, o li porta con sé in altri viaggi incantati. Sapendo che su questo tema ha scritto una ballata Goethe, sono subito andato a cercarla: è mia consuetudine rivolgermi a Goethe quando voglio capire di più della letteratura e del mondo. Ebbene, la ballata intitolata Der Rattenfanger, L'acchiapparatti, espunge dalla leggenda gli aspetti oscuri e tragici, e fa dell'acchiapparatti un «cantore rinomato» che «molto ha viaggiato» e che estende le sua facoltà di incantatore diventando un acchiappabambini, con la sue favole d'oro, e all'occasione anche un acchiapparagazze: «In tutte le città dove è stato/ più d'una ha subito il suo incanto». Marina Cvetaeva, che scrive il suo poema poco dopo la fuga dalla Russia, tra Praga e Parigi, nel 1925, ha una cultura dominata dall'amore della tradizione tedesca e dal potere della musica, che gli viene dall'educazione materna. Di fronte alla antica leggenda del Pifferaio di Hamelin, città il cui nome traslittera in Hammeln, più pesante e pieno, l'autrice ne va a scovare, come è sempre possibile nelle leggende, gli aspetti mitici, e il suo Pifferaio vestito di verde prende trasparenze che ricordano Orfeo, Teseo, forse persino la leggerezza del dio Ermes. Marina Cvetaeva non ha la serenità olimpica di Goethe, quella che fece sempre preferire all'autore del Faust la chiarezza solare del mito greco alla oscurità barbarica del mito germanico: la poetessa russa ha un animo tormentato, visionario, in certe parti ho sentito nel suo poema un'eco wagneriana, dei Maestri cantori di Norimberga, certo, ma anche dell'Oro del Reno, e forse anche del Poema dell'estasi di Aleksandr Scriabin. Il borgo di Hammeln, il suo Borgomastro, diventano i simboli della grettezza borghese. Il borgo è vecchio e rispettabile, solido, lindo, lustro, e «la notte che apparve la cometa/ dormì un sonno sodo e sincero», impassibile di fronte a qualunque evento, anche cosmico. I prezzi del manzo, della panna, della ricotta sono bassi, l'unica merce cara, e rara, è il peccato. Non ci sono anime, ad Hammeln, ma corpi, e che corpi, non ci sono poveri, l'unico che c'era è morto ed è stato sepolto lontano dagli altri per ordine del pastore. Ma a un certo punto in questa città virtuosa, di buoni costumi, di fondaci e di stomaci pieni, dove il Borgomastro in sogno vede i suoi borghigiani, i suoi vassalli e i suoi fittavoli, dove è bandita ogni musica e dove si sente, per chi sa sentirlo, il fetore della pulizia e il tanfo dell'opulenza, irrompono orde di ratti (chi sono davvero i ratti per la Cvetaeva: i «Messia della classe oppressa», i topi-ammasso del totalitarismo? Altri hanno visto nell'opera della poetessa russa la condanna di ogni utopia rivoluzionaria, altri vi leggono oggi una satira del «potere popolare»...). Nessuno è in grado di cacciarli se non questo misterioso Pifferaio, cui viene promessa in cambio la mano di Greta, figlia del Borgomastro. Ma alla resa dei conti, la promessa non viene mantenuta: la musica è vista come un affronto al buon senso, un tifo, un crac bancario. Era stato detto: «Sia diavolo o giudeo» chi libererà la città diventerà genero del Borgomastro: nessuno aveva previsto e non era contemplato che a liberarla non sarebbe stato un diavolo né un giudeo, ma un musicista, che è peggio di entrambi. Ed è così che il Pifferaio si porta via tutti i bambini del borgo, che dalle case e dalle scuole lo seguono al suono delle sue note incantate sino a un lago, nelle cui acque li vediamo scendere dai ditini alle caviglie, alle ginocchia, alle spalle, al nasino e alla gola. Per una punizione terribile: o per nuova vita magica, forse?

Che cos'è il populismo e come si riconosce. Sette caratteristiche che identificano e spiegano parole, atteggiamenti e scelte di individui e movimenti del collage genericamente definito populista, scrive Luigi Gavazzi l'1 marzo 2017 su Panorama.  

1- Il popolo. I populisti dicono di parlare "in nome del popolo"; la loro legittimazione, sostengono, deriva direttamente dal popolo; in genere, attraverso le elezioni. Solo che questa legittimazione che arriva dal popolo, giustificherebbe, secondo il credo populista, la delegittimazione delle altre fonti di autorità politica previste dalle costituzioni liberali: il Parlamento, le Corti (fino a quelle costituzionali o supreme), il capo dello Stato, i governi locali, a seconda dell'ordinamento del Paese. In sostanza, il populista non accetta il sistema di pesi e contrappesi tipico delle strutture statuali liberali. Una volta ottenuto l'assenso del popolo in un'elezione, per il resto del mandato, niente deve poter fermare/controllare il governo del popolo.

2- Gli esclusi dal popolo. I populisti quando parlano del "popolo" dal quale deriverebbe la loro legittimazione, identificano come tale solo una parte del popolo reale. A seconda di dove si trovano e dell'opportunità politico-elettorale della quale vorrebbero approfittare, la loro concezione parziale del popolo esclude tutti o alcuni dei gruppi "esterni": gli immigrati, le persone di etnia o di religione diversa, di "razza" non bianca, gli intellettuali, i giornalisti, gli altri politici, le élite (con le più varie attribuzioni), uomini e donne con orientamenti sessuali non etero. Tale concezione del "popolo", è molto simile a quella del Volk dei nazisti e giustifica il concetto di "nemico del popolo", usato indifferentemente dai fascismi storici, dal comunismo, da Putin e, recentemente, da Trump nei confronti dei giornalisti, dei democratici, degli intellettuali.

3- Gli immigrati. Ma i populisti, in questa fase storica, odiano e suscitano odio e paura nei confronti soprattutto degli immigrati, in particolare - in Europa e con Trump anche negli Usa - di quelli di religione musulmana (ma non solo): sono loro la categoria preferita per essere esclusa dal "popolo". E sulla cui richiesta di "esclusione" - con tutte le conseguenze (cittadinanza, welfare, persino istruzione e sanità) - giocano le carte elettorali.

4- Contro il pluralismo. I movimenti populisti non sopportano il pluralismo, la struttura pluralista della democrazia liberale con i contrappesi all'esecutivo; siano istituzionali - come l'ordine giudiziario, il Parlamento (cfr. 1), siano sociali: i media liberi e critici, le organizzazioni della società civile, i partiti, gli intellettuali indipendenti.

5 - Uniformità culturale e religiosa. L'ostilità al pluralismo dei populisti si manifesta anche nella variante "culturale" del populismo: esso ama, pretende, l'uniformità di lingua, religione, comportamenti sessuali, orientamenti sulle libertà individuali: fine vita, aborto, matrimoni.

6 - Contro gli intellettuali. Da 4 e 5 derivano anche l'ossessione anti élite dei populisti. Ossessione che è in realtà una manifestazione dell'ostilità generalizzata contro la cultura, i media, gli intellettuali, gli scrittori, il cinema: persone che hanno due peccati fondamentali agli occhi del populista: disprezzano (a suo dire) la gente del popolo (inteso nel senso esclusivista di 2) e sono dei privilegiati (poco importa per esempio che sia stato o meno il talento a renderli dei privilegiati). Anche il rifiuto degli "esperti", che sconfina in deliri anti-scientifici, per esempio contro i vaccini, è in parte frutto dell'ostilità contro gli intellettuali e la cultura.

7 - Il linguaggio. Il linguaggio dei populisti è sempre aggressivo, scorretto, semplificato, povero, emotivo, banale, violento, oltre la decenza e il rispetto per gli avversari. Più insulta e aggredisce più i sostenitori del tribuno populista si convincono che manterrà davvero le promesse fatte.

Quindi il populista, in un certo senso, è obbligato, anche una volta al potere, a mantenere una campagna elettorale permanente: aiuta a identificare il nemico, a tenere unite le fila dei seguaci e conferma loro che mantiene le promesse. Il concetto di populismo è una famiglia di caratteristiche quasi sempre presenti nei movimenti e negli individui che a esso si richiamano, anche se non tutti i movimenti presentano tutte queste caratteristiche. Prendendo a prestito l'idea di Umberto Eco, che ricordava come il fascismo fosse un "totalitarismo fuzzy", potremmo dire che anche il populismo è un collage di idee e atteggiamenti diversi, spesso anche contraddittori (si pensi alle accuse di autoritarismo che Grillo e Salvini hanno usato contro Renzi nel corso della campagna per il referendum costituzionale, salvo comportarsi, il primo, come un autocrate alla guida del M5S o esprimere - entrambi - l'ammirazione per forme di autoritarismo come quella di Putin in Russia). 

Censis, le istituzioni sono in crisi. Cresce il distacco fra politica e società. Le prime non fanno più da cerniera, gli altri due corpi rintanati su se stessi alimentano populismo, scrive "L'Adnkronos" il 02/12/2016. Le istituzioni sono "profondamente in crisi", sono "inermi perché vuote o occupate da altri poteri", e non riescono più "a fare da cerniera fra mondo politico e corpo sociale", mentre è "grande il distacco fra popolo e politica", tanto che i due corpi "si rintanano su se stessi", ognuno "va per proprio conto". Un mix che "alimenta il populismo". E' il Censis a tracciare il perimetro in cui versa la società italiana nelle sue diverse declinazioni nel Rapporto 2016 sulla Situazione Sociale del Paese, diffuso oggi. "Nel parallelo rintanamento chez soi di politica e società cresce il populismo" afferma il Censis che indica la "pericolosa faglia che si va instaurando tra mondo del potere politico e corpo sociale, che vanno ognuno per proprio conto, con reciproci processi di rancorosa delegittimazione". "Il corpo sociale si sente rancorosamente vittima di un sistema di casta" avvertono gli analisti dell'istituto, mentre "il mondo politico si arrocca sulla necessità di un rilancio dell’etica e della moralità pubblica" e le "istituzioni non riescono più a 'fare cerniera' tra dinamica politica e dinamica sociale, di conseguenza vanno verso un progressivo rinserramento". Delle tre componenti di una società moderna, corpo sociale, istituzioni, potere politico, "sono proprio le istituzioni a essere oggi più profondamente in crisi" sottolinea il Censis che passa sotto la lente lo stato dei tre 'gruppi' sociali. La società italiana, rileva, invece "continua a funzionare nel quotidiano, rumina gli input esterni e cicatrizza le sue ferite", scandita da questi "tre processi chiave". Le imprese "continuano a operare" nelle dinamiche di filiera, le famiglie "continuano a coltivare i loro risparmi e i loro patrimoni", il sistema di welfare "continua la sua lucida e spesso dura quadratura" per "non perdere il ruolo cardine di "soddisfare i bisogni sociali". Intanto siamo entrati "in una seconda era del sommerso": non più pre-industriale, ma, rileva il Censis, post-terziario, "non un sommerso del lavoro" ma "un sommerso di redditi" che prolifera nella gestione del risparmio cash, nelle strategie di valorizzazione del patrimonio immobiliare come bed and breakfast o location per event, nel settore dei servizi alla persona, dalle badanti alle babysitter, alle lezioni private, nei servizi di mobilità condivisa e di recapito. È una macchina molecolare, delinea l'istituto, senza un sistemico orientamento di sviluppo, in cui "proliferano figure lavorative labili e provvisorie". Figure, osserva il Censis, che si ritrovano "soprattutto tra i giovani che vivono nella frontiera paludosa tra formazione e lavoro". Il corpo sociale, rimarca l'istituto, finisce così per assicurarsi la sua primordiale funzione, quella di "reggersi" anche senza disporre di strutture portanti politiche o istituzionali. In questo contesto, la politica riafferma orgogliosamente il suo primato progettuale e decisionale. Tutt'e due alimentano il populismo. E in questo scenario, "è tempo per il mondo politico e il corpo sociale di dare con coraggio un nuovo ruolo alle troppo mortificate istituzioni" avverte ed esorta l'istituto di ricerca socio-economica.

Censis, l'Italia bloccata non investe più. Giovani più poveri dei loro nonni. Gli italiani tagliano su tutto ma non sulla comunicazione digitale. Il cinquantesimo Rapporto Annuale parla di un Paese che siede su una montagna di risparmi, 114 miliardi di euro di liquidità aggiuntiva accumulati negli anni della crisi, ma non li spende per paura. E' l'Italia rentier, dove i giovani sono sempre più poveri e intrappolati nel giro infernale dei lavoretti a basso costo e bassa produttività. Si taglia su tutto ma è boom degli acquisti di computer e soprattutto di smartphone, scrive Rosaria Amato il 2 dicembre 2016 su "la Repubblica". Un'Italia involuta, ripiegata su se stessa, "rentier" la definisce il Censis nel Cinquantesimo Rapporto sulla situazione del Paese. Un Paese che più che vivere di rendita però sopravvive, sfruttando fino all'osso le ricchezze del passato, in particolare il patrimonio immmobiliare, finalmente "messo a reddito", ma che non osa più scommettere sul futuro. Dal 2007 a oggi gli italiani hanno accumulato 114 miliardi di euro di liquidità aggiuntiva, un gigantesco patrimonio che equivale al Pil dell'Ungheria e che rimane rigorosamente liquido, pronto a essere usato in una prospettiva futura di tempi ancora più bui, investito davvero in minima parte e sostanzialmente nelle mani degli anziani. Perché nel nostro Paese, ricorda il direttore generale del Censis Massimiliano Valerii, si è dato corso a "un inedito e perverso gioco intertemporale di trasferimento di risorse che ha letteralmente messo k.o. i Millennials". Se l'Italia appare ferma, governata da una classe politica che ha rinunciato da tempo al ruolo di intermediario dei bisogni della società e che, dice il presidente del Censis Giuseppe De Rita, "pensa solo a se stessa, alla possibilità di far primato", gli italiani in realtà si muovono, in una scia di "continuità di cui nessuno si accorge ma che ha una forza incredibile". Per cui non c'è ripresa ma il made in Italy va bene, le esportazioni funzionano, la filiera enogastronomica è apprezzata ovunque, "tre quarti dei macchinari nel mondo sono italiani". La ricchezza ferma. In Italia gli anziani hanno il patrimonio immobiliare e i risparmi di una vita che nei tempi buoni si sono moltiplicati grazie ad investimenti azzeccati, i giovani non hanno pressoché nulla: le famiglie con persone di riferimento che hanno meno di 35 anni hanno un reddito più basso del 15,1% rispetto alla media della popolazione e una ricchezza inferiore del 41,1%. Mentre la ricchezza degli anziani è superiore dell'84,7% rispetto ai livelli del '91. Ma non serve a rimettere in moto il Paese: l'incidenza degli investimenti sul Pil è scesa al 16,6% nel 2015, contro una media europea del 19,5% ma soprattutto il 21,5% della Francia e il 19,9% della Germania e anche il 19,7% della Spagna. La trappola dei "lavoretti". E' l'Italia del post-terziario, del sommerso. Non è più però il sommerso degli anni '70, che nascondeva aree di grande produttività, di sviluppo: questo è un sommerso "post terziario", più statico che evolutivo, "una macchina molecolare" di soggetti che vagano ognuno per proprio conto, senza alcun orientamento. E' il sommerso del danaro messo da parte ma non investito, dei "lavoretti" a bassa produttività che incidono poco o pochissimo sulla crescita del Paese. A fronte di 431.000 lavoratori in più infatti tra il primo trimestre del 2015 e il secondo del 2016 il Pil è aumentato di 3,9 miliardi di euro, lo 0,9% in più. Se la produttività, già bassa, fosse rimasta costante, ragiona il Censis, la nuova occupazione si sarebbe dovuta tradurre in una crescita dell'1,8%. E' la condanna dei Millennials, imprigionati tra "l'area delle professioni non qualificate" e "il mercato dei lavoretti", nel complesso "il limbo del lavoro quasi regolare". La fine del lavoro e del ceto medio. Il problema non è solo dei giovani: in generale diminuiscono le "figure intermedie esecutive" e crescono le professioni non qualificate (più 9,6% tra il 2011 e il 2015) e gli addetti alle vendite e ai servizi personali (più 7,5%). Si riduce anche il numero di operai, artigiani, agricoltori, il lavoro costa meno ma questa riduzione non favorisce la domanda, anche per via della crisi del settore pubblico: la deflazione è figlia anche di questo sistema del massimo ribasso, che ha compresso e impoverito la classe media. Tagliare ancora le spese. La parola d'ordine dunque è spendere il meno possibile, ridurre ancora i consumi, e tenere i soldi a portata di mano: il 51,7% conta di tagliare ulteriormente le spese per la casa e l'alimentazione. In questo rapporto Censis che sembra non offrire neanche un minimo appiglio per guardare al futuro con un po' di fiducia, a differenza delle precedenti edizioni, emergono comunque ancora i dati di un'Italia che continua a produrre e a muoversi, in ordine sparso, senza alcuna coordinazione da parte di una guida politica magari forte, ma sempre più autoreferenziale. Scure anche sulla sanità, su cui pesa anche il ritiro del sistema pubblico: "Gli effetti socialmente regressivi delle manovre di contenimento del governo si traducono in un crescente numero di italiani (11 milioni circa) che nel 2016 hanno dichiarato di aver dovuto rinunciare o rinviare alcune prestazioni sanitarie, specialmente odontoiatriche, specialistiche e diagnostiche". Cosa tira ancora: il turismo e l'export. In primo luogo continuano ad andare benissimo le aziende che si sono ritagliate una fetta di mercato, piccola o grande, con le vendite all'estero. L'Italia resta al decimo posto nella graduatoria mondiale degli esportatori con una quota di mercato del 2,8%. Nel 2015 le aziende esportatrici italiane hanno superato il 5% dell'export mondiale in 28 categorie di attività economiche. Il saldo commerciale del made in Italy è stato di 98,6 miliardi di euro, superiore al fatturato del manifatturiero. La fama che accompagna i nostri prodotti di qualità è quella del "bello e ben fatto". Ed è probabilmente proprio questo a spingere i turisti stranieri di "alta gamma" a venire in Italia: tra il 2008 e il 2015 gli arrivi di visitatori stranieri in Italia sono aumentati del 31,2% e i giorni di permanenza sono aumentati del 18,8%. Gli arrivi negli hotel a 5 stelle sono cresciuti dal 2008 del 50,3% e in quelli a 4 stelle del 38,2%. Il crollo delle categorie inferiori è compensato da un forte aumento delle presenze negli alloggi in affitto, nei bed and breakfast e negli agriturismo. Per cosa si spende: i media digitali. Accanto a queste attività economiche che godono ancora di una forte spinta propulsiva, c'è un unico canale di consumi che sembra convogliare la passione per gli acquisti degli italiani: la comunicazione digitale. Mentre tra il 2007 e il 2015 i consumi in generale si riducevano del 5,7%, gli acquisti di smartphone aumentavano del 191,6% e quelli di computer del 41,4%. "Gli italiani hanno stretto i cordoni della borsa evitando di spendere su tutto - è la spiegazione del Censis - ma non sui media digitali connessi in rete, perché grazie ad essi hanno aumentato il loro potere individuale di disintermediazione". L'utenza del web in Italia nel 2016 è arrivata al 73,7%, mentre il 64,8% usa uno smartphonee il 61,3% Whattsapp (la percentuale dei giovani sale all'89,4%). Sim web superano Sim voce. Per la prima volta, nel 2015 il numero di sim abilitate. In Italia alla navigazione in Rete (50.2 milioni) ha superato quello delle sim utilizzate esclusivamente per i servizi voce (42,3 milioni). E i volumi di traffico dati sono aumentati nel 2015 del 45% rispetto all'anno precedente, mentre i ricavi degli operatori dei servizi crescevano del 6,2%.

Censis, 11 milioni di italiani obbligati a dire no alle cure sanitarie. Meno ricoveri, visite dal dentista ed esami preventivi a causa dei tagli da parte del governo. Un welfare che penalizza la salute viene fotografato del cinquantesimo rapporto dei sociologi sulla situazione del Paese, scrive il 2 dicembre 2016 "La Repubblica". Gli italiani sempre più spesso costretti a rinunciare alle cure mediche per mancanza di soldi. E' il quadro che emerge dal cinquantesimo "Rapporto Censis" sulla situazione sociale del Paese. Gli effetti socialmente regressivi delle manovre di contenimento del governo si fanno sentire. E, nei fatti, si traducono in un crescente numero di italiani, circa 11 milioni, che nel 2016 hanno dichiarato di aver dovuto rinunciare o (perlomeno) rinviare alcune prestazioni sanitarie, specialmente odontoiatriche, specialistiche e diagnostiche. Riduzione spesa sanitaria. "Il progressivo restringimento del welfare legato agli obiettivi di finanza pubblica appare evidente nella dinamica recente della spesa sanitaria", rilevano i sociologi nella loro fotografia annuale. Così, se mentre dal 2009 al 2015 si registrava solo una lieve riduzione in termini reali della spesa pubblica, nello stesso arco di tempo la spesa sanitaria privata, dopo una fase di crescita significativa, si riduce a partire dal 2012, per riprendere ad aumentare negli ultimi due anni (+2,4% dal 2014 al 2015), fino a raggiungere nel 2015 i 34,8 miliardi di euro, cioè poco meno del 24% della spesa sanitaria totale. Compartecipazione dei privati. Aumenta poi la compartecipazione dei cittadini alla spesa: +32,4% in termini reali dal 2009 al 2015 (con un incremento più consistente della partecipazione alla spesa farmaceutica: 2,9 miliardi, +74,4%). "Infine - si legge nel Rapporto - anche l'offerta ospedaliera mostra una progressiva riduzione dei posti letto (3,3 per 1.000 abitanti in Italia nel 2013 secondo i dati Eurostat, contro i 5,2 in media dei 28 Paesi Ue, gli 8,2 della Germania e i 6,3 della Francia)".

La lunga storia dei populismi, da Tolstoi a Peron, scrive l'11 novembre 2016 “Il Dubbio". I primi movimenti nascono in Russia a fine '800. Da allora questo termine non è mai stato adoperato tanto spesso come negli ultimi anni

Il 24 gennaio del 1878 la rivoluzionaria russa Vera Zasulic sparò al governatore di Pietroburgo, il generale Trepov, che aveva fatto frustare quasi a morte un detenuto reo di non essersi tolto il cappello al suo passaggio. Con una sentenza a sorpresa l'attentatrice fu assolta e fece in tempo a fuggire prima che il governo impugnasse la scandalosa sentenza. Da quel momento gli attentati in Russia si moltiplicarono e il 13 marzo 1881 uccisero con una bomba l'obiettivo più elevato possibile, lo zar Alessandro II. Vera Zasulic faceva parte del gruppo Zemlja i Volja, Terra e libertà. A eliminare Alessandro II fu l'organizzazione che ne discendeva, Narodnaja Volja, Volontà del popolo. Erano entrambe braccia operative del populismo russo, benedette dal suo profeta in esilio Aleksandr Herzen. Non si limitavano a combattere l'autocrazia in nome del popolo, ritenevano che nel mondo contadino russo esistesse uno spirito comunitario intrinsecamente positivo che avrebbe permesso di evitare la fase della rivoluzione borghese. Sul versante non violento, posizioni simili erano espresse da Tolstoj col quale Lenin polemizzò, prendendolo però sul serio come meritava, in alcuni articoli molto serrati. Da allora, il termine "populismo" non è mai stato adoperato tanto spesso come negli ultimi anni. E' improbabile però che si riferiscano a quel populismo i dottori che ogni giorno, dalle colonne di tutti i giornali e dagli studi di tutte le tv, lo citano come il nuovo spettro che si aggira non solo per l'Europa. Se così fosse non si spiegherebbe la piega sdegnosa della bocca, l'espressione a metà tra lo schifato e la sufficienza di chi si sente immensamente superiore. Al populismo di Herzen e Tolstoj nessuno negherebbe uno spessore che mal si concilia con gli sbrigativi anatemi a cui si abbandonano i dotti in ogni circostanza: Brexit, Marine Le Pen, Orban, M5S, Tsipras, Podemos, Hofen... Tutte varianti del medesimo demonio, stupido ma non per questo meno pericoloso: "Il populismo". Il riferimento sarà forse al People's Party, formazione indipendente americana che ebbe il suo momento di gloria tra il 1891 e il 1896, raggiungendo l'8% alle elezioni presidenziali del 1892? Qualche punto di contatto in effetti ci sarebbe. Il programma del partito era ferocemente ostile alle grandi banche, proponeva la nazionalizzazione delle ferrovie e del telegrafo, puntava sulla tassazione progressiva. Ma quella era un'organizzazione di estrema sinistra, poi confluita come ala radicale nel Partito democratico. Se sul banco degli accusati del XXI secolo ci fossero solo Tsipras e Iglesias ancora ancora si potrebbe attribuire al populismo contemporaneo quella improbabile discendenza genealogica, ma come metterla con quella componente dei reprobi che solo a sentir parlare di sinistra mette mano alla pistola? La definizione ossessivamente ripetuta è in realtà tanto vaga e approssimativa da potersi adattare a quasi tutto. Se per populismo s'intende il rapporto diretto e fortemente emozionale del leader carismatico con le masse, sarebbero certamente da considerarsi movimenti populisti il fascismo e il nazismo. I quali tuttavia non presentano punti di contatto con l'originario movimento russo e sono antitetici rispetto alla visione etica che del populismo offriva nel 1969 il suo massimo profeta recente, il sociologo americano Christopher Lasch: «Il populismo è la voce autentica della democrazia. Si basa sul principio che gli individui hanno diritto al rispetto finché non si dimostrano indegni di averne, ma esige che tutti si assumano le loro responsabilità». Nei regimi totalitari, inoltre, il nesso diretto ed emotivo tra il capo e le masse era solo una componente, fondamentale ma non tale da caratterizzarli in maniera eminente. Probabilmente il modello di governo che più merita l'incresciosa nomea è quello di Juan Domingo Peròn, presidente dell'Argentina dal 1946 al 1955, con la sua continua chiamata alla mobilitazione plebiscitaria del popolo che tuttavia non degenerò in dittatura o regime. Quando l'etichetta viene applicata a leader Berlusconi in Italia è proprio al modello peronista che ci si riferisce. Solo che nessuna di queste esperienze storiche, e neppure quella italiana del partito dell'Uomo qualunque, citata dal sociologo di destra Marco Tarchi come apogeo del populismo de noantri, spiega l'inflazione corrente del termine e la sua trasformazione in parolaccia. Il populismo, per come viene inteso e debitamente demonizzato oggi, è qualcosa di simile a quelle esperienze ma con al suo interno slittamenti profondi. È un messaggio di rivolta contro le élites indirizzato al popolo, demagogico e pericoloso ma non perché infondato. Al contrario, le stesse firme che nei giorni pari suonano l'allarme rosso per la minaccia populista, in quelli dispari dissertano sulle medesime nefandezze delle élites che il "populismo" denuncia. L'elemento demagogico sta nell'illudere il popolo che quei limiti possano essere superati contrapponendosi alle élites invece che affidandosi alla loro capacità di autoriformarsi. Non è che le élites in sé siano buone. È che sono comunque meglio della massa vociante, della plebe ignorante. Sbaglieranno pure, ma almeno sanno quello che fanno. Dunque solo loro possono invertire la marcia senza provocare quei disastri che sarebbero invece garantiti affidando la guida al popolino. Perché classi dirigenti che nel giro di pochi anni hanno inanellato i disastrosi interventi in Iraq e Libia, la legge sull'accorpamento delle banche d'affari e degli istituti di risparmio, la crisi del 2008, la politica del rigore in Europa, il salvataggio delle banche a spese di tutti dovrebbero «sapere quello che fanno» resta oscuro. Cosa permetta di sperare in una loro capacità di cambiare rotta lo è ancora di più. A differenza degli anatemi del passato, come «anarchici» o «fascisti», l'accusa generalizzata di «populismo» maschera una visione del mondo fondata sul censo e una diffidenza radicata e montante nei confronti della democrazia. L'uso smodato del termine «populisti» declinato come sprezzante accusa dice pochissimo sugli oggetti dell'accusa. Però dice tutto su chi sono e cosa realmente pensano quelli che la muovono.

Dai politici ai rapper, trionfa l'irresponsabilità. Cosa accomuna gli imprenditori dei social media, le star della musica e politici come Beppe Grillo, Matteo Salvini, Nigel Farage, Donald Trump? Una manifestazione caratteristica dello spirito del tempo: non avere nessun obbligo morale rispetto alle conseguenze di ciò che dicono e predicano, scrive Massimiliano Panarari il 17 Febbraio 2017 su “L’Espresso". S’avanza, tra squilli di fanfara (e in un tripudio di post, tweet, meme e immagini di ogni genere), una neo-ideologia. Nel senso proprio del concetto, quello di un apparato di opinioni, visioni e rappresentazioni che orientano un certo gruppo sociale. Anzi, svariati gruppi, visto che si tratta di un’ideologia tagliata su misura per un’epoca come la nostra solo in apparenza postideologica; ed è un’ideologia (o, se si vuole, una meta-ideologia) che genera inquietudine. Cosa accomuna, infatti, gli imperatori dei social media (a cominciare da Mark Zuckerberg), Beppe Grillo, Matteo Salvini, Nigel Farage, Julian Assange e Donald Trump? (e chi più ne ha, più ne metta: per esempio, potremmo agevolmente fare rientrare nel gruppo, su un altro piano, anche un bel po’ di star della musica rap e reggaeton). Al netto di varie, palesi, differenze, tutte queste figure della vita pubblica contemporanea appaiono, difatti, come altrettante incarnazioni di una manifestazione molto caratteristica – e preoccupante – dell’attuale Spirito del tempo. Quella compendiabile nello slogan (che vale, a suo modo, come un trattato di scienza sociale di un certo tipo di comportamento collettivo): «Lanciare il sasso, nascondere la mano». Una scienza tutta da riscrivere ai tempi dei Social, Network e dei Big Data. Perché sono cambiati i paradigmi, i filtri, i metodi con cui avviene la persuasione. Tra post verità e terremoti politici. Che si tratti dei capi e degli imprenditori politici di quel fenomeno complesso e molto sfaccettato che etichettiamo, per ragioni di semplicità, come “populismo”, piuttosto che dei creatori dei social network o di cantanti seguitissimi da eserciti di giovanissimi (e non solo), ad accomunarli è l’idea di non avere sostanzialmente alcun obbligo morale rispetto alle conseguenze di quello che dicono e predicano. Sono infatti, a vario titolo, tutti leader dotati di grande potere di persuasione e influenza sulla società, che si presentano come irresponsabili (o non pienamente responsabili). Differente è la scala del “fattore di impatto” di ciascuno di loro (in alcuni casi autenticamente planetario), ma analogo l’esito finale; taluni di loro stanno battendo, da tempo, la strada dei cattivi maestri, altri invece non intervengono come dovrebbero nei processi che hanno innescato e di cui sono gli dei ex machina, non nel senso che non li governano (perché lo fanno, eccome), ma in quello del loro attenersi allo schema – assai diffusosi in epoca postmoderna – per cui vasti settori delle classi dirigenti invocano per sé gli onori senza volersi sobbarcare i corrispondenti oneri. Apprendisti stregoni, incendiari, pifferai magici, o agnostici alfieri dell’indifferentismo che incoraggiano azioni, processi e tendenze di massa rifiutandosi di valutarne le conseguenze e le implicazioni. Poiché pensano all’incasso – economico o elettorale – immediato e pronta cassa (che si tratti, variamente, di trimestrali di borsa piuttosto che di consenso politico). Lo misuriamo in relazione a un clima politico nel quale la ragionevolezza sembra perduta, ed è considerata un sinonimo di mollezza, una “patetica ossessione” per gente “senza attributi”, mentre populisticamente spopolano l’urlo, l’esagitazione, la sparata e, soprattutto, la creazione del nemico (un must della lotta politica, parecchio tornato in voga nell’Italia e nel Villaggio globale odierni). Al punto che i toni del bipolarismo muscolare della stagione berlusconiani vs. antiberlusconiani sembrano ora roba “da educande e scolarette”. Lo vediamo nella circolazione di falsità, panzane e “bufale”, e nella proliferazione di fake veicolati attraverso la propaganda o gli eserciti di trolls che immettono nella discussione pubblica e nello svolgimento del processo elettorale un sacco di elementi non veritieri capaci di incidere in maniera anche significativa sulla scelta di voto di alcuni cittadini. Ovvero, il paesaggio politico e l’orizzonte concettuale riscritti dalla post-verità, termine non a caso rigettato sdegnosamente dai leader e dai teorici dell’ideologia dell’irresponsabilità, tanto avversi (almeno a parole…) al “relativismo dei valori morali” (e favorevoli al ritorno a quelli tradizionali, “veri” e “autentici”), quanto invece alacremente e attivamente impegnati nella promozione del relativismo rispetto all’obiettività delle questioni, dei temi e dei fatti della vita pubblica. E se non piace la formula della post-verità, si può rispolverare il sempre utile e lungimirante Walter Lippmann, il quale, già negli anni Venti del Novecento, scriveva della creazione da parte dei mezzi di comunicazione di massa di uno “pseudo-ambiente” quale dimensione parallela che si prestava perfettamente alla manipolazione dell’opinione pubblica; oppure si può ricorrere agli “pseudoeventi” (oggi diremmo i “fattoidi”) di cui parlava, negli anni Sessanta, lo storico Daniel Boorstin, più sofisticati della propaganda perché orientano la gente mescolando elementi oggettivi (fatti) e altri creati ad arte (artefatti), e volutamente falsificati. E poi lo vediamo nell’archiviazione della militanza di partito, rimpiazzata da una sorta di hooliganismo politico (a cui anche le internettiane camere dell’eco hanno fornito uno stimolo potente). E negli hate speeches che dilagano sui social – insieme a una marea di sciocchezze sottoculturali, affermazioni misogine o razziste ed esaltazioni del bullismo – e nella circolazione di materiale visivo pornografico o sessuale che scappa dai protagonisti e dal loro uso privato per finire travasato nella “corrida” del Web. Qui, giustappunto, arriva la problematica della responsabilità di ciascuno di noi, utenti della Rete, persone che vogliono dire la propria in politica o esprimere passioni per qualcosa; e, a volte, e molto duramente, i singoli pagano. Ma c’è anche – finora un po’ troppo aggirata – la questione dell’assunzione di un’obbligazione etica e di un dovere morale rispetto alle conseguenze del proprio operato da parte di chi ricopre un ruolo pubblico rilevante o è il padrone delle piattaforme internettiane. Un nodo serissimo da sciogliere, altrimenti la facile ideologia dell’irresponsabilità farà ancora più danni di quelli (già tanti, troppi) che sta pericolosamente facendo ora. Tu chiamala, se vuoi, etica della responsabilità e, come insegnava Max Weber, dovrebbe risultare indissolubile dalla politica. Mentre di una certa – malintesa – etica della (pseudo)convinzione, come pure (in misura ancora maggiore) di opportunismo, sono lastricate le strade del far west. Oppure quelle dell’inferno. Che non sono precisamente due luoghi di libertà, così come l’invito al senso di responsabilità, a dispetto di quanto strillano in maniera strumentale gli ideologi dell’irresponsabilità, non è censura, né moralismo. Ma tutt’altro.

Che cos'è la propaganda ai tempi di Facebook. Una “scienza” tutta da riscrivere ai tempi dei social network e dei Big data. Perché sono cambiati i paradigmi, i filtri, i metodi con cui avviene la persuasione. Tra post-verità e terremoti politici, scrive Fabio Chiusi il 2 dicembre 2016 su "L'Espresso”. Fa una certa impressione interpellare i massimi esperti di una disciplina e sentirli vacillare perché un evento ne ha appena riscritto i confini. Accade mentre l’Espresso è in conversazione con Russ Castronovo e Jonathan Auerbach, curatori dell’“Oxford Handbook of Propaganda”, la Bibbia del settore. Perché l’evento è l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti; e la disciplina, lo studio della propaganda. L’obiettivo è vederci più chiaro, capire se la storia e la teoria di quella nozione, nata con Bolla papale nel Seicento per “propagare” la fede cattolica nel “nuovo mondo”, ci possa aiutare a comprendere l’era di Brexit, Trump e dei populismi. «Gli eventi delle ultime due settimane negli Usa», risponde invece Castronovo stroncando le speranze sul nascere, «hanno messo a dura prova ciò che molti di noi pensavano di sapere su propaganda e comunicazione. Credo che dovremo riesaminare a lungo diverse nostre premesse e conclusioni». Il docente dell’Università di Wisconsin-Madison aggiunge poi che «l’elezione di Trump ha cambiato il modo in cui pensavamo circolasse l’informazione, come le persone comunicano, ma anche come processano e diffondono la propaganda». Mentre ragiona su quello che definisce un «drammatico campanello d’allarme per molti studiosi di comunicazione politica e retorica», l’intero mondo dei media è invece impegnato a chiedersi se Trump è alla Casa Bianca per colpa di Facebook. Delle notizie false che vi circolano, che diventando “virali” fanno di video, memi e post potenti mezzi di propaganda politica. Potenti al punto di portarci nella “post-verità”. In un’era del rapporto tra potere e informazione, cioè, «in cui i fatti oggettivi contribuiscono meno alla formazione dell’opinione pubblica degli appelli emotivi e le credenze personali». Lo credono diversi analisti e commentatori politici; per l’“Oxford Dictionary” post-verità è addirittura la “parola dell’anno”. Ma per gli studiosi di propaganda sa tutto di già visto. Harold Lasswell scriveva qualcosa di simile già nel 1941, parlando di un mondo in cui «un sospetto generale è diretto contro ogni fonte di informazione»; e in cui i cittadini finiscono per «convincersi che non ha senso cercare il vero negli affari pubblici». Due decenni prima di lui era stato Walter Lippmann, giornalista e poi padre degli studi moderni sulla propaganda, a coniare la definizione che avrebbe ripreso con così tanta fortuna Noam Chomsky: «fabbricare il consenso”. L’idea è perfettamente attuale oggi, nell’era del “sovraccarico informativo” e dell’economia dell’attenzione: nel mondo ci sono troppe informazioni, dice Lippmann in “Public Opinion”, e l’uomo vi fa fronte, per natura, coi pregiudizi. Finché non giungono i media a dare loro forma, secondo i loro interessi. Sono i media, insomma, a colmare la distanza necessaria tra evento e pubblico che rende possibile la propaganda. Sono loro, diremmo anche oggi, il “filtro”. Cosa è dunque successo con Trump? Secondo il filosofo sloveno Slavoj Žižek, la “fabbrica del consenso” si è, molto semplicemente, spezzata. In un ecosistema informativo in cui i media perdono autorevolezza, e chiunque diventa il proprio media grazie a Facebook, Twitter o YouTube, la distanza tra evento e pubblico si azzera. Il “filtro” non serve più: ciascuno ha il proprio, sotto forma di un algoritmo di selezione delle notizie di un social network o presentazione dei risultati di ricerca. Ma c’è molto altro, suggerisce Žižek: «La democrazia», dice in “How political elites failed”, «non è fatta solo dalle formali regole elettorali. È un’intera, spessa rete che detta come viene costruito il consenso politico, con diverse regole non scritte. E ora gli Stati Uniti si trovano a un momento importante, in cui la macchina che costruisce il consenso si è rotta». Rotti i partiti tradizionali, di cui Trump rappresenta la negazione. Rotti i media, che lui e i suoi detestano. Rotte le rappresentanze sociali. Rotto il futuro. Rotta la democrazia, che non interessa a oltre 2/3 dei millennial americani. Rotto anche l’algoritmo di Facebook, certo: ma c’è una realtà, fuori dalla “bolla” mediatica, e a volte riaffiora. Quando lo fa a questo modo ne seguono momenti “catastrofici”, dice Žižek, che possono condurre dritti al fascismo. O a Trump. Non è un caso che Mike Cernovich, il maestro dei memi pro-Trump oggetto di un recente ritratto del “New Yorker”, dica: «Se tutto è narrazione, allora c’è bisogno di alternative alla narrazione dominante». Molto, infatti, è cambiato. La propaganda, fino a oggi, non era materia di scienziati, ma di artigiani. Anche malvagi, come Joseph Goebbels; ma artigiani. «La propaganda è un’arte che richiede un talento speciale», scriveva Leo Bogart ancora nel 1995, «non è un lavoro meccanico, scientifico. Nessun manuale può guidare un propagandista». Eppure nell’era dei Big Data e della profilazione totale quando si legge di propaganda sempre più si leggono numeri, correlazioni, dati. Si contano i profili Twitter arruolati da Isis, o i “bot” che automatizzano la diffusione di contenuti propagandistici sui social media. Si mappano le relazioni sociali online dei propagandisti - e se ne mutano i nodi più grandi in celebrità internazionali. Si contano “like”, condivisioni e pagine viste e le si confrontano per testate tradizionali e siti di disinformazione. Ma si perdono di vista contraddizioni fondamentali. Nel 2011, per esempio, i social media venivano generalmente considerati come promotori di democrazia, non di nuovi autoritarismi. La “Primavera araba” era stata definita “Twitter revolution”. Possibile sia Trump il passo successivo? Forse entrambe le retoriche sono fallaci: era falso cinque anni fa che fosse Twitter a provocare rivolte democratiche; è falso oggi che la strada del magnate alla presidenza sia lastricata di tweet. Eppure, nota Castronovo, «entrambi i movimenti hanno usato con successo i social media come piattaforma per diffondere le loro idee». La questione, in tutti questi dibattiti, resta confinata al dominio del tecnologico. Così si parla sempre più di propaganda, ma come disciplina a sé resta marginale, negli studi filosofici, in quelli storici e di comunicazione. È una lamentela che accomuna tutti i classici del settore, negli ultimi quarant’anni. «Per non temere la propaganda dobbiamo capirla», scrivono gli studiosi. Ma pochi li ascoltano. Per Jason Stanley, di Yale, la spiegazione sta nel fatto che la teoria politica si è a lungo occupata di democrazie liberali “ideali”, in cui - essendo tali - non c’è propaganda. Castronovo ne offre un’altra, più umana e sottile: «Jacques Ellul ha scritto che le persone più influenzabili dalla propaganda sono quelle che credono di esserne immuni». Per esempio, «la classe intellettuale, che presume di avere la razionalità, l’intelligenza e le abilità analitiche» necessarie a sfuggirvi. Ellul ha tuttavia sottolineato anche che la propaganda ci è necessaria, perché ci procura piacere. Un passaggio cruciale, che oggi lascia Auerbach senza parole: «Avevo sottostimato la maniera in cui Trump è stato in grado di mescolare paura e piacere, facendo in modo si nutrissero l’una dell’altro quando io li consideravo opposti». È un modo per solleticare gli istinti, per esempio quelli razzisti o islamofobi, e insieme lenire la colpa di desiderare razzismo e islamofobia. Perché quella che molti chiamano “post-verità” condivide alcuni dei tratti del “neo-fascismo”, ricorda Castronovo. E attenzione ai numeri: Stanley, in “How Propaganda Works”, aggiunge che «perfino se accurate, le statistiche possono avere una funzione propagandistica verso il dominio e l’oppressione, oscurando le narrazioni che le metterebbero in luce». Tornare al significato delle parole, alla loro storia, è dunque imperativo. I demagoghi che aizzano le folle a mezzo propaganda per accelerare la fine della democrazia ci sono già in Platone e Aristotele. La sostituzione della realtà con una sua versione di comodo a scopi elettorali non viene da Trump, ma dalle analisi del totalitarismo di Hannah Arendt. Perfino l’idea che la propaganda debba essere ovunque, per funzionare, che vi si debba essere “immersi” come in una realtà virtuale, non deriva dall’essere sempre connessi: Ellul, altrimenti, non avrebbe potuto scriverne già negli anni Sessanta. Resta da capire, tuttavia, se questo apparato concettuale sia ancora utilizzabile, in tutto o in parte, o sia invece scaduto. Nell’era in cui si teme le elezioni finiscano vittima di hacker, come un telefonino; in cui squadre di troll assaltano gli avversari politici fino a intasarne gli spazi di discussione e la pazienza; in cui non solo, come sosteneva Edward Bernays nel 1928, «siamo governati, le nostre menti plasmate, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite in gran parte da uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare prima», ma forse quei manipolatori non sono più nemmeno uomini, ma “bot”: ha ancora senso, in un’epoca simile, studiare il passato? Rispondere sembra più complesso di quanto vorremmo.

LA SINDROME DI MEDEA.

Berlusconi: "Un leader? Nel 2018 mi ricandido". L'ex premier: "Strasburgo mi darà ragione, il centrodestra non dovrà più cercare un capo", scrive Francesco Cramer, Domenica 27/11/2016, su "Il Giornale". Berlusconi rompe gli indugi e ammette: pronto a ricandidarmi. «Sono in un'attesa spasmodica della sentenza della Corte europea di Strasburgo che purtroppo ci mette troppo tempo, tre anni, per esaminare un caso che non riguarda soltanto un singolo cittadino ma che riguarda un importante Paese europeo - dice in un'intervista a Rai Parlamento -. Credo che questa sentenza dovrà arrivare e sono assolutamente sicuro che metterà in chiaro come non ci sia stata alcuna evasione da parte mia e quindi dovrei tornare nella possibilità di ricandidarmi. In quel caso il centrodestra non avrebbe la necessità di cercare altri leader». Il problema è che l'eurogiustizia è lumaca quanto quella italiana. Ma la colpa non è soltanto dei giudici europei quanto di palazzo Chigi. Il governo italiano, infatti, avrebbe dovuto spedire a Strasburgo un dossier contenente una controrelazione rispetto al ricorso presentato dal Cavaliere. Il termine naturale sarebbe stato proprio oggi ma qualche settimana fa palazzo Chigi ha chiesto un'ulteriore proroga per dire la sua. La richiesta è stata accettata da Strasburgo e così palazzo Chigi potrà spedire le proprie carte a referendum concluso. C'è chi ha sospettato che, per non provocare una controrelazione troppo ostile, Berlusconi non avrebbe fatto una campagna così dura contro il ddl Boschi. Invece il Cavaliere torna a bocciare senz'appello le riforme costituzionali di Renzi: «Il suo progetto non fa risparmiare ed è pericoloso. Con il combinato disposto della legge elettorale chi detiene una minoranza molto piccola potrebbe andare al potere ed essere padrone del proprio partito, della Camera, e di tutto il Paese». Arriva la condanna per i toni troppo accesi in questa campagna elettorale ma spiega: «La colpa non è nostra ma di tutti quelli che fanno propaganda per il Sì. Dicono che se vince il No ci sarebbe il caos ma non è vero niente: resteremmo con la nostra Costituzione e si aprirebbe lo spazio per sedersi a un tavolo e fare sia una riforma condivisa sia una nuova legge elettorale». Pare che Renzi, in una lettera agli italiani, non abbia inserito il nome di Berlusconi nell'elenco dei fautori del No. Come mai? Berlusconi ci scherza su: «Bisogna che lei lo chieda a Renzi. Può essere un atto di riguardo o può essere che consideri che il mio sostegno al No possa convincere molti elettori». In ogni caso resta duro con il premier: «Se vince il Sì si continua con questa Italia che sappiamo non essere in buone condizioni: la ripresa stenta, la disoccupazione è aumentata all'11,4%, la disoccupazione giovanile è quasi al 40%, è aumentata la povertà, un quarto degli italiani si trova in una situazione di povertà assoluta (4 milioni e 600mila), e 10 milioni e 400mila sono in condizioni di povertà relativa». Poi, torna sulla battuta del «Renzi leader»: «Nella sinistra lui appare l'unico leader. Nel centrodestra il leader ero io, e sono stato reso incandidabile. Abbiamo però delle idee molto differenti, perché Renzi viene dalla Democrazia cristiana di sinistra, perciò ha dentro uno statalismo molto spinto, e di carattere è persona che vuole imporsi. Molto lontana da me che sono molto equilibrato». In ogni caso l'annuncio di una sua possibile ricandidatura, qualora la Corte di Strasburgo dovesse riabilitare il Cavaliere, spiazza i leader degli altri partiti della coalizione. Non è un mistero, infatti, che sia Meloni sia Salvini sia Fitto facciano il tifo per le primarie; e che si vogliano presentare loro stessi come piloti di tutto il centrodestra. Ma sul tema il Cavaliere è stato chiaro: apertura ma soltanto a certe condizioni. Ossia che la contesa interna sia regolata per legge con regole chiare e certe perché «le primarie come quelle che fa il centrosinistra sono manipolabili e fasulle». Poi, in serata, circola la voce di un possibile ricovero al San Raffaele di Milano dove lo scorso luglio è stato operato al cuore. Si tratta invece soltanto di un controllo di routine; e viene confermata la sua presenza in tv dalla D'Urso.

Tajani: «Carisma e consensi, il capo rimane Silvio. E non servono gazebo». Il vice dell’Europarlamento: «Gli altri aspettino. Non vedo in campo nessuno che abbia più consensi e più carisma di Berlusconi. I sondaggi parlano chiaro», scrive Cesare Zapperi il 26 novembre 2016 su "Il Corriere della Sera”.

Silvio Berlusconi dice che il centrodestra non ha bisogno di nuovi leader. Se da Strasburgo arriva una sentenza positiva è pronto a rigettarsi nella mischia. Cosa ne pensa?

«Sono d’accordo — spiega Antonio Tajani, vicepresidente vicario del Parlamento europeo, tra i fondatori di Forza Italia — Non vedo in campo nessuno che abbia più consensi e più carisma di lui. I sondaggi parlano chiaro: nel centrodestra chi ha più voti è ancora Berlusconi».

Matteo Salvini e Giorgia Meloni però chiedono le primarie. 

«In Italia non sono regolamentate da una legge. Farle come ha fatto finora la sinistra non ha senso. Cosa vogliamo, che si crei il caos della vicenda Marino? Mi pare che la stessa sinistra si stia interrogando sull’utilità dello strumento. Quasi sempre le soluzioni che sono uscite dalle primarie non si sono rivelate quelle più utili».

Quindi, per lei non se ne parla proprio?

«Ripeto, ad oggi, per quanto sforzi possa fare, non vedo sullo scenario politico italiano un leader più forte di Berlusconi in grado di guidare il centrodestra. Poi, certo, molto dipende dalla legge elettorale».

In che senso?

«Se si va verso il proporzionale, come noi auspichiamo, non servono le primarie. Ognuno si presenta con il suo partito e chi ottiene più consensi lo si vede subito. Berlusconi, ovvio».

Questa è l’ipotesi che si fonda su una vittoria del No al referendum. Ma se vince il Sì sarà difficile abbandonare un sistema elettorale maggioritario.

«Mah, in nome della democrazia io consiglierei a Renzi di riflettere sul destino di un Paese affidato a una forza politica che con meno del 30 per cento potrebbe prendere tutto il potere. Se si vuole consegnare l’Italia in mano a Grillo non si deve far altro che continuare su quella strada. A me sembra molto pericolosa».

Rimaniamo sul futuro del centrodestra. Salvini e Meloni mettono in discussione la leadership berlusconiana e chiedono di voltare pagina. 

«Osservo che da un lato non è ancora il momento del partito unico (che nemmeno auspico) e dall’altro entrambi per ora sono i leader del loro partito. Con i loro consensi, naturalmente, ma non mi paiono superiori a quelli di Forza Italia. Mi sa che devono aspettare ancora un po’».

Perché?

«Berlusconi parla un linguaggio moderato anche quando esprime un No come per il referendum. È l’unico che sa guardare lontano, che non si sottrarrebbe, qualora ce ne fosse bisogno, da un apporto costruttivo per modernizzare davvero il Paese».

Ma il centrodestra ha bisogno di un leader o di un federatore?

«Dopo Berlusconi forse avrà bisogno di un federatore. In questo momento ha un leader».

E Stefano Parisi è ancora utile?

«È una persona che ha voluto impegnarsi per allargare i consensi del centrodestra. Era chiaro che non ambiva a fare il leader di Forza Italia né il candidato premier. Credo che debba continuare nel suo impegno perché sarà senz’altro utile. Ma, piaccia o non piaccia, il leader resta Berlusconi».

Silvio Berlusconi: "Tutto quello che ho offerto a Parisi, ma che lui ha rifiutato", scrive il 26 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Un rapporto sempre velato da un che di riservato, quello che per mesi (dalle ultime amministrative in cui era stato candidato sindaco per il centrodestra a Milano) ha legato Stefano Parisi a Silvio Berlusconi e Forza Italia. Riserbo che è in parte stato sollevato oggi dallo stesso Berlusconi, il quale parlando a SkyTg24 ha svelato che "a Parisi non abbiamo dato un ruolo, gli abbiamo chiesto se volesse diventare un dirigente e magari il coordinatore di Forza Italia e ci ha detto di no, gli abbiamo detto se volesse fare un suo partito ci ha detto di no. Allora abbiamo concordato sul fatto che lui cercasse delle persone, dei protagonisti della trincea delle imprese eccetera a interessarsi con noi del governo del Paese. E' successo, tuttavia, che lui è andato in conflitto con i nostri dirigenti, è andato in conflitto con Salvini e anche con Meloni, quindi come si fa a pensare che qualcuno si ponga come federatore e poi si mette in contrasto con coloro che deve federare. Gli auguro molto successo - ha aggiunto l’ex premier - perché adesso sembra che voglia fare un suo nuovo movimento politico e gli auguro successo anche perché lui ha dichiarato di voler essere parte integrante del centrodestra, quindi tanti auguri a Parisi". Se non è un benservito, poco ci manca...

Silvio Berlusconi uccide i suoi eredi per amore di se stesso. Quando l’egocentrismo e la mitomania produce una politica insipida e incoerente.

Caro Parisi, ti spiego chi è davvero Berlusconi, scrive Tiziana Maiolo il 23 novembre 2016 su "Il Dubbio". Lettera aperta al delfino mancato. "Caro Stefano, sei mesi fa ti avevo scritto "attento al Lupo Mannaro". Non so se hai colto l'oscillazione tra il Licantropo e il lupo casereccio, quello che ti fa paura al momento, come il buio per i bambini o, in politica, l'avversario in campagna elettorale. La "tigre di carta" del presidente Mao, insomma. Il Lupo Mannaro è altro. Ti sei mosso con la disinvoltura della "forza tranquilla" con le tue lampadine accese e scintillanti. Hai proposto il Grande Ripensamento della politica un po' visionaria e sessantottina, ma molto con i piedi per terra nella difesa dei diritti e dei valori, dal lavoro alla legalità fino allo Stato laico e liberale. Come non seguirti, piccolo adorabile pifferaio magico? Quando la tua presenza e i tuoi successi hanno suscitato qualche insofferenza nelle prime file dei parlamentari di Forza Italia, non hai dato grande importanza alla cosa, anche perché succede sempre, lo stesso Giovanni Toti ne sa qualcosa. E' la normale difesa del territorio, o anche la normale competizione per un posticino nel cuore di mamma e papà. Più spinoso il problema della Lega e di Matteo Salvini. Soprattutto per la vicenda di Milano, nella quale brucia più che la sconfitta quel silenzio assordante nelle piazze e nei mercati in quei quindici giorni tra il primo e il secondo turno. Non si costruisce (e quindi non si vince) se qualcuno dice in campagna elettorale che il tuo alleato non conta niente, se si dà più importanza a qualche ruspa agitata sopra le righe piuttosto che a un serio comune programma di governo. Ma siamo ancora alle "tigri di carta", allo strabismo cui sono affetti un po' tutti quelli che hanno a che fare con quel fenomeno di Silvio Berlusconi. Prima di tutto perché si trascura (o si dà troppo per scontato) il fatto che lui è davvero - e non lo dico certo per piaggeria - una spanna sopra la gran parte degli altri. Basti pensare a come a saputo innovare nel linguaggio e nella comunicazione, che ancor oggi tutti imitano. La seconda cosa è che lui lo sa bene, ovvio, di essere una spanna sopra, ma anche che vuole esserlo: non c'è anagrafe, non c'è malattia, non c'è Boccassini che tenga. Terzo: se sono sopra e se voglio esserci, conclude, io faccio. E solo io posso. Un aneddoto di un compagno di scuola, dai salesiani. Vicino all'istituto c'era una casa e nella casa una finestra e alla finestra una bella biondina. Scommessa tra ragazzi, chi se la piglia? Non era il più bello né il più elegante, ma Silvio vinse la scommessa. E vogliamo parlare dei cinesi? Il Milan ormai è venduto, tra meno di un mese la squadra non sarà più di Berlusconi, cui viene comunque offerto il ruolo di "presidente onorario". Benissimo, fa lui, però io decido sugli acquisti e le vendite dei giocatori, e ovviamente sugli schemi di gioco. Questo vuol dire che ha scaricato i cinesi? No, come non ha scaricato te, caro Stefano. Altrimenti non saresti mai andato al convegno di Antonio Tajani, te lo garantisco. Non perché Berlusconi lo avrebbe impedito (non è nel suo stile), ma perché le cose sarebbero andate diversamente, in apparenza senza un vero perché. Lui non ha bisogno di comandare, lui vuole semplicemente rinfrescare la memoria. Non è Crono che mangia i suoi figli, e non è neppure vero che preferisca gli yesman. Lui ama il gioco e la competizione. E la stimola. Tra gli altri. Senza farsi scrupolo di buttare il bambino nell'acqua per farlo nuotare. Vedi Stefano, tu potresti per esempio ascoltare di più Fedele Confalonieri, quando ti dice che hai «un cattivo carattere». Sappiamo tutti che non è vero, sei in genere sorridente e ironico e buchi lo schermo in modo empatico. Che cosa vuol dire, allora? Il presidente di Mediaset è intelligente e conosce come nessun altro il suo amico Silvio. Ma non ti sta dicendo che devi andare più d'accordo con Salvini o Brunetta. Ti sta aiutando a rinfrescare la memoria. Attento al Lupo Mannaro, ti dice.

Alfano, Bondi, Fitto, Verdini: due anni di addii a Berlusconi. Dal 2013 dimezzato il gruppo parlamentare azzurro al Senato che contava 99 senatori. Due le formazioni politiche nate nell'ultimo mese: Alleanza liberalpopolare dell'ex coordinatore azzurro e Conservatori e Riformisti dell'ex governatore pugliese, scrive Giovanni Cedrone su “La Repubblica” il 29 luglio 2015. In principio era il Pdl. Il Popolo della libertà, pur ridimensionato alle elezioni del febbraio 2013, entrò in Parlamento con una pattuglia di tutto rispetto frutto del 22% ottenuto alle urne: la truppa parlamentare, agli albori della legislatura, contava 98 deputati e 99 senatori. Un risultato che permise al partito di Silvio Berlusconi di entrare nella grande coalizione che sostenne il governo di Enrico Letta e di continuare ad avere un ruolo predominante nel centrodestra italiano, con la Lega molto distanziata con 17 senatori e 18 deputati e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni entrata in Parlamento con un gruppo di 9 deputati. Oggi sembra passata un’era geologica da quel febbraio 2013. Silvio Berlusconi non è più in Parlamento, decaduto dal Senato per la legge Severino in seguito alla condanna per frode fiscale nel processo Mediaset, e anche la sua creatura politica, il Pdl, è tornato al suo antico nome, Forza Italia. Ma soprattutto continua ad assottigliarsi sempre più la sua forza parlamentare. Un lento, inesorabile declino aggravato da tre scissioni (due nell'ultimo mese), l’ultimo oggi ad opera di Denis Verdini, colui che a lungo è stato il braccio operativo dell’ex Cav, già coordinatore di Forza Italia e del Pdl, ideatore e sostenitore del patto del Nazareno. Con Verdini ci sono altri nove senatori: Lucio Barani e Vincenzo D'Anna (ex Gal), Riccardo Mazzoni, Giuseppe Compagnone, Riccardo Conti, Pietro Langella (ex Ncd), Antonio Scavone, Eva Longo e Ciro Falanga (ex Conservatori e Riformisti). Il nuovo soggetto politico creato dal senatore toscano, Alleanza liberalpopolare-Autonomie, il cui acronimo, fanno notare i verdiniani, sarà Ala, conta già un gruppo al Senato con capogruppo il craxiano Lucio Barani, mentre alla Camera i verdiniani al momento sono 7-8, un numero insufficiente per creare un gruppo autonomo (alla Camera servono 20 deputati). Obiettivo dichiarato: far arrivare alla fine questa "legislatura costituente" e arrivare all'approvazione del ddl Boschi sulle riforme costituzionali "così com'è". Oggi Forza Italia conta 46 senatori, praticamente la metà rispetto alla pattuglia originaria, e 69 deputati. Il primo a rompere con l’ex Cav fu il delfino Angelino Alfano a ottobre 2013 seguito dalla pattuglia ministeriale dell’allora Pdl e da un consistente numero di parlamentari: il ministro dell’Interno si oppose alla scelta di far cadere il governo Letta e ruppe l’unità del fronte berlusconiano. Oggi il Nuovo Centrodestra, nonostante qualche defezione, conta ancora 34 deputati e 35 senatori, numeri determinanti per la sopravvivenza del governo di Matteo Renzi, nel frattempo subentrato a Letta. Poi è stato il turno di un altro fedelissimo dell’ex Cav: l’ex ministro e governatore pugliese Raffaele Fitto, implacabile contestatore del cerchio magico berlusconiano, recordman di preferenze alle ultime elezioni europee. Un leone blu su sfondo bianco e un tricolore è il simbolo della sua creatura politica, Conservatori e Riformisti, che già conta un gruppo al Senato con 10 componenti, 8 ex Forza Italia e 2 ex Gal: Anna Cinzia Bonfrisco, Francesco Bruni, Luigi D'Ambrosio Lettieri, Salvatore Di Maggio (ex Gal), Pietro Liuzzi, Antonio Milo (ex Gal), Marco Lionello Pagnoncelli, Luigi Perrone, Lucio Tarquinio, Vittorio Zizza (Eva Longo e Ciro Falanga hanno traslocato nel gruppo di Verdini). Forte il richiamo al Partito Conservatore di David Cameron (al Parlamento europeo Fitto ha lasciato i popolari per il gruppo Conservatore) tanto che alla kermesse di presentazione era presente anche Geoffrey Van Orden, vice presidente dei Conservatori al Parlamento europeo. L’obiettivo dichiarato è quello di costruire una valida alternativa a Renzi, una opposizione dura al governo anche se il movimento nasce “non contro qualcuno ma verso qualcosa". La collocazione è saldamente nel centrodestra, una posizione che sembra apparentemente inconciliabile con il neonato gruppo di Denis Verdini che invece punta a sostenere l’esecutivo Renzi almeno nel cammino delle riforme. Non bisogna dimenticare che un altro pezzo da novanta prima di Forza Italia e poi del Pdl, il compaesano di Verdini Sandro Bondi, aveva abbandonato a marzo Forza Italia insieme alla sua compagna Manuela Repetti per traslocare armi e bagagli nel Gruppo Misto. Per l’ex coordinatore azzurro l'ex Cav non è riuscito a compiere la tanto invocata "rivoluzione liberale" e ha rivendicato la necessità di sostenere lo sforzo del premier Matteo Renzi al quale non ha risparmiato elogi: "Rappresenta senza dubbio la prima vera cesura nella sinistra italiana rispetto alla sua tradizione comunista". Da qui la scelta di lasciare il partito guidato da Berlusconi, anche in polemica con la gestione del cerchio magico. Il big bang del centrodestra, in una legislatura caratterizzata da un record di cambi di casacca tra i parlamentari, si è arricchito negli ultimi mesi anche del nuovo partito del sindaco di Verona Flavio Tosi espulso dal Carroccio per insanabili contrasti con il segretario Matteo Salvini. La settimana scorsa è nato il movimento del 'Fare', un faro illuminato e la scritta "Fare" a caratteri cubitali come simbolo. L'obiettivo dichiarato è costruire nel centrodestra "un'alternativa a Renzi”. Con il sindaco di Verona sei parlamentari: al Senato le senatrici Patrizia Bisinella, Raffaella Bellot, Emanuela Munerato, alla Camera i Deputati Matteo Bragantini, Roberto Caon, Emanuele Prataviera (Gruppo Misto). Alle ultime regionali in Veneto la candidatura di Tosi ha raccolto un lusinghiero 11,4%.

Fitto: "Berlusconi? Lo cancelleremo con le primarie". L'ex presidente della Regione Puglia accusa: "Berlusconi vede solo se stesso, così abbiamo già perso dieci milioni di voti", scrive Carmelo Lopapa il 17 novembre 2016 su "La Repubblica".

"Non vedo eredi" dice Berlusconi ed è una vecchia storia. Onorevole Raffaele Fitto, lei che è stato uno dei "delfini", poi accantonato come altri e andato via, che lettura dà del fenomeno?

"Che Berlusconi veda solo Berlusconi è legittimo, ovviamente dal suo punto di vista. Direi che è un film già visto. Il tema è capire se il centrodestra in Italia debba avere un futuro oppure no. Per questa via, ha già perso 9-10 milioni di voti. A che punto vogliamo arrivare?"

Ma perché Berlusconi non può tollerare successori nonostante gli ottant'anni? Pensa davvero di restare leader, di tornare in campo?

"Serve a poco polemizzare con Berlusconi, che è arroccato nel suo schema e pensa a se stesso. Il tema è cosa si aspetta - e parlo di noi - a convocare elezioni primarie. O si fa quello, con una aperta e limpida gara di idee nel centrodestra, oppure la fine è già nota, con un centrodestra spettatore della gara tra Pd e M5S".

Cosa non andava in Fitto, secondo il Cavaliere e perché avete rotto?

"Intanto, una cosa "intollerabile": la mia e nostra autonomia di pensiero. Ho avuto il "torto" di aver avuto ragione in anticipo, con tanti miei colleghi. Dicevamo no al Nazareno e ai patti con Renzi. Siamo stati crocifissi per questo. Ora sento dire altre cose: sento descrivere una "deriva autoritaria" da parte di chi, contro la nostra battaglia, ha votato in Parlamento quella legge elettorale e quel pasticcio costituzionale. Noi eravamo per il No già due anni fa: diamo il benvenuto a chi si è svegliato con ventiquattro mesi di ritardo".

E in Parisi cosa non andrebbe? Manca di carisma, di presa o anche lui troppo indipendente?

"Guardi, io non do giudizi personali. Ma davvero pensava di ricevere il "Telegatto" dopo un casting? Serve un metodo nuovo: la spada sulla spalla non funziona più. Anche perché Berlusconi pensa che spada e spalla debbano essere le sue. Primarie, primarie, primarie, come in America".

Lei è al lavoro per la costruzione di una forza moderata del centrodestra. Potreste lavorare insieme con lo stesso Parisi e altri?

"Primarie con tutti: Salvini, Meloni, Toti. Con chiunque voglia meritoriamente uscire dal vecchio schema. Vedo queste priorità. Primo: dire no a governicchi post referendum. Secondo: primarie. Terzo: evitare come la peste una legge elettorale proporzionale che sarebbe l'anticamera di un neo-Nazareno post elettorale e di un centrodestra fatalmente frazionato e marginalizzato. Quarto: lavorare per una seria e vera alternativa al governo Renzi".

Anche Alfano ha bocciato Parisi ("Un flop"). Come la mettete con gli altri moderati?

"Lo dico senza polemiche: Alfano è al governo con Renzi e la sinistra. E il suo Sì al referendum lo blocca in quella posizione: è una scelta del campo avverso".

Primari, d'accordo. Salvini si è già candidato. Anche lei sarà in corsa?

"Intanto, bisogna decidere di farle. E dopo il 4 dicembre promuoverò un tavolo per scriverne le regole. Oggi è prematuro parlare di nomi. Ci saranno le nostre idee come offerta alla ricostruzione del centrodestra".

Cosa accadrà dopo il 4 dicembre?

"Intanto, vinciamo con il No il 4. Poi occorre vigilare per evitare il Nazareno carsico.  Può sempre riemergere".

Tutte le vittime del Cavaliere: da Dotti a Parisi, passando per Alfano, scrive Francesco Damato il 17 novembre 2016 su “Il Dubbio”. Gli incidenti di percorso dei tanti personaggi, che hanno ricoperto incarichi prestigiosi di governo e nelle istituzioni, allontanati da Silvio Berlusconi. Il povero Stefano Parisi, non so se più disinvoltamente o più coraggiosamente tornato in televisione a svolgere la propria missione, anche dopo l'erba tagliatagli sotto i piedi da Silvio Berlusconi per avere troppo polemizzato col segretario leghista Matteo Salvini, difendendo peraltro lo stesso Berlusconi dai suoi attacchi, non è il primo né sarà l'ultimo della lista, diciamo così, delle vittime politiche dell'ex presidente del Consiglio. Sulle cui scale si può salire con la stessa facilità con la quale si può rotolare. Ad aprire questa lista fu quasi all'esordio dell'avventura di Forza Italia Vittorio Dotti, l'avvocato milanese dello stesso Berlusconi e delle sue aziende, promosso seduta stante nel 1994 capogruppo della Camera. Il poveretto scivolò su una battuta dichiarandosi "l'avvocato degli affari legali" dell'ormai presidente del Consiglio. Tanto bastò ai giornalisti più maliziosi per considerare illegali, o meno legali, gli altri affari di Berlusconi di cui si occupava a Roma l'avvocato Cesare Previti. Che nel frattempo era diventato ministro della Difesa, avendo l'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro rifiutato di nominarlo ministro della Giustizia, come Berlusconi invece gli aveva proposto. Già compromessa di suo per questo infortunio, la situazione di Dotti precipitò per non avere egli saputo o potuto trattenere la fidanzata Stefania Ariosto dalle visite alla Procura di Milano e altrove per raccontare di Previti - sempre lui - e dei suoi rapporti con i magistrati storie destinate a farlo condannare. E a procurare a Berlusconi non pochi guai, fra i quali quel mezzo miliardo di euro pagati a Carlo De Benedetti per l'affare Mondadori, o guerra di Segrate. Insieme con Dotti, Previti e altri avvocati arrivò a Montecitorio nel 1994 sotto le insegne di Forza Italia anche Tiziana Parenti, chiamata "Titti la rossa" per il diminutivo del suo nome e il colore dei capelli. Ma la celebrità e gli apprezzamenti di Berlusconi glieli aveva procurati la tormentata esperienza di magistrata nella Procura di Milano. Dove lei sosteneva di essere stata a dir poco emarginata per avere reclamato indagini più severe sulla partecipazione anche del partito comunista, e dei suoi dirigenti, alla diffusissima pratica del finanziamento illegale della politica. Insediatasi più o meno trionfalmente alla presidenza della Commissione parlamentare antimafia, succedendo all'ultrafamoso e temuto Luciano Violante. La Titti cominciò a dare pensieri e dispiaceri ai colleghi di partito e di gruppo raccomandando attenzione, anzi vigilanza maggiore nella organizzazione del partito nei territori a maggiore densità criminale, dove la corsa per saltare sulla diligenza del vincitore poteva farsi più convulsa e pericolosa. Ricandidata nelle elezioni successive, e anticipate, nella speranza di acquietarne finalmente il carattere, che aveva fatto sospettare a qualcuno dell'entourage del Cavaliere che non fosse poi esagerata la diffidenza mostrata verso di lei dagli ex colleghi della Procura milanese, la Titti non si calmò per niente. E decise ad un certo punto di togliere il disturbo accasandosi in quella specie di purgatorio o di sala d'attesa che è in Parlamento il gruppo misto. Altrettanto difficile fu la convivenza politica con Berlusconi di un avvocato di grido come Raffaele Della Valle, assurto alla vice presidenza della Camera ma convintosi, ad un certo punto, d'intendersi anche di economia, al punto di manifestare qualche riserva su una legge finanziaria. Lo sgomento fu irreversibile. L'avvocato, d'altronde, non sarà stato un economista di rango, ma sapeva fare abbastanza di conto per capire che ad essere deputato ci rimetteva troppo come legale. Un altro capitolo scabroso fu quello di Carlo Luigi Scognamiglio Pasini. Che con quel nome così lungo già metteva soggezione di suo, per cui Berlusconi lo candidò subito nel 1994 alla presidenza del Senato, nonostante il consiglio datogli da un amico di vecchia data di lasciare al suo posto il vecchio, pacioso e già ammalato Giovanni Spadolini. Al quale mancò poco che morisse in aula quando al riconteggio dei voti, impallidendo, dopo avere già ricevuto qualche congratulazione per la conferma, si accorse di avere perduto per una sola miserabile scheda. L'esordio del nuovo presidente sullo scanno più alto di Palazzo Madama fu davvero dandy. Egli parlò all'assemblea con una mano in tasca, fra lo stupore specie dei funzionari, abituati ad altro. Ma tutto doveva cambiare con la cosiddetta seconda Repubblica, anche se Scognamiglio fece rispolverare una vecchia carrozza ferroviaria ex reale, credo, per usarla nei suoi spostamenti. E avvalersi anche, fra qualche fastidiosa ma periferica polemica, del diritto di far fermare il convoglio su cui viaggiava in una stazione non programmata negli orari. A dispetto delle novità attese con l'avvento di un'altra era, il primo governo Berlusconi entrò rapidamente in affanni. E prima ancora che cadesse sotto i colpi di Umberto Bossi, cominciarono a circolare le solite voci su quale tipo speciale di governo potesse prenderne temporaneamente il posto, in attesa di elezioni anticipate. "Un governo istituzionale", si mormorò subito. E quale governo più istituzionale potrebbe esserci - si disse- più di quello affidato alla seconda carica dello Stato? Che era il presidente del Senato, diventato nel frattempo più alto e distaccato di quanto già non fosse, sino a insospettire il già furente presidente uscente del Consiglio, a torto o a ragione, almeno secondo le voci di palazzo, che l'amico ci avesse messo del suo per candidarsi. Fondate o no che fossero i sospetti e le voci, l'unico governo di transizione al quale Berlusconi, una volta caduto, diede via libera al capo dello Stato fu quello tecnico presieduto dal suo ex ministro del Tesoro Lamberto Dini. Scognamiglio riuscì comunque a tornare al Senato con Forza Italia anche nella legislatura successiva, ma decidendo nel 1998 di aderire ad un partitino improvvisato dall'immaginifico Francesco Cossiga, composto da fuoriusciti dal centrodestra, per assicurare una maggioranza al governo di Massimo D'Alema. Dove Scognamiglio diventò ministro della Difesa partecipando alla cosiddetta guerra dei Balcani. Cossiga, come al solito, si stancò subito, a torto o a ragione, della creatura governativa partorita dalla sua fantasia e alla fine della legislatura, nel 2001, chiese a Berlusconi di ricandidare nelle sue liste il povero ex tutto Scognamiglio. Ma Il Cavaliere, che pure per il presidente emerito della Repubblica aveva un debole, sino ad accettarne le battute più urticanti avvolte nella solita stagnola dell'amicizia, quella volta gli disse no. Tutto ma non questo, fu all'incirca la risposta riferitami una volta dallo stesso Cossiga. Facciamo a questo punto un passo indietro per tornare al governo tecnico di Dini, dove entrò come ministro della Giustizia, scelto personalmente dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, l'ex procuratore generale della Corte d'Appello di Roma, fresco di pensione, Filippo Mancuso. Il quale mi confidò dopo qualche anno che Berlusconi, benedett'uomo, si era presa "una cotta" di lui. E con ragione, debbo riconoscere, perché, da imprevedibile com'era, anche a costo di rompere con Scalfaro e di essere sfiduciato dal Senato con una votazione inutilmente contestata davanti alla Corte Costituzionale, il guardasigilli Mancuso aveva mandato i suoi ispettori in quel sacrario che era diventato nella cronaca giudiziaria italiana il tribunale di Milano. Naturalmente alla prima occasione utile, nelle elezioni del 2001, Berlusconi portò alla Camera come un eroe Mancuso. Che, sempre imprevedibile, ebbe il torto dopo un po' di dissentire da Berlusconi per il troppo peso che dava all'amico Previti, sotto processo, sino a sposarne politicamente un candidato alla Corte Costituzionale. Un candidato che Mancuso si rifiutò pubblicamente di votare dopo averne trovato scritto il nome su una specie di ordine di servizio distribuito ai parlamentari del gruppo poco prima della ripresa dell'apposita seduta congiunta delle Camere. Così finì anche la storia dei rapporti fra Berlusconi e Mancuso, meno rumorosamente comunque di quella con l'avvocato Carlo Taormina. Che ebbe la curiosa pretesa di continuare a difendere un imputato di malavita organizzata anche facendo il sottosegretario all'Interno. Tutt'altra storia insomma da quella di Mancuso. Le ultime notizie politiche che ho dell'amico Taormina lo danno, spero a torto, se mi permette, dalle parti di Beppe Grillo. Non è possibile naturalmente chiudere questa rievocazione delle separazioni politiche da Berlusconi, se non le vogliamo chiamare vittime, senza ricordare Angelino Alfano, promosso segretario dell'allora PdL dal Cavaliere in persona, dimessosi da ministro della Giustizia per svolgere meglio, a tempo pieno, il nuovo incarico e sentitosi declassato dopo un po' a mezzo stampa col famoso annuncio di mancare del necessario "quid". Con tutto quello che poi ne seguì naturalmente tre anni fa. Poi è stata la volta, notoriamente, di Denis Verdini: l'uomo che per il suo avvicinamento a Renzi ha fatto saltare tutti i sismografi del Pd. Mentre scrivevo a Montecitorio questo articolo mi si è avvicinato il vecchio amico Antonio Martino. Che, saputo di che cosa stessi occupandomi, è scappato via ridendo e facendomi gli "auguri". Ebbene, dovete sapere che Martino è l'unico col quale Berlusconi non è riuscito a rompere pur avendone spesso ricevuto impietose critiche, in pubblico e in privato. Come quella volta in cui l'ex ministro degli Esteri e della Difesa, per il quale nessuno era riuscito a trovare la presidenza di una commissione parlamentare per metterne a frutto esperienza e saggezza, gli scrisse: "Caro Silvio, vedo che ti circondi di giovani donne con molto seno e poco senno".

L’ITALIA ANTICONFORMISTA.

Io mi chiamo G, scrive Roberto Tartaglione e Giulia Grassi. Il primo dell'anno 2003 è morto un artista italiano di grande talento, Giorgio Gaber. Al suo funerale hanno partecipato, oltre che numerosissime persone comuni, anche politici di destra e di sinistra (da Silvio Berlusconi, Capo di un governo di destra, a Mario Capanna, ex leader del movimento studentesco, di estrema sinistra, del 1968). Tutti celebrano il Gaber anticonformista e un po' anarchico, la televisione trasmette le sue canzoni più divertenti o quelle impegnate in cui critica proprio quella generazione "di sinistra" di cui lui stesso faceva parte. Insomma: è già successo per Pasolini e ora succede di nuovo. Quando muore un artista che ha espresso idee che escono un po' dall'ortodossia del pensiero dominante sono subito tutti pronti a tirarlo dalla propria parte (perfino gli ex-democristiani hanno elogiato Gaber, dimenticando forse quello che Gaber aveva scritto e cantato proprio sul loro partito politico nella censuratissima Io se fossi dio).

- Io mi chiamo G. 

- Io mi chiamo G.

- No, non hai capito, sono io che mi chiamo G. 

- No, sei tu che non hai capito, mi chiamo G anch’io.

- Ah, Il mio papà è molto importante. 

- Il mio papà... no.

- Il mio papà è forte, sano e intelligente. 

- Il mio papà è debole, malaticcio... e un po’ scemo.

- Il mio papà ha tre lauree e parla perfettamente cinque lingue. 

- Il mio papà ha fatto la terza elementare e parla in dialetto. Ma poco, perché tartaglia.

- Io sono figlio unico e vivo in una grande casa con diciotto locali spaziosi.

- Io vivo in una casa piccola. Però c’ho diciotto fratelli! 

- Il mio papà è molto ricco guadagna 31 miliardi al mese che diviso 31 che sono i giorni che ci sono in un mese, fa un miliardo al giorno.

- Il mio papà è povero: guadagna 10.000 al mese che diviso 31 che sono i giorni che ci sono in un mese fa... circa... 10.000 al giorno!!! …al primo giorno. Poi dopo basta.

- Noi siamo ricchi ma democratici. Quando giochiamo a tombola segniamo i numeri con i fagioli.

- Noi, invece, segniamo i fagioli con i numeri. Per non perderli.

- Il mio papà ogni anno cambia la macchina, la villa e il motoscafo.

- Il mio papà non cambia nemmeno idea.

- Il mio papà un giorno mi ha portato sulla collina e mi ha detto: Guarda! Tutto quello che vedi un giorno sarà tuo.

- Anche il mio papà un giorno mi ha portato sulla collina e mi ha detto: guarda!

Basta.

Con questo monologo del 1970 comincia l'avventura del "Teatro Canzone" di Giorgio Gaber, una serie di spettacoli fatti da canzoni e monologhi spesso satirici e divertenti, ma sempre pieni di contenuti sociali e politici. Le canzoni possono riportarsi tutte a una serie di filoni principali: alcune sono legate a un dettaglio, a un gesto del proprio corpo, a una situazione piccolissima (per esempio la divertente LE MANI). Altre si occupano "pirandellianamente" del nostro modo di essere e del nostro modo di apparire (per esempio IL COMPORTAMENTO). Ma Gaber diventa più graffiante quando tocca questioni sociali come la famiglia e il rapporto di coppia (come succede in C'È SOLO LA STRADA o ne IL DILEMMA) e ancora di più quando critica i giovani della sinistra troppo omologati nei gusti e nel pensiero (durissima la canzone QUANDO È MODA È MODA). Naturalmente tutto questo senza alcuna simpatia per la destra che viene fotografata nel suo insieme in canzoni come I BORGHESI o L'ODORE. Certamente però il massimo della sua carica di rabbia e di delusione per la politica si trova nella canzone IO SE FOSSI DIO, censurata da radio e televisione, così provocatoria che nessuna casa discografica aveva accettato di pubblicarla (e infatti il disco è stato prodotto in privato da Gaber stesso e poi venduto quasi clandestinamente nelle università e sulle bancarelle per strada). Fra i monologhi ricordiamo LA SEDIA DA SPOSTARE, in cui attacca l'immobilismo della classe politica italiana; e poi LA CACCA DEI CONTADINI, e tanti altri ancora in cui veniva fuori il suo grande talento di attore oltre che quello di cantante. Negli ultimi anni Gaber sembrava essersi un po' "addolcito". Canzoni come IL CONFORMISTA o LA LIBERTA’ o DESTRA- SINISTRA sono ancora molto divertenti e incisive ma forse non così adeguate alla situazione italiana contemporanea. Interrogato su questo "addolcimento" dell'ultimo Gaber, Enzo Jannacci, un altro cantautore di grande bravura e amico di Gaber da sempre, ha recentemente dichiarato al giornale La Repubblica: " Lui aveva visto lungo: aveva capito subito che questa sinistra non funzionava... era arrabbiatissimo, come Nanni Moretti, solo che ultimamente non poteva ribellarsi come lui, in modo così eclatante, diciamo, appunto per la malattia e magari un po' per motivi di famiglia. Ma lui aveva capito."

Note: Nanni Moretti: è il regista cinematografico che da un anno è diventato leader del movimento dei girotondi, un movimento di sinistra che critica la sinistra stessa per il modo poco incisivo con cui fa opposizione al governo Berlusconi. Per motivi di famiglia: Jannacci allude probabilmente al fatto che la moglie di Gaber è diventata un importante esponente del partito di Forza Italia, il partito di Berlusconi.

La lezione "eretica" di Gaber: il coraggio di non essere omologati, scrive Paolo Giordano, domenica, 04/12/2016, su "Il Giornale". La tentazione, quella c'è sempre per tutti. Rimanere nel coro, seguire il binario, galleggiare nella fama già conquistata. Il conformismo, o chiamatelo omologazione, è un virus che contagia la stragrande maggioranza di artisti o cantanti, e non necessariamente si merita la bocciatura. C'è chi, pur volendo, non potrebbe fare altro e, per carità, non chiediamogli divagazioni imprevedibili, ché altrimenti è peggio. Ma per altri, fortunatamente, non è così. Per rimanere fuori dal coro ci vuole non soltanto una bella voce (leggasi talento). Ci vuole anche la forza di cantare più forte (leggasi coraggio). E se il coraggio è fatto di paura, come ha scritto Oriana Fallaci, è inevitabile che Simone Cristicchi ne abbia patito una bella dose quando, più o meno consapevolmente, ha seguito il proprio istinto. Aveva vinto Sanremo, era considerato uno dei cantautori più promettenti, aveva la benedizione della critica e della gente che piace. Invece ciao. Ha fatto altro. E come lui altri (pochi) cantautori italiani capaci di lasciare l'alveo della canzone popolare per diventare popolari davvero, e perciò unici. Come Giorgio Gaber. Anche lui, con brani come Torpedo blu o Goganga, a inizio anni Sessanta si era conquistato un enorme consenso di pubblico, era uno dei golden boy della musica leggera, carriera garantita a base di contratti e vendite discografiche allora davvero esaltanti. E invece si inventò il teatro canzone, trovò sale vuote o semivuote ma poi si rivelò uno degli artisti più coraggiosi del Novecento. Aderì alla cosiddetta «eresia della libertà» che è formalmente un ossimoro, ma sostanzialmente resta il vero crinale che separa il talento onnivoro e curioso da quello più conforme e pigro. Ebbe, da vero pioniere, la forza di resistere alla calamita delle ideologie quando le ideologie assorbivano - meglio: contaminavano - quasi tutta la produzione artistica e musicale. Fu un profeta del dubbio con la certezza di essere libero. Altri tempi. A seguire quella strada, quella che porta fuori dai banchi del coro ma lascia comunque i riflettori accesi, sono stati in pochi e oggi Simone Cristicchi è realmente una mosca bianca in uno scenario assai omologato, per inguaribile paura o spicciola convenienza. È passato dal tormentone estivo alla ritirata dell'Armir, dal Coro dei Minatori di Santa Fiora al canto anarchico Stornelli d'esilio con una curiosa voracità agile e soprattutto libera. In Italia, si sa, la libertà è quella cosa che ti porta a essere, di volta in volta, criticato da chi prima ti esaltava e viceversa. Così è accaduto a Gaber. E così, in altri contesti e senza paragoni, sta capitando anche a Cristicchi, che molti festeggiarono al Festival di Sanremo per la poesia scarna del brano scritto dopo avere visitato il manicomio di Girifalco (Ti regalerò una rosa) e poi criticarono perché aveva osato illuminare a teatro le pieghe sanguinose delle foibe con Magazzino 18. Dopotutto, chi si mantiene sempre libero obbliga gli altri a fare i conti con le proprie schiavitù ideologiche.

Simone Cristicchi: "Metto in scena i dolori rimossi della storia d'Italia". Il «cantattore» racconta a teatro David Lazzaretti, definito da Arrigo Petacco «il Cristo dell'Amiata», scrive Paolo Giordano, domenica 4/12/2016, su "Il Giornale". In fondo Simone Cristicchi è un eretico. Si è fatto conoscere con un tormentone involontario (Vorrei cantare come Biagio), poi ha vinto il Festival di Sanremo con un brano composto dopo una visita in manicomio (Ti regalerò una rosa), ma poi mica ha inserito il pilota automatico pubblicando una canzone dopo l'altra, figurarsi: è diventato eretico. Per farla breve, si è trasformato nel cantattore, ha scritto libri, prodotto documentari e spettacoli o monologhi teatrali come quello rimasto in scena fino a oggi al Carcano di Milano (torna in tour dal 12 gennaio fino ad aprile) con uno spettacolo legato al suo omonimo libro edito da Mondadori: Il secondo figlio di Dio - Vita, morte e misteri di David Lazzaretti, l'ultimo eretico. Guarda il caso. In camerino, Cristicchi, che è serafico e ispirato, ha una testa di capelli come Branduardi e sul tavolino tiene una grossa foto proprio di Lazzaretti con un cero acceso sotto, spiega che «i miei libri e le mie canzoni nascono affondando le scarpe nelle storie». Storie nascoste. O storie che per tanti è stato meglio nascondere, come quella di Magazzino 18 sulle foibe, spettacolo vincente e convincente che ha convinto anche tanti «talebani» a contestarlo. Romano, neanche quarantenne, Cristicchi è un caso più unico che raro, non è un polemista ma scatena polemica, insomma un investigatore vagabondo che stavolta si è fermato sul Monte Amiata dove nella seconda metà dell'Ottocento un barrocciaio (Lazzaretti, appunto) fondò la chiesa giurisdavidica, fu sostenuto da Pio IX e Don Bosco ma finì sotto le pistolettate di un carabiniere. Era il 1878. «Aveva un carisma che trascinava le masse: se il socialismo è fallito perché camminava con una gamba sola, lui è riuscito a dare alla sua gente anche il lato spirituale», spiega senza accalorarsi perché la sua forza è la «terzietà», raccontare le storie senza diventarne giudice, senza scendere in campo e indossare una maglia. Dopotutto, sorride sotto il casco di capelli, «sono un osservatore esterno». Un osservatore molto curioso. «Su Lazzaretti ci sono pochi libri, uno dei quali, ormai fuori catalogo, è quello di Arrigo Petacco: Il Cristo dell'Amiata. Ma nella sua terra si festeggia ancora il 14 agosto come il giorno in cui fu annunciata una nuova era». A occhio e croce, la storia sembra però quella di un esaltato. «Le perizie hanno escluso la sua follia, e la diagnosi che ne fece Lombroso era la stessa che fece di San Francesco: Un mattoide affetto da mania religiosa. In realtà Lazzaretti era la strana via di mezzo tra una persona razionale e un visionario che invocava una convivenza come nelle prime comunità cristiane. Molti lo consideravano un pazzo sovversivo ma, tra la Toscana e la Sabina, conquistò il popolo e anche nobili, intellettuali, prelati... Negli anni Settanta il Pci organizzò spettacoli e conferenze dedicati a lui, ma poi tutto finì lì».

Cristicchi, anche le sue opere corrono spesso sulla sottile linea rossa della follia.

«Reciterei Pirandello, ma non sarei credibile. L'istinto mi porta a percorrere altre strade mie personali».

Allora vede che è un eretico?

«Sono un restauratore di memorie».

Come quella delle foibe e dell'esodo giuliano-dalmata di Magazzino 18?

«Per alcuni la storia non ha sfumature e quello spettacolo ha incrociato i talebani, quelli che non capiscono che tra le pieghe della storia ci sono dolori mai raccontati».

È stato molto attaccato e insultato.

«Quando hanno iniziato a insultarmi sui social ho continuato a rispondere che ero in buona fede. Poi si sono mossi gli antagonisti, gli anarchici, le teste calde dei centri sociali che spaccano le città. Mi ha deluso molto la posizione dell'Anpi. Nell'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani, ci sono tante anime, anche quella che ritiene fascisti tutti gli istriani».

Fatto sta che Magazzino 18 è stato uno dei pochi spettacoli teatrali recenti ad andare in scena «sotto scorta».

«E mi è dispiaciuto per i poliziotti e la Digos che dovevano presidiare temendo contestazioni. Infatti, quando non c'erano pericoli in vista, li invitavo in sala a godersi lo spettacolo».

Ha avuto 210 repliche con quasi duecentomila spettatori.

«In Toscana soltanto una, per dire, mentre in Veneto trenta e in Friuli- Venezia Giulia non so più quante. Quando mi contestarono a Firenze, il sindaco Renzi mi telefonò garantendomi che in futuro avrei potuto avere il più grande teatro cittadino per tutte le repliche che avrei voluto fare. Però pochi giorni dopo è diventato premier e tutto è passato nel dimenticatoio».

Ma il pubblico non si è dimenticato...

«No, e ora percepisco così tanto affetto che non potrei più tornare indietro. Ma all'inizio non è stato per nulla facile».

Perché?

«Perché proprio dopo il successo del mio brano Meno male (quello con il ritornello su Carla Bruni, ndr) sono andato nei teatri con il mio monologo sulla ritirata in Russia, ispirata dalla storia di mio nonno (Mio nonno è morto in guerra, ndr). Le sale erano mezzo vuote e, senza paragoni, mi è capitato un po' come capitò a Giorgio Gaber quando cambiò registro delle sue opere».

Il pubblico italiano spesso è molto rigido.

«Non solo il pubblico. Confesso che non ricevere alcuna recensione dai critici italiani per tre o quattro anni mi ha fatto soffrire molto. Per capirci, Masolino D'Amico mi ha recensito per la prima volta solo quest'anno dopo l'allestimento del Secondo figlio di Dio a Cividale del Friuli. E ancora una parte dei teatri stabili italiani per me è chiusa, specialmente in Umbria e nelle Marche».

Pregiudizi?

«Non lo so, forse vogliono soltanto commedie od opere sperimentali e non cercano il teatro civile».

A proposito, lei ha firmato anche Le marocchinate. Altra memoria smagnetizzata della nostra storia recente.

«Ha presente l'episodio del film La ciociara con Sophia Loren violentata? Le marocchinate, monologo con Ariele Vincenti che lo porta in scena, parla della violenza delle truppe marocchine dopo aver sfondato la Linea Gustav nella seconda guerra mondiale».

Anche qui a parlare è un «terzo».

«Un pastore ciociaro che sposò una marocchinata, emarginata dalla sua gente perché non più vergine e forse infetta, e racconta la vita con lei che trascorreva il tempo a pulire perché si sentiva sempre sporca».

Ostacoleranno anche questo spettacolo?

«Non so, ha appena esordito e aspettiamo proposte».

E lei cosa aspetta dal suo futuro?

«Ho un sogno nel cassetto: portare in scena Canale Mussolini di Pennacchi, che mi ha pure incoraggiato a farlo. Poi una pièce per far ridere le persone, è un mio desiderio nascosto sa? E infine, chissà, magari torno pure al Festival di Sanremo...».

NON SONO TUTTI ...SANREMO.

Rai, la libertà impossibile. Dai vecchi partiti all'ultrà renziano Anzaldi: 25 anni di intromissioni su assunzioni, palinsesti, nomine, licenziamenti e ospiti. Fino ad arrivare al capitolo Grillo: da artista boicottato a leader politico che attacca gli autori. Il racconto di Michele Serra su "La Repubblica" il 3 aprile 2017.

La mia Amaca di due giorni fa, nella quale definivo "ente inutile" la Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai e dicevo dell'ossessionante interventismo di uno dei suoi membri, il deputato Anzaldi (Pd), ha suscitato la sdegnata reazione di quest'ultimo. La polemica sarebbe di minima importanza, e per l'irrilevanza di Anzaldi e per la mia, se non chiamasse in causa, sia pure con goffaggine, una questione di primo piano come il rapporto tra media e politica. Che nella Rai trova da molti anni uno dei suoi fronti nevralgici. Cominciamo dalla goffaggine, così da poter levare di mezzo almeno un paio di sgradevoli equivoci. Anzaldi sostiene che io sia in "palese conflitto di interessi" perché autore di Fabio Fazio e di non meglio precisate "trasmissioni di Caschetto". Capisco che l'argomento possa sollevare qualche applauso (puntualmente scattato) tra le feroci comari del web, che adorano dire la loro ignorando testo e contesto. Ma una persona che si occupa a tempo pieno della Rai dovrebbe, sulla Rai, essere meglio informata. Non lavoro più con Fazio da tre anni, non ho mai avuto rapporti di lavoro con Beppe Caschetto (che è l'agente di Fazio) e non ho collaborazioni di alcun genere con la Rai. Per giunta quell'Amaca non spendeva nemmeno mezza parola sull'infocata vicenda dei contratti dei conduttori (Repubblica ne ha dato ampiamente conto, compresa una lunga intervista all'onorevole Anzaldi. Il quale poi, incredibilmente, si chiede come mai la direzione del giornale o il Comitato di Redazione abbiano permesso che io dicessi la mia opinione in prima pagina: dimostrando di non sapere come funziona un quotidiano). Nell'Amaca parlavo di tutt'altro. Parlavo della micidiale e perdurante morsa padronale che i partiti politici esercitano sul servizio pubblico televisivo, con continue e pesanti intromissioni su nomine, palinsesti, assunzioni, contratti, licenziamenti, programmi, addirittura scelta degli ospiti. (Tralascio, per brevità, i notissimi casi di censura e ostracismo contro i quali la Commissione, specie negli anni di Berlusconi, non ha potuto o voluto levare un dito, pur essendo incaricata, sulla carta, di tutelare il pluralismo e la qualità della programmazione).

Sostiene Anzaldi, per dare giustificazione istituzionale alla sua inesausta attività di revisore-censore- correttore, che la Commissione deve, della Rai, "occuparsi per legge". Mi chiedo in quale codicillo di legge siano previste le decine, anzi centinaia di esternazioni del deputato Anzaldi (da "Bianca Berlinguer ha dato tanto, può bastare" a "Saviano è deprimente" a come dovrebbe essere fatta la scaletta di Ballarò). Che vanno a sommarsi alle centinaia, migliaia (da quando c'è twitter) di esternazioni di esponenti politici che negli anni, con implacabile mancanza di competenza e sovente anche di educazione, hanno sputato sentenze sulla Rai e sulle persone della Rai quasi sempre a sproposito, senza sapere niente della televisione, dei suoi modi di produzione, dei suoi problemi tecnici e artistici, del rapporto tra costi e ricavi, della distribuzione pubblicitaria, della sua autonomia linguistica.

La promessa di Renzi di non intromettersi nelle cose della Rai ha nel renziano Anzaldi la sua smentita vivente. Ho definito "ente inutile" la Commissione di vigilanza perché affidare a uomini di partito, per quanto competenti e bene intenzionati, il compito di difendere l'autonomia della Rai, è come affidare alla volpe la custodia del pollaio. Confermo la mia opinione: quella Commissione andrebbe dismessa nel nome dell'indipendenza (almeno formale!) del quarto potere. Esistono leggi, authority, governance e gerarchie interne che bastano e avanzano a guidare il servizio pubblico senza che una apposita Commissione parlamentare convochi al suo cospetto uomini della Rai per audizioni vagamente inquisitorie; e senza che dal Palazzo qualcuno twitti le sue sentenze, o telefoni ai direttori di rete per dirgli come si dirige una rete e a un direttore di tigì come si dirige un tigì. Qui lasciamo al suo lavoro il deputato Anzaldi - con il quale, sia chiaro, non ho nulla di personale - e allarghiamo il campo. Ho lavorato per venticinque anni, da libero professionista, come autore di trasmissioni Rai. Ho firmato molte centinaia di ore di dirette e di differite. Sono stato autore televisivo di Fazio, Grillo, Celentano, Morandi, Saviano, Albanese, Littizzetto, Bisio, e sicuramente ne dimentico molti altri. Per mia fortuna e forse per mio talento sono sempre stato chiamato direttamente dagli artisti avendo dunque loro, e solo loro, come punto di riferimento.

Nessuna delle persone che ho nominato aveva altro obiettivo che fare una trasmissione che avesse successo. Nessuno di loro mi ha fatto pensare di avere mandanti politici o reconditi scopi politici, anche perché l'egocentrismo dell'artista comporta una decisa sottomissione di ogni altra logica a quella dell'affermazione personale. Logica magari narcisa, ma limpida. Limpidissima. Nessuna delle trasmissioni alle quali ho lavorato (quattro Festival di Sanremo, due dei quali come autore di Grillo, gli show di Morandi e Celentano, dieci anni di Chetempochefa) aveva altro obiettivo che riuscire il meglio possibile, con gli ospiti ritenuti più adatti e i testi ritenuti più calzanti. E nessuna, con mio vivo sollievo, è stata imputabile di avere reso alla Rai meno di quanto alla Rai fosse costata. Ma tutte, indistintamente, sono state oggetto di controlli, pressioni, "consigli", polemiche o intimidazioni da parte di esponenti della politica. Di quasi tutti i partiti. Perfino lo show di Gianni Morandi (noto eversore) nel 2002. Durante il quale mi è capitato anche che una gentile signora leggesse alle mie spalle quello che stavo scrivendo - qualcosa tipo "ed ecco a voi Paola Cortellesi" - per controllare che non ci fosse nulla di politicamente sconveniente. Ovviamente spettava al gruppo di lavoro difendere la trasmissione e l'artista. Ho lavorato con funzionari Rai dalle spalle larghe (parecchi) che dicevano agli autori "andate avanti e non preoccupatevi" e con funzionari Rai pavidi (pochi) che dicevano "ragazzi per carità non mettiamoci nei guai". Ho lavorato con produzioni esterne molto protettive nei confronti di artisti e autori, e con produzioni esterne più preoccupate di non dispiacere ai dirigenti Rai, in vista di nuovi appalti. Ho sempre avuto ben chiaro, comunque, di lavorare per la televisione e non per la politica. Trovandomi sempre, immancabilmente, a dover fare i conti con il vaglio padronale (non trovo altra parola) della politica. Con le infinite proteste e pressioni (quando lavoravo con Fazio) di chi si autoinvitava, o non voleva che invitassimo altri.

Un capitolo a parte, per me doloroso, è Beppe Grillo. Ho scritto di avere fatto due Sanremo con lui ('90 e '91, direi), ma in realtà ne ho fatti tre. I primi due come suo autore, con il direttore di Raiuno Fuscagni che nel suo ufficio dell'Ariston leggeva (faceva finta di leggere) un foglietto a quadretti sul quale avevo riassunto in poche e vaghe frasi l'intervento serale di Beppe. Un puro pro-forma, molto democristiano e molto funzionale, per salvare i rispettivi ruoli. Io dicevo a Fuscagni: mi scusi sa, ma Beppe è uno che improvvisa, non possiamo mica pretendere di mettere nero su bianco. Lui annuiva con aria grave e aggiungeva, sempre per la forma, "mi raccomando, niente su Pertini", o "lasciate stare il Papa", che non c'entrava niente ma dava l'idea di una supervisione della Rete. Grillo ovviamente disse quello che voleva: si era guadagnato sul campo, da artista, il potere di farlo. Il suo interlocutore non era "la politica". Era il suo pubblico, ed è così per ogni artista, dal più bravo al meno bravo, dal più celebre al più oscuro.

Il terzo Sanremo - ben diverso - che ho fatto "con Grillo" è quello del 2014, condotto da Fabio Fazio nel mio ultimo anno di collaborazioni con la Rai. Barricati dentro l'Ariston mentre Grillo, davanti al teatro, arringava una (piccola) folla dicendo cose spaventose contro le persone che, dentro l'Ariston, stavano lavorando. Per dire quanto è strana la vita: uno degli artisti più boicottati dalla politica che, diventato leader politico, attaccava violentemente un altro artista e i suoi autori. La serata inaugurale venne interrotta da uno spettatore, mandato non si sa da chi, che minacciò il suicidio perché era disoccupato. Grillo disse che era "tutto preparato", una montatura della Rai per avere audience: una truffa ai danni del pubblico. Da autore del Festival la giudicai un'accusa infamante. Calunniosa e totalmente falsa. Si discusse se querelarlo, si stabilì di non farlo, si sbagliò a non farlo: ci vorrà pure un argine, contro la prepotenza della politica. Infine, e ripensandoci, non è un conflitto di interessi, ma una perfetta coincidenza di interessi ad avermi spinto, negli anni, a scrivere sulla Rai, da autore Rai, sempre la stessa cosa, fino alla noia: viva l'autonomia della Rai, abbasso le intromissioni e le manomissioni della politica. Decine di amache e di articoli, a ritroso negli anni, penosamente ripetitivi: come accade a chiunque si occupi di Rai e ancora si illuda che possa esistere, chissà dove e chissà quando, una televisione pubblica indipendente dai partiti. Importante: la mia opinione non è affatto quella di un "antipolitico". Ho un rispetto profondo dell'autonomia della politica, che è un difficile e meritorio mestiere. Ma pretendo uguale rispetto per chi fa un altro mestiere. Quando la politica parla della Rai sta parlando di persone, del loro lavoro, delle loro competenze. Non di pedine da strapazzare o indorare a seconda di come conviene, di come tira l'aria, di come il dito clicca nella demente rincorsa a chi è più veloce a dire la sua.

Rai, svelate le carte top secret: ecco tutti gli stipendi e appalti. I documenti interni della Rai sugli stipendi di conduttori, star e giornalisti. In totale 129 contratti in sei mesi firmati da Campo Dall'Orto per un totale di 340 milioni di euro, scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 8/02/2017, su "Il Giornale". Una firma che vale oro. Molto oro. È quella del dg Antonio Campo Dall'Orto, che da quando la Ra ha messo la sigla di propria mano su 129 contratti (negli ultimi 6 mesi del 2016) per un totale di 340milioni di euro. C'è di tutto: giornalisti, star, conduttori, produzione di programmi e le forniture. Tutti costi esterni cui vanno aggiunti quelli già stratificati del carrozzone Rai. Un anno fa una legge ha allargato le maglie dei poteri del dg della Rai, tanto da permettergli di avere a disposizione impegni per 10 milioni di euro contro i 2,5 che potevano permettersi si suoi predecessori. Un tesoretto. Ma Dall'Orto è riuscito a fare di meglio: considerando che il bilancio totale del 2015 prevedeva 1,3 miliardi di euro in costi esterni, i 340 milioni "firmati" dal dg sono un gruzzolo più che consistente. In totale, come spiega la Stampa dopo aver visionato i documenti interni di Viale Mazzini, Dall'Orto ha assunto 299 persone e concesso 585 promozioni. Gli stipendi dei giornalisti assunti (sopra i 200mila euro) e dei dirigenti sono cosa nota, grazie alla legge sulla trasparenza. Ma nulla si conosceva sui contratti di collaborazione con le star della tv. Eccoli.

Gli stipendi delle star. Andiamo con ordine. La più pagata è senza dubbio Antonella Clerici, regina della "Prova del Cuoco": a lei vanno 3 milioni di euro (lordi) in due anni, fino al 31 agosto 2018. Più o meno lo stesso incassa pure Flavio Insinna, che su Rai conduce "Affari Tuoi": 1 milione e 420mila euro. Poi ci sono Lucia Annunziata, che per garantire l'esclusiva di "In Mezz'Ora" si porta a casa 1 milione e 380mila euro dal 2016 fino al 2019. Di certo con i suoi 460mila euro lordi all'anno non si avvicina ai guadagni di un altro giornalista, questo sì campione di prediche (agli altri). Michele Santoro, con la sua azienda "Zerostudios Spa" costa alla Rai 2 milioni e 700mila euro, cifra con cui realizza ben tre programmi: "Italia" (di cui è conduttore), "M" e "Animali come noi". Piero Angela si accontenta di 1,8 milioni a fronte di 4 anni d contratto: "1 milione 565 mila per il periodo 1 settembre 2013 - 31 agosto 2016 - scrive La Stampa - più altri 235 mila per arrivare al 31 agosto 2017 compresa “la partecipazione del collaboratore alla realizzazione di collane di dvd di carattere scientifico e storico”. Infine i contribuenti pagano pure il direttore dell'Orchestra sinfonica nazionale della Rai, l’americano James Conlon: 311.333 euro lordi per 7 mesi di stipendio. Andando avanti, c'è tutto il capitolo dei conguagli ai minimi garantiti dai contratti. Bruno Vespa, che di base porta a casa 1 milione e 800mila euro, nel secondo semestre del 2016 è riuscito a incassare un altro milioncino di extra. Mica male. Lo stesso vale per Michele Guardì ("Mezzogiorno in famiglia"), con 586.184 euro di prestazioni fuori contratto. E ancora Massimo Giletti (313mila euro in più oltre i 500mila di base).

Le forniture. Che belle le riprese con il drone, certo. Ma quanto ci costano. Il contratto per le riprese aeree, infatti, "vale 8 milioni 590 mila e 780 euro per 24 mesi eventualmente prorogabili di altri 24". Ma non è l'unco costo (folle) del carrozzone Rai. La ditta Salvini Luca e C. snc, per dirne una, si occupa di gestire i distributori di acqua nel centro di produzione di via Teulada per "soli" 847.618 euro. Una bella rinfrescata al bilancio. Per i gettoni d'oro, acquistati dalla "Zecca dello Stato", la Rai spende per "Affari tuoi" 6 milioni 907 mila e 259 euro, 1 milione e 183 mila quella per "l’Eredità" (anno 2015/2016). Per le auto "blu", invece, Campo Dall'Orto ha firmato un contratto da 8,7 milioni di euro per cinque anni di noleggio, cui però vanno aggiunti altri movimenti: 1,4 milioni per il noleggio a breve termine e altri 3 milioni per un contratto a venire per altri 89 mezzi. Un garage d'oro.

I format. Anche sul capitolo format il bilancio della Rai piange lacrime e sangue. Viale Mazzini nel ha comprati (o confermati) ben 16. Come scrive la Stampa, "la fetta più ricca in questa tornata è andata a Endemol, famosa in tutto il mondo per aver prodotto il «Grande fratello». Gli esborsi più alti sono invece finiti ai programmi che servono a Rai1 per presidiare preserate e prime time: 5,6 milioni di euro sono così stati versati per l’acquisto del format ed il pagamento dell’appalto parziale de «l’Eredità» per la stagione 2016-2017 a favore della società Magnolia. A ruota segue «Affari tuoi» (produzione Endemol Shine) che vale 5,3 milioni di euro". Poi altri 4,8 milioni legati alla licenza per "Pechino Express" (Rai2), sempre alla Magnolia, oltre a 1 milione extra per chiudere una vecchia controversia sull'Isola dei Famosi. Endemol Shine può inoltre contare su 2,01 milioni per "Tale e quale show" (Rai1). E tanti altri ancora, di minore prestigio ma ugualmente costosi.

Contratto alla Gabanelli scontro Cda-vertici Rai: "Così ci delegittimano". L'ira di Diaconale e Siddi, i dubbi della Borioni sul dg Campo Dall'Orto. Oggi la resa dei conti, scrive Anna Maria Greco, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". Scrive Dagospia che «un'assunzione di Milena Gabanelli in Rai sarebbe da celebrare con una piedigrotta di fuochi artificiali». Lo fa attaccando Il Giornale per l'articolo di lunedì, firmato dal membro del Consiglio d'amministrazione Giancarlo Mazzucca, che si lamentava per la mancanza d'informazione. E la domanda è proprio questa: perché tanto segreto, invece di un annuncio ufficiale in pompa magna? La Gabanelli, come ha già raccontato Il Tempo, sarebbe stata assunta subito dopo la sua uscita da Report il 31 dicembre, dunque i primi di gennaio. Ma né il CdA né l'opinione pubblica sono ancora stati informati. Il suo sarebbe un contratto a tempo determinato, di 2 anni e mezzo con un compenso di 150mila euro lordi l'anno, nella struttura appena decapitata per le dimissioni dell'ex direttore editoriale per l'offerta informativa, Carlo Verdelli. Lei sarebbe vice direttore, con la delega alla piattaforma online della tv di Stato. Eppure, quando pochi giorni fa in Commissione parlamentare di Vigilanza Rai è stato chiesto al potentissimo direttore generale Antonio Campo Dall'Orto che sarebbe successo nella struttura dopo l'uscita di Verdelli lui è stato evasivo, ha detto che doveva ancora pensarci su. Questo quando il contratto con la Gabanelli era già stato firmato, a quanto sembra. Perché, non annunciare di aver già reclutato la star del giornalismo d'inchiesta? D'accordo, Dall'Orto non aveva l'obbligo di sottoporre il contratto con Milena all'approvazione del CdA se non si tratta di un dirigente, ma se aver convinto l'ex conduttrice di Report (che deve cumulare i contributi necessari alla pensione) è un vanto, perché non vantarsi? Oggi a viale Mazzini il consiglio si riunirà e sono forti i malumori, in parecchi sono pronti a chiedere spiegazioni e dare battaglia. Perché questo è solo l'ultimo di una lunga serie di fatti. «Chi poteva dire di no alla Gabanelli? - chiede Arturo Diaconale, consigliere del centrodestra come Mazzucca - ma informarci a cose fatte sembra fatto apposta per delegittimare il CdA, come fosse un orpello fastidioso e inutile. Dell'accordo tra Rai e Tim sui film abbiamo appreso dai giornali; nessuno ci ha spiegato la scelta di accentrare i diritti in un'unica struttura che fa capo al Dg, svuotando RaiSport e Rai Cinema; né abbiamo avuto risposta da dicembre sulla mancanza di trasparenza sui compensi degli artisti (pare che anche giornalisti pensionati abbiano contratti come artisti) e potrei continuare». Un altro consigliere, Franco Siddi, esprime perplessità, «perché se si tratta di un'assunzione a titolo di consulenza è un conto, ma se parliamo di un ruolo direzionale è un altro conto, e bisogna passare per il CdA». Gli altri tacciono, ma pare che pure Rita Borioni abbia i suoi dubbi. Chi sembra ben informato è l'autore del pezzo di Dagospia, che si scaglia contro la posizione assunta da Mazzucca «in maniera davvero merdotica». Forse è la conferma che si tratta di qualcuno interno alla stessa struttura ex Verdelli e legato a Campo dell'Orto. Su tutto questo forse avrebbe qualcosa da dire l'Anac, visto che nella delibera di settembre, che rispondeva ad un esposto dell'Usigrai sulle nomine di 21 dirigenti esterni, raccomandò almeno per il futuro di utilizzare per le assunzioni lo strumento del job posting, per accertare la disponibilità di professionalità interne, prima di cercare fuori dall'azienda. E di motivare adeguatamente la scelta anche nei casi «eccezionali».

La canzone italiana e la fine della Prima Repubblica. I cantautori e i primi anni Novanta nel libro di Stefano Savella «Povera patria» (Arcana) - RadioLibri.it - speaker Gianluca Testani, producer Marta Milione - CorriereTv 9 febbraio 2017. «La primavera intanto tarda ad arrivare», così cantava Franco Battiato in Povera patria nel 1991. Il brano dà il titolo al libro di Stefano Savella edito da Arcana che nel sottotitolo recita «La canzone italiana e la fine della Prima Repubblica» (pagine 240, e 17,50), che analizza l’incidenza della politica, e del malaffare, nell’ispirazione dei cantautori. Finite le «notti magiche» di Italia 90, il nostro Paese nel 1991 entrata in una nuova stagione. La situazione politico e istituzionale, le inchieste della magistratura e gli attentati di mafia incendiano il clima nell’opinione pubblica. Il mondo della musica non resta a guardare: cantautori, gruppi rock e giovani promesse si schierano contro la corruzione e il malgoverno, e i loro brani diventano la colonna sonora dell’ondata di sdegno popolare. Povera patria di Stefano Savella è al centro della nuova puntata della web radio letteraria RadioLibri.it, qui in anteprima per «la Lettura», che ripercorre i brani analizzati nel libro: dall’Andreotti di Francesco Baccini, a Ti amo Ciarrapico di Elio e le Storie Teste, fino a Millennio di Eugenio Finardi. E ancora Adelante adelante di Francesco De Gregori e «la fine della baldoria» cantata da Francesco Guccini in Nostra signora dell’ipocrisia. E poi Bennato, Litfiba, Modena City Ramblers e infine Pierangelo Bertoli ed Enzo Jannacci sul palco del Festival di Sanremo.

POVERA PATRIA. Stefano Savella. La canzone italiana e la fine della Prima Repubblica. Arcana edizioni - pp. 240 - 17,50 euro. Italia, 1991. Le «notti magiche» sono finite da un pezzo, e il paese attende l’inizio di una nuova stagione, di una primavera che, come canta Franco Battiato, «tarda ad arrivare». Il caos politico e istituzionale, le inchieste della magistratura e gli attentati di mafia incendiano il clima nell’opinione pubblica, e in tanti si preparano a raccogliere il testimone della protesta che monta nella società civile. Il mondo della musica non resta a guardare. Cantautori affermati, gruppi rock e giovani promesse si schierano contro la corruzione e il malgoverno; e i loro brani diventano la colonna sonora dell’ondata di sdegno popolare contro la politica. I palazzi romani, la Tangentopoli milanese, le autobombe di Palermo entrano di prepotenza nei concerti, nelle kermesse di partito, al Festival di Sanremo. Sono canzoni che parlano di ladri e connivenze, di manette ed esplosioni. Qualcuna avrà successo, altre verranno presto dimenticate, talvolta anzi rinnegate. E oggi, in qualche caso, riadattate: la Prima Repubblica è morta, ma la Seconda non sta poi tanto meglio. Un lavoro di eccezionale profondità analizza la coscienza sociale della canzone(tta) italiana. 

Stefano Savella. Nato nel 1982, è redattore editoriale freelance, pubblicista e blogger. Si occupa di questioni politiche europee su Votofinish.eu ed è direttore della rivista web «PugliaLibre. Libri a km zero». Suoi articoli sono apparsi su «Lo Straniero» e «Nazione Indiana». Nel 2013 ha pubblicato il suo primo libro, Soffri ma sogni. Le disfide di Pietro Mennea da Barletta (Stilo Editrice).

11 febbraio 2017. Francesco Gabbani vince Sanremo. Gran rimonta di Francesco Gabbani, che sera dopo sera, risale la vetta fino al numero uno con la sua Occidentali's karma: è lui il vincitore del Sanremone di Conti e Maria. All'ultimo sorpassa Fiorella Mannoia (seconda) ed Ermal Meta (terzo). 

Sanremo, Gigi D'Alessio furioso: "Al Festival mi hanno usato". Gigi D'Alessio, in una lunga intervista a Chi, ha espresso tutto il suo disappunto in merito alla sua eliminazione dal Festival di Sanremo. "Come avrebbero potuto fare 11 milioni di spettatori senza di noi?" Scrive Anna Rossi, Martedì 14/02/2017, su "Il Giornale". "A Sanremo non è stato fatto fuori Gigi D'Alessio, è stata fatta fuori una categoria di cantanti. Qual è la motivazione, quella di far vincere i giovani? Va bene, allora noi serviamo da esca perché il programma senza di noi non li fa 11 milioni di telespettatori". Gigi D'Alessio si sfoga con il settimanale Chi e parla della sua esperienza al Festival di Sanremo. Dopo la sua eliminazione e quella di Al Bano è subito scoppiata la polemica. Il cantante napoletano non ha "digerito" le scelte della guria e a più riprese ha espresso il suo disappunto. "Fiorella Mannoia è partita già protetta perché, a quel punto, chi salvavi? - dice Gigi D'Alessio al settimanale Chi -. La giuria di qualità è normale che salvi la Mannoia perché fa figo. Fiorella è un’artista meravigliosa, ma è normale che se fra i giurati c’è Paolo Genovese, il regista di 'Perfetti sconosciuti' e la colonna sonora è di Fiorella Mannoia, vorrà dire che gli piacerà, no? Allora le cose che a 20 anni non capivi, a 50 le capisci e non è che posso ingoiare tutto, ho deciso che se devo mandare affanculo qualcuno lo faccio. Non sono rimasto contento nei confronti del sistema Sanremo". PUBBLICITÀ Ed ha invece da poco rivelato il nome della persona che ha accanto Fiorella Mannoia: dopo anni di gossip e indiscrezioni, svelata la love story con Carlo Di Francesco, professore di "Amici", suo professore e arrangiatore. Una storia iniziata 10 anni fa ma svelata solo ora, lui ha 26 anni meno di lei (62 Fiorella, 36 Carlo). In un'intervista a "Vanity Fair" la cantante ha detto: "Lui c’è ancora. Siamo aperti, non chiusi. Per questo forse non ci stanchiamo. Ognuno è libero di aderire alle proprie passioni. Non sei mai solo e infelice, quando ne hai". Gigi D'Alessio è ancora furioso per la sua eliminazione dal Festival di Sanremo e, senza peli sulla lingua, dà la sua versione dei fatti al settimanale diretto da Alfonso Signorini. Con un'intervista, in edicola da mercoledì 15 febbraio, il cantante napoletano esprime tutta la sua rabbia e parla anche della presunta intervista, che gli avrebbero fatto in passato, nella quale avrebbe dichiarato di essere costretto a cantare per ancora 15 anni per risollevare le proprie finanze dopo una serie di investimenti sbagliati. "Io non ho fatto nessun intervista - aggiunge -. La gente pensa che mi sono svegliato a dire 'devo cantare 15 anni perché mi servono i soldi', ma non è così e purtroppo non ho potuto fermare questo flusso. È una storia che risale a quattro anni fa e molti sanno come stanno le cose. Qualcuno ha detto che sono andato a Sanremo per fare cassa, ma perché ci pagano? Allora avrei dovuto fare il Superospite. Io ho solo detto che sono stato portato per mano in un investimento sbagliato, intorno a noi c’è sempre qualcuno pronto a fregarti. Ma ora non è che canto perché ho bisogno di soldi, canto perché a 50 anni cosa dovrei fare, mettermi su una spiaggia a prendere il sole?".

Sanremo 2017, Maria De Filippi: "La giuria di qualità ci deve mettere la faccia", scrive “Libero Quotidiano" il 13 febbraio 2017. Il Festival di Sanremo è finito, non le polemiche. Una, in particolare, quella relativa alla giuria di qualità, perché secondo molti alcuni di questi giurati non avevano nulla a che spartire con la qualità musicale: per esempio e su tutti Greta Menchi, ma anche Giorgia Surina e Violante Placido. Ad attaccare la Giuria di qualità ci ha pensato Gigi D'Alessio: "Se avessi saputo certi nomi me ne sarei rimasto a casa", ha dichiarato. E se questo non sorprende (è stato infatti eliminato rapidissimamente), sorprende di più il fatto che una volta terminato il Festival sia proprio Maria De Filippi ad attaccare la stessa giuria: "Devono metterci la faccia", ha affermato. E ancora: "Abbiamo sempre detto che il televoto era appannaggio delle bimbeminchia, allora vediamo cosa votano i giurati di qualità che Carlo ha nominato, uno per uno, durante le serate". Maria, insomma, invoca lo stop al voto di qualità "segreto", e aggiunge: "Che mettano la faccia non solo in televisione ma dicano anche per chi hanno votato. Sono esperti? Vediamo come operano in campo musicale?". Il messaggio è arrivato, forte e chiaro. Le accuse di plagio contro i brani presentati al Festival di Sanremo fioccano ogni anno copiose. E il 2017 non poteva essere da meno, con una decina di casi segnalati a più riprese sui social per altrettante canzoni che hanno gareggiato all'Ariston. Ce ne sarebbe una però, secondo rockit.it, che sembra convincere più delle altre. Su Youtube, l'utente Fabio Giliberti ha pubblicato un video in cui mette a confronto il brano Che sia benedetta di Fiorella Mannoia con Un mondo più vero, interpretata nel 2014 da Michele Bravi. Già al primo ascolto dei ritornelli, la somiglianza sembra clamorosa. Messi poi in sovrapposizione, i due brani appaiono uguali sia per arrangiamento che per melodia.

Il Festival di Sanremo gay con Mika, Ricky Martin e Tiziano Ferro. Il 67° Festival della musica italiana che si terrà a Sanremo dal 7 all’11 febbraio si appresta ad essere il festival più gay di sempre. Condotto da Carlo Conti e Maria De Filippi, ideatrice del “Trono Gay” e nota sostenitrice della causa LGBT, il festival avrà infatti come super ospiti tre “big” della propaganda gay come Mika, Ricky Martin e Tiziano Ferro. I tre cantanti negli ultimi tempi hanno infatti fatto parlare di sé più, conquistando le copertine di riviste e quotidiani, per le proprie dichiarazioni sul tema dell’omosessualità che per le proprie prestazioni canore. Dopo i cartelloni gay e i braccialetti arcobaleno delle passate edizioni prepariamoci dunque ad un altro Festival in cui si salirà sul palco la “bellezza” e la “normalità” omosessuale attraverso tre icone del mondo LGBT come Mika, Ricky Martin e Tiziano Ferro.

Adinolfi contro la "Gaystapo" sanremese: "Non voglio pagare il canone per l'utero in affitto di Tiziano Ferro". Il giornalista, leader del Popolo della Famiglia, accusa Carlo Conti di utilizzare la tv pubblica per promuovere l'ideologia gender: tra gli ospiti su cui punta il dito Tiziano Ferro e Ricky Martin, scrive Maria Elena Pistuddi il 18 gennaio 2017. Non bastava la polemica sui feti che cantano ad agitare le notti di Carlo Conti, anche quest'anno conduttore e direttore artistico del Festival della canzone italiana. A rendere il clima "sanremese" più frizzante del solito ci ha pensato il giornalista, leader del Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi, che si è scagliato contro il conduttore toscano, reo secondo lui di considerare la kermesse una sorta di "Momento di propaganda gay". Il conduttore del quotidiano "La Croce", non nuovo a questo tipo di accuse, già l’11 gennaio scorso, dopo la conferenza stampa del Festival di Sanremo 2017, aveva espresso il suo disappunto sulla presenza al festival di artisti come Tiziano Ferro e Ricky Martin. Il suo intervento a gamba tesa su Carlo Conti recava il titolo "A Sanremo il gotha dei locatori di uteri". Adinoldi aveva poi argomentao: "Al festival di Sanremo del 2015 pagammo come famiglie italiane il supercachet da ospite straniero a tal Conchita Wurst, tizio poi sparito completamente dai radar e sfido chiunque a citarmi il titolo di una "sua" canzone. L’unico motivo per cui fu invitato fu il suo essere icona gender, uomo con la barba in abito da donna". Poi proseguiva: "Il festival 2016 ci regalò l’accoppiata omo-etero di testimonial dell’utero in affitto: Elton John e Nicole Kidman furono i due superospiti stranieri che prosciugarono il budget, sempre gentilmente pagato dalle famiglie italiane, di un’edizione che passò alla storia per l’obbligatorio nastrino arcobaleno distribuito dai dirigenti Rai ai cantanti a sostegno della lobby lgbt, in pieno dibattito sulla legge sulle unioni gay". Nel suo lungo post-accusa, Adinolfi si sofferma sugli ospiti della prossima edizione della kermesse canora e spara a zero. "Ora si torna al teatro Ariston e il supercachet come famiglie italiane dobbiamo pagarlo a Tiziano Ferro che deve comprarsi un figlio da un’americana che lo partorirà, a Ricky Martin che se ne è già comprati un paio, a Mika che almeno nel suo one man show su Raidue candidamente ammetteva “sono omosessuale, non posso diventare padre”. Il post si chiudeva con una minaccia velata: "Propagandare in Italia la pratica dell’utero in affitto, anche solo pubblicizzarla, è reato passibile di due anni di carcere e un milione di euro di multa. Caro Carlo, tienilo come promemoria". Le accuse sono proseguite nel corso di un'intervista rilasciata a Radio Cusano. Dove il giornalista ha parlato, sempre riferendosi a Sanremo, di "Gaystapo". In questo contesto di polemiche sui gusti sessuali dei futuri ospiti del Festival della canzone italiana si inserisce il coming out di Michele Bravi, vincitore di X Factor nel 2013 e in gara tra i big, che ha affidato a una intervista a "Vanity Fair" il racconto del suo primo amore con un uomo. Con la premessa che non "bisogno di fare coming out perché nessun giovane si stupisce che mi sia innamorato di un ragazzo, e penso che nessuno dei miei coetanei si tirerebbe indietro se gli capitasse di provare un’emozione per una persona dello stesso sesso”. Bravi nella lunga intervista parla di una bellissima storia d'amore con un ragazzo che fa il regista e la definisce "perfetta e bellissima" anche se "ti mancano le regole del gioco e quando le impari spesso è troppo tardi". Parole dolcissime e cariche di significato che si spera non finiscano per innescare nuove polemiche. Sanremo, d'altronde, a questo ci ha abituato. 

Mika: prima dell'esibizione del 9 febbraio 2017 a Sanremo che sconfina nel musical, in cui dialoga con l’orchestra giocando a interpretarne in fraseggi, l’artista anglo-libanese lancia il suo messaggio arcobaleno, a favore delle diversità. “Se qualcuno non vuole accettare tutti i colori del mondo e pensa che un colore è migliore e deve avere più diritti di un altro o che un arcobaleno è pericoloso perché rappresenta tutti i colori… Beh, peggio per lui. Questo qualcuno lo lasciamo senza musica”, sottolinea, suggellando un festival che si conferma gay-friendly anche quest’anno.

Mi dimetto da frocio! Scrive Nino Spirlì, Giovedì 9 febbraio 2017, su "Il Giornale".  E basta! Si chiude, seppur con dispiacere, un capitolo durato – gloriosamente – 35 anni. Da quella prima volta in caserma, nel cuore delle nebbie delle Langhe, fino a qualche ora fa. Ma, veramente, giuro!, ne ho piene le balle di questa catasta di “frocetti” che sta subissando, se non l’Umanità intera, almeno la nostra Identità. Son troppi e troppo esagerati. Esasperano tutto: dall’immagine esteriore alla qualità della propria anima. Si sono talmente spinti oltre ogni plausibile confine, che non sanno più da dove siano partiti e perché. Facce di gomma, culi di silicone, sguardi da gatti infuriati. Spiumati più di un’oca da cuscino, ma muscolosi quanto e più di Rambo e Rocky shakerati insieme, seppur bigolodipendenti; oppure bugiardamente barbuti e pur sempre con la mente calamitata da ogni patta incrociata nella metro; argentini nei guizzi vocali come sigaraie da tabarin e apparecchiati come troie da saloon, anche fra i banchetti del mercatino rionale. Scemi e ignoranti, imitano le dee, ma non ne conoscono il nome e le virtù. Gusci vuoti di vite buttate. Eppur presenti in ogni dove: dagli altari, infettati dalle foie di frustrati altrimenti senza futuro, fino alle cattedre delle scuole, minati dalle false teorie su un genere che spezza la Natura e forza la Società. Presenti, e celebrati da altrettanti ignoranti “padroni di casa”, nei salotti mediatici e nelle piazze dell’Arte, dove la Chiamata perde il contatto col Divino e diventa un bercio stridulo di pretesa attenzione. Travestiti da manager d’industria, funzionari statali, mercanti, artigiani… In uniforme, in camice, in tuta… Froci per convenienza, per moda, per carrierismo, per curiosità, per assuefazione, per rabbia. Per ignavia. Sfrontati, arroganti, pretenziosi, volgari, razzisti ed eterofobi. Garantiti dal Potere, che li teme. Ingrassati dalla politica, che ne patisce i ricatti. Coccolati da vecchie puttane ingioiellate e ripulite dalla fede al dito; tutelati da leggi zoppe quanto il gatto e la volpe di collodiana memoria; accontentati nei sacramenti e nelle onorificenze. Padroni di un mondo che cambia dignità come fosse una mutanda pisciata di notte, pontificano e dispongono. Vomitano nuovi dogmi che la strada patisce ed accetta, preoccupata di non farsi crocifiggere, da una stampa impastata con inchiostro a sette colori e banalità, su quella cosa che non è cosa e che molti chiamano teoria del gender. Ma che, poi, tacciono quando, invece, dovrebbero denunciare i martirii patiti da quelli come noi che muoiono, massacrati nei paesi islamici, nei paesi a regime comunista, in mezza africa, negli abissi dell’estremo oriente. Ecco, io non ci sto ad ingrossare le fila di questi frocetti da commedia americana! Volevo essere ricchione alla vecchia maniera, io! E, dunque, mi ritiro! Volevo, sì, essere ricchione senza “matrimonio”; senza figli da consegnare al pubblico ludibrio, in un mondo che non è ancora pronto a cotanta provocazione; senza l’assurda pretesa di cancellare la bellezza della Santità del Padre e della Madre, non solo fra le calde mura domestiche, ma anche su un rigoroso certificato di nascita; senza la pietosa bugia che siamo tutti un po’ omosessuali, in fondo. Perché non è così! No, mondo! Non ci sto più! Mi fermo. Mi sposto in un angolo. E non sono più frocio. Non consumo più, né atti, né sentimenti. Per rispetto. A me, ad un Lui, ad una Lei. Al Cielo e alla Terra. Tornerò quando l’ultimo dei mentitori avrà ritrovato il buco dal quale è uscito e si sarà dileguato in quell’abisso dal quale qualcuno, scaltro e malfattore, lo ha convinto ad uscire per interpretare la commedia. La tragica commedia della morte della Dignità Umana. Fra me e me. 

"Bastiamo io e Maria De Filippi", scrive il 6 febbraio 2017 “la Repubblica”. L'assenza della figura delle vallette a Sanremo è stata spiegata così da Carlo Conti, al timone del festival per il terzo anno consecutivo. In molti si sono mostrati perplessi di fronte all'eliminazione di questa figura storica dall'edizione 2017 dell'appuntamento musicale più atteso e discusso in Itala. Le hanno sempre chiamate vallette, ma nel corso degli anni sono diventate qualcosa di più. Accanto a storici conduttori del Festival di Sanremo come Mike Bongiorno, che ha presentato la manifestazione undici volte, o Pippo Baudo, che detiene il record con tredici edizioni, ci sono sempre state loro: le signore del teatro Ariston. Modelli di fascino e bellezza della loro epoca, da semplici e graziose comparse si sono col tempo trasformate in vere e proprio spalle fino a ottenere ruoli di co-conduzione. Gli esempi più recenti sono quelli di Antonella Clerici, Gabriella Carlucci e Luciana Littizzetto, ma non deve essere dimenticata nemmeno Gabriella Farinon, pioniera della conduzione al femminile. (In alcuni anni il volto femminile della valletta è mancato perchè a condurre era una donna, ovvero a presentare era un uomo ed una donna, come quest'anno). Ecco alcune delle più famose figure femminili che, dal 1951 ad oggi, hanno conquistato il palco dell'Ariston:

Marisa Allasio, Nicoletta Orsomando, Sanremo 1957

Enza Sampò, Sanremo 1960

Giuliana Calandra, Sanremo 1961

Laura Efrikian, Sanremo 1962

Giuliana Lojodice, Sanremo 1964

Gabriella Farinon, Sanremo 1969

Ira Furstemberg, Sanremo 1970

Sabina Ciuffini, Sanremo 1975

Maria Giovanna Elmi, Sanremo 1977

Anna Maria Rizzoli, Sanremo 1979

Eleonora Vallone, Sanremo 1981

Gabriella Carlucci, Sanremo 1988

Edwige Fenech, Sanremo 1991

Milly Carlucci, Brigitte Nielsen e Alba Parietti, Sanremo 1992

Lorella Cuccarini, Sanremo 1993

Anna Oxa, Sanremo 1994

Anna Falchi, Claudia Koll, Sanremo 1995

Sabrina Ferilli, Valeria Mazza, Sanremo 1996 

Valeria Marini, Sanremo 1997

Eva Herzigová e Veronica Pivetti, Sanremo 1998

Laetitia Casta, Sanremo 1999

Inés Sastre, Sanremo 2000

Megan Gale, Sanremo 2001

Manuela Arcuri e Vittoria Belvedere, Sanremo 2002

Serena Autieri e Claudia Gerini, Sanremo 2003

Paola Cortellesi, Sanremo 2004

Antonella Clerici, Federica Felini, Sanremo 2005 

Ilary Blasi e Victoria Cabello, Sanremo 2006

Michelle Hunziker, Sanremo 2007

Bianca Guaccero ed Andrea Osvárt, Sanremo 2008

Belén Rodríguez ed Elisabetta Canalis, Sanremo 2009

Ivana Mrazova, Sanremo 2012 

Luciana Littizzetto, Sanremo 2013/2014

Rocio, Arisa, Emma, Sanremo 2014/2015 

Madalina Ghenea, Virginia Raffaele, Sanremo 2015/2016

Festival di Sanremo: da Baudo a Conti, i conduttori e i cachet da record. Il più pagato in assoluto è stato Gianni Morandi, seguito da Bonolis. Tra le donne domina invece Michelle Hunziker, scrive Francesco Canino il 7 febbraio 2017 su Panorama. Con il suo terzo Sanremo consecutivo, Carlo Contista per entrare nella storia del Festival della canzone italiana. Sfogliare i nomi dei conduttori della «kermesse canora», tanto per rispolverare una fraseologia di quelle abusate (ma efficaci), significa fare un tuffo nell'enciclopedia della televisione italiana, partendo dal «cari amici vicini e lontani» di Nunzio Filogamo al «tutti cantano Sanremo» ideato da Conti. In mezzo ci sono 67 edizioni e una carrellata pazzesca di volti della tivù, tra meteore e giganti del piccolo schermo. Ecco tutte le curiosità sui conduttori e i cachet festivalieri. L'inossidabile reuccio del Festival di Sanremo per ora resta Pippo Baudo, imbattibile condottiero di stagioni festivaliere che hanno fatto la storia, dalle epiche incursioni di "Cavallo pazzo" all'intuizione delle "vallette" - la bionda e la mora, tra coppie improbabili e altre cult - passando per momenti indimenticabili, come l'annuncio in diretta della morte di Claudio Villa, esattamente trent'anni fa. Baudo detiene ogni record, con ben 13 edizioni condotte, la prima nel '68, di cui cinque consecutive: lo tallona il grandissimo Mike Bongiorno, a quota 11, di cui cinque una in fila all'altra dal '63 al '68. Il terzo posto sul podio resta per ora occupato da Nunzio Filogamo, primissimo conduttore del primissimo Festival, quando ancora andava in onda (in radio) dal teatro del Casinò: ha presentato i primi quattro, dal 1951 al 1954, sempre in solitaria, mentre per la sua quinta conduzione fu affiancato da Marisa Allasio, Fiorella Mari e Nicoletta Orsomando. Dal bianco e nero all'hd, balza in quarta posizione Fabio Fazio, quattro volte padrone di casa all'Ariston - le ultime due in coppia con Luciana Littizzetto - dove quest'anno farà il tris Carlo Conti, affiancando così in classifica Claudio Cecchetto e Gabrilla Fariron, storica annunciatrice Rai. Sono molti i conduttori che hanno fatto il bis e lasciato il segno con ascolti record. È impossibile dunque non citare i due grandiosi Sanremo condotti da Paolo Bonolis - già si parla di lui per il 2018 - e ancora Gianni Morandi nel biennio 2011/2012, mentre Antonella Clerici (attesa giovedì sera come ospite) lo ha presentato prima come valletta al fianco di Bonolis, poi in solitaria nel 2010. Nessun tema collaterale al Festival appassiona e scatena critiche come la questione cachet. In maniera geniale, Maria De Filippi se n'è tirata fuori, rinunciando al compenso per la sua partecipazione e spegnendo ogni polemica sul nascere. Conti percepirà invece 650 mila euro (ma all'interno di un contratto quadro, ha specificato la Rai), ben lontani dal milione e 500 mila euro di Gianni Morandi, che ha polverizzato ogni record. A quota 1 milione invece Paolo Bonolis (nel 2009), Giorgio Panariello (nel 2006) e Michelle Hunziker (nel 2007), che surclassò l'allora padrone di casa Pippo Baudo, fermo a quota 800 mila euro.

Sanremo: il Festival del privilegio. Biglietti di Stato gratis a magistrati e politici, curia e forze dell'ordine. L'immancabile manuale Cencelli della distribuzione. Il sindaco: "Me li chiedono tutti, in strada o al telefono", scrive Marco Preve il 5 febbraio 2017 su "La Repubblica". Sanremo. Indovinello: dove si possono trovare, tutti assieme, un politico, un magistrato e un alto ufficiale delle forze dell’ordine? No, non è la stanza interrogatori di un carcere. La risposta giusta è il teatro Ariston durante il Festival di Sanremo. Ma se volete essere più precisi è: “al Festival con biglietti gratis”. Nell’Italia che si indigna per privilegi più o meno grandi, per regali consapevoli o all’insaputa, continua ad esistere un luogo in cui tutti i poteri possono godere gratuitamente di prerogative vietate ai normali cittadini: le poltroncine di velluto rosso dell’Ariston. È sui soffici sedili – resi ancor più confortevoli dalla gratuità e dal quel senso di autorevolezza che qualcuno ricava dall'essere omaggiato - che l'implacabile pm o l'inflessibile giudice condividono la vicinanza con il consigliere o l'assessore regionale dei quali deplorano, nel resto dell'anno, l'abitudine a scialacquare fondi pubblici in vini, cravatte ed anche concerti. È nel fragoroso applauso che accoglie il bravo presentatore che sciolgono le reciproche diffidenze il deputato e il comandante dei carabinieri o della guardia di finanza, il presidente della società partecipata e il questore. "Una vera e propria franchigia medievale" commenta, dietro la garanzia dell'anonimato un magistrato che ha conosciuto i meccanismi di ripartizione dei biglietti tra le toghe pur senza prendervi parte. Un Festival del privilegio la cui principale "vittima" – oltre al buon gusto, naturalmente – sembra essere il sindaco di Sanremo. L'unico, assieme al Prefetto e al presidente della Regione, ai quali andrebbe riconosciuto il ruolo istituzionale all'Ariston. "È davvero uno dei compiti più impegnativi e maggiormente soggetto a malintesi, proteste, malumori. Tutti chiedono biglietti, per strada oppure in maniera più riservata a seconda del ruolo" spiega Alberto Biancheri, attuale primo cittadino di Sanremo. Come se ne esce? Con una rigida applicazione dei criteri ormai consolidati. Va anche detto che con l'avvento del predecessore di Biancheri, Maurizio Zoccarato, la distribuzione passò dall'ufficio turismo, che nei decenni era diventato un vero e proprio regno indipendente, direttamente al gabinetto del sindaco. Anche quest'anno Biancheri si è ritrovato a dover decidere a chi destinare i circa 200 biglietti a serata. Unici ad aver rinunciato ai loro tagliandi sono stati i consiglieri comunali del M5s. "Per il resto distribuiamo a 360 gradi – spiega Biancheri – a politici, polizia, carabinieri, finanza, procura, tribunale, vigili del fuoco, capitaneria, ma anche volontari di associazioni, e poi non vedenti oppure disabili. Poi ci sono i biglietti per ospiti importanti, ambasciatori o diplomatici e infine scelte particolari. Quest'anno ho deciso di dare due biglietti a una coppia che su Facebook ci ha scritto che ha sempre avuto il sogno di venire a vedere il Festival". Biancheri svicola, ma in Comune si racconta anche di telefonate arrivate dalla Curia per avere il classico "paio di biglietti". E poi ci sono, prima di tutti e più di tutti, i politici. Deputati e senatori del territorio e fin qui è poca cosa. Poi inizia la grande abbuffata. Due biglietti a testa per: gli assessori e tutti i consiglieri del Comune di Sanremo (M5s esclusi); presidenti e amministratori di società partecipate. Poi si passa alla Regione Liguria dove non possono mancare non solo i biglietti per gli assessori e per numerosi consiglieri (anche in questo caso il M5s sembra essere escluso), ma anche per i presidenti di commissione. Tra gli habitué istituzionali c'è anche il presidente della Camera di Commercio di Imperia. E poi iniziano i doppioni. I comandi delle forze dell'ordine sono provinciali quindi a Imperia: Questore, comandante dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. Ma si possono lasciare senza biglietto anche le compagnie e i commissariati sanremesi? Evidentemente no. Fino a pochi anni fa lo stesso discorso valeva per la magistratura. Ma da quando gli uffici giudiziari sono stati accorpati i biglietti omaggio vanno solo a Imperia, equamente suddivisi fra Tribunale e Procura. Per altro, e sembra essere un'usanza solo sanremese, il teatro Ariston garantisce, non solo durante il Festival, ma per tutto l'anno, palchi riservati a magistrati, polizia, carabinieri, finanza e qualche altro fortunato. Insolito? "Diciamo che da un lato ci sono gli obblighi nei confronti delle autorità e dall'altro ci sono le consuetudini" glissa elegantemente Walter Vacchino direttore dell'Ariston e membro della famiglia che ne è proprietaria da sempre. Ma se quella di Vacchino è la libera scelta di un imprenditore privato, la concessione in massa, da parte della Rai, di biglietti del Festival ai vari rappresentanti del potere di Stato è l'opzione unilaterale effettuata con quelli che alla fin fine sono sempre soldi pubblici. Per quel che riguarda poi l'opportunità dei beneficiati di accettare le regalie, è ancora un altro discorso, che meriterebbe fiumi di parole.

Dai compensi alle mazzette: su Sanremo è sempre il caos. Indagato lo scenografo. Il legale: "Nessun avviso". L'ultima polemica è stata per il cachet di Carlo Conti, scrive Laura Rio, Giovedì 2/02/2017, su "Il Giornale". Lo scenografo indagato. Il compenso esagerato. Le interviste inventate. Le polemiche che montano. Ci manca solo l’operaio che minaccia di buttarsi dal tetto dell’Ariston, e il Festival è al completo. Sì perché ogni anno, immancabilmente, nel delirio che accompagna la kermesse canora, accade di tutto. Tra notizie corrette e altre montate ad arte, è corsa ad alzare il tiro. Comunque, è di ieri l’indiscrezione, pubblicata dal quotidiano La Verità, che lo scenografo che realizza gli allestimenti del Festival, Riccardo Bocchini, sarebbe indagato in un’inchiesta relativa a tangenti nell’assegnazione di appalti in Rai. L’inchiesta che risale al 2015 (e che all’epoca era stata ampiamente resa nota) riguarda diverse produzioni della tv pubblica e ha coinvolto funzionari, dirigenti, direttori della fotografia. I reati contestati sono di associazione a delinquere, appropriazione indebita, turbativa d’asta, corruzione e concussione. Ma il diretto interessato, Bocchini, tramite il suo avvocato ha fatto sapere che «non ha ricevuto alcun avviso di garanzia», «non è stato mai ufficialmente informato di essere coinvolto in indagini» e «non ha commesso alcun illecito nei confronti della Rai». L’avvocato John R. Paladini sostiene che gli articoli de La Verità «contengono notizie distorte e diffamanti riferite al mio assistito al quale sono stati ingiustamente attribuiti fatti e circostanze del tutto inveritieri». A raccontare delle mazzette sono stati due imprenditori arrestati che sostengono di aver elargito a Bocchini compensi per ottenere assegnazioni di appalti di forniture, tra cui luci, impianti audio e telecamere. Insomma, se il fatto venisse accertato, sarebbe un grave danno per Sanremo e per la Rai. Anche perché Bocchini, che non è un dipendente della tv pubblica, ma lavora con incarichi, è un professionista che firma trasmissioni importanti, alcune condotte da Carlo Conti: non solo per la terza volta Sanremo, ma anche L’eredità, Affari tuoi, I migliori anni, Tale e quale show, Ballando con le stelle. Un uomo di fiducia che si aggiudicava molte onerose commesse. In Rai tengono a sottolineare che tutti i dirigenti o autori coinvolti in quell’inchiesta non lavorano più per la televisione pubblica, se ne sono andati o sono stati allontanati. E che il medesimo Bocchini avrebbe assicurato di essere estraneo alla vicenda. Si vedrà: la magistratura farà sapere se è o meno indagato. Il solito deputato Pd Anzaldi si chiede come mai si continui a dare così tanti appalti all’esterno e come mai non è ancora stato sostituito il responsabile Anticorruzione andato via da settimane. Non si placa poi la polemica per il compenso sul cachet del conduttore, che secondo altre indiscrezioni, ammonta a 650.000 euro. Per alcuni, tra cui Salvini e Brunetta (che ha presentato un’interrogazione), una vergogna «se si pensa come se la passano male molti italiani», per altri come Fiorello un compenso adeguato per chi fa guadagnare la Rai e si è costruito la carriera con fatica e duro lavoro. Carlo Conti si difende un po’ maldestramente dicendo che una parte del compenso la darà in beneficenza, ma bisogna ricordare che prende meno dei suoi predecessori (Bonolis arrivò al milione di euro, Morandi a 800 mila). Insomma, polemiche da Festival: l’anno scorso tenne banco il tormentone su Elton John e il possibile arrivo in coppia con il marito, tre anni fa fece scalpore lo sbarco «politico» di Beppe Grillo, nel 2013 venne fischiato Maurizio Crozza che imitava Berlusconi, in ogni edizione qualcuno si indigna per il cachet dei presentatori, e ad anni alterni si intrufolano in teatro persone che protestano per qualche cosa, per non parlare di quella volta che Pippo Baudo salvò un uomo che si voleva buttare giù dalla galleria. E si può andare indietro fino al suicidio di Tenco. Insomma, tutto già visto. Sanremo, specchio dell’odio del Paese.

Strategie di Comunicazione. Ecco le tecniche segrete usate dagli artisti per promuoversi sui media, far parlare di loro giornali e tv ed aumentare le vendite delle loro opere, scrive il 26 gennaio 2017 Michele Rampino Fondatore di ComunicatiStampa.net. (Questo articolo ha un puro scopo didattico riguardo le tecniche Pr usate dagli artisti per promuoversi e non vuole essere un giudizio sui comportamenti e sulla vita degli artisti menzionati). In questo articolo scoprirai la tecniche di pubbliche relazioni segrete che i cosiddetti “Vip” usano per promuoversi sui media, far parlare tutti di loro per rimanere sulla cresta dell’onda, e far decollare le vendite delle loro opere. Lo scorso dicembre, quasi sotto Natale, verso sera, stavo rientrando a casa in auto e stavo ascoltando il giornale radio quando all’improvviso una notizia cattura la mia attenzione: Tiziano Ferro dichiara di vivere negli Usa perché dice di volere un figlio con l’utero preso in affitto da una donna. Ora, se segui un po’ le cronache saprai che Tiziano Ferro ha dichiarato la propria omosessualità già da qualche anno ormai e, da uomo o donna di mondo quale sei, sicuramente questa cosa non ti fa più né caldo e né freddo. Saprai però che l’argomento “utero in affitto” è un tema molto caldo, che fa molto discutere sia nel nostro paese che nel resto del mondo (sono molti infatti coloro che si domandano e dibattono sul fatto se sia etico e giusto “creare” un figlio in provetta per poi farlo crescere in un utero affittato da una terza donna per la gestazione, rivendicandone infine la paternità alla nascita). Ascoltata la notizia comincio a riflettere sul fatto che, qualche giorno prima, mi pareva di aver ascoltato proprio un nuovo brano di Tiziano Ferro in radio e dato che sono del mestiere ecco che mi si accende una lampadina: “Vuoi vedere che…”.

Arrivato a casa parcheggio, prendo il cellulare, vado su Spotify (per chi non lo sapesse è un’app per ascoltare musica) per verificare il profilo di Tiziano Ferro e…bingo! Scopro che il suo ultimo album è uscito il 2 dicembre 2016, cioè solo una ventina di giorni prima della diffusione della notizia sull’utero in affitto. Sai cosa vuol dire questo?

Vuol dire che ci sono buone probabilità che la notizia controversa sul bambino da creare con l’utero in affitto è stata diffusa ad arte proprio per innescare delle polemiche e far parlare i media dell’artista. Ora, già mi pare di vedere i tuoi dubbi e le tue perplessità al riguardo ma seguimi per qualche altro minuto e ti spiegherò tutto con calma.

Rientrato a casa sono andato subito a verificare su Google i dettagli sulla notizia. Dato che l’argomento è dibattuto scopro che la dichiarazione di Tiziano Ferro, come previsto, ha creato un mare di polemiche e migliaia di articoli, oltre ad aver fatto imbestialire i “difensori della famiglia tradizionale”, con proteste, opinioni ed interviste contrastanti sui vari giornali, tv, radio e siti web. Scopro inoltre che la notizia ha avuto origine da una intervista su Vanity Fair uscita il 20 dicembre 2016, cioè solo 18 giorni dopo l’uscita dell’album. Cerco le notizie pubblicate con le parole chiave “figlio Tiziano Ferro” e mi escono fuori, dal 20 dicembre 2016 ad oggi 25 gennaio 2017, giorno in cui scrivo, ben 9.140 risultati, tra post, contenuti e notizie che online parlano dell’argomento, di cui ben 2.050 notizie pubblicate su testate giornalistiche presenti su Google News. Ti è tutto più chiaro ora? Se non lo è ti basta unire i puntini: Tiziano Ferro ha un album in uscita da promuovere, a distanza di soli 18 giorni fa uscire una intervista su Vanity Fair in cui fa delle dichiarazioni abbastanza controverse sul fatto di volere un figlio con l’utero in affitto, rispetto alle quali le reazioni erano facilmente prevedibili e….boom! Migliaia e migliaia di articoli, servizi radio e tv e post su internet che parlano di Tiziano Ferro. Facendo ricerche su Ferro scopro un’altra chicca che lo riguarda: il 6 gennaio 2017 il cantante diffonde la notizia, tramite Sky, che “si vuole sposare”, ed eccoti servito un altro bello argomento “hot” in grado di far discutere i media e far parlare mezzo paese di lui e delle sue scelte. Sono ben 4.640 gli articoli creati dal 6 al 25 gennaio, di cui ben 816 notizie presenti su Google News: un numero minore di articoli rispetto alla precedente notizia, perché ormai l’argomento “matrimonio gay” non fa più notizia come in precedenza visto che è diventata quasi una cosa comune, ma comunque un numero sempre importante, che ha continuato a tenere alta l’attenzione sull’artista. Se sei scettico sul fatto che siano tutte apparizioni mediatiche studiate ad arte per far parlare dell’artista, un particolare che dovrebbe farti riflettere è questo: Tiziano Ferro è single, per sua stessa dichiarazione. A che pro quindi la dichiarazione sullo sposarsi se non ha nemmeno un compagno?

Una dichiarazione anomala se ci rifletti bene, giustificata a rigor di logica da un solo obiettivo: parlare e far parlare di lui, ben sapendo che la cosa avrebbe tenuto accesi i riflettori sulla sua persona, guarda caso in un periodo in cui è appena uscito il disco. Se poi cerchi ancora notizie su Ferro vedrai altre notizie di gossip di una sua eventuale partecipazione a Sanremo come co-conduttore: in realtà è stato confermato che parteciperà come super ospite, altro evento che gli darà visibilità e che sta facendo e farà parlare di lui ancora per un po’. Insomma, a ben guardare pare proprio una scaletta ben studiata di dichiarazioni ed eventi lanciati ad arte per tenere sempre ben in vista l’artista nel periodo di promozione del disco. E attenzione: non sto mettendo in dubbio la veridicità delle cose dette da Tiziano Ferro. Sarà senza dubbio tutto vero quanto da lui affermato e senz’altro ci crederà al fatto di volere un figlio e di volersi sposare. Quello che sto dicendo è che ha detto e fatto cose, sulla cui veridicità ripeto non pongo dubbi, ben sapendo che avrebbero fatto parlare i media e fatto discutere di lui le persone di mezzo mondo (perché Ferro è molto famoso anche all’estero) con una scaletta di dichiarazioni e presenze ben studiata e precisa, in un periodo in cui ha bisogno di visibilità per la promozione dell’album.

Gli addetti stampa, i Pr, gli artisti più famosi e tutti gli addetti del settore conoscono molto bene queste tecniche di comunicazione. o pubbliche relazioni se preferisci, e concordano strategicamente con gli stessi artisti cosa dire e quando dirlo, con lo scopo di metterli sotto i riflettori e portarli all’attenzione del grande pubblico. Chi lavora in un ufficio stampa o nelle Pr in genere ha il preciso compito di stimolare i giornali, le tv ed il web a parlare del proprio cliente, perché nell’ambiente tutti sanno bene che più si parla sui media dell’artista e più aumentano le vendite. Questo perché la visibilità ottenuta sui media equivale ad una enorme pubblicità gratuita su centinaia di siti web, giornali, tv e radio e solitamente più è grande la polemica e più spazio le viene dedicata. E più visibilità e apparizioni sui media ottengono gli artisti e più diventano famosi, e più diventano famosi più vendite delle loro opere ottengono. Il principio della visibilità è lo stesso che fa impennare le vendite di libri e dischi alla notizia della morte di un’artista (e anche delle opere d’arte, ma qui entra in gioco anche la speculazione di quanti sperano in un valore futuro maggiore delle opere): le vendite aumentano semplicemente perché tutti i media stanno parlando di quell’artista e grazie all’ enorme visibilità molti vengono stuzzicati nella curiosità e sono portati a comprare qualcosa dell’artista di cui tutti parlano, un cd o un libro o anche solo il download di una canzone, per saperne qualcosa in più di più di lui e per conoscerlo meglio. Ricapitolando:

Più visibilità sui media = più notorietà = più vendite. Chiaro il concetto? La prossima volta che ti capita di vedere polemiche che coinvolgono artisti o professionisti facci caso, quasi sempre c’è di mezzo un’opera, un libro, un film o un album appena usciti da promuovere. Questo accade perché nell’animo umano alberga una profonda curiosità, che ci porta ad esempio a fermarci per strada per vedere due che si azzuffano. La stessa curiosità che ti fa fermare il dito durante lo zapping Tv per vedere 2 tizi che litigano o discutono animatamente. Ecco perché quasi sempre sui media trovi polemiche su tutto: le liti e le polemiche alzano gli ascolti perché attirano attenzione e sono capaci di distoglierti dalle tue cose, mettendo sotto i riflettori i protagonisti della zuffa. Calcola poi che dalle polemiche hanno tutti da guadagnarci: le tv ed i giornali producono “intrattenimento” guadagnando in cambio attenzione, visualizzazioni e click per le loro pubblicità, i lettori e gli spettatori si divertono dando sfogo alla loro curiosità ed i protagonisti della polemica ottengono pubblicità gratuita per sè e le loro opere.

Guarda caso digitando la parola “cantante” in Google News oggi vuoi sapere cosa mi compare? Tutti stanno parlando di un cantante turco che dichiara di essere il padre di Adele. Guardacaso…Che sia vero o meno i giornali di mezzo mondo stanno parlando di questo sconosciuto cantante turco, e puoi scommetterci la testa che da domani le sue quotazioni, vendite e cachet subiranno un’impennata. Capito ora come funziona il circo mediatico? Spero ora ti sia tutto più chiaro su come fanno i cosiddetti “Vip” a promuoversi gratuitamente sui giornali ed in tv. Se anche tu vuoi promuoverti sui media e vuoi che i giornali parlino di te devi lanciare una notizia che “strategicamente” sia impattante e che ti faccia uscire dall’anonimato, innalzandoti dal solito chiacchiericcio e torpore quotidiano. Devi fare, scrivere o dire qualcosa di importante che faccia saltare i giornalisti sulla sedia e farli venir voglia di contattarti per scrivere un pezzo su di te. Come già ti suggerivo in questo precedente articolo sulle alcune strategie di Pr che potrebbero esserti utili. Se credi però di essere un artista “puro” e non ti va di promuoverti con queste tecniche ti dico solo una cosa: purtroppo oggi funziona così. Non basta solo la bravura. Oltre al talento se vuoi sfondare devi saperti promuovere nel modo giusto perché hai bisogno di visibilità. E devi essere bravo a farti vedere e notare dai media, dal pubblico e dalle persone che contano. Il mondo è pieno di artisti famosi, bravissimi a pubblicizzarsi ed a mettersi in luce, ma magari molto meno talentuosi rispetto ad altri meno famosi. Oggi ti ho preso ad esempio Ferro ma se vai a ben vedere quasi tutti sono famosi perché sanno padroneggiare queste tecniche e sono bravi a far parlare i media di loro.

Il mondo è pieno di artisti anonimi molto più bravi dei cosiddetti “Vip” ma che purtroppo nessuno conosce perché non hanno saputo e non sanno pubblicizzarsi nel giusto modo. Il mondo è pieno di talenti anonimi, che continuano a sperare nel buio delle loro camere, ma che non sanno come fare a sfondare ed avere il tanto sognato successo.

La carica degli indipendenti: "Noi non ci Sanremo". Incidono dischi. Fanno tournée. Riempiono club, teatri lirici, palazzi dello sport. Ma il Festival della canzone italiana li ignora. Ecco chi sono e come vivono i protagonisti della nuova scena musicale, tra rock, pop e canzone d'autore, scrive Emanuele Coen il 30 gennaio 2017. Una band rock con strumenti elettrici per la prima volta al Teatro San Carlo, a Napoli, tempio della musica lirica. Dentro tutto esaurito, fuori in centinaia senza biglietto. Stessa scena qualche giorno dopo davanti a Castel Sant’Elmo. Nella città partenopea sono i Foja a raccogliere i maggiori consensi dal vivo, mentre Calcutta, 27enne cantautore cresciuto a Latina, dopo 110 concerti ha dovuto fare il bis a Roma per accontentare i fan della hit “Oroscopo”, già disco d’oro. E intanto la band pop italiana rivelazione dello scorso anno, i romani Thegiornalisti, dopo aver suonato in tutta Italia sono pronti a esibirsi, a maggio, nei palazzetti dello sport nella capitale e a Milano. Da Catania a Torino le band rock, i gruppi pop, i rapper e i cantautori della nuova musica italiana riempiono club, centri sociali e palasport. Hanno nomi strani e autoironici - Lo Stato Sociale, I Cani, Brunori Sas, Pop X, Iosonouncane - e mescolano stili, sonorità e linguaggi molto diversi tra loro. Ma condividono un punto forte: sono usciti allo scoperto e riescono a infiltrarsi nei palinsesti delle radio commerciali, vendono dischi e t-shirt, fanno capolino in tv, milioni di visualizzazioni su YouTube e il pieno di streaming su Spotify. Senza essere stati lanciati da una major o da un talent show. Eppure per il Festival di Sanremo (7-11 febbraio su Rai1) restano perfetti sconosciuti, invisibili, tanto che il padre della scena musicale “indie” italiana, Giordano Sangiorgi, patron dello storico Meeting degli indipendenti (meiweb.it) a Faenza, vicino a Ravenna, ha rivolto un appello al direttore artistico Carlo Conti. «Compia un atto di grande innovazione e inviti gli artisti indipendenti che stanno costruendo la nuova scena musicale italiana come ospiti al prossimo Sanremo, rompendo così quegli equilibri da manuale Cencelli. Il mio è un suggerimento, non una critica», ha detto. Da vent’anni il Mei è palcoscenico per le band emergenti e osservatorio per la stampa specializzata: per la prossima edizione (29 settembre - 1 ottobre) sono attesi decine di giornalisti e 400 gruppi, che si alterneranno su trenta palchi per tre giorni no-stop, tra conferenze, live show, premiazioni. «La vitalità della nuova musica italiana segna la vittoria del modello produttivo indipendente che oggi si ritrova al Mei», continua Sangiorgi: «Se negli ultimi vent’anni ci fossero state solo le grandi case discografiche e i talent show, non avremmo mai conosciuto tanti artisti di valore che oggi hanno successo, investendo un centesimo dei soldi spesi negli spettacoli televisivi». Universi distanti, fino all’altro ieri inconciliabili: da un lato l’indie dall’altro il mainstream, la cultura di massa. Un tempo bastava che una band del circuito indipendente firmasse un contratto con una major per giocarsi per sempre la fiducia dei fan. Per accorgersi che l’aria è cambiata bisogna scavare un po’ e fare due chiacchiere con i protagonisti della nuova onda musicale tricolore. Motta, 30 anni, canta, suona chitarra, basso, batteria e tastiere, scrive testi. Cresciuto a Pisa, ora abita a Roma e macina un concerto dietro l’altro, al Mei 2016 lo hanno premiato come miglior artista emergente, ha incassato il Premio Tenco per la miglior opera prima con l’album “La fine dei vent’anni” (Sugar) prodotto dal cantautore Riccardo Sinigallia, uno dei più apprezzati discografici italiani. Un racconto tra pop e canzone d’autore sulla scoperta dell’età adulta, affresco ironico e disincantato sul rapporto tra le generazioni. «Mio padre era un comunista / e adesso colleziona cose strane / dice che le amicizie e la rivolta sono vere / solo per chi ha paura e rimane», canta nel brano “Mio padre era un comunista”. «A me la parola indipendente non piace, non ne vedo l’utilità. E non credo che le grandi etichette condizionino le scelte degli artisti», dice Motta. «Negli ultimi anni molte cose sono cambiate. Ora, per fortuna, tanti ragazzi scrivono in italiano, c’è un bel lavoro sui testi. All’inizio, dieci anni fa, anche io scrivevo le mie canzoni in inglese, ma né io né il pubblico capivamo le parole. L’altra grande novità è la voglia di mettere da parte la vergogna e raccontare la propria fragilità». I frammenti autobiografici si accavallano anche nei testi di un altro cantautore: Cosmo. Nome d’arte di Marco Jacopo Bianchi, 34 anni, che dopo aver lasciato la cattedra di italiano e storia in un istituto professionale della sua città, Ivrea, da quasi un anno gira la Penisola per promuovere l’album “L’ultima festa”, che è anche il titolo della canzone che ha totalizzato oltre un milione di streaming su Spotify. Sonorità elettroniche, lunghe fughe strumentali che riecheggiano le vibrazioni dei Subsonica, piemontesi come lui, tanta voglia di divertirsi e far ballare il pubblico ma anche un filo sottile di malinconia che attraversa brani come “Regata 70”. «Nei cassetti in ogni stanza / nei carrelli della Standa / in una Fiat Regata bianca, perché / Era lì, proprio lì a metà degli anni ’80. / E non so dov’è che l’ho perduto. Era un sogno, un miracolo, un errore. / Un destino che non voglio rinnegare. / Eri tu, travestita da mia madre», canta Cosmo, che concluderà il tour di quasi 100 date con un concerto a Ivrea il 24 febbraio, in occasione del Carnevale. Per la copertina del disco ha scelto una foto in bianco e nero che ritrae sua madre Barbara a 16 anni, nel 1977, mentre il booklet del cd e l’interno del vinile contengono vecchie immagini di famiglia. «Sono un vulcano con un sottofondo di malinconia. Per me il riferimento al passato non è uno spunto nostalgico ma un modo per guardarmi dentro», sottolinea il cantautore, che tra i suoi riferimenti musicali cita Brian Eno e il compositore americano Steve Reich, padre del minimalismo. Cosmo è distante anni luce dal Teatro Ariston: «A me non interessa andare a Sanremo, non serve nel mio percorso. Ma non perché sono indie, sporco e cattivo: secondo me è un evento musicale vecchio stampo, che andrebbe cambiato radicalmente». Vista con le lenti di ieri, la realtà di oggi risulta terribilmente sfocata. Certo, le etichette indipendenti esistono ancora e producono i nuovi cantautori. Quelle di vent’anni fa si chiamavano Consorzio Produttori Indipendenti, Materiali Sonori, Vox Pop, Mescal (quella di Afterhours, Subsonica, Carmen Consoli). Sono sopravvissute in poche, ma negli ultimi anni ne sono nate tante altre che adesso innovano la musica italiana: Bomba Dischi e 42 Records a Roma, Garrincha Dischi a Bologna, Woodworm ad Arezzo, Full Heads a Napoli. L’approccio della nuova generazione di cantautori, tuttavia, è profondamente diverso da quello degli anni Novanta. All’epoca andavano fieri della loro diversità rispetto alla musica pop trasmessa dalle radio commerciali, oggi Calcutta intitola il suo album “Mainstream” e ingarbuglia le carte. «Quando il disco è uscito non pensavo di arrivare così lontano, il titolo l’ho scelto perché suonava bene, così come il mio nome Calcutta. Se l’avessi saputo prima il disco l’avrei chiamato, che so, “L’alba dei ciliegi”», scherza Edoardo D’Erme, che oggi abita a Bologna e spopola con canzoni come “Gaetano” («E ho fatto una svastica in centro a Bologna / Ma era solo per litigare / Non volevo far festa e mi serviva un pretesto») e “Frosinone” (Non ho lavato i piatti con lo Svelto e questa è la mia libertà / Ti chiedo scusa se non è lo stesso di tanti anni fa / Leggo il giornale e c’è Papa Francesco / E il Frosinone in Serie A»). Un’ironia che piace ai fan, spiazza, ma non convince i detrattori, piuttosto numerosi. Ad esempio Manuel Agnelli, leader degli Afterhours e giudice del talent show XFactor, in una recente intervista al Fatto Quotidiano ha sparato a zero contro i nuovi cantautori. «L’emblema della debolezza di questa generazione è la sua incapacità di spazzarci via. Aspettavo da anni qualcuno che ci riuscisse: “Spazzateci via invece di criticarci - mi dicevo - spazzateci via con la forza che avete, cambiate le cose, non lasciateci spazio, soffocateci, cancellateci”». Secca la replica di Calcutta: «Non voglio spazzare via Manuel Agnelli, semplicemente perché non lo conosco. Sono felice che faccia concerti a 50 anni, ma voglio percepirmi in un mondo abbastanza grande da poterci ignorare reciprocamente», dice il cantautore: «Non ho mai ascoltato gli Afterhours, non fanno parte del mio background. Quando andavo a scuola, Afterhours e Marlene Kuntz erano sinonimo di omologazione. Io ero diverso: ascoltavo musica internazionale, francese, africana». Sul conflitto tra generazioni, le differenze tra passato e presente, dice la sua anche Dario Sansone, 35 anni, frontman dei Foja, alla vigilia del nuovo tour. «Ho sempre ascoltato storie di musicisti napoletani degli anni Ottanta che in apparenza si stimavano ma in realtà non si sopportavano. Oggi, appena avuto un po’ di bene, abbiamo provato a condividerlo con tutti. Quando facciamo un concerto ci sono almeno dieci ospiti», spiega Sansone, musicista ma anche disegnatore e regista di film d’animazione. I Foja hanno appena pubblicato l’album “O treno che va” con la canzone “Cagnasse tutto”, energica miscela di rock, folk e canzone d’autore napoletana, ospiti alcuni big che guardano con interesse alla scena musicale emergente: Ghigo Renzulli, Edoardo Bennato e Daniele Sepe. Il quartier generale del gruppo si trova a Palazzo Pandola, in piazza del Gesù Nuovo a Napoli, dove fu girato il film “Matrimonio all’italiana” di Vittorio De Sica. In questo edificio settecentesco si trova una vera factory creativa: al primo piano la giovane casa discografica Full Heads, punto di riferimento per i nuovi musicisti partenopei, al secondo la Mad Entertainment, studio di animazioni digitali che ha prodotto il film “L’arte della felicità” di Alessandro Rak. Il regista ha realizzato anche il videoclip di “’O sciore e ’o viento” (un milione e mezzo di visualizzazioni su YouTube) dei Foja. «Sembra che l’indie oggi stia diventando il nuovo mainstream. Penso che Calcutta sia un cantore del suo tempo: lui, Thegiornalisti e The Zen Circus vanno ospiti in tv a “Quelli che il calcio”. Semplicemente perché oggi c’è un nuovo pubblico. Dieci anni fa ai nostri concerti venivano 100 persone, oggi seimila», prosegue Sansone. Se oggi i talent show apparentemente sembrano l’unica via per raggiungere il successo e i discografici fanno a gara per reclutare i personaggi che si distinguono in tv, l’altra musica si fa strada in mille modi per conquistare quel nuovo pubblico. Egreen, nome d’arte di Nicholas Fantini, si è affidato alla piattaforma di crowdfunding Musicraiser. Nato a Bogotà 32 anni fa da padre italiano e madre colombiana, oggi il rapper abita a Busto Arsizio e gira l’Italia con i suoi concerti. Sul web ha raccolto dai seguaci quasi 70mila euro, cifra record per l’Italia, con cui ha prodotto il suo secondo disco ufficiale “Beats & Hate”, andato letteralmente a ruba. Tra gli emergenti di grande talento c’è chi riscopre le origini come il cantautore napoletano Giovanni Block, che nel secondo album “S.P.O.T (senza perdere ’o tiempo)” abbraccia il vernacolo della sua città (Napoli) e fa pensare a Pino Daniele, come nella canzone “Adda venì Baffone”, e c’è chi resta invece nel solco del rock come la triestina Chiara Vidonis al debutto con “Tutto il resto non so dove”, undici brani tutti scritti da lei. E chi infine, come il romano Lucio Leoni, nel suo primo album “Lorem Ipsum” unisce teatro e canzone popolare, rock, improvvisazione strumentale e rap metropolitano. Come nella canzone “A me mi”, una sorta di manifesto generazionale sempre in bilico tra commedia e tragedia. «La mia generazione è incompresa, la mia generazione è morta, la mia generazione è stanca, la mia generazione è finita / Perché, dati Istat alla mano, è compresa nella forchetta temporale che porta dal boom economico immaginario degli anni Ottanta fino alla crisi economica devastante e questa volta reale, degli anni Dieci». Lucio Leoni ci scherza su ma, almeno dal punto di vista musicale, la sua generazione è più viva che mai.

C'ERA UNA VOLTA...CAROSELLO.

Carosello, in 20 dvd la storia (e gli slogan) di un programma simbolo, scrive “La Repubblica” l’1 febbraio 2017. Sessant'anni fa, il 3 febbraio 1957, andava in onda per la prima volta un programma fatto solo di spot. Erano dei mini-film, scritti e recitati con grande impegno. Con l’arrivo dei primi volti noti della tv, Carosello entrò nelle abitudini degli italiani, fino a boom incredibili di popolarità e gradimento assoluto. Più che un programma, un'istituzione. Finì il giorno di Capodanno del 1977, dopo essere andato in onda 7261 volte. Da domani Repubblica e l’Espresso propongono il primo di una serie di venti dvd (a 8.90 euro oltre al prezzo del giornale) che ripercorrono la storia del programma-simbolo. Un’opera ampia, introdotta in ogni capitolo da un protagonista d’epoca, con una carrellata di personaggi, tormentoni e slogan entrati nella leggenda.

Carosello, formidabili quegli anni: in 20 dvd il programma-simbolo della nostra storia, scrive Antonio Dipollina su "La Repubblica" il 02 febbraio 2017. Sessant'anni fa, il 3 febbraio del 1957, Carosello entrava per la prima volta nelle nostre case. Oggi con Repubblica e l'Espresso una raccolta che lo fa rivivere. I personaggi più amati, le canzoni, gli slogan-tormentone. E i ricordi di personaggi celebri da Arbore a Bruno Bozzetto. Sessant'anni fa esatti, il 3 febbraio 1957: la immagini sgranate dei – non molti - televisori mandano per la prima volta un programma fatto solo di spot pubblicitari. Lunghi, costruiti, scritti e recitati con grande impegno. Con l’arrivo dei primi volti noti della tv, Carosello andava a fissarsi nelle abitudini degli italiani, fino a boom incredibili di popolarità e gradimento assoluto – a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, soprattutto. Non era un programma, era un’istituzione, mai abbastanza rimpianta, impossibile da riproporre in tempi attuali – e ci hanno provato, almeno un paio di volte. Niente da fare, un Carosello, c’è solo un Carosello. Che chiuse il giorno di Capodanno del 1977, dopo essere andato in onda 7261 volte. Repubblica e l’Espresso da domani propongono in allegato il primo di una serie di venti dvd (a 8.90 euro oltre al prezzo del giornale) che ripercorrono la storia del programma-simbolo. Un’opera ampia, introdotta in ogni capitolo da un protagonista d’epoca – domani tocca a Renzo Arbore, si prosegue con Bruno Bozzetto e tanti altri – e che segue un andamento non cronologico ma per grandi temi. Per esempio l’uscita di domani si intitola I protagonisti ed è una strepitosa carrellata di personaggi con annessi tormentoni e slogan entrati nella leggenda. Per capirsi, si va dall’Ispettore Rock che non sbagliava mai se non nel mancato uso della brillantina a Topo Gigio, da Virna Lisi che poteva dire quello che voleva con quella bocca e il dentifricio annesso – slogan di Marcello Marchesi – alla Linea di Cavandoli, al cowboy Gringo. Dentro Carosello funzionava tutto, vuoi per il fior fiore di professionisti che vi si dedicavano – per cambiare il linguaggio della tv e della pubblicità, certo, ma anche e soprattutto per i budget da favola che il boom economico permetteva – sia perché la visione del medesimo era collettiva davvero, comprendeva il 100 per cento dei televisori accesi, univa grandi e piccini, questi ultimi invitati, anche qui come da slogan, a recarsi tosto verso le coperte appena finita la visione di Carosello. La nostalgia è di moda da un pezzo, ci sarà un motivo ed è meglio cercarlo nell’incrocio irripetibile di tempi, di spirito dei medesimi, slancio economico e nel lavoro per tutti, utopie tutte da coltivare e ancora intatte. Con Carosello si andava poi nettamente sul pratico: accompagnava l’industria che impiegava milioni di lavoratori, forniva suggestioni e consigli per gli acquisti – che non si chiamavano ancora così – mentre là fuori l’economia medesima e l’innovazione del pagamento rateale allargato a dismisura permettevano ogni sogno materiale possibile. Come detto, i big del teatro, del cinema, della musica e della tv medesima accorrevano: la pubblicità diventava un genere a parte e rafforzava la popolarità dei protagonisti. Le menti migliori si mettevano all’opera, i registi di rango idem compresi Fellini, Pasolini, Sergio Leone, i maghi dell’animazione fondarono un genere e crearono personaggi indimenticabili. Se esiste la distopia, ovvero disegnare il futuro come un incubo, qui siamo esattamente all’opposto: ovvero ricordare il passato come un paradiso. Carosello è al centro di questo sogno all’indietro, basta buttare lì un mezzo slogan – purché l’interlocutore sia intorno ai cinquanta – e si ottiene subito la risposta, il proseguimento, il rimando ad altre frasi celebri e via con un trivial in cui si finisce spesso per chiedere come si chiamava l’attore dell’ispettore Rock. Oggi si risolve in pochi secondi con Wikipedia, ripercorrere l’epopea di Carosello serve anche a recuperare quella benefica lentezza che faceva crescere e andare a dormire tranquilli come mai sarebbe più accaduto.

L’ITALIA DELL’ACCOZZAGLIA RESTAURATRICE. TUTTI CONTRO UNO.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Pubblichiamo il testo integrale del discorso che il premier Matteo Renzi ha fatto a Palazzo Chigi la sera del 4 dicembre 2016, dopo la vittoria dei No al referendum sulla riforma costituzionale voluta dal suo governo. «Oggi il popolo italiano ha parlato, ha parlato in modo inequivocabile. Ha scelto in modo chiaro e netto e credo che sia stata una grande festa per la democrazia. Le percentuali di affluenza sono state superiori a tutte le attese. È stata una festa che si è svolta in un contesto segnato da qualche polemica in campagna elettorale, ma in cui tanti cittadini si sono riavvicinati alla Carta costituzionale, al manuale delle regole del gioco, e credo che questo sia molto bello, importante e significativo. Sono orgoglioso dell’opportunità che il Parlamento, su iniziativa del governo, ha dato ai cittadini di esprimersi nel merito della riforma. Viva l’Italia che non sta alla finestra ma sceglie. Viva l’Italia che partecipa e che decide. Viva l’Italia che crede nella politica. Il No ha vinto in modo netto, ai leader del fronte del No vanno le mie congratulazioni e il mio augurio di buon lavoro nell’interesse del Paese, dell’Italia e degli italiani. Questo voto consegna ai leader del fronte del No oneri e onori insieme alla grande responsabilità di cominciare dalla proposta, credo innanzitutto dalla proposta delle regole, della legge elettorale. Tocca a chi ha vinto, infatti, avanzare per primo proposte serie, concrete e credibili. Agli amici del Sì, che hanno condiviso il sogno di questa riforma, una campagna elettorale emozionante, vorrei consegnare un abbraccio forte, affettuoso, vorrei uno per uno. Ci abbiamo provato, abbiamo dato agli italiani una chance di cambiamento semplice e chiara. Ma non ce l’abbiamo fatta, non siamo riusciti a convincere la maggioranza dei nostri concittadini; abbiamo ottenuto milioni di voti, ma questi milioni di voti sono impressionanti ma insufficienti. Volevamo vincere, non partecipare e allora mi assumo tutte le responsabilità della sconfitta e dico agli amici del Sì che ho perso io, non voi. Chi lotta per un’idea non può perdere. Voi avevate un’idea meravigliosa, in particolare in questa stagione della vita politica europea. Volevate riavvicinare i cittadini alla cosa pubblica, combattere il populismo, semplificare il sistema e rendere più vicini cittadini e imprese. Avete fatto una campagna elettorale casa per casa, a vostre spese, senza avere nulla da chiedere ma solo da dare. Per questo voi non avete perso. Stasera andando a risposare o domani andando a lavorare sentitevi soddisfatti dell’impegno, della passione, delle idee. Intendiamoci, c’è rabbia, c’è delusione, amarezza e tristezza ma vorrei foste fieri di voi stessi. Fare politica andando contro qualcuno è molto facile, fare politica per qualcosa è più difficile ma più bello. Siate orgogliosi di questa bellezza. Non smettete mai di pensare che si fa politica pensando che si fa politica per i propri figli e non per le alchimie dei gruppi dirigenti. Arriverà un giorno in cui tornerete a festeggiare una vittoria e quel giorno vi ricorderete delle lacrime di questa notte. Si può perdere il referendum ma non si può perdere il buonumore. Si può perdere una battaglia ma non la fiducia che questo è il Paese più bello del mondo e quella bandiera rappresenta gli ideali di civiltà, educazione e bellezza che ci fanno grandi e orgogliosi della nostra civiltà. Io invece ho perso. Nella politica italiana non perde mai nessuno, non vincono ma non perde mai nessuno. Dopo ogni elezione resta tutto com’è. Io sono diverso, ho perso e lo dico a voce alta, anche se con il nodo in gola. Perché non siamo robot. Non sono riuscito a portarvi alla vittoria. Vi prego di credermi quando vi dico che veramente ho fatto tutto quello che penso si potesse fare in questa fase. Io non credo che la politica sia il numero inaccettabile di politici che abbiamo in Italia. Io non credo che si possa continuare in un sistema in cui l’autoreferenzialità della cosa pubblica è criticata per decenni da tutti e poi al momento opportuno non venga cambiata. Ma credo nella democrazia e per questo quando uno perde non fa finta di nulla, fischiettando e andandosene sperando che tutto passi in fretta nella nottata. Credo nell’Italia è per questo credo sia doveroso cambiarla. Nei mille gironi e nelle mille notti passati in questo palazzo ne ho viste le possibilità straordinari, uniche al mondo. Ma perché queste possibilità si realizzino, le uniche chance che abbiamo è scattare, non galleggiare, è credere nel futuro, non vivacchiare. La democrazia italiana di oggi si basa su un sistema parlamentare. Quando abbiamo chiesto la fiducia abbiamo chiesto di semplificare il sistema, di eliminare il bicameralismo, abbassare i costi della politica, allargare gli spazi di democrazia diretta. Questa riforma è quella che abbiamo portato al voto. Non siamo stati convincenti, mi dispiace, però andiamo via senza rimorsi, perché se vince la democrazia e vince il no, è anche vero che abbiamo combattuto la buona battaglia con convinzione e passione. Come era evidente e scontato dal primo giorno, l’esperienza del mio governo finisce qui. Credo che per cambiare questo sistema politico in cui i leader sono sempre gli stessi e si scambiano gli incarichi ma non cambiano il Paese, non si possa far finta che tutti rimangano incollati alle proprie consuetudini prima ancora che alle proprie poltrone. Volevo cancellare le troppe poltrone della politica: il Senato, le Province, il Cnel. Non ce l’ho fatta e allora la poltrona che salta è la mia. Domani pomeriggio riunirò il Consiglio dei ministri, ringrazierò i miei colleghi per la straordinaria avventura, una squadra coesa, forte e compatta, e salirò al Quirinale dove al presidente della Repubblica consegnerò le mie dimissioni. Tutto il Paese sa di poter contare su una guida autorevole e salda quale quella del Presidente Mattarella. In questi giorni il governo sarà al lavoro per completare l’iter di una buona legge di Stabilità, che deve essere approvata al Senato e per assicurare il massimo impegno ai territori colpiti dal terremoto. Lasceremo a chi prenderà il nostro posto il prezioso progetto di Casa Italia. Come sapete vengo dall’associazionismo, dal mondo scout e il fondatore dello scoutismo, Baden-Powell, diceva che bisogna lasciare i posti meglio di come si sono trovati. Lasciamo la guida dell’Italia con un Paese che passato dal -2% al +1% di crescita del Pil, che ha 600mila occupati in più con una legge, quella sul mercato del lavoro, che era attesa da anni, con un export che cresce e un deficit che cala. Lasciamo la guida del Paese con un’Italia che ha finalmente una legge sul terzo settore, sul dopo di noi, sulla cooperazione internazionale, sulla sicurezza stradale, sulle dimissioni in bianche, sull’autismo, sulle unioni civili. Una legge contro lo spreco alimentare, contro il caporalato, contro i reati ambientali. Sono leggi con l’anima, quelle di cui si è parlato di meno ma a cui tengo di più. Lasciamo infine l’Italia con un 2017 in cui saremo protagonisti in Europa a marzo con l’appuntamento di Roma per i sessant’anni dell’Unione. Saremo protagonisti a Taormina a maggio per il G7. Saremo protagonisti con la presidenza de consiglio di sicurezza dell’Onu a novembre. Aver vinto le sfide organizzative dell’Expo e del Giubileo non è merito del governo am di una struttura straordinaria di professionisti a cui va la mia rinnovata gratitudine. In particolar modo alle Forze dell’Ordine e alle Forze Armate di questo Paese che ho imparato a conoscere per una dedizione e una professionalità straordinaria alla bandiera e al Paese. Davvero grazie. In questa sala, infine, attenderò di salutare con amicizia istituzionale e con un grande sorriso e un abbraccio il mio successore, chiunque egli sarà. Gli consegnerò la campanella simbolo della guida del governo e tutto il lungo dossier delle cose fatte e da fare. Grazie ad Agnese per aver sopportato la fatica di mille giorni e grazie per come ha splendidamente rappresentato il nostro Paese. Grazie ai miei figli e grazie anche a tutti voi, anche se ringraziare i giornalisti alla fine è quasi una cosa impossibile. Sono stati mille giorni che sono volati, ora per me è il tempo di rimettersi in cammino, ma vi chiedo nell’era della post-verità, nell’era in cui in tanti nascondo quella che è la realtà dei fatti, di essere fedeli e degni interpreti della missione importante che voi avete e per la vostra laica vocazione. Viva l’Italia, in bocca al lupo a tutti noi. 

GLI ITALIANI...FANTOZZI!

«Fantozzi, è lei? No, siete voi»: Paolo Villaggio racconta il suo ragioniere. Sfortunato. Umiliato. Ma consolatorio. Da mezzo secolo, il 99 per cento degli italiani si riconosce in lui. Un nuovo documentario ripercorre uno dei personaggi più amati del nostro cinema. E il suo inventore ne racconta qui storia e stranezze. Di Paolo Villaggio a cura di Mario Sesti l'1 dicembre 2016 su “L’Espresso”. Ugo Fantozzi sta per compiere 50 anni: il personaggio debutta nella trasmissione radiofonica “Il sabato del Villaggio”, nel ’67. Il ritratto che pubblichiamo è un’anticipazione da “La voce di Fantozzi”, documentario di Mario Sesti con testimonianze di Roberto Benigni, Renzo Arbore, Neri Parenti, Lino Banfi e l’ultima intervista a Dario Fo. Io sono esattamente l’opposto di Fantozzi. Cioè: ho avuto fortuna nella vita, successo con le donne (poco ma, insomma, molto vitalizzante: mi ha reso felice). Per il resto, in realtà, non credo di essermi ispirato a nessuno. Ho creato un personaggio perché piacesse al pubblico, il che forse è l’obiettivo fondamentale di ogni impresa del genere. Se sono una persona riuscita nella vita, io ci sono riuscito grazie a un personaggio che non ci è riuscito assolutamente.

Cosa vuol dire fantozziano? È Paolo Villaggio a spiegarcelo in un'anticipazione del documentario "La voce di Fantozzi" curato da Mario Sesti: un racconto di una delle icone della cultura popolare del dopoguerra che vivrà delle testimonianze di registi, scrittori e intellettuali. Nelle parole dell'attore genovese, l'orgoglio per aver dato vita a un personaggio «amabile e simpatico», ma anche perseguitato dalla cattiva sorte. Ed è nella sua sfortuna che il pubblico si riconosce.

«Esattamente non ricordo il giorno, l’ora, l’anno in cui nasce Fantozzi. Nasce a bocconcini, a pezzetti. La cosa più importante è che ha una caratteristica: è sfortunato, è infelice, non è riuscito nella vita, ha una moglie che sembra una rana, una figlia che sembra una scimmia e tutto naturalmente è esagerato, perché l’esagerazione è convincente, è comica, fa ridere. L’idea di base era la possibilità di usare questo personaggio che nasce con la caratteristica fondamentale di non riuscire nella vita. La sua comicità ha qualcosa in comune al 99 per cento degli italiani e quindi è fondamentalmente un personaggio che conforta: non siamo tutti fortunati, anzi, siamo quasi tutti convinti di essere molto sfortunati. Fantozzi non ha fortuna nella vita: il 99 per cento dei lettori, quelli che lo amano, trovano in lui un personaggio consolatorio, perché siamo più o meno “molto” tutti Fantozzi, molto sfortunati, e cerchiamo di sopravvivere, di essere felici lo stesso. Io trovo che Fantozzi abbia una caratteristica particolare: che è molto molto molto simpatico. Non è aggressivo. È uno che non ce l’ha fatta nella vita, ma il fatto di non farcela gli dà la possibilità di sentirsi normale. Fantozzi è un uomo normale perché è sfortunato, perché non è riuscito nella vita, ma i “riusciti” non sono simpatici, anzi alcuni di loro fingono di essere persone sfortunate, ma felici. Ma in realtà sono dei personaggi molto, ma molto fortunati, e quindi, spesso, altrettanto infelici. All’inizio lo pensavo con qualcuno che doveva avere queste caratteristiche: essere povero, affamato e con una gran voglia di fare una vita normale. Questo è Fantozzi: la cosa che lo rende più tranquillo è «allora sono come tutti». E quindi sono abbastanza normale. Uno dei primi pezzi, se non proprio il primo, era una cosa tipo “Fantozzi va a votare”. In un periodo di elezioni, Fantozzi si trovava a disagio ed era costretto a votare per quello che gli consigliavano degli amici potenti. Gli amici potenti non erano amici, ma erano i suoi padroni. I vari capi che lui ha incontrato nella sua vita gli hanno imposto un comportamento non vero, ma lui era costretto a pensare e a dire cose che pensavano i suoi capi per trovare un po’ di simpatia, di comprensione. Non sa esattamente cosa vuol dire essere di sinistra o di destra, lui segue la corrente. Se i superiori sono di destra lui cerca disperatamente di fingere di essere di destra. In realtà è vero il contrario ma fa di tutto per mascherare il fatto di essere diverso rispetto al capo ufficio. Non è mai sincero: è sempre alla ricerca di qualche stratagemma per farsi accettare, anche se in maniera piuttosto deludente. Però la cosa riesce. Riesce perché tutto considerato il lettore o lo spettatore di un film fantozziano ha questa caratteristica: non ha fortuna nella vita, ma fingere di essere d’accordo sempre con il capo ufficio significa avere un po’ di fortuna in più. Costanzo venne a vedermi in un cabaret che facevo con De Andrè a Genova. Mi aspettava alla fine dello spettacolo e qualcuno mi raggiunse dietro le quinte e mi disse: «C’è un signore piccolo, brutto e grasso che le vuol parlare». E io dico: «Proprio in questo momento? Ditegli di tornare tra un mese». Mi dissero: «Ma è di passaggio, è venuto apposta». Lo incontro e mi dice: «Guardi, sono un giornalista di “Grazia”, se vuole avere successo venga a Roma con me». Io l’ho guardato e ho detto a mia moglie che era con me: «Che faccio, vado?» E mia moglie mi ha detto: «Lascia sempre il certo per l’incerto». E io che avevo la certezza di continuare a lavorare in questo teatrino di piazza Marsala a Genova che era forse il posto più frequentato dagli snob, dai ricchi, ho detto: «Che faccio?» L’indomani mattina sono partito da solo. A La Spezia il treno si è fermato e abbiamo continuato in pullman perché c’è stato uno sciopero ferroviario gigantesco, quindi dalla partenza non sembrava che fossi destinato al successo. È un personaggio che un po’ si ispira a Kafka. Io trovo che Kafka sia il più grande di tutti i tempi, e quindi il fatto che Kafka racconti i personaggi sfortunati vuol dire che il 99 per cento dei lettori ama personaggi sfortunati ed è per una ragione simile che gli italiani si sono identificati in Fantozzi. Forse è esagerato dire che somiglia molto a Kafka però molto si è ispirato e si è riconosciuto in quel tipo di quasi infelicità che poi degenera nel conformismo e nell’abitudine di dire sempre “io sono sfortunato”. Il 99 per cento dei lettori di Kafka si identificano in personaggi sfortunati, e quindi Kafka è, in qualche modo, consolatorio. Fantozzi, anche. La caratteristica fondamentale di Fantozzi è di fingere di essere normale, ma lui lo sa che normale non è: soffre di questa sua mancanza di riuscita nella vita, di mancanza di successo con le donne nel lavoro, con gli amici. Il suo tratto fondamentale è qualcosa di completamente nuovo, soprattutto nella cultura europea: la sfortuna. Ecco, la lettura di Fantozzi è una grande terapia per tutti quelli che sono sfortunati, perché riconoscono in lui, nel personaggio sfortunato, se stessi e quindi si accettano e sono quasi felici di essere normali. È un personaggio che tutto considerato è molto amato soprattutto dai bambini. Del resto nei primi 15 anni di vita, nessuno si considera “riuscito”, chiunque a quell’età ha perlopiù paura di non riuscire nella vita e quindi la caratteristica fondamentale di Fantozzi è che si tratta di un personaggio che dà la possibilità agli sfortunati di sentirsi normali. Questa è in sintesi la chiave del successo di Fantozzi. È la cosa fondamentale, forse è stato il motivo del mio successo: la creatività verbale. Credo di potermi considerare un po’ il creatore di un nuovo lessico, di espressioni e parole non prevedibili. Io penso che sia proprio questo il successo fondamentale, quello che rimane: il fatto di non essere prevedibile dal punto di vista linguistico. Quando scrivo “il manicomio navale di Arezzo” è come se cercassi di dare vita ad una neolingua, perché è evidente che non ha senso dire manicomio navale di Arezzo visto che non è in riva al mare ed è sorprendente come tutti accolgano questa invenzione come linguisticamente verosimile. Uno degli aspetti fondamentali delle storie di Fantozzi è che mostrano un linguaggio completamente nuovo. Mi dà fastidio vedere la televisione di adesso in cui ogni tipo di spettacolo si somiglia, sono tutti uguali, e la gente li accetta, li sopporta e alla fine li subisce. Ma quando viene fuori un linguaggio nuovo, come successe ad esempio all’arrivo di Rascel, che parlava un italiano diverso, modificato, è stato qualcosa che ha avuto un’esplosione straordinaria. La comicità di Fantozzi non è tanto nella situazione quanto nel linguaggio che la racconta, che diventa un linguaggio mai sentito prima, del tutto differente da quello normale. D’altronde i grandi comici sono stati tutti padroni di una neolingua che è quella di un linguaggio comico che è quello che usa Fantozzi nelle sue autobiografie. Poi ci sono delle invenzioni come la nuvoletta da impiegato, la sfortuna rappresentata da un uomo che il sabato pomeriggio va al mare con la moglie, dove è pieno di sole ovunque, tranne per quella nuvoletta maligna che appena lo vede si va a piazzare dove è lui e lo bersaglia ferocemente. In realtà il comico è un perdente sempre, non esistono comici che hanno successo, tutti i grandi comici hanno questa caratteristica: sono ignoranti e hanno la certezza di essere infelici. Fantozziano vuol dire non riuscito, non del tutto felice, con delle mogli che sembrano più scimmie che mogli, significa avere un carattere che possa rappresentare, per i motivi che ho detto prima, di identificazione e riconoscimento, qualcosa di consolatorio per tutti. E quando il suo inventore si rende conto che il personaggio ha avuto fortuna, allora mi sento anche io un pochettino meno infelice: anzi alle volte Fantozzi può essere motivo di grande orgoglio. Io vivo ormai nel ricordo di questo personaggio, perché qualunque cosa mi succeda o mi capiti, devo improvvisamente indossare i suoi abiti e dire “guardate, però, che io sono un uomo sfortunato, guardate che io non ho avuto fortuna nella vita”. Che poi Fantozzi è, sì, un personaggio amabile, simpatico, non è cattivo, è un buono, ma può essere anche maligno, può avere anche difetti fondamentali, per esempio essere invidioso. Come lo sono tutti. Ecco, parlando della caratteristiche fondamentali di Fantozzi, non si può non citare l’invidia che è il suo sentimento fondamentale. Lui cerca di mascherarla, cerca di essere diverso, ma non ce la fa e allora è amato da tutti quelli che non ce la fanno come lui. In realtà il 99 per cento degli infelici in genere sanno di esserlo ma cercano di mascherarlo, di dire «io d’altronde sono felice così» - questa è una frase ricorrente. E se qualcuno gli fa notare «guardi, però, lei ha una moglie bruttina e una figlia scimmia», allora lui incalza e dice: «Bruttina? È un mostro». In questo modo dà la sensazione di essere sincero. Ma non lo è. Non è un personaggio che può piacere molto alle donne, è un personaggio che tutto considerato è consolato dal fatto di essere sopportato, ma mai amato completamente, da nessuno. Neppure dagli amici. Gli dicono sempre ti voglio molto bene, sei straordinario, ma lui sa che non è vero e usa lo stesso linguaggio e la stessa ipocrisia. E le donne lo sanno. Viene sempre guardato con un po’ di simpatia, di affetto e commiserazione. In fondo la mancanza di fortuna che tutti questi Fantozzi - tutti coloro che si identificavano con lui - avevano con le donne era straordinaria: erano rassegnati a non averne alcuna. La sfortuna di Fantozzi divenne un tratto peculiare, di costume, che veniva usato anche dai nuovi Fantozzi, ovvero da tutti quelli che conoscendo Fantozzi si immedesimavano in questo personaggio. Naturalmente in quel personaggio ci sono anche un po’ delle mie esperienze con le donne: ci sono quelle che subito dopo un primo impatto dicono «lei è molto simpatico, ma non mi potrò mai innamorare di lei». Mi è stato detto varie volte. Lì per lì mi sembrava una cosa fastidiosa, poi invece ne ho fatto una delle chiavi di riuscita del mio lavoro. Quando una ragazza mi diceva: «Guardi che lei non è il mio tipo», ho cominciato oscuramente a sentire che avrei usato tutto questo come momento di creatività e fortuna. Veramente il personaggio non l’ho abbandonato io, anche se credo di aver fatto un errore fondamentale. Ho cercato per vanità di fare il regista degli altri film dopo i primi due, che risultarono di livello inferiore, fin quando tutto è degenerato ed è diventato qualcosa di conformista. Quando la comicità diventa già vista, già sentita, non è creativa, ma è ripetitiva di un motivo di successo nella speranza che funzioni. E funzionava ancora, ma non come i primi due, che avevano una presenza, una comicità assolutamente diversa, creativa, nuova. In realtà, nonostante finga il contrario, sono molto felice per quello che sono riuscito a creare, a costruire, a modificare, fino a farlo diventare un personaggio amato da tutti, soprattutto da persone che in genere non leggono. E questi audiolibri renderanno Fantozzi accessibile proprio a chiunque, anche ai bambini che non sanno leggere, anche agli adulti più pigri, anche ai mariti che potranno mettersi le cuffie fingendo di ascoltare una moglie rompicoglioni».

Stiamo peggio oggi o ai tempi di Fantozzi? Paolo Villaggio ha realizzato la più riuscita caricatura del mondo del lavoro di trent'anni fa. Oggi invece il lavoro non è più caricaturabile, almeno non in modo comico. Perché la realtà è già di per sé all'eccesso, è già di per sé al grottesco, scrive Alessandro Gilioli il 3 luglio 2017 su "L'Espresso". Ho capito che Paolo Villaggio non aveva inventato niente il giorno in cui, in una grossa azienda editoriale del nord, ho visto che c'erano due ascensori uno accanto all'altro. Uno era normale, l'altro con la boiserie. Davanti al secondo c'era scritto: «Riservato Alta Dirigenza». Il mondo del lavoro descritto nei libri e nei film di Fantozzi era così: pacchiano nel suo classismo, volgare nella sua esibizione della gerarchia, violento nello scontro quotidiano tra l'alto e il basso, tra il capo e il sottoposto. Eppure era un mondo a suo modo limpido, "onesto", trasparente. Non c'erano gli infingimenti cosmetici con cui oggi vengono mascherati divari di potere e di reddito che peraltro nel frattempo sono aumentati, non diminuiti. Il sottoposto era appunto un sottoposto, non si faceva finta che fosse un "collaboratore". La sua prestazione non era a cottimo, né forzatamente notturna e festiva - come oggi avviene nei magici mondi della gig economy e della logistica, ma non solo - bensì legata a precisi orari diurni, terminati i quali i dipendenti avevano diritto perfino a scappare dalla finestra, pur di non regalare un minuto di più all'azienda. Una delle scene cult del personaggio interpretato da Paolo Villaggio, scomparso a Roma: il ragioner Fantozzi deve timbrare il cartellino per entrare in ufficio. Scena tratta dal primo film della saga, "Fantozzi", del 1975. Lo stipendio era garantito (garantito, incredibile!) così come garantite erano le ferie, che Fantozzi poi trascorreva sotto la sua consueta nuvola. Il patto tra azienda e lavoratore era di tipo schiavistico - certo - ed era anche grottesco: eppure era un patto definito, un accordo triste ma rassicurante, ingiusto ma solido, che non rischiava di dover essere riscritto ogni giorno e ogni giorno peggiorare, o semplicemente sparire - puf, oggi non ci servi. 

E ancora, non c'era bisogno di dissimulare coinvolgimento motivazionale negli obiettivi dell'azienda, fosse essa pubblica o privata. Non c'era bisogno di mettere in scena la grande ipocrisia dell'identificazione, degli obiettivi, dell'"empowerment". Né si era costretti al sorriso perenne e alla disponibilità 7/24, che sono la galera del free agent attuali, delle partite Iva attuali, dei "rider" attuali. Potevi limpidamente odiarla la tua azienda, potevi odiarlo il tuo ufficio, anzi era scontato che tu lo odiassi. I ruoli erano più onesti, in fondo. Villaggio ha descritto lo schiavismo umiliante del mondo del lavoro com'era prima della globalizzazione e prima che l'epocale vittoria del liberismo estremo polverizzasse ogni argine, ogni regola, ogni patto. Ci faceva ridere, perché caricaturava e portava all'estremo quello che milioni di persone realmente vivevano nei loro polverosi e grigi luoghi di lavoro. Lo schiavismo di oggi non è nemmeno caricaturabile perché è già all'estremo in sé, non può essere portato oltre con la chiave del grottesco. Non si riesce più nemmeno a ridere, parlando di lavoro, oggi.

Ma per chi votava il ragionier Fantozzi? La passione per il Pci, le battaglie con Pannella e il flirt finale con i 5 Stelle. «Papà vi era vicino». Il figlio di Villaggio e l’endorsement per M5S. Il leader scherza: «Fantozzi votava Dc». Agli atti restano l’antica fedeltà al Pci. Poi lo spot per la Democrazia Proletaria alle elezioni del 1987, che sancirono il virtuale divorzio politico dal geometra Filini alias Gigi Reder, quindi la candidatura con Pannella, scrive Tommaso Labate il 5 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Fosse stato un tutt’uno con Fantozzi, allora se ne dedurrebbe che le sue scelte elettorali sono sempre state espresse contro il «megadirettore» di turno. Comunista e poi demoproletario negli anni del Pentapartito trainato dalla Dc, pannelliano nel momento del trionfo di Berlusconi, grillino all’alba della grande coalizione Pd-Forza Italia, piddino tra i romani che eleggevano Virginia Raggi. Il suo voto di qua, il potere di là. Trattandosi però di Paolo Villaggio, che non era un tutt’uno con la sua maschera più celebre, il caso rimane irrisolto. Agli atti restano l’antica fedeltà al Pci. Poi lo spot per la Democrazia Proletaria alle elezioni del 1987, che sancirono il virtuale divorzio politico dal geometra Filini alias Gigi Reder, che in quella stessa tornata prestava il volto alla campagna tv del Partito socialdemocratico italiano. Quindi la candidatura alle politiche del 1994 con la Lista Pannella, collegio Genova-San Fruttuoso, quarto su quattro con un dignitoso 6,5% di preferenze. Infine l’endorsement pro Grillo alle politiche del 2013, poi rovesciato in favore del Pd alle Comunali di Roma con un malinconico «voto Giachetti, lo voto a malincuore», pronunciato in diretta a Un giorno da pecora. Il tema del posizionamento di Villaggio nello scacchiere politico si è riaperto ieri, alimentato dalle parole che il figlio Pierfrancesco ha consegnato a Beppe Grillo, presente alla camera ardente insieme a Davide Casaleggio. «Anche a papà ultimamente piacevano i M5S come piacciono a me...». «Paolo? Non è che fosse così cinquestelle, era una personalità libera», ha replicato il comico genovese. Quando l’attenzione si è spostata da Villaggio a Fantozzi, Grillo è stato perentorio. «Fantozzi votava Dc, se c’era. Oppure Comunione e liberazione, che so...». La filmografia fantozziana dà ragione al leader M5S. Nella celebre scena del Ragioniere che si consegna a un’overdose di tribune politiche — il film è «Fantozzi subisce ancora» — dalla tv appaiono un (finto) Marco Pannella che lo incalza («Digiuna con me, compagno Fantozzi. Sarà una straordinaria di dimostrazione per questi truffaldini partitocratici»), un (finto) Giovanni Spadolini che lo sferza («Sono d’accordo per una volta con Pannella. Lei, Fantozzi, è condannato a digiunare»), un (finto) Berlinguer che lo chiama alla lotta («Compagno Fantozzi, tu sei lo sfruttato classico, il prototipo degli sfruttati. Li hai provati tutti ti chiedo di provare anche noi») e altri ancora. Tra cui, in mezzo, un (finto) Ciriaco De Mita, allora leader della Dc, che risolve il rebus: «Caro Fantozzi, lei, dopo quasi quarant’anni di uso e abuso continuo democratico cristiano, è diventato un dc dipendente». Poi, però tutto cambia. Smaltita la sbornia di spot, nella scena successiva il Fantozzi si sarebbe trattenuto in cabina elettorale a compiere l’unica scelta che poteva sovrapporsi al rumore dello scarico di un water che s’avvertiva nel seggio. Una chiara scelta a favore dell’antipolitica. Che esattamente trent’anni dopo quella scena avrebbe avuto, a rappresentarla, proprio il movimento di Grillo.

L’ultimo tragico Fantozzi…, scrive il 3 luglio 2017 "Il Dubbio". Paolo Villaggio è morto a Roma, aveva 84 anni. Attore, comico, scrittore, la sua maschera popolare, il “ragionier Ugo”, ha segnato l’immaginario collettivo del nostro paese. Ha lavorato con Fellini, Olmi, Monicelli, Ferreri. La sua maschera grottesca “il ragionier Ugo Fantozzi” ha segnato nel profondo l’immaginario collettivo dell’Italia degli anni 70-80 e con lui se ne va un pezzo di cultura popolare del nostro paese. Paolo Villaggio è morto nella notte a Roma, aveva 84 anni. Già negli anni scorsi le fake news sulla sua scomparsa avevano occupato le prime pagine per poi venire smentite nello spazio di qualche ora. Stavolta purtroppo non c’è stata nessuna smentita. L’attore è morto alla clinica Paideia di Roma, dove era ricoverato da diversi giorni. Villaggio soffriva da tempo di diabete, e negli ultimi mesi aveva avuto anche diversi problemi respiratori, che per settimane lo avevano costretto al ricovero ospedaliero. Qualche giorno fa, all’aggravarsi delle sue condizioni, il trasferimento in clinica. Nato a Genova il 30 dicembre 1932, Villaggio iniziò il suo percorso artistico alla fine degli anni sessanta, nel cabaret approdando presto in televisione nel programma di Romolo Siena Quelli della domenica (1968), trasmissione pomeridiana in onda sul Canale Nazionale della Rai, avvenne così sul piccolo schermo il primo incontro fra il grande pubblico e i personaggi dell’imbranato Fantocci, diventato poi Fantozzi, e del sadico professor Kranz. Al cinema Villaggio inizia con un insuccesso, Eat it, scritto e diretto da Francesco Casaretti nel 1968, seguito l’anno dopo da I quattro del pater noster di Ruggero Deodato, dove gli altri tre erano Lino Toffolo, Enrico Montesano e Oreste Lionello, poi ci sono Il terribile ispettore, regia di Mario Amendola (1969) e nello stesso anno ‘Pensando a tè, di Aldo Grimaldi, ma soprattutto Brancaleone alle Crociate (1970) di Mario Monicelli nel quale è l’ “alemanno” Thorz, personaggio che sembra ricalcato sul professor Kranz.  La svolta professionale arriva nel 1971 quando la casa editrice Rizzoli pubblica i suoi racconti sul ragionier Fantozzi, già usciti sulla rivista l’Europeo: il successo fu immediato e poi arrivò il primo di una fortunata serie di film. Fantozzi (1975) venne diretto da Luciano Salce. Villaggio, comunque, non è solo Fantozzi, come testimoniano i circa settanta film cui ha partecipato, lavorando con registi, fra gli altri, quali Fellini, Ferreri, Lina Wertmüller, Ermanno Olmi e Mario Monicelli. Nell’ottobre del 1992 è uscito nelle sale cinematografiche Io speriamo che me la cavo, pellicola diretta dalla cineasta romana Lina Wertmüller, un affresco sul disagio economico del Sud tratto dall’omonimo bestseller di Marcello D’Orta, che raccoglie i temi scolastici di una terza elementare di Arzano, Napoli. La figura del maestro, assente nel libro, e interpretata da Villaggio, è il filtro attraverso il quale i piccoli esprimono la loro visione del mondo. Nello stesso anno, in occasione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Villaggio ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera, mentre nel 2000 è stato insignito del Pardo d’onore alla carriera al Festival del cinema di Locarno.

Con quella "cagata pazzesca" fece a pezzi i catto-sovietici. Paolo Villaggio si candidò per Democrazia Proletaria, ma la sua satira fu la tomba di un'ideologia sindacalista da salotto, scrive Paolo Guzzanti, Martedì 4/07/2017 - 08:47, su "Il Giornale". Tutti piangono Paolo Villaggio ripetendo a pappagallo battute fantozziane, ma quasi nessuno si è accorto che Villaggio, inteso come saga dell'italiano Fantozzi, era già morto e sepolto insieme al suo mondo statal-sovietico decorato di poltrone in pelle umana e impudiche scalate gerarchiche all'insegna della codardia e della dignità sotto la suola delle scarpe. Quel mondo non esiste da un'era storica e pochissimi sono in grado di misurare, e dunque di ridere del valore dissacrante della blasfema battuta secondo cui il film La Corazzata Potëmkin del sovietico Serghiei Eisenstein era in realtà «una cagata pazzesca» resa obbligatoria nelle aziende di Stato - i grattacieli di Fantozzi e del suo mondo erano palesemente quelli dell'Iri - affinché i dipendenti assistessero compunti ed estatici ad un rito ecclesiale-sindacale officiato dalla Cgil comunista che dettava legge in economia, etica, estetica, arti marziali e culinarie. La pubblica dichiarazione ed abiura di Fantozzi contro la Corazzata sovietica può essere confrontata soltanto con l'affissione delle tesi di Lutero sulla porta della Chiesa d'Ognissanti di Wittenberg. Villaggio era un uomo molto rabbioso e molto fragile, con una timidissima inclinazione alla violenza che lo rendeva fulmineo e geniale, ma tutt'altro che simpatico per sua scelta urticante. Capitava di incontrarsi al supermercato dove lui arrivava accompagnato da un assistente, indossando una sorta di toga, o zimarra, una veste sdrucita da antico romano che metteva in mostra il suo enorme ventre connesso col diabete malcurato che se l'è portato via all'epilogo di una vita di successo ma non serena. Gli piaceva molto far finta di litigare e far finta di essere di sinistra, poi si era consentito alcune battute grillesche in nome del suo populismo ruspante, ma che poi aveva abbandonato perché per sua e nostra fortuna era volubile. A suo modo aveva reinventato la dialettica hegeliana: lui era la tesi, Gianni Agus che gli faceva da spalla come suo capufficio odioso di Fracchia era l'antitesi e la sintesi era il monumento allo schiavo di Stato che oggi non esiste più perché quel mondo aziendale italo-sovietico si è liquefatto, riassorbito dal buco dell'ozono della storia. Villaggio era come tutti i veri comici un vero surrealista: il suo primo personaggio, il domatore tedesco Kranz era un autoritario. Come comico era un loser, il classico perdente come deve essere ogni vero clown, il prestigiatore incapace di mescolare le carte, l'uomo consapevole della frettolosa mediocrità che lo forza a comportamenti ridicoli perché accessibili a tutti come tante macchie di Rorschach. Il suo personaggio è stato un coraggioso esegeta alla viltà speculare per tutti coloro che vivono da subalterni, privi di responsabilità ma non di tracotanza da regime, subito pronti a svendere l'identità residua per giocare alla roulette delle carriere megastellari: tutta la maledizione creata da Villaggio di questi aggettivi mostruosamente galattici, stellari, mega, iper crescono tutti come superfetazione della mediocrità comica dell'arrivista che però, almeno una volta nella vita, bolla il mondo megagalattico in cui sopravvive come una cagata pazzesca. Da allora tutti gli imbecilli usano aggettivi ed iperboli con entusiasmante successo alludendo ad un iper-mondo megagalattico di poltrone e paralumi in pelle umana - allusioni torbide alle concerie di Auschwitz - che in realtà è la discarica dell'alienazione, ovunque sia ambientata, dalla spiaggia ai corridoi, dal pranzo aziendale alle tristissime premiazioni. Il personaggio letterario Fantozzi (un bestseller mondiale) è la maschera dello schiavo di una industria statale archiviata ed è quindi ormai incomprensibile se non per gli storici. La sua ribellione alla cagata pazzesca non investe l'estetica, ma l'ideologia di un mondo catto-sovietico di aziende di Stato con milioni di cloni di Fantozzi di Stato, mogli di Stato e orride bambine di Stato.

Grigio, servile e iellato: il modello Fantozzi non invecchierà mai. L'attore fu ispirato dall'esperienza all'Italsider. Piace agli uomini perché un po' ci si riconoscono, scrive Paolo Giordano, Martedì 4/07/2017, su "Il Giornale". Il paradosso di Fantozzi è che c'era già. E sopravviverà alla morte del suo volto transeunte. Ugo Fantozzi, «matricola milleunobarrabis, ufficio sinistri», è una maschera universale che tutti a turno indossano e che nella storia della letteratura tanti, da Gogol a Cechov, hanno descritto per pochi eletti. Villaggio lo ha descritto con mostruoso successo per noi, per tutti i Fantozzi del mondo, quelli che dicono «è un bel direttore» nonostante gli augurino i più atroci tormenti, viaggiano sulla Bianchina sognando la Ferrari, vivono pedinati dalla nuvoletta dell'impiegato e, nella mescolanza di sadomasochismo e utopia, indossano a turno i pantaloni ascellari o il basco inclinato a mo' di psicobiglietto da visita persino di fianco alla «pecora rossa» Folagra, «sempre schivato per paura di essere compromessi agli occhi dei feroci padroni». Fantozzi è metacomunista, quindi eterno. Anche Cordero di Montezemolo o Murdoch sono a turno Fantozzi. Anche Di Caprio o Rocco Siffredi sono estemporaneamente Fantozzi. Fantozzi è umiliante quando in lui ritroviamo i comportamenti degli altri, ma consolatorio quando siamo noi ad averli. Fantozzi piace più agli uomini perché rivedono il Fantozzi che c'è implacabilmente, inevitabilmente, servilmente in loro. Piace meno alle donne perché vedono il Fantozzi che è nel loro uomo, altrettanto inevitabile ma drammaticamente poco gradito. Un cul de sac dal quale non si esce e nel quale c'è il successo di un protagonista assoluto che è il più grande dei comprimari perché rinuncia consapevolmente al protagonismo più volatile e caratteriale: «Io sono indistruttibile, e sai perché? Perché sono il più grande perditore di tutti i tempi. Ho perso sempre tutto: due guerre mondiali, un impero coloniale, otto - dico otto! - campionati mondiali di calcio consecutivi, capacità d'acquisto della lira, fiducia in chi mi governa...». La sublimazione della normalità nell'elogio della sconfitta: ecco la ragione per la quale i dieci film di Fantozzi (qualcuno davvero mediocre) sono replicati senza sosta, i libri hanno venduto milioni di copie, le battute sono entrate nel linguaggio comune. Tutti hanno detto almeno una volta: «Il suo è culo, la mia è classe». Oppure, per descrivere una situazione di imbarazzo, «era nel pallone più completo: mani due spugne, salivazione azzerata, manie di persecuzione, miraggi!». La forza di una maschera è di non uscire mai di scena, di sopravvivere al tempo in cui nasce, di vestire padri e figli. Arlecchino servitore di due padroni è così. Pantalone anche. E Fantozzi pure, perché il sogno di tutti, confessato o inconfessabile, è di poter dire almeno una volta nella vita che «la Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca» guadagnandosi «92 minuti di applausi» e pazienza se poi al terzo giorno la polizia «si incazza davvero». Il paradosso è l'anestesia della mediocrità. E «lei venghi qua, no vadi là», dalla colonna sonora del primo film del 1975 è lo slogan della confusione passiva del dipendente ma anche del «padrone», indifferenti al congiuntivo come segno di cultura, attenti più all'uscita dall'ufficio con «lo stesso rituale della partenza dei cento metri di una finale olimpica» o alla simbolica prostrazione dei dipendenti come nella sfida a biliardo con l'«onorevole cavaliere conte Diego Catellan», l'ex «gran maestro dell'ufficio raccomandazioni» che da millenni è simbolicamente lo spauracchio di tutti. L'amore, poi. «Pina ma allora... vuol dire che tu mi ami?», «Ugo, io ti stimo moltissimo», è il copione che tutti temono e pochi riconoscono di vivere o di avere vissuto qualche volta magari senza accorgersene. Forse per questo Fantozzi è una maschera che solo Paolo Villaggio, nella nostra epoca, avrebbe potuto interpretare così bene, nonostante all'inizio l'avesse lui stesso proposta sia a Pozzetto che all'amico Tognazzi. Per recitarla al meglio, bisogna essere il contrario del ragionier Fantozzi Ugo: arroganti e presuntuosi. Villaggio lo era, ben sapendo però di essere un arrogante posticcio, un Fantozzi mascherato, uno che, nonostante fama e premi e milioni, in fondo era più soddisfatto di essere «un povero Cristo» universale che un «megadirettore ereditario dottor ing. granmascalzon di grancroc» destinato a svanire appena si spengono le luci di scena, senza ricevere neanche una briciola dell'eternita che Fantozzi ragionier Ugo ha iniziato a vivere al primo ciak.

Col Ragionier Ugo se ne va l'Italia del "posto fisso". Il personaggio del ragionier Ugo Fantozzi ha davvero interpretato un'epoca: un'Italia ancora sull'onda del formidabile boom degli anni Cinquanta e Sessanta, anche se ormai l'ottimismo era venuto meno, scrive Carlo Lottieri, Martedì 4/07/2017, su "Il Giornale". Il personaggio del ragionier Ugo Fantozzi ha davvero interpretato un'epoca: un'Italia ancora sull'onda del formidabile boom degli anni Cinquanta e Sessanta, anche se ormai l'ottimismo era venuto meno. In quegli anni, infatti, già prevaleva la tendenza a vedere il bicchiere mezzo vuoto invece che mezzo pieno. Non è un caso che Villaggio abbia sempre riscosso un grande successo in Russia: anche perché i mille disastri delle vicende fantozziane dicevano moltissimo a chi viveva all'interno della società sovietica. Eppure lo sfondo di quei film e di quei romanzi era molto italiano e davvero legato a quei nostri anni. Allora l'inflazione viaggiava verso il 20 per cento, i sindacati erano in dura lotta con la Confindustria, iniziavano anche a manifestarsi i primi segnali di un conflitto armato che vedeva gruppuscoli di estrema sinistra ed estrema destra spargere il sangue per le strade. L'ideologia produceva violenza e ancora prima induceva a condannare ogni cosa, ma soprattutto l'esistenza piccolo-borghese. Con la sua maschera di quel modesto impiegatuccio, Villaggio ha dato una rappresentazione farsesca del mondo produttivo del tempo, da tutti giudicato fonte di sofferenze. In questo senso, Fantozzi può essere accostato a talune rappresentazioni dell'Italia produttiva elaborate da una parte della nostra cultura. La scrittura di Villaggio ha poco a che fare con quella di Paolo Volponi e Ottiero Ottieri, ma gli anni erano quelli. E senza darsi troppe arie, anche Fantozzi - alla sua maniera - ha voluto evidenziare l'alienazione del lavoro industriale. Eppure, ed esaminato in dettagli che allora potevano essere poco interessanti, quel vecchio universo può essere oggi oggetto di nostalgia. Il Fantozzi dell'Italia di quarant'anni fa conduceva una vita economicamente tranquilla. Nel suo universo non c'era più la necessità di espatriare, tanto comune in precedenza, e neppure quella condizione lavorativa assai precaria che invece è tipica dei nostri giorni. Il ragionier Fantozzi vive con un certo agio, pur disponendo di un solo stipendio. Sua moglie è casalinga e nessuno sente l'esigenza che vada al lavoro. Egli neppure è minacciato da quella disoccupazione da mezza età che ora è divenuta invece tanto comune. Le sue frustrazioni sono tutte interne alle dinamiche relazionali (nei rapporti con i superiori e con i colleghi), ma non segnalano mai il rischio di povertà. È pure interessante sottolineare come Fantozzi sia l'ultimo ingranaggio di una grande impresa privata (la realtà ispiratrice era stata l'Italsider di Genova), che ha tutta l'aria di essere assai solida. Quelle aziende in cui si entrava da giovani per poi andarsene anziani, magari lasciando il posto al figlio. Realtà che ormai sono scomparse, dato che solo le aziende medie e piccole hanno saputo reggere di fronte alle difficoltà del mercato. I Fantozzi di oggi, insomma, vivono una condizione perfino più difficile. Peccato non ci sia un Villaggio capace di richiamare l'attenzione su di loro.

“Temo che il Papa non creda in Dio”, scrive il 02/07/2017 Francesco Sala su "Il Giornale". E’ morto oggi al Policlinico Gemelli di Roma all’età di 84 anni il geniale attore Paolo Villaggio. La sua maschera rimarrà nella storia dello spettacolo italiano. Riproponiamo ai lettori di OFF la sua intervista cult che parla più di 100 coccodrilli. La prima domanda la fa Villaggio: “Lei quanti anni ha?” Rispondo: “Quaranta”. Villaggio: “Pensi che una volta a quarant’anni si era a metà strada, oggi voi iniziate la strada! Anche perché è aumentato il numero dei vecchi che non mollano. L’Italia si è trasformata, da Paese ricco a Paese povero. I quarantenni hanno difficoltà notevoli. Mi faccia pure le domande”.

Un episodio OFF della sua carriera?

«Le interessa il racconto di quando Fabrizio De André per scommessa si mangiò un topo? Di notte, da ragazzi, andavamo a casa di uno che era paralizzato e che noi chiamavamo benevolmente “il paralitico”. Si andava da questo signore che aveva una porta-finestra che dava su un giardinetto fetido. Notte di tregenda. Io, Fabrizio e Gigi Rizzi, l’unico benestante. C’erano anche due ragazze bruttine. L’unico che aveva delle belle donne era Gigi Rizzi che era anche l’unico con dei soldi, si figuri era stato con la Bardot! Sentiamo un raspìo alla porta-finestra in legno…Vediamo un gatto nero che si erge sulle zampe, si alza e vomita un grosso topo. Urla di orrore dei presenti. Fabrizio, aveva una sua caratteristica, quella per vanità di stupire tutti, e fa alla compagnia: “Questo topo, se mi date ventimila lire, me lo mangio!” e Rizzi: “Te li dò  io!” Fabrizio: “Metti i soldi sul tavolo!” Gigi Rizzi tira fuori un lenzuolo di banconote e le mette sul tavolo. De André respirando come un sub, di colpo… senza rulli di tamburi perché non c’erano… si abbassa, morsica la coda del topo e la succhia come uno spaghetto cinese. Poi dice:” Non lo mangio tutto perché non ho appetito!” Applauso. Con le ventimila lire della scommessa ci invita a cena in un posto poco raccomandabile, frequentato da portuali e prostitute chiamato “Il Ragno verde” e ordina un piatto di fagioli con le cotiche. Vomitò. Il topo l’ha digerito, le fagiolane con le cotiche, no!

Mi racconta una serata al Derby di Milano invece? Chi era l’animatore del gruppo?

«Chi aveva formato il clima comico portato al paradosso era Enzo Jannacci. C’erano Cochi e Renato, il povero Felice Andreasi, il bravo Lino Toffolo e altri minori. Jannacci quando mi ha visto per caso alla televisione, mi è venuto ad aspettare alla fine delle registrazioni e mi ha detto: “Ti do ventimila lire a serata!” Io avevo cominciato a lavorare con Maurizio Costanzo e prendevo mille lire a sera. Jannacci ha detto fino alla fine che gli dovevo duecentomila lire. Ci divertivamo a raccontare cose strabilianti. Al Derby si rideva dei paradossi di Cochi e Renato. Io presentavo con un tono afflitto: “Adesso, presenterò un numero ripugnante!” e questo faceva ridere. La televisione si toglieva finalmente la maschera della bontà, del perbenismo.

Chi sono stati i suoi maestri?

«Nessuno. Io e Fabrizio De André eravamo cresciuti assieme. Si usava l’arma del paradosso, dell’antiretorica, lo stesso linguaggio usato poi al Derby. Io dicevo: “Signore e signori, sono in grande imbarazzo, non so che cazzo fare!” Il Derby era un piccolo trionfo per me. In Televisione poi, non c’era lo share di adesso. L’unica trasmissione era quella.

Maurizio Costanzo ha dichiarato in un’intervista qui al giornaleOFF: “Il merito di Villaggio è quello di aver creato due personaggi, Fantozzi e Fracchia, che sono dentro ognuno di noi”. La domanda è: come si troverebbero oggi con Facebook e gli sms?

«Non è un fatto di condizione sociale. È un fatto di età. È successo che negli ultimi 15 anni che l’arrivo dei telefonini ha cambiato la nostra vita totalmente. Una volta c’erano i telefoni a muro, neri, attaccati alla parete, con la rotella. Fracchia e Fantozzi sarebbero tagliati fuori. Io ho 81 anni e sono fuori dai messaggini, dai telefonini, che non so usare. Non so scrivere i messaggi! Fracchia e Fantozzi appartengono a un’altra era. La diagnosi? Quelli della mia età hanno un cervello strutturato in maniera diversa. Il vostro cervello giovane, è plastico, si adatta alle esigenze. Il nostro, quello degli ottantenni, si è dedicato soprattutto alla memoria. Avevamo una memoria prodigiosa, facevamo le gare a memorizzare i numeri di telefono. Oggi c’è la rubrica sul telefonino.

Questa è anche l’epoca della distrazione. Le capita di osservare la gente che cena in un ristorante? Tutti attaccati al telefonino…

«Ma questo è un disagio. Quasi tutte le ragazze di oggi sono un po’ maleducate. Quasi tutte. Certe, anche fascinose, importanti, mentre stai parlando con loro, tengono sotto il tavolo il telefonino. E tu: “Ma cosa fai?” e loro: “Niente!” Oggi si usa il cervello in un’altra maniera. Se domandi a questa ragazza cosa fanno la sera in televisione, lei tira fuori il telefonino e ti risponde. Credo che l’uso di quello che lei chiama social network sia invece una vera e propria setta.

“Viviamo in una sottile dittatura, strisciante, subdola, quella del pensiero unico”. Lo ha detto lei ricordando Pasolini…

«È così. Prima c’erano meno dittature. Adesso vedi il campionato mondiale di calcio? I capelli dei calciatori. Una volta avevano dei capelli umani, poi sono arrivati i capelloni…adesso sono rasati, soprattutto i neri. C’è una dittatura nel modo di vestire: gli occhiali, le scarpe, ma soprattutto i capelli. È una dittatura occulta, che ti impone dei comportamenti e tu li subisci. Non è pericolosa.

C’è stata in Italia un’egemonia culturale della Sinistra?

«Per decenni qualcuno ci diceva cosa leggere, cosa andare a vedere, quale spettacolo era “in” e quale “out”. Un personaggio ha avuto il coraggio di gridare contro la Corazzata Potëmkin..! Fantozzi!! Fantozzi era un’esplosione! Perché ha avuto quella fortuna enorme? Perché finalmente criticava questa imposizione: doversi travestire da tutti. La Sinistra pensava di predicare libertà invece predicavano una cultura modificata dagli intellettuali che erano, bada bene, tutti travestiti da estrema sinistra. Questa è l’epoca del cambiamento e allora, bisogna sperare che un certo tipo di passato (fascismo e stalinismo) non ritorni. C’è stata una manipolazione della Cultura. L’atteggiamento che avevano era: “Tu sei vecchio, obsoleto e sei purtroppo un con ser va to re… Te lo dicevano anche con un certo tono.

Nell’ultimo film di Veltroni si chiede a un gruppo di ragazzi: “Chi è Enrico Berlinguer?” Le risposte sono agghiaccianti e ricordano il suo geniale libretto “Come farsi una cultura mostruosa”…Berlinguer chi era? Una ballerina? Ai ragazzi non interessa più la Storia? Ai giovani non interessa la Storia perché non ci credono più. Viviamo in tempi di consenso unico e dolciastro secondo lei? Oggi bisogna proprio piacere a tutti?

«È vero. Renzi ad esempio deve piacere a tutti perché è un politico. Deve fare grandi numeri. Temo che anche il Papa, che parla come Papa Giovanni, che è un bacia bambini; appena vede un bambino, lo punta e lo va a baciare. Il Papa e Renzi sono il trionfo dell’ovvio. Questo Papa si affaccia alla finestra e dice: “Buon pranzo!” Dice cose ovvie! Renzi e il Papa non possono essere completamente normali e buoni. Il politico si maschera da buono perché cerca il consenso. I grandi buoni oggi si vergognano della loro bontà».

Anche il Papa?

«Temo di sì. Temo che il Papa non creda in Dio!»

Come, scusi?

«È molto difficile per un uomo di cultura credere in Dio. Come si fa a credere alla verginità di Maria? È impossibile! L’universo è fatto di miliardi di miliardi di galassie che si allontanano tra loro alla velocità della luce. L’idea dell’uomo solo nell’Universo spaventa moltissimo».

Cosa ha capito degli Italiani?

«Gli italiani sono come sono io: pigri, poveri, soprattutto poveri di interessi. Ci siamo spenti nel dominio borbonico. Abbiamo creato la Mafia. Abbiamo esportato Cosa Nostra. Questa è la nostra fama. La cultura tedesca invece è stata straordinaria e paradossale: Kant e Goethe hanno convissuto con Hitler. La Germania è sempre paradossale e io l’ho usata nel mio repertorio comico».

La mediocrità nel mondo dello spettacolo oggi sembra la regola. Anzi, è richiesta…

«Questa è la Televisione! I numeri, i grandi numeri portano a questo. Torniamo ai capelli di Balotelli. I barbieri sono disperati perché i ragazzini vogliono i capelli alla Balotelli. Una certa mediocrità arriva dovunque. Se usi il linguaggio di Pasolini non riusciresti ad avere i grandi numeri, forse non vai da nessuna parte».

Un ricordo di Berlusconi. Lei lo ha conosciuto sulle navi, è così?

«Berlusconi era credibile, non era mediocre. Lui indubbiamente aveva il senso della conquista dei favori della gente. Era nato con l’idea di fare fortuna nella vita. Diceva: “Ragazzi, qui perdiamo tempo!”, a me e a Fabrizio quando lavoravamo sulle navi diceva: “Noi dobbiamo affittare un capannone vicino Milano e fare noi una televisione privata!”. Io e Fabrizio ci facevamo segno col dito sulla tempia: “Questo è pazzo!”»

Poi l’ha fatto!

«Lui ha regalato agli italiani la televisione privata che non costa nulla a differenza di quella pubblica dove si paga il canone. Ha regalato una televisione mediocre, diciamo la verità. La televisione statale cercava di fare concorrenza a Berlusconi abbassando il livello. L’ha resa più banale».

Pubblicità!

«Oggi però la pubblicità potrebbe rappresentare il cinema più evoluto, più brillante, fatto meglio. Ci sono spot pubblicitari che sono geniali. Si rimpiange ancora Carosello!»

Oggi Villaggio, invidia qualcuno?

«Ho sempre evitato di frequentare la gente di grande successo, perché sentivo che c’era la voglia cattiva di esibirlo, questo successo. Appena ho avuto fortuna nella vita, ho cominciato a fare l’invidiato. Andavo al Caffè della Pace, dietro Piazza Navona, da solo. Fingevo di non ricordarmi i cognomi, li storpiavo, cioè facevo l’invidiato. Tornavo a casa la sera quasi cantando!»

Il successo rende stronzi?

«Perché mi fa questa domanda? Allora devo pensare che lei mi annovera… I grandi uomini non hanno bisogno di essere stronzi. Einstein non era stronzo! Io sono completamente guarito dall’invidia».

C’è qualche deficiente che ogni tanto, su internet, lancia la notizia della sua morte. Porta bene, lo sa? Allunga la vita!

«Se allungassero la vita, queste dichiarazioni le farei io».

Come immagina il suo funerale?

«Ho deciso di non farlo. Ho un timore: che Benigni non venga. Veltroni mi ha detto che parlerà e anche Francesco Rutelli. Gli amici non ci sono più. Gassman a parlare era l’ideale e poi c’era Fellini. Giancarlo Giannini ho paura che non venga e quindi il funerale non lo faccio. Vengono solo quelli che non sanno dove cazzo andare. Consiglio finale ai nonni: cercate di diventare ricchi se non volete essere abbandonati sull’autostrada!»

Ultima domanda: un sogno di Paolo Villaggio?

«Un viaggio in Transiberiana di ventisei giorni con Ugo Tognazzi. Tognazzi diceva la verità, non era premeditato. Un vero amico».

Intervista a Paolo Villaggio: "Sono un vero indifferente e un falso cinico. Ma monogamo". Scontroso, vanitoso, perfido e inaffidabile, l'attore raccontava a Panorama se stesso, come mai aveva fatto, e gli amici: Gassman ("cannibale"), Tognazzi ("erotomane"), De André ("una carogna"). E diceva: il mondo è fatto di nullità che grazie a Fantozzi non si sono accorte di esserlo, scrive Raffaele Panizza il 3 luglio 2017 Panorama.  Paolo Villaggio è morto il 3 luglio del 2017. In questa giornata di lutto per il cinema italiano riproponiamo questa intervista rilasciata a Panorama e pubblicata il 12 novembre 2013, in occasione del suo monologo fantaautobiografico Vita morte e miracoli...Paolo Villaggio è seduto allo scrittoio della sua casa romana, un palazzotto aristocratico di tre piani da gran figl di gran putt, e non si stacca dal megatelefono dirigenziale che collega gli interni delle svariate stanze: drriiin cucina, bibip sala da pranzo, dindon dispensa. C’è Gioacchino, autista tuttofare. La cameriera. La moglie Maura, sposata 58 anni fa, che chiama spesso dall’ala est. I due figli. I cani. Lui, tunica nera e giacca di pelle, ha barba e capelli tagliati alla perfezione, vanitosissimo, vero faraone. Indica oggetti che immediatamente gli si materializzano davanti, fulmina, lancia ordini: "Beva!" intima per esempio al cronista, porgendo una brocca d’acqua, senza bicchiere. Il prossimo 12 novembre dovrà abbandonare il regno e spostarsi a Milano, per debuttare con un monologo fantaautobiografico che avrebbe dovuto avere un titolo diverso: Vita morte e miracoli... di un pezzo di merda. Poi la parolaccia è saltata: un po’ perchè la sala del Teatro San Babila appartiene alla Chiesa. E un po’ perchè, a 81 anni, chiudersi in un’etichetta, per quanto comoda, sarebbe un vero un peccato.

Ha voglia di andare a Milano?

«Poca. Da nessuna parte in Italia, sinceramente.

Dove vorrebbe andare?

«A Shanghai. O a Giacarta».

A far che?

«Anche il fabbro, o qualsiasi altro mestiere umiliante. Ho voglia di stare al centro di una cultura nascente, in mezzo a grattacieli di 400 metri, in una ricchezza che fa spavento, nell’euforia di un sabato sera a Manila. E, soprattutto, tra gente che abbia ancora voglia di lavorare».

È passione per il futuro o nostalgia per il fervore del dopoguerra?

«A me il futuro interessa tantissimo, è una spinta naturale, e non sono di quelli che credono alla retorica dei bei tempi passati. Ma vero è che la felicità che c’era a Nervi negli anni Cinquanta era incredibile. In confronto, il carnevale di Rio, dove son stato quattro volte, è una cagata pazzesca».

Quale è stato il momento più felice della sua vita?

«Lo racconto nello spettacolo: quando raccolsi alcune lucciole in un bicchiere, ai Bagni Lido di Nervi, 65 anni fa, e illuminai il viso di mia moglie che ne aveva 15. Per la prima volta mi accorsi che aveva le lentiggini. E capii che non sarei mai stato più felice».

Sua moglie però dice: Paolo non è capace di amare. Ha ragione?

«Non ci credo che l’abbia detto, e non credo sia così. Forse pensa che abbia una forma grave di egocentrismo, quello è probabile».

E ha torto?

«Certamente. Per lei ho avuto una serie di attenzioni particolarissime».

Fiori?

«Mai. Neppure un regalo».

E quali sono queste attenzioni particolarissime?

«Per esempio essere in Cina, da solo, e pensare: devo assolutamente comprare queste polpette che le piacerebbero tantissimo».

E portargliele.

«No, mangiarle io. Con la sensazione precisa, però, che sarebbero piaciute anche a lei».

Un po’ come la Pina che dice a Fantozzi, nel massimo slancio di passione, "Ti stimo moltissimo".

«Ma guardi che la forza per stare con una donna sessant’anni non te la danno mica i pensierini. Sa che cosa, invece? Il fatto di accorgersi, un bel giorno, che lei è la persona a cui vuoi più bene al mondo. Più bene che ai figli, persino».

Parlate mai di cosa accadrebbe all’altro, se uno di voi dovesse andarsene?

«Spero di morire prima io, perchè il dolore per la sua perdita sarebbe impossibile da curare».

Come definisce l’attrazione erotica che vi ha uniti?

«Da parte mia, un’assoluta monomania».

I suoi amici erano tutti poligami, però.

«Vittorio Gassman ha avuto decine di donne, Ugo Tognazzi pure. Ma mi sembra che la qualità del loro saper dare affetto non sia mai migliorata, nonostante l’esercizio. I risultati della bulimia amorosa sono molto scadenti».

Il sesso se l’è goduto?

«Molto. Anche se la mia generazione era fatta di gente bizzarra. Gassman per esempio mica era normale. Era curioso, diciamo».

Bisessuale intende?

«No, non ha capito. Quando si ritrovava a letto con una donna, come prima cosa cercava di asportarle un piccolo quadratino di pelle dal fondoschiena, usando un taglierino. Lo chiamavamo "il tassello di Gassman". Sì, insomma, era un cannibale».

Tognazzi?

«È stato salvato dal caso. Un giorno, a Milano, incontra un travestito affascinante, viene colto da una curiosità tragica e decide di portarselo in hotel, vicino al Corriere della Sera. Mentre sta cercando di sodomizzarlo, per strada scoppia una bomba che Tognazzi interpreta come segnale divino. Da quel giorno la sua condotta è stata più lineare».

La donna più bella di sempre qual è stata, secondo lei? 

«È ancora viva: Penelope Cruz».

In Italia?

«Virna Lisi».

Diego Abatantuono dice che al Derby lei aveva più ammiratrici di Teo Teocoli e Franco Califano.

«Beh, perchè loro non erano di prima qualità, contavano meno. Io non facevo imitazioni, non raccontavo barzellette. Il padrone voleva che mi esibissi per ultimo, lasciandomi sul palco per un’ora e mezza».

ll suo migliore amico chi è stato?

«Fabrizio De André.

Che cosa le ha insegnato?

«Lui a me? Niente. Sono io che ho insegnato a lui il coraggio per seguire la propria strada».

Strano, si è sempre disegnato come un vigliacco totale.

«Davanti alla sfida fisica lo sono, in modo miserabile. Una volta mi trovavo ad Amsterdam, con Valeria Moriconi, per girare Quelle strane occasioni. Una sera in un bar le si avvicina un bestione di colore, un immigrato del Suriname, che le solleva la gonna chiedendo con un ringhio chi fosse il suo accompagnatore. Ho finto di non conoscerla. E mi sono fatto chiamare un taxi».

De André invece è passato alla storia come protettore dei deboli.

«Chi, Fabrizio? Fingevamo di essere brave persone ma eravamo delle carogne. Da ragazzi tormentavamo due omosessuali, uno dichiarato e l’altro no. Li prendevamo a pietrate, solo per il gusto di farlo. Perfidia pura».

De André non ha mai espresso pentimento?

«No, mai».

Si ritiene un amico affidabile?

«Sono un bidonaro clamoroso. Invitavo Paolo Fresco (ex ad della Fiat, ndr) a Cortina, a casa mia, e non mi presentavo. Una volta ho persino organizzato un Capodanno al Cairo con Tognazzi, in crociera. L’ho fatto imbarcare a Genova con la promessa che sarei salito a Napoli. E non ci sono andato».

Come festeggia i suoi Capodanni?

«In nessun modo. Da cinque anni rimango a casa con mia moglie, vado a dormire alle 8 e mezza. Mi pare una conquista strepitosa».

Per che cosa si commuove?

«Non mi sono mai commosso in vita mia».

È inumano...

«Va bene, una volta, quando è nato mio figlio Piero, fino alle lacrime. Ma non l’ho mai rivelato a nessuno».

Chi le ha inculcato l’ideologia dell’auto-controllo?

«L’ho messa a punto insieme a mio fratello gemello. Da bambini ce lo ripetevamo sempre: non bisogna lasciarsi andare, mai. Indifferenza sempre. Pure davanti alle stragi di bambini».

È diventato un vecchio livoroso.

«Non me ne sono mai accorto».

Beh, dare della negra a Cécile Kyenge è da avvelenati.

«Quello è un finto cinismo, che trovo adorabile, e indispensabile per stabilire la mia parentela intellettuale con altri finti cinici come Mario Monicelli. Non sopporto la retorica di quelli che vanno a Lampedusa a commuoversi. La verità è che a noi, degli immigrati, non ce ne frega niente».

Il successo da cosa l’ha salvata?

«La cosa più bella è che da invidioso diventi invidiato. E più susciti invidia, più hai voglia di suscitarne. In questo senso il successo dà grande felicità».

Ha mai pensato di essere stato negativo?

«Ho pensato di esserlo stato nei confronti delle persone che mi volevano bene. Poi mi sono reso conto di aver avuto una funzione terapeutica, perché il mondo è fatto per la maggior parte da persone che nella vita hanno fallito. Grazie a Fantozzi ho fatto in modo che alcuni neppure si accorgessero di essere nullità. O al limite ho fatto sì che non si sentissero soli».

Filippo Facci per Libero quotidiano il 4 luglio 2017: “Com’è umano il Pd… usa le schiave”. È inutile che rognate, la comunicazione ormai funziona così, lo volete capire? Caro presidente dell’Abruzzo Luciano D’ Alfonso, caro ministro Claudio De Vincenti, caro presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini e cari tutti-gli-altri che avete partecipato a questo incontro tutto piddino a Sulmona: è inutile che organizzate un incontro, appunto, e lo titolate pomposamente «idee e nuove visioni per il futuro della regione Abruzzo in Europa» se poi cadete in errori del genere, perché così dimostrate che di «idee e nuove visioni» non avete capito niente. È tutta una sciocchezza, una cazzata, lo sappiamo tutti, ma provate a ragionare: voi, a quest’incontro, potreste anche aver detto le cose più intelligenti del mondo (diciamo così) ma poi no, non potete farvi fotografare in quel modo, seduti sul palco con accanto delle signore e una ragazzina che reggono degli ombrelli per ripararvi dal sole: come delle geishe, come delle schiave da satrapìa orientale, o come le signorine-immagine ai box della Formula Uno. Erano volontarie? Chi se ne frega, è chiaro che la notizia diventa quella e solo quella. E dovevate saperlo, dovevate immaginarlo: qualcuno ha subito ironizzato sulle «ombrelline del governatore» e le boldrini d’Italia son subito esplose come un sol uomo, anzi donna: anche perché le femministe di vieto stampo ce le avete ancora tutte voi, sono tutte nel Pd, che vi aspettavate? Ed ecco che sono subito intervenute le varie professioniste della parità di genere, e la consigliera di parità della Regione Abruzzo, e la presidente della Commissione pari opportunità della Regione, tutte a straparlare di «peggior modello di cultura patriarcale» e scemenze del genere: ma ve lo siete meritato. Caro presidente D’ Alfonso, avete cercato di metterci una pezza (un ombrello) e avete parlato di «non-notizia», di «boutade estiva» solo perché a un certo punto, durante un paio di dibattiti, c’ era semplicemente da riparare i relatori dalla pioggia (al mattino) e poi dal sole (nel pomeriggio) perché il palco era scoperto, fine; avete spiegato che alcuni volontari dotati di ombrello si sono attivati autonomamente, avete detto, e casualmente erano donne. È forse servito, presidente? A quel punto era finita. Il giorno dopo, durante la conferenza stampa conclusiva della manifestazione, a Pescara, del bilancio del convegno non gliene fregava più niente a nessuno: i cronisti volevano parlare solo degli ombrelli, perché funziona così. Ed è anche la ragione per cui il presente articolo compare su questo giornale: perché la notizia sono gli ombrelli, non voi che ve la cantate. Le «nuove visioni per il futuro» sono già nel presente, come dimostra il fatto che uno come Massimo Bugani, che al Comune di Bologna presiede il gruppo consiliare grillino, si è messo ad aprire un ombrello in aula (ah ah) e poi ha subito postato l’immagine sul suo profilo Facebook, rivolgendosi al presidente dell’Emilia Romagna con queste parole: «Bonaccini vergognati! Inspiegabile il silenzio delle donne del Pd davanti all’ immagine del presidente riparato da alcune signore che reggono ombrelli alle sue spalle». Capito, Bonaccini? Capito, D’ Alfonso? E questo grillino, questo genio, racconterà in giro che lui in questo modo fa politica: e l’incredibile è che, in certa misura, ha pure ragione: così come è vero che quell’ immagine con gli ombrelli – la vostra – ha fatto politica a sua volta. È la civiltà dell’immagine, bellezze: ecco la visione e il futuro, dell’Abruzzo e non solo. E stiamo tacendo del mondo femminista, che ne ha subito approfittato per intasare l’etere e il web con una strabordante quantità di scemenze che voi – colpevoli – avete autorizzato: le avete aperte voi, le gabbie, ora arrangiatevi. E le donne-accessorio, e le donne-oggetto, e le donne riempi-lista, e il sessismo: oddio chi le ferma più, adesso. Volevate il convegno serioso sulle visioni e sul futuro. Beccatevi il gesto dell’ombrello. 

In ciabatte da Papa Francesco Lo "scivolone" della Boldrini, scrive IlGiornale, Mercoledì 5/07/2017. Deve aver pensato così la presidente della Camera Laura Boldrini quando il 27 giugno si è presentata in udienza da Papa Francesco con un paio di sandali zeppati degni della spiaggia di Capocotta. Tailleur pantalone blu, capo scoperto e smalto color sangue di bue, la Boldrini non ha mostrato timori reverenziali. Libera Chiesa in libero Stato e libero alluce in libera Santa Sede. D’altronde la Papessa delle minoranze in fondo è un po’ una collega del Papa degli ultimi, no? Peccato che la stessa altera laicità la Boldrini non l’abbia sfoggiata in moschea, dove con grande sensibilità ed empatia si è invece più volte velata la testa in ossequio ai precetti. Perché evidentemente il rispetto vale solo per le religioni altrui, mentre il resto è bigottismo vetusto da prendere a calci e ciabattate, in barba al protocollo e al buon gusto. Lo stesso in base al quale la Boldrini andrebbe «scomunicata» per assoluta mancanza di stile.

Giorgia Meloni contro Laura Boldrini: "Che squallore le ciabatte da Papa Francesco. Rispetta tutte le religioni, non la nostra", scrive il 4 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". Le foto di Laura Boldrini che, al cospetto di Papa Francesco, si presenta con un paio di sandali - o ciabatte, fate voi - risalgono a qualche giorno fa e hanno fatto parecchio discutere. Una scelta che in molti hanno criticato e che altrettanti hanno ritenuto inadeguata. E ora al coro di critiche si unisce anche Giorgia Meloni, che mette in evidenza la stortura che tanti - Libero compreso - hanno sottolineato. L'attacco della leader di Fratelli d'Italia piove su Facebook. "Mi chiedo: perché la Presidente della Camera, Laura Boldrini, reputi doveroso mettere il velo islamico per entrare nella Grande Moschea di Roma e invece reputi giusto presentarsi a capo scoperto e in ciabatte da mare in udienza dal Santo Padre?", s'interroga la Meloni. Che conclude: "Per la sinistra bisogna rispettare tutte le culture e le religioni del mondo, tranne le nostre. Che squallore!". Touché.

QUELLI CHE...REGIONANDO E PROVINCIANDO, TRUCCANO.

Regioni, il trucco per avere più fondi. Sono 62 i gruppi di una sola persona. Pure chi sulla carta li aveva aboliti, oggi ne è pieno zeppo. Dieci solo in Molise. Così possono non solo ottenere soldi, ma anche dotarsi di personale, scrive Sergio Rizzo il 6 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Sperimentata con successo da anni a Campobasso, la scissione dell’atomo molisano continua a dare grandi soddisfazioni ai politici locali. Uno sguardo in Regione confermerà tale sensazione. Per 22 consiglieri regionali ci sono infatti ben 16 gruppi consiliari autonomi, dei quali ben 10 (dieci) composti da una sola persona: ognuno presidente di se stesso. Un ulteriore salto di qualità nel formidabile processo di miniaturizzazione della politica capace di esaltare la creatività dei singoli. Se il gruppo monocellulare dell’ex governatore Michele Iorio, prima sospeso perché condannato e poi reintegrato nel 2014 dopo la prescrizione in Cassazione, è semplicemente «Il Molise», Vittorino Facciolla si spinge fino a «Unione per il Molise» mentre Vincenzo Cotugno esorta: «Rialzati Molise». E pensare che la scorsa consiliatura, quando i consiglieri erano una trentina, cioè il 50% più di ora, i gruppi composti da un solo consigliere erano appena, si fa per dire, nove. Il bello è che la febbre capace di contagiare la politica nella più piccola Regione italiana con l’eccezione della microscopica Valle D’Aosta, a dispetto di ogni polemica e vari tentativi di contenerla, dilaga irrefrenabile in tutta Italia. Sapete quanti sono i gruppi regionali con un solo componente? La bellezza di 62 (sessantadue). Niente è cambiato dopo gli scandali dei soldi dissipati per ragioni che nulla avevano a che fare con la politica. Niente, nemmeno dopo le inchieste giudiziarie che hanno fatto finire nel registro degli indagati 521 consiglieri. Niente, neppure dopo il giro di vite imposto a valle di quelle vicende nel 2012 dal governo di Mario Monti, e che di fatto hanno inaridito il fiume di denaro pubblico destinato a quei gruppi nei consigli regionali. Prima della riformina del 2011 che ha ridotto l’abnorme numero delle poltrone, per oltre 1.100 consiglieri regionali c’erano 75 gruppi monocellulari. Circa il 6,7%. Oggi ce ne sono invece 62 per 904 consiglieri: il 6,8%. Perfino Regioni che sulla carta li avevano aboliti, quei gruppuscoli, oggi ne sono ipocritamente piene zeppe. Il 16 novembre del 2011, quando il consiglio regionale del Lazio deliberò il divieto, il suo presidente dell’epoca Mario Abbruzzese esultò: «È un provvedimento che elimina di fatto un costo della politica, risolve il problema esistente fino a oggi della frammentazione dei gruppi». Allora, con 70 consiglieri regionali, quelli monocellulari erano 8. Oggi, che le poltrone sono 50, eccone 6. Si è passati dall’11,4 al 12%. Non che il divieto sia stato aggirato, sia chiaro. Semplicemente ci hanno pensato prima ancora delle elezioni. Ogni lista, un gruppo. Troviamo allora La Destra, con unico suo componente Francesco Storace. Da non confondere con la «Lista Storace», dove c’è sola soletta Olimpia Tarzia. E poi il gruppo «misto», nel quale Pietro Sbardella, figlio dell’indimenticato Vittorio, per tutti «lo squalo» per decenni dominatore di quell’area a cavallo fra la destra fascista e la destra andreottiana che a Roma spadroneggiava, si mischia evidentemente con se stesso. Che dire, infine, della lista civica Bongiorno affidata a Marino Fardelli? Che manca proprio lei, Giulia Bongiorno. La creatività, dicevamo, è al potere. Così in Abruzzo, dove il taglio dei consiglieri da 40 a 30 ha fatto lievitare i gruppi monocellulari del 50%, da 4 a 6. Così pure in Veneto, dove la lista Tosi per il Veneto, che di consiglieri ne ha ben 3, non ha impedito a Giovanna Negro di capeggiare isolata il gruppo «Il Veneto del fare – Flavio Tosi». Ma Tosi dov’è? A Verona a fare il sindaco, naturalmente. Per chi si chiede come mai tutto questo, una risposta c’è. Una volta per i gruppi regionali c’era a disposizione una barca di soldi. Oggi invece molto meno. Briciole: ma è sempre meglio che niente, con questi chiari di luna. Soprattutto, c’è la possibilità di assumere. Addetti stampa, portaborse… Nel Lazio, per esempio, ogni gruppo può avere fino a 3 collaboratori più l’esperto di comunicazione: al quale qualche giorno fa è stato riconosciuto anche il diritto al contratto giornalistico, con un emendamento ad hoc. E ormai le briciole sono al sicuro, dopo che il referendum costituzionale in salsa renziana è stato bocciato. Perché lì dentro c’era scritto chiaro e tondo: «Non possono essere corrisposti rimborsi o analoghi trasferimenti monetari recanti oneri a carico della finanza pubblica in favore dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali». Un bel pericolo scampato…

E 38 Province tornano a votare. Ma non dovevano scomparire? Recidive. E chiedono più soldi, scrive Dino Martirano il 6 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Le vecchie «care» Province di una volta — quelle di «impianto napoleonico» che hanno rappresentato per un secolo e mezzo l’anello di congiunzione funzionale tra Stato e territorio — sono morte due anni fa con la legge Delrio. E con la prospettiva di un’affermazione del Sì al referendum costituzionale del 4 dicembre, avrebbero anche dovuto perdere l’identità costituzionale («La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni») che, invece, con la vittoria del No, continua ad essere scolpita nell’articolo 114 della Carta. Ora, a prescindere dal risultato referendario, la Repubblica continua ad essere articolata in enti intermedi territoriali. L’unica differenza innescata dalla vittoria del No riguarda il nome: a pieno titolo, infatti, si può ancora parlare di Province, le cui assemblee rappresentative, però, sono elette con un meccanismo di secondo grado dai sindaci e dai consiglieri comunali del territorio e non più dai cittadini. La nuova architettura provinciale era già stata disegnata dalla legge Delrio del 2014 e pochi si ricordano che siamo già arrivati al secondo rinnovo dei consigli provinciali (14 sono delle città metropolitane). Così, domenica 8 gennaio, ben 38 Province andranno al voto per rinnovare i rispettivi consigli provinciali e in 16 casi si tratterà anche di eleggere i presidenti (che durano in carica 4 anni mentre per i consiglieri è previsto un mandato di due anni). Altri sei consigli provinciali verranno eletti tra il 9 e il 29 gennaio mentre in altre 27 Province si è votato già tra settembre e dicembre. Le «nuove» Province non rappresentano più direttamente la volontà dei cittadini/elettori ma si pongono a metà strada per mediare tra la volontà dei consiglieri-sindaci/grandi elettori e le Regioni. Detto questo, nel sistema delle Province i tagli sono stati draconiani (circa due miliardi in due anni), con 20 mila dipendenti in meno su 48 mila totali, ma le competenze rimangono sempre le stesse: la manutenzione di 135 mila chilometri di strade (la «nervatura carrozzabile» del Paese) e la gestione di 6 mila scuole. Nell’ultima legge di Stabilità è stato evitato in extremis un ulteriore taglio previsto nel 2014 (un miliardo che avrebbe mandato definitivamente a gambe all’aria i bilanci) ma poi il passaggio frettoloso della legge al Senato e la crisi di governo hanno stoppato l’iniezione di risorse fresche (500 milioni) senza le quali non si mettono toppe sull’asfalto e sui tetti delle scuole. Per il governo guidato da Paolo Gentiloni — che ha confermato il «dossier Province» nelle mani esperte del sottosegretario Gianclaudio Bressa — si tratta ora di tirare fuori il portafogli, anche con una certa urgenza: «I sindaci e i consiglieri hanno fiducia in questa nuove Province tanto che si mettono al servizio gratuitamente per amministrare al meglio i territori», osserva il presidente dell’Unione province italiane Achille Variati che è anche sindaco di Vicenza. Però, Vairati aggiunge anche altro: «Eppure rischiano di arrivare al paradosso di enti saldi dal punto di vista della governance istituzionale ma in default finanziario a causa di tagli insostenibili delle manovre economiche. Allo stato nessuna Provincia è infatti in grado di approvare i bilanci. Per questo serve subito un decreto legge... che li metta in sicurezza e consenta alle Province di continuare ad erogare quei servizi essenziali, a partire dalla gestione alla messa in sicurezza di strade, scuole secondarie e ambiente». E tra i servizi a rischio c’è anche il trasporto casa-scuola degli studenti portatori di handicap per il quale c’è solo un primo stanziamento di 170 mila euro nella Stabilità. Se il governo durerà ancora qualche mese, dunque, ci potrebbe essere il tempo necessario per varare un provvedimento per stanziare i 500 milioni capaci di tamponare l’emergenza finanziaria delle Province. Tuttavia, osserva, il sottosegretario Bressa, la «vera sfida del 2017 è quella di mettere fine alla transizione delle Province che hanno subito tagli da record, circa il 40% del budget iniziale, davvero senza precedenti in Italia». Un’altra tegola che sta per arrivare nella gestione del 2017 delle Province riguarda le Agenzie per l’Impiego che avrebbero dovuto sparire prima dell’ultima proroga di un anno: il governo ne ha impedito la chiusura ma non si capisce se l’operazione potrà essere ripetuta anche quest’anno.

La riscossa delle Province. Ora vogliono più soldi. Il referendum le avrebbe eliminate per sempre. Si appellano al presidente della Repubblica e chiedono il ripristino dei finanziamenti soppressi dal governo Renzi, scrive Sergio Rizzo il 6 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Poteva essere più triste la prossima domenica, per le 38 Province che l’8 gennaio dovranno rinnovare i consigli. Poteva esserlo, se il 4 dicembre fosse passato il referendum costituzionale che avrebbe cancellato quella parolina che fa capolino da sempre nell’articolo 114. Testuale: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». Senza più quelle tre sillabe, della parola «Pro-vin-ce», la loro sorte sarebbe stata prima o poi segnata. Spinte sull’orlo del baratro dalla legge che porta il nome di Graziano Delrio, faticosamente approvata nemmeno tre anni fa, sarebbero precipitate definitivamente nell’abisso a causa della riforma della Costituzione. Ora fortunatamente abortita. Invece adesso, dopo gli sfottò, dopo i disperati quanto vani tentativi di resistere, sperano. «Non abbiamo brindato per la vittoria del No», ha garantito all’indomani del voto il presidente dell’Unione delle Province Achille Variati, sindaco di Vicenza nonché presidente della locale Provincia. Nessun tintinnìo di bicchieri, neppure un sommesso «urrà». Ma è un fatto che subito dopo, forti della schiacciante vittoria del niet popolare alla riforma, le Province abbiano ripreso a rumoreggiare. Non avevano mai smesso, per la verità, ma ora continuano con rinnovato vigore. Prima un accorato appello al garante della carta costituzionale, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al quale hanno ricordato di essere ancora «incardinate nella struttura costituzionale». Al pari del Senato, delle Regioni intoccabili, e perfino del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, miracolosamente resuscitato come Lazzaro quando il sepolcro era già serrato. Con uno straziante grido di dolore: «Siamo allo stremo, senza soldi andremo tutte in dissesto dal primo gennaio 2017». Seguito dall’elenco delle ferite inferte loro in questi due anni, grondanti di sacrifici. Ben 650 milioni tagliati nel 2015, un miliardo e trecento evaporati nel 2016, fino ai quasi due miliardi pronti a spiccare il volo quest’anno. Nemmeno una parola, però, sugli aumenti a raffica delle tasse sulle polizze Rc-auto, che pressoché tutte le Provincie hanno nel frattempo portato al livello massimo consentito. Ed ecco qualche giorno più tardi la richiesta di un decreto legge per ripristinare i finanziamenti perfidamente soppressi dal governo di Matteo Renzi. Sperano, le Province, e a ragion veduta. Sono riuscite a sopravvivere, sia pure dovendo fare i conti con i rigori imposti dalla legge. Con quello che è accaduto il 4 dicembre scorso, e la slavina di voti che ha seppellito la riforma renziana, chi avrà mai più il coraggio di mettere in discussione la loro esistenza? Ci sarà da lottare, sicuro. Ma la democrazia altrettanto certamente prevarrà. Sembrano ormai lontani anni luce quei giorni che non ne passava uno senza che Silvio Berlusconi proclamasse «Le Province? Sono inutili», o da sinistra arrivassero bordate contro gli sprechi, senza che neppure Beppe Grillo spendesse una parola per difenderle. Tutt’altro. Questo diceva tre anni fa il leader del Movimento 5 stelle: «Noi vogliamo abolire seriamente le Province e in tutti questi anni non c’è stato uno del Movimento Cinque Stelle che si sia candidato alle Province. Non ci siamo mai candidati perché vogliamo realmente abolirle, risparmiando due miliardi». E nessuno si potrebbe stupire se qualcuno nel Parlamento, finalmente restituito al suo storico bicameralismo, avesse il coraggio di riproporre prima o poi (se non in questa, nella prossima legislatura) un clamoroso ritorno all’elezione diretta dei consigli provinciali da parte dei cittadini. Ci potremmo mettere anzi la mano sul fuoco. E scommettere anche su come potrà andare a finire, in quel caso. Qualcuno allora dovrà prendersi la briga di smurare dalla sede della Provincia di Reggio Calabria quella lapide grondante mestizia collocata lì alla vigilia delle prime elezioni non più dirette del consiglio regionale, la scorsa estate. Una targa marmorea alla memoria degli ultimi consiglieri eletti a suffragio universale, capitanati dall’ex sindaco di Reggio facente funzioni Giuseppe Raffa, con i loro nomi scolpiti in caratteri color porpora. Da sostituire, magari, con una lapide diversa: dedicata questa volta, anziché ai martiri della democrazia elettiva, agli ultimi eletti con la legge Delrio.

Luigi Di Maio non ha capito una cosa delle province, scrive il 6 gennaio 2017 Dario Ferri su "Next Quotidiano". Luigi Di Maio ha pubblicato un messaggio sulle province sulla sua pagina Facebook prendendo spunto da un articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della Sera che oggi ricordava il ritorno al voto degli enti la cui abolizione sembra come l’Araba Fenice. Nell’articolo del Corriere però si spiegava che il ritorno al voto dipendeva dal No al referendum del 4 dicembre: La Provincia è un ente locale territoriale dove l’area è, per estensione, inferiore a quella delle Regioni e superiore a quella dei Comuni. Dopo una serie di norme che hanno rivisto le funzioni delle Province, erano rimaste, tra le altre, quella su risparmio energetico, autoscuole e protezione civile. Con la riforma Delrio, ovvero la legge 56 del 7 aprile 2014, le Province sono state trasformate in enti amministrativi di secondo livello e 10 di loro sono diventate Città metropolitane. Tra le funzioni rimaste figurano quelle su pianificazione dei servizi di trasporto, rete scolastica, costruzione delle strade provinciali. La definitiva cancellazione delle Province sarebbe stata certificata con la riforma costituzionale, bocciata però dal No al referendum del 4 dicembre. Rizzo nel testo dell’articolo ricordava anche che “con la prospettiva di un’affermazione del Sì al referendum costituzionale del 4 dicembre, avrebbero anche dovuto perdere l’identità costituzionale («La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni») che, invece, con la vittoria del No, continua ad essere scolpita nell’articolo 114 della Carta”. Di Maio però aggiunge un ragionamento e segnala che «Nella riforma costituzionale avrebbero cambiato il nome da provincia ad area vasta, ma nella sostanza nulla sarebbe cambiato, mentre in Sicilia gli hanno cambiato il nome in “liberi consorzi di comuni” un modo elegante per prenderci per il culo. Ma non contenti di questo sono riusciti perfino a peggiorarle derubando i cittadini della possibilità di scegliere i propri consiglieri provinciali che sono autoproclamati dai consiglieri comunali e dai sindaci di tutti i comuni della provincia». Il problema però è che dopo sostiene che il M5S non presenta alcuna candidatura alle elezioni provinciali e propone l’abolizione dell’ente con legge costituzionale. E qui Di Maio non sembra aver capito che una Città Metropolitana è un ente di Area Vasta (dice qualcosa il nome) che oggi amministra il territorio della provincia di Roma. Non dovrebbe sfuggire a Di Maio che qualche tempo fa si sono svolte le elezioni per la Città Metropolitana di Roma, l’ente di area vasta che attualmente ha le competenze della ex provincia di Roma (amministrando 4,3 milioni di abitanti). E non dovrebbe sfuggire a Di Maio che si sono candidati e sono stati eletti non uno, non due ma ben nove consiglieri del MoVimento 5 Stelle, che sono: Giorgio Fregosi, i capitolini Marcello De Vito, Paolo Ferrara, Giuliano Pacetti, Teresa Maria Zotta, Maria Agnese Catini, Gemma Guerrini, insieme al sindaco di Pomezia, Fabio Fucci, quello di Marino, Carlo Colizza e quello di Nettuno, Angelo Casto. Il sindaco metropolitano, sempre per ricordarlo a Di Maio, è attualmente Virginia Raggi. I consiglieri del M5S sono stati eletti proprio con quel sistema elettorale che, come diceva Di Maio, «deruba i cittadini della possibilità di scegliere i propri consiglieri provinciali che sono autoproclamati dai consiglieri comunali e dai sindaci di tutti i comuni della provincia». Che tutto questo sia accaduto all’insaputa di Di Maio? Di certo il vicepresidente della Camera non ha capito qualcosa delle province: che attualmente negli enti che ne sono eredi siedono anche eletti M5S.

MALEDETTA ALITALIA (E GLI ALTRI).

La sfida tra "patrioti" e "invasori" su Alitalia, Mps e Mediaset. I fatti dicono che Alitalia è già decotta, Vivendi è pronta a salire al 30 per cento dell'azienda di Berlusconi e la pulizia dei bilanci delle banche italiane costerà 52 miliardi di euro. Patrioti, dove siete? Scrive Mario Sechi il 21 Dicembre 2016 su “Il Foglio”. Come sta l’Italia? Benissimo, in chiusura del 2016 abbiamo assistito anche alla formidabile rinascita del sentimento patriottico, rifiorito dopo l’avvistamento delle truppe napoleoniche che marciano verso il ducato di Maria De Filippi. Ecco gli appunti sugli spostamenti delle truppe nel teatro di guerra, mettetevi comodi, è un grande spettacolo.

Patriots 1. Alitalia. Allacciate le cinture e preparatevi al decollo: Alitalia è tornata al suo destino di compagnia aerea decotta. Chi lo dice? Le fonti del titolare di List, una lettura attenta della stampa economica internazionale e quella cosa che in Italia si scopre sempre all’ultimo momento, la realtà. “Lo scenario volge al peggio” raccontano fonti che hanno conoscenza del dossier della nostra fu compagnia di bandiera. Pessimismo? No, basta seguire con attenzione l’impaginato globale. Gli emiri stanno per licenziare James Hogan, numero uno di Etihad Airways, azionista al 49% di Alitalia. Lo scrive il giornale economico tedesco Handelsblatt e la cronaca è quella di un film di Dario Argento, Profondo Rosso:

Etihad nel 2011 ha comprato il 29% di Air Berlin, la compagnia aerea perde 447 milioni di euro ed è sull’orlo della bancarotta;

Alitalia perderà 400 milioni di euro quest’anno ed è proiettata per un rosso di mezzo miliardo nel 2017;

Gli investimenti di Etihad in Europa registrano una perdita di 2.5 miliardi di euro. In gennaio la compagnia aerea del governo di Abu Dhabi premerà il tasto reset sull’intera strategia europea, il destino di Alitalia appare segnato: il governo deve trovare un compratore. La compagnia perde non 500 mila euro al giorno come dichiarato da alcuni suoi esponenti (Montezemolo) ma il doppio, un milione. E i patrioti? Muti sono. Siamo di fronte a un complotto ordito dalla Germania di cui Handelsblatt è lo strumento di propaganda? Ok, cospirazionisti, allora passiamo al Wall Street Journal, sintesi:

La compagnia doveva comprare nuovi aerei dalla Boeing ma ha deciso di rinviare l’acquisto alla luce delle prospettive del mercato;

Il profitto netto a metà del 2016 è crollato del 75%;

La strategia di spremere ricavi dall’hub di Abu Dhabi ha il fiato corto, la tecnologia sta rendendo gli aerei sempre più efficienti e le compagnie aeree sui voli di lungo raggio stanno cominciando a saltare lo stop negli Emirati: Qantas ha annunciato un collegamento diretto tra Perth, Australia, e Londra, senza scalo. Bye bye, desert sands. Un urlo sale dalla trincea. Patrioti, dove siete?

Patriots 2. Mediaset. La grande guerra per la difesa di Elisa di Rivombrosa e i Cesaroni sta dando i suoi frutti, a far da scudo al Biscione è sceso in campo anche uno statista del calibro di Angelino Alfano e il risultato netto dell’agitarsi della sua durlindana è spettacolare: Vincent Bolloré ieri ha annunciato di aver acquistato il 25,75% del capitale, il finanziere bretone ha il 26.77% dei diritti di voto del gruppo televisivo della famiglia Berlusconi. I francesi di Vivendi saliranno fino al 30% del capitale (probabilmente ha già acquisito anche le quote restanti per raggiungere l’obiettivo, lo vedremo nelle prossime ore), in una sola seduta ieri è passato di mano il 10% del capitale, il titolo è cresciuto del 23.33%, il 9 novembre il prezzo del titolo era a 2.20 ieri ha chiuso a 4.44. Prossimo passo? Con il superamento del 30% del capitale Vivendi potrà lanciare l’Offerta pubblica d’acquisto sull’intero capitale di Mediaset. I soldi? Non sono un problema, Vivendi ha i mezzi per lanciare l’Opa sul cento per cento del capitale, la cassa netta al 30 settembre 2016 è di 2,5 miliardi di euro, erano 6,4 miliardi nel 2015. Ecco come l’ha usata:

Mediaset finora ha risposto con le azioni legali, ma qui la materia del contendere è concentrata in una sola parola: il denaro, cash. Possibilità di un accordo tra la famiglia Berlusconi e Bolloré? Per ora scarse, la linea del gruppo di Cologno Monzese è quella delle vie legali, carta bollata e si vedrà. C’è un governo, un sistema di potere in grado di fermare la scalata di Bolloré? No. A meno che non si creda che Gentiloni e Alfano siano diventati Batman e Robin. Per sapere e per capire come andrà a finire bisogna fare una sola cosa: follow the money, seguire i soldi. E i patrioti? Non sanno di cosa parlano, sta arrivando Natale, una grolla a Cortina e passa tutto.

Patriots 3. Monte dei Paschi (e gli altri). Servono soldi pubblici per salvare le banche. Il governo ha chiesto l’autorizzazione a emettere 20 miliardi di nuovo debito da usare come salvagente. La commissione Bilancio del Senato oggi esamina la relazione presentata da Palazzo Chigi. Ai lavori partecipa anche il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan. Il provvedimento arriverà poi subito in aula alle 9.30. Il voto, che dovrà essere a maggioranza assoluta, sarà alle 12. L’orario non è casuale, tutto ha un timing preciso e siamo in un pieno thriller finanziario. Occhio all’orologio: alle 14 si chiudono i termini per la conversione in azioni delle obbligazioni subordinate del Monte dei Paschi. Dall’esito dell’operazione dipende il resto della ricapitalizzazione della banca. Non va? No problem, paga il contribuente. Basteranno i venti miliardi del governo? No, guardate questo grafico di Bloomberg:

Secondo questi calcoli la pulizia dei bilanci delle banche italiane costa 52 miliardi di euro, siamo a più del doppio rispetto all’assegno che è pronto a staccare il governo. Patrioti, dove siete? Silenzio. Somigliano sempre più alla descrizione che Gordon Gekko faceva di un suo collega di Wall Street non proprio sveglio: “Se vendesse bare, non morirebbe più nessuno”.

I privilegi e il massacro, scrive Raffaele Marmo il 25 aprile 2017 su "Il quotidiano.net". I lavoratori di Alitalia che hanno votato no e i sindacati che hanno indetto il referendum-scommessa sul destino della compagnia hanno deciso di suicidarsi. A questo punto, così sia. Si proceda al commissariamento e alla liquidazione dell’azienda. Senza che lo Stato (e, dunque, tutti noi) ci metta un solo euro per il salvataggio estremo di un’impresa che, per decisione dei suoi stessi dipendenti, non merita di essere salvata. Per chi conosce un po’ della storia della compagnia, una volta di bandiera, non poteva finire diversamente. Salvata da se stessa in decine di occasioni, Alitalia è stata e rimane l’azienda dei privilegi corporativi di tutti i suoi lavoratori: stipendi d’oro e regole senza pari come per nessun altro competitor, vantaggi e benefit a go go, ammortizzatori infiniti con indennità all’80 per cento dello stipendio effettivo. Niente di paragonabile si è visto mai per nessun altro gruppo italiano e per nessuna altra categoria di lavoratori. Eppure, nonostante tutto questo ben di Dio di tutela sindacale e di welfare pubblico, è stato talmente forte il riflesso corporativo del privilegio storico che anche di fronte al baratro del possibile fallimento i lavoratori in massa hanno votato no. Con la presunzione di chi pensa che alla fine, come nelle occasioni precedenti, tutto finirà a posto. Ma questa volta non può finire a posto, come se niente fosse accaduto. E gli stessi vertici di Cgil, Cisl e Uil dovrebbero trarne più di una conseguenza. In altri referendum, come quello di Pomigliano e Mirafiori, lavoratori sicuramente meno garantiti e autoreferenziali hanno fatto ben altre scelte. 

Non un euro dallo Stato. Non merita e non ci possiamo più permettere un euro pubblico, cioè sottratto al nostro reddito, per darle l'ennesima spintarella, scrive Nicola Porro, Mercoledì 26/04/2017 su "Il Giornale". Negli ultimi quarant’anni l'Alitalia è costata ai contribuenti italiani 7,4 miliardi di euro, o se preferite 185 milioni l'anno (dati Mediobanca). L'anno scorso, sotto la gestione Etihad, ha bruciato più del doppio. È stato come mettere alla cloche della compagnia il capitano dell'aereo più pazzo del mondo. I lettori si potrebbero consolare con il fatto che gestire aeroplani è un mestiere in declino. Purtroppo anche questo non è vero. La Iata, l'organizzazione mondiale delle compagnie aeree, sostiene che il traffico aereo stia aumentando e che le compagnie aeree nel 2016 hanno registrato profitti netti aggregati pari a 36 miliardi di euro. Ultima considerazione numerica, diciamo così. Gli azionisti di questa società sono privati. Alitalia è come la Rossi spa. Ha un numero importante di dipendenti e un indotto altrettanto vasto. Ma ormai è una società per azioni come tante. È strategica certamente. Come lo erano gli scaffali della grande distribuzione finiti in mano ai francesi, o le telecomunicazioni e l'energia. Il suo asso nella manica è di essere basata a Roma, di trasportare anche politici e opinionisti. E di avere, per questa via, una grande influenza elettorale. È una bomba che scoppia spesso nell'imminenza di qualche competizione elettorale, e la politica ne ha sempre sentito il richiamo. Il vento pensavamo fosse cambiato. Di una cosa siamo certi. Non merita e non ci possiamo più permettere un euro pubblico, cioè sottratto al nostro reddito, per darle l'ennesima spintarella. Il tanto vituperato «populismo», quello contro le caste e i privilegi, pensavamo che questa volta ci potesse aiutare. Al contrario il sindaco di Roma, Virginia Raggi (in perfetta continuità con i suoi predecessori) chiede un qualche intervento pubblico e il suo leader designato, Luigi Di Maio dice: «I processi devono andare in un senso in cui lo Stato ha di nuovo la governance di quell'azienda». Roba da pazzi, o meglio da Pentapartito, con tutto il rispetto. Ma si tratta di un'era geologica fa. Il Pd proclama che non si lasceranno sole le famiglie. Il rischio è che anche il centrodestra si accodi. Dal canto suo il governo dice, e fa bene, che non ci sarà alcuna nazionalizzazione. Anche perché banalmente l'Europa, che non ci concede una virgola di deficit, figurarsi se permette aiuti di Stato. Inevitabilmente ci saranno dei mesi di amministrazione straordinaria (sei, dice il ministro Calenda): che scadranno proprio a ridosso della campagna elettorale per le Politiche (in Italia ancora si vota). Il momento peggiore per fare ciò che si deve.

Ps. Qualcuno ci deve spiegare perché gli accordi aziendali e le scelte dei manager debbono essere sottoposte a referendum tra i lavoratori. Una cosa è la democrazia, che peraltro non è sempre diretta, e un'altra è l'organizzazione aziendale.

Gli errori e le colpe su Alitalia. La girandola di azionisti e amministratori delegati della compagnia è stata vorticosa, con piani di rilancio che non hanno prodotti i risultati sperati, scrive Ferruccio de Bortoli il 10 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Ai tempi d’oro dell’Iri, l’Alitalia era la punta di diamante della presenza dello Stato in economia. La vetrina nella quale specchiarsi. Il mercato del trasporto aereo era appannaggio quasi esclusivo delle compagnie di bandiera, regolato dai rapporti tra Stati. Il suo presidente, tra il ’78 e l’88, era Umberto Nordio. Espressione massima del boiardo di Stato: temuto, corteggiato, invidiato. Si arrivò addirittura a pensare che il mondo dell’Iri potesse avere un grattacielo a New York, espressione della propria forza industriale. Chi avrebbe dovuto realizzare il sogno italiano? L’Alitalia. Su questo e altri temi epico fu lo scontro, nell’88, fra Nordio e il presidente dell’Iri Romano Prodi. È passata un’eternità. La compagnia è stata privatizzata, salvata più volte, rimpicciolita, eppure è ancora sull’orlo del precipizio. La girandola di azionisti è stata vorticosa. Gli amministratori delegati si sono succeduti con la frequenza degli allenatori di calcio sulla panchina più instabile: uno in media all’anno. Sono stati fatti innumerevoli piani di rilancio da uno stuolo di consulenti, pagati fino a un milione a studio per dire sempre le stesse cose. Anche Etihad, che ha il 49 per cento del capitale, non sembra essere riuscita nell’impresa di strappare Alitalia al suo destino. I numeri sono impietosi: la società ha una perdita operativa, non considerando le partite straordinarie, di 500 milioni l’anno, accumulata nel periodo più favorevole per il prezzo del petrolio, prima voce di costo. Si riparla nuovamente di esuberi: almeno 1.500. Secondo altre fonti molti di più. Il governo chiede un piano preciso prima di tornare a discutere di tagli. Quello precedente aveva pregato Alitalia di astenersi da annunci prima del referendum del 4 dicembre. Le banche creditrici e azioniste, Intesa Sanpaolo e Unicredit, hanno espresso la loro sfiducia nell’amministratore delegato, l’australiano Cramer Ball. Gli azionisti di Abu Dhabi, convinti nel 2014 a investire in Italia dall’attuale presidente Luca di Montezemolo, sostengono che il governo non ha mantenuto tutte le promesse (esempio, più voli da due ore a Linate). L’idea che Alitalia possa alimentare il loro hub è venuta un po’ meno. Delusi sì ma anche deludenti. C’è un dato che spiega quanto sia cambiato in profondità il trasporto aereo. La quota di mercato in Italia di Ryanair è passata, negli ultimi cinque anni, dal 20 al 30 per cento. È il primo operatore nazionale. Lo è diventato grazie a qualche aiuto (Regioni) e molta insipienza. In altri Paesi non è accaduto. La compagnia low cost irlandese — che senza la liberalizzazione europea non sarebbe mai esistita — ha annunciato che investirà ancora di più nel nostro Paese mettendo a disposizione delle sue rotte altri venti aeromobili. Il mercato cresce del 4 per cento l’anno. E Ryanair guadagna. La domanda principale è questa: Alitalia è in grado, trasformandosi, di farle concorrenza nel cosiddetto corto raggio? Nel medio e lungo raggio, nonostante nuove rotte (Pechino, Seul) e servizi decisamente migliori, gli spazi di mercato premium sono ancora più impegnativi. E non si potrà fare a meno di un alleato di peso (Lufthansa?) vista l’impossibilità di Etihad di crescere nell’azionariato di una compagnia che non può che restare europea. Le destinazioni americane, tra le più redditizie, sono precluse da accordi precedenti (Delta, Air France). I cosiddetti slot più ambiti sono stati venduti, come argenteria, nei momenti di magra. Alitalia non riesce a volare come vorrebbe il mattino presto su Londra. Scrivere e condividere un piano di rilancio sarà impresa ardua. Al momento c’è poco. La governance dovrà essere rivista, probabile un radicale cambio alla dirigenza. Non è solo una questione di costo del lavoro che è di circa 600 milioni l’anno, anche se il personale di staff (4 mila su circa 13 mila dipendenti) è sproporzionato. Ma è il cosiddetto modello di business l’ostacolo maggiore. Se si deciderà di dar vita a un nuovo operatore sul corto raggio non si potrà sfuggire da alcuni raffronti. Ryanair e EasyJet hanno costi di funzionamento abissalmente più bassi, fino al 67 per cento in meno. Riempiono i voli quasi al 100 per cento. Alitalia supera di poco il 70 per cento. Ryanair serve nella Penisola più aeroporti di tutti. Ha 350 connessioni da e verso l’Italia. Alitalia solo 150 e non può più permettersi di servire destinazioni in perdita (Roma-Malpensa; Roma-Reggio Calabria, ecc.). «In Europa c’è un eccesso di capacità produttiva — spiega Andrea Boitani, docente di Economia politica alla Cattolica di Milano — Lufthansa e Klm-Air France riescono a fatica a integrare il loro network di voli con il corto raggio che alimenta le distanze più lunghe. Alitalia era già senza speranze nel 2000. Bisognava chiuderla e trasformarla. Con coraggio. Chiamarla compagnia di bandiera non ha più senso. E nemmeno la giustificazione che possa aiutare, così come oggi, il turismo non regge più». Boitani si riferisce a quello che accadde nella crisi che esplose nel 2006. Il governo Prodi era sul punto di cedere, nel marzo del 2008, Alitalia a Klm-Air France per 1,7 miliardi con 2.100 esuberi. Il sindacato si oppose. Il dossier infuocò la campagna elettorale. Berlusconi appoggiò il formarsi di una cordata di imprenditori italiani con la giustificazione che se Alitalia fosse finita in mani francesi «i turisti avrebbero visitato di più i castelli della Loira delle nostre città d’arte». Il piano Fenice, studiato da Corrado Passera, allora amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, fondeva Alitalia con la zoppicante e indebitata AirOne. Il Sole 24 Ore, che prese una posizione contraria al proprio azionista impegnato nella cordata patriottica, calcolò già allora, in un articolo del 6 settembre 2008, il maggior costo per la collettività (e in parte per azionisti e obbligazionisti) della proposta dei cosiddetti capitani coraggiosi: tra 3 e 4 miliardi. Fu concessa una cassa integrazione con uno scivolo di sette anni, finanziata anche con un rincaro di tre euro a biglietto. Nel 2015 Mediobanca ha stimato quanto sia costata al Paese la pessima gestione di Alitalia degli ultimi quarant’anni: 7,4 miliardi. I tempi di Nordio sono finiti da un pezzo, ma i nostalgici della compagnia di bandiera, generosa in assunzioni e servizi, delle partecipazioni statali legate a doppio filo con la politica, del peggior potere sindacale, resistono. Tra i piloti c’è chi abita a Marbella e il sindacato insiste perché venga pagato il trasporto sul posto di lavoro. E anche tra i molti azionisti succedutisi negli anni c’era la radicata riserva mentale che, alla fine, lo Stato avrebbe fatto il pagatore di ultima istanza. Ma il conto è già colossale e insopportabile.

Alitalia, un pasticciaccio tutto italiano, scrive Massimo Giannini il 25 aprile 2017 su "La Repubblica". A Parigi si vota per salvare l’Europa. A Roma si vota per uccidere l’Alitalia. La vittoria dei no al referendum sul piano di salvataggio della compagnia aerea più disastrata del continente è il giusto epilogo di un fallimento permanente che dura ormai da trent’anni. L’ultimo capitolo, il più amaro, di un brutto pasticciaccio italiano. Che tutti, ma proprio tutti, hanno contribuito a scrivere. Lo Stato e il mercato, la politica e il sindacato. Gli azionisti pubblici e i capitalisti privati, i manager cinici e i dipendenti privilegiati. Non c’è un solo attore, su questa quinta in rovina sulla quale sta per calare il sipario, che possa dire “io non c’entro”. Oggi serve a poco gettare la croce addosso ai lavoratori di cielo e di terra che hanno bocciato la proposta ultimativa dell’azienda (1.300 esuberi, 900 in cassa integrazione straordinaria, 8 per cento di stipendio in meno per tutti). È vero che a quella proposta Etihad, Invitalia e le banche avevano subordinato la concessione di altri 2 miliardi di capitali per tenere in piedi la compagnia. Ma è altrettanto vero che affidare ai dipendenti l’ultima parola sulla sopravvivenza di un’impresa (scambiandola con l’ennesimo giro di vite occupazionale e salariale), suona sempre come un vago ricatto. Non possono pagare colpe che non hanno. Tuttavia, i tanti che hanno scritto il loro “no” sulla scheda hanno compiuto un gesto che racchiude in sé il vizio d’origine, culturale e industriale, che ha da sempre caratterizzato il volo avventuroso di Alitalia. A tutti i livelli. Cioè l’idea che di fronte ai dissesti epocali di questa compagnia ci sia sempre un piano B pronto in un cassetto. E che quel piano B, alla fine, sia sempre lo Stato padrone a dettarlo, tappando i buchi di bilancio con i soldi del contribuente. Questa volta non andrà così. Non c’è più una mammella pubblica, dalla quale succhiare i soldi per pagare gli stipendi, o il gasolio per far volare gli aerei. Questa volta c’è solo l’amministrazione straordinaria e la nomina di un commissario, che salda i creditori che può saldare e poi porta i libri in tribunale. E questo esito, doloroso quanto si vuole, non lo detta solo la solita Europa Matrigna, che vieta gli aiuti di Stato. Lo detta il buon senso. Non c’è più un cielo da solcare, per una compagnia aerea che perde 700 milioni all’anno, 2 milioni al giorno, 80 mila euro l’ora. Luigi Gubitosi è l’ultimo presidente arrivato al capezzale del moribondo, e se non riesce a rianimarlo lui (che ha avuto a che fare con il carrozzone Rai) non ce la può fare nessuno. Non ci sono più rotte da percorrere, per un vettore che ha creduto di giocare la partita dell’eccellenza insieme alle ricchissime compagnie degli Emirati, mentre Ryanair e Easyjet gli rubavano le tratte più battute (le turistiche a corto e medio raggio) e Freccerosse e Italo gli scippavano quelle più pregiate (la Roma-Milano su tutte). Ecco i colpevoli, di questo “delitto”. I politici l’Alitalia l’hanno usata come un taxi, per motivi elettorali e spesso anche personali. È stato così nella Prima Repubblica, quando le cavallette Dc e Psi l’hanno spolpata tra nomine lottizzate e assunzioni clientelari. È stato così nella Seconda, quando Berlusconi nel 2008 se l’è giocata al tavolo della campagna elettorale, facendo saltare l’unica fusione che allora aveva ancora un senso, quella con Air France-Klm. È stato così anche nella Terza, quando hanno finto di difendere a chiacchiere “la compagnia tricolore”, mentre nei fatti cedevano pezzi di mercato alle low cost straniere. I privati l’Alitalia l’hanno usata solo per ingraziarsi il Palazzo, come accadde con i “patrioti” che su ordine del Cavaliere ci misero un obolo solo per garantire la patetica difesa “dell’italianità”, e non certo una prospettiva strategica credibile. I manager l’Alitalia l’hanno sfasciata, in un tourbillon di piani industriali buttati al macero e di bonus astronomici ficcati in portafoglio. In cinquant’anni sono cambiati tre all’anno, cinque solo negli ultimi cinque anni. Da Nordio a Cempella, da Mengozzi a Cimoli. E poi Sabelli, Ragnetti, Cassano. Pare una squadra di calcio. Peccato che si sia rivelata di serie C, moltiplicando i passivi anno su anno. Almeno Mengozzi e Cimoli, qualcosa hanno restituito, tra una condanna a 6 e una a otto anni. Ma siamo tutti garantisti, per carità. Restano i sindacalisti, che hanno lucrato prebende previdenziali e bloccato alleanze industriali, sempre convinti che il bengodi degli anni ‘70 non sarebbe mai finito. Siamo all’ultimo volo della Fenice. O sbuca fuori un grande partner (occidentale o asiatico che sia) e si compra la compagnia tutta intera, o siamo al capolinea. Bisogna dirlo, con dolore. Forse è meglio così. È bello, per un Paese, poter schierare nei cieli del mondo globalizzato la sua “compagnia di bandiera”. Da orgoglio, fa “identità”. Ma questo non può più avvenire a qualsiasi prezzo. Se ci sono le condizioni di mercato, bene. Altrimenti, se ne prenda atto, e si compiano le scelte conseguenti. Tra il 1974 e il 2014, per salvarla, abbiamo speso 7,4 miliardi di denaro pubblico: l’equivalente di una “Alitalia tax” da 180 milioni l’anno. Forse può bastare. Dio è morto, Pantalone è morto, e stavolta può morire pure Alitalia.

Alitalia, un'azienda costata al Paese come mezza finanziaria. I governi hanno speso 8 miliardi per salvataggi impossibili. Adesso meglio i libri in tribunale, scrive Giuseppe Turani il 25 aprile 2017 su "Il Quotidiano.net". Quella dell’Alitalia è una storia maledetta e non esistono scuse. Fino a oggi è costata al paese come una mezza finanziaria, cioè 7-8 miliardi di euro. Nessuno ricorda più quando ha guadagnato due soldi. E ora che nel referendum tra i dipendenti hanno prevalso i no, non resta che portare i libri in tribunale, a meno che lo Stato non metta sul tavolo un altro pacco di soldi, al buio. È dalla fine degli anni Ottanta che si sa che occorrevano provvedimenti drastici. L’amministratore delegalo di allora, Carlo Verri, lo aveva spiegato molto chiaramente: «Da sola non può stare in piedi, bisogna fare accordi a livello europeo». Morto Verri in un incidente stradale, si è preferito tirare avanti. L’Alitalia come pennacchio del paese e serbatoio per raccomandati, a spese della finanza pubblica. Nel 2007, con Prodi presidente del Consiglio, si cerca di affrontare la questione. Se ne discute con i tedeschi. E Prodi riesce a convincere la cancelliera. Tutto sembra andare a posto. Ma, all’ultimo minuto, gli amministratori della Lufthansa dicono di no. Adducendo la seguente motivazione: «Non vogliamo avere a che fare con sindacati come quelli dell’Alitalia».

Prodi, che è un testardo, si rivolge persino ai cinesi: «Così portate qui i vostri turisti – suggerisce – e siete a due passi dall’Africa, che a voi interessa molto, con una vostra compagnia aerea». I cinesi sono ingolositi dall’offerta, ma si stanno organizzando e hanno bisogno di qualche anno ancora. Ma i conti Alitalia sono così tremendi, e non migliorabili, che la fretta cresce. Alla fine si riesce a convincere l’Air France. La compagnia francese è solida, le condizioni sono buone e tutto sembra andare per il verso giusto. Ma il governo Prodi cade dopo meno di due anni e arriva Berlusconi. E il Cavaliere, sempre attento al marketing, comincia a sventolare il tricolore. Non possiamo privarci della nostra compagnia di bandiera. Sarebbe un’umiliazione grave. Ma come si fa? Lo Stato si accolla un po’ delle perdite pregresse, Banca Intesa si mobilita e arrivano i capitani coraggiosi (grosso modo gli stessi che avevano appena fatto un grande affare con la Telecom). Colaninno, che li guida, è un bravo manager, è uno che sa quello che fa. E quindi prova a risanare la società. Ma non c’è niente da fare. Come aveva detto Verri, e come sapeva benissimo Prodi, senza un accordo europeo non si va da nessuna parte. E, alla fine, anche Colaninno getta la spugna. Preferisce, giustamente, dedicarsi alle sue aziende (motociclette), che almeno sono un business in crescita. 

Dopo i capitani coraggiosi non ci sono più molte risorse. Miracolosamente, si pesca la Etihad, di Abu Dhabi. Nuovi manager, nuovi soldi, nuove rotte, nuove idee. Ma il risultato è sempre un disastro. Fino allo show down di questi giorni: altri soldi pubblici, in cambio di riduzione del personale e taglio degli stipendi. E quindi referendum fra i dipendenti, molto contrari. L’Alitalia, questa è la verità, è un cadavere che da almeno quindici anni si rifiuta di morire. Ma questa volta è proprio a due passi dalla fossa.

Politici, sindacati, manager: ecco tutti i colpevoli di un buco da 7,4 miliardi. Non solo i piloti-kamikaze, Alitalia è in perdita da decenni. Ma non si salvano neppure gli arabi, scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 26/04/2017, su "Il Giornale". Volare sulle ali di piombo della politica. Volare fuori rotta. Volare fuori dal mercato. La storia degli ultimi vent'anni di Alitalia è la successione seriale di fallimenti che generano altri fallimenti. E una costante di fondo: manager modellati con la creta della politica e il Palazzo che si affanna a affondare il biscotto in quel pozzo senza fondo. «Gli interventi della politica a avario titolo - spiega il professor Marco Ponti, uno dei più autorevoli esperti di economia dei trasporti in Europa - sono stati almeno 5 negli ultimi vent'anni e secondo Mediobanca, che ha attualizzato i numeri, ricapitalizzazioni, aiuti e mance sempre generosissime sono costati al contribuente dal 1974 in poi fra i 7,4 e gli 8 miliardi di euro». Una cifra monstre per avere un'azienda sull'orlo del cratere e i conti completamente sballati. La grande crisi comincia intorno al 2002-2003 quando Ryanair scala i cieli europei introducendo un nuovo concetto: il low cost. Alitalia, che ha una struttura vecchia e che ancora sopravvive sugli antichi allori, non fa nulla per mettersi al passo. E spesso le mosse fatte sono sbagliate o non risolutive. Gli organici sono gonfiati a dismisura, le assunzioni spesso passano dal notabile di turno, le destinazioni degli aerei devono tenere conto di troppi equilibri e diventano, come tutto il resto, un esercizio di equilibrismo. Per compiacere deputati e senatori e per ragioni di bandiera la compagnia raggiunge molte destinazioni che non sono redditizie. Anzi, sono una palla al piede. «A quel punto - prosegue Ponti - sarebbe stata necessaria una riconversione dal corto raggio al lungo raggio». Tradotto dal linguaggio tecnico a quello della strada significa sfoltire col decespugliatore le mete nazionali o europee per buttarsi su quelle intercontinentali, al momento le sole che generano profitto. Ma per farlo ci vorrebbero manager con la schiena dritta, ci vorrebbe coraggio, ci vorrebbero soprattutto molti soldi, una montagna di denari. Alitalia, il più classico dei carrozzoni, resta impantanata nei suoi limiti strutturali, nei veti dei sindacati che banchettano allegramente con i soldi del contribuente, nella miopia di chi dovrebbe raddrizzare la barca. Ryanair ha un solo modello di aereo, Alitalia, fedele alla sua logica diplomatico-ecumenica, chiamiamola così, ne ha 22 e per di più di case diverse. Un manicomio per il magazzino, la logistica, le trattative con i fornitori. La vendita ad Air France, che avrebbe dato un'anima alla flotta, sfuma e nel 2008 Berlusconi affida la compagnia ai «capitani coraggiosi»: i Colaninno, i Riva, i Benetton. La concorrenza continua a mangiare quote di mercato e le tariffe, per la fortuna dei passeggeri, scendono, ma il brand tricolore non decolla. Certo, i dipendenti calano da quota 20mila, uno scandalo, ma oggi, dieci anni dopo, siamo ancora a 12.500 e già si parla di altri 1.600 esuberi. Si dovrebbero ridurre i modelli e modificare le rotte ma il carburante del cambiamento non arriva. Oggi Alitalia spende 6,5 centesimi a chilometro per passeggero contro i 3,5 di Ryanair. Una guerra persa in partenza. La compagnia è un pesce fuori scala per tutti i cieli. Troppo grande rispetto alle low cost, troppo piccola per competere con Air France e Lufthansa. A metà del guado non si va da nessuna parte, nemmeno quando arrivano gli arabi di Etihad. Che però, attenzione, acquisiscono solo il 49% e non la maggioranza assoluta del grande malato. Forse si muovono con particolare prudenza, forse hanno più dubbi che certezze. L'ultima chance svanisce. Oggi gli aerei che viaggiano a lungo raggio sono solo 25 su 115 e l'incremento portato da James Hogan è stato modestissimo: 2 unità. Poco o nulla. Il confronto finale è impietoso: i voli interni sono scesi dal 58 al 54% contro il 17-18 per cento del duo Air France Lufthansa. Un disastro. In compenso chi compra un biglietto in Italia finanzia con 3 euro una cassa integrazione di 7 anni, più lunga di uno scivolo di Disneyland. Un altro record della maglia nera dei cieli.

Alitalia, se pochi decidono per tutti, scrivono Alberto Alesina e Francesco Giavazzi il 25 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". I dipendenti di Alitalia (circa 12 mila) hanno rigettato con un referendum il piano di risanamento della compagnia. Piano varato dagli azionisti, con il consenso delle banche creditrici, dei sindacati e del governo che si era mosso, tra l’altro, per stabilire una garanzia pubblica di 300 milioni al progetto di rilancio della compagnia; oltre, ovviamente, agli ammortizzatori sociali per i dipendenti che si sarebbero trovati a perdere il lavoro. Un progetto, come spiegava Daniele Manca sul Corriere di ieri, che non era certo draconiano per i dipendenti che, va detto, non sono i soli responsabili del disastro. È chiaro, per quanto non esplicitato, che cosa vorrebbero quanti hanno votato no al referendum: che Alitalia venga nazionalizzata, trasferendo così, ancora una volta, il conto dell’insolvenza ai contribuenti. Incuranti del fatto che Alitalia, sia già costata alla collettività qualcosa come 7,5 miliardi di euro. A cominciare dai costi di quella mancata vendita nel 2008 ad Air France in nome dell’italianità voluta dal centrodestra guidato da Silvio Berlusconi. Se fosse andata diversamente, oggi forse non saremmo in questa situazione. Ma il passato non si può cambiare. Se si crede che Alitalia vada e possa essere mantenuta in vita, si prenda il referendum per quello che è: una indicazione, ma nulla di più. Azionisti, creditori, management e governo, se ritengono il piano efficace, devono mandarlo avanti, per motivi che sono fondamentali anche per il funzionamento di una democrazia.

Il voto dei dipendenti di Alitalia è un ricatto alla collettività. Se qualche migliaio di cittadini che finora ha goduto anche di privilegi o comunque sono stati ben protetti, può bloccare un progetto che potrebbe risolvere un problema che, a torto o ragione, ha a che fare con benefici e costi per la collettività, l’essenza stessa della democrazia ne soffre. Se il piano si blocca, Alitalia o fallisce o viene salvata dal contribuente. In entrambi i casi vi sono costi per tutti noi. Ma alla collettività non si chiede un parere, lo si chiede solo ai 12 mila dipendenti di Alitalia. Certo, per ogni contribuente i costi aggiuntivi di un ennesimo salvataggio non sarebbero molto alti perché i cittadini sono tanti. Ma Alitalia non è la sola azienda in difficoltà. Continuando a far pagare ai cittadini questo o quel salvataggio non si fa altro che aumentare il peso fiscale (che dovrebbe invece diminuire per favorire la crescita), oltre a tenere in piedi imprese evidentemente non competitive. È un fenomeno conosciuto come il problema dei benefici ristretti e dei costi diffusi. Ovvero una categoria piccola chiede dei benefici (i soldi dei contribuenti) e, dato che vi tiene molto, preme sulla collettività con minacce di scioperi, referendum, se la collettività non si inchina alle sue richieste. Con la differenza che i contribuenti sono tanti ma non organizzati e non sanno come opporsi a questo o quel provvedimento che aumenta questa o quella tassa per finanziare aiuti a una piccola categoria che, nel caso in questione, fornisce servizi in modo inefficiente vista la sua crisi. Se piccoli gruppi di cittadini possono decidere su progetti di interesse generale la democrazia si blocca. È vero che se ad alcuni cittadini vengono chiesti sacrifici per la collettività, essi vanno in qualche modo compensati. Ma i dipendenti di Alitalia lo sono già stati e lo saranno, se il piano andrà avanti. Ora si tratta di salvaguardare i contribuenti e gli utenti, evitando i risultati di una pessima idea (tranne che per i concorrenti), che ha affidato a un referendum le sorti dell’Alitalia.

Alitalia, la casta infinita. Pensioni baby, cassa integrazione extra lusso, viaggi gratis. I conti sono in rosso ma i dipendenti non mollano i privilegi, scrive Stefano Filippi, Martedì 09/08/2016, su "Il Giornale". Le ultime parole famose. «Allacciate le cinture, stiamo decollando davvero, piaccia o non piaccia»: questo è Matteo Renzi stile assistente di volo. E questo invece è James Hogan, numero uno di Etihad il giorno in cui prese il controllo di Alitalia: «Sarà la compagnia aerea più sexy del mondo». Parole dette nel 2015 e seguite dalla promessa che dal 2017 i bilanci di Alitalia sarebbero stati in attivo. Poche settimane fa il presidente della compagnia, Luca di Montezemolo, ha dovuto ammettere che la realtà è tutt'altra: «Perdiamo 500mila euro al giorno», ha dichiarato durante un'audizione in Parlamento. Che fanno almeno 150 milioni in un anno. Non che in precedenza andasse meglio: nel settembre 2015, quando si dimise l'amministratore delegato Silvano Cassano, Alitalia perdeva 18 euro per ogni passeggero trasportato. Mentre gli altri vettori europei macinano utili approfittando del prezzo dei combustibili mai così favorevole, la nostra ex compagnia di bandiera continua ad arrancare. Non riesce ad approfittare nemmeno della gravissima crisi della seconda compagnia italiana, Meridiana, salvata dal fallimento da un altro emiro, quello di Doha che controlla la Qatar Airways. Etihad ha il 49 per cento di Alitalia e più di così non può crescere: se acquistasse altre quote della società che fa base a Fiumicino, essa diventerebbe extracomunitaria e perderebbe lo status che le consente di volare liberamente nei cieli d'Europa. Il nuovo management ha tagliato pesantemente i bilanci, dando una svolta alla compagnia dei privilegi. Ma il mercato continua a non sorridere ad Alitalia, la quale da tempo ha ceduto a Ryanair il primato tra le aerolinee operanti in Italia. Nel corso del 2015 la compagnia irlandese ha trasportato 29,7 milioni di passeggeri nel nostro Paese, Alitalia circa 23 milioni seguita da altre due low cost, la britannica Easyjet e la spagnola Vueling, mentre guadagna rapidamente posizioni l'ungherese Wizzair. Proprio la concorrenza di queste compagnie è il nemico principale di Alitalia. Etihad le ha ritagliato un ruolo che è sostanzialmente quello della navetta tra i vari aeroporti nazionali e Fiumicino, il grande «hub» della compagnia da dove decollano i voli a lungo raggio. Roma come punto di raccolta dei passeggeri e Alitalia come cinghia di collegamento interna. Tuttavia la presenza dei vettori a basso prezzo nelle tratte a corto raggio conquista sempre più spazio. È una lotta all'ultimo sconto, a chi lascia meno posti vuoti a costo di ridurre all'osso i servizi e l'assistenza a bordo. Una guerra di tagli. Che i dipendenti Alitalia non vogliono combattere perché significa perdere una serie di privilegi, eredità della lunga stagione in cui piloti e assistenti di volo godevano di trattamenti extralusso. I «capitani coraggiosi» di Colaninno e ora gli emiri di Abu Dhabi hanno sfoltito la selva di privilegi. Ma c'è ancora molto lavoro da fare.

Il personale di volo viaggia gratis per raggiungere la base di partenza anche se per contratto dovrebbe abitare nel raggio di 50 chilometri dal posto di lavoro per garantire la reperibilità. Un privilegio che non ha uguali al mondo e che Alitalia vuole togliere: le altre compagnie praticano tariffe agevolate o quantomeno caricano le spese vive come le tasse aeroportuali. Il fatto è che, all'arrivo di Etihad, Alitalia aveva sei basi operative: Roma, Milano, Torino, Napoli, Venezia e Catania, le ultime due aperte dopo il salvataggio del 2009. Ora gli emiri hanno concentrato l'attività su Milano e Roma. Il personale di volo che gravitava sulle quattro basi chiuse dovrebbe fare i bagagli e trasferirsi vicino ai due «hub». Tuttavia la maggior parte rifiuta sia di traslocare sia di pagarsi il viaggio anche in parte - per recarsi al lavoro. Escludono perfino di versare le addizionali d'imbarco, che rappresentano un costo aggiuntivo per l'azienda. Il paradosso è che una quota di queste sovrattasse legate all'operatività degli scali va ad alimentare un altro dei privilegi dei dipendenti Alitalia: la cassa integrazione dorata.

Quando i cosiddetti «capitani coraggiosi» salvarono Alitalia dal crac, i sindacati strapparono al governo Berlusconi vantaggi fiscali e operativi, tra cui condizioni di favore per le migliaia di dipendenti dichiarati in esubero. A un povero cristo di cassintegrato «normale» spetta un'integrazione pari all'80 per cento della retribuzione con un tetto di 1.168 euro lordi mensili per due anni prorogabili di altri due. Invece per il personale Alitalia ammesso agli ammortizzatori sociali (staff, impiegati di scalo, operai e tecnici specializzati eccetera) il tetto è volato via. Essi incassano l'80 per cento dello stipendio per 7 anni. Il Fondo speciale per il trasporto aereo (Fsta) da cui viene attinta questa massa di denaro è alimentato solo in minima parte da contributi a carico del datore di lavoro e dei lavoratori: la quasi totalità proviene da una sovrattassa di 3 euro sborsata da ogni passeggero (di qualsiasi nazionalità) che decolla da uno scalo italiano. Perciò, mentre evita di pagare un biglietto anche a prezzo di favore - per recarsi al lavoro, il personale di volo rimasto in servizio rifiuta anche di versare un ulteriore contributo di solidarietà ai colleghi cassintegrati. I numeri del Fsta sono resi noti dall'Inps. Il valore del fondo viaggia sui 230-250 milioni di euro: più del finanziamento annuo per la lotta alla povertà erogato attraverso il sostegno di inclusione attiva. Un pilota con uno stipendio di 10mila euro al mese, di cui circa 4mila euro di indennità di volo, versa al Fondo un contributo di 7,5 euro mensili, ma se fosse collocato in cassa integrazione o in mobilità ne guadagnerebbe 8mila. Nel 2015 il bilancio preventivo del Fsta ipotizzava di incassare 5,95 milioni da aziende e lavoratori e altri 230 (pari al 97,5 per cento) dall'addizionale sui diritti d'imbarco. L'importo medio delle indennità percepite dal personale di volo cassintegrato è di circa sei volte superiore a quello del personale di terra. Il picco è stato raggiunto nel 2012 con 17.613 prestazioni complessive, di cui 896 tra 5.000 e 10.000 euro lordi mensili, 399 tra 10mila e 20mila e 35 superiori a 20mila. Lo scorso 7 aprile un decreto interministeriale ha trasformato il Fsta in Fondo di solidarietà con una leggera riduzione delle prestazioni a decorrere dal 1° gennaio 2016. Ma agli inizi dello scorso luglio il governo non aveva ancora emanato le circolari attuative. Le aziende non sanno come comportarsi e i cassintegrati dicono i sindacati ricevono soltanto una parte dell'assegno sociale.

Accanto agli ammortizzatori sociali di lusso, anche le pensioni incassate dal personale Alitalia sono di assoluto riguardo. Già nel 1995 i dipendenti erano riusciti a evitare la scure della riforma Dini, mantenendo il privilegio di poter andare in pensione a 47 anni con appena 23 di contributi. E magari continuare a lavorare con altre compagnie in altre forme. Ancora adesso piloti, hostess e tecnici di volo vanno in pensione prima e con minore anzianità di servizio rispetto agli altri lavoratori. Ora una ricerca voluta dall'Inps evidenzia che il 98 per cento delle pensioni erogate dal Fondo volo sono più alte rispetto ai contributi effettivamente versati. Se fossero calcolati con il sistema contributivo, gli assegni di quiescenza sarebbero inferiori del 30 per cento rispetto agli attuali.

Altro privilegio sopravvissuto alla prima stagione di tagli riguarda il personale di bordo. Attualmente sui voli a lungo raggio gli assistenti di volo sono 9 e i piloti 4. Etihad vorrebbe togliere un assistente e un pilota, adeguandosi agli standard europei e quindi riducendo le spese. I sindacati naturalmente si oppongono in quanto le modifiche non tengono conto del contratto di lavoro esistente.

Altro adeguamento alle regole comunemente applicate dalle altre compagnie riguarda l'orario in cui il personale di volo deve presentarsi in aeroporto prima del decollo. Alitalia vuole anticiparlo di mezz'ora per i voli a lungo raggio e di 15 minuti per le tratte a medio raggio. Anche qui si tratta di allineare alla concorrenza una condizione di favore. Il personale si oppone perché chiede un aumento di stipendio.

Orari, numeri del personale di bordo, spese di viaggio sono tra i motivi dello sciopero del 5 luglio. Si aggiunge un'ultima ragione di lamentela: le nuove divise Alitalia. Le sigle dei lavoratori non contestano l'estetica (benché in effetti sia discutibile) ma la fattura: sarebbero pesanti, scomode, tessute in materiale sintetico anziché in fibra naturale. E soprattutto non sono state concordate con i sindacati.

Cassa integrazione extralusso per diecimila piloti e hostess. Il privilegio va verso il rinnovo. È finanziato con la tassa su tutti i biglietti. La svolta annunciata: per il 2016 era previsto il taglio dell’indennità. Ma il provvedimento è ancora fermo, scrive Gian Antonio Stella il 24 dicembre 2015 su "Il Corriere della Sera". «È Natale, è Natale / si può fare di più...». Il celebre motivetto di uno spot natalizio non vale però per tutti. Più di così ai dipendenti Alitalia non si può proprio dare. Il governo, infatti, sta per donare loro l’ennesima proroga alla cassa integrazione extralusso. E undici anni dopo il primo accordo sul «fondo volo» non c’è Babbo Natale più generoso in tutto il pianeta. Su un punto però quella canzoncina di Alicia dedicata a un pandoro ha ragione: «A Natale puoi fare quello che non puoi fare mai...». Esatto: era già successo l’anno scorso, sta per succedere di nuovo. Mentre gli italiani sono distratti dagli acquisti, dai regali, dai cenoni... Ma partiamo dall’inizio. Da un’agenzia Ansa titolata «Alitalia: attivato fondo integrativo a cassa integrazione» del 21 aprile 2006. Quasi dieci anni fa. Diceva: «È operativo il Fondo speciale per il trasporto aereo che consentirà, tra l’altro, l’integrazione del reddito del personale Alitalia in cassa integrazione». E precisava che questo fondo era previsto da una legge del 2004 e che operava «presso l’Inps senza oneri per la finanza pubblica». Una promessa cara a Berlusconi: mai le mani nelle tasche degli italiani. Come sia andata si sa. Lo ricordava nove mesi fa un dossier Inps. Che spiegava come il «salvataggio» della compagnia aerea (costato agli italiani quattro miliardi di euro e fortissimamente voluto dall’allora Cavaliere) aveva ancora agli inizi del 2015 uno strascico di quasi diecimila cassintegrati. Dei quali 152 benedetti da un assegno mensile tra i dieci e i ventimila euro e «casi limite in cui la prestazione si avvicina ai 30 mila euro lordi al mese». Cifre stratosferiche per tutti gli altri lavoratori, sottoposti per la cassa integrazione a un tetto massimo di 1.168 euro. Come ricostruiva il dossier, infatti, decenni di privilegi concessi dalla compagnia di bandiera (uno per tutti: perfino dopo la riforma Dini piloti e personale di volo ebbero per qualche tempo la possibilità di andare in pensione a 47 anni con 23 di contributi) erano sfociati in un trattamento «deluxe» anche nello stato di crisi. Per capirci: i cassintegrati delle varie compagnie aeree in crisi (nella stragrande maggioranza Alitalia) possono contare sull’80% «della retribuzione comunicata dall’azienda all’Inps al momento della richiesta del trattamento integrativo, fino ad un massimo di 7 anni». Sette lunghissimi, interminabili anni. Risultato: a dispetto delle promesse («senza oneri»...) la «cassa» era stata alimentata, per fare fronte al salasso, con un pubblico balzello pagato da ciascun passeggero aereo (di tutte le compagnie, anche quelle straniere) atterrato o decollato in un aeroporto italiano. Un euro, all’inizio. Poi due. Poi tre. Su tutti i biglietti. Dal low cost da pochi spiccioli al più lussuoso business intercontinentale. Di fatto, una soprattassa scaricata sui conti di tutti. Soprattassa indispensabile: una tabella dell’Inps sulle fonti di finanziamento del «fondo» mostra infatti che dal 2007 al 2014 la quota fornita dalle aziende e dai lavoratori del settore (già bassissima) è via via scesa al 4% mentre i proventi della gabella sui biglietti sono saliti al 96%. «Un pilota che percepisce un salario mensile di 10.000 euro, di cui circa 4.000 euro di indennità di volo, versa al Fondo un contributo di 7,5 euro mensili». Una miseria. Compensata, in caso di cassa integrazione, da un assegno mensile di circa 8.000. Fate voi i conti. Insomma, era così ingiusto questo sistema finanziato ogni anno, attraverso il balzello sui ticket, con duecento milioni di euro (e spesso di più) e complessivamente costato in pochi anni a tutti noi oltre un miliardo e mezzo, che da tempo, per usare un verbo amato da Matteo Renzi, era stato deciso di «svoltare». Col passaggio il primo gennaio 2016 dal Fsta (Fondo Sostegno Trasporto Aereo) a un Fondo di Solidarietà meno «privilegiato». E cioè sostenuto, come gli altri «fondi» di questo tipo, dai versamenti delle aziende e dei lavoratori. Altrimenti, spiegava l’Inps di Tito Boeri, «il Fsta diverrebbe l’unico fondo di solidarietà alimentato prevalentemente da proventi a carico della fiscalità generale». Tutto chiaro? Macché. A una settimana dalla scadenza, la bozza del decreto attuativo che dovrebbe portare all’agognata «svolta» galleggia ancora da qualche parte tra i ministeri del Lavoro, dell’Economia e dei Trasporti ma alcune cose (salvo sorprese) vengono date per scontate. E cioè che forse l’Inps avrà qualche potere in più nella gestione (oggi il comitato è totalmente autoreferenziale) ma l’eccezione al tetto di 1.168 euro resterà intatta e comunque il «fondo» continuerà a venire alimentato ancora dal balzello sui ticket aerei, che scenderà sì a due euro e mezzo (per poi calare ancora negli anni futuri fino a 2,34 nel 2018) restando però il «pozzo» principale al quale attingere. Tanto che con la soppressione della gabella nel 2019 (campa cavallo...) il «fondo» non sarà più sostenibile. Sempre che, si capisce, non arrivi fra quattro anni una nuova proroga. Magari sotto Natale.

Trucchi e segreti della casta volante. Politici, manager, calciatori. La saga della compagnia. Anche una commissione a 8 per scegliere i nomi degli aerei, scrive Sergio Rizzo il 12 settembre 2008 su "Il Corriere della Sera". C'era una volta una compagnia aerea che perdeva 25 mila euro l'anno per ognuno dei suoi dipendenti. Che aveva 5 (cinque) aerei cargo sui quali si alternavano 135 (centotrentacinque) piloti. Che arrivò ad avere un consiglio di amministrazione composto di 17 poltrone: tre per i sindacalisti e una assegnata, chissà perché, al Provveditore generale dello Stato, l'uomo incaricato di comprare le matite, le lampadine e le sedie dei ministeri. Che istituì perfino una commissione di otto persone per decidere i nomi da dare agli aeroplani: e si possono immaginare i dibattiti fra i sostenitori di Caravaggio e quelli di Agnolo Bronzino. Che in vent'anni cambiò dieci capi azienda, nessuno uscito di scena alla scadenza naturale del suo mandato. E che negli ultimi dieci anni ha scavato una voragine di tre miliardi chiudendo un solo bilancio in utile, ma unicamente grazie a una gigantesca penale che i preveggenti olandesi della Klm preferirono pagare pur di liberarsi dal suo abbraccio mortale. C'era una volta, appunto. Perché una cosa sola, mentre scade l'ultimatum di Augusto Fantozzi, è certa: quella Alitalia lì non c'è più. La corsa disperata di cui parlò Tommaso Padoa-Schioppa quando ancora confidava di poter passare la patata bollente ad Air France, dicendo di sentirsi come «il guidatore di un'ambulanza che sta correndo per portare il malato nell'unica clinica che si è dichiarata disposta ad accettarlo», è comunque finita. E con quell'ultimo viaggio, fallito in modo drammatico, si è chiusa un'epoca. Con un solo rammarico: che la parola fine doveva essere scritta molti anni prima. Se soltanto i politici l'avessero voluto. Già, i politici. Ricordate Giuseppe Bonomi? Politico forse sui generis, leghista e oggi presidente della Sea, ora ha chiesto all'Alitalia 1,2 miliardi di euro di danni perché la compagnia ha deciso di lasciare l'aeroporto di Malpensa. Anche lui è stato presidente dell'Alitalia: durante la sua presidenza la compagnia prossima ad essere «tecnicamente in bancarotta», per usare le parole del capo della Emirates, Ahmed bin Saeed Al-Maktoum, sponsorizzò generosamente i concorsi ippici di Assago e piazza di Siena. Alle quali Bonomi, provetto cavallerizzo, partecipò come concorrente. Ma senza portare a casa una medaglia. Ritorno d'immagine? Boh. E ricordate Luigi Martini? Ex calciatore della Lazio, protagonista dello storico scudetto del 1974, chiusa la carriera sportiva diventò pilota dell'Alitalia. Poi parlamentare e responsabile trasporti di Alleanza nazionale: ma senza smettere mai di volare. Per conservare il brevetto gli fu concesso di mantenere anche grado e stipendio. Faceva tre decolli e tre atterraggi ogni 90 giorni, quando gli impegni politici lo consentivano, pilotando aerei di linea con 160 passeggeri a bordo. Inconsapevoli, probabilmente, che alla cloche c'era nientemeno che un parlamentare in carica. Questa sì che era degna di chiamarsi italianità. In quale altro Paese sarebbe stato possibile? Domanda legittima anche a proposito di quello che accadde nel 2002, quando con la benedizione di Claudio Scajola venne istituita una linea quotidiana Alitalia fra Fiumicino e Villanova D'Albenga, collegio elettorale dell'allora ministro dell'Interno. Numero massimo di passeggeri, denunciò il rifondarolo Luigi Malabarba, diciotto. Dimesso il ministro, fu dimessa anche la linea. Ripristinato il ministro, come responsabile dell'Attuazione del programma, fu ripristinato pure il volo: in quel caso da Air One, con contributi pubblici. Volo successivamente abolito dopo la fine del precedente governo Berlusconi e quindi ora, si legge sui giornali, riesumato per la terza volta. Ma politici e flap in Italia hanno sempre rappresentato un connubio spettacolare. Lo sapevano bene i 9 sindacati dell'Alitalia, che non a caso nei momenti critici, ha raccontato al Corriere Luigi Angeletti, regolarmente pretendevano di avere al tavolo il governo, delegittimando la controparte naturale, cioè l'amministratore delegato. E i ministri regolarmente si calavano le braghe. Forse questo spiega perché mentre tutte le compagnie straniere, alle prese con le crisi, tagliavano il personale e riducevano i costi, all'Alitalia accadeva il contrario.

Nel 1991, dopo la guerra del Golfo, si decisero 2.600 prepensionamenti. Poi arrivò Roberto Schisano, che diede un'altra strizzatina, e i dipendenti scesero nel 1995 a 19.366. Armato di buone intenzioni, Domenico Cempella nel 1996 li portò a 18.850. Nel 1998 però erano già risaliti a 19.683. L'anno dopo a 20.770. E nel 2001, l'anno dell'attentato alle Torri gemelle di New York, si arrivò a 23.478. Poi ci si stupì che per 14 anni, fino al 1999, fosse stato tenuto in vita a Città del Messico, come denunciò l'Espresso, un ufficio dell'Alitalia con 15 dipendenti, nonostante gli aerei avessero smesso di atterrare lì nel lontano 1985. Come ci si stupì che gli equipaggi in transito a Venezia venissero fatti alloggiare nel lussuoso Hotel Des Bains del Lido, con trasferimento in motoscafo. O che per un intero anno (il 2005) la compagnia avesse preso in affitto 600 stanze d'albergo, quasi sempre vuote, nei dintorni dell'aeroporto, per gli equipaggi composti da dipendenti con residenza a Roma ma luogo di lavoro a Malpensa. Per non parlare della guerra sui lettini per il riposo del personale di bordo montati sui Jumbo, al termine della quale 350 piloti portarono a casa una indennità di 1.800 euro al mese anche se il lettino loro ce l'avevano. O dell'incredibile numero di dipendenti all'ufficio paghe del personale navigante, che aveva raggiunto 89 unità. Incredibile soltanto per chi non sa che gli stipendi arrivavano a contare 505 voci diverse. Tutto questo ora appartiene al passato. Prossimo o remoto, comunque al passato. Della futura Alitalia, per ora, si conosce soltanto il promotore: Compagnia aerea italiana, Cai, stesso acronimo di un'altra Cai, la Compagnia aeronautica italiana, la società che gestisce la flotta dei servizi segreti. E le cui azioni, per una curiosa e assolutamente casuale coincidenza, sono custodite nella SanPaolo fiduciaria, del gruppo bancario Intesa SanPaolo, lo stesso che supporta la cordata italiana per l'Alitalia.

ALITALIA: LA CASTA DEI PILOTI E DELLE HOSTESS. SONO I PIU’ PAGATI, scrive "irpinianelmondo" il 9 aprile 2008. Piloti e hostess lavorano molto meno dei loro colleghi di altre compagnie. Però costano tanto di più. Grazie a una giungla di benefit, difesi con le unghie e con i denti e puntigliosamente elencati in un contratto degno di Harry Potter, dove tutti i mesi durano quanto febbraio e il giorno di riposo comprende due notti.  Un giorno è un giorno. Dal Circolo polare artico fino alle isole di Tonga, è uguale per tutti. Ma non per i piloti dell’Alitalia. È scritto nero su bianco a pagina 2 del Regolamento sui limiti dei tempi di volo e di servizio e requisiti di riposo per il personale navigante approvato, con la delibera n. 67 del 19 dicembre 2006, dal consiglio di amministrazione dell’Enac, l’Ente nazionale per l’aviazione civile. Il terzo comma dell’articolo 2 disciplina il «giorno singolo libero dal servizio». Che viene così descritto: «Periodo libero da qualunque impiego che comprende due notti locali consecutive o, in alternativa, un periodo libero da qualunque impiego di durata non inferiore a 33 ore che comprende almeno una notte locale». Un giorno di 33 ore o con due notti? Quando si tratta del personale di volo della ex compagnia di bandiera italiana, e dei relativi regolamenti di lavoro, bisogna abbandonare ogni convenzione, dal sistema metrico decimale all’ora di Greenwich: per loro non valgono.

Vivono in un mondo a parte, dove tutto è dorato. Da sempre veri padroni dell’azienda, piloti e assistenti di volo si sono dati delle norme di lavoro consone al loro status (a proposito: i capintesta dei sindacati degli autisti dei cieli hanno una speciale indennità economica che percepiscono anche se ne stanno incollati a terra tutto l’anno). Secondo il regolamento dell’Enac, dove è specificato che hanno diritto a riposare su poltrone con una reclinabilità superiore al 45% e munite di poggiapiedi regolabile in altezza, non devono volare più di cento ore nel corso del mese. Anzi nei 28 giorni consecutivi, come hanno preferito scrivere: e si vede che per loro è sempre febbraio. Nell’intero anno, cioè nei dodici mesi (se non hanno modificato a loro uso e consumo pure il calendario) il tetto non è, come da calcolatrice, mille e 200 ore (100 per 12) ma 900, e vai a sapere perché. Nel contratto, che l’azienda si rifiuta di fornire ai giornalisti, come del resto qualunque altro dato sulla produttività dei dipendenti, l’orario però si riduce. Nel medio raggio, la barriera scende a 85 ore al mese. Che nel trimestre non diventano 255, ma 240. E nell’anno non arrivano, come l’aritmetica sembrerebbe suggerire, a mille e 20, ma a 900. Ma non è neanche questo il punto: fosse vero che volano così tanto (tra gli assistenti di volo l’assenteismo è all’11%). I numeri tracciano un quadro un po’ diverso e dicono che nel medio-corto raggio gli steward e le hostess (alla fine del 2007, 480 di queste ultime su 4300, cioè l’11%, erano praticamente fuori gioco perché in maternità o in permesso in base alla legge che consente di assistere familiari gravemente malati) restano tra le nuvole per non più di 595 ore l’anno. Vuol dire 98 minuti al giorno, il tempo che molti Cipputi impiegano per fare su e giù tra casa e fabbrica. A titolo di raffronto, un assistente di volo della Lufthansa vola 900 ore, uno della Iberia 850 e uno della portoghese Tap 810. Restando in Italia, una hostess di AirOne si fa le sue belle 680 ore.

I piloti, poi, alla cloche sembrano quasi allergici: la loro performance non va oltre le 566 ore, che significano 93 minuti al giorno. I loro pari grado riescono a pilotare per 720 ore all’Iberia, per 700 alla Lufthansa e all’AirOne, per 680 alla Tap e per 650 all’Air France. I nostri, insomma, non sono esattamente degli stakanovisti: in media fanno, tra nazionale e internazionale, 1,8 tratte al giorno, contro le 2,4-2,75 dei colleghi di AirOne. In compenso, sono molto più cari di tutti gli altri. Un assistente di volo con una certa anzianità può arrivare a costare ad Alitalia 86 mila e 533 euro, contro i 33 mila che deve mettere nel conto la compagnia di Toto (AirOne, ndr ). Il comandante di un Md80 dell’azienda della Magliana ha un costo del lavoro annuo pari a 198 mila e 538 euro. Per la stessa figura professionale i concorrenti italiani non sborsano più di 145 mila euro. Sempre restando allo stesso tipo di aereo, per pagare il pilota Alitalia ha bisogno di 108 mila e 374 euro, tra i 28 e i 33 mila in più di AirOne o di un’altra azienda italiana. Il mix di orari da impiegati del catasto e stipendi da superprofessionisti crea un cocktail che risulterebbe micidiale per qualunque azienda: facendo due conti viene infatti fuori che alla fine dell’anno Alitalia spende per ogni ora volata da un suo comandante qualcosa come 350,8 euro. Contro i 207,1 di AirOne. Una differenza del 69,4% che manderebbe fuori mercato chiunque. Soprattutto se si considera anche che un aereo della ex compagnia di bandiera viaggia con un equipaggio superiore di un buon 30% rispetto alla media dei concorrenti. Il risultato finale è che in Alitalia il tasso di efficienza per dipendente è pari, secondo i calcoli dell’Association of European Airlines, a poco più della metà di quello che può vantare la Lufthansa. Che i passeggeri trasportati sono 1.090 per dipendente, contro i 10 mila e 350 di Ryanair. E che nel 2004 il ricavo medio per ogni lavoratore impiegato non andava oltre i 199 mila euro, poco più di un terzo rispetto a quanto registrava ad esempio Ryanair (513 mila euro).

In Alitalia comandano i sindacati (che nel solo primo semestre del 2005 hanno proclamato scioperi per 496 ore: quasi 3 ore ogni 24). E si vede. Il contratto in vigore dal 1° gennaio 2004 dice che, nel medio raggio, una hostess o un pilota non possono essere utilizzati per più di 210 ore al mese (che, con il solito giochino, diventano 600 nel trimestre e 1.800 nell’anno). Ebbene, se uno di loro parte da Roma per andare a prendere servizio a Milano la metà della durata del viaggio che lo vedrà impegnato nelle parole crociate viene considerata servizio. La tabella dell’Enac che stabilisce, a seconda dell’orario di inizio del turno, su quante tratte continuative può essere impiegato il personale navigante prevede cinque diverse ipotesi. Che salgono a diciassette nell’accordo sottoscritto da azienda e sindacato. Dove è stabilito per il personale navigante il diritto a 33 giorni di riposo a trimestre (ad AirOne sono 30), che aumentano fino a 35 per chi è impegnato nel lungo raggio. In base al contratto, al termine di ogni volo deve essere garantito un riposo fisiologico di 13 ore, che sul lungo raggio deve risultare invece pari al numero dei fusi geografici attraversati moltiplicato per otto, con un minimo però di 24 ore. Boh. Semplicemente geniale è poi il nuovo sistema retributivo, in vigore dal 1° gennaio 2005. Sono rimasti, ovviamente, lo stipendio base (quattordici mensilità) e l’indennità di volo minimo garantito: quaranta ore, che uno le faccia o meno. Le dieci voci che componevano la parte variabile della retribuzione di un pilota (compreso il cosiddetto «premio Bin Laden» corrisposto, dopo l’attentato alle Torri gemelle di New York, a tutti quelli che viaggiano in Medio Oriente e dintorni) sono state tutte sostituite da un’unica indennità di volo giornaliera (per un comandante è pari a 177 euro se è impegnato sul lungo raggio e a 164 se vola sul medio, cifre alle quali va sommata la diaria, che sono altri 42 euro, per un totale che può quindi arrivare a 219 euro). Indennità che scatta tutta intera anche se il pilota sta alla cloche solo per mezz’ora o semplicemente si trasferisce all’aeroporto da dove prenderà servizio. E perfino se il suo volo viene cancellato dopo che lui ha già raggiunto quello che doveva essere lo scalo d’imbarco. Per di più, aumenta se c’è uno spostamento dei turni rispetto al calendario originale. Siccome poi lavorare stanca, il contratto prevede l’istituzione di una Banca dei riposi individuali dove confluiscono i crediti che si ottengono per esempio quando l’aereo viaggia con personale ridotto (un riposo ogni due giorni) e dalla quale hostess e piloti possono attingere pure degli anticipi. Non è invece dato sapere se le parti hanno raggiunto un accordo su una nuova indennità graziosamente prevista nell’ultima intesa: il premio di puntualità, che per i passeggeri assume davvero il sapore della beffa. Mentre è alla direttiva dell’Enac che bisogna tornare se si vuole conoscere la dettagliatissima disciplina della cosiddetta «riserva», i periodi di tempo nei quali il personale navigante deve essere pronto a rispondere a un’improvvisa chiamata. Premesso che si può essere messi in riserva solo dopo aver goduto di un riposo, si stabilisce che la metà del tempo trascorso a casa con le pantofole ai piedi va considerata come servizio. Bingo. Di più: che se l’attesa si consuma inutilmente perché il telefono non trilla, e dev’essere proprio per lo stress, scatta un successivo periodo di riposo di almeno otto ore, che in alcuni casi salgono a dodici. Ed è sempre il premuroso Enac a stabilire che a piloti e hostess, una volta a bordo, deve essere dato da mangiare una volta ogni sei ore, come ai pupi, e adeguatamente, «in modo da evitare decrementi nelle prestazioni».

Di alcuni privilegi o istituti incomprensibili nessuno ricorda neanche l’esatta origine. Ci sono e basta. Così, le hostess continuano ad avere una franchigia di ventiquattr’ore al mese, che in pura teoria dovrebbe coincidere con l’inizio del ciclo mestruale, ma si racconta del caso di una di loro che ha chiesto la giornata del 31 come permesso per il mese di dicembre e quella del 1° per il mese di gennaio: misteri del corpo femminile. Sempre le assistenti di volo, quando vanno in maternità vengono retribuite per tutto il tempo con lo stesso stipendio guadagnato nell’ultimo mese di servizio, che, guarda un po’, svolgono regolarmente sul lungo raggio, per far salire l’importo della busta paga. I piloti, invece, non possono atterrare due volte nello stesso scalo in un solo giorno. La logica della regola, che pare non sia neanche scritta ma frutto della consuetudine, è imperscrutabile. La conseguenza, però, è chiara: la crescita delle spese per le trasferte. A partire da quelle per gli alberghi, che in Alitalia vengono scelti da un’apposita commissione dopo attento esame dei loro requisiti: con il risultato che l’importo medio è superiore del 45% a quello sostenuto dagli altri vettori. Solo per le 300 stanze prenotate tutto l’anno per i dipendenti che, anziché essere trasferiti a Malpensa, vanno su e giù da Roma, la compagnia ha in bilancio 45 milioni. Nella babele dei benefit, per un certo periodo tutto il personale viaggiante ha poi goduto di una speciale indennità per l’assenza del lettino a bordo di alcuni 767-300: alcune centinaia di euro che venivano corrisposte anche a chi volava su aerei dotati delle cuccette in questione.

I lavoratori più coccolati d’Italia quando viaggiano per piacere godono di una politica di sconti davvero generosa. Argomento sul quale l’azienda ha di nuovo una tale coda di paglia da rifiutarsi di fornire chiarimenti. Ma è il segreto di Pulcinella: i dipendenti (e con loro i pensionati) hanno diritto ad acquistare (anche per i loro cari: figli e coniugi o conviventi) i biglietti con una riduzione del 90% sulla tariffa piena, se rinunciano al diritto alla prenotazione. Il taglio scende invece al 50% se vogliono il posto garantito, magari perché vanno a festeggiare l’ultima promozione, che in Alitalia non si nega davvero a nessuno. Nel 2007 la direzione per la finanza dell’azienda della Magliana poteva contare su 152 persone: 20 dirigenti, 52 quadri e 80 impiegati. In quella per il personale i soldati semplici (61) prevalevano di una sola unità sui graduati (60: 25 dirigenti e 35 quadri). Dev’essere anche per questo che il consiglio di amministrazione dell’azienda ha sentito la necessità di garantirsi l’ombrello di una polizza assicurativa a copertura di possibili azioni di responsabilità nei confronti di chi ha guidato la baracca. E si è reso così complice dei sindacati. Ai quali invece nessuno potrà mai presentare il conto.

Da un libro di Stefano Livadiotti: L'Altra Casta. 2001-2008, otto anni di gestione Alitalia sotto accusa: chi sono i manager condannati. Da Mengozzi a Cimoli, ex boiardi di Stato chiamati dalla politica a risanare i conti. Ma incapaci di frenare le spese che hanno portato alla bancarotta l’azienda, poi finita in mani private, scrive “Il Corriere della Sera" il 28 settembre 2015.

1. Otto anni sotto accusa. Dal 2001 al 2008. Esattamente otto anni. Otto anni sotto accusa. Un periodo che ha portato alla bancarotta dell’ex compagnia di bandiera e per la cui gestione, lunedì, sono stati condannati in primo grado gli ex amministratori delegati Alitalia Francesco Mengozzi (ad dal 2001 al 2004) e Gaetano Cimoli (nella foto, ad dal 2004 sino al 2007, poi seguì la gestione commissariale in attesa dell’ingresso dei privati). Vediamo più in dettaglio chi sono i manager che hanno contribuito allo sfascio dell’azienda poi finita in mani privati, prima con i cosiddetti «Capitani coraggiosi» e poi con l’ingresso di capitale arabo.

2. Mengozzi, dalla Rai ad Alitalia. Partiamo dal capitolo che comincia dopo il traumatico divorzio tra Alitalia e Klm (aprile 2000), e dopo le dimissioni di Domenico Cempella nel febbraio 2001. Alla cloche viene chiamato Francesco Mengozzi: dopo incarichi in Rai e nelle Fs spa, è lui il manager che il Governo Amato individua come possibile risanatore di Alitalia, che già inanellava, anno dopo anno, perdite su perdite, a parte l’eccezione di quello che è considerato l’ultimo vero utile dell’aviolinea nel ‘98. Mengozzi al timone rimane per 1000 giorni. Nell’estate del 2001, Mengozzi stringe un accordo con Air France che prevede uno scambio azionario del 2%. Alitalia entra anche nell’alleanza globale Skyteam e così, almeno, non si trova ad affrontare da sola la drammatica crisi del trasporto aereo seguita all’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre. Mengozzi vara, nei giorni seguenti l’attacco terroristico, il cosiddetto contingency plan, che prevede la cancellazione di diverse rotte del network intercontinentali, come Hong Kong, Pechino, Bangkok, San Francisco. L’obiettivo immediato è quello di è contenere i costi ma, nel lungo periodo, gli effetti si fanno sentire: quando non si presidiano più i mercati, poi è difficile riconquistarli. E, per Alitalia, i nodi sono poi venuti al pettine.

3. Arriva Cimoli. Intanto arriviamo alla gestione Cimoli. Chiamato a risanare i conti. Non ci riesce. Anche il processo di riduzione delle perdite, passate dagli 858 milioni del 2004 ai 167 del 2005, il 2006, anno che doveva segnare il ritorno all’utile, si chiude in rosso profondo per circa 400 milioni. S’incrina il rapporto di fiducia con l’azionista e la poltrona di Cimoli è in bilico e, con il passare delle settimane, lo diventa sempre di più. Nel febbraio del 2007, la gestione Cimoli arriva al capolinea. Il top manager viene escluso dalla lista presentata dal Tesoro in vista dell’assemblea fissata per il 22 e 28 febbraio rispettivamente in prima e seconda convocazione per il rinnovo del consiglio di amministrazione. Il rinnovo del cda è un passaggio obbligato dopo le dimissioni, lo scorso gennaio, dei consiglieri Gabriele Checchia e Jean Ciryl Spinetta. Cimoli lascia Alitalia. La vecchia compagnia di bandiera ha i mesi contati: fallita, nel 2008, la trattativa con Air France, viene commissariata nell’agosto successivo per essere privatizzata e ceduta alla cordata dei venti capitani coraggiosi.

4. La buonuscita milionaria di Cimoli. Cimoli veniva dalle Ferrovie dello Stato. Dove peraltro aveva dato buona prova come manager, tagliando pesantemente i costi (ma soprattutto dal lato del personale). In Alitalia non riesce a ripetere l’impresa. Si fa notare per la buonuscita che ottiene dalla compagnia di bandiera. Alle Ferrovie guadagnava circa 1,5 milioni di euro l’anno e se ne andò, per andare a prenderne 2,7 all’Alitalia. Con una liquidazione, scrissero sul Corriere della Sera Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, per «raggiungimento risultati» di 6,7 milioni.

5. Gli altri manager condannati. I giudici hanno condannato a 6 anni e 20 giorni di carcere Gabriele Spazzadeschi, ai tempi direttore centrale del settore Amministrazione e Finanza, e a 6 anni e 6 mesi Pierluigi Ceschia, ex responsabile del settore Finanza straordinaria. Anche i due dirigenti si sono visti infliggere una condanna superiore alle richieste.

6. Condanne e pene accessorie. Per quanto riguarda le pene accessorie, i quattro condannati dovranno risarcire complessivamente 355 milioni di euro a Alitalia Linee Aeree, Alitalia Servizi Spa, Alitalia Airport Spa, Alitalia Express Spa e Volare Spa; a un migliaio tra azionisti e risparmiatori danneggiati dovranno poi versare cifre che oscillano tra 1.500 e 73.000 euro per ciascuno. Cimoli dovrà anche pagare una multa da 240.000 euro. Per tutti e quattro i condannati il Tribunale ha stabilito l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’interdizione legale per la durata della pena; Cimoli sarà poi interdetto per un anno dalla possibilità di assumere cariche direttive. La sentenza dovrà essere pubblicata sull’edizione online di due quotidiani.

7. I «Capitani coraggiosi». Dopo la bancarotta, Alitalia da passa in mani private. Una vicenda che ha ancora molti interrogativi da sciogliere.

Le memorie dorate di una ex hostess: "Quella spiaggia privata nel resort di Caracas". Lucia, assistente di volo negli anni Sessanta «Hotel di lusso e maxi diarie, eravamo regine», scrive Luca Fazzo, Giovedì 27/04/2017, su "Il Giornale". Malinconia? «Sì, mi fa malinconia vedere Alitalia fare questa fine. Ma con un po' di distacco emotivo dico anche che non poteva reggere. Era chiaro da tempo che sarebbe finita così. Io sui suoi aeroplani ho vissuto due anni fantastici. Ma quello stile non poteva durare. Troppo champagne, troppe aragoste, troppi benefit». Lucia è una bella signora vicina ai settanta, cui gli anni in giro per il mondo non hanno tolto l'accento della marca trevigiana. Sugli aerei con la livrea tricolore ha volato solo due anni: la fine degli anni Sessanta, l'Italia che sull'onda del boom economica cullava sogni di grandeur, e che aveva nella sua compagnia di bandiera un suo ambasciatore nel mondo: e che le permetteva lussi insensati, non solo per coccolare i passeggeri ma anche per coccolare i dipendenti. Di quella cultura da partecipazioni statali, serenamente libera dai lacciuoli dei conti economici e del profitto, è figlio in fondo anche lo sfacelo che oggi ha portato Alitalia all'agonia. «I sindacati avevano già cinquant'anni fa un potere assoluto, bastava che minacciassero uno sciopero e ottenevano tutto quello che volevano, e così giocavano continuamente al rialzo». Aveva vent'anni, Lucia, quando su un giornale lesse l'inserzione di Alitalia che cercava personale. «Allora c'era il Mec, il mercato comune, le assunzioni si facevano in tutta Europa. Alle selezioni c'era un sacco di gente, alla fine di italiani entrammo solo in due, perché era essenziale sapere perfettamente l'inglese e allora in Italia era piuttosto raro. Io avevo la fortuna di avere fatto la scuola per interpreti». Da allora, e per due anni, la sua vita è stata un lungo decollo. Prima sui voli a corto raggio, poi sul medio e sul lungo: «Vita impegnativa, certo. Faticosa, anche, soprattutto sul lungo raggio, per via del fuso orario, dopo un po' non capivo più se per il mio corpo era giorno o notte. Ma sull'altro piatto della bilancia c'era uno stipendio che faceva di me, tra tutti i miei coetanei, una privilegiata. E un sacco di altri vantaggi che spesso erano ancora più consistenti dello stipendio». Per esempio? «La diaria di missione era così ricca che non riuscivamo a spenderne neanche un terzo, eravamo già spesati di tutto, mangiavamo a bordo, la diaria ce la mettevamo in tasca. O gli alberghi. Credo che Alitalia si facesse una questione di immagine di non scendere sotto al cinque stelle. A Milano ci faceva dormire al Gallia, che all'epoca era uno degli alberghi più lussuosi della città; d'estate, quando c'era il volo su Rimini, si dormiva al Grand Hotel, quello di Fellini. Ma il bello era quando si andava all'estero». «Le mete preferite per noi personale di bordo erano quelle sudamericane, soprattutto di inverno, quando lì è estate. Prima di ripartire per l'Italia avevamo diritto a quattro o cinque giorni di pausa, praticamente una vacanza tutta spesata. Se atterravamo a Caracas venivamo ospitati in un albergo indimenticabile, con la piscina e la spiaggia privata, non oso immaginare quanto costasse. Ma come si poteva andare avanti così?». Dopo due anni di quella vita, Lucia lasciò Alitalia: «Mi ero innamorata dell'uomo che poi sarebbe diventato mio marito, volevo vivere a Milano e per essere assunti a tempo indeterminato in Alitalia bisognava avere la residenza a Roma. Se non mi fossi innamorata sarei andata avanti perché oggettivamente era un bel lavoro». Stressante? «Un po'. Ma a quarant'anni sarei andata in pensione e avrei potuto cominciare un'altra carriera». «A bordo c'era un bel clima. Si viveva tutti insieme, noi e i piloti, con colleghi che cambiavano continuamente ma con cui c'era grande affiatamento. La sera magari prima di andare in albergo si andava a teatro. A cena raramente, perché si mangiava a bordo. Come hostess in teoria avevamo diritto ai vassoi, quelli della classe turistica. Ma il cibo per la prima classe veniva imbarcato in quantità tali che ne avanzava sempre in abbondanza, e noi potevamo servirci. E che cibo. In Africa aragoste, in Europa caviale. Si pasteggiava a champagne. Non era male, la vita a bordo degli aerei di Alitalia». E adesso? Perché i dipendenti di Alitalia hanno scelto la via del suicidio di massa? «Secondo me non si rendono conto che i tempi sono cambiati, sono stati salvati troppe volte e sono convinti che anche adesso arriverà qualcuno a tenere in volo gli aerei».

Alitalia, ecco chi ha ucciso la compagnia aerea (ma non ditelo ai passeggeri). I documenti che svelano i veri conti. I giochi di Etihad. Gli investimenti sbagliati per coprire il buco milionario. Così i vertici hanno portato l'azienda di nuovo al collasso. E a pagare saranno sempre gli italiani. Mentre dai piani alti arriva la censura: "L'Espresso non sia distribuito in volo", scrive Vittorio Malagutti il 24 gennaio 2017 su "L'Espresso". Sempre più difficile. Praticamente impossibile. Il repertorio acrobatico di Alitalia, tre volte fallita (quasi) e tre volte rinata (quasi) nell’arco di dieci anni, è ormai sterminato. Imprenditori, banchieri e manager, con il decisivo contributo delle casse pubbliche, si sono esibiti in ogni sorta di gioco di prestigio finanziario pur di evitare il crack di una compagnia aerea che ha smarrito da tempo immemorabile la rotta dei profitti. Eppure, quanto è successo nelle ultime settimane, e quanto ancora avviene in questi giorni tra polemiche politiche e scaricabarile assortiti, sembra davvero l’ultima mano di poker in una partita dall’esito scontato. A rimetterci, ancora una volta, saranno i cittadini, chiamati di nuovo a finanziare in veste di contribuenti una qualche forma di salvataggio di Alitalia sponsorizzata dallo Stato. Poi i dipendenti, per effetto dei prossimi prevedibili tagli di personale. E infine i clienti viaggiatori, che dovranno rassegnarsi a ritardi e disservizi vari legati a prevedibili futuri scioperi. Tanto per cambiare, però, i conti non tornano. Le carte consultate dall’Espresso (documenti contabili ed estratti dei verbali del consiglio di amministrazione) raccontano la trama di quella che appare come una commedia degli equivoci, incredibile e a tratti grottesca. Protagonisti della pièce sono amministratori e soci dell’ex compagnia di bandiera. A cominciare dagli arabi di Etihad, gli investitori degli Emirati sbarcati in Alitalia nel 2014 con l’ambizione dichiarata di risanare l’azienda nel giro di tre anni. Il risanamento non c’è stato. Anzi, secondo stime di fonti interne al gruppo, le perdite 2016 dovrebbero aggirarsi intorno a 600 milioni, escludendo i contributi positivi di eventuali partite straordinarie. E senza un nuovo intervento d’emergenza, finanziato con i soldi delle banche e forse anche dello Stato, la prospettiva più concreta pare quella del fallimento. L’esatta dimensione del disastro, accompagnata dalla richiesta di nuovi tagli di personale, è però emersa solo a dicembre inoltrato. Passato lo scoglio del referendum, è venuto al pettine anche il nodo Alitalia. Proprio come è successo per il Monte dei Paschi, libero di naufragare solo a urne chiuse. Risultato finale: due questioni potenzialmente imbarazzanti per il governo di Matteo Renzi sono state lasciate ai margini della campagna referendaria per poi piombare sul tavolo del nuovo premier Paolo Gentiloni, quando i giochi, e il disastro, erano ormai fatti. Su Alitalia, in particolare, si poteva intervenire prima e meglio, come dimostrano documenti e numeri analizzati dall’Espresso. Ma qualcuno sapeva. E non è intervenuto. Anzi, ha nascosto i numeri. A partire dagli ultimi giorni di luglio, e poi ancora tra settembre e ottobre, l’andamento dei conti della compagnia aerea è stato al centro di accesi confronti in consiglio di amministrazione, preceduti e seguiti da incontri informali. I dirigenti messi da Etihad ai posti chiave di Alitalia (l’amministratore delegato Cramer Ball e il direttore finanziario Duncan Naysmith) sono finiti in rotta di collisione con i rappresentanti dei soci italiani che possiedono il 51 per cento del capitale. E cioè, in primo luogo, Intesa e Unicredit, le due banche forti insieme di una quota di oltre il 30 per cento e allo stesso tempo grandi finanziatrici della compagnia. Per settimane, gli azionisti made in Italy, riuniti nella holding Cai (Compagnia aerea italiana) hanno chiesto di avere un quadro dettagliato della situazione. I dati completi sono però arrivati solo a fine settembre grazie al pressing del vicepresidente di Intesa, Paolo Andrea Colombo, e dell’amministratore delegato di Unicredit, Jean Pierre Mustier, entrambi, fino al dicembre scorso, consiglieri di Alitalia. Gli istituti di credito recitano due ruoli in commedia. Da una parte hanno un’influenza decisiva nell’azionariato. Dall’altra tengono i cordoni della borsa, perché vantano crediti importanti e oltre agli interessi sui prestiti incassano anche laute commissioni, per esempio sui contratti derivati per centinaia di milioni che Alitalia ha stipulato per proteggersi dalle oscillazioni del prezzo del carburante e delle valute, in primis il dollaro. Appare quantomeno sorprendente, quindi, che i banchieri presenti in forze nel consiglio di amministrazione della compagnia aerea lamentino di non essere stati informati per tempo che i conti del gruppo erano in caduta libera. Fatto sta che già a fine luglio, nelle segrete stanze del consiglio di amministrazione, è incominciato il tira e molla sui numeri. Dopo molte insistenze, l’amministratore delegato Ball, in carica solo da marzo, presenta agli altri consiglieri un’informativa generale sulla situazione aziendale. Dati allarmanti, a dir poco. Ricavi in calo di oltre 100 milioni rispetto alle previsioni, con 500 mila passeggeri in meno di quanto stimato nei piani di inizio anno e un coefficiente di riempimento degli aerei che non andava oltre il 76 per cento, ben al di sotto dell’obiettivo programmato dell’81 per cento. E pensare che solo due mesi prima, il 18 maggio, il vicepresidente di Alitalia e numero uno di Etihad, James Hogan, si era presentato ai giornalisti dichiarando che l’andamento dei conti era «decisamente in linea con gli obiettivi». Sull’onda dell’entusiasmo, in quell’occasione Hogan è arrivato a dire che il piano di rilancio («uno tra i più radicali e più rapidamente implementati», ha affermato con sprezzo del pericolo) procedeva meglio del previsto. Il manager non escludeva neppure di poter riportare in utile i conti della compagnia entro la fine del 2017. Possibile che nell’arco di poche settimane le prospettive aziendali siano peggiorate in modo così drammatico? Possibile che Alitalia, la stessa che secondo Hogan era avviata a recuperare il pareggio di bilancio, a fine giugno si trovasse invece già in perdita per oltre 200 milioni, quasi il doppio rispetto allo stesso periodo del 2015? Per spiegare un simile tracollo le fonti ufficiali della compagnia si aggrappano alla crescita economica«inferiore alle attese» e alle incertezze sul futuro, che hanno pesato anche sui risultati dei principali concorrenti. Come dire, la gente si trova in tasca meno soldi del previsto e quindi viaggia di meno. E poi c’è l’emergenza terrorismo, che ha penalizzato soprattutto le destinazioni europee e dell’area del Mediterraneo, molto servite da Alitalia. Gli attacchi del’Isis, però, non sono purtroppo una novità dei primi sei mesi del 2016. Il budget predisposto dai vertici aziendali avrebbe dunque dovuto tenerne conto. In caso contrario, il piano era chiaramente irrealistico. Del resto, già a inizio luglio, il presidente di Alitalia, Luca Cordero di Montezemolo, che è anche vicepresidente di Unicredit,si era presentato in commissione Trasporti alla Camera per affermare, senza entrare nei dettagli, che la compagnia «perde mezzo milione di euro al giorno». Un’affermazione, anche questa, che appare difficile da conciliare con le precedenti dichiarazioni ottimistiche di Hogan. Il peggio però doveva ancora venire. A fine settembre, dopo una girandola di incontri, sul tavolo di Francesco Di Giovanni, amministratore delegato della holding Cai, quella controllata dalle banche, arrivano nuove preoccupanti informazioni sull’andamento dei conti Alitalia. Nessuno ormai si azzardava più a parlare di ripresa. Neppure l’obiettivo minimo di contenere le perdite 2016 intorno ai 140 milioni sembrava più raggiungibile. Le nuove proiezioni sul bilancio davano come probabile un rosso di almeno 400 milioni, al netto di proventi straordinari, e quindi difficilmente ripetibili in futuro, per oltre 150 milioni. Alla luce di questi numeri diventava un problema assicurare la sopravvivenza dell’azienda, anche perché, tra ottobre e novembre, la liquidità in cassa è scesa più volte fino a toccare quota 20 milioni, ben lontana dalla soglia di sicurezza che per una compagnia delle dimensioni di Alitalia si aggira attorno a 300 milioni. Nelle pieghe dei conti si nascondeva poi anche un’altra potenziale grana, quella dei derivati sottoscritti negli anni scorsi per proteggersi contro le oscillazioni del prezzo del carburante. Già a fine 2015 e poi ancora nel 2016 la valutazione a prezzi di mercato (fair value) di questi contratti era in forte perdita, oltre 300 milioni. Questa nuova passività non è andata ad appesantire il conto economico del 2015 già in profondo rosso, ma è stata segnalata come riserva specifica di patrimonio netto. Questa manovra contabile, consentita dal codice civile, non ha però eliminato del tutto il problema. Alla scadenza dei contratti, che in parte si esauriscono già nel corso del 2017, le eventuali perdite dovranno comunque essere iscritte a bilancio. Al momento, paradossalmente, la notizia positiva è che il prezzo del carburante ha ripreso a salire e quindi anche le quotazioni dei particolari derivati sottoscritti da Alitalia. Conti alla mano, però, già nell’autunno del 2016 il problema vero per l’ex compagnia di bandiera diventa quello di evitare il crack. Hogan, lo stesso che quattro mesi prima parlava di andamento «decisamente in linea con gli obiettivi», reagisce attaccando, almeno sul fronte mediatico. In un’intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 6 ottobre, il gran capo di Etihad se l’è presa con il governo che non avrebbe rispettato i patti su alcuni punti specifici, come il rafforzamento dell’aeroporto milanese di Linate, ottenuto autorizzando nuove rotte, e l’investimento di fondi pubblici 20 milioni di euro per promuovere sui mercati esteri alcune mete turistiche italiane. Colpevoli anche i sindacati, secondo Hogan, perché si ostinano a difendere privilegi ormai fuori dal tempo. Il manager avrà anche le sue ragioni, ma con il senno di poi le sue parole suonano come un ultimo disperato scaricabarile prima della catastrofe aziendale. A fine anno, per evitare di portare i libri in tribunale, la compagnia ha varato alcuni interventi d’emergenza, come l’emissione di un titolo cosiddetto di “quasi equity”, cioè con caratteristiche simili alle azioni, per circa 215 milioni interamente versati da Etihad. Anche le banche hanno acconsentito a riaprire temporaneamente i rubinetti del credito. Ma quello che ancora manca è un piano industriale condiviso da tutti i soci di Alitalia, in primis le banche che fin qui hanno invece espresso più di una perplessità. «L’azienda è stata gestita male», ha tagliato corto nei giorni scorsi il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, liquidando senza troppi convenevoli i primi approcci dei manager di nomina Etihad che chiedevano il sostegno dell’esecutivo per la prossima ristrutturazione. In questa ricerca disperata di una via d’uscita, è tornato d’attualità il progetto di uno sdoppiamento di Alitalia, divisa tra una compagnia low cost per le destinazioni nazionali e a medio raggio (Europa e Mediterraneo) e un’altra per le rotte intercontinentali, di gran lunga le più redditizie, quelle che la compagnia tricolore ha colpevolmente trascurato negli anni scorsi. Questi interventi sono esattamente gli stessi di cui si parlava già nel 2013, quando si arenò tra perdite e debiti il salvataggio dei cosiddetti capitani coraggiosi, la cordata di imprenditori scesi in campo nel 2008 con la benedizione dell’allora premier Silvio Berlusconi e i finanziamenti di Intesa. Nel 2014 è arrivata Etihad. Sono passati quasi tre anni e quasi due miliardi di perdite supplementari. Tutto questo per tornare, di nuovo, alla casella di partenza. Questa volta, però, non c’è più tempo per i giochi di prestigio.

L’ITALIA DELLE CASTE.

Non c'è più la Casta. Ce ne sono mille. Dieci anni dopo, l’avversione verso i politici si è trasformata in odio contro le élite. Ma senza alcuna coesione tra i sommersi, scrive Alessandro Gilioli il 25 gennaio 2017 su "L'Espresso". Il 2017 celebra, tra i suoi anniversari, i dieci anni di un libro che ha segnato il dibattito politico italiano a qualsiasi livello, dal Parlamento ai social network: “La casta”, di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, oltre un milione di copie vendute, dozzine di spin off e di tentativi d’imitazione. Il successo del libro di Stella e Rizzo fu una tempesta perfetta. Alla completezza del lavoro svolto dai due giornalisti si aggiunsero infatti altri fattori esterni che contribuirono alla sua esplosione. Fra questi, almeno due vanno citati: primo, la crisi economica che dì lì a pochissimo avrebbe gravemente peggiorato le condizioni di vita del ceto medio; secondo, la legge elettorale entrata in vigore l’anno prima, che aveva l’effetto (e forse lo scopo) di rinchiudere la classe politica in una roccaforte di cooptazioni e nomine reciproche. In altre parole, mentre usciva “La casta” l’Italia diventava più povera, i giovani più precari e le partite Iva più tartassate, mentre le banche iniziavano a centellinare il credito ai piccoli imprenditori per riservarlo solo ai giganti dei salotti buoni; contemporaneamente, il Palazzo - con le sue liste bloccate che solo molti anni dopo sarebbero state bocciate dalla Consulta - pensava a proteggere se stesso, chiudeva i canali di collegamento con la cittadinanza, scavava un solco tra sé e il Paese. Alla pubblicazione del libro - e dato il suo straordinario boom diffusionale - seguì la nascita di un genere giornalistico altrettanto di successo, che rivelava ogni tipo di privilegio, prebenda, spreco e immunità del ceto politico: dal menù dei senatori fino ai voli blu dei ministri al Gran Premio, dai vitalizi degli ex parlamentari ai rimborsi-monstre dei consiglieri regionali. La nascita del Movimento 5 Stelle fu, non a caso, contestuale a quest’ondata di risentimento nei confronti di quello che veniva ormai vissuto come un circolo chiuso di super privilegiati, i politici, occupati a proteggere se stessi: e anche il primo V-Day di Beppe Grillo è del 2007 (all’inizio di settembre). Ma se a incassare il maggior dividendo politico della rabbia anti casta furono fin dall’inizio i grillini, anche nel Pd c’era chi faceva sua la stessa battaglia, almeno negli intenti dichiarati: era la corrente dei futuri rottamatori, nata attorno al gruppo dei Mille sempre nello stesso periodo, tra il 2007 e il 2008. Lo stesso Renzi, ancora nel 2013, si opponeva alla candidatura di Anna Finocchiaro al Quirinale perché la senatrice usava «la scorta come carrello umano» all’Ikea, promettendo che lui invece la coda di auto blindate non l’avrebbe mai avuta perché «mi protegge la gente» (febbraio 2014); e uno dei suoi primi gesti da premier fu mettere all’asta 170 auto blu su eBay. Perfino nel recente referendum costituzionale, il renzismo ha puntato sul sentimento anti casta caratterizzando la comunicazione per il Sì con slogan come «tagliare le poltrone» e «ridurre i costi della politica». Dieci anni dopo, però, è cambiato qualcosa - e anche il fallimentare esito di quella campagna ce lo suggerisce. Non tanto nei confronti dei politici, la cui reputazione continua a essere bassa, quanto nel significato del termine “casta”. A cui si sono non a caso affiancati, nel lessico del dibattito politico, altri vocaboli come «élite» ed «establishment». Che non indicano necessariamente chi occupa una carica istituzionale, ma più in generale le classi dirigenti. Oggi come casta, insomma, s’intende sempre di più un’entità mista, qualcosa che somiglia a una rete di collegamento tra parte della politica, dell’economia pubblica e privata, della finanza e anche delle fasce di benessere economico non toccate - anzi, spesso favorite - da questi anni di crisi. In un’accezione più larga, quanti abitano nei primi municipi delle metropoli, isole circondate da un colore diverso quando si va ad analizzare come si è votato, vuoi per il sindaco vuoi al referendum. I “salvati”, insomma, in un Paese di “sommersi”. È cambiata la casta, quindi. O quanto meno il suo percepito. I politici ne fanno ancora parte, ma non ne sono più esclusivisti. Anzi, spesso vengono visti solo come interlocutori complici e “riceventi ordini” di poteri che stanno altrove rispetto ai Palazzi. Rischia di essere tuttavia ingenuo concluderne che questo sia il segno di un ritorno a una lotta di classe bidimensionale, ai “poveri” contro i “ricchi”. Perché le categorie contrapposte al cosiddetto establishment sono molteplici, molecolari e assai più sfocate, una volta spariti i vecchi blocchi sociali. Quindi lo stesso concetto di casta assume, sempre nel percepito, risvolti e sfumature ulteriori: per i fattorini della “gig economy” (due euro a consegna) è casta anche il metalmeccanico con diritto alle ferie e tredicesima; per la partita Iva a 600 euro al mese (quando non si ammala) è casta anche il docente di liceo che porta a casa il doppio (e ha diritto ad ammalare); per l’under 30 che non vedrà mai la pensione, è casta lo zio che a 65 anni incassa regolarmente il suo assegno di riposo. Quella che il sociologo Emanuele Farragina ha chiamato “la maggioranza invisibile” è insomma una galassia composita e sfrangiata, che vede come casta anche chi sta appena un gradino sopra e talvolta disprezza chi sta appena un gradino sotto (di solito: gli immigrati o gli zingari, i paria del nostro tempo). Tutto questo ci riporta al significato originale del termine “casta”: un sistema fondato su scalini successivi. In cui nessuno può realisticamente ambire al grado superiore (il famoso ascensore sociale bloccato). E in cui la parcellizzazione di condizioni e interessi nei gradini mediobassi e bassi impedisce che si sviluppino forme di solidarietà e coesione contro chi sta sulla punta, come invece avveniva ai tempi della lotta di classe duale o semiduale del Novecento. In fondo Stella e Rizzo avevano azzeccato anche il titolo, con quel riferimento all’ordine gerarchico dell’India antica. Dieci anni dopo, l’unica variazione potrebbe essere passare dal singolare al plurale. Vale a dire che la casta non è più solo quella dei politici, ma un’élite intrecciata. Sotto la quale ci sono poi altre percezioni castali reciproche: quelle in cui sono o si sentono rinchiusi tanti pezzi diversi della società in lotta tra loro per la sopravvivenza. E per questo incapaci di spezzare l’organigramma, di mettere in discussione la piramide. 

"Noi, capitani delle navi, altro che casta di ricchi: siamo solo parafulmini per i guai". "A bordo dobbiamo diventare contemporaneamente medici, psicologi, notai, poliziotti. E tanti di noi finiscono dallo psicologo per lo stress", scrive Maurizio Di Fazio il 10 agosto 2017 su "L'Espresso". Alessandro Mirabile ha 42 anni, ma è già un comandante internazionale di lungo corso, specialmente di navi di grossa stazza. Negli ultimi tempi ha guidato i leviatani del mare della Saudi Aramco, la più importante compagnia petrolifera (saudita) del pianeta: i suoi comandanti sono i meglio pagati al mondo. Prima aveva lavorato per società americane, inglesi e scozzesi che gli hanno affidato le loro ammiraglie «anche se insieme a greci e spagnoli siamo considerati comandanti di serie b, quasi quanto i cinesi e gli indiani»; ed è stato anche sul ponte di comando, tornando in Italia, dello yacht di Luciano Benetton. La sua carriera ha avuto inizio vent’anni fa come allievo ufficiale di coperta: ad appassionarlo, la voglia di viaggiare e le storie dei grandi navigatori. Nella sua Palermo trovava tutte le porte sbarrate e così ha cominciato a girare per il globo. «Quando terminava il contratto, ovunque ci trovassimo, io chiedevo all’armatore di non pagarmi il biglietto aereo di ritorno in modo tale da restare ancora qualche mese in zona». Per anni Alessandro ha guadagnato più del triplo dei suoi omologhi italiani. Secondo lui la sua professione starebbe perdendo la bussola, e non soltanto per l’onda lunga dell’affondamento della Costa Concordia e la condanna, prima morale e poi giudiziaria, del comandante Schettino. Il tutto contestualizzato in un settore, quello dell’industria marittima, che non si scrolla ancora di dosso gli effetti della crisi economica degli anni passati. «È un luogo comune che noi comandanti navighiamo nell’oro» premette Mirabile. Lavorare all’estero o restare in patria? «Nel Belpaese i comandanti di nave vengono retribuiti esclusivamente quando sono in servizio: in più ci tartassano. Nelle nazioni anglosassoni siamo pagati invece tutto l’anno, a prescindere dal tempo effettivo che si spende a bordo. Vale il principio di esclusiva. Da quelle parti lavoravo sei mesi e gli altri erano di vacanza, guadagnando tre volte più che in Italia. Da noi i comandanti di traghetti e aliscafi fanno una vitaccia, prendono duemila euro al mese e sono sempre in acqua. Ho degli amici, con moglie e figli, che sono finiti dallo psicologo. Due o tre tratte al giorno: nulla di diverso da un conducente di autobus, coi pericoli del mare e l’inesorabile erosione della vita privata e affettiva. Altro che casta». Il nuovo contratto collettivo nazionale dei comandanti di navi da crociera, da carico e di traghetti superiori ai 3 mila Tsl (tonnellate di stazza lorda) prevede un minimo contrattuale di 3.280 euro. Un comandante da diporto percepisce però molto meno: poco più di 1.600 euro. «Con il contratto di arruolamento a viaggio il comandante viene imbarcato per il compimento di uno o più viaggi. Ogni viaggio non può avere una durata superiore a quattro mesi, riducibile o prorogabile da parte del datore di lavoro di trenta giorni. Il rapporto derivante dal contratto di arruolamento a viaggio inizia al momento dell’imbarco e si estingue al momento dello sbarco» si legge nell’accordo. Significativo anche l’articolo 5 sull’orario di lavoro: «il comandante non è soggetto a uno specifico orario di lavoro e pertanto allo stesso non spetta il compenso per lavoro straordinario e il disagio derivante da una eventuale prolungata prestazione è comunque già compensato dal trattamento economico globale complessivo stabilito nel presente Ccnl». I comandanti, capri espiatori e senza diritto di voto. «Serviamo solo in caso di guai. Se avvengono incidenti, paghiamo per tutti. Siamo in sostanza dei parafulmini. E pensare che a bordo dobbiamo diventare contemporaneamente medici, psicologi, notai, poliziotti. Non basta un papiro per descrivere le nostre mansioni. A volte non ci rispetta nemmeno la capitaneria, nonostante i suoi uomini se lo sognino il nostro vissuto in mezzo agli oceani, tra tempeste e avversità di ogni tipo» il j’accuse del comandante Mirabile. Che segnala un'altra curiosità, ovvero l'impossibilità di esercitare il diritto di voto. «La nostra categoria è così svilita anche perché non abbiamo mai ottenuto il diritto al voto. Per quale ragione ci è vietato raccogliere i suffragi della flotta e consegnarli al consolato per il rinnovo del Parlamento o le Europee? I marittimi non hanno diritto di voto e i politici ci ignorano bellamente. Eppure saremmo noi gli ambasciatori dell’Italia nel mondo, come stabilisce il concetto della nave-territorio espresso dal diritto internazionale…». Sicurezza a bordo. Negli ultimi tempi, dopo gli incidenti dell’Erika, della Prestige e della Costa Concordia al Giglio, varie direttive e regolamenti dell’Unione europea hanno in teoria migliorato le norme di sicurezza della navigazione marittima. L'Organizzazione marittima internazionale (Omi) stabilisce norme internazionali di sicurezza uniformi. Ma poi la palla passa sempre alle legislazioni nazionali. Sono sicure le grandi imbarcazioni che solcano i nostri mari? Il comandante Alessandro Mirabile avanza sospetti: «Le regole prescrivono che ogni nave deve effettuare un tot di esercitazioni settimanali o mensili. Ma sta alla deontologia del comandante e del primo ufficiale il compito di tradurle in pratica. Sono stato su navi su cui si facevano veramente e su altre dove non si sono mai fatte. C’è un’ipocrisia pazzesca. Ad alcuni interessa ben poco della salvaguardia della vita in mare, tanto le navi sono assicurate…».

Prefetti, piloti e manager: i pensionati che resistono ai tagli previdenziali. I politici rischiano di vedersi ridotto l'assegno in base a quanto versato. Ma restano tanti regimi favorevoli nelle altre categorie. E il doppio vantaggio dei pensionamenti anticipati e del sistema retributivo ha favorito soprattutto le classi più agiate, scrive Marco Ruffolo il 30 luglio 2017 su "La Repubblica". Nella giungla delle pensioni italiane, non sono solo gli ex parlamentari ad essersi sottratti finora ai calcoli più rigorosi del sistema contributivo, quello che lega gli assegni ricevuti ai contributi versati. Anche se con privilegi di gran lunga inferiori a quelli di deputati, senatori e consiglieri regionali, intere generazioni di pensionati dai 60 anni, chi più chi meno, sono state doppiamente avvantaggiate rispetto ai loro figli e nipoti: perché hanno potuto lasciare prima il lavoro e perché la loro pensione è stata ed è ancora oggi calcolata sulla base dei redditi via via guadagnati e non dei contributi pagati. Per loro infatti, a differenza di quanto potrà accadere tra poco agli ex parlamentari, le regole più rigide introdotte nel 1996 non vengono applicate retroattivamente. Almeno finora. Nel tracciare l'identikit di questi pensionati più "fortunati", si scopre che tra il 2000 e il 2010 ben tre milioni di lavoratori hanno potuto lasciare all'età di 58 anni con una pensione media di quasi 2 mila euro lordi al mese. Ovviamente, in questo gruppone ci sono anche gli ex operai che sono usciti prima dell'età di vecchiaia avendo iniziato a lavorare molto presto, e che non godono certo di un assegno cospicuo. Ma sono una minoranza. I due terzi hanno una pensione superiore a 1.500 euro. Prendiamo allora uno di questi pensionati-tipo: uno dei primi baby-boomers figli del dopoguerra, classe 1951, assunto ventenne da un'impresa privata, in pensione nel 2009 a 58 anni dopo 38 di lavoro. Oggi riceve un assegno di 2.120 euro lordi al mese. Quando nel 1996 Lamberto Dini introdusse il sistema contributivo, lui aveva già più di diciotto anni di lavoro alle spalle, e dunque resta immune dalla riforma: gli si continuerà ad applicare il vecchio calcolo retributivo per tutta la sua carriera. Insomma, niente riduzione retroattiva, come invece potrebbe succedere ora agli ex parlamentari, se la legge venisse approvata dal Senato e superasse le forche caudine della Corte Costituzionale. In soldoni, tutto questo significa che ancora oggi il nostro pensionato-tipo riceve ogni mese più di quanto ha pagato come contributi durante la sua vita lavorativa. Se la sua pensione fosse calcolata con il sistema contributivo, spiegano diversi studi di esperti previdenziali, dovrebbe prendere non 2.120 euro ma 1.520. Seicento euro in meno, una differenza del 28%. Ed è proprio questo il divario medio in Italia tra quanto riceve e quanto ha versato chi è andato in pensione anticipata con il retributivo. Fin qui non stiamo certo parlando di pensioni ricche, ma lo squilibrio si amplia notevolmente quando si passa alle classi di reddito più alte. Chi è andato in pensione con 4.100 euro mensili non avendo neppure compiuto 60 anni, oggi riceve ogni mese 1.400 euro in più di quanto avrebbe se gli si applicasse il sistema contributivo, il 34% in più. Questo significa che il doppio vantaggio dei pensionamenti anticipati e del sistema retributivo ha favorito soprattutto le classi più agiate.

Ma le discriminazioni pensionistiche non si fermano qui. Non è solo la linea di demarcazione intergenerazionale a squilibrare la nostra previdenza pubblica, anche se è la più macroscopica, perché divide le famiglie italiane tra sessanta-settantenni con pensioni superiori al dovuto e giovani o meno giovani con carriere precarie, penalizzati dal contributivo. Anche tra i pensionati fortunati che continuano a ricevere l'assegno in base al sistema retributivo, c'è chi è più favorito di altri: sono gli ex lavoratori dei fondi speciali, in parte confluiti nell'Inps perché in rosso cronico, e messi sotto esame già da qualche anno dall'Istituto guidato da Tito Boeri. Prendiamo gli ex lavoratori delle aziende elettriche. Fino al 1992 il legame tra la loro pensione e la retribuzione era molto più vantaggioso rispetto a quello degli altri dipendenti privati. L'assegno si calcolava in base alla retribuzione degli ultimi sei mesi, e non degli ultimi 5 anni. E inoltre il rendimento era fissato al 2,5% e non al 2. Lo stesso, o quasi, accadeva per ex telefonici ed ex ferrovieri. E ancora più favorevole era il trattamento degli ex prefetti, che vedevano la loro pensione seguire addirittura lo stipendio dell'ultimo giorno di servizio, maggiorata del 18% e senza tetti. I dirigenti d'industria, dal canto loro, potevano pagare contributi percentualmente più bassi dei loro dipendenti. Poi le regole sono cambiate e sono state equiparate a quelle di tutti i dipendenti privati.

Tutto risolto? Neppure per idea, perché per gli iscritti a quei fondi i vantaggi sono cessati solo parzialmente. Ancora oggi, infatti, la parte della loro pensione calcolata sugli anni di lavoro precedenti al 1992, continua a godere di quei favori ereditati dal passato. Per avere un'idea di quanto essi possano pesare ancora, prendiamo un pensionato iscritto a uno di quei fondi speciali, e ipotizziamo che sia stato assunto nel 1971 e abbia lavorato per 38 anni (come nell'esempio precedente). Prima del 1992 ha maturato 21 anni, dopo ha lavorato per altri 17. Questo significa che la sua attuale pensione viene calcolata per il 55% con le condizioni favorevoli delle vecchie leggi, e solo per il restante 45% con le più rigide regole vigenti. Il risultato di questo retaggio è che per i lavoratori dei fondi speciali lo squilibrio tra contributi versati e pensione ricevuta è ancora più marcato che per gli altri dipendenti privati. A ricevere il 30% in più di quanto versato sono i due terzi degli ex piloti e delle ex hostess, la metà dei pensionati dello spettacolo e un terzo di ex telefonici ed ex ferrovieri.

Tutto questo ovviamente ha un costo. Tra il 2008 e il 2012 quasi un milione di lavoratori sono usciti con un'età media di 58 anni e con il sistema retributivo. Sono dipendenti privati, autonomi, ma anche dipendenti pubblici, i quali godono tuttora di pensioni di anzianità più alte del 20% rispetto alla media. Per tutti loro lo Stato ha pagato e continua a pagare il 28% in più di quanto avrebbe versato con il sistema contributivo. Significa che se magicamente quel sistema fosse esteso a tutti, risparmieremmo 46 miliardi l'anno. Qualche tempo fa Tito Boeri, presidente dell'Inps, e Stefano Patriarca (oggi consigliere economico di Palazzo Chigi) proposero di imporre solo ai più benestanti un contributo di solidarietà, commisurato allo squilibrio esistente, per aiutare i numerosi giovani privi di un dignitoso futuro pensionistico. Si gridò allo scandalo, all'attentato ai diritti acquisiti e non se ne fece nulla. In realtà, non si trattava affatto di ricalcolare retroattivamente le pensioni in base al sistema contributivo (come si vuol fare adesso per gli ex parlamentari), ma di prevedere un "obolo" (in percentuale sulle pensioni avute oltre il dovuto) per riequilibrare almeno in parte una delle più forti discriminazioni economiche presenti in Italia. Che probabilmente sarà destinata a restare tale.

Maxi-stipendi, privilegi e ritardi. I numeri della casta delle toghe. Aumenti record con Monti: ai magistrati 833 euro in più al mese. Il vero stipendio? Oltre 140mila euro l'anno, scrive Marco Cobianchi, Domenica 23/07/2017 su "Il Giornale".  Se chiedete all'Inps qual è lo stipendio medio di un magistrato vi risponderà che è di poco più di 125mila euro lordi l'anno. A parte il fatto che si tratta comunque del trattamento più ricco tra tutte le categorie di dipendenti pubblici (compresi diplomatici e dipendenti della presidenza del Consiglio) quella cifra è falsa. O, meglio, è vera, ma non tiene conto delle «indennità fisse e accessorie». Solo aggiungendo questa parte della retribuzione si giunge al numero vero. Per arrivare alla cifra totale non bisogna rivolgersi all'Inps, secondo il quale nel 2016 la retribuzione contrattuale di un magistrato è stata appunto di 125.637 euro, ma bisogna controllare l'annuario statistico della Ragioneria Generale dello Stato, i cui dati si fermano al 2014 (l'annuario di quest'anno conterrà i dati del 2015). Aggiungendo la voce «indennità fisse e accessorie», lo stipendio di un magistrato sale a 142.554 euro. Per dare un'idea: è quasi 5 volte lo stipendio medio di un professore; 3,5 volte quello di un dipendente di un ente di ricerca e 3,3 quella di un docente universitario. Ma c'è di più: il sito Truenumbers.it ha elaborato il ritmo di crescita degli stipendi dei magistrati nel corso degli anni e ha scoperto qualcosa di molto interessante. Sempre considerando l'intera retribuzione, la retribuzione di un magistrato è passata da 120.161 euro del 2007 a 142.554 del 2014, il tutto mantenendo praticamente stabile la retribuzione fissa, sottoposta al blocco degli aumenti del pubblico impiego. Ad aumentare è stata la parte «variabile» e l'anno in cui è cresciuta di più è stato il 2012, in pieno governo Monti, durante il quale la busta paga è passata da 131.295 euro a 141.675 euro. In sostanza mentre il professore della Bocconi reintroduceva l'Imu sulla prima casa e aumentava l'età pensionabile, gli stipendi dei magistrati crescevano al ritmo rossiniano di 833 euro ogni mese per 12 mesi. Naturalmente in questa media ci sono tutti: magistrati e giudici molto produttivi e quelli meno. Quali sono i primi e i secondi? L'Ufficio Parlamentare di Bilancio ha redatto la classifica dei migliori e peggiori tribunali d'Italia sulla base dei dati del 2015, considerando un indice chiamato «indicatore di sforzo». Ovvero un coefficiente che stabilisce di quanto un tribunale dovrebbe aumentare il numero di procedimenti definiti ogni anno perché in quel tribunale si arrivi alla parità tra procedimenti aperti e procedimenti chiusi nell'arco di tre anni. Il risultato è che il tribunale di Patti dovrebbe aumentare i processi definiti del 96% ogni anno, quindi quasi il doppio di ora. Quello di Vallo della Lucania dell'88% e quello di Barcellona Pozzo di Gotto del 70%. Aosta, Ferrara e Vercelli, invece, dovrebbero lavorare meno, perché hanno un «indicatore di sforzo» negativo rispettivamente del 9%, del 7% e del 4% e questo significa che la parità tra procedimenti che si aprono e procedimenti che si chiudono è già stata raggiunta. Nel grafico in queste pagine sono indicati i 10 peggiori tribunali italiani (quelli che hanno un valore positivo) e i 10 migliori (quelli con un valore negativo). Milano, in questa classifica, sta a metà: dovrebbe aumentare il numero di processi definiti dell'1% l'anno. Questa scarsa produttività è stata compensata da alcuni correttivi del sistema giudiziario che hanno accelerato i tempi di definizione dei processi. Tra questi il processo telematico, l'obbligo del tentativo di conciliazione e, non ultimo, il taglio dei giorni di ferie dei magistrati, che le toghe hanno osteggiato con tutte le loro forze. Il risultato è che l'arretrato civile è in calo dal 2011. L'arretrato resta comunque enorme: 3.761.613 processi da definire a marzo di quest'anno rispetto agli oltre 5 milioni e 700mila del 2009, quando il sistema ha rischiato effettivamente di andare in tilt. Quegli oltre 3,7 milioni di processi arretrati non hanno solo un riflesso sulla qualità della giustizia, ma sono anche una terribile minaccia per le finanze pubbliche. Nel 2001 l'onorevole prodiano Michele Pinto ha dato il nome a una legge («legge Pinto») in base alla quale il cittadino che si ritiene danneggiato per l'eccessiva durata di un processo può chiedere il risarcimento allo Stato. Ovviamente non tutti i protagonisti di quei 3,7 milioni di processi possono chiedere il risarcimento, ma solo quelli che rientrano nelle fattispecie della legge, ovvero quelli il cui processo dura da oltre tre anni per il primo grado, due anni per l'appello e un anno in Cassazione. E quanti sono questi processi? Esattamente 607.233. Ipotizzando che solo una persona per ogni processo chiedesse un risarcimento (eventualità che non succede mai), ci sarebbero 607.233 richieste di risarcimento. Per evitare il rischio di dover rifare i conti del bilancio pubblico, nel 2012 sempre il governo Monti ha limitato questa possibilità e fissato un minimo (400 euro) e un massimo (800 euro) risarcibile per ogni anno di ritardo oltre i termini fissati per legge. Ecco perché i magistrati, oltre che per gli stipendi stratosferici, a confronto con quelli di tutti gli altri dipendenti pubblici, se non lavorano abbastanza rischiano di pesare sul bilancio dello Stato due volte.

I davighiani: «Non siamo i più pagati». Ma la Ragioneria li smentisce, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 2 Agosto 2017 su "Il Dubbio".  La polemica sugli stipendi dei dipendenti pubblici. Quanto guadagnano in media i magistrati italiani? Tanto, circa 140.000 euro (lordi) l’anno, secondo un’inchiesta pubblicata da Il Giornale la scorsa settimana che cita le analisi compiute da una società di ricerca denominata Truenumbers. Per “smentire” quanto riportato dal quotidiano diretto da Alessandro Sallusti, Autonomia & Indipendenza, la corrente della magistratura fondata da Piercamillo Davigo, ha deciso di organizzare un dibattito ad hoc in occasione del suo prossimo congresso in autunno. Come si legge nel comunicato di presentazione dell’iniziativa, “non possiamo certo aspettarci che l’opinione pubblica sia a conoscenza o sia effettivamente interessata a studiare i complessi meccanismi di determinazione della nostra retribuzione, ma dobbiamo fermare la diffusione di notizie false che hanno il solo scopo di far sedimentare la rappresentazione di una giustizia costosa ed inefficiente (e, quindi, riformabile senza tanti rimpianti)”. Quindi, per “sbugiardare” Truenumbers e Il Giornale, “a settembre inviteremo loro, ed anche altri esperti nel settore del fact checking, ad un confronto pubblico, buste paga alla mano, su grafici e statistiche che nella migliore delle ipotesi riteniamo incomplete”. Dopo l’estate, dunque, la risposta chiarificatrice. Ma intanto ieri ha provveduto la Ragioneria generale dello Stato a riproporre i dati di realtà: nella classifica degli stipendi tra chi lavora per lo Stato, i magistrati sono incontestabilmente primi, ultimi i dipendenti della scuola. Nel 2015, per prof e personale amministrativo degli istituti, la media retributiva è stata di 25.077 euro, a cui si aggiungono 3.266 euro di indennità fisse ed accessorie. Impietoso il confronto con i magistrati: stipendio medio di 122.737 euro, più 15.745 di indennità. Ma magari al convegno di A& i si scoprirà dov’è il trucco.

La resistenza dei dirigenti di Stato, sono i più pagati d’Occidente. Nonostante il tetto ai compensi introdotto nel 2014 lo stipendio dei mandarini italiani è superato solo dagli australiani. Intanto una pioggia di ricorsi blocca la pubblicazione dei patrimoni, scrive Sergio Rizzo il 17 luglio 2017 su "La Repubblica". L'ultima rilevazione dell'Ocse sulle retribuzioni dei dirigenti pubblici dice quanto la trasparenza sia preziosa, e per alcuni versi anche dolorosa. Grazie a lei sappiamo che i mandarini italiani sono i più pagati del mondo sviluppato, con la sola esclusione dell'Australia. Affermare tuttavia che con il tetto agli stipendi dei funzionari pubblici fissato tre anni fa in 240mila euro lordi l'anno non sia cambiato nulla sarebbe ingeneroso: qualche busta paga scandalosa (e immeritata) è stata per fortuna ridimensionata. Ma è sempre la media, con o senza quel tetto, che continua a fregarci. I confronti parlano chiaro. La retribuzione media delle nostre figure burocratiche apicali è scesa fra il 2011 e il 2015 da 339.249 a 212.132 euro lordi. Il calo non è stato affatto trascurabile: meno 37,4 per cento. Nonostante una simile sforbiciata, però, siamo ancora ben al di sopra di quella dannata media dei Paesi sviluppati che aderiscono all'Ocse. Fissata, secondo la rilevazione di cui parliamo, in 160.627 dollari: 132.315 euro lordi. Decisamente meglio è andata ai dirigenti di prima fascia, quelli immediatamente al di sotto del massimo livello apicale. Dopo l'introduzione del famoso tetto le loro retribuzioni medie, sempre secondo i calcoli dell'Ocse, sono infatti addirittura aumentate, seppur di poco: l'incremento dai 197.962 euro del 2011 ai 199.330 (lordi, ovvio) del 2015 è dello 0,7 per cento, che sale all'1,5 con la metodologia di calcolo Ocse, che tiene conto anche dei contributi previdenziali e dell'orario effettivo di lavoro. A questo proposito andrebbe ricordato che l'ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, prendendo proprio spunto dal raffronto internazionale aveva previsto risparmi di mezzo miliardo l'anno già a partire dal 2014. Ebbene, almeno in questo caso è accaduto il contrario. E qui siamo di nuovo al punto cruciale: la trasparenza. In questo nuovo studio, che peraltro ricalca i risultati della precedente analisi del 2013, l'Ocse precisa che non tutti i Paesi riportano nelle loro analisi i dati effettivi, come fa invece l'Italia. Da quattro anni, infatti, qui vige il principio della pubblicità dei compensi dei dirigenti pubblici. È la conseguenza di un decreto, il numero 33 del 2013, che però non è stato digerito da tutti gli interessati. Ma è nulla al confronto di ciò che è successo nel momento in cui si è deciso di estendere l'obbligo di trasparenza anche alle informazioni patrimoniali. Allora sono scoppiate improvvise allergie. Letteralmente incontenibili. La battaglia comincia il 25 maggio 2016, quando la Funzione pubblica approva un decreto legislativo che impone ai dirigenti la pubblicazione della propria situazione economica e reddituale sui siti internet ufficiali di ogni singola amministrazione. E con le variazioni intervenute anno dopo anno. Nello stesso provvedimento viene specificato che la cosa riguarda tutti, ma proprio tutti, gli incarichi di livello dirigenziale: per capirci, anche quelli che vengono assegnati per decisione politica. Tanto basta per innescare l'immancabile ricorso al Tribunale amministrativo, che il 2 marzo sospende senza battere ciglio l'efficacia della nuova misura. Affermano i giudici che è necessario considerare la "consistenza delle questioni di costituzionalità e di compatibilità con le norme di diritto comunitario sollevate nel ricorso", specificando di aver preso la travagliata decisione dopo aver valutato "l'irreparabilità del danno paventato dai ricorrenti discendente dalla pubblicazione online, anche temporanea, dei dati per cui è causa". Non bastasse, ecco un altro ricorso, stavolta del sindacato al quale si associano pure quattro burocrati, che contesta le linee guida emanate dall'Autorità nazionale anticorruzione per l'attuazione della norma del 2013 che prevede la trasparenza degli atti relativi agli incarichi di natura politica e dirigenziale. A quel punto l'Anac di Raffaele Cantone non può che fermare le macchine e sospendere tutto, in attesa del sospirato giudizio di merito del Tar. Che si prende tutto il tempo necessario, e forse anche qualcosina in più: sette mesi. I giudici amministrativi hanno fissato la relativa udienza per martedì 10 ottobre 2017. Ovvero, 222 giorni dopo aver deliberato la sospensiva e a quasi un anno e mezzo dal decreto che imporrebbe l'obbligo di far conoscere ai cittadini anche i patrimoni dei dirigenti pubblici e la loro evoluzione durante lo svolgimento dell'incarico. Mentre tutti continuano a ripetere che la trasparenza è il migliore antidoto contro il cancro della corruzione.

 “La casta dei Pionieri tiene in pugno la Croce Rossa”. Le rivelazioni di un dirigente in incognito, scrive Lorenz Martini su "it.businessinsider.com" il 13 febbraio 2017. Un’associazione nell’associazione che grazie al controllo capillare dei voti dei propri affiliati tiene in pugno la Croce Rossa Italiana (Cri). È l’accusa mossa da numerosi membri della Cri a quella fetta di volontari che in passato hanno fatto parte del corpo dei Pionieri. Un nutrito gruppo di persone, che oggi hanno tra i 30 e i 45 anni, entrate giovanissime nella Cri – quando era ancora ente pubblico – e dalla quale non ne sono più uscite. «È una sorta di confraternita che ha preso il controllo di qualsiasi struttura gerarchica, escludendo gran parte di noi volontari che siamo entrati in Cri senza passare dalla componente giovanile. È un organismo interno, ma avulso dal resto dell’Associazione che si auto-genera e autoprotegge», accusa apertamente un dirigente dell’Associazione che chiede di restare anonimo. A fare le spese di questa ascesa, le altre componenti storiche della Cri, sia militari che civili. Per comprendere chi sta vincendo la partita per la conquista del potere nella più grande e capillare associazione di volontariato italiana, è necessaria un po’ di storia: i Pionieri sono stati fino al 2012 una delle sei componenti che formavano il grande mare dei volontari, assieme a Corpo Militare, Corpo delle Infermiere Volontarie (le Crocerossine), Comitato Femminile, Donatori di Sangue e Volontari del Soccorso. Sei mondi paralleli che per decenni hanno convissuto avendo propri vertici, propri regolamenti, propri capi e proprie strutture. Sotto un’apparente unitarietà, nella Cri convivevano, cioè, sei associazioni diverse, alternative e, spesso, in competizione per il potere.

Una convivenza che si interrompe nel 2012, quando Francesco Rocca, smessi i panni di commissario straordinario di Cri e vestiti quelli di presidente della stessa Cri, vara una riforma che riduce a tre le componenti originarie: i Volontari (nei quali confluiscono anche i Pionieri), il Corpo Militare e le Crocerossine.

«Quando sono arrivato ho trovato un mondo lacerato e in lotta continua», ha spiegato lo stesso Rocca a Business Insider Italia, «con ambulanze dei Pionieri che facevano a gara con quelle dei Volontari del soccorso… Ognuna delle sei componenti poi aveva il proprio nucleo decisionale e le proprie gerarchie. Per questo le ho sciolte. Una rivoluzione che non è piaciuta a molti, e ad attaccare i Pionieri oggi sono quelli che in passato avevano un feudo e che oggi non l’hanno più». Nonostante le buone intenzioni, la riforma Rocca non sembra aver azzerato le divisioni. Al limite ha cambiato le regole della lotta intestina, che ora si gioca sul piano elettorale. Ed è proprio utilizzando nel migliore dei modi il sistema elettorale maggioritario senza quorum previsto dai regolamenti della Cri per ogni elezione che gli ex giovani, pur numericamente minoritari – sono circa 30 mila sui 150 mila associati di Cri –, riescono a fare manbassa di cariche, escludendo gli storici rivali. «I vertici degli ex Pionieri controllano capillarmente i voti dei loro ex confratelli e li fanno convergere in massa sui candidati scelti nelle loro liste. Se si considera l’alto astensionismo che si registra alle votazioni e il sistema elettorale inefficiente voluto da Rocca (che permette di conquistare la presidenza di un comitato anche con un solo voto espresso), si capisce come questa componente abbia potuto prendersi tutto. Tra Pionieri e presidente Rocca vige l’accordo perfetto: loro controllano l’Associazione e lui continua a fare il Presidente», spiega ancora il nostro dirigente. Un ombrello che coprirebbe dal piccolo comitato locale al massimo organo direttivo nazionale: «Dopo la riforma, la Cri è governata da un Comitato Direttivo Nazionale formato da cinque membri. Almeno due di questi sono ex Pionieri. Tale Comitato ha poi conferito il comando del Segretariato Generale – cioè della struttura che gestisce direttamente tutti i fondi di Cri – a un altro ex Pioniere, il dottor Flavio Ronzi, nominato con chiamata diretta e retribuito con uno stipendio da 104 mila euro annui». Interpellato da Business Insider Italia, Ronzi smentisce seccamente: «Confermo di essere stato Pioniere dai 15 anni ai 22 anni, ma poi sono andato all’estero a occuparmi di altro e non ho più avuto rapporti con quella componente», spiega. E, alla domanda se secondo lui esiste un potere parallelo che oggi controlla la Cri, risponde: «Forse fino al 2009 sì. Poi è arrivata la riforma di Rocca che ha sciolto le componenti proprio per questo motivo. La tesi del monopolio dei Pionieri non regge: i giovani erano 30 mila, i Volontari del soccorso 90 mila, quindi anche solo il rapporto numerico dimostra che non ci può essere alcuna supremazia. Credo che oggi neanche un quarto dei Comitati locali sia gestito da ex Pionieri…». Se questa proporzione fosse corretta sarebbero circa 150 Comitati locali sui 638 esistenti in mano a ex Pionieri. Sarà, ma a scorrere l’organigramma della Cri, non sembrerebbe affatto così. Ex Pionieri sono Massimo Barra, già commissario straordinario nazionale ora membro della Standing Commission del Comitato Int.le della CR; Antonino Calvano, Presidente Cri Piemonte e Pietro Ridolfi, Capo della Commissione Cri per il Diritto Umanitario e delegato tecnico nazionale per l’Obiettivo Strategico 4; Adriano De Nardis, presidente Cri Lazio e membro del Comitato di Gestione dell’Ente Strumentale alla CRI (la bad company nella quale sono confluiti i debiti monstre di Cri); Nicola Scarfò, segretario generale Cri Lazio; Rosario Valastro, già presidente Cri Sicilia, oggi vice presidente nazionale Cri e membro del Comitato Ente Strumentale Cri; Gabriele Bellocchi, membro del Consiglio Direttivo Nazionale Cri in rappresentanza della Gioventù; Francesco Pastorello, presidente Comitato Cri Roma 2; Roberto Tordi, Vice presidente Cri Lazio; Stefano Carmelo Principato, presidente della Cri di Catania, quello che controlla il famigerato CARA di Mineo. E la lista potrebbe continuare ancora a lungo. Una concentrazione di potere che non si riscontra nella altre Croci Rosse del mondo. In tutti i massimi organi direttivi delle “sorelle” internazionali, infatti, è presente solo il delegato dei Giovani e le strutture sono gestite dai “normali” volontari. Nel Consiglio della Croce Rossa Svizzera, per esempio, a parte il rappresentante della Gioventù, nessun altro membro ha un passato nel corpo giovanile.  È una legge non scritta, ma da sempre rispettata a tutti i livelli, nazionali e cantonali proprio per evitare “equivoci”, fanno sapere da Ginevra. Secondo i detrattori, infine, avere in mano le cariche comporta guadagni personali ma, soprattutto, il controllo del mercato del lavoro. «Ai tempi della Cri ente pubblico, il ragazzo entrava come volontario nei Pionieri dopo i 14 anni. Una volta maggiorenne, se il soggetto era disponibile e interessato a rimanere, esistevano meccanismi di chiamata ad personam che lo inserivano in un sistema di lavoro discontinuo, ma ciclico. Infine, quel rapporto lavorativo precario veniva stabilizzato con un decreto ministeriale o con legge ad hoc», spiega il dirigente. In pratica si entrava nell’ente pubblico senza alcun concorso. «Dopo il decreto Monti del 2012 questo sistema di cooptazione è stato bloccato, tuttavia ancora oggi i Comitati locali dove possono assumono. E diciamo che tra i neo-assunti chi è stato Pioniere ha una via privilegiata. Ed è incredibile, se si pensa che la Croce Rossa ha appena finito di smaltire gli oltre 900 lavoratori in esubero che aveva dovuto assumere a seguito delle sentenze dei magistrati». Inoltre, conclude il dirigente, mancherebbe del tutto la trasparenza: «Nel comitato di Roma Città Metropolitana, nonostante il Codice Etico imponga di rendere noti a tutti i volontari i nomi degli assunti, non è dato sapere quanti siano attualmente i pionieri retribuiti».

Alla Camera gli stipendi dei dipendenti costano il doppio di quelli dei deputati. Spesi 175 milioni di euro per funzionari e commessi, 81 per gli onorevoli, scrive Pier Francesco Borgia, Venerdì 27/01/2017, su "Il Giornale". Filtrano le prime indiscrezioni sul bilancio consuntivo interno della Camera dei deputati per l'anno appena concluso. E salta subito agli occhi che, in tempo di magra e di rigore pressoché obbligato, si possono comunque spendere 60mila euro per fotografie ufficiali. È il giornale on line La notizia, diretto da Gaetano Pedullà, a riportare alcune delle voci più curiose del bilancio di Montecitorio, appena approvato dall'ufficio di Presidenza. Altri 10mila euro sono stati investiti nel rinnovo del particolare «guardaroba» rappresentato dalle bandiere. Oltre agli acquisti ci sono naturalmente i servizi. All'interno della Camera dei deputati, ad esempio, costa 200mila euro l'anno la gestione di un efficiente servizio di guardaroba. «Senza dimenticare - si legge sul sito La notizia - i due milioni per la ristorazione, gli oltre 5 milioni per pulire i tanti uffici e sedi della Camera dei deputati e 1,6 milioni per spostare mobili e incartamenti vari». E, alla fine, il conto non può che essere salato: più di 75 milioni di euro spesi nel corso del 2016 per garantire servizi, beni e forniture di ogni tipo a deputati e dipendenti di Montecitorio». Entrando poi nel dettaglio delle varie voci di spesa si nota, tra l'altro, che la Camera dei deputati ha speso 300mila euro complessivi per rinnovare gli arredi interni degli uffici. E facendolo, peraltro, con sicuro gusto, come si può evincere da quei 25mila euro pagati a Poltrona Frau. D'altronde - rivela il sito La notizia - questi mobili sono particolarmente graditi a Montecitorio. Nel 2016, infatti, la Frau aveva ricevuto un'altra commessa da oltre 14mila euro e prima ancora da 18mila. Ma non è finita qui. Accanto alla già citata spesa di guardaroba, va ricordato quella ben più impegnativa che riguarda il vestiario di servizio. Nel 2016 sono stati spesi 170mila euro. Senza dimenticare, ancora, i 370mila euro spesi per carta e materiale da cancelleria, oppure i tanti contratti siglati per mostre, convegni e meeting: che in un anno ammontano a circa 90mila euro. Ovviamente queste sono le cifre più curiose. Ma anche le più modeste. Andando a vedere nel bilancio di previsione si può constatare come la spesa maggiore resta quella per il personale. Il costo è di 175 milioni di euro, mentre gli emolumenti per i deputati della XVII legislatura sono meno della metà (vale a dire 81 milioni di euro). Ma non è tutto. Perché nella giungla dei contratti e delle spese spuntano anche situazioni singolari. Per la locazione di uffici, per esempio, la Camera ha versato in un anno un totale di circa 43mila euro al Patriarcato di Antiochia dei siri, che è proprietaria di un immobile nella centralissima piazza di Campo Marzio. Insomma resistono le note curiose (come gli oltre 60mila euro per i corsi di inglese per personale e deputati) ma è pur vero che Montecitorio si attiene al «rigore» imperante e continua a tagliare i costi. Quello appena concluso è stato il quinto anno consecutivo di riduzione delle spese. Come si legge sul sito ufficiale della Camera dei deputati, rispetto al bilancio del 2011 che rappresentava il picco di spesa nella storia repubblicana di Montecitorio, le spese sono state ridotte del 12,8 per cento. Singolare poi che sempre nello stesso prospetto informativo si faccia un malizioso confronto con quanto speso dalle amministrazioni centrali dello Stato. E nello stesso arco di tempo 2011-2016 lo Stato avrebbe aumentato - secondo il sito della Camera dei deputati - le spese di gestione dell'11 per cento.

Sacrifici? Nel Palazzo è un altro mondo. In strada si protesta. I sindacati chiedono lo sciopero. I dipendenti agognano 14 euro lordi in più in busta paga. Però ciò che agita i dipendenti della Camera è come farsi pagare 1000 euro in più per 4 giorni di ex festività, scrive Lia Quilici il 21 ottobre 2013 su "L'Espresso". “Tenetevi forte. Questa storia ha veramente dell’incredibile”. Inizia proprio così un bollettino sindacale che sta girando a Montecitorio (di cui l’Espresso è venuto in possesso), che spiattella una bega tutta interna, ma per niente secondaria, su come e quando i dipendenti della Camera possono usare le moltissime ferie a disposizione. Da quelle parti poco importano le chiacchiere sui sacrifici chiesti agli italiani, o che Cgil, Cisl e Uil abbiano deciso la trincea dello sciopero generale contro gli sprechi che frenano la crescita, o che a giorni si dovrà decidere come spalmare l’inebriante aumento di 12-14 euro a busta paga; né, per certo, deve arrivare l’eco di richieste degli “acampados” di Porta Pia. Il problemaccio sul quale s’accapigliano dipendenti e politici dei piani nobili è, in sostanza, il seguente: quando ci pagate i mille euro per le quattro giornate di ex-festività, che non abbiamo consumato gli anni passati? Fuor di bizantinismi, in pratica, secondo un bislacco meccanismo di anzianità, nel giro di poco tempo consiglieri e commessi si ritrovano con un pacchetto annuo di 30-40 giorni di ferie (la media di un lavoratore è di 24 giorni), ai quali si aggiungono altri quattro giorni di festività soppresse (per i cultori: San Giuseppe, Ascensione, Corpus domini, SS. Pietro e Paolo) che, se non utilizzate entro l’anno, vengono liquidate con cifre di tutto rispetto che si aggirano, appunto, sui mille euro. Cifra che se moltiplicata per i 1500 dipendenti costerebbe ai contribuenti 1 milione e 500 mila euro l’anno. Un tesoretto annuale che, parametrato ai 14 euro di detassazione previsti dalla stabilità di Letta, un singolo lavoratore ci metterebbe 71 mesi a racimolare. Ma non finisce qui. I dipendenti del Palazzo possono contare anche su un monte ore, determinato dagli straordinari (non retribuiti per contratto), che può essere sfruttato anche per giornate intere di relax a casa. Un bonus neanche difficile da racimolare, perché, se si lavora di sabato, un’ora viene contata come un’ora e venti (cioè, il 30% di tempo in più). Se poi si ha la fortuna di lavorare di domenica (anche per poche ore), ecco che il jackpot schizza: ore in più e in omaggio una giornata di ferie. A conti fatti, c’è chi si ritrova con 50 giorni di ferie e 100 ore da recuperare (cioè, altri 12 giorni a casa), con in più nel portafogli mille euro di festività soppresse. E se proprio non ci si riesce a godere tutto questo meritato riposo, il Pacchetto Palazzo prevede che si possa andare in pensione prima, calcolando i giorni di ferie non goduti (non di rado 6-8 mesi in anticipo). Appena hanno provato a metter una toppa a questa incredibile situazione, sono riusciti ad allargare il buco, visto che l’Ufficio di Presidenza (l’organo politico presieduto dal Presidente della Camera) ha avuto l’idea curiosa di obbligare i dipendenti a consumare per prime le festività soppresse (per non pagarle) e poi i congedi ordinari. Zelo fallimentare, poiché comunque se ne accumulano talmente tanti dall’anno precedente che, giocoforza, ci si ritrova punto da capo con commessi e segretari che battono cassa di ciò che gli è dovuto. E il Sindacato interno si lancia in una proposta che, per citare le loro stesse parole, “se non fosse vera, sembrerebbe davvero incredibile”: “ma se le ore in eccesso creano questi gravissimi problemi all’Amministrazione, perché non si eliminano gli inutili turni del sabato mattina?”. E, con l’invito a lavorar di meno, il buco peggiore della toppa diventa una voragine. Nel migliore degli stili da Prima Repubblica, a quanto pare di capire, adesso l’Amministrazione sta cercando di approvare un’ulteriore proroga per ritardare il pagamento delle festività, ricorrendo a cavilli interpretativi. Si parla, addirittura, di marzo 2014; fino ad allora non si saprà la sorte delle “povere” festività soppresse maturate nel 2011. Con le barricate degli agguerriti sindacati pronti a contrastare l’affronto, nella ridicola guerra di casta in corso.

Parlamento d'oro, la casta bis. Uno stenografo della Camera prende 259 mila euro l'anno. Un consigliere 370 mila. Un commesso 8 mila euro netti al mese. Stipendi assurdi, che (ad esempio) fanno spendere al Senato 236 milioni all'anno per il personale, scrive il 16 dicembre 2011 Primo Di Nicola su "L'Espresso". Le ricche prebende dei parlamentari per ora sono al riparo. Spinto dalla crisi e per fare cassa, il presidente del Consiglio Mario Monti ha provato a tagliarle per decreto, il famoso salva-Italia. Grazie all'intervento dei presidenti di Camera e Senato, deputati e senatori sono però riusciti a mantenere i loro emolumenti, le ricche indennità, le corpose diarie, i vitalizi da nababbi e gli altri privilegiatissimi compensi che hanno sinora accompagnato la loro elezione. Ma solo per il momento. Entro la fine del prossimo gennaio, stando all'impegno solennemente preso da Gianfranco Fini e Renato Schifani, sui trattamenti degli eletti dovrà calare comunque la mannaia imposta dai vincoli di bilancio per allinearli ai più magri livelli in vigore nel resto d'Europa. Un passo storico, certamente. Ma anche la fine di tutti i privilegi che allignano in Parlamento? Neanche per sogno. All'ombra di Montecitorio e Palazzo Madama, nonostante gli annunci di riforma e tagli degli uffici di presidenza, continuano infatti a prosperare i ricchissimi trattamenti di cui gode il piccolo esercito di dipendenti che, tra una voce e l'altra della busta paga e i connessi sistemi previdenziali porta a casa retribuzioni e pensioni in grado di suscitare l'invidia persino del presidente della Repubblica. Un'esagerazione? Dati alla mano, Giorgio Napolitano incasserà quest'anno un appannaggio complessivo di circa 239 mila euro. Un bello stipendio, senza dubbio, soprattutto se confrontato con le ristrettezze e le ambasce dei comuni cittadini ai quali Monti sta chiedendo sacrifici e imponendo tagli dolorosi persino ai trattamenti pensionistici più bassi. Solo che il compenso di Napolitano impallidisce di fronte ai 259 mila euro lordi che può arrivare ad incassare ogni anno un semplice stenografo parlamentare, uno di quelli che si vedono alla tv mentre trascrivono i lavori delle assemblee o degli altri organi; e miseramente si inchina al confronto dei 370 mila euro percepiti da un consigliere parlamentare all'apice della carriera.  Non si tratta dell'unico paradosso che spunta dalle tabelle retributive di Montecitorio e Palazzo Madama. Scorrendole, si scopre pure che i commessi possono portare a casa più dei magistrati e le segretarie (8 mila netti mensili) quasi il doppio (4.500 netti) del primario di un reparto di neurochirurgia del Sistema sanitario nazionale. Naturale che grazie a questi munifici compensi i livelli di spesa riportati nei bilanci di Camera e Senato per il personale abbiano raggiunto livelli da allarme rosso. Ed è altrettanto naturale che grazie ad essi i trattamenti pensionistici dei lavoratori parlamentari, anche a causa dei bizantinismi del regolamento e delle sorprendenti regalìe collezionate negli anni, abbiano toccato poi livelli di privilegio che pochissimo hanno da invidiare ai famigerati vitalizi riscossi da deputati e senatori. Qualche cifra: a Palazzo Madama, per il personale di ruolo e quello in quiescenza si spendono complessivamente (dati 2011) 236 milioni di euro l'anno. Di questi, 136 se ne vanno per pagare gli stipendi dei dipendenti in servizio (in carico ne risultano 940, 120 in meno del 2006 grazie al blocco del turn-over) e più di 97 milioni per fare fronte alle pensioni degli ex. Cifre sorprendenti se confrontate con quelle relative ad altri capitoli di spesa del bilancio di Palazzo Madama. Passando al setaccio tabelle e allegati si scopre infatti che, rispetto ai dipendenti, per i senatori e le loro attività si spende molto meno: 196 milioni in totale, di cui 96 elargiti per le indennità, le diarie e gli altri compensi di quelli in carica; 61 milioni per i vitalizi e ulteriori 38 per i gruppi parlamentari. Ancora più costoso si rivela il personale della Camera (1.642 persone) che, nello scorso anno, ha assorbito 256 milioni per le retribuzioni e oltre 204 per le pensioni. Ma attraverso quali meccanismi questi dipendenti arrivano a guadagnare così tanto? Come sono organizzati? Cominciamo da Montecitorio e dalle sue varie fasce retributive (vedere tabella). Chiarito che gli stipendi sono onnicomprensivi (sommano straordinari e lavoro notturno) e pagati per 15 mensilità, e ricordato che nei ranghi parlamentari si accede solo per concorso, si parte dalla categoria più bassa degli operatori tecnici (operai, barbieri, autisti) che iniziano con uno stipendio di 2 mila 300 euro lordi per arrivare a 9.461 euro all'apice della carriera con 35 anni di anzianità. Un gradino sopra ci sono gli assistenti (commessi e addetti alla vigilanza) che, pur iniziando con una paga mensile di 2.600 euro, finiscono poi con la stessa retribuzione degli operatori (e vai a capire perché). Seguono i collaboratori tecnici (2.319 euro il primo stipendio, quasi 11 mila al top della carriera), quindi i consiglieri, che entrano nei ruoli con 5 mila euro e finiscono con la bellezza di 23.825 euro lordi al mese. Al top, ovviamente, il segretario generale con i suoi 28.152 euro mensili. Tutto qui? Macché: accanto allo stipendio, a chi svolge ruoli dirigenti viene riconosciuta un'indennità di funzione che si traduce in altri 410 euro netti mensili per l'assistente superiore, 1.198 per il consigliere caposervizio, 1.450 per il vicesegretario e ben 2.207 euro per il segretario generale. Una pacchia, insomma, moltiplicata dalle indennità integrative speciali, dagli assegni di anzianità e da tutti gli altri strani automatismi (a cominciare dall'astrusa "indennità pensionabile pari al 2,5 per cento delle competenze lorde annue dell'anno precedente") che garantiscono agli stipendi una spinta propulsiva sconosciuta in ogni altro comparto del pubblico impiego. Questo a Montecitorio. E a Palazzo Madama? Al Senato, per funzioni pressoché identiche, i dipendenti guadagnano ancora di più. Gli assistenti parlamentari (compiti manuali e di vigilanza) arrivano a riscuotere quasi 10 mila euro lordi al mese; i coadiutori (segreteria e archivistica) circa 12 mila; i segretari (ricerca e progettazione) più di15 mila; gli stenografi oltre 17 mila, i consiglieri ben 24.672 che, in un anno, fanno 13 mila in più rispetto ai colleghi della Camera. Se gli stipendi sono da favola, i trattamenti pensionistici dei dipendenti di Montecitorio e Palazzo Madama risultano altrettanto allettanti. In Parlamento, infatti, i trattamenti di anzianità, prima della riforma voluta dagli uffici di presidenza delle due Camere (contributivo pro-rata per tutti; età minima di 66 anni e 67 su richiesta), sono stati elargiti con sconcertante generosità. E con criteri altrettanto favorevoli. Prendiamo la Camera dei deputati. Fino a pochi giorni fa regnava questa situazione. Gli assunti a partire dal 2009, i più "penalizzati", avevano un sistema contributivo (trovava applicazione per soli 35 dipendenti) che consentiva di riscuotere la pensione di vecchiaia a 65 anni (uno in meno rispetto ai 66 pretesi dal ministro del Lavoro Elsa Fornero per i comuni lavoratori) e quella di anzianità pure a "quota 97" che, con 36 anni di versamenti, voleva dire incassarla anche a 61 anni (l'età media di pensionamento per il 2010 è stata di 58 anni e di 59,9 nel 2011). Gli assunti in epoca precedente, invece, potevano eludere ancora più facilmente i rigidi criteri già in vigore per il resto dei lavoratori: a costoro bastava avere 35 anni di contributi e 57 anni di età (invece di 60-61) per andare in pensione. E non basta: utilizzando tutte le scappatoie del regolamento, potevano anticipare ancor più l'agognato riposo. Bastava avere 20 anni di servizio effettivo a Montecitorio (il cosiddetto "calpestìo") e pagare una penalizzazione del 2 per cento per ogni anno mancante ai 57. Mentre aggiungendo i riscatti universitari, quelli per il servizio militare e soprattutto i bienni contributivi concessi in occasione di particolari ricorrenze (la presa di Porta Pia, per esempio) era addirittura possibile sfiorare il limite dei 50 anni. E con criteri di conteggio dell'assegno rigorosamente retributivo e in grado di far raggiungere alla pensione quasi il 100 per cento dell'ultimo stipendio riscosso (gli altri lavoratori pubblici si sono sempre fermati all'80 per cento). Adesso la mannaia potrebbe calare anche su questi trattamenti. Ma chissà fino a che punto. E in ogni caso varrà solo per chi sarà assunto da oggi in poi.

Così i parlamentari sono diventati milionari. Quando nacque la Repubblica i costituenti guadagnavano 1.300 euro odierni. Adesso deputati e senatori incassano tredici volte più di un operaio. Il tutto grazie a una serie di leggi che nel tempo hanno gonfiato le retribuzioni. E a provvedimenti ad hoc, furbizie, trucchi e tanta sfacciataggine. Che abbiamo ricostruito, scrive Paolo Fantauzzi il 3 giugno 2014 su "L'Espresso". «Onorevoli colleghi, l'opinione pubblica non ha in questo momento molta simpatia e fiducia per i deputati. Vi è un'atmosfera di sospetto e discredito, la convinzione diffusa che molte volte l'esercizio del mandato parlamentare possa servire a mascherare il soddisfacimento di interessi personali e diventi un affare, una professione, un mestiere». La solita tirata contro la casta di qualche parlamentare del Movimento cinque stelle? Macché. Frasi di Piero Calamandrei, giurista, antifascista, partigiano e deputato eletto col Partito d'azione all'Assemblea costituente. Parole pronunciate nel lontano 1947, mentre a Montecitorio era in discussione l'articolo 69 della Costituzione, relativo allo stipendio dei parlamentari. Il paradosso è che all'epoca i costituenti guadagnavano quanto un precario di oggi: 25 mila lire al mese, circa 800 euro. Più un gettone di presenza da 1.000 lire al giorno (30 euro), ma solo quando le commissioni si riunivano in giorni differenti rispetto all'Aula. Insomma, per quanto diligenti, i 556 rappresentanti che scrissero la Costituzione non riuscivano a portare a casa più di 1.300 euro al mese. Roba da far apparire i grillini - che, al netto dei rimborsi, trattengono circa 3 mila euro - degli sfacciati crapuloni. E in effetti nel dopoguerra lo stipendio dei parlamentari non era altissimo in termini assoluti ma comunque più che dignitoso per una nazione ancora sconvolta dall'economia di guerra, fame, mercato nero e inflazione vertiginosa. Un Paese senza dubbio più povero ma di certo meno "squilibrato" a favore del Palazzo, visto che un operaio di terzo livello arrivava a raggranellare 13 mila lire al mese, un terzo di un deputato. Mentre dopo quasi 70 anni - come mostra la tabella elaborata dall'Espresso - chi siede in Parlamento guadagna quasi 10 volte più di un impiegato e 13 più di una tuta blu. All'alba della nuova Italia, retribuire i parlamentari era considerato un decisivo fattore di indipendenza e democrazia, tale da consentire anche alle classi non abbienti di partecipare alla vita politica. Senza però esagerare, vista la drammatica situazione del Paese. Per questo nel giugno 1946 fu fissata provvisoriamente la somma di 25 mila lire. Ma l'inflazione era tale che a febbraio 1947 fu necessario portarla a 30 mila lire (740 euro) e a settembre a 50 mila lire (850 euro), elevando il gettone di presenza a 3 mila lire al giorno (51 euro), dimezzato per i residenti a Roma. La prima legge sul tema, varata nell'estate 1948 dal governo De Gasperi, è figlia di questa mentalità che allora ispirava la giovane e fragile democrazia italiana: "Ai membri del Parlamento è corrisposta una indennità mensile di L. 65.000, nonché un rimborso spese per i giorni delle sedute parlamentari alle quali essi partecipano". Tradotto ai giorni nostri: 1.230 euro fissi più un gettone da 100 euro scarsi al giorno (5mila lire) legato alla presenza effettiva. Togliendo fine settimana più i lunedì e i venerdì, in cui le convocazioni sono rare, non più 2.500 euro al mese dunque. Tutto esentasse, visto che lo stipendio era considerato un rimborso spese e non un reddito. Ma comunque una chimera se si considera che oggi i rimborsi sono prevalentemente forfettari, che le decurtazioni per gli assenteisti valgono solo per i giorni in cui si vota e che per risultare presenti è sufficiente partecipare a una votazione su tre. Che l'aria sarebbe ben presto cambiata lo dimostra una legge emanata dal governo Segni nel 1955: "Disposizioni per le concessioni di viaggio sulle ferrovie dello Stato". Pensata per garantire l'esercizio del mandato popolare, finì per trasformarsi in un privilegio ingiustificato per una pletora sterminata di soggetti. Non solo i politici in carica e il Capo dello Stato ma anche gli ex: presidenti del Consiglio, ministri e sottosegretari (bastava un anno), parlamentari, alti papaveri dei dicasteri, cardinali, familiari del ministro e del sottosegretario ai Trasporti e perfino quelli dei dipendenti delle Camere. Un privilegio al quale, col passare del tempo, si sarebbero aggiunti una innumerevole serie di altri benefit - molti ancora esistenti - dai biglietti aerei alla telefonia fissa (e poi mobile), dalle tessere autostradali agli sconti sui trasporti marittimi. E così nel 1963, in appena 15 anni, grazie ai bassi salari che furono alla base del miracolo economico, col suo mezzo milione al mese un parlamentare era già arrivato già a guadagnare il quintuplo di un impiegato (il cui salario si aggirava sulle 100 mila lire) e otto volte più di un operaio (poco sopra le 60 mila lire). Ma è con la legge varata nel 1965 dal centrosinistra (premier Aldo Moro, vicepresidente il socialista Pietro Nenni) che si deve l’esplosione dei redditi dei nostri rappresentanti: lo stipendio veniva infatti agganciato a quello dei presidenti di sezione della Cassazione e fra l'altro soggetto a imposta solo per il 40%. Inoltre a titolo di rimborso per le spese di soggiorno a Roma si istituiva la diaria (esentasse). Ciliegina sulla torta: siccome la legge non lo specificava, le 120 mila lire per vivere nella capitale (1.250 euro di oggi) furono accordate anche quelli che vi risiedevano già. Un capolavoro. Tuttora in vigore, sia pure con qualche modifica. Certo, anche i comuni mortali hanno avuto le loro soddisfazioni. Negli anni '70, ad esempio, per effetto delle lotte sindacali, i lavoratori dipendenti e in particolar modo degli operai hanno conosciuto un aumento delle retribuzioni che ha fatto diminuire il distacco dagli onorevoli. Al punto che nel 1977 un metalmeccanico poteva guadagnare un quarto di un parlamentare: rispetto al 1963, un dimezzamento dello "spread". Poi il governo Craxi taglia la scala mobile e la forbice torna ad allargarsi inesorabilmente. E sia tute blu che impiegati cominciano a perdere progressivamente potere d'acquisto: i loro salari reali scendono lentamente, mentre deputati e senatori iniziano a stappare bottiglie di champagne. Per festeggiare una busta paga che in un trentennio raddoppia il suo valore: dai 7 mila euro degli anni '80 (rivalutati al 2014) oggi siamo arrivati a quasi 14 mila. Gli impiegati, invece, si aggirano sui 1.500 euro al mese, mentre i metalmeccanici sono inchiodati da allora fra 1.100 e 1.200 euro. Nel mezzo, ci sono i generosi regali che i parlamentari si fanno nel corso del tempo. Nel 1986, ad esempio, l’indennità viene equiparata completamente a quella dei presidenti di sezione della Corte suprema (era al 91,3%), che regala in un colpo solo 400 mila lire nette in più al mese più dieci mensilità arretrate: cinque mesi di lavoro di un operaio. Ma le disparità sono anche nella dichiarazione dei redditi. Già, perché un terzo dell'indennità per deputati e senatori, dopo lunghe lotte assimilata al lavoro dipendente, resta esente dalle imposte (solo dal 1995 la tassazione è al 100% come tutti i comuni mortali). Senza contare che grazie a una generosa interpretazione del Testo unico delle imposte sui redditi (governo Craxi), come ha raccontato sull’Espresso Stefano Livadiotti, il prelievo fiscale si aggira attorno al 19 per cento. Intanto, anno dopo anno, i rimborsi aumentano a dismisura, dai viaggi di studio alle spese telefoniche, dai costi di trasporto a quelli di spostamento. Fino alle spese postali, in seguito soppresse: nel 1988 a ogni deputato veniva riconosciuto ogni mese il corrispettivo di 500 francobolli (erano 300 fino a un paio di anni prima), circa 350 euro odierni. Che poi si spedissero davvero tutte quelle missive, poco importa. Non fossero bastati i benefit, a fine anni '80 per le deputate finì in busta paga perfino l’indennizzo per il coiffeur. Già, perché non essendoci a Montecitorio il parrucchiere (al contrario dei colleghi maschi, che possono contare sul barbiere), alle parlamentari viene assegnato un rimborso forfettario sostitutivo. Come dire: scusate il disservizio, la messa in piega la offriamo noi. Questo aumento degli stipendi, fra l'altro, ha prodotto effetti a cascata anche sugli enti locali. Perché se gli eletti nelle Camere si sono agganciati ai magistrati di Cassazione, i consiglieri regionali hanno fatto altrettanto con i parlamentari. E ogni ritocco all’insù sancito dall'Istat è costato miliardi e miliardi di lire a tutta la collettività. L'ultimo colpo grosso - prima della sterilizzazione degli stipendi avviata nel 2006 e dei vari piccoli tagli apportati negli ultimi anni - risale al 1997: quasi 7 milioni al mese in più sotto forma di “spese di segreteria e rappresentanza” al posto dei precedenti contributi per i portaborse, che venivano erogati al gruppo parlamentare di appartenenza. In questo modo, non solo i soldi sono finiti direttamente sulla busta paga dell'onorevole, ma non è stato nemmeno più necessario rendicontarli (dal 2012 basta documentare il 50%). Risultato: come ha raccontato l'Espresso, in maniera assolutamente lecita molti parlamentari si sono tenuti i soldi e vari collaboratori hanno continuato a lavorare a nero. Che avesse ragione Calamandrei?

Idee contro interessi di casta, scrive Piero Sansonetti il 27 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Ieri si è assistito alla contrapposizione clamorosa tra due idee diverse su quali siano i problemi della giustizia. Da una parte il Presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, che ha concentrato la sua attenzione sul funzionamento della giurisdizione, la funzione dei magistrati, le garanzie da fornire alla società. E ci ha spiegato quali siano le sue idee, le proposte, le correzioni da fare. Dall’altra parte Piercamillo Davigo, che si è posto alla testa della protesta dell’Anm e che di tutti i problemi sollevati da Canzio non ha voluto neppure sentire parlare. Ha detto che a lui al momento interessa una cosa sola, che è al di sopra di tutte le altre: le pensioni dei magistrati. Ha posto una meschina questione sindacale? No, per la verità ha posto una chiarissima questione di potere. Le idee contro gli interessi di casta. Perché i magistrati sono l’unica categoria di lavoratori al mondo la quale non chiede di andare in pensione un po’ prima ma un po’ dopo. Perché? Appunto: potere che si perde, potere che non si vuole perdere. Tutto lì. Davigo ha cercato ieri di smentire questa versione dei fatti, e ha spiegato che lui non si oppone all’anticipo della pensione per i magistrati (a settant’anni, che non sono pochissimi) ma si oppone alla deroga (di un anno) per alcune alte cariche, decisa dal governo. Perché – dice – in questo modo il governo si è potuto scegliere le alte cariche (e il riferimento è esplicitamente a Canzio, che, in assenza di proroga, avrebbe dovuto andare in pensione il 31 dicembre). Per sostenere che il governo si scelga a proprio comodo le alte cariche, e leda in questo modo l’autonomia della magistratura, ci vuole parecchia fantasia. Chi elegge il presidente della Cassazione (che, appunto, ora è Ca zio)? Lo elegge il Consiglio superiore della magistratura, non il Consiglio dei ministri, né lo nomina il ministro, come avviene in molti altri paesi occidentali. E come è composto il Consiglio superiore? Per un terzo da politici eletti dal Parlamento, per due terzi dai magistrati, che votano sulla base delle candidature elettorali preparate e sostenute dalle correnti che si spartiscono l’Anm. Vi sembra logico che il capo dell’Anm si impanchi per denunciare le intrusioni politiche nella nomina di una carica sulla quale, in pratica, il gioco dell coerenti dell’Anm ha potere assoluto? A maggior ragione ieri è apparsa di grande evidenza la distanza tra la relazione di Canzio e la protesta di Davigo e dell’Anm. Il Presidente della Cassazione ha toccato i temi essenziali che riguardano la giurisdizione. E ha avanzato delle critiche molto forti. In particolare sul processo mediatico, sulla giustizia- spettacolo, sui Pm “autoreferenziali”. Ha proposto più controlli, per ristabilire i principi essenziali del diritto e del giusto processo. Si è occupato della rapidità delle inchieste, della prescrizione, della corruzione, del reato di clandestinità, del terrorismo internazionale. Ciascuno può applaudire Canzio oppure dissentire. Può entrare nel merito, discutere. Che tristezza invece quei rappresentati di una parte della magistratura che non hanno voluto neanche ascoltarlo, e son rimasti fuori dall’aula a occuparsi solo di se stessi.

L'Anm di Davigo diserta la cerimonia (ma solo per difendere la pensione). Proroga sull'età, accuse al governo: "Non può scegliere i giudici", scrive Anna Maria Greco, Venerdì 27/01/2017, su "Il Giornale". La solenne cerimonia dell'anno giudiziario è appena finita, l'Anm l'ha disertata per protesta e ora, all'ultimo piano del Palazzaccio, il presidente Piercamillo Davigo scaglia le sue accuse. Attacca il governo, che «non può scegliere i giudici» decidendo chi deve andare lasciare la toga e chi no, dice che il decreto sui pensionamenti e i trasferimenti di sede è «un vulnus senza precedenti nella storia della Repubblica, per quanto riguarda l'indipendenza e l'autonomia magistratura». Minaccia anche di ricorrere alla Corte di giustizia dell'Ue o la Corte europea dei diritti dell'uomo, per far valere le «ragioni» della categoria. Avverte che il 18 febbraio i vertici dell'Anm si riuniranno di nuovo e magari potranno decidere uno sciopero, bianco o no. Chissà. Sottotraccia, emerge lo scontro a distanza non solo con il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ma con il primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio, che due piani sotto ha appena finito la sua relazione. Con un paio di boutade proprio a Davigo, quando ad esempio detto che la riforma del processo penale «non è né inutile né dannosa», citando le parole dell'ex star di Mani Pulite. Il problema, ribatte Davigo, è l'avocazione delle cause da parte del Pg se le indagini superano i 3 mesi, perché così si «trasferisce il carico di lavoro da un ufficio giudiziario all'altro». E aggiunge, caustico: «Il presidente Canzio è iscritto all'Anm, riveste un incarico importante, la sua opinione sarà tenuta nella considerazione che merita». Il fatto è che il primo presidente è uno dei 18 privilegiati che gode della proroga per l'età pensionabile, scesa da 75 a 70 anni per volere di Renzi. Proroga a 72 anni, che il sindacato chiedeva per tutti. Ma Davigo non vuol far apparire la protesta delle toghe un fatto di casta e tira in ballo con una chiara forzatura l'indipendenza delle toghe. Negli anni l'esecutivo ha mandato in pensione a scaglioni le toghe, dettando nuove regole. E così, per il presidente dell'Anm «sceglie i magistrati da trattenere in servizio o da collocare a riposo». Con un decreto «incostituzionale, discriminatorio, e inopportuno». Il governo aveva preso l'impegno di correggerlo, anche nella parte che allunga da 3 a 4 anni il termine per chiedere il trasferimento di sede. Scaricando sui giovani, per il sindacato, il problema dei vuoti d'organico nelle sedi disagiate. L'Anm se la prende con il Guardasigilli, che nel suo intervento alla cerimonia poco prima ha illustrato le riforme fatte, dando un quadro nettamente migliorato del sistema giustizia. «I magistrati italiani sono i migliori dei 47 Paesi europei - dice Davigo-, anche per qualità di lavoro. Forse per la loro abnegazione le cose vanno meglio, malgrado carenze, storture e un profondo malessere». Delle 9 mila toghe previste ne mancano 1.200, ricorda il segretario generale Francesco Minisci. «È come giocare una partita 9 contro 11». E allora inizia la protesta, «scelta sofferta e simbolica, non sgarbo istituzionale».

L’ITALIA DELLE LOBBIES.

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

Lobbisti con la tessera, alla Camera sono 125. Nasce l’elenco dei «rappresentanti di interesse» di industrie e associazioni. C’è anche Emergency, scrive Fausta Chiesa il 13 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Ci sono tutte le controllate dello Stato quotate in Borsa. Big come Eni ed Enel. I gruppi della telefonia come Tim e Vodafone e le tv come la Rai e Sky. Non potevano mancare le industrie del tabacco, come Imperial Tobacco e Japan Tobacco. Ci sono le associazioni di categoria, come Confindustria, Confcooperative e i costruttori con l’Ance e Confedilizia. E ovviamente le società di consulenza che svolgono una pura attività di lobbying. Nel neonato registro ufficiale dei lobbisti — pardon, dei «rappresentanti di interessi», come si chiama il registro istituito presso la Camera dei deputati con un portale apposito — spunta anche l’associazione umanitaria Emergency. Complessivamente, a oggi sono 125 i rappresentanti di interessi approvati e quindi iscritti regolarmente al Registro, per la precisione 90 persone giuridiche e 35 persone fisiche. Poi, ci sono una trentina circa di richieste in corso di valutazione. «Proprio stamattina (ieri ndr) ho ritirato il mio tesserino», dice Roberto Falcone, presidente dell’Associazione nazionale tributaristi Lapet. «Prima ho dovuto fare domande per via telematica, attraverso la mia identità digitale. Poi sono dovuto andare agli uffici della sicurezza alla Camera. Dopo l’identificazione e la foto, mi hanno creato e consegnato il badge». Il Registro è attivo, ma rimane aperto: chi non si è ancora iscritto può sempre farlo. Ma per essere un «lobbista con la tessera» è necessario non aver subìto negli ultimi dieci anni condanne definitive per reati contro la pubblica amministrazione, come la concussione o l’abuso d’ufficio e non essere stato, nell’ultimo anno, parlamentare oppure al governo. Chi non si fosse ancora iscritto può comunque accedere a Montecitorio, come spiega la vicepresidente della Camera Marina Sereni: «Non soltanto i rappresentanti di interessi, ma qualsiasi cittadino può entrare alla Camera, purché abbia un appuntamento con un deputato e ci sono aree in cui può transitare e aree che invece sono off limits. Il badge consente l’ingresso anche se non si ha un appuntamento con un parlamentare». Insomma, per entrare non si dovrà più andare a braccetto con un deputato, pratica che aveva dato origine al soprannome «sottobraccisti». Una volta dentro, la vita diventa più facile. Già in passato era stato vietato l’accesso a zone quali lo spazio antistante le Commissioni e il Transatlantico. «Attualmente — spiega Sereni — chi ha il badge può stare nel corridoio dei presidenti al piano Aula. Ma in futuro è previsto che si apra una sala dedicata ai rappresentanti di interessi, anche se non è ancora stata attrezzata. Riteniamo che sarà pronta prima della discussione della prossima legge di bilancio».

Quello della Camera è il primo vero albo italiano dei lobbisti, dopo il «Registro trasparenza» del ministero dello Sviluppo economico. «Volevamo far emergere il tema del lobbismo, anche perché il ruolo delle lobby può essere positivo quando si tratta di soggetti che operano in modo trasparente quando interloquiscono con la politica. Vogliamo portare una maggiore consapevolezza non soltanto tra i portatori di interessi, ma anche nell’opinione pubblica».

Liberalizzazioni, lo scatto che serve per battere le lobby. La legge sulle liberalizzazioni, dopo due anni e mezzo di rimbalzi, pare vicina all’approvazione. Già il testo varato dal governo era poco ambizioso: il Parlamento lo ha ulteriormente annacquato, scrivono Alberto Alesina e Francesco Giavazzi il 10 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". La legge sulle liberalizzazioni, dopo due anni e mezzo di rimbalzi fra Camera e Senato, pare vicina all’approvazione. Già il testo varato dal governo era poco ambizioso: il Parlamento lo ha ulteriormente annacquato. In alcuni casi peggiorato, ad esempio introducendo una norma che produrrà l’effetto di far scomparire dall’Italia servizi on line per prenotare un albergo, come booking.com, trivago, tripadvisor, così come già è scomparso Uber. Un bel risultato per un Paese in cui il turismo e così importante! Per non parlare dei notai la cui difesa dello status quo è più difficile da infrangere di una parete di acciaio. O le aziende pubbliche locali che rimangono per lo più proprietà intoccabile della politica. Un inciso: a fine anno scade la concessione all’Atac per il trasporto pubblico a Roma, ci sarà una gara, e si vedrà se il legame con i potentati si reciderà. Comunque è bene che la legge sulla concorrenza venga approvata, anche solo per non darla completamente vinta alle mille lobby che l’hanno neutralizzata. Sono leggi come queste che cambiano la vita di tutti i giorni dei cittadini. Il problema è che le liberalizzazioni politicamente non pagano, quindi nei programmi dei partiti non entrano. Il motivo è che si tratta di un perfetto esempio di benefici generalizzati e costi concentrati, «il» problema fondamentale di politica economica. Tutti i cittadini beneficerebbero di mercati più liberi: ci ricordiamo quando volare a Londra costava un milione o più di vecchie lire? Oggi ci si può andare con poche decine di euro. Ma se tutti ne beneficiano, e siamo in democrazia, perché è tanto difficile liberalizzare certi servizi? La risposta è ovvia: perché qualcuno perderebbe la propria rendita di monopolio, accumulata da decenni e protetta da varie associazioni la cui ragione d’essere è bloccare il cambiamento. Come? Facendo pressione sui politici mediante finanziamenti più o meno leciti, tramite scioperi selvaggi, blocchi degli aeroporti e disinformazione all’opinione pubblica tipo: i voli low cost sono pericolosi, per vendere una aspirina ci vuole una laurea in farmacia, senza i notai sarebbe impossibile tenere aggiornato il catasto. Tutti noi, invece, semplici cittadini contribuenti non siamo organizzati: certo, votiamo, ma se nessun partito è libero dalle pressioni delle lobby — attente a influenzare tutti, non solo una parte politica — il nostro voto, almeno su questi temi, non varrà granché. Così si crea un circolo vizioso. Meno si liberalizza, più crescono le rendite di posizione e le risorse per difenderle, con il risultato di bloccare cambiamenti dei quali invece beneficerebbero tutti. Come si spezza questo circolo vizioso? Lo spiegava già decenni orsono Mancur Olson: ci vuole un leader che scardini questo equilibrio, rivolgendosi con coraggio ai cittadini e così scavalcando le lobby. Ci vorrebbe uno scatto che rompa lo status quo, perché meno si cambia, più chi si oppone al cambiamento si rafforza e di conseguenza più difficile diventa cambiare. Quindi nel caso delle liberalizzazioni ci vorrebbe una rottura. L’unica strada è una sorta di «rivoluzione». In Europa lo fecero, da destra, Margaret Thatcher nel Regno Unito e da sinistra Gerhard Schröder in Germania. Forse lo farà Emmanuel Macron in Francia. Negli Stati Uniti lo fecero Ronald Reagan e Bill Clinton. Abbiamo noi un leader «rivoluzionario» di questo tipo? Matteo Renzi di liberalizzazioni ne ha capite e attuate due (importanti): il mercato del lavoro e le banche popolari. Avrebbe dovuto insistere, non spaventandosi di fronte alle urla delle lobby. Quando il tuo bambino ha la febbre, è domenica sera e sei in autostrada, capisci quanto è importante poter acquistare l’aspirina all’autogrill, anziché vagare per la città alla ricerca della farmacia di turno. Renzi avrebbe dovuto scavalcare le lobby e rivolgersi a questi genitori.

Il Italia ci sono 4 milioni di polizze vita dimenticate, scrive il 24 Giugno 2017 Stefano Casini su "“Libero Quotidiano”. Gli addetti ai lavori le chiamano "polizze dormienti", e in effetti nome fu mai più azzeccato. Del resto, precisione, trasparenza e puntualità abbondano sempre quando si tratta di incassare. Sono virtù ben più rare, spesso praticamente ignote, quando per ottemperare a un servizio o a un contratto i soldi si devono, o si dovrebbero, sborsare. E così si scopre che, come rileva la relazione annuale dell'Ivass, l'Autorità di vigilanza sulle assicurazioni, in Italia ci sono almeno 4 milioni di polizze Vita dormienti, cioè scadute, "dimenticate" e non ancora liquidate. Pari a «un importo complessivo sconosciuto» rileva il presidente dell'Ivass, Salvatore Rossi, «certamente alcuni miliardi di euro, almeno 4», ipotizzando almeno mille euro per ciascuna polizza dormiente. In pratica, 4 miliardi di euro che dovrebbero essere incassati dai legittimi proprietari, ad esempio figli o parenti di un assicurato defunto, e che invece restano a oltranza nelle casse delle compagnie assicurative che hanno emesso le polizze. Perché? Perché in molti casi i beneficiari sono titolari a propria insaputa. "Da una nostra indagine emerge che circa 4 milioni di polizze Vita sono scadute negli ultimi cinque anni ma non sono state liquidate» sottolinea Rossi, «perché le compagnie non sanno se l'assicurato è o no deceduto prima della scadenza della polizza: molto spesso i beneficiari non si fanno avanti perché non sanno di esserlo, e nella polizza sono indicati in modo generico, ad esempio come 'gli eredi legittimi'. E quindi nessuno le riscuote". E le compagnie assicurative che detengono il tesoretto altrui non si affannano certo per fare chiarezza e riconoscere ai beneficiari ciò che gli spetta. Attualmente i diritti si prescrivono dopo 10 anni, termine oltre il quale le somme spettanti vengono destinate al Fondo Rapporti Dormienti gestito dalla Consap attraverso il ministero del Tesoro. L' indagine dell'Ivass evidenzia che dei 4 milioni di polizze scadute e non ancora liquidate dopo 5 anni una percentuale rilevante, il 95%, riguarda assicurazioni temporanee per il caso di morte. Per queste polizze, quelle potenzialmente dormienti rappresentano una percentuale molto alta rispetto ai contratti emessi (il 58%), mentre per le polizze che prevedono anche prestazioni in caso di vita (tipo misto e rendite) e per le capitalizzazioni l'incidenza è contenuta (2,4%). Dal rapporto annuale emerge poi un altro dato riguardante le polizze a Vita intera, quindi senza scadenza. A fine 2016 risultano in vigore 430mila polizze di assicurati con età non inferiore a 90 anni. Oltre 2.500 polizze si riferiscono ad assicurati oltre i 100 anni di età. Un numero elevatissimo se si pensa che secondo i dati Istat riferiti al 2016 sono poco più di 18 mila in totale gli ultracentenari e 730 mila gli ultranovantenni. Anche per questo l'Ivass ha sollecitato il governo ad un intervento normativo per consentire alle imprese di assicurazione l'accesso all' Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente, in via di istituzione, e per obbligare così le stesse a consultarla almeno una volta l' anno per verificare i decessi degli assicurati e attivare il pagamento delle somme dovute. Sull' argomento, le compagnie assicurative sono in buona compagnia. Anche le banche conoscono bene la pratica. Nell' ultimo censimento disponibile stilato dal ministero del Tesoro, risultano oltre 100mila conti correnti dormienti, per un importo complessivo di un centinaio di milioni. Stefano Casini

Tassisti, vigili, autisti e ambulanti: ecco le Caste che paralizzano Roma. Tassisiti, dipendenti Atac e vigili sono ai vertici della piramide degli intoccabili di Roma. A tenere in scacco la cittadinanza sono le kaste degli iper-garantiti, scrive Flavia Perina il 23 Febbraio 2017 su “L’Inkiesta". C’è a Roma una piramide di intoccabili, e le ultime giornate hanno confermato chi ci sta in cima: i tassisti e gli ambulanti, seguiti a ruota dai dipendenti Atac che ieri non solo hanno bloccato la metro A, creato disagi sulle altre linee e dimezzato gli autobus ma fermato addirittura scale mobili, ascensori e montascale, massimalizzando i danni per anziani, turisti con valigia e disabili, in una giornata già orribile. Aggiungeremo l’episodio all’aneddotica della metropoli più anormale del mondo, dove a tenere in scacco la cittadinanza non sono le sacche dei poveracci senza garanzie ma le kaste degli iper-garantiti: quelli col posto pubblico tutelato da articolo 18, oppure con licenza a numero chiuso che protegge da ogni concorrenza presente e futura. Dei tassisti e degli ambulanti sappiamo quasi tutto. Sono arrabbiati perché un emendamento (che ora il governo si è impegnato a cancellare) fissava una data certa per la revisione delle regole dei loro settori. Intollerabile. Non è che si contestano nuove regole: si contesta l’idea stessa che si possano fare nuove regole, e si fissi una scadenza precisa entro la quale metterci mano. Il mondo di mezzo Atac segue la stessa filosofia. “Non rompetece le scatole”. Ha appena incassato (in dicembre) il corrispettivo del suo vigoroso appoggio alla sindaca, sotto forma di un accordo che cancella l’odioso obbligo di strisciare il badge a inizio turno. Quando fu introdotto, nel luglio 2015, l’idea di certificare l’orario di ingresso sembrò così scandalosa e intollerabile che la città fu paralizzata per settimane da uno sciopero bianco. Si appurarono responsabilità dirigenziali nel casino e nelle mancate sanzioni ai ribelli. Il sindaco chiese la testa di 10 dirigenti. Gli risposero che sì, era colpa loro, ma liquidarli sarebbe costato 2 milioni di euro e i soldi non c’erano. La cosa finì lì. Incassata l’abolizione del badge, ora c’è qualcos’altro da rivendicare. Non si capisce bene cosa, ma è immaginabile che l’avranno. Al vertice della piramide degli intoccabili di Roma ci sono i tassisti e gli ambulanti, seguiti a ruota dai dipendenti Atac. Completa il poker la categoria dei vigili. Per loro sembra inalienabile il diritto di rifiutare le regole dall'alto a favore del "lavoramo quando ce pare e come ce pare". Completa il poker la categoria dei vigili. Nel 2013, davanti alla loro totale ingovernabilità, Ignazio Marino pensò di dargli una regolata chiamando un carabiniere, Oreste Liporace, a capo del Corpo. Successe la rivoluzione. Sciopero bianco, al solito, e lettera di 23 comandanti su 27 (i quattro mancanti erano in ferie) che minacciava ricorsi e ostruzionismo. Furono accontentati. Liporace rinunciò all’incarico, si procedette a “soluzione interna” e avanti col solito tran tran compresi i certificati di malattia spediti in blocco a Capodanno, quando lavorare pesa e insomma: si avrà il diritto di festeggiare un po’ anche se si è di turno? Al momento il mondo dei pizzardoni è silente. Gli è stato contestato un crollo degli accertamenti verticale: da 2 milioni e 538mila del 2015 al milione e 994mila del 2016. Altrove se ne sarebbero cercati i motivi nelle solite cose, l’assenteismo, gli scarsi controlli della dirigenza, l’eccesso di pause-bar, e si sarebbe provveduto. A Roma si è reagito aprendo un tavolo sui premi di produttività: più multe, più stipendi. Brillante soluzione, che scaricherà sui dannati del traffico capitolino i problemi di cassa del Campidoglio e il miglioramento dei bilanci domestici dei diretti interessati. Che l’attuale sindaca, Virginia Raggi, non solo abbia accettato le regole degli Intoccabili ma si sia pubblicamente spesa in loro difesa, è normale. Quelle regole le accettano tutti. Questori, prefetti, medici legali, magistrati del Tar e del Consiglio di Stato, sindacalisti, ministri, non uno che rifiuti di indossare i guanti bianchi quando deve toccare i Bramini della città di Roma. All’ingenuo che chiede “ma il M5S non era contro tutte le Kaste?” si risponderà: tutte tranne queste quattro. Queste quattro hanno il diritto di rifiutare le “regole dall’alto” e di farsi le famose “regole dal basso”, cioè le loro: lavoramo quanno ce pare e come ce pare.

Codacons denuncia i tassisti alla Finanza: “Controlli a tappeto anti evasione”, scrive il 23 marzo 2017 "Il Corriere Nazionale". L’associazione dei consumatori: “Oggi gli utenti paghino le corse in taxi solo ed esclusivamente con carte di credito e bancomat”. L’ultimo sciopero dei tassisti è durato sei giorni. Si fa sempre più incandescente il clima sulla vertenza Taxi. L’incontro al Ministero dei Trasporti non è bastato a scongiurare lo sciopero di oggi ma non è finita qui. Ieri sera la trasmissione di Italia 1 Le Iene ha mandato in onda un discusso servizio sulla protesta dei tassisti. Come si legge anche sul post de Le Iene la categoria viene definita come “un mondo fatto di evasione, lobbying e illeciti”. Sulla pagina Facebook del programma decine di tassisti hanno attaccato Marco Maisano, l’autore del servizio, ma oggi a rincarare la dose arriva anche un’iniziativa del Codacons. L’associazione dei consumatori, già molto critica con i tassisti in occasione dei sei giorni di sciopero dello scorso Febbraio, ha presentato un esposto al Comando Generale della Guardia di Finanza, chiedendo di eseguire controlli a tappeto sui taxi in tutte le regioni italiane. “Diverse inchieste giornalistiche stanno portando in questi giorni alla luce il grave fenomeno dell’evasione fiscale nel comparto taxi” spiega l’associazione. “Sembrerebbe infatti pratica assai diffusa dichiarare incassi inferiori rispetto alle entrate reali, grazie al mancato rilascio delle ricevute fiscali e a limiti nell’utilizzo del bancomat per i pagamenti delle corse a parte dei clienti. Alcuni sindacati dei tassisti, inoltre, suggerirebbero ai propri iscritti le cifre ‘credibili’ da dichiarare al fisco a fine anno, in modo da rientrare negli studi di settore” prosegue l’associazione dei consumatori. “Da tempo riceviamo le proteste degli utenti che denunciano l’impossibilità di pagare il servizio taxi con carte di credito o bancomat – prosegue il Codacons -. Per questo abbiamo deciso di rivolgerci oggi alla Guardia di Finanza, chiedendo controlli a tappeto sui taxi in tutte le regioni, sul fronte dell’evasione fiscale, degli incassi dell’utilizzo del Pos sulle vetture”. Ma non è tutto perché il Codacons invita oggi tutti gli utenti a pagare le corse in taxi solo ed esclusivamente con carte di credito e bancomat, rifiutando l’utilizzo dei contanti. “Perché è diritto del consumatore scegliere il metodo di pagamento senza alcun costo aggiuntivo, e perché solo così sarà possibile combattere l’evasione” conclude l’associazione.

Ieri, domenica 26 marzo 2017, è andata in onda una nuova puntata de Le Iene, il programma dell’autore televisivo Davide Parenti, che anche nel weekend si conferma come uno dei più visti dai telespettatori da casa, soprattutto da coloro che appartengono alla fascia di età più bassa, scrive il 27 Marzo 2017 Investire oggi. Il servizio più importante mandato in onda nella serata di ieri ha avuto per protagonista, nuovamente, la protesta dei tassisti. Le Iene, stavolta, sono andate a parlare direttamente con loro, a Milano. Erano inferociti.

La “Iena” Maisano si è recato nel capoluogo lombardo per dare la parola ai tassisti, che nel corso della settimana avevano protestato a lungo contro il servizio mostrato dal programma di ItaliaUno sette giorni prima, dove veniva messa in luce una differenza sostanziale tra i tassisti “tradizionali” e gli autisti di “Uber”. Mentre l’applicazione più “odiata” da coloro che guidano il taxi in Italia prevede il pagamento con carta di credito, con i pagamenti da parte degli utenti dunque rintracciabili, non si può dire lo stesso per i tassisti. Quest’ultimi, un discreto numero, ricevono i soldi in contanti da chi ha usufruito del servizio, senza emettere fattura, scontrino eccetera. Marco Maisano, durante il servizio, ha avuto un incontro con un commercialista di Milano, che ha avuto tra i suoi clienti numerosi tassisti.

L’uomo ha mostrato in che modo si possa configurare uno studio del settore di 1.100 euro al mese, nonostante la cifra possa essere di gran lunga superiore, senza incappare in alcuna verifica da parte dell’Agenzia delle Entrate. Alla luce di ciò, l’inviato delle “Iene” ha cercato di avere delle spiegazioni da parte degli stessi lavoratori, ma il clima non è stato amichevole nei suoi confronti, anzi. In più di un’occasione, Maisano ha ricevuto spinte e aggressioni verbali da parte dei presenti, senza avere la possibilità di instaurare un colloquio. Sul caso, viste anche le ultime criticità emerse, si tornerà a parlare quasi sicuramente nelle prossime puntate.

Tassisti contro Uber, le Iene aggredite a Milano. La Iena Marco Masiano è andata a Milano a intervistare i tassisti dopo il servizio sulla lotta contro Uber, scrive "it.blastingnews". La trasmissione de Le Iene, in onda domenica 27 marzo su Italia1, è tornata ad occuparsi della lotta dei #Taxi contro #Uber, dando voce, rispetto alla precedente puntata, ai tassisti. Che si sono mostrati furibondi per il precedente servizio realizzato dalla trasmissione di Italia Uno. Nella puntata di domenica scorsa, le Iene avevano intervistato, con i volti oscurati, alcuni sindacalisti, ma anche ex autisti delle auto bianche passati a lavorare a Uber. Secondo il servizio di Mediaset, un autista che collabora saltuariamente con la discussa app americana, può guadagnare dai 3000 ai 4000 euro. Tutti incassi pagati con carta di credito dai clienti e, pertanto, da dichiarare regolarmente al fisco. Una differenza enorme rispetto a quanto succede per i tassisti. Il servizio delle Iene avevano dimostrato che su molti taxi non c'era il Pos, il terminale per pagare con bancomat o carte di credito, un modo per evitare di mostrare allo Stato il tracciamento dei pagamenti e i relativi guadagni. Sempre secondo le Iene, sarebbero stati alcuni sindacati a 'spingere' i tassisti ad indicare, a fine anno, una cifra incassata minore per rientrare negli studi di settore. 'Noi siamo la fabbrica di tassisti felici' ha detto ad un finto aspirante tassista un sindacalista inquadrato da una telecamera nascosta.

"Ti devi levare dai c.....! Siete stati disonesti" hanno inveito alcuni autisti contro La Iena Marco Maisano. Nessuno tra gli intervistati ha voluto rispondere pacatamente alle domande dell'inviato a Milano. Tanta rabbia, praticamente nessuna risposta. Tanta, troppa, era la tensione per il servizio andato in onda domenica scorsa in cui si mostravano molti dubbi sulle dichiarazioni dei redditi degli autisti. "Perché non venite qui a rispondere alle domande?" la domanda del giornalista ai tassisti irritati. A Milano si sono vissuti attimi di grande tensione. Sulla pagina Facebook delle Iene, infine, sono stati centinaia i messaggi a sostegno della trasmissione e a favore di Uber.

Le Iene e i tassisti, a Milano Centrale è quasi rissa con Marco Maisano, scrive "Milano Today" il 27 marzo 2017. Non si ferma la “guerra” tra i tassisti e “Le Iene”, che con il loro inviato Marco Maisano hanno scoperto nei giorni scorsi un presunto giro di evasione - “sistematica”, secondo quanto denuncia il programma - dei proprietari delle auto bianche. Il “trucco” usato dagli autisti - e svelato da un sindacalista allo stesso inviato di Italia 1 - sarebbe semplicissimo. I tassisti, infatti, non hanno l’obbligo di emettere fattura e riuscirebbero ad aggiustare a loro piacimento la propria dichiarazione dei redditi, facendo in modo di restare sempre in linea con gli studi di settore. Perché - ha confessato un commercialista al programma - “io modifico l’anno come mi pare non avendo fatture”. La soglia “scelta” da tutti i tassisti sarebbe attorno ai mille, millecento euro al mese, così “l’accertamento del Fisco - ha spiegato il commercialista - scatta soltanto a campione”. Le accuse del programma, però, non sono piaciute ai tassisti e negli ultimi giorni l’inviato Marco Maisano ha ricevuto insulti, minacce e richieste di replica dagli stessi tassisti. A quel punto, telecamera in mano, il volto di Italia 1 si è presentato in Centrale a Milano per dare l’opportunità agli autisti di replicare, ma l’accoglienza non è stata delle migliori. “Ecco quello lì che ci ha sputtanato”, la prima frase di un tassista. E ancora, mentre l’atmosfera si scalda e qualcuno tenta di arrivare al corpo a corpo, “Vai fuori dai coglioni”.  A nulla servono gli inviti di Maisano - “Registrate col cellulare, così non potete dire che tagliamo, e concedete un’intervista” -, ai quali fanno seguito gli insulti dei tassisti: “Venduti e pagliacci”. “Vai da un’altra parte”, gli grida uno dei proprietari delle auto bianche. “Ti dico solo che oggi, qua, per voi non è giornata”, gli fa eco un altro. “Ci avete fatto passare per ladri - l’ultima accusa di un tassista -. Per fare i numeri in tv ammazzata la gente”. Alla fine, dopo qualche momento di tensione e spintone, è arrivata la polizia locale e Maisano si è allontanato. 

Le proteste e i soprusi dei tassisti a Roma. Le foto delle manifestazioni e degli scontri per un emendamento contenuto nel "decreto milleproroghe": ci sono anche 4 feriti, scrive "Il Post" il 21 febbraio 2017. Gli scontri tra la polizia e un gruppo di tassisti e di ambulanti che stavano protestando davanti alla sede del Pd a Roma contro il decreto Milleproroghe e la direttiva Bolkestein. A Roma centinaia di persone fra tassisti e venditori ambulanti martedì hanno partecipato a una manifestazione di protesta per alcuni provvedimenti contenuti nel cosiddetto “decreto milleproroghe”. I manifestanti hanno protestato davanti alla Camera dei Deputati e alla sede del Partito Democratico: qualche ora fa si sono spostati nella zona di Porta Pia, dove ha sede il ministero dei Trasporti (dove è in corso un incontro fra alcuni rappresentanti dei tassisti e il governo). Ci sono stati dei momenti di agitazione quando alcuni manifestanti hanno cantato l’inno d’Italia facendo il saluto romano e altri hanno lanciato degli oggetti contro la sede del PD: la polizia ha fatto delle cariche di alleggerimento. Ci sono stati quattro feriti, fra cui tre leggeri e uno grave (un venditore ambulante di 60 anni). Sempre davanti alla sede del PD, uno dei manifestanti ha anche aggredito un produttore del programma di Rai3 Gazebo. Alla manifestazione ha partecipato anche il sindaco di Roma Virginia Raggi, che ha detto di stare “con i tassisti”. Le proteste hanno comunque causato diversi disagi alla circolazione, oltre che episodi di violenza: Riccardo Luna, direttore dell’Agenzia giornalistica Italia, ha raccontato che un autista di un servizio a noleggio è stato inseguito e la sua auto è stata danneggiata da una cinquantina di persone. Durante il presidio davanti al ministero dei Trasporti, inoltre, buona parte dei cori cantati dai manifestanti contenevano pesanti offese sessiste contro la senatrice PD Linda Lanzillotta, che assieme a un suo collega ha proposto la misura oggetto delle proteste. Alcuni dei manifestanti di oggi inoltre sono armati con bastoni, mentre ANSA ha fotografato uno di loro che indossava un tirapugni. Per tutto il pomeriggio sono anche state esplose delle bombe carta. Raccontando gli effetti di una delle esplosioni, il Messaggero ha scritto: «La seconda ha mandato in frantumi una delle vetrate circolari di palazzo Macchi di Cellere, che si trova sui piazza Montecitorio. Si tratta di un rosone della finestra del numero civico 11, all’angolo dell’edificio. Dopo lo scoppio, i commercianti hanno abbassato le saracinesche dei negozi adiacenti». La nuova norma – contro cui i tassisti protestano da giorni, con scioperi e manifestazioni – è un emendamento al “milleproroghe”, un provvedimento che contiene una serie molto eterogenea di norme, in genere accomunate dal fatto che servono a rimandare o prorogare qualcosa. In questo caso l’emendamento, firmato dai senatori del PD Linda Lanzillotta e Roberto Cociancich, prevede di allungare di un anno il tempo che il ministero dei Trasporti ha per emanare un nuovo regolamento sul trasporto che avrà l’obiettivo di risolvere un’area grigia in cui operano i servizi di auto a noleggio con conducente – quindi prevalentemente Uber – che i tassisti accusano di fare loro concorrenza sleale. Lo scopo dell’emendamento, hanno spiegato i due senatori che lo hanno firmato, è dare altro tempo al ministero, in modo da riportare al tavolo delle trattative i rappresentanti dei taxi e quelli delle società di noleggio con conducente, e giungere così a una soluzione soddisfacente per tutte le parti.

In seguito alle molte pressioni ricevute, il governo ha accettato di parlare con le associazioni dei tassisti e il viceministro ai Trasporti Riccardo Nencini ha detto al Corriere della Sera che «una regolamentazione risoluta del settore è indispensabile». Non è chiaro se l’emendamento contestato verrà ritirato o meno: probabilmente se ne saprà qualcosa di più dopo l’incontro di oggi al ministero. Più in generale, quello che sta succedendo oggi a Roma è quello che succede tutte le volte che il Parlamento discute di qualcosa che riguarda i tassisti. Gli ambulanti invece protestano per una norma contenuta nel milleproroghe che rinvia al 2018 i nuovi bandi per la licenza di commerciante di strada. I bandi – previsti dalla cosiddetta direttiva europea Bolkenstein sulla libera concorrenza, emanata nel 2006 e recepita dall’Italia nel 2010 – vengono rinviati ormai da anni, ma gli ambulanti sostengono che la loro categoria debba essere esclusa da quelle interessate dai bandi per le nuove licenze: chi ce le ha se le tiene e basta. Il sindaco di Roma Virginia Raggi è il politico più in vista ad aver partecipato alla manifestazione, dove ha anche parlato con alcuni tassisti. È stata una mossa prevedibile ma non scontata: i tassisti romani in particolare sono una corporazione molto potente, oltre che legata storicamente alla destra, e Raggi potrebbe aver preso le loro difese per ottenere più consensi da quel tipo di elettorato.

Tassisti, adesso basta. Scontri e bombe carta contro il ministero. Grillo e Raggi stanno coi violenti, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 22/02/2017 su "Il Giornale". Siamo sempre stati al fianco dei tassisti, a volte con generosità. E non siamo mai stati dalla parte di chi spranga, di chi getta bombe carta, di chi devasta e di chi crea caos nelle città. Se in queste ore le due cose coincidono, non è problema nostro ma loro. E, dovendo scegliere la parte prevalente, non facciamo sconti neppure agli amici: non stiamo con i teppisti, neppure se si tratta di tassisti, quindi di lavoratori, esasperati dal tira-e-molla del governo sul loro destino. Quello del tassista è un mestiere strano, penso molto più interessante, nobile e pericoloso di quello che appare da fuori. Non si tratta solo di guidare una vettura, ma di una rotellina dell'ingranaggio che fa girare una città. E per questo si parla di «servizio pubblico». Chi è investito di questo titolo ha una responsabilità in più rispetto ad altri lavoratori e per nulla al mondo può farsi trascinare dentro il mondo della violenza e del sopruso. I partiti li temono e li coccolano: una loro parola mentre guidano fa opinione, può spostare voti. L'ha capito anche il «pacifista» Grillo che ieri, giorno della vergogna, è salito sul loro carro. Per lo stesso motivo, godono di buona stampa, nei giornali sono più temuti dei banchieri. Ma arriva il giorno in cui bisogna dire basta: o dimostrano di essere in grado di isolare i violenti e di non farsi infiltrare da teppisti, oppure non potremo stare più al loro fianco. Nel merito, i tassisti hanno le loro ragioni. Ma oggi, anno 2017, nessuno può pretendere, per di più con la forza, di congelare in eterno una situazione di monopolio antistorica. È come se noi giornalisti della carta stampata pretendessimo di spegnere internet per fermare la perdita di copie; come se i produttori di macchine fotografiche volessero impedire per legge i selfie con i telefonini. Nessuno può fermare il mondo, neppure loro. Ogni rivoluzione produce danni collaterali rispetto ai quali, al massimo, si può chiedere un giusto risarcimento. E non ci sarà bomba carta che possa fermare, giusto o sbagliato che sia, il processo che porterà a muoverci in città attraverso il «clic» più conveniente ed efficiente. Se volete il nostro appoggio, per quel poco che conterebbe, tornate in strada, che è la vostra vita. Ne abbiamo bisogno sia voi sia noi.

Il senso dei tassisti per la legalità, scrive Stefano Feltri Vicedirettore de Il Fatto Quotidiano il 22 febbraio 2017. Facciamo uno sforzo di lucidità nell’analisi delle ragioni e dei torti dei tassisti: è uno sforzo notevole per chi vive a Roma ed è vittima su base quotidiana dei mille piccole abusi, delle truffe legalizzate, delle tariffe assurde, delle angherie ai danni dei turisti che intuiscono subito l’assenza di regole nella giungla italiana. Lasciamo fuori l’aneddotica e guardiamo la questione nei suoi contorni generali. Primo punto: i tassisti hanno titolo per rivendicare la legalità contro gli abusivi? Detto in altro modo: la legge sta dalla parte dei tassisti e contro gli Ncc (e quindi Uber)? Quando i tassisti chiedono il rispetto della legalità, si riferiscono alla disciplina del settore fissata nel 2008 che di fatto non è mai stata applicata. E che l’emendamento di Linda Lanzillotta alla conversione del decreto Milleproroghe chiedeva di posticipare ancora a fine 2017. Messa così, sembra che abbiano ragione i tassisti. Ma come ricostruisce l’Ong Transparency International in un focus sui casi di lobby deteriore in Italia, la vicenda è un po’ più complicata. La legalità che i tassisti vogliono fare rispettare è frutto di un blitz notturno di parlamentari sensibili alle loro istanze che hanno colpito il 30 dicembre del 2008, appena prima di Capodanno quando i parlamentari vogliono andare in vacanza, i giornali sono distratti e, con le scadenze incombenti, non c’è tempo per andare per il sottile. I tassisti hanno ottenuto la modifica dell’articolo 29 del decreto che, nonostante il titolo (“Concessioni aeroportuali”), veniva esteso a regolare il settore del noleggio con conducente. Tra le novità normative, rispetto alla storica legge del 1992, una serie di vincoli a esclusivo beneficio dei tassisti. Come questo: “Nel servizio di noleggio con conducente, esercitato a mezzo di autovetture, è vietata la sosta in posteggio di stazionamento su suolo pubblico nei comuni ove sia esercitato il servizio di taxi. In detti comuni i veicoli adibiti a servizio di noleggio con conducente possono sostare, a disposizione dell’utenza, esclusivamente all’interno della rimessa”. O ancora questo, che è la norma ammazza-Uber: “Le prenotazioni di trasporto per il servizio di noleggio con conducente sono effettuate presso la rimessa. L’inizio ed il termine di ogni singolo servizio di noleggio con conducente devono avvenire alla rimessa, situata nel comune che ha rilasciato l’autorizzazione, con ritorno alla stessa”. Da allora questa norma non è mai stata applicata perché, dopo la rivolta degli Ncc, l’efficacia della legge del 2008 è sempre stata procrastinata, secondo l’attitudine tipicamente italiana di rimandare i problemi invece che affrontarli. La norma del 2008 era contro Uber? Ovviamente no, era semplicemente un colpo di mano lobbistico contro concorrenti pericolosi capaci di offrire lo stesso servizio dei tassisti ma con un po’ meno vincoli. Poi le furbate legislative si sono stratificate al punto che è difficile dire cosa significhi oggi ripristinare la legalità. Di sicuro i tassisti non sono più titolati degli Ncc a rivendicare di essere dalla parte giusta. Il problema, però, non è soltanto stabilire se gli Ncc debbano tornare nella propria rimessa o come si deve chiamare un taxi. Il punto è come si prendono le decisioni in una democrazia. Il modo corretto sarebbe valutare l’impatto delle decisioni. Avere chiaro quali benefici si ottengono liberalizzando un po’ il settore e quali danni o benefici proteggendo lo status quo: se con una modifica normativa 100 tassisti perdono il valore della propria licenza ma 10.000 cittadini possono permettersi di affrontare il prezzo della corsa, il legislatore può valutare come soluzione ottimale quella di indennizzare i 100 tassisti invece che garantire loro la rendita e costringere gli altri a non muoversi. Soltanto sapendo quali effetti producono sulla collettività – e non soltanto su questa o quella corporazione – si possono valutare le leggi o chi le promuove. La senatrice dem Linda Lanzillotta è una paladina dei cittadini a basso reddito che non possono pagare il taxi, una quinta colonna di Uber o sta facendo un favore agli Ncc? Per rispondere ci vorrebbero analisi di impatto, discussioni pubbliche, possibilmente fuori dalle piazze inferocite. Invece in Italia si decide tutto di notte, in segreto, chi riesce a prevaricare gli altri poi rivendica i propri diritti acquisti, almeno fino a quando un altro più furbo di lui non riuscirà a scalzarlo. E intanto noi italiani, soprattutto noi che abbiamo la sfortuna di dover vivere in questa martoriata Capitale, dobbiamo confrontarci con servizi dalla qualità imbarazzante e prezzi lontani da ogni giustificazione. P.S. Sarei curioso se qualche lettore tassista mi spiegasse come mai questa ansia di legalità e lotta all’abusivismo non sfiora i tassisti abusivi che cercano di turlupinare i turisti stranieri alla stazione Termini, cercando di sottrarre clienti ai taxi legali che aspettano un metro più in là (una volta ho chiesto il prezzo: volevano 50 euro per andare in zona San Pietro, meno di dieci minuti di strada). Immagino una ragione ci sia, ma non so immaginare quale.  

La (poca) trasparenza delle lobby in Italia e in Europa: registro obbligatorio solo in 6 Paesi Ue. Virtuosi Austria, Irlanda, Lituania, Polonia, Gb e Slovenia. Da noi manca legge che regoli 'portatori di interesse': ma non siamo ultimi della classe. In Parlamento 26 intergruppi: da sigaretta elettronica a cannabis legale. Per il nostro Paese, Confindustria ed Enel tra i più accreditati a Bruxelles. Incontri con la Commissione: Google, Airbus e Microsoft nella top 10. Oettinger, Cañete e il falco Katainen tra i più attivi, scrive Michela Scacchioli il 9 gennaio 2017 su "L'Espresso". Negli Stati Uniti sono legittimi e radicati nella cultura nazionale. In buona parte d'Europa, invece, le lobby possono anche agire nell'ombra e in mancanza di regole certe. A oggi, infatti, sono soltanto 6 i Paesi Ue dotati di un registro obbligatorio. E l'Italia non è ancora tra questi. Vero è che l'assenza di norme dedicate ai 'portatori di interesse' finisce con l'incidere sulla qualità della democrazia. Negli ultimi anni sono cresciuti il ruolo e l'importanza dei lobbisti, specie agli occhi dell'opinione pubblica. E i cosiddetti 'gruppi di pressione' hanno sempre fatto parte del processo decisionale. Ma ora è in atto un lavoro di trasparenza che cerca di fare luce sul fenomeno. Secondo una ricerca Openpolis per Repubblica.it, in Europa i 6 Paesi 'virtuosi' sono Austria, Irlanda, Lituania, Polonia, Regno Unito e Slovenia (i dati sono il risultato dello studio Transparency of lobbying in Member States dell'European parliament research service). E l'Italia? Nel nostro Paese manca ancora una legge che regoli la questione anche se stavolta non siamo gli ultimi della classe. Tra Camera e Senato, inoltre, si conterebbero 26 intergruppi attivi: da quello per la sigaretta elettronica che mira a normare la materia a quello per la cannabis legale, fra le principali forze promotrici del testo discusso di recente in Parlamento. Tra i soggetti italiani maggiormente accreditati a Bruxelles figurano Confindustria ed Enel. Incontri con la Commissione Ue? Google, Airbus e Microsoft svettano nella top 10. Oettinger, Cañete e il falco Katainen, invece, tra i commissari più attivi. L'Europa e quel che si muove in Italia. Già nel 2008 una risoluzione dell'Europarlamento ha istituito il registro per la trasparenza dell'Unione. Al suo interno si trova l'elenco di tutte le strutture che, anche indirettamente, hanno lo scopo di influenzare le politiche e i processi decisionali delle istituzioni europee. Un'iniziativa da migliorare, ma che è comunque molto più avanzata rispetto alla situazione nel nostro Paese. Nel Parlamento italiano non esiste un registro delle lobby e solo negli ultimi mesi due iniziative hanno mosso un po' le acque. Il 26 aprile 2016 la giunta per il regolamento di Montecitorio ha approvato la Regolamentazione dell'attività di rappresentanza di interessi nella sede della Camera dei deputati. Il regolamento prevede l'impossibilità di fare lobbying per persone che hanno ricoperto incarichi nel governo o Parlamento nei 12 mesi precedenti. Il testo, che è quanto meno un inizio, è stato introdotto pochi giorni dopo l'adozione del codice di condotta dei deputati ma ormai da mesi - sottolinea Openpolis - mancano dettagli su come sia stato sviluppato. A inizio settembre Carlo Calenda, ministro per lo Sviluppo economico, ha lanciato un registro per la trasparenza nel suo dicastero, ispirato a quello delle istituzioni europee. Oltre 130 organizzazioni si sono già accreditate. Nel frattempo in Parlamento sono stati presentati vari testi per regolamentare la materia, e a inizio settembre - ben prima della crisi del governo Renzi - in commissione Affari costituzionali del Senato erano ripresi i lavori con la discussione congiunta di alcuni di questi. Ma c'è un altro aspetto da considerare. Sempre più spesso nelle dinamiche politiche di Camera e Senato si nota l'opera degli intergruppi parlamentari. Queste entità mettono insieme politici provenienti da entrambi i rami del Parlamento e da vari gruppi, anche di opposto colore politico, uniti da un interesse comune che può essere il più disparato: c'è un intergruppo per l'invecchiamento attivo, uno per la sussidiarietà e anche uno sulle questioni di genere. Purtroppo al momento, a differenza del Parlamento europeo, gli intergruppi non sono regolamentati e questo rende ancora più difficile capire il fenomeno. Da fonti indirette - dice ancora Openpolis - è stato possibile contare 26 intergruppi attivi nell'attuale Parlamento. La finalità di queste formazioni varia, ma per alcuni si sconfina in modo evidente nell'attività di lobbying. L'Italia non è l'unica nazione europea in cui non c'è una legge che regola il lavoro delle lobby. Su un totale di 29 (di cui 28 Stati membri più l'Unione europea), sono solo 6 i Paesi in cui le organizzazioni di lobbying hanno l'obbligo di accreditarsi presso un registro nazionale (pari al 20,69% del totale). Altro parametro importante è quello dei codici etici di comportamento per i lobbisti, presenti nel 20,69% dei casi. Mentre nel 31,03% delle situazioni si rintracciano iniziative di autoregolamentazione, dalle proposte della società civile alle unioni di lobby, che decidono di stipulare un codice indipendente colmando una lacuna normativa. Quante sono quelle accreditate. L'8 maggio del 2008 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione per elaborare un quadro dell'attività dei rappresentanti di interessi nelle istituzioni europee. A giugno dello stesso anno la Commissione europea ha lanciato un registro online e nel 2011 il Parlamento europeo ha aderito all'iniziativa, ampliando così quello che in Europa è ormai il database più corposo sul lobbying. Sono quasi 10.000 le strutture accreditate (per la precisione: 9.772), per lo più organizzazioni non governative o lobbisti interni ad aziende e associazioni di categoria. Nel 2015 un'organizzazione su quattro si è registrata. Da quanto è stato introdotto, la crescita delle registrazioni è stata costante. Fra le organizzazioni ancora presenti, 328 risalgono al 2008 e 1.940 all'anno corrente. Fino al 2011 l'iniziativa riguardava la Commissione europea, in seguito si è aggiunto l'Europarlamento. Delle quasi 10.000 organizzazioni, 517 risalgono al 2010 e 911 al 2011 (con un incremento del 76,21%). Le successive modifiche e innovazioni del 2014 e 2015 hanno determinato ulteriori aumenti. Il 59,60% delle organizzazioni attualmente presenti si è registrato negli ultimi 3 anni. Nonostante il registro rappresenti un enorme passo in avanti nello scenario europeo, alcune organizzazioni, tra cui Alter-Eu e Transparency International, da mesi si battono per rinnovare e potenziare questo strumento. L'iscrizione infatti non è obbligatoria e la base volontaria della registrazione è forse il più grande limite del registro medesimo. Inoltre la definizione delle attività volte a influenzare i processi decisionali e legislativi dell'Ue risulta alquanto vaga, rendendo molto ampia la serie di soggetti che possono registrarsi. Le organizzazioni che decidono di accreditarsi spesso compilano male il questionario, inserendo dati errati e mal interpretando le informazioni richieste. Per esempio a oggi l'organizzazione italiana che spende più soldi per l'attività di lobbying a Bruxelles sarebbe l'università de L'Aquila, con 10 milioni di euro: una cifra molto alta (per dire: Confindustria ne dichiara 900mila) mentre l'ente con più lobbisti risulta l'università di Pavia con 1.904 persone. A settembre 2015 Transparency international ha sottoposto oltre 4.200 reclami per errori fattuali o numeri implausibili nelle schede delle organizzazioni, tra cui oltre 3.800 organizzazioni che pagherebbero i propri lobbisti meno del minimo sindacale. È evidente che il controllo sulle informazioni inserite è molto basso, probabilmente perché, come sottolinea Alter-Eu, lo staff dedicato si conta sul palmo di una mano. Il registro permette comunque alle organizzazioni di classificarsi in 6 macro categorie: società di consulenza, lobbisti interni di aziende, organizzazioni non governative, centri studi, comunità religiose e amministrazioni locali. Oltre la metà (51,07%) delle 9.772 organizzazioni registrate rientra nella seconda categoria: lobbisti interni e associazioni di categoria, commerciali e professionali. Oltre il 60% delle organizzazioni ha sede in 5 Paesi: Belgio (20,10%), Germania (12,64%), Regno Unito (10,96%), Francia (10,05%) e Italia (7,29%). Anche se il 91,48% delle organizzazioni ha sede nei 28 Paesi dell'Unione europea, le altre sono collocate in altre 69 nazioni. Fra queste, da sottolineare il peso di Stati Uniti (con 335 strutture, all'ottavo posto in classifica generale), e Svizzera (195 organizzazioni e undicesimo posto). Informazione da migliorare? Quella dei costi. Tutte le organizzazioni che si accreditano devono fornire una stima delle spese annue per le attività che rientrano nell'ambito di applicazione del registro. Fa riflettere - secondo Openpolis - la stima di dieci organizzazioni che dichiarano di spendere oltre 10 milioni di euro in attività di lobbying a Bruxelles. Per la maggior parte delle strutture si parla di cifre molto inferiori: il 93,18% delle strutture dichiara di spendere meno di 500mila euro l'anno. Quasi la metà (49,06%), spende meno di 10mila euro. In fase di registrazione le organizzazioni devono fornire informazioni sul loro personale. Oltre al numero di persone che partecipano alle attività di lobbying, è richiesto di dichiarare il numero di quanti fruiscono di un titolo di accesso all'europarlamento e ai suoi uffici. Questo dato è molto importante perché include anche nome e cognome delle persone accreditate (info impensabile nel panorama parlamentare italiano). Generalmente il numero di accrediti è basso, ma 58 strutture dichiarano di averne più di 10. Di contro, il 77,68% delle organizzazioni sostiene di non avere nessuna persona accreditata per accedere al parlamento europeo. Gli incontri con la Commissione. Dal dicembre 2014 i membri della Commissione europea - inclusi i commissari, i componenti del loro gabinetto e i direttori generali - hanno l'obbligo di comunicare sul sito internet della Commissione i dettagli degli incontri con i lobbisti. Queste comunicazioni devono contenere il nome dell'organizzazione, ora e sede dell'incontro, e soprattutto l'argomento trattato. Tutte queste informazioni devono essere pubblicate online entro 2 settimane dopo l'incontro. Grazie a questa decisione della Commissione europea, Transparency International ha potuto lanciare Integrity watch, piattaforma che permette di monitorare e analizzare tutti i dati sia del registro sia degli incontri della Commissione europea. I dati interessanti sono due: la quantità di permessi per accedere all'Europarlamento, e il numero di incontri con i membri della Commissione europea. E dunque, è possibile sapere per ogni Commissione (l'equivalente dei nostri ministeri) quali organizzazioni - aziende, società di consulenza, Ong o altro - hanno incontrato il commissario (il corrispettivo del ministro) e i membri del suo staff, per quante volte e di cosa hanno parlato. Anche sul tema degli intergruppi, il Parlamento europeo fornisce molti spunti interessanti. Le organizzazioni che si accreditano nel registro per la trasparenza devono dichiarare se appartengono o partecipano all'attività degli intergruppi dell'Europarlamento, e se sì, quali sono. In aggiunta, nel dicembre 1999 il Parlamento europeo ha stilato le regole per creare gli intergruppi e stabilito i requisiti necessari. Fra le 15 organizzazioni iscritte al registro con più accrediti per accedere ai locali del Parlamento europeo, il 60% è composto da società di consulenza. Tre di queste si trovano sul podio e tutte hanno sede in Belgio: la Fleishman-Hillard (51 persone), la Kreab (33) e la Burson-Marsteller (32). La prima azienda compare al quindicesimo posto, la Dods group plc, con 17 accrediti. Nella top 15 di questa particolare classifica non sono presenti realtà italiane. La prima di casa nostra è al 32esimo posto: si tratta di Confindustria con 12 accrediti. Subito dopo si trovano Enel, Fondazione banco alimentare e la Federazione nazionale imprese elettrotecniche ed elettroniche, con 8 accrediti. Intesa Sanpaolo e Confcommercio ne dichiarano invece sette.  Da dicembre 2014 è possibile monitorare e tracciare gli incontri della Commissione europea (commissari, staff, gabinetto e direttori generali) con le lobby registrate. In quasi due anni sono circa 11.000 incontri di cui è possibile sapere giorno, sede e argomento trattato. Il 70,48% di questi incontri hanno coinvolto lobbisti interni e associazioni di categoria, commerciali o professionali. Molto attive anche le organizzazioni non governative, con 1.897 incontri (17,75%). Simili tra loro i dati di centri studi-think tank e consulenti, con oltre 400 incontri a testa. I dati degli incontri tra i membri della Commissione e i cosiddetti portatori di interessi contengono molte informazioni interessanti. Mentre sugli accrediti per il Parlamento europeo le carte sono un po' più coperte (con molte società di consulenza in cima alla classifica), per gli incontri si trovano i nomi di organizzazioni e aziende ben più note. Google, Airbus, Wwf, Greenpeace, Microsoft sono solo alcune della realtà che compaiono nella top 10 delle organizzazioni con più colloqui. Nessuna organizzazione italiana compare in cima alla classifica. In totale, i faccia a faccia portati a termine da realtà italiane sono 261. Le 18 organizzazioni che hanno realizzato almeno 5 incontri corrispondono al 66,67% del totale. Le prime tre classificate sono nell'ordine: Confindustria (29 incontri principalmente con membri della Commissione mercato interno), Enel (24 incontri) ed Eni (20). Il tema dell'energia è dunque quello più caldeggiato, tanto che in classifica ci sono anche Edison, Snam e Terna, tutte aziende attive nel campo energetico. Il rapporto più alto tra accrediti e incontri si registra per Google, Telefonica e European trade union confederation: due imprese e un sindacato. Günther Oettinger, commissario all'Economia e la società digitale, e i membri del suo gabinetto hanno realizzato il più alto numero di incontri: 1.015. Quasi altrettanto attivi Miguel Arias Cañete (Azione per il clima e l'energia) e Jyrki Katainen (lavoro, crescita, investimenti e competitività). È interessante incrociare la nazionalità e la delega dei singoli commissari con l'organizzazione più ricorrente negli incontri. Proprio Katainen, commissario finlandese per lavoro e crescita, ha come organizzazione più ricorrente l'equivalente finlandese di Confindustria. A differenza di quanto accade in Italia, a Bruxelles all'inizio di ogni legislatura la Conferenza dei capigruppo approva l'elenco degli intergruppi. Dopo le elezioni di maggio 2014 si sono formati 28 intergruppi. Sette di questi hanno più di 100 membri. Il più grande è l'intergruppo Cultura e turismo con 142 componenti, tra cui 27 parlamentari italiani. Il raggruppamento con il numero più alto di nostri connazionali (35) è quello Trasparenza, anti-corruzione e criminalità organizzata.

(Le elaborazioni del rapporto Openpolis si basano su dati ufficiali rintracciati fino al 5 settembre 2016 dai siti di: registro per la trasparenza dell'Unione europea, Eu integrity watch - Transparency international -, Parlamento europeo e Alter-Eu). Dati Openpolis, osservatorio civico sulla politica italiana. 

Un cartello sulle tariffe notarili? Un'indagine dell'Antitrust dopo l'inchiesta dell'Espresso. Grazie alla denuncia choc pubblicata dal nostro giornale, il garante della concorrenza ora esamina l'attività del Consiglio notarile di Milano. Potrebbe aver usato la leva della deontologia professionale per tenere alte le parcelle, scrive Gloria Riva il 17 gennaio 2017 su "L'Espresso". C'è un tacito accordo fra i notai di Milano che li impegna a tenere alte le tariffe, a danno dei cittadini e ignorando la legge sulla concorrenza? Il dubbio esiste e l'Antitrust ha avviato un'indagine per fare luce sull'attività del Consiglio Notarile di Milano. L' Espresso ne aveva parlato in esclusiva a dicembre, pubblicando stralci di un'intercettazione finita nelle mani della Procura di Milano e degli ispettori dell'Agcm, il garante della concorrenza, nella quale un notaio, Paolo De Martinis, titolare del più grande studio notarile meneghino, viene invitato a ignorare le regole della concorrenza e ad alzare le tariffe pagate dai cittadini per evitare la radiazione. A consigliare il notaio è Mario Molinari, il conservatore dell'Archivio notarile di Milano, cioè il funzionario incaricato dal ministero della Giustizia di controllare che i notai rispettino le leggi. De Martinis, un notaio da 3 mila pratiche e tre milioni di fatturato l'anno, dallo scorso luglio ha smesso di lavorare perché colpito da due sospensioni disciplinari di fila e un terzo provvedimento che rischia di causare il definitivo stop professionale. Così il notaio passa al contrattacco e registra la conversazione avvenuta il 6 ottobre con Molinari. Ascoltando quel dialogo sembra che il vero motivo delle sospensioni non abbia a che fare con la qualità del lavoro di De Martinis, piuttosto contro l'enorme giro d'affari del proprio studio, portato dal dimezzamento delle tariffe ai clienti, così come indicato dalla legge sulle liberalizzazioni del 2006. Oggi l'Antitrust ha annunciato di aver avviato un'istruttoria nei confronti del Consiglio notarile di Milano «per accertare l’ipotesi di un’intesa restrittiva della concorrenza. In particolare, attraverso una pluralità di condotte, il Consiglio avrebbe perseguito l’obiettivo di indurre i notai del distretto a limitare, sotto il profilo quantitativo, la propria attività», dice l'Antitrust con un comunicato. I procedimenti a De Martinis sarebbero solo la punta di un iceberg, perché altri dieci studi notarili, i più grandi di Milano, sarebbero stati presi di mira e “invitati” ad aumentare le tariffe o a condividere i profitti con altri notai, mentre a settembre il Consiglio avrebbe inviato un questionario per tenere monitorata l'attività di tutti i notai della zona, «così restringendo il confronto concorrenziale tra gli stessi e conducendo, in ultima analisi, ad una ripartizione del mercato e ad una limitazione della concorrenza di prezzo, in violazione della legge», conclude l'Antitrust che, per fare le opportune verifiche ha mandato i propri funzionari, insieme al Nucleo Speciale Antitrust della Guardia di Finanza, a ispezionare la sede del Consiglio notarile di Milano.

LA REPLICA. Il Consiglio Notarile di Milano risponde sull’istruttoria aperta dall’Antitrust Milano, 17 Gennaio 2017. Con riferimento all’istruttoria aperta dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, il Consiglio Notarile di Milano rigetta l’addebito di aver realizzato un’intesa restrittiva della concorrenza, ipotizzato nell’istruttoria in corso e rende noto di aver fattivamente collaborato con i funzionari incaricati dell’ispezione per fornire all’AGCM ogni elemento utile per stabilire la verità storica dei fatti. Il Consiglio nega di aver posto in essere qualsiasi attività volta ad una ripartizione del mercato e ad una limitazione della concorrenza di prezzo. Preso atto che tra le condotte oggetto dell’istruttoria rientra anche l’attività disciplinare, denuncia l’indebita invasione di campo posta in essere dall’AGCM nel sindacare detta funzione, estranea alla competenza della medesima Autorità, come da costante insegnamento della Suprema Corte. Il Consiglio sollecita l’intervento del Ministro di Giustizia perché ribadisca la sua esclusiva autorità gerarchica sui Consigli Notarili nello svolgimento da parte degli stessi dello specifico compito di vigilanza ad essi attribuito dalla legge nell’interesse della collettività e si adoperi per ripristinare il corretto equilibrio dei poteri di ciascuna Autorità dell’Ordinamento.  

Il notaio abbassa le tariffe? I suoi colleghi lo processano. Un professionista milanese dimezza le parcelle delle sue prestazioni. E si ritrova nei guai con il Consiglio. Fino alla chiusura "per motivi disciplinari" dello studio. E spunta un audio choc che testimonia le pressioni ricevute, scrive Gloria Riva il 21 dicembre 2016 su "L'Espresso". Processi disciplinari, denunce, controdenunce e un audio-choc: un notaio che intercetta l’ispettore del ministero. Registrato di nascosto mentre gli chiede di ignorare le regole della concorrenza e tenere alte le tariffe pagate dai cittadini. Altrimenti verrà radiato. «Stai messo proprio in bilico. Bisogna trovare una soluzione tecnica che ti metta in condizione di sopravvivere. Perché ti vedo brutto brutto». A parlare è Mario Molinari, "conservatore" dell’Archivio notarile di Milano: il funzionario incaricato dal ministero della Giustizia di controllare che i notai rispettino le leggi. E a stare sull’orlo dell’abisso è il suo interlocutore, Paolo De Martinis, il notaio milanese con il maggior giro d’affari: tremila pratiche, tre milioni di euro all’anno. Fino allo scorso luglio. Da allora, De Martinis non fa più nulla, perché su di lui s’è abbattuta la mannaia disciplinare: due sospensioni di fila, il suo studio resterà chiuso fino a maggio 2017. E forse più a lungo, perché è già scattato un terzo procedimento, che rischia di causare il definitivo stop professionale. A procedere contro di lui, prima nel 2011, poi nel 2015 e ancora nel 2016, è il Consiglio dei Notai di Milano (Cnm), organo che vigila sul rispetto delle norme di deontologia. La prima accusa a De Martinis è di aver lavorato troppo. Il Cnm ha calcolato, secondo le norme, che ci vogliono due minuti per leggere ogni singolo foglio di un atto notarile, quindi un professionista non può fare più di 15 pratiche al dì. De Martinis ne faceva 20. Da qui le sanzioni, i reclami alla Corte d’Appello, i ricorsi in Cassazione: una battaglia legale ancora in corso. Richieste di alzare le tariffe, consigli per aggirare le leggi sulla concorrenza, suggerimenti su come tenere buoni i colleghi e "fare girare un po' di grana". Altro che libero mercato: a Milano i notai che provano ad abbassare le tariffe vengono allontanati dalla categoria. L'Espresso è in grado di svelare quello che succede sulla piazza notarile di Milano, la più importante d'Italia, grazie a una registrazione che intercetta un dialogo fa Mario Molinari (frasi in rosso), funzionario del ministero della Giustizia incaricato di controllare che i notai rispettino le leggi, e Paolo De Martinis (frasi in bianco), notaio milanese con il maggior giro d'affari. Quest'ultimo, autore della registrazione e di una denuncia alla Procura e all'Antitrust, rischia lo stop definitivo delle attività in seguito a una serie di procedimenti disciplinari avanzati dal Consiglio notarile milanese. Ma ora il notaio punito passa al contrattacco. Con un esposto alla Procura e una denuncia all’Antitrust (Agcm). Con la registrazione dell’ispettore allegata. La conversazione avvenuta il 6 ottobre scorso tra De Martinis e Molinari fa pensare che il vero motivo della sospensione sia diverso. Riferendosi al Consiglio notarile di Milano, il funzionario ministeriale dice: «Loro ti stanno a dà una caccia feroce, lo sai? (…) La mia sensazione è che loro siano molto forti, convinti di averti in pugno in una maniera seria». Secondo la denuncia del notaio, i problemi sarebbero cominciati nel 2006, quando è entrato in vigore il decreto Bersani sulle liberalizzazioni, che ha eliminato le tariffe professionali per favorire la libera concorrenza. A quel punto De Martinis dimezza le sue parcelle: se i suoi concorrenti facevano pagare un rogito 1.800 euro, lui ne chiedeva 900. Quindi gli affari volano. Ma lo sconto è poco apprezzato dai colleghi. Di qui, secondo il notaio, i procedimenti disciplinari. Nella registrazione agli atti, è sempre il Conservatore a indicare una via d’uscita, dicendo che lui stesso andrà dal presidente del Cnm, Arrigo Roveda, per informarlo che De Martinis sarebbe disposto a trattare. Cioè a ridursi gli incassi del 50 per cento. Oppure a fare posto, nel suo studio, a un collega gradito al Consiglio, per dividere così gli introiti. Ma prima, l’ispettore lo avverte, «il Presidente deve dà un segnale di non averti accerchiato con le macchine da guerra. Se no, non ci viene nessuno qui, perché sa che dopo un quarto d’ora sta spellato a piazzale Loreto». La registrazione consegnata anche all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm), secondo il denunciante, dimostra che la liberalizzazione tra i notai è ancora una chimera. L’ispettore Molinari sembra affermarlo chiaramente: «Se io fossi il presidente ti direi: "Paolo, aumenta la tariffa di 200 euro, così ci fai respirare a tutti". Così si ridistribuirebbe in maniera leggermente più tranquilla un po’ di grana». Se l’accusa troverà conferma, significa che per i cittadini le parcelle restano stratosferiche e nessun notaio può abbassarle, pena la sospensione. Perché, come spiega lo stesso conservatore, a stare «in bilico» non è solo De Martinis, ma i dieci più grandi professionisti di Milano. C’è ad esempio Luciano Quaggia che s’è ridotto il volume d’affari facendo spazio a un altro notaio, dice sempre l’ispettore, ma «non ha capito che doveva fare 60 e 40. Luciano ha fatto 85 e 15 e non basta». I portavoce del Cnm definiscono De Martinis, «non credibile», «inaffidabile», «impresentabile», «privo di personalità», mostrano le carte dei procedimenti disciplinari, le sentenze dalla Corte d’Appello e dalla Cassazione. Lui tira dritto. Tra tanti veleni, spunta anche un misterioso questionario. In settembre, per misurare il giro d’affari di ciascuno studio, il Consiglio avrebbe inviato un formulario a tutti i notai, chiedendo quante procedure fanno all’anno e quanto guadagnano. L’ente di Milano ci aveva già provato nel 2012 a fare i conti in tasca ai suoi iscritti, ma allora era intervenuto l’Antitrust, sanzionando il Consiglio con una multa da 99.403 euro perché, in base alla legge, ogni notaio deve essere libero di applicare i ribassi che vuole. Tentativi analoghi sono stati segnalati all’Antitrust da Lucca, dove il consiglio notarile locale s’era visto infliggere una multa di quasi 20 mila euro, e nel distretto di Roma. Ora il Garante sta nuovamente puntando il faro sul consiglio milanese. Che interpellato da l’Espresso ribatte: «Il Cnm conosce e apprezza i valori della concorrenza, senza venir meno al compito assegnatogli dalla legge: vigilare sulla correttezza dell’operato dei notai. I comportamenti per i quali può essere richiesta una sanzione disciplinare contro un notaio sono quelli che possono danneggiare i cittadini, ad esempio l’esercizio delle funzioni in modo non personale e con delega a terzi. Tutte le nostre iniziative disciplinari sono sempre state confermate dalla Corte d’appello e dalla Cassazione». Dal conservatore-ispettore, invece, nessun commento.

Notai, quante strane sviste nel concorso. Svarioni e cantonate, alcune anche molto gravi: ma i candidati sono promossi lo stesso. Sull'esame per entrare nell'Ordine si allungano ombre, scrive Francesca Sironi il 19 dicembre 2016. Aspiranti notai in fila per partecipare al concorso della loro categoria nel febbraio 2011È lo sbarramento all’ingresso dell’ultima ambizione di casta. Il passaggio obbligato per l’accesso a una categoria che - seppur lamenti crisi - rimane in testa alle classifiche di reddito, con 200 mila euro all’anno dichiarati in media dai suoi professionisti. È il traguardo di lunghi studi e dura gavetta, ma soprattutto la prova che tributa il ruolo di pubblico ufficiale a chi firmerà atti, registri e documenti sancendone l’autenticità con il sigillo della Repubblica. Sul concorso notarile si addensano quindi molte speranze. Ma ora anche nuove domande. Almeno a leggere quanto rileva una denuncia che ipotizza reati sul bando per 300 nuovi notai indetto nel settembre del 2014 - di cui gli esami scritti si sono svolti l’anno scorso, e gli orali sono andati avanti fino allo scorso 6 dicembre. Dopo aver chiesto l’accesso alle correzioni d’esame, a cui aveva partecipato lei stessa, l’autrice dell’esposto si è trovata tra le mani decine di compiti in parte irregolari, testi redatti con imprecisioni tali, segnala nell’esposto, da renderli nulli secondo la legge in almeno dieci casi, ma a cui sono stati assegnati ugualmente voti sufficienti a traghettare i candidati verso il traguardo della nomina a notai, ormai prossima. Nell’elenco ci sono inciampi evidenti anche per chi non ha dimestichezza con gli strumenti del mestiere - come un atto in cui un sordomuto, «legge ad alta voce» le proprie disposizioni per l’eredità - e altri più tecnici, ma significativi per chi proprio in quella tecnica fa risiedere parte della specificità di un ruolo ancora saldamente nelle mani di meno di cinquemila persone nell’intero paese. Fra gli altri, un candidato sarebbe stato ammesso all’orale pur avendo all’interno del proprio elaborato una pagina scritta a mano con una calligrafia diversa da tutto il resto del suo testo. L’indagine giudiziaria avviata in seguito alla denuncia è stata chiusa nell’arco di pochi mesi, e i pm della procura di Perugia titolari dell’inchiesta e competenti perché coinvolti otto magistrati romani che fanno parte della commissione, hanno chiesto al gip l’archiviazione. Decisione alla quale si è opposta la denunciante che ha segnalato al giudice, che ancora deve decidere, altri errori presenti negli elaborati. E pure nuovi quesiti sulla validità di giudizi formulati dalla commissione del concorso.

GLI ERRORI. Il concorso notarile è «una delle selezioni più serie e meritocratiche d’Italia», afferma Gianluca Abbate, consigliere nazionale dell’ordine: «Lo monitoriamo perché il numero di professionisti resti limitato». E spiega: «Ci stiamo adeguando alle norme sulla concorrenza che prevedono l’ingresso di altri 800 notai in ruolo attraverso gli ultimi due esami». E aggiunge che vengono selezionati in modo «del tutto imparziale, come ora accade». L’esame per entrare nella ridotta schiera è un test in cui bisogna «dimostrare una perfetta conoscenza delle tecniche redazionali dell’atto pubblico, oltre che della teoria legale», spiegava il notaio Lodovico Genghini ai suoi studenti. «Io stesso la prima volta sono stato bocciato perché avevo dimenticato un formalismo», racconta Ludovico Capuano, ex presidente dei giovani notai: «Certo, non era una questione di contenuto, solo un dettaglio. Ma rendeva il documento invalido nella sua ufficialità. Per cui hanno fatto bene a rimandarmi». Se lo dice lui, che ha rappresentato la categoria al Senato nella discussione per l’ultimo decreto legge sulla concorrenza, è così che andrebbero allora lette le irregolarità evidenziate nella relazione sul bando del 2014. Nella denuncia alla procura di Perugia viene fatto riferimento a oltre dieci elaborati che andrebbero considerati nulli perché inciampano in errori evidenti, si spiega nell’esposto, se confrontati con la legge notarile. E invece hanno ricevuto voti di 35, 37, 38 punti ciascuno, abbastanza da portare i candidati all’orale. Altri 70 presenterebbero insufficienze meno gravi, ma comunque rilevabili. Alcune si concentrano sulla traccia con la quale i commissari chiedevano ai duemila partecipanti al concorso di sviluppare le volontà sul testamento di un ricco possidente, un uomo che non aveva la possibilità di udire e parlare. Ed ecco: c’è chi dimentica di citare subito l’interprete, scrivendo che «il comparente dichiara di essere sordomuto e di saper leggere e scrivere»; chi scorda di far sottoscrivere l’atto anche al testimone-traduttore; chi pur spiegando che «d’ora in poi ogni dichiarazione resa e ricevuta dal signor T. s’intende effettuata a mezzo dell’interprete», ci tiene a precisare quella lettura "ad alta voce" nelle battute finali. Altre inesattezze riguardano invece la liquidazione di un patrimonio immobiliare: in diversi compiti mancano, o sono errati, i riferimenti a planimetrie e catasto. Per una «parziale omissione» simile a quella in cui cadono alcuni dei candidati promossi, per dire, un notaio di Roma ha dovuto subire a giugno una sanzione disciplinare da 214 mila euro, per 415 atti zoppi. Formalismi?

LE RISPOSTE. Sulla denuncia (rivelatasi così accurata da far riconoscere ai commissari, ad esempio, la trascrizione sbagliata di un voto, che è stato poi corretto al ribasso nel verbale) viene avviata un’indagine. Gli investigatori prendono copia dei compiti. E interrogano il vicepresidente della commissione, un consigliere della corte d’appello, che alle domande sugli errori evidenziati nell’esposto risponde: «Non posso escludere che possano esservi state sviste, o interpretazioni non perfettamente collimanti», ma sulla valutazione delle stesse, dice, andrebbe sentito un notaio, e lui non lo è. L’indagine viene chiusa presto, senza che nessun notaio venga sentito, e viene richiesta l’archiviazione; ora è stata depositata un’opposizione alla decisione della procura, dove si evidenziano anche almeno altre otto "nullità". Intanto, i praticanti promossi stanno per diventare effettivi notai. Fra loro non mancano i “figli di” - «questa della casta ereditaria è una leggenda», ribatte, sul tema, il Consiglio dell’Ordine: «L’82 per cento dei notai non è figlio di notaio» - fra i promossi con le presunte irregolarità l’erede di un celebre notaio non manca. Come d’altronde fra gli esaminatori. «È stata una bella esperienza, far parte della commissione, ma mi sono stancata molto», racconta un notaio che faceva parte della squadra dei valutatori. «Siamo stati tutti molto attenti a che non ci fossero pressioni», dice, su eventuali favoritismi. «Sono andata proprio per verificare questo», aggiunge. «Certo, può capitare che qualcuno ce l’abbia fatta e qualcun altro no, pur con lo stesso errore, magari», precisa. «Ma se è successo è stato per stanchezza e per stress: ci hanno messo molta pressione sul far presto. Io sono stata accurata al massimo, ma non sempre alla fine della giornata riesci ad avere la stessa lucidità». Insomma, sarebbe stato solo affaticamento da controllo - in 12 mesi - di mille e trecento elaborati, dice il commissario. Tale da non far riconoscere imprecisioni sulle quali «non c’è spazio interpretativo», secondo la candidata che ha denunciato: «Perché la legge notarile a riguardo è incontrovertibile». Sui forum dei praticanti notai rimbalzano nel frattempo i dubbi di sempre. Tra la frenesia per gli scritti che si sono appena conclusi in vista dell’ingresso di altri 500 notai, l’entusiasmo, gli auguri. E le memorie dei test precedenti.

RICORDI. «Io c’ero, certo, e chi se lo dimentica», ricorda il giovane notaio Capuano. Il riferimento è al concorso del 2010, quando l’intera platea dei candidati si sollevò perché una delle tracce assegnate ai presenti era simile, troppo simile, a un tema già sottoposto ai propri studenti da una scuola notarile di Roma. Gli scritti vennero sospesi. Le prove ri-assegnate. Polemiche, dibattiti, ricorsi. Poi, più nulla. Di nuovo, nel 2013, un notaio che era stato nominato commissario d’esame venne sostituito dopo un commento su Facebook in cui aveva scritto: «Ne ho già le scatole piene»; aggiungendo: «Però non è che passa così, succede un casino che il tifone delle Filippine è una tenera brezza», e a un ragazzo che gli chiedeva notizie su quei messaggi di rabbia rispondeva: «Bisogna dare le tracce per le teste di c…, io sono di impiccio», e ancora: «Dico solo che deve essere utilizzata una pista da spazzaneve, io non faccio al caso, rompo troppo i c...». Ora nessuno si è esposto in questi termini. Ma quelle sviste, tali da rendere, nella pratica legale, l’atto “nullo”, sviste rilevate ad alcuni, mentre ad altri no, restano indicate nell’esposto. «Occorre distinguere la fortuna dalle scorciatoie», scriveva in Rete un avvocato. A chiedere invece agli interessati cosa dovrebbe cambiare, di questo titanico esame, tutti sollevano in primo piano la questione del limite di tre consegne a persona: ogni aspirante notaio infatti può tentare il concorso, consegnando gli scritti, soltanto tre volte, oltre che prima dei 50 anni. È un modo, spiegano, per selezionare meglio i partecipanti ed evitare correzioni-monstre di elaborati imprecisi: solo l’organizzazione delle abilitazioni forensi e del concorso per notaio nel 2014 è costata al ministero della Giustizia un milione e 500mila euro. Il limite dei tre tentativi andrebbe tolto, però, dice ad esempio il consigliere Abbate, per dare maggiore serenità agli studenti. «Meglio sostituirlo con cinque partecipazioni», commentano i giovani. Mentre il notaio Genghini arriva a proporre la correzione dei compiti in teleconferenza, per non obbligare i singoli commissari a muoversi ogni volta. Ma soprattutto una correzione dei compiti in forma pubblica, accessibile a tutti. Farebbe bene ai notai, dice. E alla trasparenza.

Abilitazione forense, storica vittoria al CGA: ricorrezione degli elaborati per gli esclusi, scrive l'avv. Francesco Leone il 6 febbraio 2017. Annullata la correzione delle prove scritte dell’esame d’abilitazione forense. Coinvolti gli aspiranti avvocati di Palermo e Messina che non hanno accettato supinamente un giudizio ritenuto ingiusto. Al centro della decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa vi sono proprio le modalità di correzione con le quali sono stati giudicati gli elaborati dei praticanti siciliani. Bocciate le tesi difensive dell’Avvocatura di Stato, il massimo organo di Giustizia Amministrativa rimette in corsa circa cento candidati. Eravamo sicuri della bontà delle nostre censure, avevamo mostrato consapevolezza nei nostri mezzi anche quando in molti criticavano la nostra campagna. Oggi, però, con fierezza possiamo annunciare che il CGA ha accolto i nostri ricorsi per abilitazione forense. Le ordinanze emesse dall’organo giudicante hanno disposto la ricorrezione degli elaborati dei candidati, da effettuarsi entro 90 giorni dalla notificazione o comunicazione del provvedimento stesso. Una vittoria fondamentale, che lo studio legale Leone-Fell & associati aveva comunque previsto. La mancanza di motivazione, alla base del nostro ricorso, è stata decisiva per i Giudici. Inserire annotazioni dirette sull’elaborato da esaminare, invero, ha il preciso intento di incrementare il grado di trasparenza dei procedimenti di accesso alla professione. Inoltre, l’espressa motivazione sarebbe maggiormente attuativa dei principi ricavabili dagli art. 24, 97 e 113 Cost., con la precisazione che ben potrebbe il buon andamento conciliarsi con la trasparenza ed efficienza attraverso una gamma di soluzioni varie. Adesso, i compiti da riesaminare (in fotocopia, nella quale saranno resi illeggibili eventuali segni e giudizi precedenti) saranno fatti pervenire a nuove diverse commissioni in due diversi plichi (uno per tipologia di compito), in ciascuno dei quali saranno inseriti il compito da rivalutare del candidato in questione accompagnato da quattro ulteriori compiti. Di tali quattro compiti due saranno tratti a sorte tra quelli giudicati sufficienti e due estratti a sorte tra quelli giudicati con votazione insufficiente. La Commissione esprimerà sui cinque compiti inclusi in ciascun plico il proprio motivato giudizio di sufficienza o insufficienza. Tali modalità precise di rivalutazione sono state espresse dal Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana nelle ordinanze n. 794 e 795 del 2016. Una pronuncia storica, che ci rende orgogliosi del nostro lavoro ma soprattutto felici per aver reso giustizia a molti candidati che, ingiustamente, si erano visti correggere i loro elaborati in maniera approssimativa e superficiale. Adesso, con questo provvedimento, potranno ricevere una ricorrezione giusta ed oggettiva.

Porte dei bagni aperti all’esame di Stato per avvocati: «Così non copiate». Succede a Brescia e i candidati lamentano la violazione della privacy. Il presidente della sessione si difende: «L’anno scorso abbiamo annullato 70 prove, è avvilente», scrive il 29 dicembre 2016 "Il Corriere della Sera”. Non chiudete quella porta. C’è un boom di copioni all’Esame di Stato per diventare avvocati? Il presidente della Sessione non è stato con le mani in mano e ha appeso un bel cartello nell’antibagno: «Per i maschi è vietato chiudere la porta delle toilette». Regola che è stata rispettata grazie a controlli ad-hoc: nessun aspirante avvocato è riuscito a dare una sbirciata a bigliettini, smartphone e tablet. La denuncia è di un candidato: a Brescia, durante gli esami scritti per diventare avvocato, il presidente della Commissione ha imposto ai maschi frequentanti la sessione d’esame di Stato di recarsi ai servizi igienici tenendo aperta la porta della toilette. E’ successo al Centro Fiera: il presidente ha ritenuto che tale prescrizione fosse «uno strumento idoneo ad impedire la copiatura da parte dei candidati». Le donne invece potevano chiudere la porta dei bagni, ma venivano monitorate da commissari fino all’antibagno. La polemica è stata immediata, molti candidati parlano di «violazione alla privacy». La misura, per il presidente della sessione, l’avvocato Giovanni Pigolotti, è stata necessaria: «L’anno scorso abbiamo annullato 70 prove copiate da tablet. È avvilente per chi dopo 30 anni di professione deve fare questo tipo di controlli, non certo per chi sostiene l’esame - ha detto -. Prima di iniziare la prova alcune inservienti hanno trovato dei foglietti con pezzi di dottrina e formulari in miniatura. Il materiale era nascosto nei porta salviette dei bagni. Si è trattata semplicemente di una garanzia di serietà. La decisione non è certo stata presa a scopi punitivi, ma a tutela di chi ha svolto le prove».

A cosa serve l’esame di avvocato? Rituali, delusioni, aspettative di un esame ormai anacronistico, scrive Armando Fico l'8 gennaio 2017. Napoli, Mostra d’Oltremare. È metà dicembre quando si ripete un rituale che anno dopo anno coinvolge giovani e meno giovani, tutti assiepati presso l’entrata dei padiglioni della Mostra già verso le 4 del mattino. Parliamo dell’esame di avvocato, spartiacque fondamentale per ognuno degli innumerevoli praticanti che quotidianamente affollano tribunali ed aule di giustizia campane. Ogni anno si verifica così – con la regolarità del miracolo di San Gennaro – il solito rito della sveglia in piena notte, della fila ai varchi (all’in piedi) in attesa dell’apertura dei cancelli, della corsa per i posti migliori (l’assegnazione ministeriale è infatti solo formale), della redazione-fiume di un elaborato da concludere in sette ore, dello stanco ritorno a casa. Il tutto ripetuto per tre giorni durante i quali non si vede mai la luce del sole, ammirato fugacemente proprio al suo sorgere e poi, da quando ci si siede, solo tenebre. Nell’arco di questi tre “giorni” i candidati sono sottoposti rispettivamente alla redazione di un parere di diritto civile, un parere di diritto penale ed un atto in una materia a scelta tra diritto privato, penale ed amministrativo; scritti che tuttavia non dicono nulla di nulla sulla loro preparazione o relativa capacità nell’esercizio della professione forense. Se tutto vi sembra già fin troppo assurdo, aspettate allora di entrare nell’anticamera della realtà con cui i candidati hanno scelto di confrontarsi pur di ottenere un’abilitazione che in astratto rappresenta la svolta della loro carriera e il lasciapassare per l’uscita dal paludoso limbo del praticantato: la fila per i posti. Da lì è infatti possibile già intuire la vasta gamma di insostenibili storture che il combinato disposto tra l’attuale regime di praticantato ed il sistema dell’esame è in grado di generare: in ogni gruppetto, più o meno folto che sia, si rincorrono voci, paure, trepidazioni, ma a colpire è di più il disincanto con cui il maggior numero di aspiranti avvocati si approccia alle imminenti prove, considerata la convinzione dell’assoluta mancanza di meritocrazia del concorso a cui sta partecipando. Cercano però di non pensarci, di farsi forza nella speranza che anima le loro battaglie giornaliere contro giudici e cancellieri, ma basta guardarli negli occhi o scambiare con loro qualche parola per intuire quell’inquietudine di fondo propria di chi, da professionista, trova inconcepibile non poter incidere sui processi che li riguardano in prima persona. Ciononostante, anche quest’anno, circa 4.500 giovani leve dell’avvocatura partenopea si sono presentate al cospetto di questa sorta di Stargate professionale di cui si conosce benissimo l’entrata ma nulla è dato sapere di cosa ci sia dall’altra parte o – peggio ancora – cosa possa capitarti dal momento in cui ci si siede al proprio banchetto, per giunta pure traballante. Infatti, una volta entrati ci si accorge che tutto il mondo frequentato sino al giorno prima, quello dei tribunali, dove vige ancora un formalismo deontologico che oscura le assurdità e le continue abdicazioni morali a cui è costretta buona parte dell’avvocatura, in realtà non esiste. Anzi, quegli stessi luoghi sono un’astrazione, perché la realtà è quella che si vede durante quella tre giorni estenuante fisicamente ancor più che intellettualmente: una realtà concretizzatasi in espedienti da accattoni – nello spudorato tentativo di copiare in qualsiasi modo il compito inviato da casa – oppure in atteggiamenti corporativo-infantilistici miranti ad una sopravvivenza individuale che è pura illusione ed alienazione. Accade quindi che quando quest’anno le voci sulla possibile schermatura dei padiglioni si sono poi concretizzate sotto gli occhi dei candidati, il primo giorno a tutto si è pensato fuorché a svolgere il proprio elaborato: l’obiettivo doveva essere sabotare quegli aggeggi che rendevano molto più difficile copiare in un relativo regime di tranquillità. Così, se al secondo giorno c’è stato chi è riuscito a staccare ripetutamente la spina degli apparecchi di schermatura apposti nei bagni, durante il terzo giorno (quello della prova più difficile e soggettiva, la redazione dell’atto) qualcuno ha pensato bene invece di intasare completamente i bagni maschili (nel frattempo nuovamente schermati con tanto di sorveglianza fissa) per poter essere indirizzati a fare i propri bisogni corporali nei bagni chimici all’esterno, e così copiare più agevolmente. Senza contare che nelle aree destinate ai fumatori all’esterno dei padiglioni sono stati avvistati anche i salutisti più integerrimi, pronti a scendere a patti con la propria salute pur di ricevere da casa il sospirato “aiutino” da casa. Quest’esame, qualora non si fosse capito, è ormai assurto a farsa colossale, indegno anche della benché minima tensione emotiva da parte di ognuno dei candidati, almeno quelli armati solo di codici e buona volontà. Eppure di meritevoli ce ne sono eccome, ma tutti ugualmente mortificati non dalla probabilità di una bocciatura bensì da un sistema di valutazione decisamente immeritocratico e scevro di garanzie, che a causa di un nemmeno poi tanto segreto patto interno tra le commissioni incaricate della correzione (al netto di dispetti e faide immorali) sbarra la strada a tutti coloro i quali hanno avuto la sfortuna di non rientrare nella soglia massima del 25-27% oltre la quale non si ammettono più promossi, a prescindere dalla bontà dei propri scritti nel merito quanto nella forma. Così, dopo cinque anni di sacrifici universitari, e almeno due di pratica forense sottopagata, anzi a volte portata avanti senza nemmeno l’ombra di un rimborso spese una tantum (tant’è che si può dire che i tribunali di mezz’Italia si reggano sulle famiglie dei praticanti), ambizioni e sogni di tanti vengono inconcepibilmente frustrati da un sistema che anziché incentivare entusiasmo, formazione e crescita professionale finiscono per demolirli, talvolta persino umiliarli. Pertanto, sorge spontanea una domanda: a cosa serve l’esame di avvocato? Ma soprattutto, è ancora attuale per modalità di svolgimento e conoscenze richieste? Diritto civile, penale, amministrativo e le relative procedure – seppur siano ancora le branche più gettonate – non consentono più di soppesare la reale preparazione di un candidato, considerato che la pratica forense ora si muove anche in ambiti come il diritto internazionale marittimo o quello del Finance&Law, giusto per limitarsi a due esempi in netta ascesa… Inoltre, una maratona estenuante di tre giorni consecutivi ha avuto l’effetto di rendere l’esame nient’altro che una prova fisica piuttosto che intellettuale. Insomma, un obbrobrio che raggiunge però il suo acme solo con la pubblicazione dei risultati all’approssimarsi dell’estate, il che determina per i pochi privilegiati la possibilità di sostenere gli orali da settembre in poi (“dettaglio” questo che rende l’esame di avvocato l’unico caso in Europa di concorso pubblico a gittata annuale). Ferma restando la necessità di un ripensamento profondo, in senso realmente meritocratico, di tutta l’architettura dell’esame di avvocato, restituirgli la dignità perduta è una sfida ardua ma non impossibile. Basterebbe partire proprio dalla disciplina degli stessi candidati, che già solo se messi in condizione di rispettare l’assegnazione dei posti prevista dal regolamento eviterebbero l’oscenità delle file ai varchi già dalle primissime ore del mattino, o ancora eviterebbero i soliti momenti di panico all’apertura dei cancelli, durante i quali persone vengono letteralmente travolte e alcune persino calpestate. Stesso discorso vale però anche per commissari e presidenti di commissione affinché non si ripetano più atti di barbarie come quelli denunciati a Brescia, con i candidati maschi ammessi ad andare in bagno tassativamente con la porta aperta per evitare tentativi di copia. Se ciò non dovesse accadere, il fenomeno già repentino dell’abbrutimento della classe dell’avvocatura italiana, per come lo stiamo già conoscendo, non potrà che accentuarsi ulteriormente.

Esami di abilitazione il business dei corsi di preparazione. DAI COMMERCIALISTI AGLI AVVOCATI, DAI NOTAI AI MAGISTRATI, CHI VUOLE ISCRIVERSI A UN ALBO O VINCERE UN CONCORSO DEVE DECIDERE SE PAGARE SCUOLE PRIVATE CHE POSSONO COSTARE 2MILA EURO. LA LATITANZA DEGLI ORDINI E DELLE UNIVERSITÀ, scrive Patrizia Capua il 13 febbraio 2017 su "La Repubblica". Roma D al volontariato al business. Va da un estremo all’altro il mondo delle scuole che preparano i neolaureati agli esami di Stato in Italia. Ci sono corsi e tirocinii delle università colti ma generalisti, degli ordini professionali con molti limiti di capienza, delle scuole private aperte a tutti, ma costose e mordi e fuggi. Tra i farmacisti la preparazione alle prove è considerata una perdita di tempo perché si risolve in due o tre settimane di ripetizione di tutte le materie già studiate per la laurea appena presa; per gli aspiranti avvocati invece è un percorso a ostacoli, spesso ad alto prezzo, e dall’esito quanto mai incerto; per chi vuole diventare magistrato, la scuola pre-abilitazione è un passaggio lungo e costoso, lacrime e sangue anche per chi ambisce alla professione di commercialista. Solo alcuni esempi.

I notai. Gli aspiranti hanno l’obbligo di 18 mesi di pratica, sei dei quali durante l’ultimo anno d’università, e poi devono studiare duro per il concorso. Sedici scuole degli ordini, sparse per tutto il paese, e per non più in totale di 600 allievi, a prezzi ‘politici’ da 300 a 700 euro, a fronte dei 1600 che nel 2015 si sono presentati al concorso. Dunque spazio alle private. Michele Labriola, consigliere nazionale del notariato con delega all’accesso, spiega che “le scuole istituzionali tendono a una formazione deontologica, oltreché pratica e teorica. Le altre, certamente più costose e interessate al business, accelerano sulla preparazione e puntano al superamento dell’esame”. C’è anche la soluzione on line, come ha sperimentato con successo la Galli, a Roma e Napoli, scuola a conduzione familiare che tiene corsi in videoconferenza.

I medici. Gli aspiranti possono studiare su migliaia di quiz, quest’anno sono stati 6500, che il Miur pubblica sul proprio sito, 180 dei quali, a caso, vengono presi per il test di abilitazione. Roberto Stella Varese, responsabile per la formazione della Fnomceo (la federazione degli ordini dei medici) sintetizza: “La preparazione è prevalentemente spontanea. Questa strada offerta dal Miur è per i giovani una bella opportunità. Esistono però anche delle società private che offrono corsi. Sono un po’ specchietti per le allodole. È come andare a fare l’esame della patente di guida, un business come tanti che costa diverse centinaia di euro”. Con questa formula, nel 2015 i promossi sono stati il 96%. “Gli esami – conclude Stella Varese – in fondo sono un corollario. Vale di più il tirocinio abilitativo di tre mesi”.

Gli avvocati. La pratica forense è il miglior viatico, secondo il professor Salvatore Sica, vice presidente della Scuola superiore dell’avvocatura. L’ordine nazionale ha 80 scuole, 50 iscritti a testa, per 160 ore di corsi in 18 mesi, con prezzi variabili, dalla gratuità assoluta a rimborsi spese fino a 700 euro. “La scuola – afferma la consigliera Francesca Sorbi – dovrebbe dare al tirocinante competenze professionali oltre allo studio. Però c’è un salto tra il corso professionalizzante e l’accesso che ha ancora forti basi nozionistiche”. A Roma è iniziato il sesto corso della fondazione ‘Vittorio Emanuele Orlando’. Del tutto gratuito, si tiene nell’aula avvocati della Cassazione. Al bando dello scorso gennaio ha ricevuto 400 domande su un bacino di 2800 candidati all’esame, numero che già risente della crisi di questa professione. Il direttore Riccardo Bolognesi porta all’esame 200 allievi. “Nelle lezioni – precisa - partiamo dal caso concreto, dalla sentenza o dalla fattispecie, per poi elaborare i principi giuridici. Dopo anni di studi universitari, l’approccio concreto è un’altra cosa”. Lezioni da gennaio a novembre e 15 esercitazioni scritte. Quest’anno c’è l’incognita della riforma che vieta i codici commentati agli esami, anche se si parla di una proroga. Senza codice sarà un bagno di sangue”. Le private scaldano i motori, sono tante e con tariffe fino a 2000 euro. “La competizione c’è sempre stata – osserva Bolognesi - alcuni fanno un buon lavoro, altri sono avventurieri che si mettono sul mercato”. Le università cercano di recuperare terreno per ottenere l’accreditamento in vista della riforma che renderà obbligatorie le scuole. E premono per collaborare con gli ordini. A Palermo “lo stanno facendo due atenei pubblici e uno privato”, racconta l’avvocato Francesco Greco, del Consiglio forense che nella scuola Ferdinando Parlavecchio ha 130 iscritti. Quota di iscrizione più rimborsi spese. “Cerchiamo di dare una formazione giuridica completa, a differenza delle scuole non ufficiali che sono esamifici. Da quelle escono ragazzi in grado di superare gli esami, ma non dei giuristi”.

I commercialisti. Sul fronte dei commercialisti, al costo di otto euro l’ora, la scuola dell’ordine di Milano, ‘Felice Martinelli’, tiene da più di vent’anni corsi di 200 ore in collaborazione con le università milanesi per i praticanti. “Si fa ripasso – spiega la coordinatrice Alessandra Tami – e aggiornamento su consulenza finanziaria, fiscale, societaria, norme fallimentari e le operazioni di finanza straordinaria”. Professionisti e docenti universitari sono volontari. Sessanta allievi in media, iscritti in orari non d’ufficio in quanto il corso non sostituisce il tirocinio di 18 mesi. Non è più tempo di folle oceaniche perché, come avverte Domenico Posca, il numero degli studenti che si iscrive al registro dei praticanti per andare agli esami, è calato del 30% negli ultimi tre anni.

Gli ingegneri. Gli aspiranti, spiega il numero uno Giuseppe Zambrano, dispongono di corsi gratuiti su come si gestisce un’opera pubblica, la sicurezza in cantiere, la deontologia professionale. In Veneto e in Toscana, dice il presidente nazionale Giuseppe Capocchin, grazie a protocolli con l’università, i praticanti architetti fanno il tirocinio di sei mesi in uno studio che gli consente di saltare la prova scritta, e vengono retribuiti con 400 euro al mese. I farmacisti. Per Titti Faggiano, farmacista, direttore scientifico della Sifo, i programmi universitari sono teorici e i corsi non obbligatori per l’esame uno stress inutile. “Se per fare un’attività di laboratorio non vale la laurea, allora c’è qualcosa che non funziona. In questi corsi di abilitazione c’è qualcuno che specula”.

L’infirmitas sexus fu cancellato nel 1919 dal Parlamento, scrive il 5 marzo 2017 "Il Dubbio". Infirmitas sexus. Il principio giuridico dell’impedimento dovuto al sesso è stato forse il più duro da rimuovere nell’ordinamento italiano, che le battaglie per l’uguaglianza hanno dovuto raschiare via pezzo per pezzo dalla legislazione e dai codici civile e penale. Un capestro che ha reso cieche e sorde le donne, nel quale far rientrare ogni tipo di pregiudizio: l’incapacità di autonomia, l’ignoranza, la natura domestica, l’inferiorità fisica, addensati in una locuzione tranciante utilizzata come inappellabile argomento giuridico. Proprio con la ragione dell’infirmitas sexus, la Cassazione di Torino confermò il divieto di iscrizione all’Ordine degli Avvocati di Lidia Poët, nell’aprile 1884. Con la stessa motivazione, nel 1906 la Corte di Appello di Firenze escluse l’iscrizione femminile nelle liste elettorali: «la donna ob infirmitatem sexus non ha né può avere la robustezza di carattere, quella energia fisica e mentale necessaria per disimpegnare come l’uomo le pubbliche cariche». Nella legislazione, invece, il principio di tradizione romanistica conservò solida rappresentazione nell’istituto dell’autorizzazione maritale, sancita dall’articolo 134 del codice di derivazione napoleonica del 1865: «La moglie non può donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l’autorizzazione del marito». A sgretolare il baluardo dell’infirmitas sexus fu, per prima, la legge 17 luglio 1919, n. 1176. Una legge di otto articoli, rubricata “Norme circa la capacità giuridica della donna” e firmata dall’allora Guardasigilli Ludovico Mortara ma passata alla storia come legge Sacchi (dal nome di Ettore Sacchi, giurista e ministro della Giustizia del Regno d’Italia fino al gennaio 1919). All’articolo 1, la norma abroga interamente l’istituto dell’autorizzazione maritale, riconoscendo dunque piena capacità giuridica alla donna nella disposizione dei propri beni. All’articolo 7 sancisce, invece, la svolta epocale nell’esercizio delle libere professioni: «Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espresse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento». E’ grazie a questa previsione esplicita che si aprono le porte alla legittima iscrizione agli albi forensi delle professioniste donne, fino a quel momento impedite dalla giurisprudenza costante (in mancanza di una esclusione esplicita di legge) ad indossare la toga. Nelle parole del legislatore, tanto chiare quanto necessarie nel determinare il futuro di una generazione di giuriste sino a quel momento ignorate dallo Stato, si sancisce definitivamente una presa d’atto del cambiamento dei tempi, riconosciuto anche nella relazione sul progetto di legge della Commissione del Senato. «Il disegno di legge si riferisce a questioni ripetutamente dette mature», esordì in Aula il senatore relatore Bensa. Mature anche perchè «se n’è impadronita l’opinione pubblica con un largo movimento nel senso delle riforme contemplate dal questo disegno di legge». Se quasi pacifica è l’abrogazione dell’istituto di diritto civile «reclamata insistentemente sia da correnti femministe che da correnti giuridiche», il relatore si soffermò soprattutto sulla questione dell’apertura alla professione forense: l’articolo, infatti, infrange «espressamente e risolutamente una tradizione di molti secoli» e che trova la sua giustificazione emblematica nel fatto che il diritto debba rimettersi al passo coi tempi, visto che gli ordinamenti scolastici «aprirono alle donne il conseguimento di quei diplomi che sono l’immediato e principale presupposto dell’abilitazione alle cosiddette professioni liberali». Eppure, su un punto così delicato e osteggiato dalle parti più reazionarie della società e dell’accademia italiana, la commissione raggiunse l’unanimità, «unanimità sulla quale ci piace insistere, perchè riflette il punto veramente sociale e politico del progetto». Così, nel 1919, un Parlamento di soli uomini e composto soprattutto di giuristi aprì le porte dei tribunali alle avvocate. Bisognerà aspettare invece il 1963 perchè cadano le esclusioni previste dalla seconda parte dell’articolo 7 della legge Sacchi e le donne possano partecipare al concorso in magistratura, vedendo riconosciuto, massimamente nelle aule di giustizia, il principio di uguaglianza e la definitiva infondatezza dell’umiliante “impedimento dovuto al sesso”.

Lidia Poët, la prima avvocata a chiedere l’iscrizione, scrive Giulia Merlo il 5 Mar 2017 su "Il Dubbio". La richiesta di iscrizione all’ordine di Lidia Poët fu accolta, ma venne cancellata nel 1883 con una sentenza della Cassazione, continuò a praticare nello studio del fratello, fino alla legge del 1919. «L’avvocheria è un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non devono punto immischiarsi le femmine». E anzi, sarebbe stato «disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste». Con queste parole scritte dai giudici – tutti uomini – della Corte d’Appello di Torino, nel novembre 1883 l’avvocata piemontese Lidia Poët venne cancellata dall’albo degli avvocati di Torino. Due anni prima, l’iscrizione di una donna, la prima nel Regno d’Italia, all’Ordine degli Avvocati aveva suscitato un silenzioso scandalo nelle aule dei tribunali sabaudi. Eppure lei, con ferrea logica di giurista, per accedere aveva utilizzato la più ovvia delle procedure: quella prevista dalla legge. Il 17 giugno 1881 si era laureata a pieni voti alla facoltà di giurisprudenza di Torino, con una tesi sulla condizione femminile in Italia e sul diritto di voto per le donne. Poi si era iscritta alla pratica forense, superando brillantemente al primo tentativo l’esame di procuratore legale. A quel punto, come tutti i suoi colleghi uomini, inoltrò la richiesta di iscrizione all’Ordine. Nessuna giustificazione allegata, solo il rispetto scrupoloso di ogni norma di legge, che per l’iscrizione prevedeva la laurea, lo svolgimento della pratica e il superamento di un esame, ma soprattutto non poneva alcun esplicito divieto all’iscrizione di una donna. L’insolita richiesta, la prima sottoscritta da una donna esaminata da un Consiglio dell’ordine degli Avvocati, suscitò un accesissimo dibattito e non poche polemiche nel mondo giuridico torinese. Le donne nel Regno d’Italia non avevano il diritto di voto, era ancora in vigore l’umiliante istituto dell’autorizzazione maritale e mai nessuna prima di allora aveva osato accostarsi alla professione forense. Il dibattito all’interno del Consiglio si concluse in favore dell’iscrizione, con 8 voti favorevoli e 4 contrari. La motivazione: nessuna norma vietava alle donne l’accesso all’Ordine. Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, recitava un provvidenziale brocardo latino. Ad indignarsi maggiormente perché una donna calcava i lunghi corridoi dei palazzi di giustizia non però fu un avvocato, ma un magistrato. L’allora Procuratore Generale del Re non gradiva vedere quella signora in toga che patrocinava le udienze, firmava gli atti e si confrontava con lui da avversaria, per questo prese l’iniziativa di denunciare l’anomalia di tale presenza alla Corte d’Appello. L’avvocata Poët si difese, replicando e portando esempi di donne che, in altre nazioni europee, svolgevano legittimamente la professione forense. A nulla valsero però le obiezioni: la Corte d’Appello di Torino accolse le ragioni del procuratore e ritenne che quello di avvocato fosse da considerarsi un ufficio pubblico e, in quanto tale, la legge vietava espressamente che una donna potesse ricoprirlo. Che la presenza di un’avversaria di sesso femminile nelle aule di giustizia infastidisse più i magistrati che i colleghi avvocati, tuttavia, risultò chiara dalle motivazioni redatte dai giudici: la presenza di una donna al banco della difesa avrebbe compromesso «la serietà dei giudizi e gettato discredito sulla magistratura stessa» perché, se l’avvocata avesse vinto la causa, le malelingue avrebbero potuto malignare che la vittoria sarebbe stata dovuta «alla leggiadria dell’avvocatessa più che alla sua bravura». Con la perseveranza che gli stessi uomini riconoscevano al «gentil sesso», Lidia Poët non si arrese e presentò un articolato ricorso alla Corte di Cassazione. Con altrettanta coerenza, la Suprema Corte confermò la decisione dei giudici della Corte d’Appello. A Lidia Poët venne dunque tolta la toga dalle spalle e non poté più esercitare a pieno la professione. Dimostrò, tuttavia, che non era il titolo formale a renderla avvocato: il divieto di patrocinare non le impedì infatti di rimanere a lavorare nello studio legale del fratello Enrico, che le aveva trasmesso l’amore per il diritto e l’aveva convinta ad iscriversi a giurisprudenza. Nello stesso anno del suo allontanamento dall’Ordine, tuttavia, la sua conoscenza giuridica le permise di partecipare al primo Congresso Penitenziario Internazionale a Roma e nel 1890 venne invitata come delegata a San Pietroburgo, alla quarta edizione del Congresso. Fece parte del Segretariato del Congresso Penitenziario Internazionale, rappresentando l’Italia come vicepresidente della sezione di diritto. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, poi, lasciò lo studio e divenne infermiera volontaria della Croce Rossa, venendo insignita della medaglia d’argento al valor civile. Per i 37 anni successivi alla sua imposta cancellazione dall’albo, Lidia Poët non interruppe mai l’esercizio concreto della professione, specializzandosi nella tutela diritti dei minori, degli emarginati e delle donne. Alla fine, proprio la perseveranza che la aveva spinta a combattere per rimanere iscritta all’albo forense, anche a costo di dare scandalo nel suo stesso foro, ottenne ragione giuridica. Nel luglio 1919, infatti, il Parlamento approvò la legge Sacchi, che autorizzava ufficialmente le donne ad entrare nei pubblici uffici, ad esclusione della magistratura, della politica e dei ruoli militari. Così, nel 1920, Lidia Poët poté finalmente ripresentare – con immediato accoglimento – la richiesta di iscrizione all’Ordine degli Avvocati. All’età di 65 anni tornò ad indossare la toga che le era stata tolta e ad utilizzare il titolo di avvocato. Ad una battaglia vinta, però, ne seguì subito un’altra: due anni dopo divenne presidente del Comitato italiano pro voto delle donne. Anche quella per la conquista del voto femminile fu una battaglia ultra decennale, ma Lidia Poët pervicacemente riuscì a vedere il frutto anche di questi suoi sforzi: si spense a 94 anni il 25 febbraio 1949, ma non prima di aver votato alle prime elezioni a suffragio universale in Italia, nel 1946. La definitiva vittoria di quel principio di uguaglianza – almeno in diritto – per il quale si era battuta tutta la vita, da avvocato ma soprattutto da donna.

La passione di Elisa Comani: «Noi avvocate vinceremo solo se unite», scrive Giulia Merlo il 6 Mar 2017 su "Il Dubbio". Fu la prima donna iscritta all’albo degli avvocati di Ancona e i giornali la descrissero come una “sirena in decollété”. Fu suffragetta e socialista, patrocinò il processo contro i militari in rivolta alla caserma di Villarey. Aveva tutti gli occhi addosso: mille sguardi inclementi che la facevano «vacillare sotto il peso della grave responsabilità» di un pubblico quasi morboso e prevalentemente femminile, corso a «giudicare se la donna abbia meritato o meno d’essere ammessa nell’arringo forense». Così descrisse il suo debutto in toga alla rivista La donna, l’avvocata Elisa Comani. Era il 1920 e quella causa difficile quanto di successo – difese un soldato accusato di codardia nel famoso processo Villarey, davanti al tribunale militare di Ancona – misurava agli occhi della società non solo la sua perizia professionale, ma quella dell’intero genere femminile. Lei arringò per più di un’ora davanti alla corte e «i sorrisi tra l’incredulo e lo scettico che avevo notato all’inizio della discussione su molti visi erano andati scomparendo: gli ascoltatori evidentemente andavano modificando il loro giudizio su una donna in toga», concluse la Comani. Purtroppo per lei, tuttavia, i cronisti dell’epoca non lesinarono attacchi taglienti a quella «signora» che pretendeva di svolgere una professione tipicamente maschile. «Sirena in décolleté», la definì il cronista de La toga di Napoli che raccontava il processo. Segno di come il diritto – la legge Sacchi, che consentiva espressamente alle donne di iscriversi agli ordini forensi, era stata approvata nel 1919 – stentasse a consolidarsi nella prassi e a scalfire il pregiudizio. Prima di lei, era toccato alla torinese Lidia Poët, che aveva combattuto e perso la battaglia per l’iscrizione già alla fine dell’Ottocento, potendo infine iscriversi a 65 anni e dopo una vita passata a lavorare nello studio del fratello, senza utilizzare il titolo. Elisa Comani, invece, faceva parte di quella seconda generazione di donne che sperimentava per prima il godimento di un diritto stabilito sulla carta ma guardato con diffidenza nelle aule di tribunale. «Non posso immaginare che gusto particolare provi la signorina anconetana ad esercitare questa professione legale fra le meno attraenti e simpatiche del mondo e non posso nemmeno credere che abbia tutte le doti naturali per fare una grande carriera», scriveva Carlo Beniamino sulla rivista satirica torinese Pasquino, quando la notizia dell’iscrizione della Comani all’albo dei procuratori aveva fatto il giro del Paese. Del resto, per lui era scontato che «Se è bella non le mancheranno bensì i clienti che le vorranno affidare le loro cause, non tanto per la tutela degli interessi quanto per farle la corte» e dunque «non è avventato pronosticare per la signorina uno scarsissimo successo professionale, ed una breve durata della carriera». E forse, infatti, ad adontare più di tutto gli osservatori maschili dell’epoca che guardavano con sospetto le toghe femminili non era tanto il diritto teorico all’accesso, quanto il pratico successo professionale. Ma a smentire il cupo pronostico, un anno dopo, furono i fatti. Elisa Comani, che si era avvicinata in giovane età ai circoli socialisti anconetani, assunse la difesa di otto militari e tre civili nel “processo Villarey”, che prendeva il nome della caserma dove era scoppiato l’ammutinamento di alcuni soldati contro la decisione del governo di Giovanni Giolitti di mandare le truppe a reprimere una rivolta scoppiata nel presidio italiano di Valona, in Albania. Il processo vide presenti a difesa degli imputati alcune tra le maggiori personalità del foro anconetano e la giovane Comani, appena ventottenne, sostenne la difesa davanti alla corte militare, argomentando di «non potersi colpire pochi individui per un fatto collettivo al quale hanno partecipato tutti i militari che nella notte dal 25 al 26 giugno 1920 erano nella caserma Villarey». E nel tumultuoso dopoguerra, Elisa Comani è forse la prima donna a riconoscere e ad enfatizzare il ruolo sociale dell’avvocato, accettando la difesa di donne che avevano iniziato a lavorare in assenza degli uomini andati in guerra e che, una volta tornati, volevano ricacciarle nella «sfera domestica familiare», rispedendole dietro al focolare «come un limone spremuto». Del resto, anche in prima persona affronta i tumulti emancipazionisti dell’inizio del Novecento, tanto da sacrificare la sua stessa professione: lei e il marito decisero di separarsi, utilizzando il cosiddetto “divorzio fiumano” (secondo la convenzione dell’Aja del 1902, l’Italia riconosceva le sentenze di divorzio pronunciate nella città-stato indipendente di Fiume). Così, però, la Comani perse la cittadinanza italiana e dunque un requisito essenziale per l’iscrizione all’albo forense, dal quale venne cancellata nel 1923. Dopo il secondo matrimonio col collega Enrico Malintoppi (che fu senatore e sottosegretario alla Difesa-Aeronautica nel quarto governo De Gasperi) riprese la cittadinanza e si reiscrisse all’Ordine ed anche l’attività politica con i socialisti, battendosi soprattutto nelle campagne per il suffragio femminile. Una vita, la sua, passata a combattere per veder riconosciuta la propria professionalità, ma con la consapevolezza dell’onere pesante sulla sua generazione, la prima ad emanciparsi dalle incrostazioni ottocentesche dell’inferiorità femminile: restituire il senso collettivo delle conquiste della donna, per rendere vivi nella società quei diritti sanciti dalle norme. «La conquista completa della pubblica opinione non sarà né lieve né facile e potrà essere solo abbreviata se entreranno coraggiosamente in lizza colleghe, e non ne mancano di grande valore e intelletto» diceva nel 1920, in un’intervista dal titolo emblematico di Impressioni di una neo-avvocatessa. Eppure ne era certa: «Vinceremo, ma perché questo avvenga presto bisogna che noi poche pioniere abbiamo fede e forza soprattutto che siamo unite nella dura lotta intrapresa». E della sua lunga vita – Elisa Comani si spense a 92 anni, nel 1975 – fatta di lotte appassionate come avvocata, come segretaria generale del Consiglio nazionale delle donne italiane e membro dell’Unione giuriste italiane, risuona forte quel «vinceremo» pronunciato da giovane professionista e onorato in ogni sfida.

CHI MANGIA SULLE NOSTRE BOLLETTE.

Il grande banchetto dell’energia elettrica. Un miliardo scaricato sulle bollette delle famiglie, scrive Lorenz Martini su "it.businessinsider.com" il 13 gennaio 2017. Gennaio in Italia è mese di “ondate di freddo siberiano”, saldi e aumenti tariffari. Tra i rincari scattati i 1° gennaio, oltre a quelli di autostrade (+5%) e gas (+4,9%), c’è anche quello dell’energia elettrica. Il ritocco all’insù è stato dello 0,9%, per una spesa elettrica annuale (al lordo delle tasse) per la famiglia-tipo nel periodo 1 aprile 2016-31 marzo 2017 pari a 498 euro. L’incremento, ha spiegato l’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico (Aeegsi), nel primo trimestre 2017, è determinato dall’atteso aumento dei costi di acquisto sul mercato italiano all’ingrosso, sempre più collegato con i mercati elettrici continentali sui quali si sono verificati forti rialzi; una crescita, aggiunge il Regolatore, compensata dal calo dei costi di “dispacciamento”, cioè da quei costi sostenuti dal Gestore della rete, Terna, per il mantenimento in equilibrio del sistema elettrico.

Dispacciamento. A dirla così, il normale essere umano capisce che spendiamo di più per colpa degli “stranieri”, ma che per fortuna risparmiamo grazie al mercato italiano. Ma sarebbe una lettura errata, visto che il mercato energetico del nostro Paese nel 2016 è stato oggetto di una delle più grandi speculazioni finanziarie mai registrate dai tempi della liberalizzazione del 1999. E proprio il Mercato del dispacciamento è stato il terreno di battaglia, dove tra aprile e giugno scorso oltre un centinaio tra produttori e trader di energia hanno realizzato guadagni tra gli 850 milioni e il miliardo di euro (la cifra esatta ancora oggi nessuno è in grado di quantificarla), vale a dire una cifra nettamente superiore rispetto ai mesi precedenti. Un banchetto noto soprattutto ai tecnici, ma che ha influito direttamente sulle bollette degli italiani.

Il mercato del giorno prima…Semplificando molto, il mercato dell’energia funziona così: dato che l’energia elettrica non è immagazzinabile, il gestore di rete Terna deve essere sicura che alla domanda di energia del Paese, corrisponda in tempo reale l’approvvigionamento necessario, per evitare blackout. L’energia viene comprata e venduta nella borsa energetica nel cosiddetto “Mercato del giorno prima”, dove si tenta di prevenire il fabbisogno dell’indomani, gli operatori fanno le loro offerte e il prezzo finale si crea dall’incontro di domanda e offerta. Stabilito il quanto costerà quel Kilowattora in quella determinata ora, tutti i pacchetti energetici vengono venduti e acquistati al prezzo di equilibrio. Su questo mercato – particolare importante – per legge si devono accettare prima le offerte economiche più basse provenienti dai produttori di energia rinnovabile, che godono di una corsia preferenziale, come in molti altri paesi europei.

… e quello di riparazione. Ma, la domanda/offerta prevista il giorno prima non può essere mai precisa al kilowattora richiesto o offerto effettivamente in tempo reale (anche perché le rinnovabili sono soggette alle bizze del tempo) e poiché si possono verificare inconvenienti o intasamenti di linea, esiste un secondo mercato, quello dei Servizi di Dispacciamento, che funziona come una sorta di mercato di “riparazione”, al quale Terna, unico acquirente, ricorre per aggiustare le proprie necessità immediate. Compra dai produttori e trader se ha bisogno di immettere energia, o li paga per non produrre, quando ne ha troppa. E qui, a differenza del Mercato del giorno prima, produttori e trader possono fissare il prezzo liberamente per tutta una serie di servizi necessari a Terna, forti del fatto che questi ultimi sono necessari per poter mantenere il sistema elettrico in equilibrio e garantire una qualità adeguata della fornitura (es. voltaggio).

Il venditore la fa da padrone. «Il mercato del dispacciamento è diventato sempre più importante. Infatti da un lato quello del Giorno prima è spesso dominato dalle rinnovabili che hanno costi variabili pari a zero e che sono intermittenti e incostanti e quindi hanno spesso bisogno di aggiustamenti successivi. Dall’altro le società che producono energia, non riuscendo a rimanere profittevoli nel mercato del giorno prima, cercano nuove fonti di guadagno nel mercato di dispacciamento, visto che lì con Terna, in alcuni periodi, hanno il coltello dalla parte del manico», spiega Matteo Di Castelnuovo, Direttore del Master in Green Management, Energy and Corporate Social Responsibility (MaGER) all’UniversitàBocconi. Insomma, sul mercato di “riparazione” il venditore la fa da padrone.

Da 40 a 600 euro al Megawattora. E proprio sul mercato del dispacciamento, tra aprile e giugno del 2016 si sono registrati picchi anomali di costi, con prezzi medi di 70 euro/MWh, contro i 40 euro/MWh del Mercato del giorno prima. Ma le punte massime di speculazione hanno toccato anche i 600 Euro/MWh! Solo ad aprile, per capirci, i maggiori costi del dispacciamento hanno superato i 300 milioni. Come ciò sia stato possibile è facilmente spiegabile: la gran parte dei produttori e dei trader hanno modificato le loro strategie nel Mercato del giorno prima, in modo da potenziare il loro potere di mercato (e la loro redditività) su quello secondario. Inoltre, hanno individuato, i momenti nei quali, statisticamente, il Mercato di “riserva” registrava i suoi picchi. E ne hanno approfittato. Parliamo di decine di operatori, grandi e piccoli, che si sono seduti a un banchetto durato almeno tre mesi e hanno mangiato per oltre un miliardo! Tutti costi scaricati sulle bollette degli utenti finali. Cioè, noi consumatori. Non solo: se l’energia costa di più, anche le aziende subiscono un danno e quindi, a loro volta, scaricano i costi sui prezzi dei prodotti, con il risultato che il consumatore ci ha rimesso due volte. Capito il giro? Il conto salatissimo del banchetto non è sfuggito all’Aeegsi, la quale a giugno scorso è intervenuta imponendo agli operatori di interrompere ogni pratica “riconducibile a strategie anomale di programmazione e di offerta ”; ha avviato “procedimenti per l’adozione di provvedimenti prescrittivi e/o di regolazione asimmetrica” a tappeto per tutti i player accusati di non essersi attenuti ai “principi di diligenza, prudenza, perizia e previdenza”, previsti dalla propria normativa; ha minacciato di richiedere indietro i guadagni ottenuti. Infine, ha anche promesso che “sarà garantito in modo automatico il rimborso in bolletta degli importi che verranno recuperati con l’attività di indagine”. Una fortissima presa di posizione che ha immediatamente portato tutti gli attori a interrompere le pratiche speculative, determinando così quel calo dei costi di “dispacciamento” cui ha fatto cenno il Garante annunciando l’aumento delle tariffe. Ma gli utenti farebbero bene ad aspettare a stappare lo champagne, perché quei soldi difficilmente torneranno nelle loro tasche. Come spiega un trader, infatti, gli operatori non ritengono di aver fatto nulla di illegale: “Io, come moltissimi miei concorrenti, ho solo approfittato di un buco nel sistema normativo elaborato dalla stessa Authority. La “diligenza” auspicata, nel mio caso, va verso i miei azionisti, non verso il pubblico. E ora, il Garante vuole chiedermi indietro i soldi e per di più in modo retroattivo? Ma siamo pazzi?”. Un discorso difficilmente attaccabile, tanto che a fine dicembre sono già arrivate le prime archiviazioni da parte del Garante. Inoltre è sicuro che tutti gli operatori ancora sotto indagine – i cui nomi il Garante non ha reso noti –, se verranno condannati, faranno ricorso al Tar e, eventualmente, al Consiglio di Stato. Quindi, ben che vada, potremo rivedere quei soldi nelle nostre bollette tra 10 anni! In realtà, due dei “commensali”, sono noti, Enel e Sorgenia, ma solo perché i due big sono finiti sotto indagine anche dell’Autorità per la Concorrenza che a ottobre scorso ha aperto nei loro confronti un procedimento per abuso di posizione dominante. Per questi, il termine del procedimento è fissato al 30 maggio 2017. 

L'ITALIA ALLO SBANDO.

Siamo i figli illegittimi di un'Italia allo sbando, concepiti per sbaglio, cresciuti a caso, morti da sempre - scrive Valentina Rossi (Psychedelic) l'1 ottobre 2011.

Siamo la generazione dei sogni spezzati, della testa piena e del portafogli vuoto, della malinconia e dell'ignoranza. Siamo quelli tagliati per il successo, ma fatti a pezzi dagli arrivisti, dal potere e dalla borsa di Milano costantemente in ribasso. Siamo i figli di genitori assenti, divorziati, scoppiati. Siamo i fratelli di nessuno, nipoti di nonni meravigliosi sepolti sottoterra da questo destino del cazzo.

Abbiamo grandi idee, grandi progetti, grandi prospettive, grandi speranze. Abbiamo libri letti e riletti, DVD consumati, cd in pessime condizioni, pupille dilatate, spalle lussate dal troppo peso che abbiamo sostenuto.

Abbiamo amori violenti, delusioni catastrofiche, neuroni bruciati, jeans strappati e buoni propositi mai messi in atto.

Siamo i figli di quest'Italia in croce, nemmeno fosse Cristo; abbiamo idee rivoluzionarie e poca dose di coraggio nelle vene, abbiamo i piedi per terra e la testa in America.

Sogniamo la California, l'Australia, l'Inghilterra, o una qualsiasi terra promessa. Ingrati noi, vogliamo andarcene da qui, vogliamo cambiare il mondo, vogliamo pistole che sparino margherite, politici onesti, metropolitane pulite, Bukowski come Dio e l'antologia dei Beatles come bibbia.

Siamo i figli senza nome, nè volto. Siamo quelli risucchiati dalle pubblicità dei cereali e dal capitalismo, quelli che darebbero l'anima pur di fare il lavoro dei sogni, e non il culo come fanno in molti.

Siamo la generazione degli sfigati per i figli di papà, quella dei falliti per professori e genitori, quella vergognosa per i vecchietti fascisti. Siamo sempre e comunque quelli sbagliati, quelli che non andranno mai lontano, quelli che moriranno con la siringa sparata in vena, quelli pronti a vivere e a morire per amore, quelli che avranno sempre il rimpianto degli anni '70.

Quelli nati nel posto sbagliato, nell'epoca sbagliata, nel mondo sbagliato.

"Italia allo sbando" Fotografia di un declino. Il nuovo libro di Augusto Grandi è quasi un'autopsia, scrive Il Nodo di Gordio, Lunedì 9/01/2017 su "Il Giornale". È impietoso l’affresco a tinte fosche del Belpaese illustrato da Augusto Grandi nel suo ultimo libro “Italia allo sbando. Lavoro, commercio, cultura. Un’immagine, quella dell’attuale situazione italiana, che lascia poco spazio alla speranza di una rinascita culturale ma anche di una ripresa economica in questo primo scorcio del Terzo Millennio. Una nazione ormai abbandonata al suo destino dall’Europa Carolingia, quella a guida franco-tedesca, che ha perso anche la sua storica proiezione nel Mediterraneo dopo il deterioramento dei rapporti privilegiati con i dirimpettai nordafricani – Libia ed Egitto in testa – e con i partner del Medio Oriente divenuto ormai un caotico e pericoloso scacchiere in mano a Russia, Turchia, Stati Uniti ed Iran. Condannata a passare da penisola geografica ad isola politica, l’Italia sta subendo da decenni una progressiva decadenza economica e culturale. E c’è ben poco da gloriarsi se possiamo ancora vantare il patrimonio artistico più imponente al mondo se in realtà i musei e le opere d’arte non vengono affatto valorizzati, generando irrisori introiti per le casse dello Stato e nessun ritorno in termini occupazionali. E poco importa se i giovani – quelli sbeffeggiati recentemente dal Ministro del Lavoro Poletti – fuggono all’estero in cerca di un’occupazione, ché tanto in Italia non si trovano posti disponibili e quei pochi che ci sono vengono sottopagati e sviliti da una crescente precarietà. Un’Italia dove il “ceto medio” – a lungo spina dorsale del Paese – sta letteralmente scomparendo, costretto dall’aggravarsi della situazione economica generale a scivolare al livello di mera sussistenza. Un’Italia, insomma, condannata ad un futuro di povertà quella descritta dall’autore. Premio St. Vincent di giornalismo e cofondatore del think tank di geopolitica “Il Nodo di Gordio”, Augusto Grandi è un giornalista de “Il Sole 24 Ore” che, da qualche decennio, racconta l’imprenditoria nazionale, i suoi successi in Italia ed all’estero ma anche gli evidenti limiti. Quelli legati al fisco, alla burocrazia, alle pressioni sindacali, fino all’incubo di Equitalia. In Italia – dicono gli imprenditori – non si può fare impresa e molto spesso le aziende chiudono o vengono cedute a società estere. Ma perché – si chiede l’autore – quando le stesse aziende vengono acquisite da multinazionali straniere, il nuovo management riesce a fare comunque business pur continuando a produrre in Italia? Il problema risiede nella mediocrità dell’attuale classe dirigente ed imprenditoriale che manca di adeguata formazione e di reale spirito collaborativo. Quel “fare rete” e “fare sistema” di cui tanto si parla nei convegni ma che viene messo in pratica poco e male. A partire dalla necessità di comprendere che internazionalizzare non significa delocalizzare le produzioni, né cedere la mano ad aziende straniere ma implica lo forzo di ripensare la propria impresa con nuove tecnologie, nuovi prodotti e nuovi processi in grado di reggere la concorrenza globale. Puntando sui comparti che possano garantire redditività, sviluppo, occupazione. “Avio ed aerospazio, macchine di precisione, alimenti e vini di qualità, design, tessile e abbigliamento di altissimo livello e di produzione esclusivamente nazionale, mobilità intelligente, costruzioni navali, impiantistica”. Perché il libro di Grandi può sembrare a tratti un’autopsia di un Paese deceduto sotto i colpi della globalizzazione ed affetto dalla decadenza della sua classe imprenditoriale e politica. Ma non tutto è perduto. In “Italia allo sbando” infatti, i capitoli finali sono dedicati a tracciare un percorso per uscire dall’anemica e ansimante condizione che affligge il territorio nazionale. Una lenta agonia che può essere interrotta, rilanciando le eccellenze del nostro Paese. Esempi virtuosi da seguire ce ne sono e sono significativi. Dal distretto di Torino che – anche senza la Fiat americana di Marchionne – realizza produzioni di altissima qualità alle start up e agli incubatori di aziende sviluppati in collaborazione con le Università ed i centri ricerca, fino alle vincenti politiche di distribuzione e commercializzazione dei prodotti agricoli promosse dal Trentino Alto Adige. Ciò presuppone però di indirizzare investimenti nel settore della ricerca e dell’istruzione che languono da troppi anni. Non solo. C’è bisogno di un rinnovato clima aziendale con maggiori garanzie e tutele per i lavoratori, in cui vengano davvero valorizzare le professionalità e le competenze dei dipendenti in una logica di reale meritocrazia, dove il rapporto di lavoro sia caratterizzato da un autentico spirito di collaborazione tra imprenditore e lavoratore. Ma sono davvero molte le proposte praticabili per uscire dalla crisi proposte dall’autore in questo agile volume. Perché – nonostante le critiche – Augusto Grandi crede ancora che l’Italia possa avere un futuro. Daniele Lazzeri Chairman think tank “Il Nodo di Gordio”.

L’Italia allo sbando, scrive il 03.11.2016 Tatiana Santi su "Sputniknews". L’Italia è in crescita, la crisi è finita, ci sono sempre meno disoccupati. Già, delle volte sembra che molti giornalisti italiani vivano in un altro Paese. Quello che i media non direbbero mai, ma che nel Belpaese tutti vivono sulla propria pelle è descritto nel libro di Augusto Grandi “L’Italia allo sbando”. Un'immagine dai toni pessimistici, ma allo stesso tempo una fotografia realistica del sistema Italia, dove, senza giri di parole, l'autore mette a fuoco i problemi più vivi del Paese. Nel suo libro Grandi non usa mezzi termini per descrivere la dura realtà, appoggiandosi a cifre e dati che parlano da soli. Augusto Grandi, giornalista e scrittore italiano Non è solo colpa di Renzi, l'autore nel suo libro rileva infatti un male collettivo più ampio, l'intera classe dirigente è coinvolta nel declino dell'Italia. Si tratta di un processo inarrestabile? L'Italia e i giovani saranno in grado di reagire? Sputnik Italia ne parlato con Augusto Grandi, giornalista e scrittore, autore del libro "L'Italia allo sbando" nelle librerie da novembre (Eclettica Edizioni).

Augusto, nel suo libro ha toccato temi di cui non si parla in termini così diretti. In tv non direbbero mai queste cose?

«Probabilmente ha ragione, né in tv né da altre parti direbbero queste cose e neanche cercherebbero di farle capire, che forse è ben peggio».

Nel libro come in un puzzle ha raccolto molti aspetti e problemi che preoccupano la gente.

«L'ha definito molto bene usando il termine "puzzle", perché sono tanti elementi che difficilmente vengono messi insieme. Ognuno solitamente analizza la piccola parte che conosce e ignora quelle che c'è intorno, invece è tutto collegato. Unendo i diversi aspetti abbiamo un quadro completo».

Dal lavoro all'università, dal Made in Italy al turismo, sembra che ogni settore non funzioni come dovrebbe. Il problema quindi è il sistema Italia stesso? Perché va tutto storto e la crisi è diventata strutturale?

«Perché abbiamo una classe dirigente disastrosa, non soltanto quella politica. Abitualmente tutti se la prendono con i politici, e hanno ragione a prendersela con loro, ma dimenticano che la classe dirigente è anche chi gestisce le aziende, il turismo. Il problema è la classe dirigente a 360 gradi, che è inadeguata alle sfide di oggi. Questo porta ad una crisi complessiva del sistema del Paese. Italia, il governo che vive in un altro Paese».

Perché ha deciso di scrivere questo libro? È un auspicio di cambiamento?

«Io vado verso il declino, ma avendo due figli giovani, vorrei che potessero vivere, lavorare e avere un futuro in questo Paese. Vorrei che potessero stare e vivere bene a casa propria».

Arrivati a questo punto, per salvare l'Italia, servirebbe una rivoluzione secondo lei?

«Serve una rivoluzione mentale e morale. Non c'è bisogno di andare con i carri armati per strada. Occorre però che le giovani generazioni intervengano e cambino questa realtà, che altrimenti si disintegrerà sempre di più. Ora c'è stato il terremoto e quindi non si parla d'altro, la realtà non è soltanto il terremoto fisico, ma un terremoto mentale. Vediamo un declino che sembra inarrestabile e serve che qualcuno si decida a cambiare radicalmente la situazione smettendo di accettare regole che non funzionano. Ci possono essere anche regole dure e ingiuste che portano a dei frutti, per il momento però il risultato è sempre e solo negativo. Questo vale per l'industria, l'agricoltura, il turismo. L'Italia era il primo Paese turistico del mondo negli anni '70, ora siamo diventati ottavi, direi un dato molto indicativo».

Lei dice che le giovani generazioni devono cambiare la situazione, ma che cosa dovrebbero fare nel concreto? Unirsi in qualche modo?

«Ovviamente. La classe dirigente, questo regime cerca di isolare le persone. Anche gli stessi social tendono a tenere separate le persone. La gente non si riunisce più, semplicemente si incontra sul web, si è persa la presenza fisica dello stare insieme. Questo rende tutti più deboli. Esistono però possibilità di reazione: lo abbiamo visto a Torino e Milano con il caso dei fattorini dell'azienda Foodora, che portavano a domicilio il cibo nelle case. Di fronte ad un nuovo cambiamento di retribuzione sempre peggiore e più precario, si sono ribellati e rifiutati di consegnare i pacchi, adesso l'azienda è stata costretta a ritrattare. Avere accettato sempre negli ultimi anni condizioni che arrivavano dall'alto ha portato ad un disastro totale. La gente deve cominciare a dire "basta". La logica è stata quella di portare sempre a più basso costo la manodopera, favorendo l'immigrazione. Si è scatenata così una guerra fra i poveri, portando a un peggioramento delle condizioni generali. Sanzioni, voce agli imprenditori messi in ginocchio da Renzi».

Come si immagina l'Italia in futuro quando i suoi figli saranno più grandi? Ha paura?

«Io ho molta paura per loro. Sono preoccupato perché non vedo grandi sbocchi, perché anche nei settori più strettamente italiani come la cultura, la storia, l'agricoltura non c'è sviluppo. Alcuni dati sono impressionanti. L'Italia, che ha il primo patrimonio artistico culturale mondiale, si ritrova in fondo alle classifiche per il numero di addetti in questi settori. Noi non difendiamo il nostro patrimonio, non lo valorizziamo e non lo rilanciamo in nessun modo. Questa è una follia totale».

Non c'è proprio speranza a suo avviso?

«C'è bisogno di un sistema alternativo. Se i giovani riusciranno a stare insieme e ad opporsi a questo destino c'è speranza. Le possibilità ci sono, perché non è un Paese rovinato nelle fondamenta, il problema è la sua gestione. Abbiamo per esempio un settore turistico che può essere rilanciato, basta che si facciano investimenti e che si ricominci a trattare le persone per quello che valgono davvero e non soltanto come manodopera. Una volta che si ricrea un clima di fiducia e si elimina la precarietà le cose cambieranno. Quando uno potrà lavorare tranquillamente senza pensare che cosa farà il giorno dopo perché magari il lavoro non ci sarà più. Le cose possono migliorare, perché quando una persona lavora con serenità dà il meglio di sé. Quando uno lavora subendo minacce di precarietà assoluta non dà per niente il meglio di sé. Quindi il primo cambiamento deve avvenire sul mondo del lavoro. Se cambia la mentalità, tutti i settori possono dare risultati migliori. L’Italia trema: mentre l’UE conta i decimali, la Russia aiuta».

Non resta che sperare in meglio e che questo declino sia una spinta per risalire.

«Certo, al peggio ci pensa già la classe dirigente. Noi possiamo solo sperare. Quando si tocca il fondo, poi si può risalire, noi però non sappiamo se abbiamo già toccato il fondo e stiamo ancora scavando. Quando si arriverà al declino totale del ceto medio, che era il cuscinetto fra le classi più povere e più ricche, crescerà una rabbia generale che dai social si trasformerà in vera protesta, probabilmente le cose allora cambieranno».

Gli italiani e lo Stato: giù la fiducia nei partiti, ma tra politica e social cresce la partecipazione. Rapporto Demos: si acuisce il distacco cittadini-istituzioni mentre la campagna referendaria ha riacceso l’interesse per le questioni pubbliche, scrive Ilvo Diamanti il 7 gennaio 2017. Nell'anno dell'anti-politica, mentre si acuisce il distacco dallo Stato e dai partiti, si assiste a un prepotente ritorno della politica. O meglio: della "partecipazione politica". Attraverso nuovi "media". Ma anche attraverso le forme più tradizionali. Internet e la piazza, insieme. A rinforzarsi a vicenda. Peraltro, all'indomani del referendum che ha bocciato la proposta di riformare la Costituzione, riemerge e si ripropone, ancora ampia, la domanda di riformare la Costituzione. E le istituzioni. Di emendare il bicameralismo. Di ridurre i costi della politica. Sono alcuni paradossi - apparenti - del XIX Rapporto "Gli italiani e lo Stato", curato da Demos per Repubblica. D'altronde, la campagna referendaria, per quanto aspra, ha, comunque, ri-educato gli italiani ai temi della Carta costituzionale. E ne ha concentrato l'attenzione intorno alle questioni pubbliche. Non solo, ma ha mobilitato gran parte dei cittadini. Li ha spinti al voto e, prima ancora, al dibattito. Nelle sedi politiche, ma anche nella vita quotidiana, negli ambienti privati. Sono gli effetti imprevisti di tanti mesi di confronto e divisioni. Alla fine hanno realizzato un esito unificante. Sotto altri profili, questo Rapporto riproduce un ritratto coerente con il passato. In alto, davanti a tutto e a tutti, nella classifica dei soggetti pubblici: Papa Francesco. E le Forze dell'Ordine. Rispondono a una domanda - diffusa e radicata - di certezza etica e, d'altro canto, di sicurezza personale. Mentre le istituzioni dello Stato riscuotono la consueta diffidenza. Al tempo stesso, i cittadini sono insoddisfatti dei servizi pubblici. Provano sfiducia nei confronti delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali. Ma, soprattutto, verso i soggetti di rappresentanza politica. I partiti, lo stesso Parlamento. Sono, come sempre, in fondo alla classifica. Evidentemente, è in questione il fondamento della nostra democrazia, visto che i principali attori della rappresentanza, i partiti, non sono solamente sfiduciati, ma vengono ritenuti "corrotti". Quanto e più che ai tempi di Tangentopoli. Il No al referendum costituzionale, d'altronde, ha avuto - anche - questo significato. Un No al sistema dei partiti. E ai politici che li guidano. In testa: il Premier. La sfiducia diffusa nella società, peraltro, avvolge anche la sfera delle relazioni personali, dei "rapporti con gli altri". Guardati con prudenza da gran parte dei cittadini. Chissà: ci potrebbero fregare... E poi ci sentiamo "invasi". La paura degli immigrati non è mai stata così alta. Eppure, come sempre quando si tratta dell'Italia e degli italiani, il quadro non è mai così lineare e coerente come potrebbe apparire a prima vista. La considerazione dei servizi pubblici, anzitutto. Gli italiani non ne sono soddisfatti, come detto. Eppure pochi, anzi, pochissimi richiedono davvero "più privato". È l'atteggiamento di prudenza critica, radicato nella nostra società. La democrazia: sarà anche corrotta, ma "un uomo solo al comando" potrebbe essere più pericoloso. Per non parlare della UE e dello stesso Euro. Gli italiani ne pensano il peggio. Però pochi, pochissimi, tra loro, vorrebbero abbandonare l'Euro. E la UE. Perché, anche se non piacciono, non si sa mai... Restarne fuori potrebbe costarci parecchio. Lo stesso discorso vale per le riforme costituzionali. Non più tardi di un mese fa largamente bocciate. Tuttavia, la necessità di emendare la Costituzione, per renderla più efficiente, è largamente condivisa. E molti che un mese fa avevano votato No, oggi si dicono d'accordo con alcuni dei punti più importanti del referendum. Il superamento del bicameralismo e, soprattutto, la riduzione dei parlamentari. Il problema è che il referendum, nella percezione generale, assai più della Costituzione, riguardava il sistema politico e di governo. Per primo, Renzi. Oggi quel governo e quel premier non ci sono più. Mentre le riforme possono attendere. Quanto, non si sa. Sicuramente, parecchio. In questo cielo chiaroscuro c'è una zona di luce interessante e significativa. La partecipazione. Nell'ultimo anno appare cresciuta in modo significativo. In massima misura quella "immediata", realizzata attraverso la rete e i social-media. Strumento di "democrazia della sorveglianza". Mentre la partecipazione sociale e il volontariato segnano il passo. Probabilmente, fra queste tendenze c'è una relazione. In quanto le nuove forme di partecipazione hanno, in parte, surrogato e, talora, rimpiazzato la partecipazione sociale e volontaria. Ma si è allargata anche la partecipazione politica "tradizionale", incentivata, nel corso degli ultimi mesi dalla mobilitazione referendaria. In ogni caso, la "critica democratica" ha allargato le basi della "partecipazione democratica". Ha spinto i cittadini a interrogarsi sui valori e sui limiti della Costituzione. Sui rischi che corriamo, nel tentativo di correggerla e ridisegnarla. Ma anche su quanto ci costa la resistenza a ogni innovazione. Insomma, nel corso dell'ultimo anno, mi pare sia cresciuto, fra i cittadini, il senso civico e critico. Insieme alla domanda di riforme. Che potrebbe essere assecondata meglio evitando di "politicizzarla". O meglio, di piegarla a fini politici contingenti. Ma mi pare sia stato un buon anno per la nostra democrazia. Nonostante tutto. Perché si è allargata la voglia e anzitutto la pratica della partecipazione. Politica e critica. Attraverso vecchie e, soprattutto, nuove vie. La mobilitazione e l'affluenza inattesa, per dimensione, al referendum, ne sono un segnale evidente. Meglio seguirlo con attenzione. Certo, continuiamo ad essere un popolo di riformisti scettici, animati da un rapporto con lo Stato: critico e disincantato. E da un orientamento politico polemico. Eppure attivo e partecipe. Ci sentiamo europei: nonostante tutto. Siamo italiani. Una nazione con poco Stato. Oppure troppo. Dipende dai punti di vista.

SOLDI E COMPLOTTI NELLO SPORT.

Gli “affarucci” della lobby milanese del calcio, scrive il 18 maggio 2017 "Il Corriere del giorno". “Stop soldi alla Juve”: così la lobby del calcio proteggeva i “suoi” uomini. A svelare tutti gli altarini dietro gli affari che si concludono le quinte del calcio italiano è stato il quotidiano online Business Insider Italia. L’ordine impartito dalla Lega calcio era chiaro: dobbiamo salvare ad ogni costo il sodale Riccardo Silva nonostante “ha pisciato fuori dal vaso” come dice Giuseppe Ciocchetti l’ex direttore generale di Infront intercettato dalle Fiamme Gialle di Milano. Ma dalle indagini delegate dalla Procura di Milano alla Guardia di Finanza sulla “cupola” dei diritti televisivi del calcio vengono alla luce altri particolari imbarazzanti come quello riguardante la cessione dei diritti tv per i siti di scommesse online: un prodotto che la Serie A non aveva commercializzato, ma che Riccardo Silva con il benestare di Infront l’advisor della Lega Calcio aveva ceduto a terzi, senza alcuna autorizzazione , operazione che dimostra  la massimizzazione del ritorno per le squadre italiane non è mai stato in realtà il vero scopo dei consulenti televisivi delle squadre di calcio della Serie A italiana. Nell’ambiente Silva è anche noto per delle lussuose feste a suon di modelle (ha un’agenzia) e champagne sul mega-yacht da 70 metri, il cui valore si aggirerebbe tra i 20 e i 30 milioni. La barca è nota perché usata come piattaforma di Pr alla fiera Sportel di Montecarlo. In ogni caso l’imprenditore 45enne, ex manager di Milan Channel (gestita da una società di Marco Bogarelli) e peraltro legato per parte di madre alla famiglia che possedeva la Fabbri Editori, è evidentemente molto capace nella vendita ma i guadagni che arrivano nella cassa della Lega appaiono ridotti e sui bilanci delle società di calcio gli introiti da diritti “audiovisivi” pesano, in media, per il 65%. Per Infront e Silva, da quanto è emerso dalle indagini era fondamentale incassare il più possibile, fregandosene di rispettare le regole del gioco.  Antonio D’Addio l’avvocato di Infront, sosteneva nelle intercettazioni che “I soldi alla Lega sono sprecati” e che darli alla Juventus sarebbe stato ancora peggio, quindi meglio “spenderli con Infront” società che teoricamente dovrebbe aiutare le società calcistiche della serie A ad incassare e guadagnare di più. Quando all’inizio del 2015 la Juventus chiese chiarimenti sulla vendita conclusa da Riccardo Silva di un diritto sul quale in realtà non aveva alcun titolo, l’ordine impartito dalla “cupola” attraverso Bruno Ghirardi, avvocato della Lega di Serie A, non lascia spazio ad alcun equivoco: “Se Riccardo ha fatto così bisogna coprirlo” dice a Ciocchetti l’ex direttore generale di Infront. Silva, infatti grazie alla liquidità accumulata all’estero, oltre ad avere aperto persino delle agenzie di modelle, manteneva l’equilibrio economico finanziario di diverse squadre che gravitavano intorno ad Infront garantendo quando necessario iniezioni di capitale con la sua “cassa” per coprire le perdite dei bilanci disastrati, come nel caso più eclatante del Genoa di Enrico Preziosi. Era quindi fondamentale la difesa del sodale Silva per non far danneggiare la lobby di potere sugli incassi dei diritti per le scommesse che gravitava intorno all’accoppiata Galliani-Bogarelli.Infatti Ghirardi scrive a Ciocchetti: “temo che la Juve abbia ragione se mi chiami concordiamo come gestirla perché ci vuole molta testa”.  

Silva respinge ogni accusa tramite il suo avvocato Sergio Spagnolo, ritenendole insussistenti e confidando in una rapida richiesta di archiviazione dell’indagine a suo carico. Ipotesi questa che secondo gli investigatori delle Fiamme Gialle sulla base delle evidenze documentali appare pressochè inverosimile. L’ex ad del Milan Adriano Galliani, avrebbe fatto parte col presidente del Genoa Enrico Preziosi e altre persone secondo la Procura di Milano, di “un’associazione a delinquere in grado di interporsi fin dal 2009 tra il mercato e le squadre di calcio, cui spettano” i profitti della “commercializzazione” dei diritti tv in Italia e all’estero, “per appropriarsi di una fetta consistente di questi”. Il coinvolgimento di Galliani, che al momento non risulta indagato, emerge dalla richiesta d’arresto della procura milanese per 2 ex manager di Infront, che è stata disattesa dal gip. “Vi è una sfera di interessi finanziari nascosti comune agli interlocutori”, ovvero l’ex manager di Infront Marco Bogarelli, l’ex ad del Milan Adriano Galliani e il presidente del Genoa Enrico Preziosi, intorno alla trattativa per la tentata vendita del 49 per cento del Milan all’imprenditore thailandese Bee Taechaubol (meglio noto come MrBee, ndr). E’ quanto si legge nella richiesta d’arresto, respinta dal gip, della Procura di Milano nei confronti dello stesso Bogarelli e di altre due ex manager di Infront. In una intercettazione del luglio 2015, Preziosi chiede a Bogarelli: “Ma è vero che siamo dentro anche noi con il Milan?”. Bogarelli: “Non ho capito, Scusami?”. La replica del presidente del Genoa: “Quello che vuole comprare il Milan, e… c’è anche Infront dentro?”. E Bogarelli: “No, no… no, zero, zero (…) Non c’è”. In un’altra telefonata, Bogarelli chiama Adriano Galliani e l’ex numero uno rossonero gli dice: “Senti stasera parlavo con Marina (Berlusconi n.d.r.)  va beh, poi ti racconterò… adesso vediamo, vediamo che cosa succede con Mr Bee, poi ragioniamo sulle cose nostre insomma… poi ne parliamo. Va bene”. E Bogarelli conclude la telefonata: “Va bene, a tua disposizione. Ciao”. Le intercettazioni su Galliani: “Agnelli imbecille” non usa molti giri di parole Adriano Galliani l’ex ad del Milan parlando con Marco Bogarelli l’ex manager di Infront per descrivere il comportamento del presidente della Juventus Andrea Agnelli, che hanno bollato con epiteti poco cortesi. Infatti da una intercettazione del 13 marzo 2015,  riportata nella richiesta di arresto – poi respinta dal gip – della Procura di Milano nei confronti dello stesso Bogarelli e di altre due persone, il primo riferendosi al numero uno della squadra bianconera dice: “(…) Oltre ad essere un imbecille, per altro è…cioè non è che è un genio…non lo so, poi va in Germania a sputtanare la Lega….io adesso gli scrivo, basta, non si può avere, tutti che sputano sul calcio italiano, come si va a vendere…?”. E Galliani: “Eh, sì (…) io, voglio dire, io ho dichiarato… qualcuno se mi chiede mi richiamo a quello che avevo detto quando hanno fatto quell’attacco famoso… l’arroganza è cosa della Juventus che ad essa non sa sfuggire… commento che io ho fatto, voglio dire, loro bisogna darli… perché il signor Agnelli prende 100 milioni dalla Lega Calcio”. Poco più avanti Bogarelli afferma: “dai un’accelerata”. Dall’ altra parte l’ex amministratore delegato rossonero: “solo sarà bene che risponda qualcun altro perché io, voglio dire, io la botta gliela do, io voglio star concentrato, la botta sarà nella ripartizione dei diritti televisivi, lì gli darò la botta… adesso chiamo Enrico che dice sempre che bisogna parlare con Agnelli”. E ancora Galliani: “adesso faccio un po’ di casino”. Bogarelli: “eh, bravo”. Galliani: “fai un po’ di casino anche tu”. “Agnelli signorino” – “Allora – dice Galliani l’ex ad del Milan intercettato al telefono con Bogarelli nel marzo 2015 – stasera Preziosi (il presidente del Genoa, ndr) va alla cosa della Gazzetta e attaccherà Agnelli”. Bogarelli risponde: “ah bravo…». E ancora Galliani: “Presidente della Lega dovrebbe fare una intervista in cui lo, lo coso… e via, la deve smettere questo signorino eh (…). Continua a sputare sul calcio italiano…. (…) e vive di quello”. Bogarelli: “Esatto”. Più avanti, nella conversazione intercettata dalla Guardia di Finanza, parla sempre Galliani: “(…) Comunque adesso bisogna dargli addosso a questo signore”. Poi più avanti, Bogarelli: “Ma a parte che è impazzito, penso che sia proprio fuori di testa”. E infine ancora l’ex numero uno del Milan: “Eh sì, sì, sì, sì, sì”. Galliani il “tranquillo” – “Sono caduto dalle nuvole, quando ho visto la notizia ho sentito il mio avvocato, Niccolò Ghedini. Mi ha confermato che non sono indagato e mi ha detto di stare sereno e tranquillo”. Così l’ex ad del Milan, Adriano Galliani, interpellato dall’ANSA, ha commentato la ricostruzione dei magistrati di Milano: “Le intercettazioni? Ero vicepresidente di Lega, era normale che parlassi con l’advisor” (cioè Infront n.d.r.). Il problema era scoppia dopo l’inizio del campionato 2014-2015, allorquando la Juventus aveva iniziato a protestare e contestare l’operato di Infront e Silva, avendo scoperto che una serie di siti per le scommesse online utilizzavano i diritti della Serie A su internet senza averne il diritto. Le immagini del campionato italiano venivano acquisite e distribuito attraverso la società inglese Perform che aveva acquistato a sua volta da Silva i diritti che lui ha comprato dalla Lega. L’accordo tra Silva e Perform è relativo al triennio 2012-2015 e lo stesso Silva parla al telefono con Ciocchetti l’ex direttore generale di Infront, ammette che “la Serie A in teoria non ci sarebbe, ma non c’era scritto che è esclusa”. In poche parole Riccardo Silva vendeva all’estero anche diritti di cui non era titolare come se lo fosse: “In questi tre anni – dice – quando ci sono stati un paio di episodi del genere praticamente avevo sospeso per un mesetto, poi si erano placate le acque e avevo ripreso. E su questo Perform e i suoi clienti sono tranquilli”. Circostanza questa che lascia dedurre agli investigatori che tutti i partecipanti alla vendita dei diritti calcistici, fossero assolutamente consapevoli di operare su un sentiero ai limiti della legittimità e quindi dell’illegalità. Per difendere l’intero sistema di potere creatosi all’interno della Lega pilotato da Galliani e partners, era quindi fondamentale concordare ed organizzare la difesa di Riccardo Silva che vorrebbe presentarsi al comitato diritti tv del 24 marzo 2015 dicendo che “probabilmente ci sono stati forse dei test e dentro potrebbe essere finita qualche immagine della Serie A”, aspettandosi che la stessa Lega successivamente decidesse di autorizzarne la commercializzazione di quegli stessi diritti. Circostanza che poi avviene con il bando di gara 2015-2018 per l’estero.

Lo stesso Silva dice al telefono: “Tra qualche mesi ce li avrò”. Ma l ’avvocato della Lega è di parere diverso ed insiste sul fatto che Silva abbia venduto qualcosa che non aveva, e quindi per giustificare tutte queste operazioni illegittime dovrà dire che “non ha venduto niente” facendo ricadere le responsabilità su Perform aggiungendo furbescamente che “quando la Lega me l’ha detto, io sono immediatamente intervenuto”. Intercettazioni da cui emerge la circostanza che il legale della Lega che avrebbe dovuto garantire l’interesse delle società di Serie A, in realtà mostra più interesse e preoccupazione nel proteggere l’operato di Riccardo Silva che gli interessi dei suoi clienti. Persino Antonio D’Addio avvocato di Infront, è consapevole che sarà difficile difendere l’indifendibile ed avere “una linea comune intelligente” dice intercettato, in quanto “conoscendo la vera verità faccio anche più fatica”.  Marco Bogarelli grazie al controllo che esercitava sulla Lega attraverso Adriano Galliani, riesce a salvare il “sodale” Riccardo Silva e fu proprio Bogarelli ad istruirlo su quale linea dovrà basarsi la sua difesa: “Può darsi che qualche test sia stato fatto, ma è anche quello che mi ha permesso di fare un’offerta da 200 milioni”.  Un anno dopo l’assegnazione dei diritti tv del novembre del 2015, quando venne volutamente favorita Mediaset ai danni di Sky vennero messi a trattativa “privata” i diritti per le trasmissioni per i siti di scommesse online in Italia: e tra gli aggiudicatari vi fu proprio la Perform che adesso li distribuisce anche su tutto il territorio italiano. A danno delle televisioni e dei loro abbonati. Estromettere “dai processi decisionali” Infront, la società advisor della Lega calcio e che era diventata un “soggetto non più gradito”: sarebbe stato questo il nuovo piano dei vari personaggi al centro delle indagini su una presunta associazione per delinquere per la commercializzazione dei diritti tv del calcio. È quanto emerge da un’informativa, datata 7 febbraio scorso, del Nucleo di polizia tributaria della Gdf contenuta nei 12 faldoni depositati al Tribunale del Riesame di Milano dai pm di Milano Roberto Pellicano, Giovanni Polizzi e Paolo Filippini per chiedere l’arresto, rigettato dal gip, di Marco Bogarelli e Giuseppe Ciocchetti, ex presidente ed ex dg di Infront (si sono dimessi il 28 novembre scorso), e di Riccardo Silva, fondatore della MP & Silva. Il “mutamento di scenario” sarebbe avvenuto proprio dopo che i due manager erano usciti da Infront e si stavano riorganizzando “con la creazione di una nuova società, con uffici a Londra e a Milano, operante nel settore dell’acquisizione e vendita dei diritti”. In una telefonata intercettata dello scorso 6 dicembre, Galliani, anche ex vicepresidente della Lega calcio, parlando con Claudio Lotito, presidente della Lazio e consigliere della Lega, diceva: “Noi siamo totalmente nelle mani di Infront, noi dobbiamo prendere l’interfaccia della Lega, dobbiamo prenderla”. Secondo la Gdf, l’ex ad del Milan puntava ad “individuare un top manager, di esperienza internazionale e da remunerare adeguatamente, da inserire nell’organigramma” della Lega calcio, “quale direttore commerciale”. A questa figura avrebbe dovuto essere “affidata la gestione della commercializzazione dei diritti”. In quella che i finanzieri chiamano la “fase 1 delle indagini”, ossia quando Bogarelli e Ciocchetti erano ancora in Infront, non erano mai state intercettate “esternazioni di questo tipo da parte di Galliani”, formalmente non ancora indagato. Sempre il 6 dicembre, invece, Galliani parlando con Bogarelli, che avrebbe continuato ad essere il “perno fondamentale, ancorché occulto, del ‘sistema calciò”, gli diceva: “Dobbiamo avere una direzione commerciale che non abbiamo. Non possiamo lasciare le cose nelle, nelle mani solo di un advisor”. Questo “cambiamento di strategia”, si legge nell’informativa dei finanzieri, “caldeggiato da Galliani e avallato da Lotito (ed anche da Bogarelli)” necessitava “ovviamente del supporto dell’assemblea” di Lega. Un aspetto di cui si sarebbe fatto «carico» il presidente della Lazio che ne avrebbe parlato anche con quello del Genoa Enrico Preziosi (indagato nell’inchiesta come Lotito). Negli atti vengono, dunque, riportate una serie di telefonate in cui Lotito, tra dicembre e gennaio scorso, avrebbe cercato di portare avanti “un’opera di raccolta di adesioni al progetto” contattando il presidente del Torino Urbano Cairo, l’Ad del Sassuolo Giovanni Carnevali, Gino Pozzo, figlio del presidente dell’Udinese, l’Ad della Roma Umberto Maria Gandini, Marco Fassone, poi diventato Ad del Milan, il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, al momento tutti estranei all’inchiesta.

LA FIDAL ED I VERI ATLETI.

"Dopo le donne, i veri atleti" in Sardegna è bufera sul presidente Fidal. Protesta delle tesserate: frasi sessiste. Ma lui minimizza: volevo solo dire che la gara maschile è più dura, scrive Cristina Nadotti il 30 gennaio 2017 su “La Repubblica”. Stanca e infangata, dopo otto chilometri di corsa campestre, si è guardata intorno esterrefatta, incredula di aver sentito proprio quelle parole. Una volta a casa però Giulia Andreozzi ha deciso di non stare zitta, almeno su Facebook, e ha scritto questo post: "Ci sono cose che nel 2017 non si dovrebbero sentire. Specialmente da chi ricopre cariche pubbliche di un certo rilievo. Oggi a Villacidro si sono disputati i campionati societari di corsa campestre, evento in cui la corsa da sport individuale diventa uno sport di squadra. Una bellissima giornata di sole e di sport. La gara femminile è stata molto combattuta, un percorso molto duro che tutte, dalle prime alle ultime arrivate, abbiamo onorato dando il massimo per le rispettive società. Tuttavia, al termine il presidente della Fidal Sardegna (Sergio Lai n.d.r.), nel presentare la gara maschile che seguiva, ha dichiarato: "Ora arriva la GARA CLOU, vedremo gareggiare i VERI ATLETI". Prendo atto che per lui le donne che avevano appena finito di gareggiare non sarebbero vere atlete. Sono ammissibili simili affermazioni nel 2017? Probabilmente sì, visto che il presidente della Figc si è distinto per analoga attenzione al tema delle donne sportive ed è ancora saldamente al suo posto. Come donna e come sportiva però non ritengo che si possa fare finta di niente o minimizzare. Sono affermazioni gravi e inaccettabili, di cui si dovrebbe essere chiamati a rendere conto". Da Villacidro, comune del Campidano, il post di Giulia ha fatto un balzo verso l'universo mediatico. Assist, l'Associazione nazionale atlete, annuncia che oggi scriverà al presidente del Coni Malagò e al presidente della Fidal Sardegna "che ha pronunciato queste parole offensive e intollerabili" mettendo in copia il ministro dello Sport Lotti e la delegata del governo alle Pari Opportunità, Maria Elena Boschi "Perché siamo stufe e stufi di questi episodi. E se non sentiremo scuse ufficiali, chiederemo le dimissioni". Moltissime le condivisioni del post di Giulia Andreozzi, e tanta, davvero tanta, la solidarietà degli uomini. "È ciò che mi ha colpito di più, dice oggi Giulia - perché in qualche modo l'attenzione delle donne me l'aspettavo. Ho cancellato alcuni commenti che offendevano il presidente, perché ci tengo a precisare che non voglio fare un attacco alla persona, ma al modo in cui si interpreta una carica pubblica. Finora nei confronti di noi atlete avevo notato una sorta di benevolo paternalismo, mai mi era capitato di sentire un'affermazione così grave. Sul momento non ho detto niente per non rovinare la festa e mancare di rispetto agli atleti che stavano ancora gareggiando, ma una volta a casa ho deciso che non si può più stare zitti, gli attacchi alle donne nella nostra società sono davvero troppi". Il presidente Lai cade dalle nuvole: "Cosa? Chi l'ha scritto? Un post su Facebook? Non credo a quello che mi sta dicendo - dice al telefono - un attacco così a me che esalto tutti i miei atleti, uomini e donne. Ho calcato un po' la mano sulla gara dei 10 chilometri perché è la più dura, le donne non li fanno 10 chilometri". Quando gli si fa notare che a scrivere il post è stata appunto una donna, che aveva appena concluso una gara altrettanto massacrante pur se di otto chilometri, Lai taglia corto: "Non ho offeso nessuno, ho un consenso enorme e nel mio consiglio regionale tantissime donne. Proprio non riesco a capire perché tirare fuori una cosa del genere invece che parlare di sport, ma tanto voi parlate soltanto di calcio!". A Villacidro, la società che ha organizzato la gara dà un colpo al cerchio e uno alla botte: "Noi dell'organizzazione non ci siamo accorti del commento in questione - dice Nicola Pittau, dirigente della Olympia Villacidro - il presidente Lai era al microfono per presentare le gare da otto ore, un momento di stanchezza capita. Forse ha voluto calcare la mano sulla gara dei 10mila perché c'era anche un atleta di livello internazionale che ha gareggiato alla maratona di Boston. Però condividiamo il pensiero di Giulia, l'atletica è uno sport bellissimo e nella nostra società maschi e femmine si allenano tutti insieme almeno fino alla categoria allieve".

Running sempre più donna, tutti i numeri di un boom femminile. I dati sulle iscrizioni alle gare e sull'acquisto di scarpe da corsa fotografano la crescita esponenziale delle donne nel podismo amatoriale italiano. Un fenomeno che negli Stati Uniti ha già registrato i primi sorpassi statistici rispetto agli uomini, scrive Maurizio Ricci il 3 febbraio 2017 su "La Repubblica". Le ho viste per anni. Comparivano con gli ultimi freddi di marzo, quando a Villa Pamphili spuntano le prime margherite. Spesso pesantemente infagottate per sudare di più, di solito fra i 30 e i 50 anni, quasi sempre sole e incupite, si infittivano man mano che si accorciava il tempo che le separava dalla prova costume. Correre al femminile, allora, era soprattutto una strategia estetica (e naturalmente parliamo del running amatoriale, certo non dell'atletica agonistica). Quando si scavallava il momento della temuta passerella sotto l'ombrellone, sparivano d'incanto, ibernandosi fino alla primavera successiva. Non più. Sedetevi su una panchina lungo qualche percorso classico di allenamento e le vedrete passare a plotoni, molte semplicemente trotterellando per diporto, parecchie impegnate in fartlek o ripetute. Oppure, date un'occhiata alla vetrina di un negozio di sport e vedrete che le sofisticate multinazionali del settore non dedicherebbero tante ricerca hi-tech e tanto design ad un top o a tute ben disegnate per un corpo femminile per un passatempo occasionale ed effimero. "Sono tante, è un fenomeno in crescita" nota Gianni Giacinti, che presiede una società romana, Rcf-Romasud. "Una parte importante l'hanno avuta le grandi kermesse. A Race for the Cure, per dire, il 50 per cento dei partecipanti è donna". Secondo Giacinti, la spinta iniziale è ancora quella della prova costume: dimagrire. "O anche poter mangiare senza farsi troppi problemi, ma anche senza ingrassare". Ma, sempre più spesso, la corsa diventa presto un'altra cosa. Correre in rosa è, oggi, un'attività sportiva a tutto tondo, in fase di boom, contorno agonistico compreso. L'ultima domenica di gennaio, al tradizionale appuntamento romano della Corsa di Miguel, sono arrivati in fondo ai 10 chilometri della corsa competitiva 3.412 uomini, ma anche 1.003 donne, quasi una su tre. Rispetto a cinque anni fa, gli uomini sono lievemente diminuiti, le donne cresciute di oltre il 10 per cento. Contare chi pratica la corsa senza impegno non è facile. Ma l'unica cosa che non si può fare (o quasi) è correre senza scarpe. Nel 2008, la Saucony, una marca che produce scarpe soprattutto tecniche, realizzava il 71 per cento del suo fatturato con le scarpe per uomini e il 25 per cento con quelle per donne. Oggi, le scarpe femminili sono salite al 35 per cento delle vendite. Nel running, tuttavia, anche le gare sono un indicatore importante. Perché, quando la corsa diventa una cosa più seria, la gara è uno sbocco inevitabile. Si può avere, dunque, un'idea della diffusione del running, guardando ai dati delle iscrizioni alla Fidal, passaggio necessario per arrivare a mettersi un pettorale. Prendiamo solo gli ultratrentacinquenni, partendo dal presupposto che, oltre quell'età, difficilmente troviamo iscritti o iscritte dediti al lancio del disco o alla 4x100. In realtà, perdiamo probabilmente qualche numero: a 25-30 anni, una ragazza che vuol fare sport è facile che cominci a correre, mentre i suoi coetanei maschi è più probabile siano su un campo di calcetto, se non davanti alla playstation. "E' vero - dice Giacinti - che le ragazze che corrono sono mediamente più giovani degli uomini. Forse perché avvertono prima il problema di sentirsi in forma". A naso, si potrebbero spiegare anche così i dati della categoria senior, cioè iscritti e iscritte fra i 23 e i 35 anni. Stagnanti per tutti i primi dieci anni del secolo, dal 2010 hanno avuto un balzo: gli uomini sono aumentati del 40 per 100, le ragazze, però, sono raddoppiate. Ma torniamo agli ultratrentacinquenni. Nel 2000, dunque, il 15 per cento degli iscritti alla Fidal di età superiore ai 35 anni, era donna. Nel 2014, abbiamo superato il 23 per cento, un balzo, in proporzione, della metà. L'anno scorso, se si tiene conto dell'introduzione della Runcard, che consente di svolgere attività agonistica senza passare attraverso una società, la quota di donne abbastanza seriamente impegnate nella corsa da pensare alle gare è stata il 22 per cento, più di un quinto degli iscritti. La conferma viene dalla gara delle gare, qualcosa che si affronta solo con un patrimonio di dedizione e mesi di allenamento intenso: la maratona. Nel 2007, le italiane che avevano concluso una maratona erano 3.664. Dieci anni dopo sono state quasi il doppio: 6.394. Rispetto al totale dei maratoneti sono passate dall'11 a oltre il 16 per cento. E, nel futuro, è possibile che ci sia il sorpasso. In America, c'è già stato. Anche senza considerare chi, anche oltreoceano, ha in mente soprattutto la prova costume, chi si limita alle pedane dei centri fitness o fa soltanto su e giù per i giardini pubblici con un'amica, la corsa negli Stati Uniti è, ormai, uno sport femminile. I maligni dicono che è perché, correndo, al contrario che nel tennis o nel nuoto, si può chiacchierare. Ma, anche qui, il termometro sono le gare. L'anno scorso il 57 per cento degli atleti che ha concluso una gara agonistica, dai 5 chilometri in su, era donna. Non è una novità: il sorpasso sugli uomini, dietro un pettorale, è avvenuto nel 2010. Le gare per sole donne, comuni fino a qualche anno fa, non ci sono più. "Ormai le donne sono la maggioranza in quasi tutte le corse" ha detto al Wall Street Journal Mary Wittemberg, che per anni ha gestito la maratona di New York. Proprio nell'impegno più duro, ancora non ci siamo. Ma anche nella grande classica, siamo sempre più vicini. I partecipanti alle mezze maratone d'oltreoceano sono già per il 61 per cento donne. Per la maratona siamo al 44 per cento.

L’ITALIA DEGLI ABILITATI. ESAME DI ABILITAZIONE ANCHE PER CORRERE.

Non solo gli avvocati, o gli altri professionisti, possono svolgere la professione unicamente se abilitati, ma anche i podisti non possono correre se non abilitati FIDAL.

«Mens sana in corpore sano, dice un vecchio adagio. Che il corpo troppo sano dia alla testa? Se non sei tesserato (abilitato) FIDAL non puoi correre nelle manifestazioni da loro organizzate. Se, invece, sei un tesserato FIDAL non puoi correre nei raduni organizzati da altri.»

Questo denuncia il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” ed autore del libro “Sportopoli.”

Nell'atletica leggera, la corsa su strada comprende gare su strade comuni, generalmente in asfalto o di campagna, e su distanze che vanno dai 5 ai 100 km.

Queste corse possono essere competitive e non competitive.

Corse competitive. Le specialità più celebri tra le corse su strada sono la maratona, che si corre su una distanza di 42.195 m, e la mezza maratona, che si corre su una distanza di 21.097 m.

Sempre più diffuse sono le gare di ultramaratona, specialità che identifica gare di corsa che hanno una distanza superiore a 42,195 km (distanza ufficiale della maratona). L'ultramaratona su strada più conosciuta è la 100 km, ratificata dalla IAAF. In tutto il mondo vengono anche organizzate svariate competizioni, su distanze comprese dai 5 ai 30 km. La IAAF riconosce ufficialmente le gare su distanze di 10, 15, 20, 25 e 30 km, ratificando per ognuna di queste specialità i propri record mondiali e continentali. Data la varietà di competizioni, le gare più brevi rappresentano anche un utile e realistico allenamento per atleti normalmente impegnati su distanze maggiori, che le includono a volte nei loro programmi di allenamento. In ambito italiano, la FIDAL organizza attività su strada a livello nazionale, regionale e provinciale. Esistono anche manifestazioni agonistiche organizzate dagli enti di promozioni sportiva come UISP, CSI, LIBERTAS, AICS, ecc.

Corse non competitive. In ogni parte d'Italia si organizzano corse non competitive denominate anche marce o camminate per il fatto che sono a passo libero, cioè vi partecipano sia podisti che camminatori. Queste manifestazioni non sono riconosciute dalla FIDAL (la federazione sovrintende solo l'attività agonistica) e vengono organizzate sotto il patrocinio degli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI o da organizzazioni non riconosciute come ad esempio la FIASP. Molti gruppi o comitati amatoriali organizzano corse per puro divertimento per fare sport e passare un momento di relax in compagnia ed all’aria aperta. Queste gare vedono spesso la presenza anche di atleti tesserati che le affrontano per allenamento. Esse rappresentano comunque un modo per avvicinarsi al mondo dell'atletica.

Come si è spiegato la differenza tra le corse sta nel riconoscimento degli eventuali record, nell’individuazione di eventuali futuri campioni e nell’antagonismo delle squadre iscritte. Nelle corse competitive ci sono i direttori di gara. Per entrambe le corse si paga un ticket di partecipazione.

La differenza tra Agonisti o non agonisti sta principalmente nel fatto che, per essere considerati agonisti e per partecipare all'attività competitiva (organizzata sia dalla FIDAL che da altri enti), è necessario avere l'idoneità alla pratica agonistica. L'idoneità viene rilasciata dopo un'approfondita visita medica, dalla sanità nazionale o da centri autorizzati. Nella maggior parte delle manifestazioni, comunque, oltre alla gara competitiva, viene proposta una prova non competitiva sulla stessa distanza e/o su distanza ridotta, per incentivare la partecipazione e permettere anche alle persone prive di un'adeguata preparazione atletica di vivere un momento di sport e socializzazione.

Quando questo succede, nelle manifestazioni simultanee, spesso ai non agonisti non viene riconosciuto un premio per la vittoria di categoria. Non è raro che qualcuno di questi, però, sia più forte degli agonisti. Chi partecipa alle corse lo sa.

Qualcuno dirà: Cosa si denuncia con questo articolo? Dove è l’inghippo?

Con questo articolo si dà voce a tutti coloro, comitati od associazioni, che organizzano unicamente le corse non competitive e che sono destinatarie degli strali della FIDAL. Spesso e volentieri la FIDAL cerca di impedire, con diffide legali inviate agli organizzatori di corse non competitive ed alle autorità locali, lo svolgimento delle manifestazioni da questi organizzati.

Non ci si ferma qui. Nelle pagine facebook di gruppi di podisti agonisti e non agonisti vi sono intimidazioni da parte degli iscritti alla FIDAL nei confronti dei loro colleghi, avvisandoli che nel partecipare a corse non competitive comporta per loro l’adozione di sanzioni.

A riprova di ciò basta cercare “minacce FIDAL” o “polemica FIDAL” su un motore di ricerca web e si troverà tutto quello che finora non si è cercato. E cioè provare che il monopolio delle corse è in mano alla FIDAL, perché sono impedite le gare non competitive, non foss’altro, anche, inibendo la partecipazione a queste manifestazioni ai suoi tesserati. Tesserati che a loro volta, ignavi, si fanno intimorire.

La corsa podistica non è cosa loro, della FIDAL e simili.

Un abominio, non fosse altro che ognuno di noi, anche i tesserati di un organismo sportivo, siamo soggetti agli articoli 16 e 17 della Costituzione italiana e quindi liberi di muoverci in compagnia….anche di corsa.

L'ITALIA IN GUERRA.

Le missioni internazionali dell’Italia, scrive il 31 gennaio 2017 Alberto Bellotto su "Gli Occhi della Guerra" ripreso da "Il Giornale". Nel 2017 ci saranno quasi ottomila militari italiani in giro per il mondo. A metà gennaio il Consiglio del Ministri ha deliberato il suo piano per chiedere al Parlamento di rifinanziare tutte le missioni internazionali in cui è impegnata l’Italia. Le Camere potranno anche negare o modificare il provvedimento, ma è quasi certo che si andrà verso una conferma. Rispetto agli anni precedenti sono diminuiti gli scenari con operazioni attive ma questo non ha di fatto ridotto i rischi.

Quest’anno l’Italia presenterà il secondo contingente per numero di uomini in Iraq secondo solo a quello degli Stati Uniti. Palazzo Chigi ha deciso che per combattere l’Isis come membro della Coalizione internazionale serviranno 1.497 uomini. I soldati saranno impegnati sia nella lotta a Daesh che nella difesa della diga di Mosul dove lo scorso anno sono iniziati i lavori di messa in sicurezza da parte di una ditta italiana. L’intera operazione costerà 300 milioni di euro e vedrà anche sul campo 420 mezzi terrestri e 17 mezzi aerei. La missione in Iraq rappresenta il 23% dell’intera spesa ovvero 1,13 miliardi.

In questo calderone ci saranno anche 43,6 milioni e 300 uomini inviati come forza di protezione in Libia a supportare l’ospedale da campo di Misurata creato con l’operazione Ippocrate. Sempre in Libia verranno spesi altri 3,6 milioni per supportare la Guardia costiera locale per la lotta all’immigrazione clandestina. Nel Canale di Sicilia invece gli stanziamenti saranno più imponenti. 84 milioni e 700 uomini verranno impiegati per l’operazione “Mare sicuro” che mira a proteggere il traffico mercantile e le piattaforme petrolifere antistanti la costa libica. Non solo. Nella stessa zona verranno spesi altri 43 milioni per combattere gli scafisti con l’operazione Sophia-Eunavformed e altri 17 con l’operazione Nato “Sea Guardian”.

Europa: dai Balcani alla questione lituana. Come detto uno degli scenari più sensibili in Europa è rappresentato dal Mediterraneo ma non è il solo. L’Italia resta presente nel Balcani con diverse missioni, in particolare in Kosovo. Sotto la bandiera della Nato sarà ancora impegnata in diverse operazioni per un totale di 538 uomini e 78 milioni di euro. Oltre a questa continueranno gli accordi bilaterali con l’Albania e altri attori dell’area. Ma il 2017 sarà anche l’anno della contestata partecipazione alle operazioni Nato in Lettonia, in particolare nel «dimostrare la capacità e la determinazione della Nato nel rispondere solidalmente alle minacce esterne lungo il confine orientale dell’Alleanza» si legge nel documento del Consiglio dei Ministri. Una missione che nel suo insieme può far aumentare ancora di più la tensione con la Russia.

Africa: l’allargamento delle operazioni in Libia. L’Italia continuerà il suo impegno anche in Africa. Oltre alle operazioni in Libia e nel Canale di Sicilia proseguiranno anche le delicate operazioni anti-pirateria nel Corno d’Africa con oltre 400 uomini e 2 unità navali. Nella zona proseguiranno anche le operazioni di addestramento e supporto nella base italiana in Gibuti. Palazzo Chigi chiederà anche al Parlamento di confermare dal decennale missione dell’Onu in Egitto con 75 uomini. Da segnalare anche piccolissimi contingenti in Mali e Niger che si occupano di consulenza alle locali forze armate.

Medio Oriente: in Iraq il più grande contingente gli Usa. Lo scenario più delicato resta comunque quello mediorientale. Oltre alla lotta contro l’Isis le forze armate del nostro Paese proseguiranno la missione Unifil della Nazioni Unite in Libano. Sul campo verranno impiegati per un altro anno 1.125 uomini e 303 mezzi terrestri per 153 milioni. Il compito principale resterà quello di supporto all’esercito libanese. Nella stessa regione continueranno anche le varie iniziative in terra palestinese. L’esercito italiano infatti da qualche anno svolge funzioni di supporto in diversi punti dei Territori. Da Hebron a Gerico passando per la Cisgiordania e il valico con l’Egitto di Rafah, verranno impiegati quasi 50 uomini per operazioni di osservazione e rapporti. Più a Nord, in Turchia, continuano invece le operazioni della Nato in funzione anti-Isis. L’Italia sarà impegnata in due operazioni di controllo dei cieli con 136 uomini. Altro contesto delicato si conferma quello afghano con 900 uomini, 148 mezzi per una spesa di 174 milioni di euro. Gli uomini delle forze armate saranno impegnati principalmente come addestratori delle forze di sicurezza locali anche se lo scenario rimane rischioso per la ripresa delle ostilità da parte dei talebani.

Cooperazione allo sviluppo: 120 milioni alla polizia afghana. Oltre alle missioni prettamente militari il governo Gentiloni ha confermato anche diverse operazioni di cooperazione allo sviluppo. In particolare sono stati stanziati 295.000.000 di euro di cui ben 120 come contributo finanziario per le Forze di sicurezza e difesa afghane. 111 verranno stanziati per il «miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e dei rifugiati e a sostegno alla ricostruzione civile in Paesi in situazione di conflitto, post-conflitto o di fragilità ed in aree colpite da calamità di origine naturale o antropica, anche in collaborazione con l’Unione europea, le organizzazioni internazionali e le ONG» anche se il documento non specifica in quali termini concreti limitandosi a dire che i Paesi interessati sono: Afghanistan, Etiopia, Repubblica Centrafricana, Iraq, Libia, Mali, Niger, Myanmar, Pakistan, Palestina, Siria, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Yemen. Altri 34 milioni finiranno tra Nord Africa, Medio oriente e America Latina mentre il governo investirà altri 30 milioni in scenari considerati a rischio per la protezione di cittadini e interessi italiani all’estero, in particolare in Afghanistan, Arabia Saudita, Egitto, Iraq, Libano, Libia, Nigeria, Niger, Pakistan, Palestina, Somalia, Sud Sudan e Venezuela.

QUELLI CHE...SONO RAZZISTI INTERESSATI.

Università del sud: I veri numeri. In studio Pino Aprile e il Rettore dell'Università di Bari Aldo Moro, Antonio Uricchio. Intervista allo scrittore Pino Aprile ed al Rettore di Bari Antonio Felice Uricchio. Buon pomeriggio del 5 gennaio 2017 condotto da Michele Cucuzza su Telenorba. Per Pino Aprile i dati sono pretestuosi e strumentali da parte del giornale della Confindustria e del Nord e rappresentativo della Luiss per danneggiare le Università del Sud.

Università, Bari in coda alla classifica del Sole 24 Ore. Ma il rettore denuncia: “Dati parziali, li comunicheremo al giornale”, scrive TRM Network il 4 gennaio 2017. Antonio Uricchio: “Le rilevazioni sulla ricerca ferme al 2010, e sulle borse di studio la copertura è totale grazie alla Regione” L’Università di Bari al 58mo posto su 61 nella classifica del Sole 24 Ore degli atenei italiani, ma per il rettore Uricchio i dati sono incompleti o in alcuni casi addirittura obsoleti. Una classifica ingiusta, immeritata. Per Antonio Uricchio, rettore dell’Università di Bari Aldo Moro, il 58esimo posto nella classifica degli atenei stilata dal Sole 24 Ore non corrisponde alla realtà. Colpa di rilevazioni ferme a più di cinque anni fa per quanto riguarda la ricerca, e incomplete per le borse di studio. Classifiche a parte, per Uricchio è fondamentale ripartire dalle premialità assegnate agli atenei del Sud dall’ultima ripartizione del fondo di finanziamento ordinario da parte del Ministero per rafforzare la rete che lega le università pugliesi a quelle lucane.

C’è anche il populismo anticamorra di Roberto Saviano. In tanti rimproverano de Magistris di mistificare per vanità le questioni reali della città. Ma ci si deve anche domandare se queste accuse non possano essere rivolte prima allo scrittore, che non è stato mai disponibile ad essere criticato senza ergersi a vittima, scrive Eduardo Cicelyn il 12 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. O con de Magistris o con Saviano. O magari con De Giovanni all’ultimo minuto. La realtà vera di Napoli non esiste se non nelle proiezioni immaginarie veicolate dalle cronache, dai romanzi, dal teatro, dai film e oggi soprattutto dalle serie tv. E infatti, per sviare la polemica che più lo insidia, il sindaco si è già schierato via facebook con i Bastardi di Pizzofalcone, le cui ambientazioni edulcorate da una regia melensa ristampano la cartolina della città storica e monumentale. D’altro canto, anche la politica, ormai da oltre un ventennio, ci sta mettendo il suo, di linguaggio, per costruire una rappresentazione performativa della città, giocando a fabbricare sceneggiature parallele, moderniste o populiste. È molto improbabile che de Magistris riesca a spostare per più di un paio di giorni l’attenzione sulla bella Napoli di Maurizio de Giovanni. Il conflitto tra realtà e immaginazione si è radicato come un virus mutante nel cuore del dibattito politico attuale. Gomorra è la variante locale. Perciò non ci si può meravigliare che il suo autore si atteggi a detentore della verità più vera o che, sul fronte contrapposto, un sindaco per caso e senza partito si erga a paladino di una comunità rinnovata, protesa verso il sol dell’avvenire. O al massimo verso le nostalgie della città fascinosa dell’ispettore Lojacono. Sono gli effetti surreali del medesimo spettacolo, anzi della sceneggiata mediatica che fa di Napoli uno dei punti più critici e simbolici della crisi italiana. Solo nel vuoto di analisi, teorie e proposte politiche poteva impiantarsi e prosperare il germe di un’esperienza di governo, come quella demagistrisiana, casinista ma onesta, quasi senza scopo, chiamata populista per mancanza di aggettivi, essendo come a tutti è chiaro minoritaria per linguaggio e per vocazione. Tuttavia come non vedere che la crisi della politica è anche la conseguenza di un’evidente degenerazione culturale. C’entrano la letteratura mediocre, il brutto cinema, l’arte banale, il teatro senza ispirazione, il proliferare delle serie televisive e l’insolenza con cui le cattive forme promuovono se stesse, avvinte le une alle altre, rimbalzando tra giornali, televisioni e social network, mobilitando indici d’ascolto, followers, like, emoticon. Ma non se ne parla quasi mai. Non si vede lo scandalo. In tanti fanno a gara a bacchettare il cattivo politico che censura l’intellettuale. Nessuno che si chieda quale sia il pensiero più omologato e il discorso più retorico, se quelli di Saviano o se quelli di de Magistris. Mai qualcuno che alzi il dito per fare le domande impertinenti: se uno scrittore romanza e pubblica carte processuali, informative di varie polizie, teoremi di solerti magistrati è proprio certo che faccia letteratura o almeno buon giornalismo? Quando la letteratura si appella alla verità per risolvere i suoi problemi formali, che ne è della verità e della letteratura? Sarebbe necessario rispondere a questi interrogativi, perché il credito di Saviano — la sua autorevolezza mediatica, il fatto che sembrino necessariamente vere le cose che dice — si fonda sulla qualità letteraria del suo successo, cioè di un genere di discorso che per definizione pratica l’artificio per apparire verosimile.

Oggi in tanti rimproverano al sindaco di essere populista e di mistificare per la propria vanità le questioni reali della città. Prima o poi qualcuno dovrà domandarsi se le medesime accuse non debbano essere prima rivolte allo scrittore: Saviano è stato mai disponibile ad essere criticato senza ergersi a vittima? Il suo messaggio anticamorra non è un po’ troppo generico ed emotivo, del tipo noi i buoni e loro i cattivi, secondo il tipico riflesso populista e demagogico? Siamo davvero disposti a condividere la visione di Napoli a dimensione unica, teatro di uno scontro omerico tra criminalità, polizia, magistrati e persone di buona volontà, purché Saviano possa vestire per molto tempo ancora i panni dell’aedo? Si parla spesso, anche su questo giornale, di deficit della rappresentanza democratica, di un ceto politico nazionale e locale sempre più debole e incapace e mai si sono risparmiate critiche anche dure al sindaco di Napoli. Capisco che molto più difficile e meno coinvolgente sarebbe discutere del ruolo civile degli intellettuali e di problemi filosofici o letterari. Eppure credo che una comunità abbia non solo il diritto di decidere se un sindaco è bravo o non è bravo e dunque di votarlo o non votarlo alle elezioni che verranno. Altrettanto utile sarebbe poter valutare insieme se uno scrittore che vive di Napoli, come Saviano, possa imporre il copyright sulla presunta verità del suo soggetto letterario e se il racconto che ne trae riesca ad essere originale e perciò universale. La letteratura non ha mai cambiato il mondo. Forse ha anche il diritto di peggiorarlo. Noi però non ci sentiamo in colpa e non pensiamo di favorire la camorra, se leggiamo altri libri e prendiamo sul serio altri scrittori. Desideriamo la buona politica e anche la buona letteratura. Ma, se anche le incontrassimo da qualche parte, non chiederemmo la verità né all’una né all’altra.

Galli Della Loggia: «Vi spiego perché Emiliano non sarà premier». Ernesto Galli Della Loggia, storico, scrittore, una delle firme più brillanti del Corriere della Sera, sarà a Bari domani e dopodomani per presentare il suo ultimo libro Credere, Tradire, Vivere, scrive Maddalena Tulanti il 15 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”.

Lo sa che l’abbiamo considerata sempre il più cattivo dei commentatori sul Sud?

«Io cattivo? Ma se i miei genitori erano entrambi napoletani! Tutta la mia giovinezza l’ho trascorsa a Napoli. Potrei perfino parlarle in napoletano se vuole!».

Conversiamo con Ernesto Galli Della Loggia, storico, scrittore, una delle firme più brillanti del Corriere della Sera, a Bari domani e dopodomani per presentare il suo ultimo, bellissimo, libro Credere, Tradire, Vivere, edito dal Mulino, e il suo documentario Il paese perduto, per la regia di Manfredi Lucibello. 

Respingiamo l’idea della conversazione in lingua madre (la nostra) ma ammettiamo l’ignoranza, no, questa del napoletano ci mancava. 

«Sì, perché il mio cognome è di origine piemontese e a nessuno può venire in mente…. E poi, scrivendo per il Corriere, il giornale del Nord…». 

E, aggiungiamo noi, non avendo mai fatto sconti al Mezzogiorno… 

«Sì, questo è vero. Ma non perché non ami il Sud, è proprio vero il contrario. Per aiutare non per sgarrupare, come dicono i napoletani». 

E d’altronde il punto vero, e anche questo lei lo ha scritto nei suoi editoriali, è che il Sud è stato pochissimo al centro dell’azione politica dei governi, meno che mai di quelli della Seconda Repubblica. Un Sud che, ultimi dati Svimez, dopo i dieci anni della grande crisi si è allontanato in maniera forse irreversibile dal Nord del Paese. E’ stato un errore di Renzi, non aver imbracciato la bandiera della nuova unità d’Italia? 

«Senz’altro, forse il primo, gravissimo. Poi ha cercato di cambiare in corso d’opera, soprattutto credendo che la sua presenza fisica a Napoli, a Palermo o a Bari avrebbe fatto la differenza. Così non è stato. E la situazione si è complicata. Il Sud oggi appare sempre più caudillizzato, in ogni regione c’è un caudillo, magari in lotta con gli altri e attento soprattutto ai propri interessi». 

Anche in Puglia? 

«Emiliano è il più forte di tutti, non solo per i suoi meriti, ma anche perché rappresenta una regione che ce l’ha fatta». 

E ha come, si sa, ambizioni nazionali… 

«Per questo la vedo difficile. Temo che gli anni Novanta abbiano seppellito ogni possibilità per un politico del Sud di rappresentare l’intero paese. Almeno per il momento. E’ come se stessimo negli Usa prima dell’avvento di Obama: nemmeno con la più fervida immaginazione si poteva prevedere un nero alla Casa bianca…».

Il libro di cui il prof viene a parlare in Puglia è un affresco straordinario della prima repubblica e dei valori che l’hanno sostenuta fino al suo affossamento, negli anni di Mani Pulite. Con al centro un pensiero netto: è mancato soprattutto il tradimento. Inteso come cambiamento, perché solo tradendo si cambia, si va avanti, si vive appunto.

I conti però non tornano: abbiamo bisogno di sdoganare il tradimento nella terra che ha inventato il trasformismo e in cui il voltagabbana è un personaggio centrale della nostra commedia umana? 

«Guardi che non abbiamo inventato noi il trasformismo, è una bugia, noi lo abbiamo praticato, ma non più di altri. In quegli stessi anni, fine Ottocento, tutti i paesi europei hanno vissuto il fenomeno. Prenda la Gran Bretagna, grandi politici, da Palmerston a Disraeli, hanno militato in 3 o 4 partiti diversi e nessuno ne menava scandalo. Così accadeva in Francia. Il fatto è che da noi c’è sempre stato un forte moralismo che vedeva nel trasformismo la prova della pochezza della classe dirigente, sbagliando».

E il voltagabbana? Come si fa a distinguere chi cambia idea da chi cambia casacca?

«Due indizi. Primo: chi cambia casacca ne ricava un immediato vantaggio personale. Secondo: chi cambia idea spiega perché lo ha fatto».

Lei ci ricorda che anche la storia repubblicana è cominciata con una grande menzogna, quella sul fascismo e sull’antifascismo.

«Lì è andata un po’ diversamente. Non si è potuta dire la verità, non si poteva dire agli elettori: oggi venite a votare, ma siete stati tutti fascisti. Forse potevano farlo gli intellettuali, ma non lo hanno fatto. Non hanno avuto il coraggio di dire: abbiamo applaudito Mussolini. Hanno preferito avallare l’idea che la cultura era stata tutta antifascista. Non era stato così e oggi sta venendo fuori».

A proposito di intellettuali, che fine hanno fatto?

«L’intellettuale impegnato, come si diceva negli anni 70, si spegne con la fine fisica di una generazione. La verità è che il Paese non ha più interesse ad ascoltare gli intellettuali, la politica non ne ha bisogno, non li sollecita e loro ricambiano con altrettanto disinteresse».

Prof, metterebbe anche la sconfitta di Renzi al referendum istituzionale tra quelle che non tradendo non cambiano?

«Sì. Questo paese è prigioniero di corporazioni che temono ogni novità che possa mettere in pericolo i loro interessi; inoltre ha giocato un ruolo importante quel gruppo di intellettuali che considera costituzione e antifascismo come una gabbia di ferro ideologica dalla quale dopo 70 anni non è possibile uscire. L’accoppiata interessi costituiti e cultura antifascistico-costituzionalista ha prodotto il risultato che conosciamo e quindi la paralisi».

QUELLI CHE…SONO RAZZISTI CON ARTE, SENZA PARTE.

L’Arte è Arte, non è parte. L’Arte non ha tempo, né ideologia. Chi riflette luce estemporanea ed ha una ideologia, non è artista, ma partigiano. Chi è invitato da un boss criminale sanguinario mafioso può avere dei ripensamenti. Chi viene invitato ad esibirsi per l’insediamento del presidente democraticamente eletto del paese più democratico e sviluppato del mondo, e onorare il paese, da cui proviene e si rifiuta per fini politici, non merita di essere definito artista, ma semplicemente comunista, senza arte, con parte...

Guai a trasformare la lotta politica in guerra dei sessi. La competizione fra Clinton e Trump è diventata una competizione fra sinistra e destra del mondo, scrive Francesco Alberoni, Domenica 29/01/2017, su "Il Giornale". La competizione elettorale fra Hillary Clinton e Donald Trump è diventata una competizione fra sinistra e destra del mondo. In ogni Paese infatti vi erano partigiani di Obama e di Hillary e partigiani di Trump e, poiché un po' dovunque in Occidente la stampa e il mondo dello spettacolo erano orientati a sinistra, la vittoria di Trump è stata vissuta come la vittoria di un nemico della sinistra e di tutto quanto c'era di progressista. Quindi anche della cultura e dell'arte, espressioni di quanto più rozzo, grossolano e incivile c'era nel fondo barbarico dell'America. E poiché i democratici e, più in generale, quelli di sinistra si considerano i campioni della democrazia hanno visto la vittoria di Trump come l'ascesa al potere di un tiranno antidemocratico, di un potenziale despota. Contro di lui si è mobilitata la stampa e tutto il mondo dello spettacolo americano, nessun cantante si è prestato a cantare per Trump e nessun divo di Hollywood è stato presente al suo insediamento. Hillary, inoltre, si è presentata come il campione della riscossa femminista, quella che ne difende il potere e i valori. Gioco facile con Trump, accusato di essere antifemminista perché ha avuto la sfacciataggine di dichiarare che le donne sono inferiori agli uomini. Un insulto che molte donne si sono passate di bocca in bocca, che è stato rilanciato dalla stampa e di cui hanno fatto uno slogan di battaglia. Oggi stampa e televisione americane ci presentano il conflitto politico come una guerra dei sessi: da un lato le donne democratiche che difendono il progresso, dall'altra i maschilisti trumpisti rozzi e brutali. Un conflitto che qualche base sociale ce l'ha negli Stati Uniti, dove esiste una violenta competizione fra femmine e maschi. Ma i politici di sinistra, la stampa a la televisione nostrani sbagliano a credere di poterlo trapiantare in Italia. L'uragano Trump si abbatterà contro la prepotenza della Germania, le velleità della Francia e la burocrazia di Bruxelles, ma non dispiacerà agli italiani, maschi e femmine, che sono sempre stati trattati male da queste arroganti potenze europee.

Sinistra e anarchici mobilitati per rovinare la "festa" a Trump. Anarchici, movimenti di sinistra e associazioni si stanno mobilitando per una grande manifestazione contro Trump. Ecco chi c'è dietro, scrive Roberto Vivaldelli, Martedì 17/01/2017, su "Il Giornale". Movimenti per i diritti civili, anarchici, Black Lives Matter, associazioni: tutto il mondo della sinistra radicale statunitense si mobilita contro il presidente eletto Donald Trump in vista dell'insediamento ufficiale in programma venerdì 20 a Washington D.C. Come riporta l'agenzia americana Reuters, l'obiettivo degli organizzatori è chiaro: rovinare, a qualsiasi costo, la festa a Trump, anche impiegando metodi non convenzionali e violenti. I manifestanti cercheranno di radunarsi presso i 12 checkpoint di sicurezza del Campidoglio e sfileranno lungo il percorso della parata di 2,5 miglia (4 chilometri). "Vogliamo interrompere l'inaugurazione - ha affermato uno dei leader del movimento DistruptJ20, David Thurston, in conferenza stampa - vogliamo che la ribellione cresca in tutto il Paese e in tutte le città”. DisruptJ20, che sta collaborando con Black Lives Matter e altri gruppi rivoltosi, ha annunciato che ci saranno delle barricate prima dell'alba e manifestazioni dirompenti durante l'insediamento di Donald Trump. Più di 300 volontari di DisruptJ20 lavoreranno per mobilitare i manifestanti in una lunga serie di proteste che il movimento ha definito il "Festival della Resistenza". E i metodi non saranno affatto pacifici: "Non siamo a favore di una transizione pacifica del potere, dobbiamo fermarlo" - ha sottolineato uno degli organizzatori. Nel complesso, secondo il National Park Service, sono 27 i movimenti di protesta a cui sono stati concessi i permessi e che saranno presenti il giorno dell'insediamento, un numero quattro volte superiore rispetto al passato e che non ha eguali nella storia. Secondo i funzionati del governo, la cerimonia dovrebbe attirare circa 800 mila spettatori. Si temono degli scontri con i sostenitori del presidente Donald Trump. La protesta a Washington D.C proseguirà anche il giorno seguente, con più 200mila persone pronte a sfilare alla "Marcia delle Donne" ("Women's March"): un corteo organizzato da un gruppo di attiviste in risposta ai toni “sopra le righe” del neo-presidente impiegati durante la campagna elettorale. “La retorica impiegata nella recente campagna elettorale presidenziale ha demonizzato e minacciato molti di noi - immigrati, musulmani, persone di fedi diverse, LGBTQ, nativi americani, persone di colore, disabili, donne che hanno subito violenze sessuali - e le nostre comunità sono spaventate da questo. La Marcia delle Donne di Washington darà un forte messaggio ai nuovi governanti nel primo giorno di mandato”. Sul web gli attivisti anti-Trump hanno fatto circolare una petizione per fermare il presidente eletto: trattasi di un vero e proprio portale che segnala e documenta, attraverso video e fotografie, le manifestazioni contro il tycoon che si stanno svolgendo in questi giorni in tutto il Paese. "Ci rifiutiamo di accettare un'America fascista - affermano - Donald Trump, il presidente eletto, sta costruendo un regime molto pericoloso. La nostra angoscia è corretta e giusta. La nostra rabbia deve ora diventare una massiccia resistenza, prima che Trump prenda il potere". Tra i firmatari c'è anche Bill Ayers, noto pedagogista e attivista statunitense, già leader e fondatore dell'organizzazione terroristica di estrema sinistra Weather Underground che si era distinta, negli anni '70, per attacchi dinamitardi che avevano come obiettivo principale gli edifici governativi e le banche. Fu inoltre autrice di attentati compiuti contro il Campidoglio e il Pentagono. A questo quadro dalle tinte fosche, si aggiunge, ancora una volta, l'ombra dei manifestanti pagati per scendere in strada contro il neo-presidente. Sono diversi gli annunci di lavoro on line pubblicati sul portale Backpage dall'organizzazione Demand Protest in diverse città degli Stati Uniti (San Diego, Tulsa, Phoenix, ed El Paso). Demand Protest recluta personale motivo per "inviare un messaggio in occasione delle manifestazioni che si terranno in concomitanza con l'insediamento di Trump", offrendo un compenso di 2mila e 500 dollari al mese o di 50 dollari l'ora. “Se stai per agire, perché non lo fai con noi” - recitano gli annunci di lavoro sotto il titolo emblematico di “fatti pagare per lottare contro Trump”. “Stiamo degli strateghi che mobiliano i millenials in tutto il mondo - spiegano i promotori sul loro sito web - e con assoluta discrezione, che è la nostra assoluta priorità, i nostri operatori realizzano delle scene convincenti che diventano elementi costitutivi dei movimenti di massa”. La sinistra radicale americana non ha alcuna intenzione di accettare il risultato elettorale, sancito da un'elezione democratica, e si profilano giornate segnate da forti tensioni e scontri. Riusciranno a rovinare la festa a Trump?

Giorgio Armani ha detto sì: "Vestirò Melania Trump". Dopo le polemiche per l'abito Dolce e Gabbana indossato per festeggiare il Capodanno in Florida con il marito, la futura first lady ha trovato uno stilista disposto a vestirla, scrive Marta Proietti, Domenica 15/01/2017, su "Il Giornale". Giorgio Armani si è reso disponibile a vestire Melania Trump, a seguito delle polemiche per l'abito Dolce e Gabbana indossato per festeggiare il Capodanno in Florida con il marito. Ora la futura first lady sembra aver trovato uno stilista disposto a vestirla. Perché nonostante lei sia la futura first lady degli Stati Uniti d'America, sembrava ormai impossibile riuscire a scovare uno stilista che ci mettesse la faccia. Come racconta Il Fatto Quotidiano, la scarsa simpatia del mondo della moda per Melania ha radici piuttosto lontane: quando, poco dopo l'elezione del marito a presidente degli Stati Uniti, la bionda slovena aveva dichiarato di voler essere "la first lady più glamour dai tempi di Jackie Kennedy" in molti avevano storto il naso. Forse il paragone fatto da Melania è stato un po' azzardato ma resta il fatto che stiamo parlando di un ex modella, finita sulle copertine di tutto il mondo, e che se non si trattasse della moglie di Donald Trump tutti gli stilisti farebbero a gara per vestirla. Finalmente, sembra sia arrivato qualcuno disposto a dare i suoi abiti e si tratta di un italiano: Giorgio Armani.

Flavio Briatore: «Gli stilisti che non vogliono vestire Melania Trump? Gente scema». L’imprenditore alla sfilata di Billionaire Couture si toglie qualche sassolino dalle scarpe e difende apertamente l’amico Donald Trump. «È l’uomo più potente del mondo, un numero uno, anche chi lo denigra se ne deve fare una ragione. La polemica sollevata dagli stilisti che non vogliono vestire Melania è una roba scema, messa in piedi da gente scema» - Michela Proietti /Corriere TV 17 gennaio 2017. L’imprenditore, fondatore del marchio Billionaire ora rilevato dallo stilista tedesco Philipp Plein, in prima fila alla sfilata con la moglie Elisabetta Gregoraci e il figlio Nathan Falco. Oggi la famiglia partirà per Washington, per partecipare all’insediamento di Trump. «Per me un vero onore, un’occasione che capita solo una volta nella vita», ha detto Briatore.

Il Volo dice no a Trump: non canteremo per chi punta su populismo e xenofobia. I tre italiani hanno declinato lʼinvito ad esibirsi alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente. "Mai dʼaccordo con le sue idee - spiegano - ma non va criminalizzato chi canterà per lui. E nemmeno chi non lo fa, scrive "TGCom 24" il 6 gennaio 2017. Il Volo prende le distanze da Donald Trump: il trio italiano, nonostante l'invito, non canterà alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente Usa. I tre spiegano al "Corriere della Sera" i motivi del rifiuto: "Non siamo d'accordo con le sue idee, non possiamo appoggiare chi si basa su populismo oltre che su xenofobia e razzismo dicono Boschetto, Ginoble e Barone. Nessun problema per chi si esibirà al posto loro: "Non va criminalizzato chi canterà per Trump, così come chi non lo fa". Il Trio ha un vastissimo seguito negli Usa: il loro live al Radio City Music Hall del 4 marzo è tutto esaurito. È proprio per questo motivo che Il Volo non si preoccupa delle possibili conseguenze che potrebbe comportare il due di picche al nuovo presidente americano: "Pensiamo che il nostro futuro non dipenda da questo", sostengono decisi i tre. "Chi ci ama ci seguirà ugualmente". C'è da dire però che i tenori non sono stati i primi e nemmeno gli unici a declinare l'invito del tycoon alla cerimonia di insediamento. La lista delle celebrity che ha voltato la faccia al neoletto Trump spazia dal rapper Kanye West al bassista Gene Simmons dei Kiss, da pop star del calibro mediatico di Justin Bieber a Bruno Mars, Katy Perry e Justin Timberlake. Grande clamore ha suscitato anche il presunto rifiuto di Andrea Bocelli, peraltro amico de Il Volo, che avrebbe deciso di non esibirsi alla Casa Bianca. Non ci sono state smentite e nemmeno conferme, ma è bastata l'ira dei fan - che sono insorti in Rete lanciando l'hashtag #BoycottBocelli - a scoraggiare un'ipotetica presenza del tenore sul palco presidenziale. Sulla questione il trio italiano ammette di essere a conoscenza della versione ufficiale, ovvero quella dell'invito pervenuto e rispedito al mittente, ma sottolinea: "Quando ci vediamo preferiamo discutere di altro, tipo di musica".

Anche Il Volo dice “No” a Donald Trump: i suoi atteggiamenti sono xenofobi e razzisti, scrive "Novella 2000" il 6 gennaio 2017. Donald Trump, il neo presidente degli Stati Uniti, ha chiesto a Il Volo di esibirsi per il concerto della sua cerimonia di insediamento (il 20 gennaio), ma i tre tenori, Gianluca Ginoble, Ignazio Boschetto e Piero Barone, dopo la sorpresa iniziale, hanno risposto: “Grazie no, Mr. President”. Anche loro, dopo Elton John e Andrea Bocelli, hanno rifiutato l’offerta, motivandola con queste parole: «Abbiamo rifiutato il suo invito perché non siamo mai stati d’accordo con le sue idee: non possiamo appoggiare un uomo che ha basato la sua ascesa politica sul populismo oltre che su atteggiamenti xenofobi e razzisti». I tre cantanti, lanciati da Antonella Clerici, non sono andati tanto per il sottile convinti che la musica e la politica abbiano un legame: «Come artisti abbiamo una grande eco. Non potevamo cantare per una persona con cui non condividiamo quasi niente». Negli Stati Uniti, Il Volo è adorato e il dire “No” a Trump non preoccupa i tre cantanti: «Pensiamo che il nostro futuro non dipenda da questo. Chi ci ama ci seguirà ugualmente. Nei nostri concerti, poi, non parliamo di politica. E non siamo stati i soli a dirgli no, sappiamo anche che il nostro amico Andrea Bocelli ha rifiutato… Noi sappiamo che è andata così. Con lui non ne abbiamo parlato perché quando ci vediamo preferiamo discutere di altro, tipo di musica». Gianluca, Ignazio e Piero, hanno pure affermato che molto probabilmente non seguiranno la cerimonia d’insediamento di Donald Trump nemmeno in Tv: «Se gioca Roma-Inter guarderò la partita», ha affermato Gianluca, per poi aggiungere «Nessun rammarico. Non diremo: cosa ci siamo persi, perché la nostra è stata una decisione presa con calma. E perché tutti e tre viviamo senza rimpianti…». Ora per Donald Trump diventa sempre più complicato reclutare artisti disposti a suonare per lui, mentre alla cerimonia di insediamento di Barack Obama star come Beyoncé, Lady Gaga, Stevie Wonder e Aretha Franklin avevano fatto a gara per esserci.

Il gran rifiuto del Volo a The Donald. Il celebre trio non canterà all’inaugurazione del nuovo presidente americano, il prossimo 20 gennaio: «Non appoggiamo il populismo xenofobo», scrive Chiara Maffioletti il 6 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Quante volte può capitare a un artista di essere chiamato dal presidente degli Stati Uniti per esibirsi alla cerimonia del suo insediamento? osì, quando qualche settimana fa la proposta di Donald Trump è arrivata a Il Volo, Gianluca Ginoble, Ignazio Boschetto e Piero Barone, dopo la sorpresa iniziale, si sono confrontati, ci hanno riflettuto e alla fine sono arrivati alla conclusione di dire grazie no, Mr. President. «Abbiamo rifiutato il suo invito perché non siamo mai stati d’accordo con le sue idee: non possiamo appoggiare un uomo che ha basato la sua ascesa politica sul populismo oltre che su atteggiamenti xenofobi e razzisti». Insomma, non ci girano attorno. E, al contrario di quello che magari ci si potrebbe aspettare, non giocano la prudente carta — cara a tanti loro colleghi — del: «La musica non c’entra con la politica». Anzi, sono tutti e tre ben consapevoli del fatto che «come artisti abbiamo una grande eco. Non potevamo cantare per una persona con cui non condividiamo quasi niente». E come loro devono averla pensata anche tutti gli altri artisti che hanno declinato il presidenziale invito. «Ma la democrazia è importante. Non va criminalizzato chi si esibirà quel giorno, così come non va fatto con chi la pensa diversamente da noi. Per quanto ci riguarda ci rendiamo conto di essere un esempio per molti, soprattutto giovani, ed è per questo che raccontiamo la nostra idea». Negli Stati Uniti Il Volo è adorato. Il concerto del prossimo 4 marzo alla Radio City Music Hall è già «sold out» tanto che ora si prevede una nuova data. Dire no a Trump ad altri avrebbe fatto venire il dubbio di vedersi chiudere qualche porta a stelle e strisce. «Ma pensiamo che il nostro futuro non dipenda da questo. Chi ci ama ci seguirà ugualmente. Nei nostri concerti poi non parliamo di politica. E non siamo stati i soli a dirgli no, sappiamo anche che il nostro amico Andrea Bocelli ha rifiutato...». Anche se non lo ha mai confermato: non si sa se sia stato davvero invitato da Trump... «Ah. Beh noi sappiamo che è andata così. Con lui non ne abbiamo parlato perché quando ci vediamo preferiamo discutere di altro, tipo di musica». La loro decisione di prendere posizione e raccontare perché hanno detto no a Trump dipende invece dal fatto che «se anche la politica americana può apparire lontanissima da noi, il risvolto sociale di quello che succede lì ci interessa e ci riguarda». Se vi avesse chiamati Obama sareste andati? Qualche attimo di lieve, divertito, imbarazzo. Poi se la cavano così: «Comunque non ci ha chiamati». Non sanno se seguiranno la cerimonia di insediamento, il 20 gennaio: «Se gioca Roma-Inter guarderò la partita», commenta Gianluca, ma, facendosi di nuovo seri, sono tutti e tre certi che se anche la guarderanno, non avranno «nessun rammarico. Non diremo: cosa ci siamo persi, perché la nostra è stata una decisione presa con calma. E perché tutti e tre viviamo senza rimpianti. Davanti a noi poi abbiamo un tour bellissimo, gireremo l’Italia, canteremo in posti fantastici...». Non solo America quindi. E anche se non sanno cosa guarderanno in tv il giorno dell’insediamento, pare già certo che Sanremo non se lo perderanno... «Ehhh, il Festival certo che lo seguiremo, non possiamo non farlo».

I tre tenori de Il Volo rifiutano di cantare per Donald Trump. Gli artisti de Il Volo hanno declinato l'invito di Donald Trump e non canteranno alla cerimonia del suo insediamento. "Non condividiamo nulla con lui", scrive Anna Rossi, Venerdì 06/01/2017, su "Il Giornale". "Abbiamo rifiutato di cantare alla cerimonia di insediamento di Donald Trump perché non siamo mai stati d'accordo con le sue idee". Così Gianluca Ginoble, Ignazio Boschetto e Piero Barone de Il Volo hanno declinato l'invito del nuovo presidente degli Stati Uniti. In un'intervista al Corriere della Sera i tre cantanti motivano la loro decisione. "Non possiamo appoggiare un uomo che ha basato la sua ascesa politica sul populismo oltre che su atteggiamenti xenofobi e razzisti. Come artisti abbiamo una grande eco. Non potevamo cantare per una persona con cui non condividiamo quasi niente" - spiegano gli artisti de Il Volo. Il grande rifiuto dei tre cantanti non è passato inosservato e sono tanti quelli che accusano i tre ragazzi di essersi "montati un po' troppo la testa". "Quante volte può capitare ad un artista di essere chiamato dal presidente degli Stati Uniti per esibirsi alla cerimonia del suo insediamento? Pochissime. Snobbare un invito di questa portata mi sembra un po' azzardato", scrive un utente in rete. E di commenti di questo tipo ce ne sono a bizzeffe, come d'altro canto ci sono tanti altri utenti che condividono pienamente la decisione dei tre artisti. "Non pensiamo - continuano - che il nostro futuro dipenda dal nostro rifiuto a Donal Trump. Chi ci ama ci seguirà ugualmente. Nei nostri concerti poi non parliamo di politica. E non siamo stati i soli a dirgli no, sappiamo anche che il nostro amico Andrea Bocelli ha rifiutato". La loro decisione di prendere una netta posizione e raccontare perché hanno detto "no" a Trump - dicono - dipende dal fatto che "se anche la politica americana può apparire lontanissima da noi, il risvolto sociale di quello che succede lì ci interessa e ci riguarda". Condivisibili o meno, sono queste le motivazioni che hanno spinto i tre cantanti de Il Volo a rifiutare l'invito di Donald Trump.

Inauguration day, ecco chi ha rifiutato l’invito di Donald Trump, scrive “Il Corriere della Sera” il 7 gennaio 2017. Il no di Andrea Bocelli e del Volo. E tutti gli altri artisti che hanno declinato l’invito (o che lo declinerebbero se invitati) per la serata di gala del 20 gennaio 2017.  

1. Il rifiuto del Volo. Un rifiuto anche dall’Italia, il no a Trump del gruppo Il Volo: «Non siamo stati mai d’accordo con le sue idee politiche e con i suoi atteggiamenti xenofobi e razzisti». Dieci settimane dopo aver sorpreso l’America e il mondo con la sua vittoria nelle elezioni americane, Donald Trump il 20 gennaio giurerà come 45esimo presidente degli Stati Uniti. Ma sono già numerosi gli artisti di mezzo mondo che, invitati a esibirsi all’evento, hanno rinunciato motivando il rifiuto con una presa di posizione contro il neo eletto leader Usa. Un illustre «No» arriva anche dall’Italia, con il Volo, l’ensemble canoro che ha poi spiegato: «Abbiamo rifiutato il suo invito perché non siamo mai stati d’accordo con le sue idee: non possiamo appoggiare un uomo che ha basato la sua ascesa politica sul populismo oltre che su atteggiamenti xenofobi e razzisti».

2. L’elegante rifiuto di Celine Dion. Secondo il sito di gossip Usa Tmz, Celine Dion avrebbe declinato l’invito presidenziale perché «già impegnata».

3. Il no politico dei Kiss. La trasgressiva band Usa ha declinato l’invito del neo presidente. A riferirlo la moglie del leader Gene Simmons, Shannon Tweed.

4. La smentita di Elton John. Il portavoce dell’artista inglese, Fran Curtis, ha comunicato ufficialmente che «Elton non si esibirà all’inaugurazione della presidenza Trump». La nota si è resa necessaria dopo l’annuncio fatto da un membro dello staff del neopresidente.

5. Garth Brooks non ci sarà. Non sarà della serata neppure la star del country Garth Brooks. A confermare il suo «gran rifiuto» la rivista «Daily Variety».

6. Lo scherzo ai The Chainsmokers. Un giornalista, forse per scherzo, aveva annunciato che i due dj riuniti sotto il nome di The Chainsmokers avrebbero partecipato alla serata inaugurale del 20 gennaio. La «battuta» è stata in ogni caso smentita dal manager della band.

7. La giovanissima star di «America’s Got Talent». Jackie Evancho, reginetta sedicenne della fortunata trasmissione poi esportata in tutto il mondo, è al momento uno dei pochi artisti confermati all’Inauguration day di Donald Trump.

8. I mal di pancia delle danzatrici. Anche l’ensemble di danza The Radio City Rockettes ha confermato che parteciperà all’evento del prossimo 20 gennaio. Tuttavia, alcune ballerine si sono dette perplesse, imbarazzate o preoccupate, nessuna di quelle di colore inoltre ha deciso di partecipare.

9. Il no di David Foster. Il musicista canadese ha diramato una nota per rispondere a quanti davano per scontata la sua partecipazione (o addirittura un suo ruolo organizzativo) in vista della serata inaugurale della presidenza Trump: «Ho cortesemente e rispettosamente declinato. Ogni altra notizia in merito è priva di fondamento».

10. Lo scontato no di Ice T. Ice T ha twittato il suo rifiuto ufficiale all’invito che gli è pervenuto telefonicamente: «Non ho neanche risposto e poi ho bloccato il numero di chi mi aveva chiamato», ha scritto l’artista afro-americano.

11. La condizione di Rebecca. La cantante britannica Rebecca Ferguson ha spiegato che si esibirà solo se potrà interpretare la canzone «Strange Fruit», il brano reso celebre da Billie Holiday diventato l’inno delle campagne antirazziste nel mondo.

12. Il sì del coro mormone. L’ensemble vocale The Mormon Tabernacle Choir ha confermato la sua partecipazione attraverso il sito Internet ufficiale della chiesa mormona statunitense.

13. Il no preventivo di Adam Lambert. Interpellato dalla Bbc su una sua eventuale partecipazione al concerto in onore di Donald Trump, il cantautore statunitense ha risposto che «non prenderei mai soldi da un tipo simile».

14. Il no di Matt Healy dei The 1975. Anche Matt Healy, leader del gruppo britannico di indie rock The 1975, sarebbe poco disposto ad accettare: «Accetterei se mi strapagassero. Ma poi scoppierebbe una rivolta».

15. L’intervista a Idina. La cantante Idina Menzel ha detto a «Vanity Fair» che probabilmente Trump dovrebbe cantare da solo: «Forse pensa di avere una bella voce, del resto crede di fare tutto benissimo».

16. La dichiarazione di John Legend. Il cantautore John Legend ha dichiarato alla Bbc: «Chi lavora con la propria creatività è portato a rigettare l’odio e l’intolleranza. Di solito aspira ad avere una mentalità aperta. Penso che sia spiacevole che molti creativi accettino di essere associati a qualcuno che si comporta in modo bigotto, predicando odio e divisione».

17. Il no delle Dixie Chicks. Anche il gruppo di country tutto al femminile ha spiegato, attraverso il proprio manager, che non accetterebbe mai un invito del genere.

18. La battuta di Rick Astley. «Dipende da quanto è grande l’assegno», il cantante britannico ha risposto così alla domanda della Bbc a proposito di una sua eventuale partecipazione alla serata del 20 gennaio. Ma subito dopo ha aggiunto: «Tuttavia, che sia Donald Trump o chiunque altro, non sono sicuro che andrei mai a suonare per un presidente americano. A dirla tutta, non è posto per un artista britannico».

19. Gli indecisi Beach Boys. I Beach Boys sono stati invitati ai primi di gennaio e non hanno ancora sciolto la riserva sulla loro partecipazione alla Inauguration day del 20.

20. Il no tardivo di Andrea Bocelli. L’artista italiano aveva inizialmente accettato, poi però ha cambiato idea sotto l’incalzante pressione dei fan sui social media: «La situazione si sta animando troppo, sta suscitando troppo clamore. Non c’è modo che io faccia questo concerto», avrebbe confidato a una fonte del «New York Post».

"Come sono strani i cantanti...". Esordisce così Vittorio Sgarbi in un video pubblicato su Facebook il 7 gennaio 2017, dove, a modo suo, interviene su uno dei temi di più stringente attualità, tra spettacolo e politica, ovvero i rifiuti incassati da Donald Trump da parte degli artisti che non vogliono esibirsi per lui alla cerimonia per l'insediamento alla Casa Bianca. Dopo una battuta su Bob Dylan che rifiuta di ritirare il premio Nobel, si passa ad Andrea Bocelli e a Il Volo.

“Come sono strani i cantanti”, esordisce Vittorio Sgarbi incredulo per alcuni atteggiamenti e cita alcuni casi eclatanti: Bob Dylan che non ritira il Nobel e il rifiuto di Andrea Bocelli sino a quello del trio Il Volo di andare a cantare per il neo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Spiega Sgarbi: “È strano che dei cantanti vengano chiamati dal presidente degli Stati Uniti a cantare e dopo che sono sempre stati dalla parte dei capitalisti e sono pieni di soldi”. “Io conosco bene anche il trio Il Volo – sottolinea -, li ho visti da bambini, erano dei bambini, piccoli, gentili, carini come i tre porcellini. Il Volo erano tre bambini piccoli, gentili, carini però solo il desiderio di essere famosi e così vengono chiamati da Trump, ecco Trump, ma metti un disco e mandali a fare in culo, che te ne frega di avere Bocelli dal vivo, che ti ferma che sia lì, così risparmi. Vabbè, non vuoi risparmiare e così li inviti e loro cosa fanno? Il grand rifiuto del trio Il Volo a Donald? E perché non canteranno? Sono impegnati come Bob Dylan col Nobel? No, "non appoggiamo il populismo xenofobo". Io non so se sanno esattamente cosa voglia dire, però hanno risposto così, si sono confrontati e alla fine hanno detto "Grazie, no, Signor Presidente". "Non siamo mai stati d'accordo con le sue idee", ma perché avete avuto delle idee? Devono cantare o avere delle idee?”. “Così quando qualche settimana fa – prosegue Sgarbi - la proposta di Donald Trump è arrivata al Volo, Gianluca Ginoble, Ignazio Boschetto e Piero Baroni dopo la sorpresa iniziale si sono confrontati, ve li immaginate il trio che si confronta? C’hanno riflettuto e alla fine sono arrivati alla conclusione di dire: grazie no Mr President. Le motivazioni? "Non siamo d’accordo con le sue idee", ma erano dei bambini, hanno avuto le loro idee? Qualcuno le conosce le loro idee? Loro devono cantare o essere d’accordo con le idee di Trump?”. “Vorrei ricordarvi – racconta – che voi siete stati lanciati dal vostro amico e mio amico Tony Renis. Tony Renis è un italiano culo e camicia con Berlusconi, xenofobo e razzista, bravissimo e simpatico. L’avete anche inculato dopo che lui vi ha sostenuto, vi ha aiutato, voi l’avete tradito e siete con torpedine Michele Torpedine, nel 1999 è stato rinviato a giudizio per frode fiscale, corruzione e falso ideologico, certo non è come essere xenofobo e populista”.  “Sarà falso – continua il critico -, ma perché frequentate questa gente? Perché frequentate Tony Renis amico di Trump e di Berlusconi? Perché frequentare Torpedine di cui sono convinto che sia innocente, ma di cui Wikipedia racconta questo che vi ho letto?”. “Allora andate a cantare e non rompete il cazzo – esclama Sgarbi -. Andate da Trump, non fate le seghe, tre coglioncelli inutili, andate e cantate di corsa, non in volo. E altrimenti lui può mettervela nel culo lo stesso, metterà su un vostro disco e voi canterete nel vuoto senza esserci per qualcuno che dirà siete in un angolo in fondo e vi ha tenuto in cucina vi lascia cantare dalla cucina, perché si vergogna di voi”. E conclude: “Io mi guarderei da fare considerazioni del cazzo su argomenti del cazzo”.

Sgarbi: "Il Volo non va da Trump? Coglioncelli". La replica: "Non siamo cd", scrive il 07/01/2017 "ADNKronos". "Tre coglioncelli inutili... Il Volo erano tre bambini carini, come i tre porcellini. Trump, metti su un cd e mandali a fare in culo". Vittorio Sgarbi commenta così la decisione con cui Il Volo ha declinato l'invito di Donald Trump, che avrebbe voluto un'esibizione del trio per la cerimonia del proprio insediamento. "Non andate a cantare perché lui è un populista... Bravi... Vorrei ricordarvi che siete stati lanciati dal mio amico Tony Renis, xenofobo e populista, bravissimo e simpatico", dice Sgarbi in un video pubblicato su Facebook. A rispondere, senza citare il critico d'arte, è Piero Barone, che forma il trio con Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble. "'Siete cantanti, vi hanno chiamato, dunque cantate', con questo semplice ragionamento personaggi pubblici, leoni da tastiera e odiatori seriali si stanno accanendo contro le nostre recenti affermazioni", scrive Barone su Twitter. ''Dunque per la logica che loro rivendicano, un cantante deve cantare, non deve avere un pensiero critico. Sono sicuro che nel caso avessimo detto sì, cantando alla cerimonia di insediamento, le critiche sarebbero state le stesse, forse peggiori", prosegue il messaggio. "Ecco quindi che siamo stati solo la quotidiana dose di odio di cui si nutre il dibattito social, domani toccherà ad altri o ad altre cose. Rimango del parere che un cantante - conclude - non è un cd ma una persona libera di scegliere come, quando, per chi cantare".

Sgarbi contro Il Volo: "Siete tre coglioncelli di periferia". Vittorio Sgarbi attacca nuovamente il trio Il Volo mettendo in discussione che vi sia veramente stato un invito da parte del presidente eletto Donald Trump a cantare nel giorno del suo insediamento, scrive Francesco Curridori, Lunedì 09/01/2017, su "Il Giornale". Vittorio Sgarbi contro Il Volo, parte seconda. Il critico d'arte, in questo nuovo video, mette in dubbio che il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, abbia veramente invitati il trio canoro italiano. “Ho un dubbio: che oltre alla stronzata di aver detto ‘non andiamo’, questo non sia un pensiero che nasce da una lettera, un fax, una mail con la firma Donald Trump ma una risposta a un eventuale invito”, dice Sgarbi in un video pubblicato ieri su Facebook nel quale è tornato a criticare il Volo. "È talmente bello essere come De Niro, - aggiunge - insultare nel modo più violento Trump per dire noi siamo diversi, una categoria umana antropologicamente diversa da Trump perché a noi non importa il denaro, i soldi o la fama ma il canto. Noi siamo idealisti, abbiamo le ali come gli angeli". Sgarbi si dice assolutamente certo "che loro non potranno esibire nessuna richiesta ufficiale della segreteria di Trump. Hanno detto di no a niente. Hanno inventato un nemico brutto, cattivo, xenofobo e hanno detto: no, noi per te non cantiamo no no no". "Non vi odio, ma mi state sui coglioni. Mi sta sui coglioni chi dice di no a cazzo", dice il critico d'arte senza troppi peli sulla lingua. E anche se Trump avesse invitati per davvero Il Volo, secondo Sgarbi, avrebbero dovuto mostrare riconoscenza dato che per lui voi siete solo “tre pischelli di periferia inventati da Tony Renis”. “Fate vedere il documento ufficiale in cui la Casa Bianca chiede a tre coglioncelli di periferia musicale di cantare per l’insediamento del Presidente degli Stati Uniti. Quel documento non c’è, ve la siete inventati per fare i fenomeni, fenomeni senza ali", conclude Sgarbi.

Vittorio Sgarbi e Il Volo: ancora polemiche. Prosegue la polemica tra Il Volo e Vittorio Sgarbi sul rifiuto da parte dei tre cantanti di partecipare alla cerimonia per il giuramento di Trump, scrive Luca Romano, Lunedì 23/01/2017, su "Il Giornale". Prosegue la polemica tra Il Volo e Vittorio Sgarbi sul rifiuto da parte dei tre cantanti di partecipare alla cerimonia per il giuramento di Trump. E così dopo la mossa di Sgarbi che aveva mostrato le carte che a suo dire dimostravano il mancato invito de Il Volo negli Usa, a Domenica Live è arrivata la risposta dei cantanti che in tv hanno mostrato un altro documento che invece mostrerebbe le prove dell'invito. Una polemica che però non si è chiusa con la puntata di Domenica Live, ma è proseguita con una risposta di fuoco da parte di Sgarbi su Facebook. Una controreplica che di fatto sottolinea come l'invito de il Volo, secondo Sgarbi, non sia mai esistito: "Credo più al Presidente degli Stati Uniti, che ha dichiarato di non averli invitati, che a tre pischelli, preoccupati del loro destino per aver detto una clamorosa bugia. Il documento è palesemente insignificante. Come prevedevo, non fa riferimento a nessun ingaggio, e quindi a nessuna rinuncia ad alcun compenso che mostrerebbe l'orgoglio e il coraggio di chi l'ha rifiutato". Poi Sgarbi rincara la dose: "I tre, intorpediniti, hanno solo cercato pubblicità affiancandosi ai divi che, come De Niro, hanno vilipeso pretestuosamente Trump. Barbara D'Urso, per rimestare nel torbido, si è prestata a mostrare il documento inattendibile come prova di una convocazione che non c'è stata, come non c'è stata la volontà di Trump di chiamare né Bocelli né Il Volo". E ancora: "Qualcuno lo avrà forse ipotizzato, ma dalle informazioni in mio possesso, tramite il Consolato generale Usa a Milano, si evince che a loro (e non a una sedicente agenzia) non risulta che nessun artista italiano sia stato invitato a cantare e neanche a presenziare alle celebrazioni dell'insediamento del Presidente. E' ovvio che la Sony sta cercando di proteggere i tre marmocchi. Magari ci saranno stati contatti tra la casa discografica e qualcuno dello staff del Presidente. Certamente nulla di ufficiale e nulla di voluto da Trump. E' un ulteriore autogol per consolare i residui fans. Mister Philip T. Reeker, che è Console Generale degli Stati Uniti a Milano, è legatissimo a Trump, e può rendere pubblica la verità. L'agente de Il Volo, Michele Torpedine, ha chiesto aiuto a un'agenzia di spettacolo per farsi inviare, retrodatata, una richiesta, priva di ingaggio e di sostanza. Pura fuffa. Il Volo si arrampica sugli specchi ma si schianta nuovamente al suolo. Suzanne Bender, come sanno gli addetti ai lavori, non è altro che un agente che piazza e vende artisti". Infine afferma: "Lo scambio di mail tra la Sony Music, etichetta che pubblica le canzonette de Il Volo, e la Bender, è la prova che i tre marmocchi non hanno mai ricevuto un invito ufficiale dallo staff di Trump, ma solo quello di un agente che, tentativamente, pensava di rifilarli al neo eletto Presidente americano. Non c'è una richiesta da parte di Trump, men che meno del suo staff, d'invitare Il Volo. Non mi faccio certo intimidire dalle annunciate azioni legali, Anzi, spero proprio che le promuovano. Avremo anche la prova davanti a un Tribunale che non sono mai stati invitati da Donald Trump. E dal momento che io risponderò con una querela alle offensive affermazioni del trio, chiederò, in tribunale, proprio la testimonianza di Trump".

Razzisti contro Trump, scrive Nino Spirlì il 23 gennaio 2017 su “Il Giornale”. Già! Razzisti, ipocriti e menzogneri. Stampa fasulla e piazze pagate da chi ha preparato, con molto tempo a disposizione, un qualche migliaio di ridicoli cappellini rosa sciocco come le zucche in essi contenute. Crape vuote come un cesso abbandonato in discarica, che possono contare, però, nei tromboncini di certi giornalucci, cartacei e virtuali, che se la cantano e se la suonano fra di loro. Tutti contro il neo Presidente. Sono curioso di vedere quanti saranno a mantenere fede ai giuramenti di queste ore e a non correre a leccare il culo a Trump nei prossimi mesi. Bergoglio compreso, ridicolo nelle sue esternazioni politiche delle ultime ore. Menzione d’onore, poi, per la nostra televisione di Stato, che utilizza per il suo tg ufficiale immagini di una manifestazione sportiva di un ventennio fa per “condire” un servizietto sulle donne che manifestano contro il 45° Presidente degli USA. Menzogna su menzogna. A imperitura vergogna del giornalista che l’ha confezionato e del direttore che l’ha autorizzato!!! (Che mi tocca fare! Io, che non amo l’America, sono costretto a difenderne il Presidente. …  Fortunatamente, una delle cose migliori che le siano capitate negli ultimi mesi!) E le “contestatrici”, dico loro, chi sono??? Mi rifiuto di credere che rappresentino anche solo lo 0,0000000001% del popolo femminile americano. Si vede lontano un miglio che si tratti di quattro poveracce, stile punkabbestia, che avrebbero sfilato anche contro l’altezza della Statua della Libertà, contro la dentiera del Papa o la mutanda lenta di madonna… Disadattate prezzolate e galvanizzate, magari, da qualche regalino di polverine magiche. Trump fa bene a fottersene. Come e quanto ce ne fottiamo noi, che lo aspettavamo! L’America e il Mondo avevano bisogno di un controbilanciamento americano alla perfezione politica di Putin. Una sorta di nuovo asse Reagan Gorbaciov (quella bella accoppiata dei tempi d’oro del riavvicinamento e della pace), ma in tempo di guerra vera. Con la massomafia che la fa da grande, dopo la sciagura dell’ottennio del presidente di colore con signora finta ortolana al seguito. Smargiassa e gradassa sui mercati, la massoneria si è ingigantita con la nascita e il battesimo del terrorismo islamico, con le guerre sui territori del medio oriente e del Nord Africa, con la destabilizzazione sociomorale dell’Europa. Tutte partorite dalle menti malate di un establishment creato ad hoc nelle stanze del potere colorato di nero e biondo. Però… Però! Obama e Clinton hanno perso. E, con loro, tutti quei potentati che ci hanno portati alla fame, all’umiliazione, alla schiavitù. Talmente schiavi, che oggi ci impongono di andare a marciare e urlare contro Donald. Fortunatamente, a parte qualche demente e disadattato, qualche starletta invecchiata nel mito del pisello, qualche attore inguaiato con la salute e dedito, ormai, più alla pillola blu che all’amato alcool, qualche giornalista che venderebbe sua madre tumulata pur di apparire, tutti noi siamo lucidi e non ci caschiamo, nella rete delle provocazioni. Restiamo rispettosi in attesa. Osserviamo. Per giudicare.  Cosa che consigliamo anche al frettoloso papampero, panzer senza pilota e che sta allontanando migliaia di veri Cristiani dalla sua chiesa razzista vera, ma non dalla Chiesa. Fra me e me.

Barron Trump e i figli dei potenti che non hanno colpe. Usare la goffaggine di un bambino per togliere credibilità al padre è l’ultima trovata di un universo hollywoodiano lontano dalla gente e senza rispetto, scrive Marco Ventura il 27 gennaio 2017 su Panorama. Che male c’è ad avere 10 anni e non reggersi in piedi dalla stanchezza alle 3 di notte mentre al termine della campagna presidenziale che ha coinvolto tutta la famiglia tuo padre pronuncia il discorso della vita, il primo da presidente eletto degli Stati Uniti d’America? Che male c’è a sbadigliare, stralunare gli occhi, scuotersi di scatto per un applauso, infine sbuffare di sollievo quando il discorso di papà finisce? Che male c’è a sbagliare nel “dare il cinque” a tua madre e ritrovarti perciò su Twitter alla berlina della Rete come affetto da autismo (con disarmante retweet di Rosie O’Donnel, attrice, autrice tv e attivista per i diritti degli omosessuali, icona liberal del politicamente corretto)? Tutti i riflettori puntati su quel bambino in giacca e cravatta, Barron Trump, figlio di Donald e Melania Trump, che sembra non voler sorridere se non nelle foto in posa sulle copertine delle riviste glamour. Lui, Barron, “gode” delle attenzioni dei media, ma soprattutto dei social, in quanto figlio dell’impresentabile, quasi che i comportamenti del figlio minore potessero essere la spia di quelli del padre, e possano essere sfottuti dagli avversari che più facilmente riusciranno a caricaturare in miniatura, per via di discendenza, i tic e i limiti del padre odiato e potente. Ma così, permettetemi, non va. I politicamente corretti dimostrano ancora una volta di avere paraocchi ideologici e totale insensibilità. È stupenda la foto rimasta nella storia del piccolo John John che esce gattoni da un vano della scrivania nello Studio Ovale. Edificante e, di più, provvidenziale per l’immagine del padre, John Fitzgerald Kennedy. I figli nelle stanze, nei corridoi, in cucina, nei giardini della White House rendono casa e ufficio dei presidenti più umani, ambienti familiari. Eppure, John John si portò appresso negli anni la difficoltà di vivere all’ombra del padre e della sua memoria: finché fu il “cucciolo della Casa Bianca” si rivelò un formidabile portatore di messaggi positivi dal Presidente al suo popolo. Commovente pure la scena di lui ancora piccolo che poggia la mano sul feretro del padre JFK ucciso a Dallas. Chelsea Clinton, pure lei dovette subire da figlia di Bill e Hillary le ironie del pubblico e della stampa in anni (1992) in cui non esistevano ancora i social con la loro forza d’urto spesso distruttiva su costumi, linguaggio e sentimenti. Chelsea aveva l’apparecchio ai denti, di lei si disse che era il “cane della White House”. Ma non subì l’affronto dei video viralizzati sul web a sottolinearne le stranezze, semplicemente perché non esisteva la Rete. Katie Rich, autrice del Saturday Night Live, ha twittato che Barron diventerà “the first homeschool shooter”, come uno di quei giovani sballati e violenti che all’improvviso fanno strage a scuola. Un pluriomicida. Un altro autore Tv, Matt Oswalt, immagina Barron che si aggira all’interno della Casa Bianca in cerca di “cose da bruciare”. Una vena di inquietante follia insinuata nelle parole della scrittrice Caitlin Moran per la quale le espressioni di Barron sono “al 100 per cento Joffrey”, dal nome del Re di Game of Thrones. Le ironie più crudeli sono sui social, e non pongono freni alla pubblicazione di commenti di pessimo gusto. Certo è che il piccolo Trump deve abituarsi ai riflettori, alle ore piccole, al padre debordante, e poi anche essere vittima di voyerismo, invidia sociale, pregiudizio politico e, sì, cattiveria liberal. È Chelsea a difenderlo: “Barron merita di essere bambino proprio come gli altri bambini”. Chelsea amica di Ivanka, altra figlia di Trump. La barbarie della gogna irridente dei social verso Barron è che le “colpe” dei figli qui sembrano ricadere sui padri e non viceversa. Così, usare la stanchezza di un ragazzino, i suoi sbadigli, la sua goffaggine, per togliere credibilità al padre o attaccarlo, è solo l’ultima trovata di un universo hollywoodiano che vive in un cielo costellato di star ma lontano dalla gente. Rispettare il bambino che è Barron è davvero così difficile? È davvero così difficile accettare il gioco della democrazia che ha fatto vincere l’Impresentabile?

Quando l’impresentabile era Berlusconi…, scrive Paolo Delgado il 24 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Come Silvio, “The Donald” è un senza partito e anche il nazionalismo presenta punti di contatto: L’America first di Washington è simile al “Forza Italia” di Arcore. Estate 1994: tra i villeggianti che affollano le strade di una delle tante località balneari della Sardegna c’è un volto universalmente noto. Tutti lo riconoscono e lui, del resto, non cerca affatto di passare inosservato: abbronzatura da playboy anni ‘ 60, bandana colorata intorno al cranio, sorrisone malandrino. Uno dei tanti che si fermano a rimirarlo lo apostrofa strillando «Non mollare» e lui replica senza farsi pregare: «Certo che no. Gli facciamo un culo così!». L’unico giornalista presente sbigottisce e corre a scrivere. Non capita spesso e certo non sta bene che un presidente del consiglio minacci con formula tanto cruda di fare il mazzo agli avversari. Il giorno dopo, l’ultima di Silvio Berlusconi, presidente del consiglio eletto appena cinque mesi prima, campeggia su tutti i giornali del Paese. E conferma nella loro già salda opinione chi frequenta i salotti buoni ma anche chi siede ai vertici delle istituzioni: l’uomo nuovo è un intruso del quale prima ci si libera e meglio è. Ventitre anni dopo la sceneggiatura sembra riproporsi, stavolta in versione kolossal, sull’altra sponda dell’Atlantico. Le somiglianze tra il Cavaliere di allora e il Don di oggi sono innumerevoli, sin nei particolari. Chissà se qualcuno, guardano quelle centinaia di migliaia di donne e uomini sfilare a Washington in una sorta di protesta preventiva, si sarà ricordato del milione di persone che il 25 aprile 1994, a Milano, fecero la stessa cosa meno di un mese dopo la vittoria di don Silvio? E chissà quanti, di fronte al sessismo sfacciato del nuovo presidente, avranno ricordato il brivido con cui venne accolta la battutaccia del suo predecessore: «Nessuno può dire che io non apprezzi le donne. Le apprezzo moltissimo: soprattutto in certi momenti». Come il Cavaliere, the Donald è un senza partito. L’italiano aveva provveduto con una formazione fai- da- te. L’americano ha occupato d’impeto un Great Ole Party che non lo sopportava e non lo sopporta. Plutocrati, i due nascono alla politica con il marchio indelebile del possibile conflitto d’interessi. Comodamente allocati nelle fasce altissime della piramide sociale, sono arrivati al potere facendo appello alla disagiata base della medesima, in nome di un rapporto non mediato dal partito e anzi quanto più diretto possibile. Persino il ricorso al nazionalismo presenta eloquenti punti di contatto. Certo lo sciovinismo degli italiani, ancora vaccinati dalle iperboliche sparate del ventennio, di solito non va oltre la tifoseria allo stadio. E infatti Berlusconi, consapevole della diffusa tendenza diffusa, proprio su calcio e sport in generale aveva fatto leva, battezzando il suo partito con lo slogan più gridato dagli spalti ed assicurando alla sua truppa il colore azzurro della Nazionale. Non era America First, che da noi sarebbe stato ridicolo, ma titillava le medesime corde, sia pure in scala. Volendo, persino sul fronte delle controriforme un qualche accostamento non sarebbe illecito. Trump è partito lancia in resta contro una riforma del suo predecessore, ottima pur se di portata limitata rispetto alle ambizioni iniziali, l’Obamacare. Berlusconi finì quasi sfracellato nel tentativo di intervenire su un fronte, quello delle pensioni, che era già stato riformato, in peggio ma con danno ancora limitato, giusto due anni prima, dal governo di Giuliano Amato. Non sarebbe la prima volta che l’Italia, per motivi imperscrutabili, si rivela uno dei principali laboratori politici nel mondo. Dall’esperienza pionieristica di Silvio Berlusconi, l’allievo di Washington dovrebbe imparare qualcosa, ma forse la lezione sarebbe ancora più preziosa per i suoi avversari. Il caso Berlusconi dimostrò quanto micidiale possa essere, per i politici che oggi va di moda definire ‘ populisti’, il blocco composto dalla protesta sociale da un lato e dalla resistenza dell’establishment di potere dall’altro: una tenaglia dalla quale il Cavaliere finì quasi stritolato. Quel milione di persone che sfilarono sotto il diluvio a Milano il 25 aprile non avevano alcuna simpatia per le élites che sdegnavano il parvenu di Arcore, e ne erano poco cordialmente ricambiate. Le due aree sociali si cementarono tuttavia in nome di un comune e transitorio interesse: mettere al più presso alla porta l’usurpatore. E’ successo a Roma, nulla vieta che succeda a Washington. E tuttavia la campagna contro l’’ usurpatore’ condotta in nome delle buone maniere politiche, del politically correct e del bon ton più antropologico che politico, la stessa che martellò sin dal primo momento il Cavaliere e che sferza oggi il Don, si è rivelata alla resa dei conti disastrosa. Disarcionato con quel ribaltone del ‘ 94, Berlusconi è tuttavia rimasto in campo altri 17 anni, per buona parte dei quali governando il Paese. L’alterigia sprezzante, venata di una implicita componente di classe, che bersaglia oggi il burino della Casa Bianca ricorda da vicino l’incredulità offesa con cui tanti, il giorno dopo la vittoria dell’arricchito lombardo, confessavano candidi di non riconoscere più i loro concittadini. Come avevano osato, i buzzurri ignorantoni? E in fondo, sempre rispettando la scala, anche la platea elettorale non è poi così diversa. La candidata comme il faut ha stravinto a New York e in California, un po’ come la sinistra che in Italia è ormai ben radicata dalle parti dei Parioli. Il bruto ha prevalso, magari di misura ma inequivocabilmente, dove pesa il voto dei cafoni redneck, fratelli nell’animo di quei borgatari italiani che ormai un voto per la sinistra non lo concedono nemmeno con una pistola alla tempia. Perché nulla più di quell’atteggiamento altero e gonfio di malintesa superiorità convince i dimenticati che fanno benissimo a votare chi dalla loro controparte sociale è tanto disprezzato.

Giovanna Botteri, la più ostinata delle giornaliste contro Donald Trump, scrive il 10 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Non solo Hillary Clinton: dal voto americano escono distrutti anche giornalisti e sondaggisti. E non solo quelli a stelle e strisce. Sui nostri quotidiani, infatti, autorevoli commentatori hanno speso lunghe giornate e fiumi d'inchiostro per spiegarci che Donald Trump aveva già perso. E l'Oscar per la peggiore informazione possibile, come nota con un pizzico di ferocia Italia Oggi, forse lo conquista Giovanna Botteri, la storica inviata della Rai3, la quale ha cannoneggiato per mesi contro il "magnate sfrontato e offensivo" Trump, l'uomo che si sarebbe piegato al trionfo inevitabile di Hillary, per la quale al contrario sprecava encomi e toni enfatici. Per la Botteri, infatti, la Clinton non era tanto simbolo di banche e alta finanza, ma nume tutelare delle minoranze. Una lunga campagna elettorale, quella di Giovanna, dall'esito disastroso. Una campagna elettorale dopo la quale dovrebbe meditare in una sorta di buen retiro...

Donald John Trump e le bufale dei giornalisti italiani. Trump e Giovanna Botteri dagli Stati Uniti: tre bufale in un minuto. Vi riportiamo un ottimo fact-checking di Massimo Mazzucco di luogocomune.it sul servizio dell'inviata Rai negli Stati Uniti Giovanna Botteri a proposito della prima conferenza stampa rilasciata da Trump. Il video di Mazzucco si conclude con questa domanda, che facciamo nostra: "ma perché i cittadini italiani devono pagare il canone per pagare lo stipendio a persone come la Botteri che distorcono sistematicamente quello che ci raccontano?". Con questo spirito partigiano in Italia si è raccontata la diretta del Giuramento di Trump del 20 gennaio 2017 e non solo sulla Rai ma su tutte le altre reti. Si è stati costretti a fare zapping per evitare i commenti truci di cronisti di parte che nulla sanno cosa sia la democrazia. Gente che non sa perdere. Perfino Mentana su La 7 ha lasciato la sua impronta. Ha interrotto la diretta nel momento in cui prendeva la parola un prete cristiano. E questo nonostante ci si confronti proprio con Papa comunista.

Papa Francesco: "Trump? Pure Hitler fu eletto..." Papa Francesco a El Pais: "Nei momenti di crisi si cerca un salvatore. Pure Hitler fu eletto". Salvini: "Credo che Bergoglio sia stato frainteso...", scrive Chiara Sarra, Domenica 22/01/2017, su "Il Giornale". Sospende il giudizio - per ora - Papa Francesco su Donald Trump. Ma con un accostamento ben più pesante che se un giudizio lo avesse espresso. "Si vedrà. Vedremo ciò che fa e allora valuteremo", dice infatti il Pontefice al giornalista di El Pais che gli chiede un commento sull'elezione del tycoon a presidente degli Stati Uniti, "Nei momenti di crisi si perde la lucidità di ragionamento e questo è stato sempre per me un riferimento da tenere a mente. Cerchiamo un salvatore che ci ridia una identità e la difendiamo con ogni mezzo, muri o qualsiasi mezzo dagli altri popoli, per timore che inquinino la nostra identità e la danneggino. E questo è grave". E il riferimento viene spiegato con un esempio calzante: la Germania nazista. "Una Germania distrutta che vuole rialzarsi, che cerca una identità, un leader, qualcuno che le restituisca l'identità e si affida a un giovanotto che assicura poterlo fare, Hitler", spiega Bergoglio, "E tutti lo votano. Di fatti fu una elezione democratica, non una imposizione. Il popolo lo votò e lui lo portò alla distruzione. Questo è il pericolo che si può correre ancora oggi". "Il Papa dice tante cose, Hitler è stato sepolto dalla storia, io penso sia stato frainteso", commenta però Matteo Salvini, "Se mi danno del populista sono contento perché vuol dire che parlo al popolo, ma io penso che il Pontefice sia stato frainteso".

Anche il Papa è anti Donald: "Hitler è nato dal populismo". Bergoglio: "Vedremo ciò che fa, ma attenti ai salvatori". La lunga schiera dei giornalisti italiani contro il tycoon, scrive Paolo Bracalini, Lunedì 23/01/2017, su "Il Giornale". Il club degli antitrumpisti d'Italia, quelli che non si rassegnano al fatto che il 45esimo presidente degli Stati Uniti sia un pericoloso bifolco come Donald Trump, miliardario con mogli e prole altrettanto sgradevoli ai palati più raffinati, può però contare su una consolazione di altissimo livello: persino il Papa condivide i loro timori. Bergoglio già nella campagna presidenziale Usa aveva molto criticato il tycoon per l'idea del muro col Messico («Non è Vangelo, non mi immischio ma dico solo che quest'uomo non è cristiano se dice queste cose» disse il Papa) e dopo la vittoria di novembre aveva confessato a Repubblica i suoi dubbi («Mi interessa solo se fa soffrire i poveri»). Ad insediamento compiuto, il Papa invia il messaggio ufficiale al nuovo inquilino della Casa Bianca («le sue decisioni siano guidate da ricchezza di spirito ed etica dei valori») ma in un'intervista a El Pais si fa più esplicito il giudizio del Pontefice sul presidente Usa, il cui successo elettorale ricorda al Papa un precedente non proprio illustre. «Vedremo ciò che fa e allora valuteremo. Nei momenti di crisi si perde la lucidità di ragionamento. Cerchiamo un salvatore che ci ridia una identità e la difendiamo con ogni mezzo, muri o qualsiasi mezzo dagli altri popoli, per timore che inquinino la nostra identità e la danneggino. E questo è grave». Situazione che riporta Bergoglio alla Germania del '33. «Una Germania distrutta che vuole rialzarsi, che cerca una identità, un leader, qualcuno che le restituisca l'identità e si affida a un giovanotto che assicura poterlo fare, Hitler. E tutti lo votano. Di fatti fu una elezione democratica, non una imposizione. Il popolo lo votò e lui lo portò alla distruzione. Questo è il pericolo che si può correre ancora oggi». Quale più autorevole conferma poteva trovare uno dei più attivi antitrumpisti italiani, l'editorialista del Corriere della sera Beppe Severgnini? L'altro giorno si domandava: «Donald Trump mette in pericolo la democrazia americana?». Per rispondersi poi che sì, «la maggioranza elettorale va rispettata, sempre e dovunque. Ma non ha sempre ragione». Prova ne siano «i governi democraticamente eletti che nella prima metà del XX secolo hanno condotto l'Europa nella braccia di Mussolini e Hitler». Paragone che, a questo punto, è autorizzato da bolla papale con ceralacca. Altro inconsolabile che può trovare sollievo nella compagnia del Pontefice è Gianni Riotta, esperto di Usa e altre cose. Nel ritratto-agiografia di Barack Obama («ha affrontato i disagi cercando il dialogo ma è stato tradito dalle sue stesse virtù» è l'aspetto più negativo trovato in otto anni alla Casa Bianca), l'ex direttore del Tg1 si rammarica che «purtroppo l'educazione socievole (di Obama, ndr) non funziona nel mondo dei Trump», per Riotta lo stesso mondo «dei Putin, degli Assad, degli Erdogan, gente che predilige le maniere forti». Ma non è niente rispetto al dramma personale che sta vivendo la corrispondente della Rai negli Usa (responsabile dell'ufficio di New York, poltrona d'oro nella tv di Stato), Giovanna Botteri, orfana inconsolabile della stagione Obama. Le sue ultime corrispondenze sono diventate cult tra i fan italiani di Donald Trump, per il pathos con cui racconta l'America trumpista. Per la corrispondente Rai, un nuovo Medioevo per gli Stati Uniti.

Trump alle donne della marcia: "Perché non hanno votato?". Il presidente americano replica con sarcasmo alla Marcia delle donne, che sabato ha sfilato per le strade di Washington contro di lui. Poi twitta che il suo insediamento ha fatto registrare il record di ascolti in tv, scrive Raffaello Binelli, Domenica 22/01/2017, su "Il Giornale". Donald Trump non le manda certo a dire. Stavolta risponde alle donne che hanno marciato contro di lui a Washington e anche in altre città d'America (e non solo): "Ho visto le proteste di sabato - scrive su Twitter il presidente Usa - ma se non sbaglio abbiamo appena avuto un'elezione! Perché queste persone non hanno votato? Le celebrità fanno male alla causa". E dopo aver detto la sua sulla "Marcia delle donne", si toglie un sassolino dalle scarpe: "Wow, i dati sugli ascolti televisivi sono appena usciti: 31 milioni di persone hanno visto l'inaugurazione, 11 milioni in più rispetto ai buoni ascolti di 4 anni fa!". Trump commenta l'audience della cerimonia di insediamento, vista in tv dagli americani, per un motivo molto semplice: diversi giornali hanno scritto che è stata un mezzo flop e che poche persone sono scese in piazza per salutare il nuovo presidente. Oggi Trump sembra voler loro ricordare che, in realtà, moltissimi lo hanno seguito, anche se da lontano, attraverso la tv. E molti altri, aggiungiamo noi, tramite i social network e il web.

Madonna e il "vaffa" a Trump durante la Marcia delle donne. La popstar ha concluso la sua esibizione con una frase improvvisata, "Donald Trump, go suck a dick", un volgarissimo invito al nuovo presidente che non merita neanche di essere tradotto, scrive Michele Ardengo, Domenica 22/01/2017, su "Il Giornale". Con un berretto nero con le orecchie da gatto, Madonna ha fatto una apparizione a sorpresa alla "Marcia delle donne" anti-Trump a Washington, invocando la "rivoluzione dell'amore". "Siete pronti a scuotere il mondo? Benvenuti nella rivoluzione dell'amore", ha dichiarato dal palco la cantante prima di intonare due canzoni davanti a centinaia di manifestanti riuniti nella capitale federale. In un discorso infuocato, Madonna ha detto di aver pensato molto di "far saltare la Casa Bianca" dalla elezione di Donald Trump, ma di aver scelto invece l'amore. La regina del Pop ha anche usato diverse volte la parola "fuck", in questo caso traducibile con l'italiano "vaffa...", rivolgendosi a quelli che dicono che "niente verrà da questa marcia". Madonna ha cantato un suo singolo del 1989 "Express Yourself", un inno femminista del tempo. Ha concluso la canzone con una frase improvvisata, "Donald Trump, go suck a dick", un volgarissimo invito al nuovo presidente che non merita neanche di essere tradotto. La cantante è una delle più agguerrite oppositrici del neopresidente, e dopo l'elezione ha dichiarato: “Dopo l’elezione di Trump mi sono sentita come ci si sente quando muore qualcuno. Ho sentito un forte senso di tradimento, il mio cuore era spezzato. È così quando qualcuno ti abbandona. Ed è così che mi sento ormai ogni giorno, ogni mattina quando mi sveglio e realizzo che Trump è davvero presidente e che non è stato tutto un brutto sogno. Mi sono sentita tradita dalle donne americane che in massa hanno follemente votato per il tycoon”.

Il capriccio delle star nemiche della democrazia, scrive il 22/01/2017 Emanuele Ricucci su “Il Giornale”. Recitava il vecchio adagio romano, proprio come la reclame del The Infrè, buono per un derby, buono per chi ha perso per un numero al Superenalotto: e nun ce vonno sta! L’assurda epopea dei nuovi sacerdoti della religione laica del progresso continua. I cantastorie del bel pensare, i menestrelli dell’epoca green, senza colore e senza Patria, solidale e tollerante, senza confini, né identità. Sorridenti e splendenti, gli uomini e le donne dello star system li trovi impegnati nella grande farsa ogni volta che c’è da aprirsi la strada verso il successo mediatico o quando c’è da rimpolpare le tasche, ancora una volta, per l’ennesima volta. Vip, esasperati, esagerati ma soprattutto pronti a vendersi l’anima per la causa più giusta; finché è tale. Quando smette di essere giusta, per tutti, ma proprio tutti, ecco i saltimbanchi dei potenti a protestare come bimbi a cui è stata tolta la pallina rossa nel box dei giochi. Per strada o sui social. Che triste capriccio, inatteso da chi, come loro, dovrebbe avere la mente aperta ed elastica – incarnando il principio etico alla base del processo artistico, espressivo - e proiettata al futuro, senza pregiudizi, né stereotipi. Rappresentanti del progresso che avanza ed accoglie, apre, emancipa. Ma questa è tutta un’altra…favola. Vi viene in mente niente se dicessimo Donald Trump vs Hillary Clinton? Gli schieratissimi, i lustratissimi, gli inarrivabili. Una pletora di star contro il demone Donald, cavalcate da Hillary Clinton, uno che, tanto per intenderci, cavalcando la più pura forma di democrazia è diventato il 45esimo presidente degli Stati Uniti; uno che evoca concetti dignitosi quali identità e preferenza nazionale, che ha il coraggio di sostenere la classe media, motore di una grande potenza Occidentale, non tassando solo i ricchi, ricchi per davvero, come voleva Hillary, ma abbattendo la pressione fiscale proprio per quella fetta che l’America la incarna, la rappresenta, la simboleggia; che ha volontà di imporre una sorta di flat tax sui redditi d’impresa, capace di contribuire al rilancio dell’impantanata economia USA per cercare di garantire circa 25 milioni di posti di lavoro in dieci anni. Uno che vuole riproporre negli annichiliti 2000l’American Dream. Uno per cui popolo fa rima con Nazione e Stati Uniti non necessariamente con guerra al mondo. Obama, Madonna, Robert De Niro, Beyonce, Jennifer Lopez, Pedro Almodovar, George Clooney, Lady Gaga, Barbra Streisand, Quentin Tarantino, Anastacia, Adele, John Travolta, Eva Longoria, Morgan Freeman, Julia Roberts, Bono degli U2, Dustin Hoffman, Magic Johnson, Kim Kardashian, Leonardo Di Caprio, Bruce Springsteen, Alicia Keys, Tom Hanks, Naomi Campbell. Mancava Superman, Charlot e l’omino delle Pringles. L’esercito contro Trump in marcia per il progresso, per un’America democratica, progressista, che ripudia il razzismo, i confini ma che avrebbe ben volentieri continuato nella frattura con la Russia, che si sarebbe impicciata negli affari siriani e che si sarebbe tappata le orecchie dopo il grande botto dell’ennesima bombetta intelligente piovuta dal cielo a stelle e strisce. Quella che combatte la fame nel mondo ma che fa l’amore coi potenti prepotenti – Soros, dice niente? -. Così, a soli due giorni dall’insediamento di Trump, eccole le superstar disperate, un’altra volta ancora. In origine si andava dal pianto a cascata di Katy Perry – su Twitter: “spazzerò via con le lacrime le mie ciglia finte questa notte” -, all’odio di Lady Gaga – sotto la Trump Tower col cartello “Love Trumps Hate” -; poi Cher che tifava per i manifestanti in protesta per la vittoria di Trump, organizzati in un corteo, come neanche per il lavoro che non c’è, come neanche per chiedere più diritti, come neanche fosse un solo giorno che il nuovo presidente è stato eletto, fino allo sdegno di Bon Jovi, Micheal Moore, Bruce Springsteen e compagnia cantando, alla marcia delle donne. Chi in strada, chi sui social. E le totali contraddizioni, tipiche dell’ambiente chic-militante, vedasi Madonna, una che apre la marcia delle donne per ribadire che esse non sono oggetti, contro il sessismo e per il rispetto per l’universo femminile; la stessa che, però, promise pompini a chi avesse votato Clinton. “Ironia, delusione, commozione, ma anche speranza e poi rabbia. Tanto che non mancano i vip che decidono di scendere in piazza con i manifestanti che stanno protestando contro il neo presidente in varie città degli Usa”, scriveva Beatrice Montini sul Corriere. Non è il momento giusto per i divi di fare affari. I cantori della libertà e di un universo veramente democratico, nun ce vonno sta, proprio quando la democrazia ha fatto il suo corso, proprio quando si manifesta pura la bellezza nel vedere rispettata la libertà intellettuale degli americani che hanno scelto liberamente, contro tutto, contro tutti, contro il sistema dei sondaggi e delle previsioni dei potenti sciamani dei mass media, chi doveva essere il proprio 45esimo presidente, offrendo al mondo una ventata d’aria fresca per spazzare via il putrido e marcescente puzzo oligarchico che, giusto da qualche anno, sta invadendo il globo sotto e sopra, tenendolo in ostaggio con scelte perverse nelle alleanze mondiali, nella gestione delle società, capaci di intaccare profondamente ogni valore morale fondante alla base dell’Occidente. Artisti. Scrive Maurizio Acerbi sul Giornale: “E adesso come la mettiamo con tutti gli endorsement dei divi di Hollywood? Con la lista delle 167 star che hanno appoggiato pubblicamente la Clinton, la candidata alla Casa Bianca con il maggior numero di testimonial della storia? Le stelle, per quattro anni, staranno a guardare, interrogandosi sul loro reale appeal sulla gente, pari a zero. Da DiCaprio a Clooney, da De Niro a Hoffman, da Damon a Penn (e mi fermo qua), tutti hanno fatto a gara per salire sul carro del presunto vincitore, ritrovandosi a piedi. A questi, aggiungeteci i “grandi elettori” del mondo musicale (Madonna, tanto per citarne uno) e vedrete che lo scorsa notte si è materializzata una verità ai più invisa: lo star system conta in politica, come il due di coppe quando la briscola è bastoni. A cosa è servito mandare messaggi sempre più espliciti e meno subliminali nei film?” Pensando ai Benigni di casa nostra, rimaniamo a bocca aperta assistendo a questa grande, sciatta e capricciosa insurrezione. Ma non siamo gli unici. Di sicuro anche Madonna sarà rimasta a bocca aperta.

Quella svista sulle foto della marcia delle donne anti-Trump. La “Marcia delle donne contro Trump” è stata raccontata in modo curioso da alcuni siti italiani. Spuntano foto di 22 anni fa, scrive Franco Grilli, Sabato 21/01/2017, su "Il Giornale". La “Marcia delle donne contro Trump” è stata raccontata in modo curioso da alcuni siti italiani. Su Repubblica.it e Huffingtonpost.it. la foto scelta per accompagnare i titoli che parlano di "500 mila manifestanti" non sono proprio attuali. E non sono certo state scattate durante la manifestazione contro il neoeletto presidente. Infatti nel caso di Repubblica.it, sopra il titolo "Marcia anti Trump, donne in piazza nel mondo. A Washington sfilano in 500mila" spunta la foto della Milion Man March di Washington a cui parteciparono, nel 1995, un milione di afroamericani. Eppure il colpo d'occhio della foto può trarre in inganno. Peccato che si tratti di un evento di 22 anni fa presentato come "massa" anti-Trump. Stessa musica sull'Huffingtonpost dove viene scelta un'altra foto che riguarda sempre la manifestazione del 1995 accompagnata dal titolo: "ll primo no a Trump arriva dalle donne". Una svista? Probabile. Ma di certo il numero dei manifestanti e delle donne che hanno sfilato contro Trump è nettamente inferiore a quello che raccontano le foto della Miolion Man March di qualche anno fa... 

Le donne di Donald e quelle di sinistra. La sinistra globale rode da matti per aver perso in malo modo il controllo della Casa Bianca, per di più a favore di uno come Trump, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 22/01/2017, su "Il Giornale". Ieri, in molte città americane e di mezzo mondo, migliaia di donne sono scese in piazza contro il presidente Trump. Dicono di voler difendere i diritti delle donne, anche se non è chiaro quale sia la minaccia. Prepariamoci: da oggi, e chissà per quanto tempo, di queste «marce civili» ne vedremo ovunque a giorni alterni, perché la sinistra globale rode da matti per aver perso in malo modo il controllo della Casa Bianca, per di più a favore di uno come Trump. Non importa che il neo presidente prometta più lavoro e meno tasse, meno finanza e più politica. Deve essere fatto passare per un pericolo, a prescindere, come successe in Italia con Berlusconi. La marcia di ieri è stata ovviamente benedetta da Hillary Clinton, che ha commentato: «Noi unite per i nostri valori». E dire che, se esistesse una logica, le donne dovrebbero marciare proprio contro la Clinton, una che ha difeso e protetto un molestatore seriale, il marito Bill, e sputtanato una delle sue vittime, la stagista Monica Lewinsky. Oppure contro il Partito democratico americano, che ha occultato l'allegra e promiscua attività sessuale dei Kennedy, icone della sinistra radical chic. E dopo le donne, toccherà agli immigrati. Già mi vedo fiaccolate democratiche in tutte le capitali del mondo al primo dollaro che Trump spenderà per completare il famigerato muro con il Messico. Muro, si badi bene, ideato, progettato e avviato dai Clinton, così come il più famoso «muro» tirato su in Europa, dopo quello di Berlino, è quello costruito, a tempo di record, dal socialista Hollande a Calais. E poi, al primo sparo americano oltre confine, sarà il turno di quei pacifisti che non hanno aperto bocca durante le numerose, e disastrose, scorribande di Obama, titolare del più vergognoso Premio Nobel per la Pace della storia. L'elenco, vedrete, sarà lungo. Trump ha detto chiaramente di volersi occupare quasi esclusivamente della rinascita americana. E che la sinistra, in tutto il mondo, vorrà occuparsi a tempo pieno di lui, imprevisto della storia che scombussola i piani dei salotti buoni e smaschera le ipocrisie del sistema: l'amata Clinton le donne le ha umiliate, Trump, almeno tre tante ne ha sposate -, le ha rese miliardarie.

DOPO MEDIA E SILICON VALLEY ANCHE LE STAR DEL CINEMA SI SCHIERANO CONTRO TRUMP, scrive Paolo Mastrolilli per la Stampa il 10 gennaio 2017. La guerra tra Hollywood e il nuovo presidente Trump è stata dichiarata ufficialmente domenica sera, con il discorso di Meryl Streep alla cerimonia di premiazione dei Golden Globes. Ora si tratta di vedere se la vincerà ancora lui, come ha fatto a novembre nelle elezioni parlando alla pancia dell'America, o se la resistenza del mondo liberal riuscirà a indebolirlo. Il problema è capire se le uscite come quella della Streep aiutano o danneggiano la sua causa. Donald ha vinto le elezioni contro l'establishment, e i suoi sostenitori erano risentiti in particolare con le élite, l' 1% più ricco del Paese, i liberal di New York e della California che vivono nel privilegio e pretendono di dettare l' agenda al resto del Paese. Sentire una ricca attrice, che usa la ricca serata per la celebrazione della sua categoria come tribuna contro il presidente, farà cambiare idea agli elettori di Trump, o li convincerà ancora di più di aver scelto bene? E i moderati, i centristi, gli incerti, quelli che magari si erano rassegnati a votare Donald solo all' ultimo momento nel segreto dell'urna, rimpiangeranno di averlo fatto dopo la tirata di Meryl, o si sentiranno più confortati nella loro decisione? Lo scontro tra queste due Americhe comunque è iniziato, e durerà per i prossimi quattro anni. Gay Talese, come d' abitudine, va controcorrente: «Sono stanco di sentire gente dello spettacolo che usa le cerimonie di premiazione per fare sermoni politici. Se vogliono guidare il Paese, si presentino alle elezioni, come avevano fatto Ronald Reagan e Arnold Schwarzenegger. Con queste uscite, peraltro, ottengono il risultato opposto a quello voluto, perché rafforzano il risentimento degli elettori di Trump verso le élite liberal».

Cominciamo dalla sostanza del discorso fatto da Maryl Streep durante la premiazione dei Golden Globes. Come lo giudica?

«Non lo giudico, perché il punto non è questo. Il problema non è condividere o meno le sue parole, ma il modo e la situazione in cui sono state pronunciate».

Lei fa lo scrittore e il giornalista, e negli Usa il Primo emendamento della Costituzione garantisce la libertà di espressione a lei e a tutti, inclusi i neonazisti, chi brucia la bandiera, o chi vuole pubblicare pornografia. Perché un'attrice non dovrebbe dire quello che pensa?

«Certo che può farlo, ma il problema è il contesto. I Golden Globes, come gli Oscar, sono una cerimonia organizzata per celebrare i migliori film dell'anno. Perché devono essere trasformati in una tribuna politica? Perché un'attrice, che oltretutto non ha presentato un film su questi temi e quindi non avrebbe una ragione diretta per discuterli, dovrebbe usare la piattaforma offerta da una premiazione per giudicare la presidenza degli Stati Uniti? Ha tutto il diritto di esprimere la sua opinione, ma in un altro contesto. Così, invece, tutto diventa una photo opportunity».

Quale sarebbe il contesto adatto? 

«Ognuno può parlare della direzione del Paese dove crede, se però queste persone hanno voglia di fare politica, sono libere di candidarsi. Dal mondo dello spettacolo sono già emersi personaggi come Ronald Reagan e Arnold Schwarzenegger, e per certi versi si può sostenere che lo stesso Trump proviene almeno in parte da questa esperienza. Naturalmente gli attori sono grandi comunicatori e hanno il vantaggio della popolarità. Se vogliono usare queste doti nella politica, però, dovrebbero farlo attraverso la candidatura, come ha fatto appunto il Presidente eletto».

Ma se una persona ritiene che l'America stia andando in una direzione pericolosa, non dovrebbe sfruttare ogni occasione per denunciare i rischi?

«Io penso che le uscite come quella di Meryl Streep danneggiano la sua stessa causa, perché rafforzano la convinzione di chi ha votato Trump. Gli elettori del nuovo presidente lo hanno scelto proprio contro l'establishment, che nella loro mente include le élite liberal come quella di Hollywood. Prendendo una posizione così netta, e sfruttando una sede non appropriata a cui gli altri cittadini non hanno accesso, la Streep ha confermato tutti questi pregiudizi. Forse ha soddisfatto chi era già contro Trump, ma non credo che abbia fatto altri proseliti, e invece ha solidificato le convinzioni dei suoi elettori».

L’IPOCRISIA DI MERYL STREEP. Piers Morgan per “Mail On Line”. Oh no Meryl, anche tu? Proprio quando pensavo avessimo finito con gli istrioni che odiano Trump, ecco che la più grande star di Hollywood si unisce alla moda e infilza con un altro stiletto il Presidente-eletto, dieci giorni prima dell’inaugurazione. Chiariamo subito una cosa: io amo Meryl Streep. E’ la più grande attrice della storia (e non come ha ipocritamente twittato Trump ‘la più sopravvalutata di Hollywood’). E, per esperienza personale, posso dire che è anche una donna deliziosa, incredibilmente intelligente, calorosa, divertente e perbene. Un modello perfetto per gli attori e per le femministe. Perciò, quando lei parla, il mondo ascolta. Ai Golden Globes ha ritirato il premio e approfittato per sferrare un attacco personale a Trump. Ha iniziato dicendo: «Voi, stampa estera, e tutti noi in questa sala, apparteniamo ai segmenti più diffamati dalla società americana» e la telecamera ha inquadrato centinaia di ricchi, i più privilegiati della società americana, seduti e con indosso abiti da 20.000 dollari, che ridevano ad alta voce per questo orribile vittimismo. Ha aggiunto che “se cacciassimo da Hollywood tutti gli stranieri e la gente che viene da fuori, non resterebbe nulla da guardare se non il football e le arti marziali. Che non sono arti”. Wow. Non sentivo una simile snobberia elitaria da quando Hillary Clinton etichettò i sostenitori di Trump ‘un branco di miserabili’. Per sua informazione, Ms Streep, milioni di normali americani amano il football e sarebbero felici di guardarlo al posto del prossimo film di Woody Allen.

Bufera su Charlie Sheen: "Caro Dio, il prossimo sia Trump, ti prego". È scoppiata una furiosa polemica per un tweet pubblicato sui social network dal noto attore hollywoodiano, scrive Marta Proietti, Giovedì 29/12/2016, su "Il Giornale". Il 2016 è stato un anno caratterizzato da molte morti illustri. Dal cantante George Michael all'attrice Carrie Fisher, "principessa Leia" di Star wars, a cui è poi seguito il decesso della mamma. Ad hollywood però qualcuno spera che il prossimo a morire sia il neopresidente eletto Donald Trump. È scoppiata una furiosa polemica dopo che l'attore Charlie Sheen ha pubblicato un tweet sui social network. "Caro Dio, il prossimo sia Trump, ti prego", ha scritto Sheen, che pure si è di recente proclamato repubblicano, attirandosi l'ira dei conservatori.

Lo schifo statunitense…scrive Alessandro Bertirotti l'1 gennaio 2017 su “Il Giornale”. È tutta questione di...indecenza. Leggere questo tipo di notizia ci fa ben capire come siamo ridotti, e mi riferisco all’intera umanità che abita indegnamente questa meravigliosa terra. È vero che internet è un grande secchio di spazzatura, all’interno del quale, però e con la giusta attenzione, è possibile rinvenire occasioni di studio, confronto e miglioramento. Certo, il prezzo è proprio di questo tipo: leggere notizie che evidenziano l’infimo livello di qualche esponente umano pubblico, come nel caso di questo attorucolo. Che gli attori siano, specialmente se hollywoodiani, quasi inutili individui para-pensanti non è novità. Il lusso delle feste inutili, la frequentazione con droghe d’abuso, la solitudine e la depressione della ricchezza, l’esistenza reale confusa con quella virtuale: tutte situazioni che inducono ad espressioni di questo tipo. Io non so come si comporterà Donald Trump, mentre so di certo come si è comportato Barak Obama: il peggior presidente che gli Stati Uniti d’America abbiano avuto in tutta la loro storia. Ossia, quel presidente che ha ricevuto il premio Nobel per la Pace nel 2009, e che ha seguito i consigli di una come la Clinton, la quale non è proprio del tutto estranea all’Isis, alla Libia e a tutto quel difficile mondo che si chiama Siria. Dunque, prima di augurare la morte a qualcuno e pubblicamente, sarebbe forse più civile imparare a tacere, e verificare, con attenzione politicamente corretta, quali saranno i comportamenti che il nuovo Presidente degli Stati Uniti vorrà adottare, sia verso il Paese che lo ha eletto legittimamente, che verso la comunità internazionale. Intanto, loro, gli Stati Uniti, votano ed hanno un Presidente eletto, noi, in questa povera Italia, anche se legittimato dalla Costituzione (che abbiamo, deo gratias, salvato…) chissà quando torneremo a votare.

Come Obama ha aiutato l’Isis, scrive il 25 gennaio 2017 Giampaolo Rossi su "Gli Occhi della Guerra" su “Il Giornale”. È il 22 settembre del 2016 e a New York, nella sede della Missione olandese alle Nazioni Unite, si svolge una riunione riservata; anzi riservatissima. Il Segretario di Stato dell’amministrazione Obama, John Kerry, s’incontra a porte chiuse con un gruppo di dissidenti siriani anti-Assad. Oggetto della discussione: provare a capire i possibili sviluppi della guerra e definire il ruolo degli Stati Uniti. La riunione viene registrata segretamente da uno dei presenti ed il suo contenuto è oggi integralmente reso libero da Wikileaks e accessibile sul web. In quei giorni Washington e Mosca si erano accordati per un “cessate il fuoco” che avrebbe dovuto consentire interventi umanitari per Aleppo e definire meglio sul terreno la distinzione tra ribelli moderati e combattenti jihadisti. Ma quattro giorni prima di questa riunione, gli aerei americani avevano violato il cessate il fuoco bombardando (ufficialmente “per errore”), le postazioni dell’esercito arabo-siriano a Deir Ezzor, uccidendo 60 soldati di Assad che difendevano con i denti l’accerchiamento della sacca strategica dai mercenari dell’Isis. Secondo un articolo del New York Times pubblicato il 30 settembre (di cui parleremo in seguito) la riunione vedeva attorno al tavolo circa 20 persone: oltre a Kerry e al suo staff, i rappresentanti di quattro gruppi anti-Assad che fornivano soccorso e servizi medici nelle zone controllate dai ribelli (tra i quali è facile immaginare anche i leggendari Elmetti Bianchi di cui abbiamo parlato qui) e diplomatici di almeno tre o quattro paesi della coalizione a guida Usa. Come scrive il quotidiano, la registrazione fu fatta “da un partecipante non-siriano e confermata nella sua autenticità da parecchi altri presenti”. Nel colloquio John Kerry esprime frustrazione per l’impossibilità degli Usa di intervenire direttamente nel conflitto siriano; mentre la Russia può farlo perché ha avuto la richiesta diretta del governo di Assad (che è appunto il governo legittimo). Ma c’è un passaggio incredibile che svela il doppio gioco adottato in Medio Oriente dall’amministrazione Obama: dal minuto 26 della registrazione si sente Kerry affermare: “La ragione per cui la Russia è intervenuta in Siria è perché l’Isis stava diventando sempre più forte e minacciando Damasco… per questo la Russia è intervenuta perché non volevano un governo Daesh”. E poi la parte più sconvolgente: “Noi sapevamo che l’Isis stava crescendo, lo stavamo osservando. Noi abbiamo visto che Daesh cresceva in forza e abbiamo pensato che questo avrebbe potuto minacciare Assad costringendolo a negoziare… ma invece di negoziare lui ha ricevuto l’aiuto di Putin…” In altre parole, Kerry conferma che mentre l’obiettivo della Russia era combattere l’Isis, l’obiettivo degli Usa era combattere Assad anche con l’aiuto dell’Isis. Per l’amministrazione Obama sia nella gestione estera Clinton che Kerry, i tagliagole dell’Isis, l’espansione del Califfato, le stragi in Europa, il dramma profughi sono stati, tutto sommato, mali minori rispetto all’obiettivo primario: abbattere Assad e completare l’effetto domino iniziato con le Primavere Arabe, con la guerra in Libia e con il caos mediorientale. Le parole di Kerry svelano il grande imbroglio della retorica sulla “guerra al terrorismo” di Obama in questi anni. E arriviamo al ruolo dei media democratici. Il New York Times riceve la registrazione della riunione per primo e ne dà notizia in un articolo del 30 Settembre 2016. Ma cosa fa il grande giornale liberal, campione di moralismo e di retorica sulla libera informazione? Censura la parte più compromettente pronunciata da John Kerry; nell’articolo inserisce parti dell’audio ma, guarda caso, non questa, che doveva essere così imbarazzante da non venire riportata neanche nel resoconto della riunione. Alla Cnn fanno anche peggio: pubblicano in un primo tempo sul sito l’intero file audio ma poi lo cancellano (una volta resisi conto del reale contenuto della registrazione) sostituendolo con un breve servizio, adducendo motivi legati al rischio di identificazione dei presenti. La registrazione non conferma quello che Donald Trump ha ripetuto in campagna elettorale: e cioè che Obama ha creato l’Isis. Ma sicuramente conferma che Obama non ha mai combattuto realmente l’Isis; ma al contrario, lo ha usato per il proprio disegno di destabilizzazione del Medio Oriente. D’altro canto, se dietro l’Isis non c’era lo zampino della Cia di Obama, sicuramente c’era quello dei suoi alleati sauditi come rivelò la stessa Hillary Clinton, in una mail svelata da Wikileaks, dove la candidata democratica, mentre riceveva milioni di dollari di finanziamento dalle oscurantiste monarchie del Golfo per la sua Fondazione, ammetteva che l’Arabia Saudita (e il Qatar) finanziavano l’Isis. La vera ragione dell’opposizione senza precedenti a Donald Trump è proprio questa: un Presidente eletto ma non controllabile dal sistema di potere che ha governato l’America in questi anni (quello della Cia, di Soros e di Goldman Sachs), potrebbe svelare il vero volto dell’élite criminale che ha governato l’America in questi anni e di cui Obama è stato il volto pulito ed ecumenico.

Elmetti bianchi candidati all’Oscar, scrive il 26 gennaio 2017 Roberto Vivaldelli su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". “Miglior documentario”. L’Academy Awards di Hollywood candida all’Oscar “White Elmets”, il documentario-cortometraggio prodotto dal colosso statunitense Netlifx incentrato sulle gesta degli elmetti bianchi siriani, i 3 mila volontari diventati famosi in tutto il mondo per le azioni di soccorso a favore dei civili nelle macerie di Aleppo Est, nelle aree un tempo occupate dai ribelli. Nati nel 2013, i volontari sono così chiamati proprio per i caschi bianchi protettivi indossati durante le operazioni che svolgono sul campo a sostegno della popolazione. “White Elmets – ha affermato Raed Saleh, leader del gruppo – rappresenta una nuova opportunità di trasmettere il nostro messaggio morale e umanitario”. La pellicola è diretta da Orlando von Einsiedel, ed è uno dei tanti film diffusi in streaming nominati quest’anno all’89esima premiazione degli Oscar. “Sono così orgoglioso di aver curato la fotografia di questo film e di questa nomination” ha scritto su twitter il fotografo Khaled Khatib.

Riconosciuti dai media e dalle istituzioni occidentali. Un importante riconoscimento internazionale che giunge dopo le recenti dichiarazioni dell’attore George Clooney, intenzionato a girare un film sul tema. Senza dimenticare che questi “angeli”, così come molti li hanno descritti, figuravano persino tra i candidati del Nobel per la Pace del 2016. Dopotutto la campagna mediatica occidentale a loro favore è stata imponente, sin dagli inizi. Lo stesso Guardian, ha lanciato una petizione per sostenere la loro volata al Nobel; il Foglio dello scorso 5 ottobre ha invece dedicato una pagina intera al fondatore dei “White Helmets” mentre il Time ha riservato loro una copertina. Lo stesso ha fatto recentemente Left, scatenando un feroce dibattito sul web.

Sono davvero degli “angeli”? L’accusa della giornalista Vanessa Beeley. Ma chi sono davvero gli elmetti bianchi? Degli eroici e pavidi volontari, emblema di moralità, coraggio, altruismo e ora nuovi idoli dell’establishment hollywodiano? La giornalista indipendente Vanessa Beeley si è più volte occupata degli elmetti bianchi - “Difesa civile siriana” – e dei presunti legami con i terroristi di Jabhat Al-Nusra (ora Jabhat Fateh al-Sham), la diramazione siriana di Al-Qaeda. “Il fondatore dell’organizzazione – scrive la giornalista – James Le Mesurier, si è laureato presso la Elite Royal Military Academy della Gran Bretagna, a Sandhurst, ed è un ufficiale britannico che faceva parte dell’intelligence, coinvolto in in una lunga serie di interventi militarti della Nato in molti teatri di guerra, tra cui Bosnia, Kosovo e Iraq. Egli vanta anche una serie di incarichi di alto profilo presso le Nazioni Unite, l’Unione europea, e nel Regno Unito. Inoltre, ha stretti legami con “La Academi”, la compagnia militare privata statunitense fondata nel 1997 da Erik Prince”.

Finanziati dai governi e vicini ad Al-Nusra. Vanessa Beeley ricostruisce la storia e origini dei volontari siriani: “Con oltre 60 milioni di euro che provengono dalla Gran Bretagna e da altre nazioni come l’Olanda – osserva – gli elmetti bianchi rappresentano una delle ong più foraggiate nel teatro della guerra siriana. Essi sostengono di non essere legati ad alcun gruppo in Siria e di essere indipendenti. In realtà sono ben integrati con Al-Nusra e collegati con la maggioranza delle compagini terroristiche in Siria. Durante il mio recente viaggio in Siria, mi ha ancora una volta colpito la risposta dalla maggior parte dei siriani quando chiedevo loro se sapessero che fossero caschi bianchi: la maggior parte delle persone non ne aveva mai sentito parlare”. In un video, che ha scatenato il dibattito sui social, alcuni membri degli elmetti bianchi inscenano un’azione di soccorso per il “mannequin challenge”: documento che viene spesso usato per minare la credibilità dell’organizzazione umanitaria.

Il ruolo degli elmetti bianchi nella crisi dell’acqua di Damasco. E non è finita. Nelle scorse settimane, Damasco è rimasta senz’acqua per almeno tre settimane a causa di un guasto individuato presso la fonte di Wadi Barada, a 25 km dalla capitale siriana. Il New York Times aveva citato il servizio fotografico di un’attivista anti-Assad, il quale accusava il governo siriano ed Hezbollah di aver provocato il guasto. È lo stesso reporter, membro attivo degli elmetti bianchi, a pubblicare sui social un comunicato stampa firmato da sedicenti “gruppi civili” – tra cui appare anche il logo dei White Helmets – in cui offriva, previo il sostegno della comunità internazionale, “di stabilire, attraverso una commissione, la responsabilità del guasto che sta lasciando senz’acqua milioni di persone a Damasco e garantire il ripristino e il funzionamento della fonte di Ain al-Fijah springs il prima possibile sotto la supervisione delle Nazioni Unite”. Peccato che sia sufficiente fare una piccola ricerca e visionare il profilo Facebook di questo membro della blasonata organizzazione umanitaria per imbattersi in comunicati del Fronte islamico – fazione salafita e islamista alleata ad Al-Nusra – o in alcune fotografie di manifestazioni dove sventola la bandiera di Al-Nusra. Hollywood è consapevole di quello che sta facendo?

Venti anni da Srebrenica, cronistoria di un genocidio. Oltre 8 mila musulmani massacrati dai serbo-bosniaci in 3 giorni, le foto della commemorazione, scrive Nadira Sehovic il 24 marzo 2016 su "L'Ansa". Vent'anni fa in questi giorni - era l'11 luglio - l'Europa visse una delle pagine più nere della sua storia recente: nell'estate del 1995 le truppe serbo-bosniache agli ordini del generale Ratko Mladic irruppero nella cittadina di Srebrenica, assediata da tre anni, e in pochi giorni massacrarono più di 8 mila musulmani - 8.372 la cifra ufficiale - per lo più uomini e ragazzi. Oltre agli abitanti, a Srebrenica c'erano anche i profughi che in tre anni di guerra si erano a loro volta rifugiati, scacciati dalle città e dai villaggi vicini, in quella che le Nazioni Unite avevano dichiarato zona protetta: in tutto 40.000 persone. Il giorno precedente la caduta, il 10 luglio, a causa dei bombardamenti, circa diecimila musulmani, per lo più donne, vecchi e bambini, cercarono rifugio a Potocari, nella base dei caschi blu olandesi, mentre circa 15 mila uomini di tutte le età si incamminarono attraverso i boschi in direzione di Tuzla, sotto il controllo delle forze governative. Alcuni erano civili, altri militari, dei quali solo un terzo armati. La Nato cominciò a bombardare i carri armati serbi che avanzavano verso la città, ma dopo che i serbi, che già tenevano in ostaggio 300 caschi blu francesi e britannici, minacciarono di attaccare i soldati dell'Onu olandesi, i bombardamenti cessarono. L'11 luglio Ratko Mladic, oggi sotto processo al Tribunale penale dell'Aja (Tpi) per genocidio e crimini di guerra e contro l'umanità, entrò in una Srebrenica deserta; nel mentre verso sera a Potocari c'erano già 20-25 mila rifugiati. Alcune migliaia riuscirono a entrare nel recinto della base olandese, altri si accamparono fuori. Il 12 luglio i soldati di Mladic cominciarono a dividere gli uomini, tra i 15 e i 65 anni, da donne, bambini e anziani. Gli uomini vennero uccisi sul posto o portati in varie strutture nell'area di Bratunac. Oltre 23 mila donne, bambini piccoli e anziani vennero invece deportati con dei pullman e camion verso Tuzla entro la sera del 13 luglio. Quello stesso giorno i caschi blu olandesi costrinsero i rifugiati a lasciare la base consegnandoli praticamente nelle mani dei carnefici. Fra il 12 e il 23 luglio una parte degli uomini e ragazzi che si erano avviati verso Tuzla attraverso i boschi vennero uccisi in imboscate, decimati dai bombardamenti, si arresero e furono fatti prigionieri in varie località. Si stima che nel pomeriggio del 13 luglio oltre sei mila musulmani vennero fatti prigionieri. Le prime esecuzioni di massa cominciarono nel pomeriggio del 13 con la fucilazione di 150 musulmani a Cerska, e si conclusero il 16 luglio, quando cominciarono gli scavi delle fosse comuni. Un mese e mezzo dopo, militari e poliziotti serbo-bosniaci, per occultare le prove del massacro, riesumarono e riseppellirono i corpi delle vittime in altre località della zona. Fino ad oggi sono state aperte 93 fosse comuni, contenenti ossa dalle quali si sono ottenuti 7.033 profili Dna: comparati con i campioni dei congiunti sopravvissuti hanno permesso l'identificazione di 6.930 vittime. Per il genocidio di Srebrenica sono state finora incriminate per crimini di guerra 70 persone: 20 dal Tribunale internazionale dell'Aja (Tpi) e 50 dal tribunale di Sarajevo. Tredici imputati, tra cui tre comandanti militari serbi, sono stati condannati all'ergastolo. 

Srebrenica: esce fuori la verità, il massacro fu compiuto da tagliagole bosniaci musulmani, scrive sul suo blog Gianni Fraschetti il 22 Gennaio 2016. Finalmente emerge la verità su Srebrenica: i civili non furono uccisi dai Serbi, ma dagli stessi musulmani bosniaci per ordine di Alija Izetbegovic, presidente dei musulmani bosniaci, d'accordo con Bill Clinton. Una operazione, come le bombe di mortaio sul mercato di Sarajevo, per incolpare i serbi e bombardarli. Un po' come il gas nervino in Siria. Ecco l'articolo citato di Nicola Bizzi pubblicato in rete. Dopo la confessione shock del politico bosniaco Ibran Mustafić, veterano di guerra, chi restituirà la dignità a Slobodan Milošević, ucciso in carcere, a Radovan Karadžić e al Generale Ratko Mladić, ancora oggi detenuti all’Aja? Lo storico russo Boris Yousef, in un suo saggio del 1994, scrisse quella che ritengo una sacrosanta verità: «Le guerre sono un po’ come il raffreddore: devono fare il loro decorso naturale. Se un ammalato di raffreddore viene attorniato da più medici che gli propinano i farmaci più disparati, spesso contrastanti fra loro, la malattia, che si sarebbe naturalmente risolta nel giro di pochi giorni, rischia di protrarsi per settimane e di indebolire il paziente, di minarlo nel fisico, e di arrecare danni talvolta permanenti e imprevedibili». Yousef scrisse questa osservazione nel Luglio del 1994, nel bel mezzo della guerra civile jugoslava, un anno prima della caduta della Repubblica Serba di Krajina e sedici mesi prima dei discussi accordi Dayton che scontentarono in Bosnia tutte le parti in campo, imponendo una situazione di stallo potenzialmente esplosiva. E ritengo che tale osservazione si adatti a pennello al conflitto jugoslavo. Un lungo e sanguinoso conflitto che, formalmente iniziato nel 1991, con la secessione dalla Federazione delle repubbliche di Slovenia e Croazia, era stato già da tempo preparato e pianificato da alcune potenze occidentali (con in testa l’Austria e la Germania), da diversi servizi segreti, sempre occidentali, da gruppi occulti di potere sovranazionali e transnazionali (Bilderberg, Trilaterale, Pinay, Ert Europe, etc.) e, per certi versi, anche dal Vaticano. La Jugoslavija, forte potenza economica e militare, da decenni alla guida del movimento dei Paesi non Allineati, dopo la morte del Maresciallo Tito, avvenuta nel 1980, era divenuta scomoda e ingombrante e, di conseguenza, l’obiettivo geo-strategico primario di una serie di avvoltoi che miravano a distruggerla, a smembrarla e a spartirsi le sue spoglie. Si assistette così ad una progressiva destabilizzazione del Paese, avviata già nel biennio 1986-87, destabilizzazione alla quale si oppose con forza soltanto Slobodan Milošević, divenuto Presidente della Repubblica Socialista di Serbia, e che toccò il culmine con la creazione in Croazia, nel Maggio del 1989, dell’Unione Democratica Croata (Hrvatska Demokratska Zajednica o HDZ), partito anti-comunista di centro-destra che a tratti riprendeva le idee scioviniste degli Ustascia di Ante Pavelić, guidato dal controverso ex Generale di Tito Franjo Tuđman. Sarebbe lungo in questa sede ripercorrere tutte le tappe che portarono al precipitare degli eventi, alla necessità degli interventi della Jugoslosvenska Narodna Armija dapprima in Slovenia e poi in Croazia, alla definitiva scissione dalla Federazione delle due repubbliche ribelli e all’allargamento del conflitto nella vicina Bosnia. Si tratta di eventi sui quali esiste moltissima documentazione, la maggior parte della quale risulta però essere fortemente viziata da interpretazioni personali e di parte degli storici o volutamente travisata da giornalisti asserviti alle lobby di potere mediatico-economico europee ed americane. Giornalisti che della Jugoslavija e della sua storia ritengo che non abbiano mai capito niente. Come ho scritto poc’anzi, ritengo che la saggia affermazione di Boris Yousef si adatti molto bene al conflitto civile jugoslavo. A prescindere dal fatto che esso è stato generato da palesi ingerenze esterne, ritengo che sarebbe potuto terminare naturalmente manu militari nel giro di pochi mesi, senza le continue ingerenze, le pressioni e le intromissioni della sedicente ‘Comunità Internazionale’, delle Nazioni Unite e di molteplici altre organizzazioni che agivano dietro le quinte (Fondo Monetario Internazionale, OSCE, UNHCR, Unione Europea e criminalità organizzata italiana e sud-americana). Sono state proprio queste ingerenze (i vari farmaci dagli effetti contrastanti citati nella metafora di Yousef) a prolungare il conflitto per anni, con la continua richiesta, dall’alto, di tregue impossibili e non risolutive, e con la pretesa di ridisegnare la cartina geografica dell’area sulla base delle convenienze economiche e non della realtà etnica e sociale del territorio. Ma si tratta di una storia in buona parte ancora non scritta, perché sono state troppe le complicità di molti leader europei, complicità che si vuole continuare a nascondere, ad occultare. Ed è per questo che gli storici continuano ad ignorare che la Croazia di Tuđman costruì il suo esercito grazie al traffico internazionale di droga (tutte quelle navi che dal Sud America gettavano l’ancora nel porto di Zara, secondo voi cosa contenevano?). È per questo che continuano a non domandarsi per quale motivo tutto il contenuto dei magazzini militari della defunta Repubblica Democratica Tedesca siano prontamente finiti nelle mani di Zagabria. Si tratta di vicende che conosco molto bene, perché ho trascorso nei Balcani buona parte degli anni ’90, prevalentemente a Belgrado e a Skopje. Parlo bene tutte le lingue dell’area, compresi i relativi dialetti, e ho avuto a lungo contatti con l’amministrazione di Slobodan Milošević, che ho avuto l’onore di incontrare in più di un’occasione. Sono stato, fra l’altro, l’unico esponente politico italiano ad essere presente ai suoi funerali, in una fredda giornata di Marzo del 2006. Sono stato quindi un diretto testimone dei principali eventi che hanno segnato la storia del conflitto civile jugoslavo e degli sviluppi ad esso successivi. Ho visto con i miei occhi le decine di migliaia di profughi serbi costretti a lasciare Knin e le altre località della Srpska Republika Krajina, sotto la spinta dell’occupazione croata delle loro case, avvenuta con l’appoggio dell’esercito americano. Ho seguito da vicino tutte le tappe dello scontro in Bosnia, i disordini nel Kosovo, la galoppante inflazione a nove cifre che cambiava nel giro di poche ore il potere d’acquisto di una banconota. Ho vissuto il dramma, nel 1999, dei criminali bombardamenti della NATO su Belgrado e su altre città della Serbia. Ed è per questo che non ho mai creduto – a ragione – alle tante bugie che riportavano la stampa europea e quella italiana in primis. Bugie e disinformazioni dettate da quell’operazione di marketing pubblicitario (non saprei come altro definirla) pianificata sui tavoli di Washington e di Langley che impose a tutta l’opinione pubblica la favoletta dei Serbi cattivi aguzzini di poveri e innocenti Croati, Albanesi e musulmani bosniaci. Favoletta che ha però incredibilmente funzionato per lunghissimo tempo, portando all’inevitabile criminalizzazione e demonizzazione di una delle parti in conflitto e tacendo sui crimini e sulle nefandezze delle altre. La guerra, e a maggior ragione una guerra civile, non è ovviamente un pranzo di gala e non vi si distribuiscono caramelle e cotillon. In guerra si muore. In guerra si uccide o si viene uccisi. La guerra significa fame, sofferenza, freddo, fango, sudore, privazioni e sangue. Ed è fatta, necessariamente, anche di propaganda. Durante il lungo conflitto civile jugoslavo nessuno può negare che siano state commesse numerose atrocità, soprattutto dettate dal risveglio di un mai sopito odio etnico. Ma mai nessun conflitto, dal termine della Seconda Guerra Mondiale, ha visto un simile massiccio impiego di false flag, azioni pianificate ad arte, quasi sempre dall’intelligence, per scatenare le reazioni dell’avversario o per attribuirgli colpe non sue. Ho già spiegato il concetto di false flag in numerosi miei articoli, denunciando l’escalation del loro impiego su tutti i più recenti teatri di guerra. Fino ad oggi la più nota false flag della guerra civile jugoslava era la tragica strage di civili al mercato di Sarajevo, quella che determinò l’intervento della NATO, che bombardò ripetutamente, per rappresaglia, le postazioni serbo-bosniache sulle colline della città. Venne poi appurato con assoluta certezza che fu lo stesso governo musulmano-bosniaco di Alija Izetbegović a uccidere decine di suoi cittadini in quel cannoneggiamento, per far ricadere poi la colpa sui Serbi. E quella che io ho sempre ritenuto la più colossale false flag del conflitto, ovvero il massacro di oltre mille civili musulmani avvenuto a Srebrenica, del quale fu incolpato l’esercito serbo-bosniaco comandato dal Generale Ratko Mladić, che da allora venne accusato di ‘crimi di guerra’ e braccato dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja fino al suo arresto, avvenuto il 26 Maggio 2011, si sta finalmente rivelando in tutta la sua realtà. In tutta la sua realtà, appunto, di false flag. I giornali italiani, che all’epoca scrissero titoli a caratteri cubitali per dipingere come un macellaio il Generale Mladić e come un folle criminale assetato di sangue il Presidente della Repubblica Serba di Bosnia Radovan Karadžić, anch’egli arrestato nel 2008 e sulla cui testa pendeva una taglia di 5 milioni di Dollari offerta dagli Stati Uniti per la sua cattura, hanno praticamente passato sotto silenzio una sconvolgente notizia. Una notizia a cui ha dato spazio nel nostro Paese soltanto il quotidiano Rinascita, diretto dall’amico Ugo Gaudenzi, e fa finalmente piena luce sui fatti di Srebrenica, stabilendo che la colpa non fu dei vituperati Serbi, ma dei musulmani bosniaci. Ibran Mustafić, veterano di guerra e politico bosniaco-musulmano, probabilmente perché spinto dal rimorso o da una crisi di coscienza, ha rilasciato ai media una sconcertante confessione: almeno mille civili musulmano-bosniaci di Srebrenica vennero uccisi dai loro stessi connazionali, da quelle milizie che in teoria avrebbero dovuto assisterli e proteggerli, durante la fuga a Tuzla nel Luglio 1995, avvenuta in seguito all’occupazione serba della città. E apprendiamo che la loro sorte venne stabilita a tavolino dalle autorità musulmano-bosniache, che stesero delle vere e proprie liste di proscrizione di coloro a cui «doveva essere impedito, a qualsiasi costo, di raggiungere la libertà». Come riporta Enrico Vigna su Rinascita, Ibran Mustafić ha pubblicato un libro, Caos pianificato, nel quale alcuni dei crimini commessi dai soldati dell’esercito musulmano della Bosnia-Erzegovina contro i Serbi sono per la prima volta ammessi e descritti, così come il continuo illegale rifornimento occidentale di armi ai separatisti musulmano-bosniaci, prima e durante la guerra, e – questo è molto significativo – anche durante il periodo in cui Srebrenica era una zona smilitarizzata sotto la protezione delle Nazioni Unite. Mustafić racconta inoltre, con dovizia di particolari, dei conflitti tra musulmani e della dissolutezza generale dell’amministrazione di Srebrenica, governata dalla mafia, sotto il comandante militare bosniaco Naser Orić. A causa delle torture di comuni cittadini nel 1994, quando Orić e le autorità locali vendevano gli aiuti umanitari a prezzi esorbitanti invece di distribuirli alla popolazione, molti bosniaci fuggirono volontariamente dalla città. «Coloro che hanno cercato la salvezza in Serbia, sono riusciti ad arrivare alla loro destinazione finale, ma coloro che sono fuggiti in direzione di Tuzla (governata dall’esercito musulmano) sono stati perseguitati o uccisi», svela Mustafić. E, ben prima del massacro dei civili musulmani di Srebrenica nel Luglio 1995, erano stati perpetrati da tempo crimini indiscriminati contro la popolazione serba della zona. Crimini che Mustafić descrive molto bene nel suo libro, essendone venuto a conoscenza già nel 1992, quando era fuggito da Sarajevo a Tuzla. «Lì – egli scrive – il mio parente Mirsad Mustafić mi mostrò un elenco di soldati serbi prigionieri, che furono uccisi in un luogo chiamato Zalazje. Tra gli altri c’erano i nomi del suo compagno di scuola Branko Simić e di suo fratello Pero, dell’ex giudice Slobodan Ilić, dell’autista di Zvornik Mijo Rakić, dell’infermiera Rada Milanović. Inoltre, nelle battaglie intorno ed a Srebrenica, durante la guerra, ci sono stati più di 3.200 Serbi di questo e dei comuni limitrofi uccisi». Mustafić ci riferisce a riguardo una terribile confessione del famigerato Naser Orić, confessione che non mi sento qui di riportare per l’inaudita crudezza con cui questo criminale di guerra descrive i barbari omicidi commessi con le sue mani su uomini e donne che hanno avuto la sventura di trovarsi alla sua mercé. Ma voglio citare il racconto di uno zio di Mustafić, anch’esso riportato nel libro: «Naser venne e mi disse di prepararmi subito e di andare con la Zastava vicino alla prigione di Srebrenica. Mi vestii e uscii subito. Quando arrivai alla prigione, loro presero tutti quelli catturati precedentemente a Zalazje e mi ordinarono di ritrasportarli lì. Quando siamo arrivati alla discarica, mi hanno ordinato di fermarmi e parcheggiare il camion. Mi allontanai a una certa distanza, ma quando ho visto la loro furia ed il massacro è iniziato, mi sono sentito male, ero pallido come un cencio. Quando Zulfo Tursunović ha dilaniato il petto dell’infermiera Rada Milanovic con un coltello, chiedendo falsamente dove fosse la radio, non ho avuto il coraggio di guardare. Ho camminato dalla discarica e sono arrivato a Srebrenica. Loro presero un camion, e io andai a casa a Potocari. L’intera pista era inondata di sangue». Da quanto ci racconta Mustafić, gli elenchi dei ‘bosniaci non affidabili’ erano ben noti già da allora alla leadership musulmana ed al Presidente Alija Izetbegović, e l’esistenza di questi elenchi è stata confermata da decine di persone. «Almeno dieci volte ho sentito l’ex capo della polizia Meholjić menzionare le liste. Tuttavia, non sarei sorpreso se decidesse di negarlo», dice Mustafić, che è anche un membro di lunga data del comitato organizzatore per gli eventi di Srebrenica. Secondo Mustafić, l’elenco venne redatto dalla mafia di Srebrenica, che comprendeva la leadership politica e militare della città sin dal 1993. I ‘padroni della vita e della morte nella zona’, come lui li definisce nel suo libro. E, senza esitazione, sostiene: «Se fossi io a dover giudicare Naser Orić, assassino conclamato di più di 3.000 Serbi nella zona di Srebrenica (clamorosamente assolto dal Tribunale Internazionale dell’Aja!) lo condannerei a venti anni per i crimini che ha commesso contro i Serbi; per i crimini commessi contro i suoi connazionali lo condannerei a minimo 200.000 anni di carcere. Lui è il maggiore responsabile per Srebrenica, la più grande macchia nella storia dell’umanità». Ma l’aspetto più inquietante ed eclatante delle rivelazioni di Mustafić è l’ammissione che il genocidio di Srebrenica è stato concordato tra la comunità internazionale e Alija Izetbegović, e in particolare tra Izetbegović e il presidente USA Bill Clinton, per far ricadere la colpa sui Serbi, come Ibran Mustafić afferma con totale convinzione. «Per i crimini commessi a Srebrenica, Izetbegović e Bill Clinton sono direttamente responsabili. E, per quanto mi riguarda, il loro accordo è stato il crimine più grande di tutti, la causa di quello che è successo nel Luglio 1995. Il momento in cui Bil Clinton entrò nel Memoriale di Srebrenica è stato il momento in cui il cattivo torna sulla scena del crimine», ha detto Mustafić. Lo stesso Bill Clinton, aggiungo io, che superò poi se stesso nel 1999, con la creazione ad arte delle false fosse comuni nel Kosovo (altro clamoroso esempio di ‘false flag’), nelle quali i miliziani albanesi dell’UCK gettavano i loro stessi caduti in combattimento e perfino le salme dei defunti appositamente riesumate dai cimiteri, per incolpare mediaticamente, di fronte a tutto il mondo, l’esercito di Belgrado e poter dare il via a due mesi di bombardamenti sulla Serbia. Come sottolinea sempre Mustafić, riguardo a Srebrenica ci sono inoltre state grandi mistificazioni sui nomi e sul numero reale delle vittime. Molte vittime delle milizie musulmane non sono state inserite in questo elenco, mentre vi sono stati inseriti ad arte cittadini di Srebrenica da tempo emigrati e morti all’estero. E un discorso simile riguarda le persone torturate o che si sono dichiarate tali. «Molti bosniaci musulmani – sostiene Mustafić – hanno deciso di dichiararsi vittime perché non avevano alcun mezzo di sostentamento ed erano senza lavoro, così hanno usato l’occasione. Un’altra cosa che non torna è che tra il 1993 e il 1995 Srebrenica era una zona smilitarizzata. Come mai improvvisamente abbiamo così tanti invalidi di guerra di Srebrenica?». Egli ritiene che sarà molto difficile determinare il numero esatto di morti e dei dispersi di Srebrenica. «È molto difficile – sostiene nel suo libro – perché i fatti di Srebrenica sono stati per troppo tempo oggetto di mistificazioni, e il burattinaio capo di esse è stato Amor Masović, che con la fortuna fatta sopra il palcoscenico di Srebrenica potrebbe vivere allegramente per i prossimi cinquecento anni! Tuttavia, ci sono stati alcuni membri dell’entourage di Izetbegović che, a partire dall’estate del 1992, hanno lavorato per realizzare il progetto di rendere i musulmani bosniaci le permanenti ed esclusive vittime della guerra». Il massacro di Srebrenica servì come pretesto a Bill Clinton per scatenare, dal 30 Agosto al 20 Settembre del 1995, la famigerata Operazione Deliberate Force, una campagna di bombardamento intensivo, con l’uso di micidiali bombe all’uranio impoverito, con la quale le forze della NATO distrussero il comando dell’esercito serbo-bosniaco, devastandone irrimediabilmente i sistemi di controllo del territorio. Operazione che spinse le forze croate e musulmano-bosniache ad avanzare in buona parte delle aree controllate dai Serbi, offensiva che si arrestò soltanto alle porte della capitale serbo-bosnica Banja Lukae che costrinse i Serbi ad un cessate il fuoco e all’accettazione degli accordi di Dayton, che determinarono una spartizione della Bosnia fra le due parti (la croato-musulmana e la serba). Spartizione che penalizzò fortemente la Republika Srpska, che venne privata di buona parte dei territori faticosamente conquistati in tre anni di duri combattimenti. Alija Izetbegović, fautore del distacco della Bosnia-Erzegovina dalla federazione jugoslava nel 1992, dopo un referendum fortemente contestato e boicottato dai cittadini di etnia serba (oltre il 30% della popolazione) è rimasto in carica come Presidente dell’autoproclamato nuovo Stato fino al 14 Marzo 1996, divenendo in seguito membro della Presidenza collegiale dello Stato federale imposto dagli accordi di Dayton fino al 5 Ottobre del 2000, quando venne sostituito da Sulejman Tihić. È morto nel suo letto a Sarajevo il 19 Ottobre 2003 e non ha mai pagato per i suoi crimini. Ha anzi ricevuto prestigiosi premi e riconoscimenti internazionali, fra cui le massime onorificenze della Croazia (nel 1995) e della Turchia (nel 1997). E ha saputo bene far dimenticare agli occhi della ‘comunità internazionale’ la sua natura di musulmano fanatico e fondamentalista ed i suoi numerosi arresti e le sue lunghe detenzioni, all’epoca di Tito, (in particolare dal 1946 al 1949 e dal 1983 al 1988) per attività sovversive e ostili allo Stato. Nella sua celebre Dichiarazione Islamica, pubblicata nel 1970, dichiarava: «non ci sarà mai pace né coesistenza tra la fede islamica e le istituzioni politiche e sociali non islamiche» e che «il movimento islamico può e deve impadronirsi del potere politico perché è moralmente e numericamente così forte che può non solo distruggere il potere non islamico esistente, ma anche crearne uno nuovo islamico». E ha mantenuto fede a queste sue promesse, precipitando la tradizionalmente laica Bosnia-Erzegovina, luogo dove storicamente hanno sempre convissuto in pace diverse culture e diverse religioni, in una satrapia fondamentalista, con l’appoggio ed i finanziamenti dell’Arabia Saudita e di altri stati del Golfo e con l’importazione di migliaia di mujahiddin provenienti da varie zone del Medio Oriente, che seminarono in Bosnia il terrore e si resero responsabili di immani massacri. Slobodan Milošević, accusato di crimini contro l’umanità (accuse principalmente fondate su una sua presunta regia del massacro di Srebrenica), nonostante abbia sempre proclamato la sua innocenza, venne arrestato e condotto in carcere all’Aja. Essendo un valente avvocato, scelse di difendersi da solo di fronte alle accuse del Tribunale Penale Internazionale, ma morì in circostanze mai chiarite nella sua cella l’11 Marzo 2006. Sono insistenti le voci secondo cui sarebbe stato avvelenato perché ritenuto ormai prossimo a vincere il processo e a scagionarsi da ogni accusa, e perché molti leader europei temevano il terremoto che avrebbero scatenato le sue dichiarazioni. Radovan Karadžić, l’ex Presidente della Repubblica Serba di Bosnia, e il Generale Ratko Mladić, comandante in capo dell’esercito bosniaco, sono stati anch’essi arrestati e si trovano in cella all’Aja. Sul loro capo pendono le stesse accuse di ‘crimini contro l’umanità’, fondate essenzialmente sul massacro di Srebrenica. Adesso che su Srebrenica è finalmente venuta fuori la verità, dovrebbe essere facile per loro arrivare ad un’assoluzione, a meno che qualcuno non abbia deciso che debbano fare la fine di Milošević. Ma chi restituirà a loro e al defunto Presidente Jugoslavo la dignità e l’onorabilità? Tutte le grandi potenze occidentali, dagli Stati Uniti all’Unione Europea, dovrebbero ammettere di aver sbagliato, ma dubito sinceramente che lo faranno. Fonte: press.russianews.it

Le fake news su Trump di Repubblica e la post-verità di Michele Serra, scrive Claudio Messora il 23 gennaio 2017 su Bioblu. Di Massimo Mazza. L’amaca di Michele Serra è finita in cima alla prima pagina di Repubblica, ma questo non ha evidentemente incentivato il giornalista a migliorare la qualità della sua striscia quotidiana, che oggi registra l’ennesimo scivolone figlio d’approssimazione e ignoranza dei temi con i quali il nostro si cimenta. Oggi Serra vuole dirci che il rozzo Trump messo accanto a Obama fa una pessima figura. Conclusione che non è certo una novità o una brillante intuizione originale, così per dare più forza e colore al pezzo s’è avventurato in un assurdo, quanto falso, paragone tra gli avi dei due: «Si poteva intuire, risalendo per li rami, che il cow-boy trisavolo di Trump, quando entrava nel saloon con lo stuzzicadenti in bocca, non era molto più chic del bisavolo di Obama nei campi di cotone. E almeno gli avi di Obama cantavano il blues e non quel terribile country con la giacca bianca piena di frange.» Come molti prima lui, Serra qui compie la penosa operazione di costruire una realtà adatta alla conclusione che vuole raggiungere, ma lo fa maldestramente, mettendo in fila una notevole serie di clamorose falsità, fino a costruire una post-verità nella quale tutti i pezzi s’incastrano alla perfezione come desiderato dall’autore. Falsità figlie di approssimazione e di un tirare a indovinare tipico di un certo giornalismo italiano, talmente pigro da non compiere nemmeno le più elementari verifiche. La storia delle famiglie Trump e Obama è lì, a un click di distanza per tutti, ma Serra ha manifestato più e più volte fastidio e sfiducia per le informazioni che corrono in rete e quindi, evidentemente, ha saltato il passaggio ed è partito in quarta inventandosi due alberi genealogici che potessero sostenere le conclusioni alle quali voleva arrivare. Purtroppo per Serra gli avi di Donald Trump non sono mai stati cow-boy, suo nonno è nato in Baviera e sua nonna in Scozia. Nessuna delle due famiglie è mai vissuta nel West, ma sulla costa Est, a New York, quanto di più lontano esista negli Stati Uniti dal West dei cow-boy. Il nonno di Trump una volta arrivato in America fece il barbiere e poi si lanciò nel settore immobiliare, carriera poi seguita del figlio e dal nipote, ora presidente. La cafonaggine di Trump non è quella del campagnolo, ma quella del figlio di un ricco abitante di New York, la cafonaggine del nato ricco che non ha studiato molto e che ha passato la vita a far soldi in modi spesso discutibili. Anche la descrizione del bisavolo di Obama è del tutto falsa, perché la madre di Obama è bianca ed è originaria del Kansas, mentre suo padre è nato e vissuto in Kenya e ovviamente non discende da schiavi portati in America, l’ex presidente non è per niente «pronipote di schiavi» come lo presenta Serra aprendo il pezzo. È Obama, dei due, quello che ha i cow-boy tra gli avi, la madre era addirittura parente di Buffalo Bill alla lontana, e sono i suoi avi quelli che più probabilmente ballavano al ritmo del country. Ci sono i cow-boy tra gli avi di Obama, non ce ne sono invece tra quelli di Trump, la famiglia del quale i cow-boy li ha visti solo in televisione, proprio come Michele Serra. 

L'ordine di Putin. Le carte nelle mani di Trump: l'attacco segreto dello zar agli Usa, scrive “Libero Quotidiano” il 7 gennaio 2017. Nel rapporto delle agenzie di intelligence Usa illustrato oggi al presidente eletto Doanld Trump si sostiene che Putin ha cercato di aiutare l’elezione di Trump e di screditare la candidata democratica Hillary Clinton. Nel testo i vertici degli 007 Usa sostengono anche che la Russia tenterà nuovamente di influenzare le elezioni, stavolta di alleati Usa. Riferimento alle prossime elezioni in Europa, a partire da quelle presidenziali a aprile/maggio in Francia e legislative in Germania a settembre. «Abbiamo determinato che il presidente russo Vladimir Putin ha ordinato nel 2016 una campagna per influenzare l’elezione presidenziale Usa. L’obiettivo dei russi era quello di minare la fiducia dell’opinione pubblica americana nel processo elettorale democratico, denigrare il segretario (di Stato Hillary) Clinton, e danneggiare la sua eleggibilità in quanto potenziale presidente» si legge nel testo curato dal direttore della National Intelligence, James Clapper, responsabile dimissionario del coordinamento delle 17 agenzie di spionaggio e controspionaggio Usa. Nel testo i capi delle agenzie di intelligence Usa aggiungono che «Putin e il governo russo hanno manifestato una chiare preferenza per il presidente eletto Trump». Trump che stasera dopo aver ricevuto il rapporto ha sostenuto che gli attacchi - senza nominare solo la Russia ma citando anche genericamente «la Cina, altri Paesi e gruppi» - ci sono stati ma che non hanno influito in alcun modo sull’esito finale: «Non ci sono stati assolutamente effetti sul risultato delle elezioni (presidenziali dell’8 novembre) incluso il fatto che non c’è stata alcuna alterazione delle macchine per votare» ha dichiarato il prossimo inquilino della Casa Bianca la cui elezione è stata ratificata oggi anche formalmente dal Congresso. Il rapporto, invece, sostiene «con alto grado di fiducia» che «i tentativi russi di influenzare l’elezione presidenziale Usa nel 2016 rappresentano la più recente espressione del desiderio di lunga data di Mosca di minare l’ordine democratico liberale Usa, e queste attività hanno dimostrato una significativa escalation nel livello di attività, scopi e sforzi rispetto a precedenti operazioni» di Mosca. Nel testo, prosegue la Cnn, gli 007 spiegano che Mosca ha usato diversi mezzi per tentare di alterare il risultato con «operazioni coperte (segrete), come ciber-attacchi, e con operazioni a volto scoperto da parte di agenzie governative russe, media finanziati da Mosca, intermediari di terze parti e attività a pagamento di troll (account di attacco attivi sui diversi sistemi di social network, ndr)». Il testo dato a Trump, e trapelato staserà, è quello di 25 pagine, non quello di 50 contenenti informazioni classificate - come le metodologie usate per accertare le responsabilità di Mosca - fornito al presidente uscente Obama, anche se le conclusioni sono identiche. In una dichiarazione l’ufficio di Clapper ha sottolineato che «la comunità di intelligence (Usa) non ha preso alcuna posizione sull’impatto delle attività russe sull’esito delle elezioni (presidenziali) del 2016». Il ministero della Sicurezza Interna (Homeland Security) ha aggiunto, sottolinea la Cnn, che «nessuno dei sistemi colpiti o compromessi dai russi erano coinvolti nella conta dei voti».

Il Russiagate della Clinton, scrive Matteo Carnieletto il 13 luglio 2017 su “Gli occhi della Guerra” de "Il Giornale". Contrordine: il Russiagate esiste, ma riguarda la famiglia di Hillary Clinton. Bisogna fare un salto nel tempo e tornare al 23 aprile del 2015, quando il New York Times pubblicò un’interessante inchiesta su Uranium One, “uno scandalo i cui contorni non sono mai stati definiti”, come scrive Maria Giovanna Maglie su Dagospia. Leggendo il reportage del quotidiano statunitense, si comprende come la Clinton, all’epoca Segretario di Stato abbia fatto parecchi favori a governi stranieri in cambio di soldi alla Clinton Foundation, “soprattutto sotto forma di discorsi del marito Bill pagati cifre spropositate”. Tra questi Paesi ci sarebbe anche la Russia di Vladimir Putin, che, attraverso una finanziaria molto probabilmente legata al Cremlino, pagò un discorso di Bill mezzo milione di dollari. Una cifra spropositata. La ricostruzione del New York Times, ripresa da Dagospia, afferma che l’ex Segretario di Stato “potrebbe aver favorito l’acquisizione da parte della russa Armz, controllata dall’agenzia atomica russa (Rosatom) della canadese Uranium One, la società che controllava, e controlla tutt’oggi, un quinto della produzione Usa di uranio, quantità importanti che vanno dall’Asia centrale fino all’America”. Il punto è che la vendita di Uranium One toccava interessi strategici degli Stati Uniti ed era quindi necessaria l’approvazione di un Comitato di cui facevano parte i rappresentanti delle maggiori agenzie governative in materia di sicurezza e tra loro c’era proprio la Clinton. Un libro, intitolato Clinton Cash: The Untold Story of How and Why Foreign Governments and Businesses Helped Make Bill and Hillary Rich, racconta tutta la vicenda delle entrate della Clinton Foundation e del caso Uranium One. Una delle cose più interessanti è che “tra il 2008 e il 2010, un progetto della Fondazione Clinton ha ricevuto 2,35 milioni di dollari dalla Fernwood Foundation, controllata da colui che prima della vendita era il presidente di Uranium One”. Quel che è interessante è che fin dall’inizio, l’amministrazione Obama ha chiesto a Hillary di rendere pubblici i dati delle donazioni, ma sul sito della Fondazione nulla appare sulla transazione legata all’uranio. Quindi sì: ci troviamo davanti ad un vero e proprio scandalo legato alla Russia. Il problema è che c’entra più la Clinton che Trump.

FRANK GIUSTRA HA DONATO 31 MILIONI ALLA FONDAZIONE CLINTON. Scrive Maria Giovanna Maglie per Dagospia. Uranium one, è la parola magica, quella prova che per trovarla valeva anche la pena di rischiare. Oggi il presidente difende il figlio che si è stoltamente incontrato con un'avvocatessa russa ed è uscito con un pugno di mosche nel tarda primavera del 2016. Lo fa con tweet e non solo, “cercava di avere informazioni e il suo comportamento è trasparente”, e poi ricorda che siamo in piena witch hunt, caccia alle streghe, niente di più. In verità deve essere furioso per l'ingenuità con la quale il figlio è caduto in un trappolone tesogli da qualcuno, probabilmente per avere una prova a futura memoria che contatti con i russi c’erano stati nella campagna Trump. Ma che cosa cercava Donald junior, di quale prova era così avido da correre il rischio, ammesso che si sia reso conto? Qualcuno ha scritto che sperava di avere informazioni su contributi illegali alla campagna di Hillary Clinton, ma la verità è che The Big One è Uranium One, ed è uno scandalo i cui contorni non sono mai stati definiti tanto da diventare una prova (ma che tutti conoscono). Le carte che dimostrano che il segretario di Stato Hillary Clinton ha fatto un sacco di favori e consentito affari a governi e istituzioni straniere in cambio di soldi in varie forme ma in quantità enorme alla Fondazione Clinton, soprattutto sotto forma di discorsi del marito Bill pagati cifre spropositate, e che lo ha fatto anche con la Russia e Vladimir Putin in un affare nel quale è stato venduto patrimonio americano. Di più, nella primavera del 2015, quando ancora Donald Trump non era un pericolo perché la sua candidatura rappresentava soltanto una meteora, ed invece si andava definendo come quasi certa e monopolizzante la candidatura di Hillary Clinton, fu proprio il New York Times a tirare fuori la vicenda, con grande enfasi e promettendo di andare avanti nell'inchiesta, ripreso con altrettanto vigore dal Washington Post. Solo che poi arrivò il tycoon e diventò l'unico nemico, com'è ancora oggi, alla faccia del buon giornalismo, delle opinioni separate dalla cronaca, del dovere di pubblicare ciò che è degno di essere pubblicato. Nell'aprile del 2015 infatti il NYT rivela che, mentre era alla guida del Dipartimento di Stato, la candidata alle Presidenziali Usa potrebbe aver favorito l'acquisizione da parte della russa Armz, controllata dall'agenzia atomica russa (Rosatom) della canadese Uranium One, la società che controllava, e controlla tutt'oggi, un quinto della produzione Usa di uranio, quantità importanti che vanno dall'Asia centrale fino all'America. Andiamo per ordine. La vendita di Uranium One toccava interessi strategici degli Stati Uniti, doveva quindi essere approvata da un Comitato di cui facevano parte i rappresentanti delle maggiori agenzie governative in materia di sicurezza. Tra loro, e con un ruolo preminente c’era anche Hillary Clinton, il segretario di Stato. C'è un libro che racconta tutto, si chiama. Clinton Cash: The Untold Story of How and Why Foreign Governments and Businesses Helped Make Bill and Hillary Rich, del giornalista conservatore Peter Schweizer, è un'inchiesta di 186 pagine sulle entrate della Fondazione Clinton, nata nel 2001 come associazione filantropica. Il Times lo ha usato come base per l'inchiesta per raccontare la vendita da 610 milioni di dollari del 51% della società di estrazione di uranio Uranium One alla Rosatom, agenzia nucleare russa, approvato nel 2010 da un comitato federale di cui faceva parte il Dipartimento di Stato di Hillary. Tra il 2008 e il 2010, un progetto della Fondazione Clinton ha ricevuto 2,35 milioni di dollari dalla Fernwood Foundation, controllata da colui che prima della vendita era il presidente di Uranium One. Secondo il Washington Post, che ha condotto un'inchiesta separata dal libro di Schweizer, tra le 429 organizzazioni che dal 2001 al 2013 hanno pagato per i discorsi di Bill Clinton circa 100 milioni di dollari, 67 erano donatrici della Fondazione di famiglia: avrebbero versato circa 26 milioni. E se l'Amministrazione Obama ha chiesto fin dai giorni dell'entrata al Dipartimento di Stato di Hillary di rendere pubblici i dati delle donazioni, nulla appare sul sito della transazione legata all'uranio. Volete un esempio? Un discorso di Bill Clinton a Mosca, pagato mezzo milione di dollari da una finanziaria russa, probabilmente legata al Cremlino. Un discorso tenuto poco dopo l’annuncio dell’operazione Uranium One. Chi ha inciuciato davvero allora con la Russia del cattivo Vladimir Putin?

Trump attacca i giudici, difende Putin: «Anche in America ci sono assassini». Il leader russo come George W. Bush nella guerra in Iraq: «Quanta gente che è morta». Il «bando agli immigrati» verso la Corte Suprema, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da New York, il 5 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Vladimir Putin non è un killer?», chiede Bill O’Reilly, il conduttore più famoso della tv conservatrice Fox News. Sono le 16 di domenica: gli americani si preparano a vivere il Super Bowl, la partita di football e lo show di contorno più seguiti dell’anno. L’intervista a Donald Trump fa parte della grande attesa. Questa la risposta del presidente degli Stati Uniti: «Pensi che l’America sia così innocente? Anche da noi ci sono molti assassini». «Sì, ma qui stiamo parlando di un leader», replica il giornalista. Trump non arretra: «Anche noi abbiamo fatto tanti errori. Pensa solo alla guerra dell’Iraq. Quanta gente è morta». Ecco fatto: in due minuti Trump ha messo insieme un’equazione esplosiva. Le responsabilità di Putin sono, di fatto, accostabili a quelle di George W. Bush, il presidente che ordinò l’invasione dell’Iraq. Il resto dell’intervista sembra ormai routine, tra un avvertimento all’Iran e l’approccio verso Mosca: «Io rispetto Putin, è il capo del suo Paese. Non so se ci andrò d’accordo, questo si vedrà. Dico, però, che sarebbe meglio trovare un’intesa con la Russia piuttosto che litigarci. E se la Russia ci aiuta nella lotta contro l’Isis e il terrorismo islamico nel mondo, beh, allora questa è una cosa buona». Spianati dall’ennesima sorpresa, i vertici del partito repubblicano avevano già tentato il recupero in mattinata, quando Fox aveva diffuso stralci del colloquio. Mitch McConnell, leader della maggioranza al Senato, aveva preso le distanze: «Putin è un ex agente del Kgb. È un criminale. È stato eletto in un modo che la maggior parte delle persone non considererebbe una votazione credibile. Non penso si possa confrontare il modo in cui agiscono i russi e quello degli Stati Uniti». Ma intanto Trump è già altrove, ad appiccare un altro incendio, via Twitter. Tema: l’ordine esecutivo che sospende, a tempo indeterminato, l’ingresso nel Paese dei profughi siriani e per 120 giorni l’accesso di tutti gli altri richiedenti asilo. Inoltre il bando blocca i viaggiatori in arrivo da sette Paesi musulmani: Siria, Libia, Iran, Iraq, Somalia, Sudan, Yemen. Ieri mattina la Corte d’appello di San Francisco ha confermato la sentenza del giudice James Robart di Seattle, respingendo il ricorso presentato dal Dipartimento di Giustizia. Risultato: il provvedimento restrittivo firmato dal presidente il 27 gennaio scorso resta inapplicabile. La battaglia legale e lo scontro istituzionale tra magistratura e Casa Bianca continuano. Trump lo alimenta con i suoi tweet: «È incredibile come un giudice possa mettere il nostro Paese in un così grave pericolo. Se succede qualcosa, prendetevela con lui e il sistema giudiziario». E ancora: «Ho dato istruzioni al ministero della Sicurezza interna di controllare le persone che entrano nel nostro Paese con grande attenzione. I tribunali stanno rendendo il nostro lavoro molto difficile».

Russofobia: due secoli di “fake news”, scrive Giampaolo Rossi il 6 gennaio 2017 su “Il Giornale”. La russofobia è un sentimento diffuso nel mondo anglosassone e affonda le sue radici in almeno due secoli di storia. Per gli inglesi d’inizio ‘800, la Russia divenne un incubo quando lo zar Alessandro I ricacciò i francesi da Mosca inseguendoli fino a Parigi dove entrò trionfalmente quel 30 marzo del 1814 che segnò il destino di Napoleone. Quel giorno un brivido scosse anche i circoli diplomatici di Londra e la corte britannica fino a quel momento simpatizzanti di Mosca: se i russi potevano arrivare in Francia, voleva dire che potevano arrivare dovunque. Per gli inglesi il timore non era il continente europeo ma l’Asia Centrale e sopratutto l’India, fulcro della potenza imperiale britannica. E fu allora, di fronte alla impressionante prova di forza degli “uomini delle steppe”, che si diffuse una delle più incredibili “fake news” mai inventate nella storia: il “Testamento di Pietro il Grande”, il presunto ordine impartito dal grande zar sul suo letto di morte, con il quale disegnava il futuro dominio dell’Europa e del mondo da parte di Mosca, partendo dalla conquista di Costantinopoli. Il Testamento di Pietro il Grande era un bufala scritta nel 1756 su commissione dei servizi di propaganda francesi; in esso si attribuiva al grande Zar l’ammonimento ai suoi sudditi e successori circa la missione divina della Russia: “In nome della Santissima e indivisibile Trinità, noi, Pietro, imperatore e autocrate di tutte le Russie, (..) rischiarati con la luce di Dio a cui dobbiamo la nostra corona (…) ci permettiamo di guardare il popolo russo come chiamato per il futuro al dominio generale dell’Europa”. Se fino a quel momento, questa fake news era stata utilizzata dai francesi (per giustificare le ambizioni di conquista di Napoleone) e dagli ambienti nazionalisti polacchi e ucraini, con l’ergersi di Mosca ad unica rivale della Gran Bretagna, fu adottata da Londra. Eppure, come spiega Guy Mettan, in un libro che dovrebbe essere letto da molti dei parolai anti-russi del giornalismo occidentale, la russofobia inglese elevò il pericolo russo a livello globale (non semplicemente la conquista dell’Europa, ma del mondo) cambiandone la natura: mentre per i francesi la russofobia rimase limitata ai circoli diplomatici e filosofici (la disputa su democrazia e dispotismo era in fondo una battaglia delle idee), gli inglesi la “democratizzarono”, la trasferirono sull’opinione pubblica, sulla manipolazione dell’immaginario simbolico. Per tutto l’800, nella pubblicistica britannica, “l’isteria anti-russa” raggiunse vette mai viste in Europa producendo una quantità infinita di stereotipi anti-russi che plasmarono i pregiudizi in maniera simile a quella che provano a fare oggi i media occidentali. E così, ad esempio, durante la guerra russo-turca (1877-1878) la pubblicistica inglese si prodigò a dimostrare come i russi e i loro alleati bulgari fossero “selvaggi subumani, corrotti, ignoranti e viziosi”, arrivando a dipingere i turchi come eroi e a nascondere le atrocità compiute da loro contro le popolazioni cristiane; esattamente come oggi, i media americani e inglesi hanno trasformato i sanguinari mercenari islamisti al soldo dei sauditi (e della Cia) in “ribelli moderati” ed eroici combattenti per la libertà. Motivo per cui, per esempio, la liberazione di Aleppo dopo anni di terrore jihadista (finanziato dagli Usa e dai sauditi) diventa un crimine compiuto da russi e siriani. E così come oggi Hollywood alimenta l’immaginario del russo cattivo, criminale, perfido, così nell’800 la letteratura inglese costruì l’immaginario spaventoso del russo orribile e demoniaco; come ricorda Mettan, il personaggio di Dracula uscito dal romanzo di Bram Stoker (cantore dell’imperialismo di Sua Maestà) altro non era che la riproposizione in chiave horror degli stereotipi peggiori che l’Inghilterra vittoriana aveva costruito sulla Russia e sul mondo slavo governato da principi barbari, crudeli e demoniaci. E non è un caso che l’eroe che ucciderà il mostruoso conte Dracula, liberando il mondo dall’orrore del vampiro, era un avvocato inglese. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la russofobia fu esportata oltre Oceano e secondo uno schema che ereditarono gli Usa, Mosca che fino a qualche anno prima era stata l’alleata preziosa contro la Germania (così come nell’800 lo era stata per gli inglesi contro la Francia), divenne improvvisamente il nemico numero uno. Non è un caso che Henry Truman, il presidente Usa della Guerra Fredda, fece ancora riferimento alla “bufala” del Testamento di Pietro il Grande. Ovviamente la russofobia, ieri come oggi, ha un fine preciso: giustificare le politiche imperialiste di Gran Bretagna e Stati Uniti. Nell’800, mentre Londra diffondeva la “bufala” del Testamento di Pietro il Grande per dimostrare l’espansionismo russo, l’Impero britannico aumentava di almeno 20 volte le sue dimensioni, così come la Francia coloniale. E anche oggi la “russofobia” paventa un Occidente preda della sfrenate ambizioni di dominio planetario del nuovo Pietro il Grande, quel Vladimir Putin che, secondo quello che politici e i sicofanti intellettuali dell’Occidente raccontano, è in procinto di conquistare l’Europa, il mondo, il sistema solare. Ma come abbiamo già scritto, semmai è il contrario: mentre l’Occidente grida “al lupo al lupo”, o meglio, “all’Orso all’Orso”, la Nato allarga i suoi confini, le sue sfere d’influenza e arriva a lambire proprio la Russia con un rapporto di forze talmente sbilanciato da rendere irrealistico il solo pensare che la Russia possa provare a coltivare sogni di conquista dell’Europa. E così, dopo aver destabilizzato il Medio Oriente con le finte Primavere Arabe, scatenato guerre “umanitarie” in Iraq, Afghanistan e Libia; dopo aver alimentato il conflitto in Siria, giocato un ruolo ambiguo con il Califfato islamico e con l’Isis, aiutato a diffondere l’integralismo islamista abbattendo tutti i regimi laici e finanziando i gruppi di Al Qaeda; dopo aver seminato rivoluzioni colorate e costruito colpi di Stato democratici (come in Ucraina), e mentre partecipa per procura alla guerra saudita nello Yemen, l’Occidente prova a raccontare che il pericolo per la pace del mondo è la Russia. Il Testamento di Pietro il Grande ha fatto scuola e mentire come il diavolo è la vera regola dei cantori stonati della democrazia.

Luttwak brutalizza Obama: "È finito, come l'ha ridotto Putin", scrive “Libero Quotidiano” l'1 gennaio 2017. Un bambino stizzito e vendicativo, una fine patetica. Non va per il sottile Edward Luttwak, che in un'intervista commenta così, senza troppi giri di parole, il finale di presidenza di Barack Obama. Lui caccia 35 russi dal suolo americano con l'accusa di spionaggio e Vladimir Putin, invece che buttare fuori altrettanti diplomatici americani dalla Russia, fa finta di nulla e, anzi, fa pure gli auguri a Barack. Una umiliazione, sottolinea il politologo americano, che ha due motivazioni. "Non reagendo Putin vuole dimostrare che Obama non conta più nulla. Che il suo è il dispetto di un personaggio frustrato e rancoroso. Che non si rassegna ad accettare la sconfitta elettorale della candidata democratica Hillary Clinton. Che vuole compromettere più di quanto abbia già fatto il futuro delle relazioni russo-americane. Che vuole legare le mani al suo successore Donald Trump". La seconda è che in realtà lo scandalo delle mail rubate alla Clinton porta con sé una domanda molto più importante e imbarazzante per Obama e i democratici: "Erano vere o erano false? Se erano vere, come pare nel caso del sabotaggio subito da Bernie Sanders (il rivale della Clinton nelle primarie democratiche, ndr) gli elettori americani dovrebbero essere grati a Wikileaks che si è assunta la responsabilità della pubblicazione, li ha aiutati a chiarirsi le idee e a scegliere". Tra l'altro, aggiunge Luttwak, non ci sono prove che dietro Assange e Wikileaks, responsabili della pubblicazione di quelle mail, ci sia il Cremlino. "A questo punto - conclude Luttwak - le espulsioni decise da Obama appaiono frutto di una reazione avventata se non addirittura infantile. Non è sbagliato dirlo". A Putin non resta che aspettare Trump, che "può annullare con un colpo di penna quelle espulsioni. E allora la strada sarà libera per prospettive nuove sia in politica che in economia. Queste sono le priorità di Trump e di Putin. Avrebbe dovuto immaginarlo anche Obama".

La mia famiglia ha votato Trump. E io li capisco. Pubblichiamo uno dei testi apparso sul numero 5 di Futura, la newsletter di Corriere, scrive Claudia Durastanti il 6 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera".

"Non ho ereditato una formazione politica dalla mia famiglia. I primi anni della mia vita li ho trascorsi in un quartiere italo-americano storicamente repubblicano di New York, il cui orientamento politico si basava su assunti e forme di saggezza popolare di questo tipo: «se hai una caramella e puoi darla a un bambino bianco o a uno nero, dalla a quello bianco». Non sembrava una questione di razzismo quanto di sopravvivenza: erano gli anni di Spike Lee, i bianchi non andavano a Bed Stuy e i neri non venivano a Bensonhurst. L’eroe della mia famiglia era il fratello di mia madre, nato in Basilicata ma cresciuto negli Stati Uniti, che a vent’anni si era messo giacca e cravatta ed era andato a fare un colloquio per una società informatica. Durante il tragitto di ritorno, senza sapere l’esito del colloquio, aveva incontrato un amico che gli aveva parlato di una possibilità immediata in una grossa compagnia a cui lui non poteva prendere parte. Mio zio era tornato di corsa a Manhattan, si era presentato al colloquio al posto dell’amico ed era entrato in Goldman Sachs, dove avrebbe lavorato per circa quarant’anni. Dopo il 2008, ha fatto le scatole di cartone come tutti gli altri. Quando l’ho visto la scorsa estate mi ha detto che avrebbe votato Donald Trump, e a me è sembrata una scelta coerente con la vita che aveva vissuto. Trump era solo un’effigie rossa e scintillante su un edificio in cui i cocktail costavano più che altrove. Quando ero piccola, i miei genitori e i miei parenti non mi portavano al Natural History Museum o al Metropolitan, ma a vedere le case dei ricchi. Le gite in famiglia erano questi pellegrinaggi a Dyker Heights, a vedere ville bellissime in cui vivevano donne che somigliavano alle mogli di John Gotti o altri affiliati della famiglia Gambino, oppure a Holmdel in New Jersey dove vivono tuttora i CEO delle più grandi società d’affari di New York. Penso di essere entrata in ogni grattacielo di Manhattan accessibile al pubblico in quegli anni. Ho trascorso ore al World Trade Center, all’Empire State Building e al Trump Plaza a comprare gadget orrendi che mia madre custodisce ancora — magneti da frigorifero e portachiavi ormai sbiaditi — e ogni volta che tentavo una deviazione per una meta più adatta ai miei interessi di ragazzina, venivo dirottata verso la Quinta Strada a imparare che in America era tutto possibile. Anche all’epoca Trump era ovunque: faceva apparizioni nei film di Natale, e somigliava a uno zio buono e un po’ scemo che voleva solo farti divertire. Ho sprecato tempo pure nell’edificio che portava il suo nome ad Atlantic City; un’altra delle mete culturali preferite dalla mia famiglia erano i casinò. Anche se ho trascorso l’infanzia a sognare di essere adottata da una famiglia novecentesca ed ebrea che dissemina romanzi mitteleuropei sul tappeto del salotto, la realtà è che mio nonno adorava Rudy Giuliani finché questo non ha deciso di ripulire Midtown e mio nonno non si è convinto che il suo quartiere a Brooklyn si sarebbe riempito di eroinomani e locali a luci rosse. Per gli italo-americani, la tutela del proprio spazio conquistato a fatica veniva sempre prima del bene collettivo. Non ho ereditato un pensiero politico dalla mia famiglia: quello che ho ereditato, invece, è un miscuglio di aspirazione, vittimismo, cabala, accidia e rabbia che possono assumere qualsiasi orientamento ideologico conveniente e a disposizione. Riesco a tenere questi impulsi populisti a bada solo perché ho studiato e ho deciso che dovevo dare un significato meno limitato alla mia sofferenza di classe. Ho cercato di autodisciplinarmi e di educarmi per non essere debole e strumentalizzabile, senza sapere che sarei diventata solo antistorica. Eppure, questo corredo genetico inutile e triste mi torna utile in circostanze come la Brexit e l’elezione di Donald Trump. È come se avessi dei sensori che mi permettono di anticipare le agitazioni collettive pur essendo molto meno informata dei miei conoscenti che si occupano attivamente di politica: una specie di riluttante familiarità con il disastro, che mi salva dal trauma epistemologico di una politica che non va nella direzione in cui voglio. L’ultima volta che ho preso un volo per New York da Heathrow ho visto un signore con il cappellino «Make America Great Again» e la maglietta «I stand with Chrysler», mentre su uno schermo luminoso c’era la promozione di un volo per l’Iraq sotto la dicitura «Welcome to Baghdad». Ho mandato subito un messaggio in cui raccontavo la coincidenza e chiedevo: Quand’è che la nostra vita è diventata un libro di DeLillo? Non penso di essere una buona elettrice o una buona partecipante alla vita pubblica: in me prevalgono sempre l’impressione e la suggestione, mi soffermo sulla simbologia di certe derive autoritarie, perdo tempo sulla metafora. Poi subentrano il buon senso e la difesa dei diritti di chi mi circonda, e la mia militanza diventa pratica. Nel caso delle elezioni americane ho fatto quel che si conveniva al mio profilo democratico: Sanders alle primarie e Clinton alle presidenziali. Ma ero consapevole che si trattava di una scelta in controtendenza rispetto a quello che stava succedendo negli Stati Uniti: era la cosa giusta da fare, non quella reale. Quando torno in America, tendo a evitare i luoghi di ritrovo da giovane intellettuale bianca e triste e trascorro gran parte del tempo con una famiglia molto diversa da me. Lo faccio per ragioni di affetto ma anche di interesse. Un incontro di slam poetry nell’East Village non ha nulla da insegnarmi; imparare come gli addetti portuali riescono a imbrogliare i controlli del sindacato facendo pipì da un fallo di plastica per potersi drogare mi aiuta ad avere un’idea di società più larga di quella a cui appartengo. E così quando sono a Manhattan torno a essere la ragazzina che entrava nei centri commerciali di lusso, si sedeva sui divanetti del Trump Plaza e si annoiava nei casinò mentre gli adulti scommettevano lo stipendio, e all’improvviso mi ricordo di tutta quella gente che vuole diventare ricca e si incattivisce sperando che non lo diventino gli altri. Con il tempo è subentrata una sorta di compassione. Quando una persona a cui vuoi bene ti porta sul tetto di un condominio privato di Tribeca convincendoti a imbucarti, ti fa ammirare la vista della città e ti chiede «Won’t you literally kill someone for this?» ti ritrovi a balbettare, perché non sai cosa rispondere, e hai paura di offenderla con il tuo distacco. Per me get rich or die trying è solo un’espressione un po’ coatta che uso quando faccio il verso ai rapper americani che pure ascolto, non un interesse che perseguo nella vita. Ma in America quell’interesse è ovunque da sempre, è un impulso che attraversa qualsiasi classe ed etnia sociale e non ha differenze di genere. Stokely Carmichael diceva che la violenza è americana come la cherry pie, e il desiderio di farsi da sé e di scavalcare posizioni sociali è il suo contrappunto perfetto: il mito del self-made man non è una falsa coscienza tipica degli anni Ottanta, è l’archetipo della nazione. Solo perché oggi invece di indossare un vestito dei Brooks Brothers ordina dei latte a Carrol Gardens e lavora nell’industria creativa, non significa che lo yuppie sia morto. Ha solo cambiato vestito. Che poi, al netto di misoginia, desiderio di impunità, razzismo e un senso dell’umorismo da cartone animato, forse ho più di qualche tratto in comune con un elettore di Donald Trump. Sono insoddisfatta dall’offerta politica, sospettosa dell’istituto democratico, ho istinti di rivolta ma sono troppo pigra e narcotizzata e libresca per soddisfarli, e vedere Citizen Four, Black Mirror e Hypernormalization di Adam Curtis non hanno fatto di me una cittadina più accorta ma solo più spaventata e quasi tendente all’esoterismo. Il senso di militanza provato all’epoca della seconda invasione americana in Iraq nel 2003 l’ho perso, e ogni volta che assisto a un evento politico di queste proporzioni alla mia preoccupazione si sovrappone una forma di perversa fibrillazione, un autentico istinto alla distruzione, familiare e insopportabilmente vicino. E per quanto ripudi quegli americani bianchi appena usciti da una confraternita universitaria (per tanti aspetti questo è stato il voto dei «dude bro») che promettono di giocare a Call of Duty per le strade con ogni outsider che incontrano, e sia genuinamente terrorizzata da quello che accadrà a metà dei cittadini di quella nazione, c’è anche questo senso di colpa in fondo un po’ cattolico, di dover espiare il peccato originale di un Occidente che merita la fine, una stanchezza sotterranea che è difficile spiegare e che forse posso permettermi perché la mia immediata sussistenza biologica non è minacciata da Donald Trump, e in fin dei conti la Brexit non sarà una deportazione di massa. Se invece di ascoltare Alanis Morissette mi fossi ritrovata a impastare sterco e paglia in India per fare dei mattoni, se i miei genitori mi avessero data in matrimonio a un uomo più anziano e avessero fatto di me una concubina giovane, se fossi cresciuta a Swansea figlia di una ragazza madre, cosa avrei fatto della mia esistenza? E la risposta che mi sono sempre data è che a vivere in un sobborgo del mondo occidentale avanzato avrei avuto un dente d’oro e sarei diventata una hooligan, perché quella compulsione e il desiderio insopprimibile di fare una cosa sbagliata, esasperata e brutale, li capisco. È una forza elementare che sono l’istruzione ma anche il caso e la Storia a convogliare: avrei potuto diventare una Pantera Nera come una skinhead, una alt-right come una suffragetta. A maggior ragione in un Paese come gli Stati Uniti, dove senza una borsa di studio o un genitore con un trust fund studiare è impossibile e impari molto presto il concetto di limite. Nei casi migliori a convogliare questa forza è Bernie Sanders, nei peggiori il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Nel mio addestramento maldestro al pensiero democratico e liberale, nella mia attuale frustrazione, l’unica certezza che persiste è il dovere politico e umano di immedesimarmi nella condizione dell’altro, soprattutto se l’altro è più debole di me, e questo vale per qualsiasi cittadino o soggetto. Anche laido, ostile e difficile da amare. Se c’è una cosa che trovo davvero terrificante e distopica è l’idea di trovarmi a popolare un mondo estraneo, in cui ho la presunzione di umanità e tutti gli altri sono ridotti a zombie, assassini e parassiti. Cosa me ne faccio della mia umanità in quel caso? Forse spererei solo di essere morsa e di diventare come loro. A volte mi auguro che questo processo di polarizzazione nella società occidentale si chiuda così, con la formazione di un esercito di individui mutanti, senza genere, razza o classe sociale; che a furia di spinte contrapposte diventino tutti uguali, un branco di scimmie in coro che di libertà non vuole neanche sentire parlare. Perché è a quella libertà che ho cercato di educarmi, e ci sono giornate in cui mi convinco che non è servito a molto: l’unica cosa che mi pare di aver imparato da queste elezioni, come da altri episodi recenti, è che non c’è istinto umano più condiviso che il piacere di distruggere una cosa bella". La versione originale di questo pezzo è apparsa su Pixarthinking. 

QUELLI CHE...SONO RAZZISTI E BASTA.

Padova, annunci razzisti: "Non si affitta ai meridionali". "No a gay friendly, no pet friendly, no coppie con figli, trans, meridionali, specialmente napoletani e siciliani", si legge in un annuncio, scrive Marianna Di Piazza, Domenica 8/10/2017, su "Il Giornale". "Non si affitta ai meridionali. Specialmente napoletani e siciliani". I pregiudizi nei confronti di chi arriva dal Sud sono ancora forti e radicati e così, a Padova, sono ricomparsi annunci razzisti. Chi cerca casa e si affida ai social network si può imbattere in questo tipo di annunci. È successo pochi giorni fa a Vittorio Savino, medico residente ad Aversa e dirigente presso l’Asl di Caserta, che ha accompagnato la figlia a Padova per cercarle una sistemazione nella città veneta, dove la ragazza seguirà un corso di formazione. Come riporta il Messaggero, il medico ha pubblicato sulla sua pagina Facebook gli annunci razzisti.

"Via Facciolati: no a gay friendly, no pet friendly, no coppie con figli, trans, meridionali, specialmente napoletani e siciliani. Valutabili altre zone del centro sud". E ancora: "Zona Guidda Bassonello: solo a ragazze bella presenza del nord, no meridionali". Il post del medico ha fatto molto scalpore. Le reazioni e i commenti sono stati centinaia. C'è chi ha raccontato la sua esperienza e la difficoltà a trovare un affitto e chi invece difende la città veneta come Domenico. "Abito a Padova da 17 anni e non ho trovato problemi a trovare casa allora ed in seguito. Consiglio di trovare forme di condivisione di appartamenti poiché le abitazioni affittabili sono quasi tutte ad appannaggio di universitari. Un giro presso le facoltà potrebbe favorire la ricerca. Auguri!".

Referendum autonomia, Vittorio Feltri l'Ottobre 2017 su "Libero Quotidiano": non diamo i nostri soldi a quelli che li spendono male. Il referendum che si voterà in ottobre circa l’autonomia delle regioni Veneto e Lombardia non viene pubblicizzato a dovere poiché infastidisce il potere centrale e il Mezzogiorno. I quali temono di perdere la tetta da cui succhiare risorse. È noto che il Nord produca più del Sud e mandi a Roma la quasi totalità dei proventi fiscali locali, che poi servono ad alimentare le casse dello Stato, incline a sprecare capitali a scopi elettoralistici. La novità consiste nel fatto che i lombardi e i veneti ne hanno piene le scatole di versare denaro a chi non è in grado di utilizzarlo convenientemente. Lavorare per gli altri che non lavorano affatto non è piacevole. Ecco perché i governatori Maroni e Zaia si sono impegnati legittimamente in questo plebiscito consultivo: si tratta di accertare se gli abitanti delle zone ad alta densità industriale vogliono o no amministrarsi in proprio, trattenendo sul territorio una quantità maggiore, rispetto ad oggi, dei loro quattrini sudati. Dove sia lo scandalo della iniziativa non sappiamo. La contrarietà da taluni manifestata a questo sano progetto si spiega soltanto col desiderio di negare a Milano e a Venezia il diritto di amministrare i loro beni in favore dei propri cittadini. Durante una trasmissione televisiva imperniata sul tema dell’autonomia, il direttore del Messaggero di Roma, Virman Cusenza, si è espresso contro il referendum senza una ragione plausibile. Egli infatti è siciliano, e di ciò almeno noi non abbiamo colpa, quindi di una regione che della autonomia ha fatto pessimo uso. Ebbene con quale faccia egli vieta alla Lombardia di avere le stesse facoltà gestionali di cui gode (inutilmente, per cronica inettitudine) la Sicilia? La quale, se fa schifo, non è responsabilità dei lombardi bensì dei concittadini di Cusenza. In Italia le regioni autonome sono cinque. Perché non averne sei o sette? Sul punto il direttore del Messaggero, come tutti i meridionali, tace o tergiversa. In silenzio stanno anche i giornaloni nazionali e le tivù più importanti. Gli addetti alla informazione sono quasi tutti terroni e terrorizzati alla idea che Lombardia e Veneto cessino di versare palanche sotto il Po. La questione è molto semplice. Ciascuno è obbligato a vivere del suo, come si diceva una volta. Nessuno impedisce al Mezzogiorno di creare imprese, posti di lavoro e ricchezza. Le popolazioni meridionali utilizzino i finanziamenti statali per realizzare infrastrutture, cioè le basi per incrementare l’economia. Non si illudano di campare in eterno alle spalle degli odiati nordici, che sono stanchi di essere sfruttati quali bancomat. Il mese prossimo lombardi e veneti pertanto voteranno sì al referendum per essere padroni del loro portafogli. Non c’è nulla di ideologico né di razzistico nella ricerca della autonomia, solo l’esigenza di essere uguali alla Sicilia e di dimostrare ad essa che tale autonomia si può sfruttare per crescere e non per sprofondare in un mare di debiti palermitani. Vittorio Feltri

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 16.03.2017. Da oltre mezzo secolo ascolto discorsi e leggo articoli che auspicano la crescita del Mezzogiorno. I politici meridionali in particolare predicano in continuazione che è necessario investire al Sud per migliorare le condizioni generali del Paese. Belle parole, ma soltanto parole. Fatti concreti se ne sono visti pochi, se si escludono vari foraggiamenti a pioggia distribuiti nelle regioni più disastrate dello Stivale, denaro non utilizzato poi per creare infrastrutture, bensì per arricchire mafie e oligarchie. Cosicché il divario tra il ricco Nord e il resto della penisola non è mai stato colmato. E oggi siamo ancora qui a blaterare sul modo per aiutare i terroni (senza offesa) a essere un po' meno terroni. I soliti pistolotti vacui, la solita retorica inconcludente. Risultato, la spaccatura tra le due Italie è sempre più profonda. Quando si dice che la politica è incapace di fare progetti e di realizzarli ci si attiene al realismo più crudo. Oltretutto, le cose non migliorano neanche per forza di inerzia, ma peggiorano. Per risollevare la Calabria e la Sicilia, prima Berlusconi e dopo Renzi si erano messi in testa di costruire il ponte sullo stretto di Messina. Una idea del cavolo ma comunque un'idea. Ovviamente abortita per motivi che è inutile elencare tutti, basta citarne uno: mancavano i soldi.

Ci domandiamo come immaginassero, sia Silvio sia Matteo, di trovare il grano necessario per legare col cemento l'isola alla penisola. Mistero. Sorvoliamo sulle velleità infantili dei due ex premier e veniamo alla più stringente attualità. I deficienti che amministrano la nostra vituperata nazione, per dare una mano ai fratelli calabresi hanno deciso di chiudere l'Aeroporto di Reggio. Perché non rende alle compagnie che gestiscono i voli, che pertanto si rifiutano di seguitare a decollare e ad atterrare nel suddetto scalo. Da giugno in poi i reggini che desidereranno venire a Milano e poi tornare nella loro città saranno costretti a usare mezzi diversi dal jet: il treno (non quello ad alta velocità che laggiù non c'è), l'automobile o la carrozza di San Francesco, cioè i sandali. Vi rendete conto, cari lettori, che avanti di questo passo il Mezzogiorno precipiterà a livelli africani?

Vi pare una mossa intelligente sopprimere l'aeroporto nel capoluogo di una regione che non dispone di altre infrastrutture, visto che l'autostrada è un sentiero accidentato e la ferrovia è ottocentesca? Dato che il ponte tra Scilla e Cariddi non si può erigere, per compensare il buco togliamo anche l'aerostazione e che i reggini vadano a fare in culo, loro, la 'Ndrangheta e la 'nduja. Il ragionamento cretino prosegue. La Calabria ha una sola risorsa importante, il turismo, e noi ci attrezziamo per ucciderlo abbattendo gli aerei perché costano di più di quanto ricavano. Ecco come i nostri meridionalisti del piffero intendono incrementare l'economia del Sud. Non sanno poveri idioti che i trasporti sono un servizio oneroso, questo è pacifico, ma indispensabile per creare giri di affari e quindi ricchezza. Hanno condannato a morte la regione e ne piangono la salma. Sono scemi o delinquenti? Entrambe le cose. Ai calabresi tocca soltanto l'incombenza di ospitare e assistere profughi portatori di miseria, malattie e problemi sociali. E ci stupiamo che essi preferiscano la mafia allo Stato.

"Guardatevi allo specchio e poi sputatevi": Feltri, lo schiaffo a (certi) napoletani, scrive il 13 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". Il Vesuvio è in fiamme. Chi ha appiccato il fuoco? Persone del posto, ovviamente, criminali che nessuno ha ostacolato e dei quali non si scoprirà mai l'identità per un motivo banale: essi agiscono grazie a una rete di complici che pascolano nella malavita locale, attiva più che mai, e sono al servizio di boss potenti.

Lo stesso fenomeno si registra in Sicilia dove non c' è verso di scoprire né gli autori materiali degli incendi né i loro mandanti, i quali non agiscono a capocchia, ma sono mossi da loschi interessi. Di fronte al fuoco che si propaga a grande velocità e su vasti territori, la maggior parte dei cittadini punta il dito accusatore sullo Stato, dice che l'autorità è inesistente, assente. Non c' è anima che si chieda cosa facciano le migliaia di guardie forestali, pagate dalla pubblica amministrazione, per sorvegliare le zone loro affidate ed evitare che siano incenerite. Il sospetto, anzi la certezza, è che si grattino il ventre e non svolgano neanche distrattamente i compiti loro assegnati in cambio di una buona retribuzione. Secondo la vulgata meridionale la colpa di ogni sfacelo è sempre del mitico Stato, quasi che questo fosse una divinità demiurgica. In realtà lo Stato che manifesta le proprie forze, o debolezze, a Napoli o a Palermo, è lo stesso presente a Pordenone e a Conegliano Veneto, per altro incarnato prevalentemente da funzionari del Mezzogiorno emigrati per questioni alimentari, i quali se al Nord sono efficienti significa che non sono stupidi e indolenti. Se sono bravi quassù perché laggiú sono asini? Evidentemente il problema nasce dal condizionamento ambientale. Non c' entra l'antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell'ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfettamente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perché analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c' entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non é stato provocato da calamità naturali: i napoletani - non tutti per carità - si sono bruciati da sé. Si guardino allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Vittorio Feltri

Chi dice Terrone è solo un coglione.

La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero.

L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

Così è sempre, così è stato a Pontida il 22 aprile 2017.  Sono più di 1500 e molti di loro vestono la t-shirt “terroni a Pontida” o anche “terroni del Nord”. Sono accorsi a Pontida, in provincia di Bergamo, da tutta Italia, ma soprattutto da quella Napoli che l’11 marzo 2017 aveva ospitato Matteo Salvini, leader della Lega Nord che proprio qui a Pontida ha la sua roccaforte. «Abbiamo espugnato Pontida, questa terra considerata della Lega Nord. Siamo qui per raccontare che per noi non esistono i feudi della Lega Nord e del razzismo, vogliamo costruire ponti e lo facciamo con questa festa, che richiama l’orgoglio antirazzista e terrone», ha spiegato Raniero Madonna di Insurgencia a “La Stampa”. E mentre il sindaco di Napoli Luigi De Magistris invita sui social i "terroni" a unirsi da Lampedusa a Pontida si pensa al bis. Il clou del concertone è la canzone "Gente d'ò Nord", brano che i 99 Posse hanno firmato con una serie di altri artisti che insieme hanno inciso un doppio cd con il nome di "Terroni uniti". "C'è tantissima gente. E' un bel posto - ha concluso Luca O'Zulú dei 99 Posse - perché non farlo diventare da simbolo della Lega a sede del Concerto Nazionale Antirazzista Migrante e Terrone?".

Un contro-concertone del Primo Maggio gratuito e dal sapore terrone con 10 ore di musica, interventi e colori degli artisti del Sud, scrive “La Repubblica” il 26 aprile 2017. In scena in piazza Dante, dalle 14 a mezzanotte, il festival dell'orgoglio antirazzista e meridionale che ha iniziato il suo tour a Pontida lo scorso 22 aprile. E in programma c'è una già terza tappa: Lampedusa. L'annuncio è arrivato dalla voce del sindaco de Magistris, durante una conferenza stampa che dal Comune si è spostata in piazza Municipio. "E' un progetto talmente bello - ha detto il sindaco - che lo riteniamo un progetto della città: ogni primo maggio si dovrà tenere nella capitale del Mezzogiorno un concerto che abbia come obiettivo i sud del mondo, i diritti, la solidarietà, l'antirazzismo, il lavoro e la lotta per la liberazione dei nostri popoli". Un Primo Maggio "terrone" perché "i terroni difendono il proprio territorio dai rifiuti, dalla malavita, dallo sfruttamento, dalla finanza predatoria". Ed è proprio sul palco del Primo Maggio che i Terroni Uniti continueranno il loro tour dopo Pontida, perché "a Napoli la festa dei lavoratori diventa la festa ribelle dei lavoratori a nero, dei lavoratori sfruttati, della manodopera dell'informale, delle vittime clandestine del caporalato".

Interverranno anche gli scrittori “Terroni uniti” come Maurizio de Giovanni e Antonello Cilento. Una maratona di musica e impegno sociale che avrà come tema il lavoro, la difesa dei diritti dei lavoratori, dei disoccupati e delle vittime del caporalato, e l'orgoglio meridionale.

Che figure di merda…più che terroni si è coglioni. Se già da sé ci si chiama terroni, cosa faranno chi li vuol denigrare?

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia  “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Il Terrone visto dai Polentoni, scrive Gianluca Veneziani. Dopo Vieni via con me è la volta di Sciamanninn, la versione terrona del programma di successo condotto da Fazio e Saviano. Anche in questo programma ci saranno degli elenchi. Ma non riguarderanno né i valori di destra, né quelli di sinistra, e tantomeno i 27 modi di essere gay. Avranno a che fare, piuttosto, con le caratteristiche tipiche di un meridionale. A stilare la tassonomia ci penserà un padano. Ecco allora il dodecalogo del terrone visto da un uomo del Nord. Terrone è:

Barbuto. Pregiudizio in voga soprattutto nei confronti delle donne. Si perpetua l’idea che le donne meridionali abbiano i baffi. Il pelo nell’ovulo riecheggia lo stato selvaggio e ferino del nostro Meridione.

Barbaro. Il terrone è considerato un ostrogoto. Per due ragioni: è rozzo, incurante di ciò che tocca e vede. E, quando apre bocca, non lo capisce nessuno. Credono che parli ostrogoto.

Barbone. Il meridionale è pensato come un mendicante, uno che questua soldi e vive a scrocco altrui. Magari un finto invalido che si mette agli angoli delle strade durante il giorno e la sera va a ballare con i soldi ricavati dall’elemosina.

Borbone. Pregiudizio storico. Il sudista è ancora assimilato alla vecchia dinastia pre-unitaria. Contribuiscono al cliché i cosiddetti neo-borbonici che, con grande tempismo, si fanno sentire adesso che l’Italia deve spegnere 150 candeline.

Lo sfaticato, che non vuole lavorare. Terrone non indica più la provenienza geografica, ma un’attitudine lavorativa. È terrone non chi viene dal Sud, ma chi sgobba poco. Il fannullone, il perdigiorno, chi lavora con lentezza. Fatto curioso, se si pensa che i terroni vanno al Nord, appunto, per lavorare. Ma il pregiudizio resta. Terùn, va a lavurà!

Il cafone, il tamarro, il che cozzalone. Fare una “terronata” significa fare una pacchianata, qualcosa di kitsch e di trash. Anche se chi la fa è un brianzolo, il nome “terrone” gli si appicca addosso.

Chi a colazione chiede cornetto ed espressino. Il barista lo guarda perplesso, senza capirlo. In Padania si dice brioche e marocchino. Occorre adeguarsi. Altrimenti vieni scambiato per un terrone o, peggio, per un marocchino.

Chi, il venerdì sera, fa il pendolare Nord-Sud e torna a casa in cuccetta, mentre i lumbard escono per fare l’happy hour Il terrone fugge dal Nord nel fine settimana: il sabato e la domenica va a consacrare le feste altrove.

Chi il lunedì mattina torna con lo stesso treno a Nord. Con un bagaglio però, pesante il doppio, perché la mamma lo ha caricato di tutte le sue delizie fatte in casa. Quella che si chiama “roba genuina”.

Chi al rientro in ufficio, offe ai colleghi specialità tipiche del suo Paese (magari le stesse che la mamma gli ha sbattuto in valigia). Una mia collega di Cava de’ Tirreni ci ha offerto mozzarelle di bufala campane. È stata festa grande, quel giorno.

Chi è legato alla terra, come dice il nome. Ama la terra, nel senso dei campi da coltivare: ama la terra, nel senso della propria terra; e ama la Terra, con la t maiuscola, perché il terrone è soprattutto un terrestre. Anche se qualcuno lo considera un extraterrestre.

Chi è legato al cielo. Il terrone è umile, cioè vicino all’humus, alla terra. Ma degli umili è il regno dei cieli.

Da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 novembre 2010.

C’è sempre, però, chi è più terrone di un altro.

L’infelice battuta di Mandorlini. Il suo Verona giocò e vinse quella finale playoff contro la Salernitana, conquistando la serie B. Nel dopo partita si lasciò andare a frasi poco carine (Ti amo terrone…), che scatenarono una disgustosa rissa in sala stampa. E quando Agroppi, opinionista Rai, lo bacchettò in televisione invitandolo a chiedere scusa per aver offeso il Sud, replicò in modo beffardo: «Tu sei fuori dal mondo». Mandorlini, ravennate di nascita, ha giocato in sei squadre, Ascoli quella più a Sud. E allenato dodici club, più giù di Bologna non è mai sceso. Spesso comportamenti e dichiarazioni sono state tipiche del leghista, il suo capolavoro resta la festa promozione in B, ottenuta contro la Salernitana. Saltellava e ballava con i tifosi gialloblù cantando «Ti amo terrone»: festival del razzismo puro. Travolto da critiche e polemiche, fece spallucce. Qualche mese più tardi ci pensò un napoletano, Aniello Cutolo, a rispondergli per le rime a nome di tutti i terroni: giocava con il Padova, derby veneto a Verona, gol pazzesco del partenopeo da venticinque metri e di corsa ad esultare in faccia a Mandorlini: «Ti amo coglione». 

“Ti amo terrone, ti amo terrone, ti amo”. Ve lo ricordate quel coro di Mandorlini? Beh di certo in pochi lo avranno dimenticato. Per questo ieri ne abbiamo scritto. E’ il simbolo di questo Paese dove in uno stadio si canta la Marsigliese per ricordare le vittime degli attentati di Parigi, poi un minuto dopo in quello stesso stadio si consente a quegli stessi tifosi di inneggiare il solito coretto “Vesuvio lavali col fuoco”. Certo, se poi un allenatore del Verona, che lavora in una città ad alto tasso di razzismo, soffia sul fuoco anziché cercare di educare la propria tifoseria, allora la battaglia è proprio persa. “Ti amo terrone”, “Lavali col fuoco”, “Napoli colera”. Per quanto tempo ancora vogliamo andare avanti in questo modo? Fatecelo sapere. Lo capiremo quando anche stavolta, l’ennesima, non arriverà nessuna sanzione realmente incisiva verso chi canta queste schifezze insopportabili.

Giovani padani: "Siamo invasi dai terroni", scrive Daniele Sensi su “L’Unità”. «Non è giusto, siamo invasi! Ovunque ti giri sei sommerso da ‘sti qui che vogliono comandare loro, mi fanno venire la nausea», sbotta una novarese. «Troppi, ce ne sono troppi, meglio con contarli», ribatte un utente di Mondovì. «Ce ne sono tanti, ma molti dei loro figli crescono innamorati del territorio in cui sono nati e cresciuti», replica un magnanimo iscritto ligure. Ennesimo dibattito su immigrazione e presunte invasioni islamiche? No. Il sito è quello dei Giovani Padani, e l'oggetto della discussione è quanti siano i meridionali residenti nel nord Italia. Non si tratta solo di un divertito passatempo: lamentando la mancanza di dati ufficiali («Purtroppo nessuno ha mai pensato di fare un censimento etnico in Padania, poiché siamo tutti "fratelli italiani"»), sul forum del movimento giovanile leghista con cura e dovizia vengono incrociate fonti diverse per tentare di fornire una risposta all'inquietudine che pare togliere il sonno ad alcuni simpatizzanti. Così, ricorrendo ad una terminologia allarmante e servendosi del censimento del 2001, delle analisi di alcuni studiosi dialettali e di quelle relative alle migrazioni interne del dopoguerra (con una certa approssimazione dovuta all'impossibilità di conteggiare con precisione i «meridionali nati al nord da genitori immigrati o da matrimoni misti padano-meridionali») alla fine, tenendo comunque conto «del tasso di fecondità dei centro-meridionali in base al quale è possibile stimare 3 milioni di discendenti meridionali nati in Padania, compresi i bambini nati da coppie miste», il verdetto è di «9 milioni di individui, tra centro-meridionali etnici e loro discendenti puri o misti». Una stima al ribasso secondo un utente milanese che arriva a denunciare, nelle statistiche, «la mancanza dei clandestini, cioè di quelli che sono qui di fatto ma non hanno domicilio o residenza padane». Dati eccessivamente gonfiati, al contrario, per un altro giovane lombardo, perché «credo proprio che il meridionale al nord, specie se sposato con una padana, figli meno rispetto al meridionale che sta al sud». Una ragazza di Reggio Emilia, invece, pare poco interessata a parametri e variabili: «Non so quanti siano, non mi interessa il numero, so solo che sono troppi e che stanno rovinando una zona che era un'isola felice. Girando per strada difficilmente si incontra un reggiano! Purtroppo stiamo diventando una minoranza e i meridionali la fanno da padrone».

La Lega, si sa, ha oramai ampliato il proprio bacino elettorale, pertanto pure un simpatizzante salernitano si inserisce nella conversazione, e, quasi invocando clemenza («Io sono meridionale ma amo la Lega e odio i terroni che vengono qui al nord per spadroneggiare e per rompere i coglioni»), finisce col cedere allo stesso meccanismo di autodifesa visto attivarsi durante la recente campagna mediatica e politica anti-rom, quando, per riflesso, non pochi cittadini rumeni quasi si sono messi rivendicare distinzioni etniche dai loro connazionali residenti nei campi nomadi, poiché nel gioco all'esclusione c'è sempre chi sta un po' peggio: «Certi meridionali non possono essere espulsi perché italiani, ma, se si potesse fare una bella barca, sopra ci metterei i meridionali che non lavorano e gli extracomunitari, che sono più bastardi dei meridionali». Qualche nordico animatore del forum non indugia nel mostrare comprensione e solidarietà al fratello salernitano, e si affretta a precisare come sia possibile ravvisare differenza tra "meridionali" e "terroni", spiegando che «terrone è colui che arriva e pensa di essere nel suo luogo di origine, e si comporta di conseguenza, tanto che nemmeno si offende se lo chiami terrone». Per taluni, addirittura, il luogo di origine non c'entra proprio nulla, perché «non è la provenienza che fa l'individuo, e nemmeno il sangue o il colore della pelle, ma unicamente l'atteggiamento». L'insistenza dei più ostinati («Se ne dicono tante sui cinesi ma sicuramente li rispetto più di certi meridionali o marocchini o slavi perché almeno lavorano e si fanno i fatti loro») incontra obiezioni dalle quali emergono ulteriori sfumature d'opinione tra i giovani padani, quelli più "cosmopoliti", coinvolti nella surreale disamina, tanto che tra essi diviene possibile distinguere tra filantropi («Di meridionali ne conosco tanti e tanti miei amici sono meridionali, per me un meridionale è colui che è venuto e lavora onestamente»), progressisti («Esempi di integrazione con il passare degli anni si fanno più frequenti, sono esempi da non snobbare ma anzi da far diventare casi di scuola: piano piano li integreremo»), e possibilisti («Un meridionale che lavora e interagisce con gli altri vale quanto un settentrionale»). Su tutti, però, inesorabile cade il richiamo ad un maggior pragmatismo da parte dei realisti: «Siete in ritardo di 40 anni, c'è bel altra gente che invade le nostre città, purtroppo!». Trascorso qualche giorno, sul forum viene avviata una nuova discussione: «Un test per capire a quale sottogruppo della razza caucasica apparteniamo». Un test scientifico, affidabile, perché «per una volta non ci si basa sul colore della pelle, dei capelli e degli occhi, ma sulla forma del cranio».

Non siamo noi razzisti, sono loro che sono napoletani, scrive Francesco Romano su “Onda del Sud”.  Trento: “Terrone di merda”. Operaio reagisce all’insulto con un pugno: licenziato. Al centro della discussione fra l’uomo e il caporeparto un ritardo dopo una pausa. Il giudice ha dato ragione all’azienda. “Il Gazzettino.it” di Trento ha riportato la seguente notizia: - Il caporeparto dell’azienda trentina per la quale lavorava lo ha appellato “terrone di merda” e lui, un operaio di origini meridionali, ha reagito all’insulto con un pugno. Per questo è stato licenziato. Al centro della discussione c’era il presunto ritardo dell’operaio dopo una pausa. Al termine dell’accesa discussione, il caporeparto avrebbe mandato via l’operaio dicendo “terrone di merda”. L’operaio avrebbe così reagito sferrando un cazzotto contro il collega, raggiungendolo di striscio. Dopo dieci giorni è arrivato il licenziamento in tronco. Da qui la causa intentata dall’operaio. La sentenza di primo grado del giudice del lavoro di Trento ha dato ragione al caporeparto in quanto «non è possibile affermare anche nei rapporti di lavoro la violenza fisica come strumento di affermazione di sé, anche quando si tratti della mal compresa affermazione del proprio onore». Un concetto ribadito dalla sentenza d’appello che ribadisce come «la violenza fisica non può mai essere giustificata da una provocazione rimasta sul piano verbale». Questo è quello che accade nel profondo Nord. Se non è mobbing questo, che cos’è. “Non siamo noi razzisti, sono loro che sono napoletani” era una vecchissima battuta comica di Francesco Paolantoni. La violenza certamente non ci appartiene ma forse è arrivato il momento di rivoluzionare il significato delle parole. Passare da negativo ad uno positivo. Questa è la cultura leghista che si è affermata al Nord. Dobbiamo subire la discriminazione dell’emigrazione e ci è impedita l’integrazione in questa nazione proprio quando ci apprestiamo a festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Sfregio di Berlino ai nostri agenti: "Niente medaglia a eroi di Sesto". Il governo tedesco rinuncia a premiare i due agenti italiani che uccisero Amri: "Fanno apologia del fascismo", scrive Domenico Ferrara, Domenica 12/02/2017 su "Il Dubbio". Luca Scatà, 29 anni, e Christian Movio, 36 anni, i due agenti di polizia del commissariato di Sesto San Giovanni che il 23 dicembre hanno fermato e ucciso Anis Amri, l'attentatore di Berlino, sono stati trasferiti ad altri uffici di polizia in altre località, mantenute per il momento segrete. La decisione è stata presa dal Viminale anche per premiare i due poliziotti ed è stata confermata dal commissariato di Sesto San Giovanni. Dalla Germania però arriva lo sfregio ai nostri agenti. Secondo quanto riporta la Bild, i due non riceveranno alcuna onorificenza da Berlino. Motivo? Sono considerati soggetti tendenti all’apologia del fascismo. Insomma, l'idea di consegnare una medaglia è morta sul nascere. Sempre secondo quanto scrive la Bild, due ministri teutonici hanno escluso ogni tipo di premio. Il tutto perché sui profili Facebook e Instagram Scatà aveva pubblicato una foto in cui sorridente faceva il saluto romano, una foto di Mussolini in cui lo definiva "tradito" e un post in occasione del 25 aprile in cui affermava di non festeggiare perché lui è "dalla parte di quella Italia, di quegli italiani, che non tradirono e non si arresero". Movio, dal canto suo, è accusato di aver condiviso alcuni post da siti anti-immigrati e di aver pubblicato una foto di una bottiglia di Coca-Cola con scritto il nome di Adolf. Per questi motivi, il coraggio degli agenti non conta più. L'aver tolto un peso alla Germania vendicandola per la strage di Berlino passa in secondo piano. L'aver rischiato la vita compiendo il proprio dovere pure.

«Foto di Mussolini sui profili». La Germania non premia i due agenti che fermarono lo stragista di Berlino. Il governo tedesco voleva dare una medaglia ai due «eroi di Sesto San Giovanni» ma ha preferito rinunciare dopo aver scoperto che nei loro profili c’erano «frasi di estrema destra e foto di Mussolini», scrive Danilo Taino l'11 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Gli «eroi» di Sesto San Giovanni sono stati declassati nella considerazione delle autorità tedesche. I due poliziotti che il 23 dicembre scorso intercettarono e uccisero, durante uno scontro a fuoco, il terrorista del mercatino di Natale di Berlino non riceveranno alcuna onorificenza in Germania. Gli agenti sono considerati tendenti all’apologia di fascismo, quindi meglio lasciare perdere. Ieri, il quotidiano Bild ha rivelato che il governo tedesco stava considerando l’idea di dare una medaglia a Cristian Movio e a Luca Scatà. In effetti, le autorità della Germania avevano tirato un respiro di sollievo quando avevano avuto la notizia che il ventiquattrenne Anis Amri – il quale quattro giorni prima, alla guida di un camion, aveva ucciso 12 persone e ferite altre 55 - era stato fermato alle porte di Milano. Le sollevava da una ricerca della quale avevano perso il filo. Permetteva loro di tranquillizzare i cittadini. Le toglieva da un notevole imbarazzo. La stessa Angela Merkel aveva subito ringraziato la polizia italiana e i due agenti. Ora, però, la Bild dice che, secondo due ministri dei quali non cita i nomi, l’onorificenza è fuori questione. Sui profili di Facebook e di Instagram, presto oscurati dalla Questura di Milano dopo lo scontro di Sesto San Giovanni, i due poliziotti avevano pubblicato fotografie e commenti di chiara ispirazione di estrema destra, qualcosa su cui nessun governo tedesco può passare sopra.

Scatà – 29 anni, l’agente che ha sparato ad Amri - aveva mostrato su Istagram una sua fotografia in cui fa il saluto romano (mentre indossa una maglia con la bandiera britannica, curiosamente); una fotografia di Mussolini dove definiva il Duce «tradito» e i traditori «infami»; e un post scritto in occasione di un 25 aprile nel quale diceva che non avrebbe festeggiato perché lui è «dalla parte di quella Italia, di quegli italiani, che non tradirono e non si arresero».

Movio – 36 anni, il poliziotto ferito da un colpo sparato da Amri – pare invece che condividesse su Facebook post tratti da siti razzisti e anti-immigrati, in più avrebbe pubblicato la fotografia di una bottiglia di Coca-Cola, quelle con i nomi propri sull’etichetta, con la scritta Adolf (il nome meno apprezzato in Germania).

Stephan Mayer, un esperto di affari interni della Csu (il partito gemello bavarese della Cdu di Merkel), ha commentato che «la decisione del governo federale di non dare un’onorificenza a questi due poliziotti è assolutamente corretta a causa della loro ovvia attitudine neofascista». A Berlino si evitano così polemiche e scivoloni imbarazzanti. Da semplici fotografie e post è difficile stabilire quali siano gli orientamenti politici dei due poliziotti italiani. E difficile è chiederglielo ora: quando i loro nomi sono stati resi noti – immediatamente dopo la sparatoria del 23 dicembre, dal ministro dell’Interno Marco Minniti – sono stati trasferiti e protetti per ragioni di sicurezza. Ma non è questo il problema: le loro opinioni politiche sono un fatto personale. La questione vera è che non le hanno tenute per se stessi ma le hanno rese pubbliche sui social network. Anche qui, in fondo, niente di straordinario se non fosse che Scatà e Movio sono membri delle forze dell’ordine. E che la pubblicazione di loro opinioni estreme possa dare l’idea che certi poliziotti non sono sereni quando affrontano alcune delle questioni di ordine pubblico più delicate del momento, per esempio quelle che riguardano gli immigrati. Più in generale, anche la reputazione della Polizia può subirne un danno. Per non prendere nessun rischio, i tedeschi hanno comprensibilmente rinunciato a rendere loro onore. Peccato ma inevitabile.

Poliziotti eroi, Corrado Ziglio: "Li conosco, cosa succederà ora", scrive di Lucia Esposito su "Libero Quotidiano” il 2 gennaio 2017. Due poliziotti italiani uccidono Amis Amri, il terrorista di Berlino. Durante un controllo di documenti si imbattono nel tunisino che, dopo aver vagato tra la Germania, l'Olanda e la Francia era arrivato davanti alla stazione di Sesto San Giovanni. Ha urlato: "Bastardi" e poi ha sparato. Ha ferito il poliziotto Cristian Movio, 36 anni ma l'agente in prova Luca Scatà, ha sparato e lo ha ucciso. C' è chi dice: Sono degli eroi e chi minimizza: Hanno fatto solo il loro dovere. L' Italia si divide e scoppia la polemica sull' opportunità di diffondere i loro nomi e sul rischio ritorsioni. Il professor Corrado Ziglio dell'Università di Bologna è un antropologo delle professioni, ha vissuto per mesi come un poliziotto, è salito sulle volanti, è entrato nei commissariati da Bolzano a Siracusa, ha passato intere giornate negli uffici immigrazione e in quelli dell'anticrimine. Da ventidue anni si occupa di formazione dei poliziotti e, dice scherzando, "con loro ho mangiato quintali di pizza e bevuto ettolitri di birra". Dopo aver visto da dentro il mondo della polizia, ha scritto due libri sulle attività operative degli agenti e per sei anni ha insegnato alla Scuola Superiore di Roma dove si formano i funzionari. Insegna anche alla Scuola per il controllo del territorio di Pescara: da qui passano tutti gli uomini e le donne delle volanti, delle sale operative, dei reparti prevenzione crimini. Ha l'approccio scientifico dello studioso ma il linguaggio chiaro e semplice di chi tutto quello che teorizza l' ha vissuto e lo vive ancora.

Professore, ma i due poliziotti che hanno ucciso il terrorista sono eroi o hanno fatto solo il loro dovere?

"Tutti i poliziotti hanno un fortissimo senso del dovere e quando dicono che hanno solo fatto il loro lavoro, lo pensano veramente".

Ma era il caso di far conoscere i loro nomi?

"Ho qualche dubbio. Forse c' è stata un po' di imprudenza dettata dalla dimensione dell'orgoglio per l'operazione che era stata portata a termine".

Al di là delle minacce di ritorsioni che sono arrivate, da un punto di vista professionale che cosa succederà? 

"Dipende dai loro superiori, da come li gestiranno".

Che cosa potrebbe accadere?

"Potrebbero montarsi la testa, cambiare il loro modo di pensare. Potrebbero diventare dei giustizieri".

In che senso dei giustizieri?

"Potrebbero sviluppare atteggiamenti sopra le righe rispetto al protocollo che ogni poliziotto deve osservare. Ed è per questo che dico che molto dipende da come saranno gestiti dai loro superiori".

I due agenti sono stati attaccati anche perché sui loro social sono state trovare frasi razziste e foto col saluto romano.

"Di questo non so nulla, me lo dice lei".

Come lo spiega?

"In tutti gli ambienti ci sono persone di diverse ideologie, ma non cambia molto".

Come mai da professore di Scienze della Formazione è entrato in contatto con il mondo della polizia?

"È stato l'allora questore di Bologna che, dopo i fatti drammatici della Uno Bianca decise di risollevare l'immagine della Polizia con una grande intuizione: capì che bisognava partire dalla formazione. Mi chiese di tenere dei corsi. Ma io prima di strutturare il progetto chiesi di vivere la vita dei poliziotti e così ho trascorso diversi mesi con loro".

Su cosa lavora?

"Soprattutto sui processi di deterioramento professionale".

E quali sono?

"I poliziotti si trovano tutti i giorni davanti alle brutture della vita. Per loro è importantissima la formazione intesa non solo come l'insieme delle competenze professionali e dei protocolli da applicare, ma bisogna lavorare sulla loro emotività".

Quali rischi corrono?

"L' interiorizzazione di un processo subdolo che è il cinismo". 

Sì, ma il poliziotto deve essere un duro. Almeno nell' immaginario collettivo lo è.

"Esiste quello che chiamo il cinismo buono e che hanno anche i medici. È necessario per svolgere una determinata professione. Se il chirurgo sviene quando vede il sangue, non può operare. È quel giusto distacco necessario per non farsi travolgere dalle emozioni. Ma poi c' è un cinismo cattivo che è quello che atrofizza i sentimenti anche negli altri ambiti".

La vita professionale che condiziona quella privata.

"Esatto. Quella dei poliziotti è la categoria più colpita da divorzi e separazioni. Questo è un dato sociologico. Conosco molte mogli, compagne e fidanzate di agenti e spesso mi riferiscono di quanto sia diventato scortese, insensibile, freddo il proprio uomo".

Che cosa lamentano i poliziotti che ha conosciuto?

"La solitudine. Nel senso che se anche accadono cose pesanti, non ne possono parlare. Ho raccolto centinaia di testimonianze. È vero ci sono gli psicologi, ma se li metti al corrente di un tuo problema rischi che ti ritirino l'arma e il tesserino e vieni sospeso dal servizio".

Soffrono per il nostro sistema giudiziario che spesso rimette in libertà soggetti che hanno faticato a prendere?

"Sono molto equilibrati. Capiscono la differenza dei ruoli. Molti si lamentano perché non sono sufficientemente gratificati. Non solo da un punto di vista economico perché hanno stipendi oggettivamente bassi, ma anche sul piano della soddisfazione personale. I propri superiori tendono a non gratificare e così gli agenti traggono la loro soddisfazione nell' aiutare gli altri".

Durante i corsi di formazione che consigli dà ai poliziotti?

"Non dispenso consigli. Pongo delle questioni e sollecito una riflessione. Cito per esempio il quadrato dello psicanalista Bion e spiego che ogni contesto professionale è pieno di sostanze tossiche come le invidie e le gelosie dei colleghi, ma anche quelle che ciascuno di noi porta con il proprio carattere. Se non si riconoscono queste tossicità si trovano delle vie di fuga".

Quali?

"La prima porta a non assumersi le proprie responsabilità A questo ci penserà qualcun altro, la seconda che spinge a trovare un capo espiatorio Non è colpa mia, la terza che spinge a valorizzare solo se stessi e l' altro collega con cui si lavora, e la quarta che induce all' attesa del Messia. Si aspetta che arrivi qualcosa dall' alto che cambi tutto. Ma in questo modo si rischia di consumare tutta la vita professionale facendo il giro dei quattro cantoni. Non ci si schioda Si passa da una via di fuga all' altra Non indico soluzioni, ma voglio solo che acquisiscano consapevolezza".

Poi cos' altro spiega?

"Ho creato l'immagine della farfalla".

Perché?

"Spiego che per volare alto professionalmente abbiamo bisogno di quattro ali come una farfalla. L' ala delle competenze, quella della comunicazione perché bisogna saper gestire anche verbalmente la propria professionalità e quella della consapevolezza del ruolo. Spesso i poliziotti, come gli insegnanti e i medici, dimenticano la loro funzione sociale. Nella formazione iniziale non sono sufficienti le nozioni di deontologia, ci deve essere consapevolezza dell'enorme ruolo sociale che svolgono".

La quarta ala?

"È quella del carattere".

Ma quello mica si può cambiare?

"Certo che sì. Bisogna solo avere consapevolezza del proprio carattere. E ci sono autorevoli studi che dimostrano come, a condizionare la vita professionale, sia proprio l'aspetto caratteriale".

Quale tratto caratteriale permette di avere successo?

"Se lavori in squadra o dirigi una squadra non puoi avere un caratteraccio. Maltrattare i tuoi collaboratori o umiliarli davanti a tutti, per esempio, non puoi farlo perché rovini le professionalità degli altri".

Lei che da studioso ha vissuto come un poliziotto qual è stata l'emozione più forte che ha provato?

"Le ho provate tutte. Loro vivono tutti i sentimenti. Anche lo stupore per le cose che fanno".

Ha mai avuto paura?

"Mi sono trovato in situazioni pericolose. Come entrare in una gioielleria dopo un furto senza sapere se dentro c' erano ancora i ladri oppure no".

Cosa la colpisce?

"La creatività e l'umanità. E il fatto che nonostante la distanza geografica usino le stesse espressioni, come una vera tribù. Fare il poliziotto a Bolzano non è come farlo a Napoli, eppure in Trentino come in Campania, i poliziotti usano frasi come il pesce puzza dalla testa. E poi ci sono tradizioni che vanno avanti da anni".

Per esempio?

"A Napoli e a Siracusa a Natale i poliziotti vanno nelle case dove c' è povertà, portano giochi e cibo. Così controllano il territorio attraverso la costruzione del consenso".

Filippo Facci e il piagnisteo napoletano: "Ecco perché ve lo meritate". Libero Quotidiano il 3 marzo 2017. Eh, i napoletani. Mio padre dopo i cinquant' anni andò a lavorare a Napoli e prese casa vicino allo stadio di San Paolo; una sera stava rientrando in auto - mi raccontò - e incrociò la folla che lasciava lo stadio dopo che il Napoli le aveva buscate da una squadra del norditalia, non ricordo quale. L' auto aveva la targa di Milano. Un passante disse qualcosa a mio padre che si sporse verso la sinistra, ma era solo una scusa per distrarlo mentre un ragazzetto aveva infilato le braccia dal finestrino di destra e si era messo a frugare nel cruscotto; mio padre gridò «ladro!» e poi andò così: «chi ladro?»; «l'ha detto chillo»; «'o settentrionale ha detto che siamo ladri»; «ah, un razzista di Milano...». La faccio breve: è tanto se tornò a casa vivo. Trovo esemplare questo raccontino ancor oggi: la frustrazione, l'aggressività, il vittimismo e poi ancora l'aggressività. Napoli. Di questa tendenza alla lagna ebbi modo di accorgermi anche quando passai qualche mese a Napoli per il servizio di leva, laddove conobbi molti napoletani nel bene e nel male: il problema è che ora dobbiamo parlarne nel male, viste le reazioni al titolo «Piagnisteo napoletano» che Libero ha pubblicato ieri. Ora non entro nel merito delle questioni affrontate negli articoli che sono, poi, capisaldi storici del napoletanismo: l' assenteismo cronico, le assunzioni indiscriminate, i funzionari pubblici in quantità sovietica, il complottismo calcistico, lo smercio delle tessere del Pd e non solo, gli illeciti creativi, la tendenza a fottere te e soprattutto quello Stato per cui il napoletano medio ha pochissimo rispetto, preso com' è, da secoli di storia, a doversene difendere come se fosse un eterno invasore. E poi Francesco Specchia, ieri, ha già descritto benissimo il pianto ecumenico dei partenopei, le sceneggiate lacrimevoli e a voce alta, quel napoletano medio che rischia di essere perpetuamente «mariuolo dentro» e vittimista strategico. La persecuzione -  Il problema è che di queste cose, con dei napoletani, non si può neppure parlare, perché alzano gli occhi al cielo e si avvoltolano in quel loro fatalismo plebeo e sanfedista che ancor oggi impedisce loro di essere un popolo. Perseguitati da tutti: dai Borboni, da sovrani e vicerè, dal fascismo, dagli americani, dai politici, dalla Regione, ora dalla comunità europea, poi naturalmente dagli arbitri e nel suo piccolo persino da Libero. Io, come detto, non scrivo da una baita in montagna rigirando la polenta, credo di essere sufficientemente di mondo da non dovermi difendere da repliche anche educate tipo «Napoli è bellissima» e «devi studiare la storia di Napoli» e «vieni a Napoli», roba così. Le so queste cose, molti di noi le sanno. A Napoli ho un po' di amici (tutti molto signori, come a Napoli sanno essere incredibilmente) e a Napoli ho anche vissuto. Ogni tanto ci vado. Credo che a Napoli si possa vivere bene come in poche altre città del mondo, ma basta così, non è questo in discussione: si può vivere bene - mi assicura un amico che ci si è appena trasferito - anche a Caracas, il che non toglie che Caracas abbia certe caratteristiche per delle ragioni storiche che si possono discutere, ma che ha lo stesso. Così come Napoli ha dei record che la rendono unica in tutta Europa: la disoccupazione soprattutto giovanile, l'astensione alle urne, le costruzioni abusive, i reati ambientali, quelli legati all' usura, gli scippi e i furti d' auto, e non sto neppure citando il suo più grande successo letterario d' esportazione: la camorra. E poi ha il piagnisteo, il vittimismo, l'autocommiserazione: una tendenza palese a de-responsabilizzarsi e a incolpare chicchessia, soprattutto i predoni razzisti del Nord. E sarà colpa del Nord se un'indagine del Sole 24 Ore, basata sulla qualità della vita nelle città (tenore di vita, affari e lavoro, servizi, ambiente, salute, popolazione, ordine pubblico e tempo libero), ha messo Napoli al 107esimo posto, esattamente l'ultimo. Oppure se «Reddit» - un sito di social news frequentato anche da Barack Obama - ha messo Napoli ai vertici della classifica dei luoghi turistici più deludenti secondo chi c' è stato. La classe dirigente -  Tempo fa, per aver scritto certe cose e per aver detto che a Napoli la spazzatura impera ancora in tutti i vicoli - non lo scrissi certo io solo - sono stato addirittura querelato dalla «città di Napoli», in pratica il presidente della «Municipalità Napoli Nord». Aveva pure chiesto un intervento dell'Ordine dei giornalisti. Avevo scritto di quello di cui stiamo parlando: dell'inconsapevolezza di molti napoletani di ciò che Napoli oggettivamente è (dati alla mano) e di come è mediamente considerata, e poi mi ero permesso un'invettiva contro un consigliere napoletano che aveva lamentato «gli investimenti che non si fanno al Sud». Vado testuale: «Che nel 2015 un consigliere napoletano abbia ancora il fegato di chiedere soldi senza andare a nascondersi sottoterra (sotto la spazzatura, vorremmo dire) mostra come la classe dirigente napoletana viva in una bolla completamente separata dalla percezione del reale». Ecco, è così. Dopodiché sui cosiddetti «social» avevo ricevuto innumerevoli minacce varie, auguri di morte, parolacce, solita roba da straccioni anonimi. Insulti, sì. Ma soprattutto piagnisteo. Che dite, ricominceranno?

"Piagnisteo napoletano". Ecco l'articolo sotto accusa su Libero del 2 marzo 2017 di Francesco Specchia. Vide Napule e po muore. C'è qualcosa di terribilmente fascinoso, nel piagnisteo che in questi giorni avvolge Napoli. Una tammurriata d'illegalità, il senso dell'etica pubblica che si scioglie nel chiagn' e futte, al posto del sangue di San Gennaro. Nell'area Nord di Napoli, a Miano, sfilano ventimila aspiranti elettori, ombre diafane comparse dal nulla e ignote all'anagrafe, diligentemente in fila per iscriversi al del Pd con in mano una tessera comprata da altri a 10 euro e con in bocca la parola d'ordine, «Mi manda Michel...», (variazione di «Mi manda Picone» , ma nel senso di Michel Di Prisco vicepresidente della Municipalità Miano-Scondigliano). Tutti costoro ora son lì a lamentarsi con i boss locali perchè il partito, da Roma, ha snasato olezzo di compravendita di voti. E il partito, memore della grande tradizione partenopea -dai Borbone a Achille Lauro a Valeria Valente - dell'urna magica e delle preferenze riprodotte per partogenesi, ha dunque subito bloccato il tesseramento, inviando colà un commissario milanese, Emanuele Fiano per indagare e capire; il quale Fiano, probabilmente ora corre il rischio di finire blandito dagli autoctoni; e tramortito di pizza, pastiera e sfogliatelle; e spinto ad ispezionare una sede del Pd di cartapesta, come nei film di Totò. A Napoli, oggi, si lamentano tutti. Si lamentano anche i decathleti del cartellino, quei 94 assenteisti professionisti arrestati e indagati all'Ospedale di Loreto Mare. Tra costoro perfino s' indigna quel medico il quale, risultando in corsia, era invece andato in taxi a giocare a tennis giustificandosi con «meglio lavorare tre ore bene, piuttosto che otto ore svogliati in corsia...». E si strazia, addirittura, quel dipendente addetto proprio al controllo degli assenteisti che in orario di servizio preferiva, giustamente, fare lo chef in un hotel. Non a Napoli, a Nola. Sessantaquattro chilometri al giorno: resistenza fisica e dedizione asburgiche, peraltro. E si lamentano, trottando sotto il suddetto nosocomio, armate di striscioni e cori in rima baciata, le turbe di infermieri precari che ora avanzano il proprio giusto diritto al posto fisso, dato che quelli che l'occupavano prima, il posto fisso, ora hanno traslocato nelle patrie galere. E, vicino agli infermieri, si muovono, alle falde della Prefettura, e piangono in quadrata falange, frotte d' immigrati protestanti in modalità antirazzista (e se c' è una città non razzista è proprio Napoli) contro, nell' ordine: la «legge Bossi-Fini», le spese militari, le politiche di guerra, il ministro Minniti. Uno strepitoso senso dell'ammuina. Ovviamente, ulula alla luna pure il Napoli Calcio dopo i due rigori beccati dalla Juve, però «non per l'arbitro ma per le decisioni», dimenticando che le decisioni sono dell'arbitro. Ed esprime un vivace dissenso finanche l'imprenditore Alfredo Romeo, arrestato da carabinieri e Finanza in azione congiunta, «in relazione ad un episodio di corruzione nell'ambito dell'inchiesta Consip». Con lui è perquisito l'ex parlamentare -napoletanissimo- Italo Bocchino. La cosa che mi ha inquietato è che Romeo non nega, ma si giustifica invocando «analoghe modalità» adottate dai suoi concorrenti; cioè se qua rubano e corrompono tutti, che i' songo l'unico fesso? Ed è questo il punto. Il punto è che questo pianto ecumenico, queste lacrime da sceneggiata, rischiano d'affondare la dignità d'un popolo che ha una grande storia. Confermano che il napoletano medio è ancora «mariuolo dentro», vittimista strategico. E non ha rispetto di uno Stato che certo - è la solita trama- l'ha storicamente considerato un figlio illegittimo. Ma è inutile estrarre dal cilindro dalla polemiche la trita «questione meridionale» che vibra dai tempi di Giustino Fortunato a quelli di Luciano De Crescenzo. Chi scrive è un cultore antico della napoletanità. Cresciuto a Totò ed Eduardo, educato alla scuola giuridico/ economica di Filangeri, ammaliato dal rock dei Bennato, io mi chiedo spesso - tralasciando la camorra- perché, dal motorino senza casco alla truffa come strategia fiscale, Napoli tenda a fotterti. Non è tanto una questione storica, o etica, o psicologica, ma semantica. Forse c' entra la cazzimma. Per i templari della napoletanità 'a cazzima - termine intraducibile- è la furbesca pratica dello stare al mondo, l'esaltazione del maschio alfa nelle procelle di una società spietata. L'essere un po' figl' e n' crocchia. Per il resto del modo, è la pratica spietata di sfruttare gli altri, anche amici e parenti, per raggiungere il proprio scopo. «Dai grandi affari o business alle schermaglie meschine per chi deve pagare il pranzo o il caffè» (Pino Daniele). Dispiace per i napoletani perbene...

"Napoli indecorosa". E il pm dà ragione a Giletti. Il conduttore Rai aveva denunciato una situazione scandalosa a Napoli. De Magistris lo ha querelato, ma il pm chiede l'archiviazione, scrive Chiara Sarra, Domenica 17/07/2016, su "Il Giornale". "Napoli è indecorosa". Parole pronunciate in Rai da Massimo Giletti e che avevano suscitato un vespaio di polemiche, oltre a costargli una querela da parte di Luigi De Magistris. Ma, come racconta oggi Repubblica, per il conduttore tv la procura di Napoli ha chiesto l'archiviazione. "La situazione di degrado che affligge alcune zone di Napoli e, in particolare, quella della stazione ferroviaria centrale, è da tempo oggetto di trattazione e denuncia e in diversi quotidiani e in varie trasmissioni televisive", scrive nella sua richiesta il sostituto procuratore Anna Frasca, "Significativa è, in tal senso, la notizia riportata, in più occasioni, proprio da alcuni giornali in ordine ai cosiddetti mercatini dei rifiuti che venivano svolti, fino a poco tempo fa, con periodicità proprio nei pressi della stazione centrale di Napoli, alimentando il fenomeno di accumulo di rifiuti e dunque di degrado dell'intera zona circostante". Insomma, un quadro tale per cui Giletti non deve essere accusato di diffamazione: "Tale situazione, attesa la sua rilevanza sociale, rende legittimi anche valutazioni e giudizi molto forti quali quelli espressi dall'odierno indagato in ordine allo stato di decoro della città e all'efficacia dell'azione di governo condotta negli anni dalla classe politica locale".

Massimo Giletti offende il Sud all’Arena: “Furbetti? Tutti meridionali”, scrive il 10 ottobre 2016 "La Voce di Napoli". Massimo Giletti ci casca di nuovo e offende il Sud. Durante la scorsa puntata, domenica 9 ottobre, de L’Arena il conduttore milanese torna a fare dichiarazioni poco lusinghiere sul Meridione. La lezione della scorsa volta pare non sia servita, sembrava che fosse “pace fatta” con Napoli dopo l’incontro in canoa con l’imprenditore Enrico Schettino. Il conduttore di Rai Uno avrebbe attribuito la colpa della crisi economica agli “sprechi tutti meridionali”. Non è la prima volta che Giletti utilizza una problematica italiana per infangare il Mezzogiorno quindi verrebbe da chiedersi: come mai l’uomo non hai mai additato città del Nord di fronte a situazioni anche molto complesse che hanno investito l’Italia Settentrionale con scandali finanziari? Questa volta le dichiarazioni di Massimo Giletti non sono passate inosservate, il Movimento Neoborbonico, infatti, avrebbe inviato una petizione alla Camera e una richiesta di intervento alla Commissione Vigilanza della Rai. Questa è la proposta del Movimento avanzata su Facebook: “Ancora una volta il conduttore piemontese, non nuovo a uscite contro Napoli, contro il Sud e contro la storia meridionale, ha presentato la solita lunga e unilaterale serie di luoghi comuni tra “furbetti”, vitalizi, pensioni e sprechi tutti meridionali. Premesso che chi commette questi reati deve essere sempre punito, non si ricordano, però, servizi simili in quella trasmissione per casi come quelli magari veneti (tra Mose e banche fallite) o lombardi (tra maxi-evasioni fiscali ed Expo) o tosco-padani (Monte Paschi in testa) o anche per la stessa “bigliettopoli” che ha coinvolto la Juventus in queste settimane. Si richiede, allora, se si tratta di una linea editoriale seguita da Giletti o se si tratta di una linea politica che, in un momento di crisi grave come quello attuale, vuole magari evidenziare l’impossibilità di “redimere” il Sud e la conseguente inutilità di aiutarlo. Il Movimento Neoborbonico ha invitato anche gli altri movimenti meridionalisti a inviare agli sponsor della trasmissione delle mail per comunicare che non utilizzeranno più prodotti e servizi di aziende che sostengono programmi che, di fatto, danneggiano il Sud.”

Killeraggio di Giletti contro la Sicilia. Ma lui quanti soldi pubblici ingurgita? Scrive "I Nuovi Vespri" il 26 febbraio 2017. Ancora un’altra puntata de l’Arena dedicata alla denigrazione della nostra regione. Pure con notizie false di cui poi si scusano, ma il messaggio è passato. E mentre lo pseudo giornalista fa la predica a chi incassa vitalizi erogati dalle casse pubbliche, lui intasca una quantità di soldi tale che dovrebbe indurlo a stare zitto…

E anche oggi, Massimo Giletti, nel corso de l’Arena, su Rai 1 si è divertito a denigrare la Sicilia. Ormai è chiaro: la sua è una missione. Per conto di chi la svolge, non lo sappiamo, ma poiché Rai significa politica, ovvio che i mandanti vanno cercati là. La Sicilia come capro espiatorio? Arma di distrazione di massa? Oppure una operazione più raffinata che mira a screditare un intero popolo che così, magari, non potrà reagire dinnanzi a nuovi furiosi tagli del Governo nazionale? Sia quel che sia, di pulito non c’è nulla in questa storia di cui non si vede la fine. E sempre più siciliani se ne stanno accorgendo se è vero che oggi la pagina Twitter della trasmissione è stata inondata di critiche. Non solo Twitter, anche su Facebook ci sono state reazioni accesissime. Incluse quelle di un’eurodeputata siciliana, Michela Giuffrida, ex giornalista di Catania che non ha esitato a definire il programma “la sagra del populismo, dell’approssimazione, della disinformazione”. Ma è stato il Presidente dell’Ars, Giovanni Ardizzone, oggi, a tenergli testa più degli altri. Perché l’argomento trattato lo tocca da vicino per il ruolo che ricopre. Come già la scorsa settimana, infatti, si è parlato di vitalizi. Ancora una volta Giletti si è scordato di soffermarsi su quelli nazionali: oltre 2000 ex deputati ne usufruiscono, ha scritto il Fatto quotidiano.  Particolare che la settimana scorsa aveva ricordato lo stesso Ardizzone. Ma per l’Arena esiste solo la Sicilia, al massimo la Campania e la Sardegna. Basta che sia Sud e basta che se ne parli male. Ecco, dunque, il circo di Giletti, ancora una volta contro la Sicilia, pure con notizie false: “La Sicilia non lo ha mai applicato il contributo di solidarietà” ha tuonato questa specie di giornalista. Non è così. Si parla della trattenuta tra il 6 ed il 12% sulle pensioni più alte e sui vitalizi incassati da chi aveva svolto funzioni pubbliche introdotta dal Governo Letta. La Sicilia lo ha applicato per il triennio previsto (2014-2016). A quel punto, Ardizzone ha annunciato querela. E sono arrivate le scuse degli autori della trasmissione e poi quelle di Giletti che ha scaricato tutto su Crocetta, ospite in studio, che non lo ha contraddetto (figuriamoci). “Giletti- scrive il Presidente dell’Ars su Facebook-  deve scusarsi con tutti i siciliani non solo con me. Giletti tentando di riparare alle ripetute falsità pronunciate nei miei confronti si è scusato, scaricando su Crocetta che non ha smentito dette falsità. E’ vero che Crocetta con i suoi contorcimenti dialettici ha contribuito al massacro della Sicilia, ma Giletti in nome della maledetta audience disinforma continuamente con notizie assolutamente infondate”. Lo ripetiamo: dietro il sistematico massacro della Sicilia c’ è una operazione politica. Il problema trattato, come detto, non riguarda solo la Sicilia e andrebbe risolto con una legge nazionale che evidentemente nessuno vuole. Ecco perché Ardizzone ha chiesto a Giletti, che lo ha invitato, di potere partecipare insieme con i Presidenti di Camera e Senato.

Però fanno schifo i Siciliani. L’importante è che passi questo messaggio. Noi non possiamo certo esortarvi a non pagare il canone Rai, non ci è consentito, ma possiamo dirvi quanto è pagato Giletti per l’opera di killeraggio continua contro la Sicilia. E velo diciamo perché sono soldi pubblici. Ebbene, come ha rivelato la stampa nazionale, Massimo Giletti ha un minimo garantito di 500mila euro lordi l’anno, nel 2016 però ne ha incassati 313mila di più per extra, totale 813mila euro. Una cifra impressionante. Questi non sono soldi pubblici? Perché non chiede al suo amico panettiere che ne pensa del fatto che un conduttore Rai del suo calibro possa guadagnare così tanto? O dobbiamo considerare questa somma il premio ad un killer? E se cosi fosse, si è mai vista una vittima pagare il suo carnefice? Giustissime le esortazioni che arrivano da più parti: si faccia un programma dedicato ai costi dei programmi Rai. Vedremo se ci sarà indignazione o meno nel vedere così tanti soldi degli italiani destinati a simili personaggi per simili lavori e lavoretti. Stendiamo un velo pietoso sulla presenza di Crocetta in studio. Che ha definito la Sicilia “la regione più canaglia d’Italia”. Ma si sa, come siamo, giudichiamo. “Si è prestato al gioco di chi intende massacrare la Sicilia. Si apre un problema istituzionale non indifferente. Convocherò consiglio di presidenza per martedì alle ore 10 per le necessarie determinazioni” ha commentato Ardizzone. Non si preoccupi più di tanto. Il problema Crocetta appartiene già al passato.

Busalacchi: “La sceneggiata di Giletti serve allo Stato per giustificare un ulteriore scippo di 700 milioni alla Sicilia”, scrive "I Nuovi Vespri" il 27 febbraio 2017. La verità è che lo Stato italiano non sa dove trovare 3 miliardi e mezzo di Euro chiesti dalla solita Europa dell’Euro. A Roma hanno già deciso che 700-800 milioni di Euro dovranno essere fatti pagare alla Regione siciliana, cioè a 5 milioni di Siciliani. Da qui la gazzarra organizzata da Giletti. Che serve soltanto a giustificare l’ennesimo scippo ai danni della nostra Isola. “L’attenzione mediatica che da qualche settimana si concentra sulla Sicilia, con argomenti spesso faziosi, se non sbagliati, ha una spiegazione semplice: lo Stato, per fronteggiare la richiesta dell’Unione Europea di una manovra di 3 miliardi e mezzo, ha deciso che 700-800 milioni circa li dovrà pagare la Regione siciliana. Da qui l’accanimento sui vitalizi degli ex deputati del Parlamento dell’Isola – con la solita sceneggiata da Giletti – che sono uno scandalo, ma che non sono diversi da quelli della Camera, del Senato e di altre Regioni italiane”. Lo dice Franco Busalacchi, candidato alla presidenza della Regione siciliana con I Nuovi Vespri (ed editore di questo blog), commentando l’ennesima puntata de L’Arena di Giletti dedicata al massacro della Sicilia (ve ne parliamo qua). “Quello che potrebbe succedere è molto grave – aggiunge Busalacchi -. Lo Stato, non sapendo dove trovare i soldi per la manovra folle chiesta dall’Europa dell’Euro, deve giustificare agli occhi dell’opinione pubblica nazionale un ulteriore scippo di circa 700 milioni di Euro al Bilancio della Regione siciliana. E l’unico modo che ha per giustificare un’ennesima porcata ai danni di 5 milioni di Siciliani è quello di rimestare su questa storia dei vitalizi: vitalizi per gli ex parlamentari che, detto per inciso, sarà la prima cosa che abolirò se verrò eletto presidente della Regione”. “Ma in questa storia il tema non è rappresentato dai vitalizi degli ex parlamentari dell’Ars – osserva il leader de I Nuovi Vespri -. Proviamo, sinteticamente, a illustrare quello che potrebbe succedere. La Regione ha un Bilancio di ‘cassa’ di circa 13 miliardi e mezzo di Euro. Il dato non è alla lettera, perché il consuntivo 2016 lo conosceremo a fine giugno. Ma i ‘numeri’ pressappoco, sono questi”. “Da 13 miliardi e mezzo – precisa Busalacchi – vanno tolti i 9 miliardi e 200 milioni circa della sanità. Restano 4,3 miliardi di Euro circa. Se gli togliamo il contributo per il risanamento della finanza pubblica che ci chiede ogni anno lo Stato (un miliardo e 300 milioni di Euro) la disponibilità per la Regione si riduce a 3 miliardi di Euro circa. Con questa cifra tutti i soggetti che, a vario titolo, dipendono dalla spesa regionale, sono oggi in grande sofferenza. Penso alle ex Province, ai Comuni, ai precari, agli operai della Forestale”. “Ebbene, nonostante ciò – aggiunge il candidato alla presidenza della Regione – il Governo Gentiloni avrebbe deciso di togliere dal Bilancio della Regione altri 700 milioni di Euro circa, portando il contributo per il risanamento dei conti dello Stato a carico della Regione siciliana da un miliardo e 300 milioni di Euro a circa 2 miliardi. Se ciò dovesse accadere gli effetti sulla vita dei Siciliani sarebbero terribili, se si pensa che si parla anche di un ulteriore taglio di 50 milioni di Euro al contributo dello Stato alla sanità siciliana, che passerebbe da 2 miliardi e 200 milioni di Euro all’anno a 2 miliardi e 150 milioni di Euro”. “Mi auguro che Roma trovi altrove i soldi per fronteggiare le richieste di Bruxelles – dice sempre Busalacchi -. Anche perché né il presidente della Regione, Rosario Crocetta, né l’assessore dimissionario, Gianluca Miccichè, hanno avuto il coraggio di dire – forse per non mettersi contro il Governo romano – che i contributi per assicurare l’assistenza h24 ai disabili gravi e gravissimi della Sicilia li ha tagliati il Governo nazionale. Quando governeremo noi – conclude il leader de I Nuovi Vespri – contesteremo a Roma tutti i fondi che ha depredato dal Bilancio regionale, a cominciare dalla sanità. Sarà una battaglia durissima, per questo è necessario che tutti i Siciliani di buona volontà si sveglino”.

GILETTI, IL SUD E I SOLITI LUOGHI COMUNI ANTIMERIDIONALI, scrive "parlamentoduesicilie.it". Il Movimento Neoborbonico ha inviato una petizione alla Camera e una richiesta di intervento alla Commissione Vigilanza della Rai dopo l'ultima puntata dell'Arena di Giletti (9/10/16). Ancora una volta il conduttore piemontese, non nuovo a uscite contro Napoli, contro il Sud e contro la storia meridionale, ha presentato la solita lunga e unilaterale serie di luoghi comuni tra "furbetti", vitalizi, pensioni e sprechi tutti meridionali. Premesso che chi commette questi reati deve essere sempre punito, non si ricordano, però, servizi simili in quella trasmissione per casi come quelli magari veneti (tra Mose e banche fallite) o lombardi (tra maxi-evasioni fiscali ed Expo) o tosco-padani (Monte Paschi in testa) o anche per la stessa "bigliettopoli" che ha coinvolto la Juventus in queste settimane. Si richiede, allora, se si tratta di una linea editoriale seguita da Giletti o se si tratta di una linea politica che, in un momento di crisi grave come quello attuale, vuole magari evidenziare l'impossibilità di "redimere" il Sud e la conseguente inutilità di aiutarlo. Il Movimento Neoborbonico ha invitato anche gli altri movimenti meridionalisti a inviare agli sponsor della trasmissione delle mail per comunicare che non utilizzeranno più prodotti e servizi di aziende che sostengono programmi che, di fatto, danneggiano il Sud.

Primi successi di una battaglia importante. La risposta di LIDL: "In relazione alla Sua precedente segnalazione, precisiamo che LIDL è totalmente estranea alle dichiarazioni rilasciate dal noto giornalista della Rai e ne subiamo anzi le conseguenze negative, nel momento in cui si diffondono messaggi che possono comportare, come nel caso specifico, uno svilimento dell'immagine della nostra società che opera nel sud Italia da oltre vent'anni con centinaia di punti vendita. Certi della doverosa necessità di tale chiarimento La ringraziamo per l'attenzione prestata e inviamo i nostri migliori saluti. Assistenza Clienti LIDL".

Oscar Farinetti dà lezioni di politica ai Siciliani: senti un po’ da quale pulpito…, scrive "I Nuovi Vespri" il 30 gennaio 2017. Alla Sicilia, preferisce l’estero. Al grano italiano, preferisce quello canadese (al glifosato). Attacca l’Autonomia come se parlasse di olive. Sentenzia sul popolo siciliano e dispensa consigli. Eccolo qui: un altro uomo affetto dalla sindrome ‘Lei non sa chi sono io’… In dieci anni non ha mai pensato di aprire una sede del suo food store in Sicilia. E dire che nella nostra Isola non mancano di certo le eccellenze egonostranomiche. Ha sempre preferito tenersene alla larga. Ora però, in visita a Palermo per una manifestazione organizzata dalla rivista online Cronache di Gusto, di Sicilia diventa un grande esperto. Non di cibi e vini, ma di politica e, addirittura, di Autonomia. Parliamo di Oscar Farinetti, patron di Eataly, per sua stessa ammissione grande amico di Matteo Renzi che difende a spada tratta in tutte le occasioni. La sua visita di oggi nel capoluogo siciliano è stata preceduta da interviste a tutta pagina sui quotidiani cartacei siciliani. Nelle quali, oltre alla solita retorica su quanto sia bella la Sicilia, oltre al paragone di renziana memoria sul numero di turisti che arrivano sulle isole spagnole e che invece non arrivano qua (giustissimo, come abbiamo detto anche quando queste parole le ha pronunciate Renzi, ma né lui, né Renzi sembrano rendersi conto che se un biglietto per le Canarie costa molto meno di un volo per la Sicilia, non è colpa dei Siciliani), ci dedica una predica di cui avremmo fatto volentieri a meno. In buona sostanza, sentenzia che dovremmo lamentarci di meno, rimboccarci le maniche e riconoscere i nostri errori. In poche righe, praticamente, ci accusa di vittimismo, pigrizia e presunzione. La solita visione nordica al limite del razzismo culturale che hanno molti imprenditori italioti che, però, sono i primi a correre in Sicilia quando si tratta di accaparrarsi fondi pubblici per iniziative imprenditoriali che poi portano profitto altrove (basti ricordare che la storia della Cassa per il Mezzogiorno e poi dell’Agensud è piena di questi esempi). Ma il Nostro si spinge oltre, parlando pure di Statuto: “Che direste se vi chiedessi di abolire la vostra Autonomia?”, dice al Giornale di Sicilia. Una domanda che è tutto un programma (politico?). Noi diremmo che farebbe meglio a parlare di formaggi e di vini e non di cose che non conosce, perché se l’Autonomia fosse tra le sue competenze e se la Sicilia gli fosse cara, semmai avrebbe suggerito ai Siciliani di lottare per una sua totale applicazione, a partire da quegli articoli dello Statuto che consentirebbe alla nostra Regione di usufruire di quella fiscalità di vantaggio che, là dove è stata implementata, ha portato sviluppo e attratto molti investimenti e molti turisti (dalle isole spagnole a Malta, per limitarci ad esempi vicini). Aiuterebbe pure ad evitare quegli scippi di risorse da parte del Governo nazionale che, con Renzi, sono diventati massicci (e, come ricordiamo sempre, stigmatizzati anche dalla Corte dei Conti). Se si fosse informato meglio prima di sentenziare (invece di limitarsi alla letteratura renziana), Farinetti avrebbe fatto una figura migliore di quella che ha fatto. Ma, in fondo, perché dovrebbe stargli a cuore la Sicilia? Parliamo di un imprenditore che, non solo, come detto, non ha mai investito qui, ma che ti dice anche che forse lo farà tra un paio di anni (“A Catania perché ho parlato con l’amico Enzo Bianco) perché per ora è concentrato sull’estero. Liberissimo, va da sé, di investire dove vuole. Ma ci risparmi le prediche. Non siamo tra quelli pronti a leccargli le mani perché magari speranzosi di fare qualche affare con lui (abbondano). Gli affari li lasciamo agli affaristi. Qui si parla della dignità di un popolo, della sua storia e dei sui diritti negati che non può essere messa in discussione da uno che non ne sa nulla e che, in aggiunta, preferisce investire all’estero. Tra l’altro non va dimenticato neanche che Oscar Farinetti, proprio lui, nella epocale battaglia in corso sull’utilizzo dei grani italiani contro quelli stranieri, leggasi grani del Sud, si è schierato altrove. Ricordate? Ha sostenuto che è il grano duro italiano non garantisce pasta di qualità “non è di alta qualità”. Ha difeso pure quello canadese, ricco di glifosato, erbicida velenoso per la salute. Per non parlare delle micotossine. Questo sarebbe un imprenditore ambasciatore del Made In Italy. E, allora, signor Farinetti: vada all’estero e ci resti se vuole. E lasci perdere la Sicilia.

Il Sud Italia raccontato dal cinema: non solo «Gomorra», scrive Marco Bruna l’8 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Negli ultimi vent’anni il cinema italiano ha raccontato il Sud come un luogo senza possibilità di riscatto, contraddistinto da un senso di degrado umano e sociale. Questo canone «gomorrizzato» del Sud ha riscosso grande popolarità, anche sul piccolo schermo.

Aurelio De Laurentiis al termine della gara Napoli-Real Madrid del 7 marzo 2017 persa dalla sua squadra si è esposto in prima persona ai microfoni di Premium Sport HD, applaudendo i calciatori, chiudendo definitivamente il caso Sarri e non si risparmia contro la stampa del Nord, e per questo rimbrottato dal conduttore in studio, Sandro Sabatini, infastidito dalle sue parole. Queste le sue parole. “Stasera la squadra ha giocato un primo tempo esemplare, anche nella ripresa i ragazzi hanno dato il massimo. Affrontavamo il Real Madrid e per noi è già un successo confrontarsi con loro, con i campioni del Mondo. I tifosi hanno offerto uno spettacolo eccellente, avevamo dei grandissimi ospiti che hanno avuto una grandissima accoglienza in uno stadio che soffre la sua vecchiaia; abbiamo dato un’immagine di noi esemplare facendo sfoggio anche della tradizione culinaria napoletana. Sarri ha dato una lezione di calcio agli avversari, giocando una partita straordinaria. Sono convinto che faremo ancora grandi cose in campionato, ora ci resta da affrontare due volte la Juventus al San Paolo e noi speriamo di fare una grande figura. Non c’è stato mai nessun caso aperto, se qualcuno si vedesse l’intervista che ho concesso Veltroni ho sempre parlato di Maurizio come di un’esteta del calcio e di un grande allenatore. Io dopo Madrid non ho mai parlato di Sarri, ero arrabbiato con la squadra e salvai solo Insigne. Poiché i giornalisti del Nord mi odiano, ed odiano il Napoli. E’ da Cavour che il Nord odia il sud. Si sono scatenati tutti contro di noi per creare zizzania dentro casa nostra. Hanno provato ad aggiungere ad una sconfitta altra cattiveria, così magari riperdono avranno pensato, ed è infatti successo con l’Atalanta. Quando parlai di "cazzimma" all’andata qualcuno si era chiesto cosa intendessi, poi ho visto che il termine è stato ripreso anche dalla Gazzetta dello Sport che è storicamente il giornale di Juventus, Inter e Milan. La Gazzetta dello Sport è sempre stata contro il Napoli, c’è Mimmo Malfitano che mi dispiace perché è stato aggredito, ma è sempre stato un tifoso della Juventus. (Il presidente fa un preciso riferimento ad un giornalista che martedì ha subito un atto intimidatorio). Cazzimma? La ricchezza dell’Italia sta nella regionalità, nei dialetti, nei modi di dire e anche il calcio può essere veicolo di trasporto per questo dialetto regionale. Il nostro è un Paese disunito e regionalizzato, con un Paese spaccato ma nessuno può dirlo. Io sono un cittadino libero e dico quello che penso e nessuno può chiudermi la bocca. Il Corriere dello Sport è invece un paladino del calcio Napoli, storicamente è così. Non sono l’uomo delle polemiche, ma dopo dodici anni di calcio sono stufo. I tifosi del Napoli ci hanno regalato uno stadio meraviglioso, in un impianto che soffre il peso dell'età essendo alquanto vetusto. Continuiamo ad andare negli stadi a sentire gente che inneggia all'eruzione del Vesuvio e i napoletani non si ribellano. Oggi il nostro pubblico ha dato dimostrazione di crescita culturale. Adesso vogliamo sfidare la Juventus a testa alta, con un San Paolo ruggente e fervente. Sentire in ogni stadio cantare "Lavali col fuoco" e nessuno dice nulla mi dà molto fastidio, non mi sognerei di dirlo ad un altro cittadino italiano. Stasera i napoletani hanno dato una dimostrazione di civiltà a tutti. o vivo in questo paese, lo racconto da 43 anni attraverso i miei film. C'è una contrapposizione che il presidente Napolitano ha provato a frenare ma se c'è un paese che vive di contrasti è il nostro. Siamo in un regime silente, io sono un vero democratico, amo la libertà di espressione, sono un cittadino che paga le tasse e nessuno mi può chiudere la bocca".

«Gravi e inaccettabili». Così Paolo Pirovano, segretario nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, e Pierfrancesco Gallizzi, consigliere della Federazione Nazionale della Stampa, definiscono le parole di De Laurentiis dopo la partita con il Real Madrid. «Affermazioni fuori luogo - aggiungono Pirovano e Gallizzi - che fanno male al Napoli calcio, a Napoli città e all’Italia intera. C’è d’augurarsi che, a freddo, De Laurentiis chieda scusa».

Vesuvio, l'iPhone lava Napoli col fuoco. «Ecco perché capita», scrive Marco Perillo Giovedì 12 Gennaio 2017 su “Il Mattino di Napoli”. Non bastavano i beceri cori che quasi ogni domenica o in qualsiasi turno infrasettimanale della serie A riecheggiano negli stadi italiani, a cominciare da quello della Juventus a Torino per estendersi a macchia d'olio in tutta la Penisola. «Vesuvio, lavali col fuoco» è la canzoncina più odiata dai tifosi del Napoli, che da ieri, come una tremenda beffa, si sono ritrovati lo stesso leit-motiv digitando la parola «Vesuvio» sui dispositivi della Apple. Basta infatti scrivere il nome del vulcano campano all'interno delle note così come nei messaggi Whatsapp, nelle mail oppure a margine dello schermo, che compaiono le seguenti parole suggerite: «lavali», «col» e «fuoco». Praticamente, la frase che compone l'irritante sfottò. Un fenomeno scoperto e denunciato dal conduttore della seguitissima trasmissione sportiva «Radio Goal» Valter De Maggio, sule frequenze di Radio Kiss Kiss. Una goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo e che ha mandato su tutte le furie i tifosi partenopei. In centinaia si sono scatenati coi commenti più disparati sui social. Tanto che su Twitter è stato lanciato l'hashtag #AppleVesuvio per protestare contro l'azienda di Cupertino e chiederle di cambiare subito i suggerimenti della cosiddetta «tastiera predittiva». «Voglio spiegare come funziona - ha raccontato De Maggio - la tastiera predittiva è un algoritmo, crea un dizionario locale, acquisisce dal web le parole più frequenti, più viene utilizzato un termine, più viene suggerito. Abbiamo fatto alcune prove, abbiamo inserito altri termini e neologismi frequenti non compaiono. Se scrivo Juve esce storia, se scrivo Vesuvio deve uscire Napoli, non lavali col fuoco. In un momento storico in cui si cerca di sensibilizzare sul tema del razzismo, questa circostanza non può passare inosservata e speriamo che l'azienda statunitense riesca a modificare e a migliorare il suo algoritmo in questo caso particolare. È una vicenda gravissima». In effetti, come ha raccontato De Maggio, tutto sarebbe dovuto agli algoritmi. Ovvero, una serie di istruzioni matematiche che posso permettere di associare sui dispositivi le parole più ricercate in Rete, i cosiddetti «trend topic». Facciamo un esempio: se in un determinato territorio - come la Campania o l'intera Italia - si digita continuamente la frase «Vesuvio lavali col fuoco» o semplicemente si caricano e si condividono video sull'argomento, è possibile che il vocabolario in locale di uno smartphone «impari» quelle parole di uso molto comune e le «ripeta». Il che, in qualche modo, è la controprova che sul Web sono costantemente effettuate ricerche sulla discriminazione territoriale nei confronti dei napoletani. «Il concetto principale è che tutte le parole più tipiche che viaggiano in Rete sono immagazzinate in grossi database- spiega Ernesto Burattini, già ordinario di Informatica alla Federico II -. Possiamo vedere gli algoritmi come dei navigatori nascosti che girano in rete e trovano queste parole sensibili e le ripropongono agli utenti. Un po' come avviene coi messaggi pubblicitari che ci appaiono su molti siti e che riflettono le ricerche che noi facciamo in Rete. Molto spesso queste informazioni, sono fornite a ditte che poi vendono pubblicità». Un'altra spiegazione per cui accade il fenomeno «Vesuvio» potrebbe essere il cloud: un grande bacino di espressioni dalla lingua italiana che spesso segnala espressioni di uso comune tra gli utenti. Dunque, nessuna volontarietà da imputare alla Apple, anche se il fenomeno non si ripete su altri tipi di dispositivi, come Android. Ciò, spiegano gli esperti, potrebbe dipendere dal tipo di protezione, che è diverso da un supporto a un altro. Intanto centinaia di napoletani sono sul piede di guerra e la rabbia corre sui social. «Compro IPhone e Ipad razzisti a metà prezzo» ha scritto qualcuno, tra il serio e il faceto. Poiché all'ombra del Vesuvio è così: se si tocca una nota dolente come questa, non si perdona niente, e nemmeno alla tecnologia. Eppure non è la prima volta che a livello internettiano capita una cosa del genere: nel giugno 2015 destò scalpore una scoperta che fece parlare il popolo della Rete per giorni e giorni. Se si digitava su Google Maps la frase «lavali col fuoco», l'indicatore portava dritto proprio all'immagine del Vesuvio. In quel caso si trattò dello scherzo di qualche buontempone che sparse in Rete diversi bug, non dimenticando la «legge del contrappasso». Si prendeva in giro anche la «Vecchia Signora»: se infatti si digitava «vai a cagare» si veniva spediti direttamente allo Juventus Stadium. Tanto che Google Italia intervenne per scusarsi, ma solo con la Juve. Il riferimento al Vesuvio è rimasto.

Dalla retorica dell’antimafia alla nuova Questione meridionale, scrive di Giancarlo Costabile, Docente Unical, Giovedì 22 Settembre 2016 su "Il Corriere della Calabria". La disperazione è una malattia sociale. Forse la peggiore. Corrado Alvaro amava dire che «la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile». In Calabria e nel Sud il rischio che stiamo correndo è di permanere in una condizione di subalternità culturale rispetto agli altri territori del Paese, accettando come ineluttabile un destino amaro segnato dalle ingiustizie e dal malaffare. Il problema criminale è innegabilmente parte costitutiva della Questione meridionale, ma non può, in alcun modo, esaurirne la complessità dei suoi paradigmi. Dietro le vicende di Melito Porto Salvo e Nicotera, con il loro miserabile apparato di responsabilità individuali e collettive, non si cela soltanto il dominio mafioso con le sue necessità di comunicazione sociale. Le mafie sono l'epifenomeno di un problema strutturale sul piano socio-economico che caratterizza la storia del Mezzogiorno prima e dopo l'Unità del Paese. Il Meridione non è riuscito a mettere compiutamente in discussione la forma padronale, di matrice feudale, delle sue relazioni di potere sociale, neanche in questi 70 anni di storia repubblicana. La nostra è, infatti, ancora una società di padroni, che si nutre di rapporti verticali funzionali a modelli di organizzazione piramidale della vita pubblica. A Sud di Roma, e in Calabria specialmente, vi sono larghi strati della popolazione che non faticano a riconoscersi quali portatori della peggiore antropologia educativa: quella dell'uomo-struzzo. La cosiddetta antimafia di professione, lautamente pagata con denaro pubblico in tutti questi anni per ogni genere di proposta educativa messa in cantiere, non ha quasi mai affrontato con rigore scientifico il tema della fenomenologia dell'oppressione che si pone come sovrastruttura ideologica dell'economia padronale meridionale. A Melito come a Nicotera, ma è così in molte aree del Mezzogiorno, prevalgono una morale privata ed un'etica pubblica figlie concettuali di un'ideologia del silenzio e della rassegnazione, che ha sequestrato il nostro presente, amputando il futuro delle giovani generazioni. L'uomo-struzzo non deve né vedere né sentire, ma solo tacere perché è destinato all'obbedienza padronale. Regola aurea vigente sia per coloro che sapevano della mattanza da "Arancia meccanica" alla quale era sottoposta l'adolescente di Melito Porto Salvo, sia per le decine di nicoteresi che osservavano l'arrivo dell'elicottero degli sposi, accolti da non pochi applausi nella piazza comunale. La Costituzione nata dalla Resistenza è materia ancora sconosciuta nel tessuto socio-culturale del Meridione. Al Sud non serve più l'antimafia dei cortei e delle liturgie convegnistiche, che hanno ridotto la Questione meridionale a mera criminologia, con la quale segmenti nodali dello Stato hanno trasformato il disegno dell'emancipazione collettiva delle nostre terre in un bisogno personale di affermazione e prestigio sociale. La centralità della nuova Questione meridionale è determinata dall'urgenza di frantumare il paradigma padronale dell'inginocchiatoio, che sta avvelenando i pozzi della speranza. E una società senza speranza non è altro che una comunità di sepolcri imbiancati destinata a sporcare l'esistenza, ammantando con il nero della disperazione la bellezza dell'azzurro del cielo. Soltanto frantumando la struttura padronale dell'economia meridionale, riusciremo a costruire un nuovo habitat educativo per la nostra gente. Antonio Gramsci osservava opportunamente che se ogni relazione umana è una relazione educativa, ogni rapporto educativo è un rapporto di potere. Una nuova egemonia culturale deve farsi progetto di cambiamento di questo modo di intendere e vivere le relazioni umane, sia produttive che compiutamente pedagogiche. Dal 2000 ad oggi, la Svimez ci spiega che sono quasi 2 milioni gli emigrati dal Mezzogiorno, in larga parte laureati e sotto i 35 anni di età. Sempre secondo questo importante centro di ricerca, entro il 2050 solamente 1 italiano su 4 abiterà le città meridionali. Scientificamente si chiama desertificazione civile, politicamente è un olocausto. Se non vogliamo altre Melito e Nicotera, dobbiamo uscire dall'ipocrisia di certa antimafia, fatta di sirene estetizzanti, spasmodica ricerca di denaro pubblico, danze folcloristiche. E, invece, rilanciare con forza la centralità dello sviluppo del Meridione, a cui non bastano le politiche sull'ordine pubblico e la diligente azione repressiva della Magistratura, ma soprattutto occorrono interventi strutturali in materia di capitale umano, leve fiscali, innovazione logistica e tecnologica. Il Mezzogiorno non può continuare ad essere una "questione", ma deve diventare il cantiere di una rinnovata speranza: da non-luogo del presente a luogo del futuro.

Amartya Sen: "Divisione tra Nord e Sud conseguenza dell'imperialismo". Il premio Nobel ragiona sul nostro Mezzogiorno. Perché cambiare è possibile. E tra cento anni tutto può essere diverso, scrive l'11 gennaio 2017 "L'Espresso". Il Sud visto con gli occhi del premio Nobel Amartya Sen, che da sempre studia e combatte le diseguaglianze. La visione di Sen è scritta in una lunga intervista raccolta nel libro "Con il Sud, visioni e storie di un'Italia che può cambiare"(edito da Mondadori), curato dalla Fondazione con il Sud presieduta da Carlo Borgomeo. I diritti d’autore sulle vendite saranno interamente devoluti dalla Fondazione a Liberos, che ha dato vita in Sardegna a un progetto innovativo fondato sulla promozione della lettura come fonte di coesione sociale, portandola in centinaia di piccole comunità isolate. Insieme al Nobel molti altre sono le interviste presenti nel libro. Edgar Morin, Raffaele Cantone, Franco Roberti, Rosy Bindi, Luigi Ciotti, Mimmo Calopresti, Chiara Saraceno e molti altri. L'Espresso pubblica un estratto del dialogo con Amartya Sen. Negli ultimi anni la pretesa di rappresentare il mondo come diviso in un Nord e un Sud – dove con Nord si intendeva in genere progresso socio-economico, con Sud l’arretratezza e la lotta al suo superamento – è apparsa via via inadeguata a rappresentare la complessità del presente. Come è cambiato questo paradigma? Sarebbe un errore pensare che questa distinzione risalga a un passato remoto. A ben guardare la Storia, anzi, spesso è stato proprio il Sud ad avere forme di sviluppo superiori rispetto a quelle del Nord. Dopotutto la civiltà minoica proveniva dalla Grecia, dal Sud. La cultura greca ebbe importanti influenze sulla storia italiana e poi su quella europea, proprio attraverso il Sud. Al contrario, quelle rivolte così temute dai romani e che finirono per minarne l’impero, provenivano dal Nord. Dunque l’idea di un Sud arretrato da contrapporre a un Nord più avanzato è molto recente e, fino a un paio di secoli fa, non aveva alcun senso. Questo concetto è semmai un risultato dell’imperialismo, che si mosse dall’Europa al mondo intero. Nel caso della Francia si diresse a sud, ma nel caso del Regno Unito, invece, fu rivolto a est. Proprio per questo motivo, nel contesto dell’impero britannico, la contrapposizione è tra Occidente evoluto e oriente antiquato, mentre in Francia le distinzioni tra progresso e arretratezza vengono più spesso applicate a una dicotomia Nord-Sud. In realtà delle concezioni così superficiali non potevano reggere a lungo, soprattutto di fronte ai fenomeni di sviluppo di cui sono protagoniste l’Asia, l’Africa e l’America Latina. Insomma questo presunto grande gap, mi sembra ormai davvero un’idea difficile da sostenere. Eppure in Italia ancora oggi si discute – talvolta molto animatamente – di Nord e di Sud, con implicazioni che spaziano dai riflessi sull’attualità di grandi passaggi storici alle misure economiche da adottare fino a presunte distinzioni di carattere antropologico e culturale. Certo, nel corso della storia italiana c’è stata e c’è questa divisione tra Nord e Sud: ancora una volta non la definirei tradizionale, se pensiamo – solo per fare un esempio – alla storia intellettuale di Napoli. Si tratta di una divisione che persiste. Era forte quando ero giovane, è forte oggi che sono anziano. Ho iniziato a interessarmi a questi argomenti verso la fine degli anni cinquanta, grazie al lavoro condotto con il mio primo studente di ricerca, che fu Luigi Spaventa. Dalla nostra collaborazione appresi una serie di questioni che continuano a essere attuali, sullo sviluppo del capitalismo in Italia e sull’industrializzazione del Paese. Penso che ci sia stato un tempo in cui il Nord poteva apparire più sviluppato, e mi rendo conto che si tratta di un problema ancora oggi aperto in Italia, ma in futuro le cose potrebbero cambiare. So che la vostra fondazione si chiama CON IL SUD, ma è possibile che tra un secolo tutto anche in Italia sarà molto diverso e magari la fondazione dovrà cambiare nome e diventare una fondazione CON IL NORD. Interrogandoci sul futuro del Sud dell’Italia – la sua bellezza, i suoi problemi storicamente sedimentati – ci troviamo necessariamente a ridefinire il concetto di benessere e di qualità della vita. Vuole aiutarci a declinare questi termini in modo che tengano conto di questa complessità? Se l’obiettivo che vogliamo porci è di vivere bene, allora bisogna rifarsi a quello che uno studioso “meridionale”, Aristotele, affermò nella sua Etica nicomachea: ciò che stiamo cercando, nella vita, non è la ricchezza materiale, o meglio la cerchiamo solamente come strumento per ottenere le cose davvero importanti, quelle che possano consentirci una buona qualità della nostra esistenza. Ecco, si tratta di un pensiero che proviene dal Sud, ma voglio sottolineare che ragionamenti di questo tipo si sono riproposti molte volte nella Storia. Nessuno tra gli antichi filosofi pensava che il senso della vita possa ridursi alla ricchezza, che si possa essere appagati senza essere felici, produttivi, creativi, culturalmente stimolati e messi in condizione di dedicarci ad attività che valutiamo come utili o importanti. Quindi ritengo che questa idea per cui la ricchezza e il profitto sono la misura del successo nella vita sia profondamente sbagliata. Certo, come ci insegna Aristotele, la ricchezza è uno strumento per ottenere molte cose – non tutte, per la verità, ma molte cose. Per questo è molto importante che le persone abbiano la concreta possibilità di ottenere un reddito: questo significa opportunità occupazionali, significa salari adeguati, ma significa anche poter contare su un’assistenza sanitaria degna, su un valido sistema scolastico a cui magari possa provvedere lo Stato. Di questo abbiamo bisogno. Così come ci serve la protezione dell’ambiente e non fiumi inquinati. Per vivere bene abbiamo bisogno anche di un contesto sociale in cui il crimine non sia dilagante e in cui le persone si possano sentire al sicuro, in cui possano fidarsi le une delle altre e comunicare tra di loro senza la paura che possa accadere qualcosa di terribile. Dunque abbiamo bisogno di molte cose nella vita, non di una cosa sola. Spesso la chiamiamo libertà, ma anche la libertà è un concetto che si articola in una vasta serie di aspetti diversi. Per raggiungere alcuni di questi, essere o non essere ricchi può fare la differenza, e per questo aumentare la ricchezza a Sud sarebbe molto importante. Ma non è l’unico parametro. Molto dipende anche da come è organizzata la società, da come lo Stato funziona e da come la stessa cultura può rendere la vita umana più soddisfacente. Cosa ne pensa della proposta di abbassare i livelli salariali nelle cosiddette “aree depresse”, sul presupposto che il costo della vita è inferiore e con l’obiettivo di favorire lo sviluppo di nuove imprese? 

Ci sono alcuni casi in cui la richiesta di salari troppo alti può scoraggiare l’occupazione, ma questa conseguenza è spesso troppo enfatizzata. All’opposto, ad esempio, c’è anche il pericolo che, riducendo i salari, la produttività della manodopera si abbassi. Non è molto chiaro, poi, quanta diminuzione dei livelli occupazionali si determini a fronte di salari più alti. Quindi non credo di poter fornire una regola generale su questo. In alcuni contesti può avere un qualche senso, certo, ma in quelle situazioni in cui gli operai sono sfruttati e non hanno il potere contrattuale su cui possono contare impiegati, industriali e capitalisti, bene, in questi casi si potrebbe invece provare a reintegrare i salari, allo scopo di incrementare il potere d’acquisto. Penso all’esperienza di Bangladesh, Vietnam, Cambogia o anche alla Cina. Fino a poco tempo fa questi Paesi sono riusciti a raggiungere alti livelli di produzione nel tessile e in altri settori, tenendo bassi i salari, ma – ad esempio in Cina – anche in ragione di questi successi hanno dovuto aumentarli e questo non ha certo determinato l’impossibilità dello sviluppo. 

All'Esselunga volantino interno contro i truffatori "napoletani". Consigliere dei Verdi campano annuncia una denuncia per istigazione all'odio razziale contro i responsabili del punto vendita di via Feltre a Milano. Il trucco sarebbe quello di far passare sul rullo una bottiglia di scarsa qualità e poi dei colli chiusi con etichette più pregiate e care. La direzione della catena annuncia che il dipendente è stato subito sospeso, scrive Davide Banfo il 10 marzo 2017 su "La Repubblica". Il volantino apparso alle casse di un punto vendita Esselunga (Foto da NapoliToday) E' stato subito sospeso dalla direzione di Esselunga il dipendente del punto vendita di via Feltre che aveva appeso in una zona interna riservata ai dipendenti un volantino per mettere in guardia dai truffatori "napoletani". A sollevare il caso il consigliere regionale dei Verdi campani, Francesco Emilio Borrelli, che ha annunciato l'intenzione di "denunciare per istigazione all'odio razziale e discriminazione i responsabili dell'Esselunga di Milano dove è stato affisso un cartello offensivo nei confronti dei napoletani perché è arrivato il momento di porre un freno al dilagare delle violenze verbali alimentate da politici razzisti come Salvini e i leghisti". All'origine del volantino, come raccontato per primo dal sito NapoliToday, la pratica di alcuni clienti che farebbero passare sul rullo della cassa una bottiglia di vino per controllarne il prezzo e poi far passare alcuni colli già chiusi con etichette molto più costose ingannando in questo modo l'addetto. Nel comunicato, l'azienda si dice "sinceramente rammaricata per quanto accaduto e si dissocia completamente dall'iniziativa, avvenuta - viene sottolineato - su iniziativa di un singolo dipendente". "Non siamo di fronte a sfottò o cose del genere, ma a vere e proprie offese che alimentano i pregiudizi e gli stereotipi di cui siamo vittime da anni e siamo stanchi di continuare a subire e di essere anche presi in giro da gente come Salvini che dopo aver cantato che puzziamo viene a Napoli per prendere qualche voto, approfittando della disponibilità di qualche politicante della peggiore destra" ha aggiunto il consigliere Borrelli per il quale "chi scrive cartelli del genere compie reati e dovrà pagarne le conseguenze penali e civili e il risarcimento economico che riusciremo a ottenere lo utilizzeremo per aiutare le associazioni impegnate contro le discriminazioni". "Questo cartello rafforza ancor di più la nostra convinzione a stare in piazza contro Salvini e tutti i razzisti come lui che ogni giorno infangano i napoletani e i meridionali che sono stati depredati dalle politiche dei leghisti" ha concluso Borrelli per il quale "le precisazioni dell'ufficio stampa di Esselunga che attribuiscono a un singolo dipendente la decisione di affiggere quel cartello appaiono prive di fondamento perché ci pare strano che sia opera di una sola persona e se anche lo fosse perché nessuno, a cominciare dal direttore del supermercato, non l'ha tolto immediatamente?".

Lega, Senaldi a Salvini: "Vuoi fare il terrone a Napoli, meglio pensare al referendum per Veneto e Lombardia", scrive di Pietro Senaldi il 10 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. «Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani». Se c’è un’immagine che Matteo Salvini vorrebbe rimuovere della sua brillante carriera politica è quel coro da stadio intonato la sera della vigilia del raduno di Pontida del 2009 con un gruppo di militanti leghisti dopo un paio di birrette. Un peccato di gioventù padana che, ora che Matteo è diventato grande, rischia di costargli carissimo, perché il video è impresso per sempre nell' incancellabile memoria di internet. Nel tentativo di riconciliarsi con la città, il leader leghista domani sarà a Napoli per una manifestazione in grande stile del suo movimento sudista «Noi con Salvini». Già nel 2014 tentò lo sbarco in città ma fu violentemente contestato. Ora ci riprova e i no global, forse addirittura capeggiati dal sindaco De Magistris, (ex pm!), gli stanno preparando un’altra dura accoglienza malgrado in un’intervista al Mattino, il quotidiano della città, Salvini abbia ribadito ancora una volta le proprie scuse, cercando di sdrammatizzare («Che devo fare di più, mettermi in ginocchio?»). Detto tra noi, non so se basterebbe, anche se la cabala è propizia: domani è l’11, i «suricilli» nella smorfia napoletana, che possono anche significare il cambiamento. Intendiamoci, Salvini fa bene ad andare a Napoli in segno di amicizia. Rientra nel suo progetto di leader nazionale che, dopo aver portato la Lega ai massimi livelli, si è reso conto da tempo di essere più popolare e di avere su scala nazionale più consenso dello stesso Carroccio, che in un certo senso oggi è quasi un limite alle possibilità di crescita di Salvini. Ecco dunque il tentativo di allargare oltre il Nord e il Centro i confini della Lega, puntando tutto sulla propria persona e sui nuovi messaggi leghisti, travasati in «Noi con Salvini»: no euro, no Europa, no immigrati, basta Fornero, giù le tasse per tutti. Come Libero, condividiamo molte idee di Salvini ma non ci illudiamo per questo che lo facciano anche i napoletani. Per 25 anni almeno la storia della Lega è stata tutt' uno con l’antimeridionalismo, che non significa razzismo verso il Sud, come dimostrano i molti leghisti del Nord con i natali nel Mezzogiorno, ma che è stato comunque ferma denuncia e presa di distanza da tutto quello che «giù» non funziona, sia esso vero o anche solo luogo comune. Se «Roma ladrona» era un grido contro la casta più che contro la città, la secessione leghista era uno slogan tirato come un pugno in faccia contro il Mezzogiorno, vissuto come un peso sulle spalle del Paese, che drena soldi senza riuscire a metterli a frutto. Di tutto questo, dagli eserciti di dipendenti pubblici, ai morti ammazzati di camorra, agli sprechi, ai finti invalidi, all' illegalità diffusa, Napoli, la più importante città del Sud, è stata sempre dipinta come la sintesi. Da qui l’espressione «Piagnisteo napoletano» che nei giorni scorsi anche Libero ha utilizzato, non con intenti offensivi ma sommariamente descrittivi dello scontro tra Nord leghista e Sud meridionalista. Auguriamo a Salvini di sbagliarci, ma la sua sfida per conquistare il cuore dei napoletani, benché indispensabile alla sua crescita come leader, ci appare ai limiti del proibitivo. E per giunta anche rischiosa, perché il tentativo potrebbe alienargli le simpatie dell’elettorato leghista storico, in parte rimasto ancora indipendentista. Bossi, da tempo non in buoni rapporti con chi l’ha sostituito, lo sa e provoca di continuo, bocciando ogni apertura al Sud. Come ogni leader che si rispetti, Salvini non teme di prendersi dei rischi per raggiungere l’obiettivo, ma quello di essere contestato domani è davvero molto grosso, anche perché dopo cinque anni di cura De Magistris la città è alle corde, e quindi poco incline alla riconciliazione. Forse il segretario leghista farebbe meglio a desistere e concentrarsi sui referendum per l’autonomia fiscale indetti dal Carroccio in Lombardia e Veneto, molto popolari tra il suo elettorato, anziché lasciarli alla gestione esclusiva dei governatori Maroni e Zaia. Certo sarebbe più semplice. Chi frequenta Salvini rivela che è tutto sotto controllo: i governatori porteranno avanti il piano autonomista al Nord, appuntandosi le eventuali medaglie del referendum, e il segretario si prenderà la parte più difficile, lo sfondamento al Sud, agitando il vessillo anti-europeista e provando a convincere i meridionali che l’autonomia regionale farà bene anche a loro. Tutti insieme appassionatamente. Che il sogno si traduca in realtà però è tutto da vedere. A Napoli dicono «scurdammece 'o passato». Ma ancora più spesso dicono «Accà nisciuno è fesso».

Salvini alla Mostra d'Oltremare, interviene il Viminale: "La prefettura garantisca il diritto a svolgere la manifestazione". I centri sociali occupano la sala della Mostra d'Oltremare a Napoli in cui è prevista la manifestazione con Matteo Salvini. Dopo il blitz dei centri sociali e un vertice in piazza del Plebiscito, i manifestanti liberano la sala congressi occupata. Il leader della Lega: "Vengo lo stesso, non siamo in dittatura". In serata nota del ministro dell'Interno, scrive Antonio Di Costanzo il 10 marzo 2017 su "La Repubblica". Il ministro dell'Interno "ordina" alla prefettura di garantire la convention con Salvini alla Mostra d'Oltremare. Il leader della Lega sarà alle 17 di domani (sabato) nella sala della Fiera occupata oggi in segno di protesta da un centinaio di manifestanti. "Non siamo in dittatura - ha detto Salvini- a Napoli non esiste Stato, comandano i centri sociali. Ma io ci sarò lo stesso, alle 17 alla Mostra d'Oltremare: se non mi faranno parlare dentro, parlerò fuori". Pasticcio istituzionale sulla cinvention del leghista. Gli antagonisti hanno liberato il Palacongressi dopo un vertice in prefettura e la decisione dei vertici della Mostra di annullare la manifestazione con Salvini. Poi il colpo di scena: il ministro dell'Interno Marco Minniti ha dato "precise disposizioni al prefetto di Napoli perché sia assicurato il diritto costituzionalmente garantito dell'onorevole Salvini a tenere la manifestazione programmata domani nel capoluogo campano". Dopo la nota del ministro, il prefetto ha comunicato che la manifestazione “Noi con Salvini” prevista per domani 11 marzo si terrà presso la Mostra d’Oltremare. Gli attivisti della Rete "Mai con Salvini" hanno prima festeggiato la notizia dell'annullamento e poi confermato il corteo contro la manifestazione con la presenza del leader della Lega, Matteo Salvini, in programma al Palacongressi. "Il problema di Napoli sono i leghisti, non clandestini e camorristi? - ha replicato Matteo Salvini - Sindaco, questore, prefetto e governo, non dite niente? Intellettuali, buonisti, democratici e pacifisti, non dite niente? Abbiamo firmato un contratto da 5-6 mila euro con la Fiera di Napoli. C'è stato un comunicato del portavoce dei centri sociali De Vito che la fiera rescinde il contratto con me perchè non ci sono le condizioni. Incredibile. Napoli è nelle mani dei centri sociali, della camorra, dell'illegalità. Io ci vado lo stesso, non siamo a Cuba o in Unione Sovietica". Non basta: "Questi dei centri sociali - ha incalzato il leghista - hanno detto che continueranno a presidiare la fiera ma io ripeto ci vado lo stesso, se non mi fanno parlare dentro parlerò fuori, per rispetto dei tremila napoletani che hanno già mandato la loro prenotazione. Mai capitato in 25 anni di storia che i centri sociali decidano - sottolinea il leader della Lega - Accadesse ad un esponente del Pd o 5Stelle, sarei il primo a dire non esiste. Io vado lo stesso a Napoli. Dov'è il prefetto, il ministro, le istituzioni? Minniti deve intervenire. Non mi è mai accaduto, neanche al Sud". "Le provocazioni le rispediamo al mittente" ha replicato il sindaco Luigi de Magistris su radio Kiss Kiss. Napoli è "contro le politiche discriminatorie dei Mattei di turno, Salvini e Renzi. La storiella di Salvini amico dei napoletani il leader della Lega la vada a raccontare ad altri". Il sindaco ha ricordato di avere "sempre auspicato che la manifestazione popolare dei napoletani contro Salvini fosse pacifica, non violenta, caratterizzata da satira. Invito tutti a sentire gli artisti napoletani che per l'occasione, per il corteo organizzato contro la Salvini, con Gente do Sud". L'annullamento della convention con Salvini alla Mostra d'Oltremare era stato reso noto da Donatella Chiodo e Gennaro Oliviero, presidente e consigliere delegato di Mostra d'Oltremare, che hanno spiegato di aver rescisso il contratto con gli organizzatori della manifestazione: "Restituiremo quanto ci hanno dato, oltre 10mila euro, il costo per un'iniziativa di questo tipo". Poi il colpo di scena con l'intervento del Viminale. "Resteremo qui a oltranza finché la manifestazione non sarà annullata", avevano promesso gli occupanti al mattino. "Ricordiamo che la riunione sull'ordine pubblico in Prefettura ha concesso lo spazio prima citato in opposizione alla volontà della città. A Napoli non c'è spazio per razzisti, sessisti e xenofobi, che vorrebbero utilizzare come palcoscenico la nostra città per meri scopi di campagna elettorale. Il Sud non dimentica le offese razziste ricevute in questi anni, le politiche di austerità votate anche dalla Lega Nord". Ad affiancare la protesta, sono scesi in campo anche alcuni musicisti napoletani: Eugenio Bennato, James Senese, Valerio Jovine, i 99 Posse, M'Barka Ben Taleb e altri artisti, sotto la sigla "Terroni uniti", hanno registrato il brano "Gente do Sud". Enzo Gragnaniello, ospite di una diretta nella redazione napoletana di Repubblica, ha dedicato a Salvini la sua canzone "L'erba cattiva". Ma a protestare contro Salvini non sono soltanto i centri sociali. Anche il Movimento neoborbonico, tutt'altro che schierato a sinistra, scende in campo. E accoglie il leader della Lega citando Eduardo De Filippo e la famosa pernacchia con cui nell'episodio 'Il professore' del film di De Sica "L'oro di Napoli", si accoglieva l'arrivo di un duca. La versione dedicata a Salvini è in un file mp4 rintracciabile su Youtube, che il movimento dei Neoborbonici rende disponibile gratuitamente, sotto il nome di "Suoneria borbonica", a chiunque lo chieda.

Napoli, sindaco e violenti imbavagliano Salvini. Dopo la protesta degli antagonisti, negata la sala al leghista. Lui: «Vado lo stesso». E il Viminale lo difende, scrive Simone Di Meo, Sabato 11/03/2017, su "Il Giornale". Diventa un caso nazionale la visita di quest'oggi di Matteo Salvini a Napoli. Il ministro dell'Interno Marco Minniti ha ordinato al prefetto del capoluogo di assicurare «il diritto costituzionalmente garantito» del leader della Lega a «tenere la manifestazione programmata» presso il PalaCongressi della Mostra d'Oltremare dopo che il management della società comunale ha deciso (e ha comunicato che non farà dietrofront sino a quando non arriverà un ordine ufficiale della prefettura) di revocare l'autorizzazione concessa in un primo momento. Minniti «batte» de Magistris, dunque. Il sindaco di Napoli non aveva mai fatto mistero di voler impedire con tutti i mezzi la convention. «Non abbiamo bisogno di chi sparge odio e violenze - ha detto il primo cittadino - la Lega non è il nuovo, ha governato per anni e vi invito a vedere le leggi che hanno approvato». Infine l'affondo: «Loro vogliono che i soldi vadano in una sola direzione: il Centro Nord. Noi, vogliamo un'Italia e una Europa unita nelle diversità». Immediata la replica dell'europarlamentare: «Pazzesco. A Napoli non comanda lo Stato, ma i centri sociali? Vogliono impedirmi di fare un incontro pubblico, con migliaia di persone già prenotate, costringendo la Fiera a disdire il contratto. Il problema di Napoli sono i leghisti, non clandestini e camorristi?», scrive su Facebook. «Sindaco, questore, prefetto e governo, non dite niente? Intellettuali, buonisti, democratici e pacifisti, non dite niente? Domani (oggi, ndr) a Napoli ci sarò, come previsto, alle 17 alla Mostra d'Oltremare. La Libertà prima di tutto. Vi aspetto, con il sorriso». Le contromisure degli antagonisti e delle reti antirazziste sono già pronte. È previsto infatti un corteo che si snoderà in città in contemporanea con il comizio di Salvini a cui parteciperà lo stesso sindaco. La polemica è scoppiata nel pomeriggio di ieri quando il consigliere delegato della Mostra d'Oltremare Giuseppe Oliviero ha comunicato la decisione dell'ente fieristico di rescindere il contratto siglato con i promotori dell'appuntamento politico. «Alla luce dei fatti emersi oggi - ha detto - e che non potevamo prevedere, e considerato che c'erano le avvisaglie accadesse di peggio, abbiamo preferito rinunciare a 11mila euro che restituiremo piuttosto che averne 300mila di danni». In particolare, Oliviero spiega che «abbiamo voluto tutelare Droni in mostra, manifestazione che si svolgerà regolarmente. Ha prevalso la logica del minor danno». Poi è arrivato il diktat del titolare del Viminale. Gli antagonisti hanno diversificato le operazioni di contestazione. Il Movimento Neoborbonico ha deciso di creare una suoneria per cellulare con pernacchio ispirata a Eduardo de Filippo in una delle scene più famose de L'oro di Napoli, il film tratto dall'omonimo libro di Giuseppe Marotta. Per l'occasione, un gruppo di artisti ha scritto invece il brano Gente do Sud «contro le politiche antimeridionali e antirazziste di Salvini e della Lega». Il leader padano criticato, a sorpresa, anche dall'ex governatore della Campania, Stefano Caldoro: «È bene che continui a fare politica al Nord ha affermato l'esponente di centrodestra, prendendo però le distanze dai violenti continui a prendere consensi al Nord, al Sud non ha proprio ragioni, c'è una contraddizione». Intanto, la città è blindata.

Chi impedisce la libertà di parola non è un democratico meridionalista, ma un bieco comunista reazionario. Proprio quella sinistra che impedisce il revisionismo storico sul Risorgimento e le sue atrocità.

Ricordare i "martiri" del Sud? Il Risorgimento divide ancora. Il M5S vorrebbe una giornata per le vittime della "invasione" sabauda. Ma non c'è accordo tra gli storici, scrive Matteo Sacchi, Sabato, 11/03/2017, su "Il Giornale". Un altro giorno della memoria. Dedicato però ai «martiri del Meridione». È questa la proposta presentata dal Movimento 5 Stelle in diverse regioni del Sud Italia: Abruzzo, Campania, Basilicata, Molise e Puglia. E poi è anche approdata al Senato, dove il senatore M5S Sergio Puglia è intervenuto affermando che: «Il tempo è maturo per fare una riflessione e analizzare cosa accadde alle popolazioni civili meridionali e quanto ancora ci costa nel presente. Nei testi scolastici si fa appena un accenno. Chiediamo la verità». Ma esattamente di cosa si tratta? La data proposta è quella del 13 febbraio. Ovvero quella della fine dell'assedio di Gaeta da parte delle truppe piemontesi nel lontano 1861. Quel giorno la roccaforte borbonica, stretta ormai da terra e dal mare, si arrese dopo 102 giorni (e 75 di bombardamento consecutivo, il fuoco non si arrestò nemmeno mentre veniva trattata la resa). Dopo quel 13 febbraio però non cessò la resistenza al nuovo Stato unitario, soprattutto nelle campagne. Tutti coloro che continuarono a opporsi alle truppe del nuovo esercito italiano vennero semplicemente trattati dal governo di Torino come briganti. I briganti però avrebbero classificato se stessi come patrioti, sebbene nel movimento spesso citato dalla manualistica come «Grande brigantaggio» fossero confluiti anche briganti veri e propri e contadini poveri ben poco politicizzati. Il dibattito sul tema resistenza/banditismo dura tra gli storici ormai da decenni. Ed è un dibattito rovente. È un fatto che la repressione venne portata avanti con metodi militarmente durissimi (si arrivò ad impiegare più di 105mila soldati) e si arrivò ad approvare una legge specifica, la legge Pica, che de facto abrogava le garanzie dello statuto albertino. Ma è altrettanto un fatto che la reazione anti unitaria si trasformò in una guerriglia senza quartiere, in cui gli inviati governativi e i militari venivano uccisi nelle maniere più atroci. Ora l'arrivo della proposta di un giorno della memoria riaccende in pieno il dibattito.

Ne abbiamo parlato con il giornalista Pino Aprile, che con alcuni dei suoi libri (come Terroni e Carnefici, entrambi editi da Piemme) ha contribuito a far partire il dibattito. «È una proposta giusta. Era ora. Cosa è successo durante l'annessione? È successo che un esercito è penetrato in un Paese amico senza nemmeno una dichiarazione di guerra, rubando, stuprando e ammazzando. Per carità, in quegli anni è successo anche altrove... Le unificazioni nazionali hanno prodotto sempre massacri. Solo che noi italiani non ce lo siamo mai detti. Si fa ancora finta che l'annessione del Sud sia stata una parata fiorita attorno a Garibaldi, è stato un genocidio. Uno Stato ricco e prospero è stato spogliato delle sue ricchezze e saccheggiato. Bisogna avere il coraggio di dirlo e un giorno della memoria può essere un buon modo per farlo. Un giorno per piangere le vittime e cercare di unire quello che è ancora un Paese diviso. Ed è un Paese diviso perché una metà è stata brutalmente invasa e saccheggiata e non lo si vuole riconoscere. In altre nazioni i conti con la storia si fanno, la Francia con la Vandea i conti li fa eccome».

Di parere diametralmente opposto lo storico del pensiero politico Dino Cofrancesco: «Cui prodest? Già siamo un Paese disunito e in Europa ci trattano come servi della gleba. Che senso può avere una celebrazione che aumenti le divisioni? Poi mettiamo le cose in chiaro su questo nostalgismo borbonico che sta prendendo piede negli ultimi anni. Rosario Romeo, che è stato il più grande storico della seconda metà del Novecento, diceva che il protezionismo della sinistra storica aveva danneggiato il Sud, ma che senza l'unità il Sud non sarebbe mai diventato Europa, sarebbe rimasto una specie di Libia peninsulare. E Romeo era di Giarre, non di Busto Arsizio. Come del resto erano cultori del risorgimento Adolfo Omodeo (palermitano) o Gioacchino Volpe (abruzzese). Ma non solo loro, tutti gli intellettuali del Sud già in pieno risorgimento erano favorevoli all'unità e allo Stato forte. È questo che i neoborbonici sembrano dimenticare». Ma le violenze dell'esercito piemontese/italiano? «Il generale Cialdini era quel che era, ma non dimentichiamoci le teste dei bersaglieri mozzate e issate sulle picche. Le violenze ci sono state da entrambe le parti, non ci sono stati dei martiri. Delle vittime invece ovviamente sì. E di certo non userei il termine genocidio. Semmai c'è stata dopo un'emigrazione di massa dal Meridione, ma dovuta all'arretratezza economica del Sud, non all'unificazione. L'unificazione l'ha resa possibile modernizzando». E se il dibattito è così forte tra storici, forse per le celebrazioni è presto, a meno di non volere una delle solite celebrazioni italiane: quelle che dividono.

Il Sud visto dal Nord dal 1860 ai primi del 900: I meridionali? Cafoni e razza inferiore, scrive Ignazio Coppola su "Meridionews" il 5 luglio 2012. La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata unità d’Italia e che, significativamente ed opportunamente, avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia: ma così purtroppo non è stato. La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia e che, significativamente ed opportunamente, avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: ma così purtroppo non è stato. Hanno vinto ancora una volta l’ipocrisia e le verità nascoste di un risorgimento edulcorato da bugie e falsità che si continuano a propinare, senza soluzione di continuità dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua ad ignorare che alla base di una mala unità d’Italia vi fu, come del resto continua ad esserci, retaggio di quel passato, una ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a liberare e civilizzare" il Sud e la Sicilia. Infatti che non grande considerazione dei meridionali avevano, all’alba dell’Unità d’Italia, alcuni politici e militari del Nord che tale Unità con arroganza rivendicavano di avere contribuito a compiere, ne esistono incontrovertibili testimonianze. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo, che fu presidente del consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura e come mettersi a letto con un vaioloso. Più o meno quello che, esattamente 150 dopo, canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato e capogruppo al Comune di Milano, Matteo Salvini: Senti che puzza scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati. Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. Da allora niente è cambiato se non in peggio. Nino Bixio, il paranoico massacratore di Bronte, in una lettera inviata alla moglie tra l’altro così scriveva: Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili. Ma ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il brigantaggio a proposito dei territori in cui si trovò a operare, in una lettera inviata a Cavour, così si esprimeva: Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele. Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861, durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene: Le palle dei miei cannoni non hanno occhi. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo - e con minor numero di vittime - a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, era solito raccomandare di non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani. E dire che del nome di questo criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. E che dire poi del generale Giuseppe Covone mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo, avendone piena facoltà che gli derivava dalle leggi speciali, di porre in stato d’assedio intere città, di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani, non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in pieno parlamento che: Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà. Ed infine per completare questo bestiario di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: La popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa. E poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito, ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome, poiché sinora nel Napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro. Questi i documentati pregiudizi razziali di quei liberatori che fecero a spese del Sud depredandolo, saccheggiandolo uccidendo e massacrando i suoi abitanti, l’Unità d’Italia. E su questi pregiudizi nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese che poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giuseppe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo. Studiosi che si affrettarono a dare un’impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del Meridione. Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra Nord e Sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei Quaderni, quando sostiene: La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del Nord. Queste non capivano- afferma Gramsci- che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del Sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale. Parole sante. L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza, con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che, conquistando e colonizzando il Sud, ostacolandone in ogni modo la crescita, prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell’Unità d’Italia direttore della Banca nazionale degli Stati Sardi e amico personale di Cavour e, successivamente, Governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: Il Mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre. E negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale tenendo fede a questa sua spiccata vocazione antimeridionalista fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del Nord, soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Riprendendo l’analisi di Gramsci, si può in buona sostanza affermare che l’origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto Nord-Sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del Sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente. Scriveva il filosofo e romanziere ceco Milan Kundera protagonista della primavera di Praga nel suo Il libro del riso e dell’oblio, un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un'altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato. Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia nel corso di 150 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini, come abbiamo visto, aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del Mezzogiorno che, al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di liberatori quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare l’inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare, ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista del socialista Cesare Lombroso che, assieme ad altri antropologi e criminologi quali Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica, misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali teorizzando l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso antropologo e criminologo, fu nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia che elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali, effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani: i settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana, Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze. Quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al Sud e di conseguenza la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore! Niceforo in un suo libro del 1898 L’Italia barbara contemporanea, descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da civilizzare. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa - sostiene ancora Gramsci - in forma capillare dai propagandisti della borghesia nella masse del Settentrione. Il Mezzogiorno è la palla al piede - si disse allora come si ripete pedissequamente oggi - che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono - secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci - biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per sé incapaci, poltroni, criminali e barbari. Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali, come quando nelle città del Nord si era soliti leggere cartelli come questi: Vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali. E ancora: Non si affittano case ai meridionali. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura ancora ai nostri giorni. Come si può alla luce di tutto questo parlare a tutt’oggi di Unità d’Italia o di memoria condivisa tra Nord e Sud quando dalla storiografia ufficiale ai meridionali è stata sempre negata una verità storica che li relega nel ghetto dell’essere cittadini residuali di questo Paese? E certamente ancor più non ci si può indignare da parte di insigni rappresentanti delle istituzioni se oggi i meridionali, in occasioni di recenti manifestazioni sportive, si ritrovano a fischiare l’inno di Mameli. Questi insigni rappresentanti delle istituzioni - e soprattutto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in testa - da buon meridionale, anziché compiacersi di inaugurare a Caprera, come ha fatto in questi giorni, con la solita usata ed abusata retorica, il museo dedicato alle memorie garibaldine, da buon napoletano, avrebbe fatto bene ad indignarsi per il fatto che a Torino il 26 novembre 2009 è stato inaugurato e riaperto al pubblico il nuovo museo Lombroso ricco di reperti, di fotografie di pezzi anatomici, di crani, di teste mozzate, di documenti e di reperti utilizzati dal criminologo ed antropologo veronese e dai suoi seguaci tendenti a teorizzare la inferiorità della razza meridionale ed a sancire che ancora, ai nostri giorni, esistono due Italie: una di serie A ed una di serie B:quella del Nord civile e progredita, quella del Sud barbara e arretrata. Questo in un Paese civile sarebbe il minimo per indignarsi e far chiudere da parte di istituzioni responsabili, anziché inaugurarne altri, questo deprecabile museo delle menzogne e degli orrori. In Italia purtroppo basta perdere quattro a zero con la Spagna per essere, come sostengono Napolitano e Monti, orgogliosi di una nazionale che unisce gli italiani. Contenti loro...

Storia di Nino Bixio, l’eroe più antipatico del Risorgimento, scrive "Il Giornale" Martedì 13/12/2011. Non era un tipo simpatico. Anzi, a dire il vero, quando gli girava storta ce la metteva tutta per rendersi odioso. Anche perché, scontroso e irascibile per natura, quando la «benda sanguigna» gli calava sugli occhi, e cioè non capiva più niente a causa della rabbia sorda che lo prendeva, diventava talmente aggressivo e violento da non esitare a uccidere. Come, appunto, fece. Eppure, nonostante queste sgradevoli spigolosità del carattere, non c'è dubbio alcuno che Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi durante la Spedizione dei Mille nel 1860, sia stato uno dei personaggi più illustri del Risorgimento. A raccontarci l'avventurosa esistenza di questo marinaio genovese che divenne uno dei più stimati generali del suo tempo, senatore del Regno e, infine, armatore di una nave che lo condurrà verso il suo ultimo appuntamento con il destino, è lo scrittore pavese Mino Milani che, per i tipi di Mursia, in questi giorni sta riproponendo un suo libro uscito in prima edizione nel 1977, «Vita e morte di Nino Bixio». A 34 anni di distanza, il libro è ancora intatto nella sua freschezza narrativa e si presenta come un prezioso strumento di consultazione per conoscere meglio i fatti d'arme, le prodezze e gli eccessi di una delle più controverse figure dell'Ottocento italiano. C'è da dire subito che Milani, raccontando le gesta del nostro eroe, non segue un ordine cronologico. Tanto per intenderci, non inizia dalla nascita andando mano a mano a sviluppare le varie fasi della vita. Il racconto parte invece da un Bixio ormai maturo che, andando per mare, rievoca non senza dolore e rimpianti, quello che fino ad allora era stato il suo passato. Lasciamo al lettore il piacere di seguire questo percorso. Adesso, però, per amor di sintesi e di chiarezza, vediamo di inquadrare un po' meglio il personaggio, inserendolo in un preciso contesto storico-sociale. Gerolamo Bixio, che fin da piccolissimo venne subito chiamato Nino, nacque a Genova il 2 ottobre 1821, sotto il segno della Bilancia. A dispetto degli astrologi, però, sarebbe stato molto più a suo agio in un segno di fuoco, vista l'irruenza e l'aggressività che mostrò fin da bambino. Era l'ottavo e ultimo figlio di Tomaso e di Colomba Caffarelli. Contrariamente agli altri figli, forse per il disinteresse che il padre mostrò sempre nei suoi confronti, Nino non venne battezzato. La tragedia affettiva avvenne quando aveva otto anni e la madre morì. Questa perdita lo segnò per tutta la vita. E non fu un caso, visto che anche gli altri fratelli, non appena poterono, si allontanarono da casa, tagliando i rapporti con il padre e la sua nuova moglie. In aula Nino era irrequieto ed un osso duro tanto per i maestri, quanto per i compagni. Lo chiamavano «il terrore della scuola» e nel 1834, a 13 anni, lasciò per sempre i banchi. Il padre, che voleva sbarazzarsi di lui, prima lo fece battezzare, poi lo imbarcò come mozzo su una nave. Fu questo evento, con tutte le spiacevoli conseguenze che il bambino dovette affrontare da solo, a forgiare il carattere di ferro che distinse sempre Nino Bixio. Amò il mare da subito, in seguito si arruolò nella Regia Marina Sarda e, crescendo, divenne fervente mazziniano. Partecipò come volontario nel 1848 alla guerra in Lombardia e nel 1849 a Roma, insieme all'amico Goffredo Mameli. Nel 1850, dopo aver speso buona parte del suo tempo sui libri, superò brillantemente l'esame di capitano di prima classe. Dunque, marinaio, soldato e fiero sostenitore dell'unità d'Italia. Quanto bastava per diventare nel 1860 secondo di Garibaldi nella Spedizione dei Mille, dove si distinse per coraggio, capacità di comando e qualche indimenticabile eccesso. Vediamone qualcuno, tanto per avere un'idea di chi fosse Nino Bixio. In Sicilia, durante una sosta della marcia su Palermo, Bixio passando a cavallo, vede dei volontari siciliani che si stanno riposando. Imprecando, comincia a urlare: «Ma chi comanda qui?». Allora si fa avanti il capo dei volontari, uno dei più noti garibaldini della prima ora, e risponde: «Sono io che comando, il generale La Masa». «Macché generale La Masa, lei è il generale la merda», gli grida in faccia. Quello, senza pensarci due volte, sfodera la sciabola e si avventa contro Bixio, cominciando a duellare. Soltanto l'intervento del colonnello Sirtori, con la sua pacatezza lombarda, fece interrompere il duello prima che si arrivasse all'irreparabile. Una decina di giorni dopo, altro increscioso episodio. A Palermo si stavano svolgendo i funerali del volontario ungherese Luigi Tukory e Bixio, passando accanto ad un colonna di garibaldini che stavano trasportando un grosso carico di armi, li ferma e ordina loro di seguire il corteo funebre. Il loro comandante, Carmelo Agnetta, lo guarda e replica che lui prende ordini solo da Garibaldi. E gli chiede: «E lei chi è?». Non l'avesse mai fatto. Bixio scende da cavallo, gli si avvicina e gli assesta un poderoso manrovescio. Agnetta sfodera la sciabola e i due cominciano a scambiarsi fendenti, fino a quando non interviene Garibaldi in persona che mette Bixio agli arresti. «Come potete comandare diecimila uomini - gli dirà severo - voi che non sapete comandare a voi stesso?». Per inciso, Agnetta non volle passare sopra all'incidente e il 17 novembre 1861, a Brissago, in Svizzera, i due si sfidarono a duello. Il colpo di pistola di Agnetta fracassò la mano destra di Bixio, che da quel giorno perse la normale mobilità delle dita. Stranamente, poi i due diventarono grandi amici. Ancora peggio fu quello che accadde a Paola, in Calabria, l'11 settembre 1860. Un vapore, l'Elettrico, doveva trasportare truppe garibaldine a Napoli. Per fare imbarcare tutti, Bixio aveva ordinato che ognuno stesse in piedi. Quando però arrivò sul ponte della nave, vide che alcuni volontari bavaresi, erano seduti per terra. Prese allora una carabina e, urlando e imprecando, cominciò a colpirli selvaggiamente. Un giovane trombettiere ungherese, colpito alla testa, morì con il cranio sfondato. Gli altri si avventarono su quella furia umana e poco ci mancò che Bixio non venisse cacciato in mare. Garibaldi, in seguito, lo fece mettere agli arresti dicendo agli ufficiali che chiedevano la sua testa: «Trovatemi un altro Bixio, e io faccio subito fucilare questo». Alla storia passarono anche i fatti di Bronte. Dal momento che i Borboni avevano regalato la cittadina all'ammiraglio inglese Nelson, i britannici si rivolsero a Garibaldi per mettere fine alla rivolta contadina che aveva insanguinato la zona. Gli insorti, guidati dall'avvocato Lombardo, avevano già ammazzato quindici persone a caso e ora si temeva il peggio. Così Garibaldi inviò Bixio, il quale fece allestire un processo, individuò cinque presunti responsabili, tra i quali Lombardo, e li fece fucilare. La fretta con cui tutto questo avvenne, fu tale che si parlò apertamente di strage di innocenti, in quanto i veri responsabili erano già fuggiti da un pezzo. Comunque sia, Bronte restò per sempre una macchia nella carriera di Bixio. Potrei continuare ancora per un pezzo a citare episodi e avventure, ma toglierei al lettore il piacere della lettura. In sintesi, dopo il 1860 Bixio diventò generale dell'esercito italiano, senatore del Regno e un bel giorno, stanco di ciondolare in Parlamento, gli tornò una gran voglia di riprendere il mare. Indebitandosi fino agli occhi, fece costruire in Inghilterra una grande nave mista motore-vela che guidò verso l'Oriente, per stabilire una linea commerciale con l'Italia. Non tornò mai più. Colpito dal colera, alle 9 del 16 dicembre 1873 morì tra atroci dolori sulla sua nave. Il corpo infetto, chiuso in una cassa metallica, fu sepolto nell'isola di Pulo Tuan, che nella lingua locale significa Isola del Signore. Tre indigeni disseppellirono la cassa, denudarono il cadavere e poi lo riseppellirono alla buona vicino ad un torrente. Due di loro, infettati dal colera, morirono in 48 ore. Pochi resti di Nino Bixio, vennero rintracciati, grazie al terzo indigeno, soltanto nel giugno del 1866. Le ossa vennero cremate il 10 maggio del 1877 nel consolato italiano di Singapore. Il 29 settembre le ceneri giunsero infine a Genova dove una folla immensa si unì alla moglie e ai quattro figli per accompagnare l'urna al cimitero di Staglieno, dove si trova tuttora. 

Risorgimento: nel sud Italia sfatato il mito degli eroi dell’Unità, scrive il 14/02/2017, Paolo Signorelli su “L’Ultima Ribattuta". Sfatato il mito del Risorgimento. Almeno nel Sud Italia, dove sono sempre di più i municipi che hanno deciso di rimuovere busti e cancellare le vie dedicate ai protagonisti dell’Unità. L’inchiesta della “Verità” ha svelato questo particolare e significativo retroscena. Qualche esempio? Il generale Enrico Cialdini, che si è visto togliere il proprio monumento dalla Camera di commercio di Napoli, perché considerato un “criminale di guerra”. La “rappresaglia” ha colpito poi anche Giuseppe Garibaldi, definito “un massacratore”, così come Nino Bixio e Camillo Benso conte di Cavour che avrebbe appoggiato proprio Cialdini nel reprimere il brigantaggio nel Sud Italia tra il 1861 e il 1865. Ad avanzare la proposta di rimuovere busti e vie il consigliere di Fratelli d’Italia Andrea Santoro, che, affiancato a sorpresa pure dalla sinistra (una volta tanto destra e sinistra d’accordo), ha dunque dato voce all’ira comune covata verso i modi violenti con i quali il Mezzogiorno è stato aggregato al Piemonte. Cialdini, “sfrattato” da Bari, Lamezia Terme e Catania, non è stato cancellato solo nel Sud Italia, ma anche al Nord, più precisamente a Mestre, da una via della periferia. “Uno dei più ‘benevoli’ criminali di guerra”, è stato definito da Sebastiano Bozio della sinistra unita. Evidentemente ciò che viene propinato e scritto nei libri di scuola non convince del tutto. Per chi volesse farsi una cultura precisa e dettagliata su quegli anni, il consiglio è quello di spostare la propria attenzione su altri volumi di storia.

"La Resistenza è solo un falso mito. La retorica della Liberazione è finita". Parla Arrigo Petacco, giornalista, storico e scrittore. "Sono state dette molte balle", scrive il 24 Aprile 2016 “Il Tempo".

«Il 25 aprile, finché c’è stato il Partito comunista italiano, è stato molto festeggiato. Adesso assai meno perché sulla Liberazione e sulla Resistenza ci hanno costruito sopra un sacco di castelli di carta». A parlare, in questa intervista a Il Tempo è Arrigo Petacco, giornalista, storico, scrittore, autore anni fa della celebre intervista ad Indro Montanelli in cui il giornalista toscano parlò della guerra in Abissinia cui aveva partecipato, dicendo che «era come il West per gli americani: la nuova frontiera, un paese nuovo dove costruirci un’esistenza diversa. Andammo laggiù pure per sfuggire alle liturgie del regime. Ma anche lì arrivarono i gerarchi tronfi e buffoni. Fu il trionfo delle bischerate di Starace. Ci sentimmo traditi».

Petacco, quali sarebbero i castelli di carta?

«Diciamolo chiaramente, se non ci fossero stati gli americani la Resistenza non ci sarebbe mai stata. Si tratta di una retorica enorme e anche di qualche balla. All’epoca al Pci della patria non gliene fregava niente e il gruppo storico dei comunisti "inventò" il mito della Resistenza affinché sembrasse una lotta di popolo».

Non starà esagerando?

«L’hanno fatta in ottantamila partigiani che, poi, non erano neppure comunisti. Io sono stato un partigiano quando avevo 16 anni. Pochi anni dopo la guerra scrissi un libro, senza mitologia, "I ragazzi del 44", la storia di un partigiano un po’ per caso alle prese con problemi più grandi di lui, che mi venne rifiutato. Trenta e passa anni dopo, quando ero divenuto famoso per altre cose, me lo pubblicarono. Mi viene in mente il mito dei garibaldini dopo l’Unità d’Italia».

Che c’entrano i garibaldini con il 25 aprile?

«Ai tempi dell’Unità nazionale i garibaldini erano degli eroi del momento poi, col passare del tempo ne rimase solo uno, ma tutti si dicevano garibaldini. Oggi i partigiani che hanno fatto la Resistenza son tutti morti. O quasi. Ma sul mito della Resistenza, come sull’essere stati partecipi alla spedizione dei Mille ai tempi di Garibaldi, sono state costruite carriere, anche da chi non c’era affatto. Molte persone, io li definisco i partigiani del giorno dopo, ne han fatto una professione, magari con un bel fazzoletto rosso al collo».

Se come lei sostiene la Resistenza è stata un falso mito, perché gli italiani ci credono da così tanto tempo?

«Ci han creduto perché gli italiani son fatti così, come hanno fatto a credere per 20 anni a Benito Mussolini?».

Vuol dire che al popolo italiano piace salire sul carro del vincitore?

«Dopo il Risorgimento i famosi Mille di Garibaldi erano diventati 25mila. È normale salire sul carro del vincitore, lo fanno anche negli altri paesi, solo che in Italia lo facciamo con più entusiasmo».

C’è un libro che avrebbe voluto scrivere e non ha scritto?

«Sulla Resistenza "Il sangue dei vinti", l’ha scritto il giornalista Giampaolo Pansa, sulle esecuzioni e i crimini dei partigiani, un libro che ha avuto successo perché scritto da un giornalista che era visto come un uomo di sinistra».

Che intende dire?

«Che quelle critiche così feroci sulla Resistenza scritte da uno non di sinistra sarebbe state considerate una lesa maestà. Adesso le racconto una confidenza: negli anni Settanta, un editor della Mondadori, mi disse che era arrivato il tempo di scrivere un libro contro la Resistenza, ma io non ho mai avuto il coraggio di scriverlo. Pansa ha scritto la verità, verità che alcuni fascisti avevano già scritto prima di lui ma nessuno ci credeva, penso ad esempio a un fascista come Giorgio Pisanò. Non gli hanno creduto perché era ancora un fascista convinto e lo accusavano di essere un diffamatore».

Sul fascismo ha scritto diversi libri revisionisti. Lo rifarebbe?

«Io ho rotto un tabù, a sinistra mi hanno definito un revisionista, ma io me ne vanto».

Tempo fa sul Blog di Beppe Grillo ha sostenuto che Mussolini non fece uccidere Giacomo Matteotti. Ne è sicuro?

«Mussolini non aveva nulla a che fare con l’omicidio Matteotti, che fu ucciso dai fascisti che volevano impedire a Mussolini di fare un governo coi socialisti. Tenga presente che eravamo nel 1924, prima della svolta autoritaria. Mussolini ripeteva che gli avevano gettato il cadavere di Matteotti tra i piedi. Uno storico serio ha il dovere di spiegare che Mussolini non aveva nessun vantaggio dall’assassinio di Matteotti».

Una previsione: domani per il 25 aprile si riempiranno le piazze?

«In piazza andranno in pochi, la retorica della Liberazione e della Resistenza è finita».

E Foscolo suggerì il politically incorrect, scrive Aldo Bello. Se ne stavano lassù, tutti e quattro, gomito a gomito, sorridenti e benevoli: Cavour, Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele vegliavano dall’alto dei cieli e dei salotti buoni sulle sorti dell’Italia unita, dimentichi di tutto ciò che li aveva divisi quando erano vivi. Così, almeno, li dipingeva l’oleografica mitologia risorgimentale. Una bella favola, naturalmente, di quelle che gli italiani amavano sentirsi raccontare. Il punto è: quanto a lungo è lecito credere nelle favole? Non c’è un momento in cui, riflettendo sul passato, lo si deve ripercorrere criticamente, senza nascondersi più nulla, e soprattutto senza cadere nella politicizzazione tipica degli storici italiani? In ultima analisi: è lecito, ed è giusto, sbarazzarsi una volta per tutte dei miti storici nazionali, si chiamino Cavour o Mussolini, Risorgimento o Resistenza? Il nodo gordiano ha un nome: revisionismo. Attaccato dalla storiografia di sinistra (ma difeso a oltranza da Paolo Mieli), l’aborrito revisionismo torna a far parlare di sé. Era già accaduto, tanto per non andar lontano, con la storia italiana raccontata da Montanelli, e più recentemente con quella dei Savoia narrata da Del Boca e dell’identità civile degli italiani, rivisitata da Umberto Cerroni. Da poco, però, è uscito un libro scritto a più mani (Belardelli, Cafagna, Galli della Loggia e Sabbatucci), dal titolo Miti e storia dell’Italia unita, che ha dato un’indicazione precisa: è necessario sgomberare la storiografia dalle falsificazioni dovute all’egemonia della sinistra ideologica. Punto di domanda: tutti cattivi gli eredi di Nenni e di Togliatti? Non si può essere apodittici fino a questo. Si tratta comunque di abbattere le mitologie e di favorire il dibattito, senza più nascondersi, ad esempio, «che il consenso al fascismo fu alto, l’Italia venne liberata dagli angloamericani, la Resistenza fu un fenomeno minoritario». E’ vero che la storia è scritta dai vincitori, ma questo non significa che si debbano accogliere dogmaticamente le ricostruzioni interessate che «divinizzano gli avvenimenti», riordinano le vicende «secondo un percorso rettilineo, dove il bene è presente dall’inizio alla fine», o ancora «spostano nel futuro la bontà di quanto hanno fatto, cercandone insomma una conferma a posteriori». Ed è altrettanto vero, come sostiene Belardelli, che «i miti a volte svolgono una funzione importante ed è certo che in Italia Risorgimento e Resistenza abbiano favorito la coesione nazionale». Il guaio comincia quando «questi miti durano troppo a lungo», irrigidendosi in ideologie totalizzanti: «Allora, invece di far sì che tutti possano riconoscersi in una storia comune, si comincia a chiedere ai cittadini di inchinarsi acriticamente ai miti collettivi». Allora, i miti vanno maneggiati con circospezione, e soprattutto non vanno utilizzati come alibi. Tanto per fare un esempio, «il mito dell’antifascismo italiano di massa, e del popolo in armi, non poteva che prestarsi a un sentimento di autoassoluzione collettiva». Anche se Denis Mack Smith aveva già notato ironicamente che, dopo l’orribile macello di Piazzale Loreto, la popolazione italiana miracolosamente raddoppiò: ai 45 milioni di fascisti della prima ora e delle ore successive si sommarono 45 milioni di antifascisti dell’ultima ora. (E’ appena il caso di ricordare che tre libri editi nel giro di qualche mese hanno messo a nudo l’antifascismo d’accatto di quanti, poi, di antifascismo come rendita hanno vissuto: La cultura a Torino tra le due guerre, di Angelo d’Orsi; La cultura fascista, di Ruth Ben-Ghiat; e Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, di Helmut Goetz, nel quale si documenta che non giurarono solo 12 professori universitari su 1.225). Per completezza d’informazione, riferisco che è persino ovvio che non tutti ci stiano, a demitizzare. Secondo Gaetano Arfé, uno dei padri della storiografia socialista, «anche i miti fanno parte della storia, e hanno avuto la grande funzione di consolidare la coscienza nazionale. Penso, ad esempio, all’interpretazione di Croce: il Risorgimento come epopea sabaudo-garibaldina. E poi dobbiamo considerare i differenti revisionismi storici [...]. Ci fu, ad esempio, quello fascista contro l’Italietta». E un altro storico, il cattolico Giorgio Rumi, allarga il discorso: «Le lenti deformanti sono tante: c’è lo scorrere del tempo, l’interesse, la deformazione professionale, l’ideologia. Certo però che se per mito si intende il progetto politico e l’ascendenza intellettuale, il sentimento e il risentimento, bisogna ammettere che tutto questo pesa». Secondo Rumi, la verità è che «la storia moderna è ormai passata dall’età dei notabili e dei professori a quella dei giornalisti. Il che porta un certo svantaggio, l’anarchia, ma anche un vantaggio: il potere non può più imporre tanto facilmente la propria egemonia, o visione del mondo». Personalmente ringrazio, non in nome della corporazione, che include troppi diplomati in scienze confuse, ma nel ricordo di Federico Chabod, che mi ebbe allievo apprezzato alla “Sapienza”, ahimè, non ricordo più quanti anni fa! Tornando al nostro discorso: allora, avanti col revisionismo? Risponde Montanelli: «Potrei parlar male del revisionismo, io che non ho fatto altro per tutta la vita? Ai nostri storici sono mancate due cose: la capacità di raccontare e quella di demitizzare...». In una recente Storia dell’Italia contemporanea lo storico inglese Martin Clark ha notato che da noi «gli storici cattolici scrivono una storia ossequiente verso la Chiesa; gli storici marxisti scrivono la storia dei sindacati e dei partiti dei lavoratori; gli storici liberali scrivono in lode dell’Italia liberale», e ha attribuito la connotazione politica della storiografia al «corporativismo» della società italiana. Punto di partenza corretto, nelle linee generali, ma conclusioni affrettate. La corporativizzazione, che pure esiste, ha scarsi rapporti con l’esistenza di una forte politicizzazione degli storici. Questa, infatti, ebbe origine nell’800, all’inizio del processo risorgimentale. Quando Ugo Foscolo esortava gli italiani a studiare la storia, compiva già un’operazione politica. Per i patrioti contemporanei era necessario costruire una tradizione che giustificasse la richiesta dell’indipendenza e dell’unità, e questo fu il compito degli storici. Alcuni svolsero anche una diretta e intensa attività politica: ad esempio, Luigi Carlo Farini, autore di una Storia d’Italia, nel 1859-60 ebbe incarichi di rilievo nell’annessione dell’Emilia e dell’Italia meridionale. Scrisse Farini: «Lanci la prima pietra colui il quale, versandosi col consiglio e coll’opera nelle cose degli Stati, può testimoniare che non parteggia». Fino al 1860, gli storici “parteggiarono” soprattutto per l’Italia, ma le divergenze tra monarchici e repubblicani, tra laici e neoguelfi, tra unitari e federalisti, tra rivoluzionari e moderati ebbero comunque sulla loro attività una rilevante influenza, che si accentuò dopo l’unificazione. Ci furono, come ha rilevato uno dei maggiori storici italiani, Walter Maturi, una scuola moderata e una scuola democratica. E ci furono anche storici “reazionari”, che guardavano con nostalgia ai Borbone. Già alle origini della vita unitaria dello Stato italiano, dunque, la storiografia fu di “partito”: per essa, da un lato c’era il Bene e dall’altro il Male, da una parte c’erano «gli eletti e dall’altra i reprobi, i delinquenti, o nel più indulgente dei casi, i matti e gli scervellati». Lo storico di partito, osserva Maturi, si scagliava spesso contro l’avversario politico «con la stessa foga con la quale un pubblico ministero addita ai giudici un accusato come nemico pubblico». Maturi descriveva i caratteri della storiografia risorgimentale, ma con ogni probabilità pensava ai colleghi contemporanei che si scontravano in battaglie scientifiche che avevano molto spesso un forte spessore partitico. Persino durante il fascismo le contrapposizioni non mancarono. Mentre Gioacchino Volpe fondava la scuola fascista, era ancora in piena attività uno dei maggiori rappresentanti della scuola storica monarchica, Alessandro Luzio. Questi voleva lo storico simile a un buon presidente di Corte d’Assise che dirigesse imparzialmente il dibattimento, pur senza mancare di enunciare le proprie convinzioni, per “orientare” la giuria. In realtà, si comportava ora come un pubblico accusatore, ora come un avvocato della difesa. Certo, durante il ventennio, il dibattito era quasi cifrato. Se Luzio, dovendo scegliere tra i Savoia e Cavour, si schierava per i primi, a difesa dello statista piemontese scendevano in campo gli storici liberali. A Mussolini Cavour piacque sempre poco, e celebrarlo, come faceva, per esempio, Adolfo Omodeo, poteva avere in quegli anni, almeno agli occhi degli iniziati, un significato antifascista. Più apertamente polemica era la posizione di un Nello Rosselli, che prima di cadere in Francia per mano di un sicario pagato dall’Ovra, pubblicò studi su Bakunin e sul socialismo italiano. Si capisce allora perché le polemiche storiografiche siano divampate nel dopoguerra, in un’atmosfera fortemente seguita da dure contrapposizioni ideologiche. Questo però non chiarisce il carattere partitico di ampi settori della storiografia italiana e non spiega soprattutto perché, con rare eccezioni, i comunisti abbiano preferito studiare il movimento comunista, i cattolici quello democristiano, e così via. Per capirlo, bisogna riflettere sulla connotazione etica assunta dai partiti italiani dopo il 1945. Essere comunista, democristiano o liberale significava non tanto accettare un programma politico, quanto avere una particolare concezione della vita, in cui in qualche misura rientrava anche un certo modo di considerare i fatti storici. Va detto che talora le contrapposizioni ideologiche, nelle figure ovviamente di maggior caratura, hanno registrato anche influenze non del tutto negative. Se hanno trasformato in parecchi casi gli storici in pubblici ministeri, hanno anche improntato la ricerca ad una passione civile che ha dato una connotazione positiva alla storiografia italiana. E ci sono stati anche i risultati scientifici. I lavori dei “Patrioti dell’800” (Luigi Carlo Farini, Vincenzo Cuoco, Cesare Balbo, Carlo Cattaneo), dei “Fascisti” (Gioacchino Volpe, Luigi Pareti), degli “Antifascisti” (Adolfo Omodeo, Luigi Salvatorelli, Gaetano Salvemini, Nello Rosselli), dei “Cattolici” (Arturo Carlo Jemolo, Gabriele De Rosa, Pietro Scoppola, Giorgio Rumi), dei “Marxisti” (Paolo Spriano, Ernesto Ragionieri, Franco De Felice, Enzo Santarelli) e dei “Liberali” (Renzo De Felice, Federico Chabod, Rosario Romeo, Ernesto Galli Della Loggia) hanno rappresentato complessivamente dei contributi importanti alla conoscenza della società italiana della seconda metà del XX secolo. Una corposa novità fu introdotta da Renzo De Felice, perché il suo interesse per la biografia di Mussolini fu quasi del tutto politicamente disinteressato: non era fascista quando cominciò a studiarla, non lo diventò quando la scrisse. Ma l’argomento bruciava, e diventò subito terreno di scontro fra destra e sinistra. C’è stata anche battaglia su altri argomenti: per esempio, sulla tesi del “Doppio Stato” (democraticamente costruito nella facciata, sostenuto da golpismo e complottismo di forze occulte nella realtà), sostenuta da Franco De Felice e Nicola Tranfaglia, e respinta come mitologia (e falsificazione della storia) da Galli Della Loggia e da Giuseppe Vacca. E c’è stata una rovente discussione sulla storia del comunismo italiano (esplosa dopo la pubblicazione del Libro nero, che è stato un best seller per parecchio tempo), non solo su quel che riguarda Togliatti, difeso dal suo biografo Aldo Agosti e attaccato da altri, come Elena Aga Rossi, ma anche per quel che concerne Gramsci, conteso da più parti, e da più parti ridimensionato.

Revisionista chi? Revisionista è colui che, sulla base di nuovi documenti e di nuovi punti di vista, mette in discussione una versione del passato discutibile ma seria. «Dunque, io non sono un revisionista»: parola di Sergio Romano, saggista, ex ambasciatore, con l’aggravante di essere giornalista che, interessandosi di storia, non è gradito all’accademico Rumi. Bene. Revisionista, in fondo, è chi mette a nudo i conformisti. Ma lui, Romano, fa di più: mette alla gogna i bugiardi: «In Italia vi è una larga area dell’intellighenzia che si attende qualcosa da chi esercita il potere: un posto, un riconoscimento, una carriera. Negli altri Paesi non è così. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, è molto più grande il numero di persone, nel mondo accademico e giornalistico, che non dipendono dal potere politico. La stessa Francia, che pure tanto ci somiglia, ha mantenuto un criterio di selezione meritocratica: chi ha frequentato le “Grandi Scuole” ha messo in casa un capitale di autorità e prestigio da cui nessun capo di Stato o di governo può prescindere». In Italia, invece, gli esponenti dell’intellighenzia hanno fatto riferimento soprattutto al Partito comunista e alla sinistra, e nessuno di costoro può sopportare di essere sconfessato nella propria storia passata: «La loro sensibilità è particolarmente acuta non tanto per quel che riguarda lo stalinismo, sul quale una revisione è stata fatta, bensì quando è in gioco il modo in cui è stata raccontata la storia dei dieci anni che vanno dal 1936 al 1945». Una storia in cui sinistra e Pci hanno dato prova di straordinaria coerenza democratica e antifascista: raccontata così, questa storia è una bugia. «Non è vero, infatti, che in quei dieci anni la storia dei comunisti sia stata coerentemente democratica e antifascista. Il loro punto di riferimento era l’Urss, e l’Urss si comportava, legittimamente, da grande potenza, con molta spregiudicatezza, cambiando campo quando riteneva di doverlo fare. Se all’inizio della guerra di Spagna il fronte era fascismo contro antifascismo, dal 1937 in poi i comunisti presero il controllo della situazione, eliminando i socialisti, gli anarchici, i sindacalisti, oltre ai preti e alle suore: si mossero in una prospettiva che non aveva più nulla di democratico. A partire da quel momento la guerra non fu più tra fascismo e democrazia, ma tra due versioni ugualmente totalitarie». Già nell’agosto del ‘39 l’Urss si era messa d’accordo con la Germania per la spartizione dell’Europa centro-orientale. E’ ovvio chiedersi che cosa sarebbe accaduto se, oltre ad impossessarsi di quella parte del Vecchio Continente, in quel momento l’Urss avesse controllato anche la Spagna. La Storia avrebbe sospeso il suo corso, se l’intera Europa fosse diventata un’unica “Repubblica Popolare”, un deserto bulgaro della politica, dell’economia, delle scienze e persino dell’arte? Eppure, nella mitologia ideologica italiana, per decenni quel deserto ci è stato rifilato come il paradiso sul quale vegliava la “Grande Madre Urss”, condizionando l’evoluzione politico-sociale italiana col blocco Dc-Pci. Non solo. Ancora oggi si stenta a leggere in chiaro, e con una visione oggettiva, che cosa fu lo “schema alleato della storia”, vale a dire la lettura del mondo che diede luogo all’Alleanza tra Stati Uniti e Urss nella seconda guerra mondiale. Mezza Europa, come abbiamo appena detto, fu consegnata a Stalin in funzione di quella grande alleanza, di un connubio che travolse l’intero continente. Lo si vide nel momento in cui Francia e Inghilterra furono obbligate a liquidare il proprio impero coloniale, considerato come imperdonabile colpa dell’Europa, nel momento stesso in cui il megaimpero sovietico, coloniale anch’esso, era presentato come bandiera della lotta al colonialismo occidentale. Allo stesso modo, ha prodotto storia non veritiera l’alleanza di una parte dell’ebraismo con una parte della sinistra. Io non so se questo 2000 rappresenti la fine di un secolo-millennio o l’inizio di un altro secolo-millennio. Lascio questi calcoli ai sofistici, perché ritengo il tempo una convenzione tutta umana. Ma credo che, se un’immagine c’è come linea di displuvio fra due epoche, come linea polare dell’una e linea aurorale dell’altra, è quella di Giovanni Paolo II che consegna a quello che noi chiamiamo il Muro del Pianto e che gli israeliani chiamano invece il Muro Occidentale il suo messaggio del “perdono”. Perdono per chi? Si è giocato parecchio sull’equivoco. Si è sostenuto, infatti, che la Cristianità «ha chiesto il perdono», e questo è vero, ma non è tutta la verità. Perché per bocca di Woityla la Cristianità ha simultaneamente «offerto il perdono». La parola profetica del Papa ha minato alla base la tragica equazione memoria storica uguale progetto di vendetta. Quella parte dell’ebraismo aveva deciso di raccontare il genocidio nazista come un avvenimento sottratto alle leggi della storia, affinché non perdesse il suo valore emblematico e risultasse l’espressione concreta di un’ostilità di fondo della società cristiana. Questa intenzione ha coinciso con la tendenza di una parte della sinistra di fare del nazifascismo una categoria storica permanente. Ma ora è più che mai inaccettabile che il mondo cristiano debba quotidianamente discolparsi dall’accusa di antisemitismo, così come è assurdo che le democrazie liberali debbano quotidianamente dimostrare di avere espulso il virus totalitario che avrebbero nel proprio Dna. Qualunque cosa scrivano le anime belle dell’ormai arcaico mondo radical-chic, l’arcipelago lager è altrettanto emblematico dell’arcipelago gulag. Ne hanno preso coscienza in Germania e, sebbene a decenni di distanza, in Russia. E non è un caso se ora gli Stati Uniti non scelgono come punto di riferimento in Europa gli antichi alleati dei conflitti mondiali del Novecento, ma proprio la Germania e la Russia. Non diceva Marx che i fatti hanno la testa dura? Intanto, mentre una parte degli storici nostrani continua a battersi sul confine tra storia e politica, un’altra parte, via via più consistente, formata specialmente da giovani, sta abbandonando questo terreno per spostarsi su quello delle scienze sociali, seguendo l’esempio dei medievisti e dei modernisti. L’abbandono della storia politica (partitica) per una più vasta storia della società in tutti i suoi aspetti (economia, demografia, stratificazioni e comportamenti sociali, mentalità) fa sperare che tra non molto le passioni civili non costituiranno più l’unica, fondamentale motivazione della ricerca. Non so dire se sia un bene o un male, ma è quantomeno una scelta del tutto comprensibile, dato il mediocre livello dell’attuale vita politica e dell’odierna cultura italiana.

Dibattito. Resistenza e revisionismo. "La politica contro la storia". Il libro di Paolo Mieli sul revisionismo. Le opinioni di Salvadori, Campi, Macrì, Perfetti, Rumi, Tranfaglia e Messori. Di Michele Brambilla.

Da una parte i buoni, dall'altra i cattivi: così siamo stati abituati, per molti anni, a leggere la storia. Buoni erano, per esempio, tutti gli artefici del Risorgimento italiano - i Savoia, Cavour, Mazzini, Garibaldi; e cattivi erano Pio IX e i Borbonì. Buono come il popolo italiano che aveva dovuto subire il fascismo, al quale si era poi ribellato con un movimento di massa chiamato Resistenza. Cattivi erano tutti i totalitarismi di destra, mentre quelli di sinistra erano - se non buoni nella realizzazione - perlomeno buoni nelle intenzioni. Una storia dogmatica, indiscussa e indiscutibile. Poi è arrivato Renzo De Felice, che ricordò il consenso popolare di cui il fascismo, a un certo punto, godette. Libri duramente e chiaramente antifascisti, quelli di De Felice; chi li ha letti lo sa. Eppure De Felice, solo per avere rotto lo schema fissato dalla storiografia dominante dopo il '45, è stato considerato un para fascista. Da quelle polemiche su De Felice - anni Settanta - molto tempo è passato, e da allora altri schemi storiografici sono stati ridiscussi, molti altri studiosi hanno cercato di reinterpretare la nostra storia, soprattutto dal Risorgimento in poi. Ma spesso a questi studiosi è stata appiccicata un'etichetta squalificante: l'aggettivo "revisionista" una sorta di marchio d'infamia affibbiato indistintamente sia agli storici seri che tentano di approfondire sia a personaggi inquietanti come i cosiddetti 'negazionisti'. Così siamo arrivati a una paradossale situazione: da un lato, il dibattito sulla storia è molto più vivace di vent'anni fa; dall`altro questo dibattito è viziato da una sorta di scomunica rivolta verso coloro che portano nuove interpretazioni del passato. A questo tema Paolo Mieli ha dedicato il suo nuovo libro, Storia e politica, che appena uscito da Rizzoli ha già provocato un vivace dibattito tra Sergio Romano, Lucio Villari, Luigi La Spina. Dino Cofrancesco e Stenio Solinas, e che venerdì scorso è rimbalzato in un acceso confronto al Salone del libro di Torino tra lo stesso Mieli e Denis Mack Smith. Secondo Mieli, questa scomunica che i custodi della storiografia ortodossa rivolgono ai "non allineati" è originata dal timore che un nuovo punto di vista sul passato possa comportare un nuovo punto di vista sul presente. Insomma: dal timore che la rilettura dei fatti di ieri possa avere una ricaduta politica sull'oggi. 

Scrive Mieli che questa paura, questo freno a mano tirato ai danni della libertà di ricerca storica è un fatto solo italiano: "Qui da noi, quel naturale sconfinamento della politica, quando non dalla Sinistra più ortodossa, genera, invece, un clima di sospetto e intolleranza".  Aggiunge Mieli: «Qui da noi l'intreccio tra politica e storia ha prodotto qualcosa di esiziale. Perché non si è risolto il fecondo rapporto tra l'ovviante mutevole punto di vista sul' oggi e il riesame delle vicende di ieri, bensì si è imposto come dogma del presente che restringe il campo visuale del passato. Come se ci dovessimo continuamente difendere da un pericolo. Dal rischio che una ricerca sia pure la più stravagante, la più bizzarra potesse mettere a repentaglio qualcosa di prezioso per il nostro vivere civile. Invece niente è più pericoloso di questo atteggiamento merito sanzionatorio». Mieli termina l'introduzione al suo libro con un appello: «Si aprano tutti i libri, si discutano con garbo le tesi più diverse dalle nostre. Si rifugga, come ha opportunamente esortato a fare Barbara Spinelli, dall' uso improprio e calunnioso dell'aggettivo "Revisionista". 

Massimo Salvadori, docente di Storia delle dottrine politiche all' Università di Torino, non è d'accordo con Mieli sul fatto che sia la Sinistra a scomunicare come "revisionisti" tutti coloro che portano nuovi punti di vista sulla storia: «lo credo che non abbia molto senso dire che la Sinistra si oppone a nuove interpretazioni storiografiche. Intanto perché oggi non esiste più una Sinistra ideologica che porta avanti una visione del mondo. Non c'è più il Pci che imponeva, con i suoi intellettuali organici, un'interpretazione marxista della storia. E poi ricordiamoci che molte rivisitazioni del passato sono venute, in questi anni, proprio da uomini di sinistra: pensiamo al discorso dì Violante sulla guerra civile del '43-45, e al libro di Pavone sulla Resistenza. «Detto questo» continua Salvadori, «sono d'accordo che sia assurda la connotazione negativa data al termine revisionista: la ricerca storica è per sua natura una continua revisione del passato. Ci mancherebbe che non si potessero mettere in discussione le tesi consolidate. Certo, non tutto è "revisionabile": quando sento dire che partigiani e repubblichini vanno messi sullo stesso piano, oppure che il Risorgimento ha cancellato l'eredità positiva del regionalismo, non posso non oppormi». 

Diverso il parere di una delle vittime di "quell' atteggiamento sanzionatorio" di cui parla Mieli: Alessandro Campi, ricercatore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Perugia e autore di una biografia di Mussolini pubblicata dal Mulino. Il libro cerca di comprendere il rapporto tra il fondatore del fascismo e la storia italiana; ma siccome è uscito nella collana diretta da Ernesto Galli della Loggia, uno degli storici scomunicati da una certa Sinistra, subito è stato messo all' indice dei testi inaccettabili. Da gente che, magari, il libro non lo ha neppure letto. «Il fatto è», dice Campi, «che c'è una cultura del sospetto. Si ragiona "per cordate": quello lavora con Galli della Loggia, se ha scritto del fascismo, chissà dove vuole andare a parare». Un sospetto, continua Campi, che avvelena il lavoro dello storico: «Se uno va a Mosca a cercare documenti sull'Unione Sovietica, subito c'è qualcuno che dice: ecco, è alla ricerca del colpo grosso per favorire la Destra. Ci si dimentica che uno storico scrive invece per la semplice ragione che sta facendo il suo lavoro. Sono d'accordo con Mieli: c'è una guerra sulla storiografia combattuta per fini di politica interna, attuale. Davvero un brutto clima: pensi che Bocca ha parlato di "pidocchi revisionisti". Sono scoraggiato: non si riesce a dialogare serenamente, vien voglia di ritirarsi, di starsene fuori». «Il risultato di questo clima», dice ancora Campi, «sarà che tra dieci-quindici anni la nostra storiografia sarà così indietro che, per studiare la storia d'Italia, bisognerà leggere i libri degli stranieri. Già oggi gli studi più avanzati sul fascismo vengono dal mondo anglosassone». Rimedi possibili? «Occorre che i personaggi più autorevoli dei due schieramenti, che per semplicità chiamo defeliciani e antidefeliciani, intervengano per dire «basta" e favorire un dialogo sereno».  Ma il dialogo non è facile. Proprio in questi giorni il settimanale Diario ha pubblicato un numero speciale intitolato «Libro di storia» e dedicato alle nuove interpretazioni degli avvenimenti italiani dal Risorgimento al fascismo. E un durissimo atto d'accusa proprio contro Mieli, Sergio Romano ed Ernesto Galli della Loggia. Nel sottotitolo, in copertina, si legge: «Esistevano i buoni, esistevano i cattivi. Ma adesso che è passato molto tempo, si rimescolano le carte...». Il seguito, e la risposta ai tentativi di questa rilettura chiamata «rimescolamento di carte», è scritto nell'editoriale del direttore Enrico Deaglio: «A noi sembra che, nella nostra storia, i Buoni e i cattivi si riconoscano abbastanza facilmente». Che bisogno c'è, dunque, di approfondire?  

«Il problema sollevato da Mieli é reale», dice Giorgio Rumi, docente di Storia contemporanea alla Statale di Milano. «In Italia c'é stato un pregiudizio favorevole alla Sinistra, evidente - più che nella storiografia in senso tecnico - nella sua vulgata, cioè nei libri di testo delle scuole, nelle enciclopedie, nelle trasmissioni televisive, nelle recensioni...». Troppo coinvolgimento ideologico, secondo Rumi. «Si tende a scrivere la storia del Novecento iscrivendosi idealmente a una certa parte della barricata. Come se fosse un obbligo morale il dover prendere posizione. Invece bisognerebbe avere più serenità, come se si studiasse il Medioevo. Ma è possibile la neutralità, per uno storico? «Non voglio dire che lo storico debba rinunciare ad avere un proprio sistema di valori. Però non deve fare il giudice: lo storico deve capire che cosa accadde e perché, non deve dare un giudizio etico». Rumi dice di essere d'accordo, con Mieli anche sull'eccessiva preoccupazione di una ricaduta sul presente: «Prendiamo il Risorgimento. A lungo è stato considerato come una rivoluzione mancata. Poi, quando è scoppiato il problema Lega, del Risorgimento è stata fatta una difesa rabbiosa. Anche per il periodo 1943-48 si è parlato di rivoluzione mancata, si è discusso per anni di quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Ma che senso ha? Lo storico non è un tribunale che giudica gli antenati». 

Secondo Paolo Macrì, docente di Storia contemporanea all'Università Federico II di Napoli, è piuttosto «ingenuo» temere che una rilettura della storia possa provocare conseguenze politiche sul presente. «La commistione tra storia e politica c'è sempre stata, pura o impura che fosse. In Italia, non ciò, dubbio che sia esistita per anni un'egemonia marxista che ha determinato un senso comune della storia. Quindi, semmai è stata la Sinistra a fare, a lungo, un uso pubblico, e politico, della storia. Perché dovrebbe ora denunciare come strumentale un nuovo filone storiografico di orientamento liberale?». Anche Macrì, dunque, è d'accordo, con Mieli quando dice che chi cerca di «ripensare la storia» è guardato con sospetto: «è un fatto, che negli ultimi dieci quindici anni una serie di interpretazioni storiografiche siano state messe in discussione, e che a queste novità la mia categoria abbia reagito in modo un po' corporativo».  

Francesco Perfetti, docente di Storia contemporanea alla Luiss di Roma e direttore del periodico Nuova Storia Contemporanea, é naturalmente d'accordo con il fatto che lo storico deve, per sua stessa vocazione, compiere sempre una revisione del passato. Ma pensa anche, a differenza di Salvadori, che sia stata proprio la storiografia di sinistra a inventare il termine dispregiativo di «revisionista». «Un termine», dice, «che io mi batto per cancellare dal vocabolario storiografico. La Sinistra, con quell'aggettivo, ha cercato di assimilare concetti molto diversi tra loro: negazionismo, oblio, revisionismo. Ogni nuova interpretazione è stata messa nello stesso pentolone. Ma se è vero che il Pci non c'è più, qual è questa Sinistra intollerante nei confronti del nuovo in campo storiografico? «Non è, stata solo la Sinistra marxista. C'è stata anche la Sinistra azionista. Sono tutte e due posizioni ideologiche che tendono a dare un giudizio moralistico, e non morale, sulla storia. Mentre fare ricerca storica vuol dire solo indagare sui fatti e cercare di interpretarli. Anche Marc Bloch, che morì fucilato dai nazisti, sosteneva che lo storico non deve fare mai il giustiziere, ma semplicemente comprendere». 

Libertà di ricerca, dunque. Lo dice anche Nicola Tranfaglia, docente di Storia dell'Europa dell'Università di Torino e uomo di sinistra. Ma Tranfaglia fa una precisazione: «Voglio distinguere tra chi fa nuove ricerche, scoprendo nuovi fatti e nuovi documenti, e chi invece - come molti hanno fatto in questi anni - presentano solo nuove interpretazioni, nuove opinioni. I primi sono i benvenuti, anche se i documenti e i fatti che portano conducono a conclusioni diverse da quelle che io stesso potevo pensare. Dei secondi, invece, non mi voglio neppure occupare». Ma é vero, come dice Mieli, che molta storiografia é bloccata per un eccessivo timore di ricadute politiche sul presente? Tranfaglia taglia corto: «Preoccupazioni per il presente? Non ne ho. Faccio lo storico, non il politico». 

Dunque la storia può essere ridiscussa solo con la scoperta di nuovi documenti? Vittorio Messori, autore di best-seller religiosi ma anche di fortunati saggi come Pensare la storia, non è d'accordo con Tranfaglia: «Non c'è affatto bisogno di nuovi documenti per ridiscutere certe interpretazioni storiografiche che avevano la pretesa di essere definitive: basta ricordare fatti evidenti, già noti, ma purtroppo rimossi, cancellati dalla storiografia dominante». Qualche esempio? ce ne sarebbero migliaia. Prendiamo La "lettura" del Risorgimento. E stato addirittura inventato un nuovo aggettivo, "borbonico", per indicare qualcosa di arretrato, di inefficiente. Eppure, con i Borboni il Sud era molto più florido che con lo Stato Unitario: Napoli era la prima città industriale della penisola, e non esisteva emigrazione verso l`estero, emigrazione che è cominciata solo dopo l'Unita. C'è bisogno di nuovi documenti per ricordare queste cose? O per smentire l`iconografia risorgimentale classica, che raffigura sempre Cavour, Mazzini e Garibaldi uno accanto all'altro, come fossero una cosa sola, mentre Cavour aveva condannato a morte Mazzini? E c'è bisogno di nuovi documenti per dire che la legge elettorale proposta da De Gasperi, e demonizzata dai comunisti come "legge truffa", era una legge in vigore in tutte le più moderne democrazie, una legge che avrebbe garantito la governabilità? O per dire che Gramsci, il cui nome é da decenni sulla testata dell'Unita, morì scomunicato dal Pci? E come mai le decine di Istituti storici per la Resistenza hanno impiegato quarant'anni per scoprire il massacro di Porzus, e hanno taciuto su altri crimini commessi dai partigiani e noti a tutti? Insomma, basta ricordare i fatti. Cosa che la vulgata imposta dalla Sinistra nel dopoguerra non ha voluto fare». La storia scritta dai vincitori non è attendibile, vuol forse dire Messori? «Non direi. Perché i comunisti sono stati vinti, non vincitori. Vinti dal voto del 1948, e poi dalla caduta del Muro. Eppure in Italia per decenni la storia l'hanno scritta loro, e oggi c'è ancora una certa Sinistra che demonizza chiunque cerchi di ripensare il passato». (Sette, settimanale del Corriere della Sera, 24 Maggio 2001) 

Ma non tutti i “vinti” hanno torto. Ieri Paolo Franchi, sul Corriere della Sera, metteva in guardia dal tentare qualsiasi “revisionismo storico” sul Risorgimento per non cadere nel “ridicolo” e non mettere in pericolo lo stesso Stato nazionale. In pratica Franchi scomunica il cosiddetto «uso pubblico della storia». Gli consiglierei di leggersi qualche libro di (…) (…) Paolo Mieli, storico anticonformista nonché direttore del Corriere della sera su cui lui scrive. Mieli infatti si spinge da anni, con intelligenza, proprio verso quei «lidi fino a qualche tempo fa inimmaginabili» che paventa Franchi. L’attuale direttore del Corriere è arrivato a sottoporre ad analisi critica – per usare le parole di Franchi – proprio i «miti fondativi della storia nazionale». Anche perché è davvero stravagante che chi fa professione di laicità voglia imporre il bigottismo dei miti, che diventano dogmi storiografici intoccabili. Nel volume intitolato “Storia e politica. Risorgimento, fascismo e comunismo”, Mieli inizia proprio così: «Ma perché la Sinistra italiana (diciamo meglio: parte della Sinistra) si accanisce a tal punto contro il cosiddetto uso pubblico della storia spingendosi a dar la caccia agli untori anche nel proprio campo? Davvero pensa che esista qualcuno che abbia ordito una congiura per mandare all’aria lo Stato democratico e repubblicano, rivisitando criticamente il Risorgimento, il fascismo e il comunismo?». Poi dimostra che da 2.500 anni «politica e storia sono sempre andate assieme», aggiunge che da 2.500 anni «il mestiere dello storico» è sempre stato di «revisionare criticamente» ciò che è stato tramandato. E conclude – Mieli – che i problemi di oggi derivano proprio «da quel che è rimasto in ombra nella discussione su come è nata l’Italia». Per esempio: il dibattito storiografico sul Risorgimento fu quasi del tutto sordo alle ragioni dei vinti». Infine Mieli, nel volume “Le Storie. La storia” cita un convinto risorgimentale come Alfonso Scirocco che scriveva: «Gli interrogativi sulle scelte operate nel 1861 e confermate nei decenni successivi sono legittimi. Nascono da un’esigenza attuale, quella di trarre dall’indagine intorno alle radici dell’Italia odierna risposte convincenti sulla debolezza del nesso nazione-società-Stato, che sembra non avere avuto fin dall’inizio la saldezza desiderata». Anzi, il suddetto direttore del Corriere concludeva uno di questi suoi saggi affermando che «le divisioni sono benefiche» e auspicava che, anche sul Risorgimento, «ci si possa sanamente dividere e contrapporre senza avvertire il pericolo che vada a morire l’intera dialettica democratica». Non tutti i vinti hanno torto. Esattamente il contrario dell’editoriale di Franchi che si chiudeva proprio evocando il rischio della “morte” (di che?) a causa del «revisionismo storico». Un’ultima puntura polemica a Franchi. Sia l’editorialista, sia altri storici in questi giorni hanno fatto di tutta l’erba un fascio, accomunando gli sconfitti del 20 settembre 1870 a Porta Pia, agli sconfitti del 1945. Mi sembra ingiusto e assurdo. Non tutti i vinti hanno torto. I nazisti erano un esercito occupante che, fra l’altro, si macchiò di stragi orrende. Mentre lo Stato Pontificio era uno Stato Sovrano, il più antico e anche più italiano di quello piemontese (nel quale i Savoia parlavano addirittura francese). Quindi nel 1870 vinsero gli occupanti e gli aggressori. Nel 1945 vinsero i liberatori. C’è una bella differenza. Non confondiamo storie diverse. E mi pare giusto che dopo 130 anni Il Comune di Roma possa ricordare anche i romani che difesero lo Stato Pontificio (peraltro Pio IX aveva dato ordine di resa per evitare inutili spargimenti di sangue). Personalmente non ho nessuna nostalgia del “Papa Re”. Non solo perchè un certo Socci Ettore combattè a Mentana fra i garibaldini. Ma soprattutto perché ritengo – come disse Paolo VI – che sia stata provvidenziale la fine del potere temporale dei Pai, che già Pio IX sentiva come una zavorra equivoca per la missione spirituale e universale della Chiesa (come si vede Dio scrive diritto anche su righe storte).

Questo però non significa tacere sul fatto che:

questo stato pontificio era del tutto legittimo  (come e più degli altri stati italiani: il Regno delle Due Sicilie, quello piemontese e il Granducato di Toscana);

il potere temporale dei papi nascendo fu la salvezza dell’Italia: lo ha dimostrato ino storico anticlericale come Edward Gibbon;

l’invasione dello Stato pontificio da parte dello Stato piemontese, con la confisca di una quantità immensa di beni appartenenti alla Chiesa ( e la persecuzione dei religiosi, cacciati dai conventi) è una clamorosa ingiustizia e non ha alcun fondamento giuridico e morale;

i Patti Laterananensi sono stati solo un parziale risarcimento;

la conquista militare piemontese degli altri stati italiani è stato il peggior modo di fare l’Unità d’Italia. Perché l’hanno fatta contro gli italiani.

Così ci è stato inflitto uno stato centralista e burocratico, che ha defraudato il Meridione (e non si è più ripreso), che si è fondato sul debito pubblico e ha dato inizio ad una industrializzazione assistita che ha viziato sin dalla nascita la nostra economia. E’ infine lo Stato etico ed elitario del Risorgimento (dove votava una piccola minoranza) che ci ha portato all’immane tragedia della Grande Guerra e del fascismo. Tragedie dovute al fatto che la casta risorgimentale al potere in sostanza tenne fuori dallo Stato gran parte della nazione che era contadina e cattolica. “l’Italia”, ha scritto Ernesto Galli della Loggia, “è l’unico paese d’Europa (e non solo dell’area cattolica) la cui unità nazionale (…) sia avvenuta in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa Nazionale”.  Antonio Socci su “Libero” 23 settembre

Storiografia del Novecento. Nel dopoguerra italiano abbiamo avuto studi storici molto ideologizzati, scrive Luciano Atticciati (febbraio 2017). La storiografia italiana degli anni del dopoguerra presenta aspetti controversi. Una parte degli storici ha indagato sugli aspetti terribili del Novecento, sull’affermarsi dei regimi totalitari, e delle tragiche conseguenze che hanno determinato, mentre altri (soprattutto storici marxisti) hanno limitato il loro campo di ricerca agli aspetti ideologici e programmatici dei movimenti politici, trascurando sostanzialmente l’azione concreta dei numerosi regimi del secolo appena concluso. Antonio Gramsci riteneva in contrasto con Benedetto Croce che il Risorgimento fosse stato un evento gestito da moderati che non aveva alterato in profondità l’assetto sociale del Paese, e che i Governi liberali (espressione di una «borghesia arretrata», avrebbe aggiunto Giuliano Procacci) fossero responsabili del mancato sviluppo economico del Paese, in particolare riteneva Gramsci che il Risorgimento fosse stato una «rivoluzione agraria mancata». Denis Mack Smith, storico inglese ma da sempre attento alle vicende italiane, esprimeva il suo giudizio negativo su Cavour, ritenuto un freddo politico spregiudicato privo di grandi idealità. Altri storici hanno addirittura considerato lo statista piemontese il Bismark italiano, cioè un uomo che aveva a cuore la grandezza del Paese, l’equilibrio fra le potenze europee, ma con scarso interesse per la libertà e il progresso. Secondo Giacomo Perticone lo stato unitario solo apparentemente poteva definirsi democratico, altri come lo storico Giorgio Rochat negli anni Settanta rincaravano la dose, parlando di una sostanziale continuità fra lo stato liberale postunitario e il regime fascista. Altri storici, sempre delle stesse tendenze, come Mario Tronti, affermavano sia riguardo alla nostra storia passata che a quella recente repubblicana che fosse fallito l’obiettivo di portare le masse all’interno dello stato. Tutti si incentravano sull’idea che lo stato avesse come finalità primaria, più che la libertà e i diritti, il provvedere ai bisogni materiali delle classi subalterne. Tali opinioni non sono state considerate valide dagli storici liberali, in particolare da Rosario Romeo, Luigi Salvatorelli e Giovanni Spadolini. Il primo riteneva che sotto il profilo politico costituzionale l’Italia fosse un Paese avanzato. Sicuramente nell’Ottocento il nostro Paese godeva di un Parlamento con poteri maggiori rispetto a quelli di Germania e Austria, e di una libertà di stampa superiore a quella della Francia di Napoleone III. Per quanto riguarda l’economia, l’Italia soffrì per la mancanza di carbone, un bene allora assolutamente vitale per l’industria, e per la mancanza di banche di grandi dimensioni in grado di gestire i notevoli investimenti necessari per il decollo dell’industria, ma i provvedimenti legislativi andavano comunque a favore dello sviluppo e anche precedentemente al decennio 1890, periodo dal quale si fa partire l’industrializzazione del Paese, la crescita era tutt’altro che assente. Sul collegamento fra Italia liberale e fascismo può essere interessante quanto scritto da Gaetano Salvemini. Lo studioso mise in luce in Le origini del fascismo. Lezioni di Harward che il fascismo rappresentava un movimento dei ceti medi che per un certo periodo si erano spostati su posizioni di Sinistra moderata contraria alla ristretta classe dirigente del Paese, ma che si sentirono successivamente minacciati dall’estremismo socialcomunista del primo dopoguerra. Inoltre un contributo essenziale all’affermarsi del fascismo era dato (opinione condivisa anche da Filippo Turati) dalle violenze dell’estrema Sinistra negli anni del Biennio Rosso. Tali eventi farebbero pensare che il fascismo rappresentasse qualcosa al di fuori della tradizione liberale, del resto il fatto che molti leader del fascismo provenissero da classi sociali molto diverse da quelle da cui provenivano i liberali, e che molti erano stati in precedenza esponenti dell’estrema Sinistra, confermerebbe la non continuità tra il Ventennio e il precedente stato liberale. Dove la comunità degli storici negli anni Settanta ha dato decisamente il peggio di sé è stato sulla questione De Felice, lo storico venne contestato non perché ciò che scriveva non fosse documentato, ma perché «non abbastanza antifascista». Nell’aprile 1975 un editoriale su «Italia Contemporanea» firmato da Ernesto Ragionieri, Claudio Pavone, Guido Quazza, Enzo Collotti parlava del lavoro dello storico contestato come «tendente a spogliare il fascismo dei suoi tratti di reazione di classe... posizioni qualunquistiche che finiscono per diventare oggettivamente filofasciste... in ogni caso esercitano una funzione diseducativa». La vicenda De Felice ha mostrato lo spirito politicizzato e intollerante di una parte degli storici degli anni Settanta, ed insieme le notevoli confusioni sullo studio storico, attività rigorosamente fondata su fonti storiche, che non ha nulla a che vedere con il sostegno di teorie a priori. Il giudizio comune negli anni precedenti all’opera di De Felice voleva che il Governo Mussolini sebbene fosse stato eletto con una vasta maggioranza parlamentare, fosse un regime imposto da una ristretta minoranza di uomini violenti contro la volontà della maggioranza dei cittadini. Il giudizio marxista riteneva che il fascismo fosse stato «il braccio destro del capitalismo» impegnato a contrastare violentemente le richieste dei lavoratori. De Felice e George Mosse misero in luce la mobilitazione delle masse, il ricorso alle organizzazioni a carattere popolare operato dal fascismo, qualcosa che rendeva questo movimento politico in qualche modo più simile ai gruppi della Sinistra che ai conservatori o ai liberali di Destra portati ad intendere la politica in maniera tradizionale come azione di professionisti di alto livello. Nel campo economico, il regime fascista si pose su posizioni diverse da quelle del libero mercato vicino a quelle stataliste, mentre alcuni dei suoi principali esponenti culturali come Giovanni Gentile e Alfredo Rocco, tendevano (come molti a Sinistra) a sacrificare gli interessi e le aspirazioni dell’individuo rispetto a quelli dello Stato. Quello che oggi molti si chiedono, storici e uomini di cultura in genere, è come sia stato possibile che eventi notevoli che hanno determinato la morte di migliaia di Italiani siano stati taciuti. L’occupazione di Trieste, le foibe, le vendette partigiane, la costituzione di gruppi armati da parte del Partito Comunista Italino, sono eventi in grado di cambiare la comprensione del Novecento italiano. Più in generale c’è stato un comportamento fortemente reticente sul comunismo internazionale, per molti i suoi crimini costituivano ben poca cosa rispetto a quelli commessi dai nazisti, sulla base di ragioni non sempre chiare. La guerra fredda, che vedeva da una parte le principali democrazie e dall’altra gli aggressivi regimi totalitari, diveniva una semplice contrapposizione di imperialismi. Nei numerosi scritti di Aldo Agosti o di quelli di Ernesto Ragionieri sul Partito Comunista Italiano, stilisticamente ineccepibili, non si parla mai dell’organizzazione armata espressamente prevista dal programma del 1921. Analogamente si taceva sui comunisti italiani fuggiti a Mosca e uccisi su indicazione dei loro dirigenti alle autorità sovietiche, eppure Paolo Spriano e Miriam Mafai (studiosi ed ex dirigenti del Partito Comunista Italiano) ne avevano parlato anche all’epoca. Lo storico Giorgio Galli mette in luce alcune carenze del Partito Comunista Italiano e dello stesso Antonio Gramsci in fatto di democrazia, ma anch’egli tace del tutto sui crimini commessi da Togliatti contro i compagni «indisciplinati», italiani e non, che si erano rifugiati in Russia. Il cambiamento degli studi storici avvenuto in questi anni costituisce sicuramente un evento notevole, gli studi storici hanno affrontato la questione del totalitarismo e del comunismo nel Novecento non più basandosi su dichiarazioni programmatiche, ma affrontando i comportamenti reali di quei regimi. Tale situazione ha portato molti, spesso esponenti della cultura estranei agli studi storici, ad una assurda polemica sul cosiddetto «revisionismo». Per costoro la storiografia passata sarebbe qualcosa che non poteva essere oggetto di cambiamento e le questioni politiche avrebbero dovuto prevalere sullo studio delle fonti storiche. Quella cultura chiusa e prolissa espressa da intellettuali non privi di atteggiamenti di superiorità, sembra oggi non solo tramontata ma crollata su se stessa con le sue omissioni e forzature. Dopo il revisionismo degli anni Novanta, oggi sembra prevalere comunque un atteggiamento di rimozione, per alcuni nel Novecento il comunismo considerato in precedenza l’evento principale del secolo, è stato solo un piccolo incidente o una ideologia che nella sua esuberanza aveva commesso qualche eccesso. 

QUELLI CHE SONO RAZZISTI...A RAGIONE.

La Madonna bendata. L'offesa sacrilega tollerata da Milano. Gli anarchici occupano un palazzo, esposta una statua sfregiata e uno striscione osceno, scrive Paola Fucilieri, Domenica 14/05/2017 su "Il Giornale". Eventi religiosi eccezionali, storici, altri scaturiti da gesti filantropici, ma anche veri e propri oltraggi da anticristo, peraltro ben tollerati dalla borghesissima Milano dell'Expo, delle visite degli ex presidenti e degli eventi internazionali. Una metropoli che qualcuno si avventura a chiamare persino mitteleuropea, dimenticando quanto spesso la definizione possa far rivoltare nella tomba i pensatori e gli intellettuali dei paesi dell'Europa centrale. Per la statua di una Madonna «famosa», che per la prima volta ieri è arrivata a Milano addirittura da Fatima, infatti, ce n'è un'altra nuova di zecca che ha fatto ritorno al Parco delle Cave dopo essere stata incendiata e distrutta qualche mese fa. Purtroppo però è la terza che scandalizza e ripugna. Penalizzata com'è, vilipesa, violata dal «solito» gruppetto di anarchici di area sessista e anticlericale. Che l'amministrazione comunale, nella sua grande indulgenza in puro stile radical chic, accetta benevola dentro il proprio grande ventre in continua evoluzione verso il futuro. Tra i tanti figli di cotanta madre ci sono appunto anche questa trentina di integralisti, uomini e donne sui 40 a o poco più giovani, appartenenti all'area radicale dell'anarchia di strada, cioè dei cortei, delle manifestazioni pubbliche. Sono loro che da otto mesi occupano abusivamente un palazzo di tre piani di proprietà dei Padri Passionisti in via Gadames 9 (zona Certosa, a nord di Milano). E non solo se ne stanno lì senza che nessuno, finora, si sia preoccupato di mandarli via. Ma offendono senza scrupoli la Madonna. La cui statua, trovata nella villa, hanno piazzato su una estremità del balcone della facciata del terzo piano. E dopo aver bendato la Vergine Maria, hanno corredato la loro «opera» con una frase ingiuriosa a sfondo sessuale, scritta a caratteri cubitali su un lenzuolo esposto sul medesimo balcone, accanto al simbolo dell'anarchia. «Un atto sacrilego e assurdo» ha spiegato ieri in un articolo, denunciando l'oltraggio all'opinione pubblica, il settimanale Famiglia Cristiana. La cui redazione è stata contattata da parrocchiani della zona, colpiti e offesi da quanto accade in via Gadames. «Siamo curiosi di sapere cosa ne pensa il prefetto Lamorgese, così solerte a invocare la legalità. E dove sono i cattolici del Pd, come l'assessore Marco Granelli» sottolinea il capogruppo di Fdi-An in Regione Lombardia, Riccardo De Corato. «Ma uno così schierato - penseranno i compagni - cos'altro può dire?». Alcuni commenti alla citazione di Dante da parte di ignoranti internauti mi hanno lasciato molto perplesso.

Comunisti tolleranti contro i blasfemi, detrattori della fede e delle tradizioni nazionali e intolleranti contro il buon senso.

Accoglienza e legalità. Serracchiani ha detto una pura verità: il tradimento dell’ospite ci ferisce di più, scrive Mario Ajello il 13 maggio 2017 su "Il Messaggero". Dante, che era il più saggio di tutti e naturalmente immune dalla demagogia savianea e dall’ipocrisia del politicamente corretto, avrebbe dato ragione a Deborah Serracchiani. L’Alighieri inserisce i traditori degli ospiti nel canto nono dell’Inferno e considera la loro colpa particolarmente grave. Anche gli americani, negli anni delle nostre grandi ondate di emigrazione, giudicavano i reati e le delinquenze, anche mafiose, compiute dagli italiani odiose al massimo grado.

“Dante parla dei traditori degli ospiti, non dei tradimenti degli ospiti”. Alla malafede o all’ignoranza non c’è mai fine. Nei miei testi e nei miei video mi astengo sempre dall’esprimere mie opinioni, potendo esser tacciato di mitomania, pazzia o ignoranza. Cito sempre le opinioni degli altri, ritenute meritevoli. Non mi astengo, però, se sollecitato, a far comprendere i concetti enucleati a chi non ha percepito il senso dei contenuti. Nello specifico il concetto non è il tradimento della fiducia nei confronti di parenti, amici, ecc.  Il concetto di Mario Ajello è l’ingratitudine e l’irriconoscenza verso i benefattori. Spiego meglio.

Dante e le figure retoriche.

L’allegoria (dal greco allon "altro" e agoreuo "dico" = "dire diversamente"), è la figura retorica (di contenuto) mediante la quale un concetto astratto viene espresso attraverso un’immagine concreta. È stata definita anche "metafora continuata". Tra le allegorie tradizionali è celeberrima quella della nave che attraversa un mare in tempesta, fra venti e scogli ecc.: rappresenta il destino umano, i pericoli, i contrasti ecc., mentre il porto è la salvezza. Il problema della comprensione delle allegorie dipende dalla loro maggiore o minore codificazione. Esempi: Nella Divina Commedia, Dante racconta un viaggio immaginario nel mondo dell’aldilà, che significa allegoricamente l'itinerario di un’anima verso la salvezza cristiana. Tutto il poema è infatti visto come un’allegoria.

La metafora. - Figura retorica consistente nell'usare in luogo del vocabolo proprio un vocabolo diverso attinto ad altro campo semantico. Il trasferimento del vocabolo da un campo a un altro campo semantico (di qui il termine latino di translatio che designa tale figura, e il termine consueto di traslato) non deve tuttavia essere imposto dall'esigenza di designare un oggetto o un concetto mancanti di denominazione propria, altrimenti si verifica quella necessaria metafora chiamata abusio o catacresi. La metafora assume in Dante, fra le figure retoriche, un posto privilegiato, sia per essere enormemente profusa, sia per il fatto di costituire uno dei punti di forza del suo stile realistico e immaginoso insieme e il segno più evidente del suo modo di concepire tutto il reale intrinsecamente connesso da un'infinita serie di corrispondenze e di analogie.

XXXI Canto. Il cerchio nono è interamente occupato da un lago ghiacciato, il Cocito appunto, che scende verso il centro; la crosta di ghiaccio è cosi spessa e dura che neppure il crollo di un monte potrebbe minimamente scalfirla. Il lago è diviso in quattro zone: Caina, Antenora, Tolomea, Giudecca; Dante e Virgilio attraversano in questo canto le prime due. I dannati sono i traditori dei parenti, della patria, degli amici, dei benefattori, ossia i colpevoli di frode esercitata verso chi si fida; sono immersi più o meno profondamente, a seconda della loro colpa, nel lago ghiacciato diviso, appunto, in quattro zone concentriche: la Caina (traditori dei parenti), Antenora (tradito­ri della patria o della parte), Tolomea (traditori degli amici o degli ospiti), Giudecca (traditori dei benefattori).

Canto XXXIII. Nel cerchio nono, nella seconda e nella terza zona (la Tolomea), l’unica zona in cui le anime possono cadere prima della morte fisica, sostituite sulla terra, nel corpo che vive ancora, da un demone.

Canto XXXIV. Ci troviamo nel cerchio nono, nella quarta zona, alle sette e mezzo di sera del 9 aprile 1330, sabato santo; nell’emisfero australe corrispondono alle sette e mezzo del mattino del 10 aprile. I traditori dei propri benefattori sono nella quarta zona, detta Giudecca, nome coniato da Dante ma in uso allora, in alcune città italiane, per designare il Ghetto. Battuti da un forte vento, provocato dalle ali di Lucifero, i dannati sono interamente confitti entro il ghiaccio, come pagliuzze attraverso il vetro, distesi o diritti o stravolti. Dante scorge Lucifero (il più grande ingrato e traditore verso Dio Benefattore) che sta in una buca da cui si discende al centro della terra, ed è sospeso nel vuoto: è mostruoso, ha sei ali e tre facce, una rossa, una gialla ed una nera.

Spero di essere stato esauriente ed utile. Ho spiegato che già ai tempi di Dante si condannava l’ingratitudine e l’irriconoscenza nei confronti dei benefattori, riportando i passi. La risposto con ripicca: «la teoria...il concetto...Dante…i gironi...alla fine sono tutte parole e basta. Una violenza è una violenza. I politici sono i politici. Gli stranieri sono gli stranieri. Le donne sono le donne. Gli uomini sono gli uomini. E’ tutta una miseria per creare scompiglio». Io, a differenza di chi è ideologizzato, non divido il mondo in maschi o femmine, immigrati o cittadini, cristiani o mussulmani, ecc. ecc. Gli interlocutori, per me, sono solo persone che meritano rispetto e che sono obbligati al rispetto, a prescindere dal sesso, razza, opinioni politiche o religiose. Quindi la violenza e l’offesa è sempre violenza ed offesa contro la persona. Poi da giurista dico che ci sono le aggravanti. Mi spiace sono un liberale e come tale aborro ogni forma di ideologia vetusta totalitaria e partigiana di divisione e distinzione. Sia di destra che di sinistra.

La Serracchiani e lo stupro: ma che c'entrano destra e sinistra? Le parole del governatore friulano sono state strumentalizzate a fini politici in un cliché che non ha senso di esistere, scrive Marco Ventura il 13 maggio 2017 su Panorama. "È evidente che la gente non è seria quando parla di sinistra o destra". Bisognerebbe spillarle sulla parete, in tutte le stanze di partito e in tutte le redazioni dei giornali, quelle parole di buon senso ma proprio per questo anarchiche di Giorgio Gaber. Cos’è la destra, cos’è la sinistra. Fare il bagno nella vasca è di destra, fare la doccia di sinistra. Il pacchetto di Marlboro è di destra, di contrabbando di sinistra. La minestrina di destra, il minestrone di sinistra. I blue-jeans di sinistra, con la giacca virano a destra. Il culatello è di destra, la mortadella di sinistra. "Destra-sinistra basta!", chiudeva il refrain finale di Gaber. La sua conclusione? Malgrado tutto, le ideologie non sono morte. Ma tra le finte contrapposizioni che Gaber elencava con quella sua ironia controcorrente, ce n’è una che suona più verosimile e attuale delle altre. “Il vecchio moralismo è di sinistra, la mancanza di morale è di destra”.

Specie se a "moralismo" sostituiamo "politicamente corretto". Che ovviamente è di sinistra. Tutte le volte che qualcuno viola il "politicamente corretto", viene subito arruolato nella "destra". È successo questo alla governatrice del Friuli, Debora Serracchiani, rea di avere introdotto l’aggravante morale e politica dello stupro, "più inaccettabile" se a commetterlo è un richiedente asilo. Per essere precisi, la Serracchiani sostiene che quell’atto "sempre odioso e schifoso" che è la violenza contro una donna, risulta però "moralmente e socialmente più inaccettabile quando è ottenuta da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro paese". E giù valanghe d’accuse, soprattutto dalla sinistra a cui la Serracchiani in teoria appartiene. "Solo parole di buon senso", si difende lei. E spiega come quel gesto sempre ignobile indigni ancora di più in un rifugiato, perché tradisce la fiducia e ospitalità della comunità che lo ha accolto e crea un vulnus anche agli altri richiedenti asilo che da quel comportamento di uno di loro risultano ingiustamente macchiati e penalizzati. In fondo, l’indignazione dell’opinione pubblica europea nel caso delle molestie di massa in Germania con protagonisti molti immigrati aveva lo stesso movente e appariva naturale. Nota bene: l’ospitalità è un dovere tradizionale soprattutto nei paesi dai quali i profughi provengono. Quella violenza è quindi un tradimento anche verso la propria cultura. Lo scandalo della violenza sulle donne si interseca col fattore politico dell’accoglienza dei migranti. E qui sorge il problema. Che è strumentale. L’errore della Serracchiani è stato quello di confondere le due cose, dando un giudizio di merito su un atto, un crimine, che è inaccettabile in modo assoluto e semmai si presta a aggravanti che nascono non da posizioni di debolezza quale potrebbe essere la condizione di rifugiato, ma da posizioni di forza (e quindi abuso) come le violenze di un capufficio o di un capo famiglia. L’errore invece di quelli che a destra come a sinistra sono intervenuti per condannare o arruolare la Serracchiani consiste nello strumentalizzare le sue “parole di buon senso”, inserendole in un cliché destra-sinistra che già Gaber aveva smascherato come “colpa”. Un cliché al quale dire “basta”. Quel cliché è sia di sinistra (Saviano invita la Serracchiani a candidarsi con la Lega), sia di destra (Salvini giustifica il suo “non sentirsi di destra” dicendo che quelle parole lui non le avrebbe mai pronunciate). Morale: è evidente che la gente non è seria quando parla di sinistra o destra. Destra-sinistra, sinistra-destra… Basta!

Profugo stupratore e la sinistra non sa se difendere lui o la vittima. Per una volta Debora Serracchiani, governatrice Pd del Friuli, l’ha detta giusta: «Lo stupro è più inaccettabile se commesso da un profugo». Da sinistra, contro di lei, è partito un fuoco di fila che rasenta il linciaggio, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 13/05/2017, su "Il Giornale". Per una volta Debora Serracchiani, governatrice Pd del Friuli, l’ha detta giusta: «Lo stupro è più inaccettabile se commesso da un profugo». Da sinistra, contro di lei, è partito un fuoco di fila che rasenta il linciaggio. L’insulto più carino è stato «sei una sporca razzista». Insomma, i compagni (Saviano in prima linea, non poteva mancare il moralista a gettone in una polemica così ghiotta) hanno stuprato lei, che essendo bianca, etero (immagino) e normotipo (tendente al carino) può essere aggredita senza alcuna remora. Io penso invece che la Serracchiani abbia detto un’ovvietà. Lo stupro è uno dei reati più vigliacchi e infamanti, indipendentemente da chi lo commetta. Ed è devastante e umiliante allo stesso modo per qualsiasi donna lo subisca. Ma sicuramente c’è un’aggravante morale, che lo rende ancora «più inaccettabile», se a compierlo è una persona a cui abbiamo salvato la vita mentre andava alla deriva sul barcone, che abbiamo sfamato, curato e al quale concediamo ospitalità nonostante probabilmente non ne abbia diritto secondo i trattati e le convenzioni internazionali. Da persone così uno si aspetterebbe riconoscenza e rispetto assoluto. Alla violenza e al non rispetto della donna si aggiunge invece l’ingratitudine. Chiedi di entrare in casa mia perché disperato e perseguitato e poi appena mi giro mi violenti la moglie: odioso nell’odioso. La sinistra invece si barcamena tra la donna violentata e l’immigrato: negare l’aggravante morale è già un passo comprensivo nei confronti del reo. E ci spinge a un centimetro dall’ammettere l’attenuante sociale. In fondo bisogna capirli questi profughi: hanno sofferto, sono soli e lontani dalle loro donne. Sembra questa una stupida provocazione, ma invito a riflettere sul fatto che alcuni giudici stanno già applicando «attenuanti culturali» in sentenze che riguardano immigrati, regolari e non. L’altra notte mi hanno svaligiato la casa, nulla in confronto a uno stupro (anche se al danno economico si aggiunge una non lieve violenza psicologica). Mi dicono che potrebbe trattarsi di una banda di immigrati sbandati che ha già colpito in zona. Il che mi rende il torto «ancora più inaccettabile», proprio come dice la Serracchiani. Che spero non faccia ipocrite retromarce. Non Saviano, ma gli italiani tutti la pensano come lei.

Profughi intoccabili, Serracchiani al rogo Mieli la difende: «Su di lei critiche rozze». Anche l'«Unità» attacca la vicesegretaria del Pd e «giustifica» lo stupratore, scrive Tiziana Paolocci, Domenica 14/05/2017, su "Il Giornale". La sinistra sceglie il profugo e ghigliottina un suo esponente. Prosegue il tiro incrociato contro Debora Serracchiani, governatrice del Friuli Venezia Giulia, messa alla gogna dal suo stesso schieramento per aver commentato in modo non politically correct, con tanto di comunicato ufficiale della Regione, il tentato stupro ai danni di una minorenne da parte di un richiedente asilo iracheno. L'esponente dem ha fatto l'errore di sostenere che «la violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre ma risulta socialmente e moralmente ancora più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese». Ed è stata immediatamente bacchettata da compagni di partito e d'area, che l'hanno invitata al «mea culpa». Dopo Roberto Saviano, oggi è arrivata perfino l'Unità a massacrarla in prima pagina parlando ieri di «orrenda frase». E ancora di «un discrimine che tra l'altro ridicolizza un istituto decisivo come lo status di rifugiato, che non comporta alcun obbligo in più, e semmai certifica e riconosce una vita vissuta con maggiori complicazioni». E, sebbene la frase sia seguita da una puntualizzazione («non è un alibi»), rispunta il solito vizio della sinistra di giustificare chi delinque, se appartiene a una minoranza disagiata. Una reazione, quella dei suoi compagni, che ha spinto anche la governatrice a trovare, di nuovo ieri, una scappatoia per allontanare i riflettori da lei e da una frase ovvia, che rappresenta il pensiero della maggior parte degli italiani. «Quando si parla di accoglienza dobbiamo mettere da parte le ipocrisie: se si vuole essere accolti bisogna rispettare le regole e questo noi dobbiamo chiedere - ha ribadito -. Chi non lo fa deve ovviamente pagarne le conseguenze. Non significa parlare di diversità di colore o provenienza: dico semplicemente che un furto in casa è sempre odioso, ma se lo compie la persona che ho accolto in casa mia il giorno prima, questo mi dà ancora più fastidio». «Le circostanze aggravanti e attenuanti esistono da sempre nel codice penale - afferma il segretario di Scelta civica, Enrico Zanetti - e nel comune sentire. Dire che essere un profugo accolto da un Paese rappresenta una aggravante, nell'istante in cui si commette un odioso crimine contro la persona, significa dire cose di pacifico buon senso». Dalla sua anche Paolo Mieli che parla di «un'Italia rozza e ignorante». «Il fatto che in Italia possa nascere una simile polemica - tuona - è orribile ed era impressionante leggere oggi (ieri, ndr.) alcune dichiarazioni. Ma è possibile che nel nostro Paese ogni occasione sia buona per saltarsi alla gola, per distruggere. Bisogna finirla bisogna voltare pagina e non continuare con questo stile orribile che porterà l'Italia nello sprofondo».

La Serracchiani contro lo stupratore profugo. E i buonisti la linciano. «Violenza più odiosa se commessa da chi chiede ospitalità». La governatrice Pd spacca la sinistra, scrive Anna Maria Greco, Sabato 13/05/2017, su "Il Giornale". L'inciampo di Debora Serracchiani sull'aggravante per il profugo violentatore scatena proteste soprattutto in casa sua. Antirazzisti e femministe di sinistra si scagliano contro la presidente del Friuli Venezia Giulia, che fa dei distinguo sugli autori di uno stupro. «La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese», commenta mercoledì il vicesegretario del Pd, dopo il tentativo di stupro a Trieste su una minorenne di un iracheno richiedente asilo. La politica si sveglia in ritardo, prima gli internauti sommergono di critiche la Serracchiani sui social network. Poi su Twitter il guru Roberto Saviano la arruola d'imperio nel Carroccio: «Salvini saluta l'ingresso di Serracchiani nella Lega. Spero la candidi lui: se lo fa ancora il Pd, vuol dire che il Pd è diventato la Lega». Ed ecco il commento autentico del leader leghista: «La bella addormentata nel bosco... Peccato che lei e il suo partito siano complici di una invasione senza precedenti, e abbiano sulla coscienza ogni reato e ogni violenza commessa da questa gentaglia. P.S. A prescindere dalla razza, castrazione chimica e buonanotte, con buona pace di Saviani e Boldrine». La polemica si allarga a dem, ex dem e ultra dem, che insorgono contro la governatrice, già nota per le sue gaffe. «Le parole razziste di Serracchiani sono inaccettabili», per Roberto Fico. «Ragionamenti agghiaccianti. Serracchiani chiarisca e si scusi», aggiunge Elvira Savino di Fi. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala dice che le è «scappata» la frase «sbagliata», ma la polemica è «eccessiva». Lei cerca di ridimensionare la comprensione per «il senso di rigetto» verso colpevoli di «crimini così sordidi» e l'appello a interventi legislativi per l'espulsione dei colpevoli. Precisa in un tweet: «Non esistono stupri di serie A o di serie B. Sono tutti ugualmente atroci. In questo caso all'atrocità si aggiunge la rottura patto di accoglienza». Troppo tardi e troppo poco. Debora su Facebook ci riprova: «Ho solo detto una cosa di buon senso, anche se scomoda», perché vengono «traditi gli altri richiedenti asilo e tutti quelli che si battono per l'accoglienza dei migranti». Chi non se ne rende conto fa «il gioco dei razzisti». Ma la caccia è aperta. Per la dem Patrizia Prestipino la sua è «una dichiarazione uscita male perché lo stupro è stupro, c'è poco da discutere». Francesco Laforgia, di Mdp, vi legge non solo la «deriva di un partito», ma lo «scivolamento di un intero Paese sul piano della civiltà». Lo scivolamento del Pd, per Giulio Marcon di Si, è «verso destra». A Milano, i consiglieri dem si dicono «sconcertati». «Che il presunto colpevole sia italiano o straniero non fa e non deve fare alcuna differenza», sottolinea Maria Cecilia Guerra, di Mdp. Più cruda Celeste Costantino di Si: «Un conto è subire violenza dai nostri uomini, e un conto è subirla da un profugo. Prima gli italiani! Parola di Serracchiani».

Quando il razzismo è una fake news dei buonisti di sinistra. Dopo l'incendio del camper via al coro che ignora i fatti solo per sfruttare la tragedia, scrive Giuseppe Marino, Venerdì 12/05/2017, su "Il Giornale". L'Huffington Post che titola immediatamente: «Molotov contro i rom». Tutti i rom? E pensare che c'è un apposito ufficio del governo che punisce chi usa questa parola «generalizzando». Ma solo se serve a gridare al razzismo. L'anti razzismo ha via libera anche se non si attiene ai fatti. E così il cronista del Corriere corre a sollecitare commenti intolleranti dalla gente del quartiere infastidita dai rom. La Repubblica che fa il pezzo sull'odio anti rom e, una volta che la polizia lo esclude come movente del rogo del campo (le indagini portano alla pista della faida tra clan e ora c'è anche un sospettato) lo converte in «anche se non è stato razzismo c'è l'odio per i rom». E poi su Twitter l'ex leader della Fiom Giorgio Cremaschi: «Sorelline #rom bruciate vive da luridi assassini ci urlano che il #razzismo produrrà infami stragi fino al suo bando totale dal genere umano». Altri sui social network trovano subito il colpevole: «Il razzismo sta crescendo alimentato da gente come #salvini». Ma il top lo raggiunge l'Anpi, che a tempo di record indice un presidio «contro la barbarie fascista». Pazienza se poi la verità è un'altra e la xenofobia non c'entra. La molla dell'indignazione ormai scatta più veloce della verità. E l'anti razzismo, per definizione, non è mai una fake news. Perché c'è il paravento delle vittime, tre innocenti, una ragazza di vent'anni e due sorelline di 8 e 4 anni condannate, già prima della molotov, a una vita che pare inaccettabile nell'Italia di oggi, in 13 in un camper, in fuga perfino da luoghi di segregazione come i campi rom pare, dicono gli inquirenti, a causa delle attività criminose del padre. Le vittime innocenti, come nel caso dei migranti affogati nel Mediterraneo, danno l'immunità alle critiche. Certo, non può dare alcun sollievo che il movente di questo barbaro massacro non sia razziale. Ma è un fatto, e non dovrebbe essere ignorato o travisato. Il riflesso condizionato cui si è assistito dopo il rogo di Centocelle però innesca un quesito che andrebbe scandagliato: perché tanti hanno una tale fretta di puntare il dito sul razzismo da non poter attendere le indagini? La risposta è semplice: se è vero che esiste un populismo che cavalca il razzismo, o meglio la diffidenza e l'intolleranza, è altrettanto vero che c'è un populismo opposto che si nutre di anti razzismo. Nel nostro agone politico tribalizzato, i temi dell'accoglienza, della tolleranza e del multiculturalismo sono bandiere utili a coagulare il consenso di una parte del Paese, quella che si sente migliore perché versa un obolo a Emergency, compra all'equo e solidale, adotta un bimbo a distanza, colora il profilo Facebook di arcobaleno. Solidarietà a poco prezzo che allevia la coscienza oberata dal senso di colpa occidentale. E se è vero che ogni reato fatto da un immigrato è un voto in più per Salvini, è altrettanto vero che ogni atto di xenofobia, vero o presunto, porta acqua al fronte progressista. Non è populismo anche questo?

Matrix, La Gabbia, Cartabianca e il giornalismo sciacallo, scrive Sara Volandri il 12 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Come i talk-show alimentano un clima paranoico da invasioni barbariche in cui ogni straniero diventa un potenziale terrorista. Il caso emblematico del quartiere romano di Torpignattara. Torpignattara, quartiere popolare e multietnico di Roma est, è diventata la logora location del giornalismo sciacallo, un genere molto in voga sulle nostre tv.  Il format è semplice: si manda per strada un/una giornalista con un fare da palpitazioni cardiache che non trovi neanche sul fronte guerra a porre domande “scomode” ai tanti migranti che vivono in zona. Loro sono sfuggenti, non hanno voglia di rispondere a quella raffica di interrogativi in malafede, cose del tipo: «È giusto morire come martiri per Allah?», «L’Occidente in fondo se li è cercati gli attentati, vero?».  Giustamente tirano dritto e il-/la cronista d’assalto ne evince che questi stranieri islamici allergici allo stalking sono un po’ tutti conniventi con il terrorismo. Il messaggio è in tal senso devastante. In parallelo si montano immagini di degrado urbano con musiche ansiogene che sembrano uscite dal film “Lo Squalo”, si intervistano i nativi “esasperati” dalle invasioni barbariche, gente che ti dice carinerie del tipo: «Qui ormai è Africa, io sono razzista e non mi vergogno di dirlo», «Devono morire tutti, fanno schifo, se non ci pensa la polizia ci pensiamo noi».  Magari sono gli stessi che affittano in nero un sottoscala a una famiglia di otto bengalesi. In un servizio andato in onda su LA7 nella trasmissione la Gabbia, l’inviata a Torpignattara Monica Raucci pretende di entrare dentro le abitazioni di alcuni migranti del centro Africa per mostrare in tv lo stato di incuria e malsanità in cui vivono le comunità di stranieri. Al loro comprensibile rifiuto, la cronista scuote la testa, la musica sale d’intensità in un climax drammatico in cui appaiono schiere di uomini in turbante che pregano contro un muretto e di donne velate che strisciano sui muri dei marciapiedi. Uno, dieci, cento servizi-fotocopia che producono lo stesso sgradevole effetto di angoscia e la sensazione che in Italia è in corso un conflitto di civiltà animato dagli immigrati musulmani, ognuno dei quali è un potenziale jihadista. Un’angoscia percepibile anche nel talk-show Matrix dedicato al fuggiasco Igor, ricercato da 800 poliziotti tra le paludi emiliane. Le interviste agli abitanti dei paesi in cui è stato avvistato l’ex militare serbo raccontano un ‘Italia spaventata e rabbiosa, pronta ad armarsi come ne profondo mid-west degli Stati Uniti: «Viviamo barricati in casa, e abbiamo un fucile per difenderci», spiega una signora, sottolineando che il sentimento di insicurezza è una costante della sua vita, molto prima dell’apparizione di Igor. Che in quella zona la percentuale di crimini sia risibile non conta, quel che conta, come dicono i sociologi è “l’insicurezza percepita”. Anche una trasmissione teoricamente “illuminata” come Cartabianca condotta da Bianca Berlinguer si è persa in questa melma. Nell’edizione di ieri è andato in onda il solito servizio di guerra su Torpignattara. Al termine del quale è partito il sondaggio assassino: «Che farei se mia figlia-figlio sposasse un islamico?». Al di là delle risposte (il 41% si opporrebbe, appena il 21% non avrebbe problemi), è proprio il quesito stesso, superficiale e malevolo, a manipolare l’opinione, a evocare, subdolamente, la perdita delle proprie radici culturali e la penetrazione di un’Islam cannibale (da una parte la propria figlia o figlio, dall’altra il bababu “islamico”) fin dentro le nostre case e le nostre famiglie.

Guerriglia a Roma dopo lo sgombero dei migranti, bufera sulla Polizia e sul Campidoglio, scrive Cecilia Ferrara il 25 Agosto 2017 su "Il Dubbio".  Il capo della Polizia, Gabrielli: “Gli scontri si potevano evitare”, il prefetto di Roma: “Si è trattato di un’operazione di cleaning”. È stata riaperta al traffico ma è ancora presidiata dalle forze dell’ordine, piazza Indipendenza, nel centro di Roma, dopo lo sgombero di ieri degli ex occupanti dello stabile di via Curtatone che da giorni si erano accampati nei giardini. E intanto domani è in programma nella Capitale un corteo dei movimenti di lotta della casa per protestare contro gli sgomberi. La manifestazione inizierà alle 16 e dovrebbe sfilare da piazza dell’Esquilino a piazza Madonna di Loreto, nel centro della città. Una protesta, a cui parteciperanno anche i rifugiati di via Curtatone, che cade a due giorni dallo sgombero di ieri in cui si sono registrati disordini, tensioni, lanci di sassi e bombole del gas contro le forze dell’ordine, idranti più volte aperti sui rifugiati, diversi feriti e contusi, e quattro migranti arrestati. Indagato dalla Questura un funzionario di polizia impiegato nell’ordine pubblico ieri per una frase rivolta ai suoi uomini impegnati a inseguire i migranti sgomberati: “Questi devono sparire, peggio per loro. Se tirano qualcosa spaccategli un braccio”. Parole riprese in un video finito rapidamente su tutti i siti.

LE REAZIONI. “Si è trattato di un’operazione di cleaning, di riportare l’ordine a piazza Indipendenza, di ristabilire le regole. Altrimenti mi chiedo, quale sarebbe il mio compito?”. Il prefetto di Roma, Paola Basilone, spiega così in un’intervista al Corriere della Sera, l’intervento per lo sgombero “perfettamente riuscito” del palazzo di via Curtatone. Adesso però “il Comune deve fare la sua parte e, insieme agli altri soggetti, assistere i rifugiati come è stato deciso e ci è stato assicurato proprio dal Campidoglio”. Basilone difende l’operato della Polizia: “fino a prova contraria gli aggrediti sono stati i poliziotti” e a provocare gli incidenti c’erano anche “soggetti infiltrati. Non erano certo rifugiati”. Anche l’uso dell’idrante per la Prefetta è stato fatto “per evitare che le bombole di butano lanciate dal decimo piano dagli occupanti si incendiassero e scoppiassero”. Per quanto riguarda infine la frase shock del poliziotto sullo “spezzare le braccia” ai manifestanti, “individuarlo e prendere i dovuti provvedimenti non è certo compito mio, ma della Questura”. C’è comunque il problema di “ripristinare” la legalità “senza calpestare i diritti umani. – conclude Basilone – Essere un rifugiato non autorizza a commettere reati”. E sulle frasi dei poliziotti contro i migranti risponde il capo della Polizia, Franco Gabrielli: “La frase pronunciata in piazza è grave, quindi avrà delle conseguenze. Abbiamo avviato le nostre procedure interne e non si faranno sconti. Questo deve essere chiaro. Ma ritengo altrettanto grave che l’idrante e le frasi improvvide pronunciate durate la carica diventino una foglia di fico”. Lo afferma, in un’intervista a Repubblica. “La gravità di quello che è successo in piazza non può diventare un alibi per coprire altre responsabilità, altrettanto gravi. E non della Polizia”, ma “di chi ha consentito a un’umanità varia di vivere in condizioni sub-umane nel centro della capitale. E dunque che si arrivasse a quello che abbiamo visto oggi”, evidenzia Gabrielli. “Due anni fa, da prefetto di Roma, insieme all’allora commissario straordinario Tronca avevamo stabilito una road map per trovare soluzioni alle occupazioni abusive. E questo perché il tema delle occupazioni non si risolve con gli sgomberi ma trovando soluzioni alternative”, racconta Gabrielli. “Non ho più avuto contezza di cosa sia accaduto di quel lavoro fatto insieme a Tronca. Era previsto da un delibera un impegno di spesa di oltre 130 milioni per implementare quelle soluzioni alle occupazioni abusive. Qualcuno sa dirmi che fine ha fatto quel lavoro, e se e come sono stati impegnati quei fondi?”. “Quello che è accaduto a Roma in questi giorni non è normale. E non lo deve diventare. Non si può continuare a pensare che un dramma sociale possa essere ridotto a questione di ordine pubblico. Perché è proprio facendo così che si mette a rischio l’ordine pubblico”. Lo scrive Matteo Orfini, presidente del Pd, su Facebook. “Perché di emergenza abitativa in questo caso stiamo parlando e non di emergenza nella gestione dei flussi migratori: in quel palazzo c’erano persone il cui diritto a stare in Italia è riconosciuto. E che da 4 anni vivevano lì in condizioni problematiche perché chi doveva garantire loro una accoglienza adeguata non era e non è stato in grado di farlo”. “Se c’è un immobile occupato abusivamente in questo caso da migranti rifugiati è giusto che questo immobile venga sgomberato. Si devono sgomberare gli immobili abusivi, si deve dare un’alternativa a queste persone, perché sono rifugiati aventi diritto, ma non si può tollerare che si lancino bombole di gas o altri oggetti contro la nostra polizia di stato ed è allucinante che stamattina faccia più notizia una frase infelice di un agente che spero abbia fatto solo per la tensione del momento. Fa più notizia questo che loro che lanciano di tutto contro la polizia” Così Luigi di Maio, vicepresidente della Camera, intervenendo questa mattina a Omnibus su La7.

IL RACCONTO. Dopo cinque notti all’addiaccio, due sgomberi, gli idranti, le cariche e la dispersione del gruppo gli ex- occupanti del Palazzo in Via del Curtatone a Roma non ce la fanno più. E inevitabilmente non sopportano più i giornalisti. «Siete tutti qui con le telecamere, ci intervistate, noi parliamo e poi? Non cambia nulla, anzi peggio!», sono delle donne eritree a parlare mentre, dopo la dispersione definitiva, si radunano sotto gli alberi della Stazione Termini, nel Piazzale dei Cinquecento. Una suora comboniana, anche lei di origine eritrea, offre una pagnotta a chi si avvicina, la apre con un coltello e ci mette dentro un po’ di carne in scatola. «Non sono solo arrabbiati», ci racconta, «sono stanchi e non sanno dove dormire stanotte. Sono persone che sono fuggite da una dittatura e si trovano di nuovo a lottare e fuggire». Siamo alla fine di una giornata di guerriglia urbana tra piazza Indipendenza, la Stazione Termini, il traffico cittadino e i turisti spaesati. L’immagine più violenta della giornata non è stata però la carica finale, con una quasi caccia al migrante dei poliziotti – manganelli e scudi in mano – che si incitano a vicenda con frasi tipo: «Levatevi dai coglioni», «devono sparire, peggio per loro», «se tirano qualcosa spaccategli un braccio». L’immagine più forte è la signora imbottigliata con l’auto a causa dei blocchi stradali improvvisati dai rifugiati a Termini che apre il finestrino e urla alla polizia con rabbia: «Bravi, ammazzateli!». È l’epilogo della situazione che si era creata in pieno centro a Roma dopo lo sgombero di circa 800 persone, in maggioranza etiopi ed eritrei che vivevano da 4 anni nel palazzo occupato di via del Curtatone. La giornata inizia con l’azione della polizia alle 6.30 del mattino per togliere di mezzo – letteralmente – le persone accampate per la quinta notte consecutiva sull’aiuola di fronte all’ex palazzo occupato. Le forze dell’ordine disperdono con gli idranti e caricano con i manganelli. Medici senza frontiere, presente sul posto, soccorre 13 feriti, la maggior parte donne, 5 delle quali trasferite in ospedale. La polizia diffonde un video in cui un rifugiato getta dalla finestra una bombola del gas e giustifica l’intervento proprio «per il possesso da parte degli occupanti di bombole di gas». Le donne e i bambini che ancora occupano il palazzo vengono portati in Questura. «Questi bambini, dopo aver assistito a scene di guerriglia urbana, sono stati caricati sui pullman delle forze dell’ordine e portati in Questura», dice Andrea Iacomini, portavoce di Unicef. «Alcuni testimoni ci hanno raccontato che continuavano a gridare e battere le mani sui vetri durante tutto il tragitto, in preda al terrore». Nel pomeriggio un gruppo di ex-occupanti si sposta in piazza dei Cinquencento, ma nessuno sa che succederà, dove trascorreranno la notte. Solo i giovani del Movimento per il diritto all’abitare rimangono al loro fianco. Dopo un nuovo attacco con l’idrante il gruppo decide di partire in corteo verso Termini. «Siamo rifugiati non terroristi», gridano, «Italia vergogna». Fermano il traffico in uno dei punti più caldi del centro: tra la stazione centrale e via Cavour e poi si dirigono verso la piazzetta di fronte a Palazzo Massimo dove c’è, per ironia della sorte, il monumento ai caduti di Dogali, una delle battaglie che l’Italia perse a fine ottocento nel tentativo di conquistare l’Eritrea, il suo “posto al sole”. Il corteo riparte di nuovo verso Termini e lì la polizia carica: «Disperdeteli a tutti i costi». I migranti spariscono. I poliziotti vagano in tenuta antisommossa tra turisti e viaggiatori di Termini, sembrano un po’ persi, ma il problema è risolto: i rifugiati non si vedono più. La battaglia di Dogali è vendicata…

La vera storia del palazzo liberato dagli immigrati abusivi a Roma, scrive il 25 agosto 2017 Franco Bechis vicedirettore del quotidiano LIBERO. Le autorità romane che accettavano quella situazione di illegalità, costrinsero il proprietario (Idea Fimit con i fondi dei pensionati) a non staccare le utenze, continuando a pagare per quegli abusivi la bellezza di 500 mila euro l’anno di bollette della luce e dell’acqua. Non è noto invece chi paghi eventuali abbonamenti tv collegati alle numerose parabole che gli eritrei stessi hanno installato sul tetto del palazzo (da terra se ne vede almeno una decina). Se c’ è qualcuno che faceva un tifo da stadio per lo sgombero di quel palazzo che si affaccia su piazza Indipendenza a Roma erano i bancari pensionati del San Paolo di Torino. Perché i soldi della loro pensione da quattro anni e più si erano volatilizzati insieme all’ occupazione abusiva di 556 persone, in gran parte eritrei ed etiopi, ma anche sudanesi e italiani (15). La polizia li aveva identificati la sola volta che è riuscita ad entrare in quelle mura – il primo dicembre 2015 – per un controllo straordinario dovuto all’ inizio del Giubileo della misericordia, trovando fra gli occupanti molti richiedenti asilo e profughi, ma anche un certo numero di immigrati clandestini privi di documenti che furono portati via per essere identificati in Questura, fra le urla e le proteste dei loro vicini di stanza. I bancari in pensione del San Paolo di Torino insieme ad altri pensionati sono proprietari della maggiore parte di quel palazzo di 32 mila metri quadrati su nove piani (più due interrati), acquistato nel 2011 attraverso il Fondo Omega di Idea Fimit. Il palazzo avrebbe dovuto essere affittato prima per farne un centro direzionale, poi un grande albergo di lusso alla società Sea, ma proprio mentre il contratto stava per chiudersi, una sera all’ inizio del 2013 i vigilantes che lo proteggevano furono assaliti e messi in fuga da un gruppo di violenti di alcuni centri sociali e del Movimento per il diritto alla casa che fecero entrare centinaia di stranieri: quei 556 che furono poi censiti.

Con l’occupazione fu cambiato il contratto di affitto, con l’intesa che sarebbe entrato in vigore con lo sgombero dell’edificio. Che però fino al 19 agosto scorso (con la coda finale di ieri in piazza e le polemiche annesse) non è mai avvenuto: non se l’era sentita di procedere l’allora sindaco di Roma, Ignazio Marino, né di usare il pugno di ferro l’allora prefetto della capitale, Giuseppe Pecoraro, che avrebbe lasciato l’incarico nell’ aprile 2015 all’ attuale capo della polizia, Franco Gabrielli. Da allora ad oggi i poveri pensionati del San Paolo e di altre aziende private hanno visto andare in fumo almeno 5 milioni di euro, che sarebbero stati la redditività di quell’ investimento fatto con i soldi accantonati per la loro previdenza integrativa. Non solo: le autorità che accettavano quella situazione di illegalità, costrinsero il proprietario (Idea Fimit con i fondi dei pensionati) a non staccare le utenze, continuando a pagare per quegli abusivi la bellezza di 500 mila euro l’anno di bollette della luce e dell’acqua. Non quelle del gas, perché l’immobile non era residenziale e quindi non aveva quel tipo di allacciamento. Non è noto invece chi paghi eventuali abbonamenti tv collegati alle numerose parabole che gli eritrei stessi hanno installato sul tetto del palazzo (da terra se ne vede almeno una decina).

Quel primo di dicembre 2015 nel palazzo insieme alle forze di polizia che procedevano all’ identificazione entrarono anche i vigili del fuoco, per controllarne la sicurezza. Iniziarono l’ispezione, ma una volta andata via la polizia, gli abusivi che abitavano quelle stanze si schierarono minacciosi davanti ai pompieri, impedendo a loro con violenza la verifica su quasi il 75% dell’immobile. Quel che avevano visto però bastava ed avanzava ai vigili del fuoco, che fecero partire l’11 dicembre successivo un fonogramma diretto al prefetto Gabrielli, al commissario del comune Francesco Paolo Tronca, alla Questura e ai commissariati di polizia. “Il fabbricato”, scrivevano, “già destinato ad uffici, costituito da due piani interrati e nove piani fuori terra, attualmente occupato da circa 500 immigrati, manifesta una condizione di reale pericolo dovuto alla presenza di decine di bombole di gas gpl distribuite su tutto l’edificio, si riscontra la presenza di numerose stufe elettriche utilizzate per il riscaldamento degli uffici adibiti ad abitazione. Si accerta l’assenza di qualunque mezzo di estinzione portatile e la mancanza di funzionalità dell’impianto idranti e di rilevazione incendi”. Quindi, “considerato l’elevato rischio di incendio/esplosione e la mancanza di adeguati mezzi di protezione, si ritiene necessario procedere con lo sgombero dell’edificio e la bonifica dello stesso dalle sostanza infiammabili presenti”.

Sgomberare era dunque una scelta obbligata a protezione dell’incolumità degli stessi profughi o immigrati. Ma non si è fatto, un po’ per la presenza continua e minacciosa dei movimenti pro casa, un po’ per la timidezza incomprensibile della politica e delle istituzioni. Tre mesi dopo quei fatti, nel marzo 2016, dopo lunghe indagini della Guardia Costiera, il Tribunale di Roma emetterà un ordine di cattura nei confronti di 17 scafisti eritrei che avevano venduto profughi e migranti.

Cinque di loro vengono arrestati all’ interno di quell’ immobile, e sarà la seconda volta che la polizia italiana vi entrerà. Ma non l’ultima, perché altri arresti sono stati compiuti in quell’ immobile per spaccio di droga e sfruttamento della prostituzione (la polizia secondo alcuni informatori, sospettava che all’ ottavo piano si esercitasse pure con una tariffa di 80 euro a notte).

Immobile sgomberato a Roma: quattro milioni di euro di perdite per le casse dei pensionati, scrive Andrea Carli il 24 agosto 2017 su "Il Sole 24 ore". È una vecchia storia quella del palazzo di via Curtatone a Roma sgomberato questa mattina dalle forze dell’ordine. Vecchia, in primo luogo, perché sono passati oltre tre anni (quasi quattro) da quando, il 12 ottobre del 2013, un gruppo di migranti provenienti dal Corno d’Africa, soprattutto Etiopia ed Eritrea, si sono impossessati di questo edificio di 33mila metri quadrati nella centralissima Piazza Indipendenza, a poca distanza dalla stazione Termini, mettendo in fuga la vigilanza armata. Ma vecchia anche perché questo edificio è stato la sede storica della Federconsorzi e dell’Ispra. L’immobile è soggetto a vincolo da parte della Sovrintendenza dei Beni architettonici, in quanto al suo interno non mancano elementi di pregio storico e artistico.

Un investimento in rosso. Ma è anche una storia che racconta un investimento che, alla fine, a chi lo ha effettuato ha portato delle perdite. Nel 2011 una Sgr immobiliare, Idea Fimit, lo ha acquistato per 75 milioni da una società che curava la liquidazione della Federconsorzi. Il palazzo è composto da nove piani fuori terra e da due interrati, con destinazione d’uso per uffici e area commerciale al piano terra. I 75 milioni con cui la Sgr lo ha comprato provenivano (e provengono) - come Il Sole 24 Ore ha messo in evidenza in un articolo nel maggio dell’anno scorso - da uno dei fondi gestiti da Idea Fimit: il Fondo Omega, sottoscritto da investitori istituzionali e da fondi pensione (fra i quali quello dei dipendenti Sanpaolo). L’idea era quello di ristrutturare l’edificio, per ospitare centri direzionali di aziende italiane ed estere o anche un grande albergo.

Oltre 4 milioni usciti (anche) dalle casse dei fondi pensione. Il progetto non è andato in porto. Nell’ottobre del 2013 il palazzo è stato occupato dai migranti. Fino a oggi. Sono pertanto quasi quattro anni che l’immobile non solo non produce reddito, ma genera passività considerevoli in termini di utenze e tasse di proprietà, rispettivamente per 240mila e 575mila euro all’anno. Se facciamo il conto su tre anni sono, rispettivamente, 720mila e 1,7 milioni, per una spesa complessiva di oltre 2,4 milioni di euro (2.445.000). Se invece facciamo il conto su quattro anni, che scadranno tra due mesi, ad ottobre 2017, sono rispettivamente 960mila e due milioni e 300mila euro, per un totale -in questa seconda ipotesi - di 3.260.000 euro. Se poi consideriamo anche le altre spese di amministrazione del palazzo, si può pensare che siano andati in fumo oltre quattro milioni di euro (nell’ipotesi dei 4 anni). Senza dimenticare i 79 milioni usciti per l’acquisto. Soldi provenienti dalle casse del fondo Omega e quindi - anche - da quelle dei fondi pensione che hanno investito in questo strumento.

La proposta dell’affittuario al Comune di Roma. Idea Fimit sgr ha affittato alla Sea Servizi Avanzati l’immobile (da cui però non ha percepito alcun compenso, essendo l’edificio non a disposizione). Ora il Comitato per l’ordine e la sicurezza convocato dal prefetto Paola Basilone ha deciso che sarà la società che gestisce l’edificio sgomberato, la Sea Servizi Avanzati, a garantire alle persone che vivevano in via Curtatone un alloggio per sei mesi, senza costi per il Comune. Al termine di questo periodo la prefettura convocherà un altro tavolo per verificare il lavoro degli Enti locali per una soluzione definitiva. Intanto l’affittuario potrà riprendere il controllo dell’edificio nel centro di Roma. Dopo quasi quattro anni.

Bechis dentro il palazzo sgomberato dagli eritrei: la verità, sono più ricchi di tanti italiani, scrive Franco Bechis il 26 Agosto 2017 su "Libero Quotidiano". Nemmeno dopo tutto quel che è accaduto il Fondo Omega di Idea Fimit ha potuto riprendere possesso del palazzo di sua proprietà occupato da più di 500 eritrei dal 2013. Le chiavi non sono ancora state restituite al legittimo proprietario perché lo sgombero non è ancora terminato: fino al tardo pomeriggio di ieri erano ancora asserragliate dentro alcune donne incinte, e la polizia non ha voluto ovviamente forzare la mano. Donne e bambini sono stati più volte utilizzati sia dagli occupanti che dalle associazioni per il diritto alla casa e da alcune onlus che non raramente li hanno manovrati, ed è probabile che siano esposti in prima fila oggi nel corteo di protesta ad altissimo rischio organizzato alle 16,30 a Roma, con partenza in piazza dell'Esquilino in una città blindata per l'occasione con paura di nuovi scontri. Movimenti antagonisti e ong che sono spuntati come funghi durante lo sgombero per cavalcare anche politicamente la vicenda degli scontri con la polizia hanno arringato fin dai primi giorni gli occupanti perché rifiutassero le soluzioni abitative loro proposte sia dall'assessorato ai servizi sociali di Roma che dalla società Sea che quell'immobile dovrebbe prendere in affitto dal Fondo Omega appena liberato. Per altro quella soluzione provvisoria (alcune villette a Forano, in provincia di Rieti) è stata sbarrata dal sindaco Pd del paese, Marco Cortella, che ieri non ha voluto sentire ragioni. «Sono contrario», ha detto Cortella, «perché siamo il comune nella provincia di Rieti con il numero più alto di richiedenti asilo. Ne abbiamo già 40 su 3.168 cittadini, oltre la percentuale del 3 per mille per ogni Comune prevista dal Ministero dell'Interno. Invece di gratificarci, ci mortificano». Al momento gli sfollati dall'immobile di via Curtatone si sono dispersi per la città, alcuni convogliati da alcune associazioni (Baobab in testa) in ricoveri di emergenza, altri andati in una sorta di rifugio provvisorio vicino alla stazione Tiburtina, altri ancora presi comunque in gestione dalle strutture comunali. E tutti pronti a tornare appena verrà allentata la tensione e la vigilanza in quel palazzo dove ormai si erano insediati da anni. C'è un rarissimo video - girato nel novembre scorso da Rete Zero, una tv privata di Rieti - che in pochi minuti fa capire come si svolgeva la vita all'interno del palazzo occupato, e che tipo di sistemazione avevano trovato gli eritrei. Ormai non era un accampamento come ci si potrebbe immaginare, ma un ufficio trasformato in un vero e proprio palazzo residenziale. Nell'androne interno chi vi abitava lasciava in modo ordinato biciclette, passeggini e carrozzine. Poi lungo le scale si arrivava ai corridoi degli uffici che erano stati unificati e trasformati in veri e propri alloggi, con tutto l'arredamento che era necessario. L'unica cosa artigianale - mancando gli allacciamenti al gas - erano le cucine, con i forni alimentati da quelle bombole al Gpl che avevano tanto preoccupato i vigili del fuoco nell'unica parziale ispezione fatta. In casa non mancava nulla: parte giorno e parte notte, letti e divani, tavoli, poltrone, tende per difendere la propria privacy, quadri e immagini religiose (crocifissi e madonnine, perché erano quasi tutti cristiani gli abitanti). Poi frigoriferi, lavatrici, elettrodomestici vari (forni a micro onde, macchine per il caffè) e in non poche abitazioni anche televisori al plasma di grande dimensioni e decoder per ricevere la tv satellitare collegati alle parabole installate dagli stessi migranti sul tetto dell'edificio. Entrando in quel palazzo occupato si ha dunque l'impressione di un certo benessere di chi vi abitava, e che gli eritrei fossero ben al di sopra della soglia di povertà si capisce bene anche dalle immagini scattate sia nel giorno degli scontri che ieri quando sono tornati lì vicino a spiegare la loro protesta alla stampa: molti hanno in mano smartphone di ultima generazione del valore di centinaia di euro. Avevano uno stile di vita compatibile anche con una abitazione regolarizzata da un affitto a Roma, magari non in zone così centrali. Che non fossero poveri in canna viene confermato informalmente dai rappresentanti della comunità eritrea in Italia che abbiamo sentito in queste ore, che confermano l'esistenza di lavori regolarmente retribuiti per buona parte degli occupanti. Altri elementi informativi invece fanno capire che non poche fossero le infiltrazioni in quel palazzo, anche di tipo criminale. Non tutti quelli che vi abitavano erano eritrei: molti etiopi, qualche somalo. Eritrei si sono tutti dichiarati al momento dello sbarco in Italia proprio per potere godere della protezione internazionale, e non avendo documenti per molti di loro l'attesa delle verifiche è stata talmente lunga da potersi imboscare con facilità. Dentro il palazzo - secondo le stesse fonti ufficiali della comunità eritrea in Italia - accanto a una vita normale ce ne era una parallela, con cui ci si arrangiava e si otteneva qualche guadagno extra. La più banale veniva dalla sistemazione di alcune stanze con il minimo necessario che venivano affittate a 15 euro a notte agli eritrei di passaggio a Roma. Una sorta di bed and breakfast. Esisteva anche un altro tipo di commercio: quello delle abitazioni permanenti ricavate in quegli uffici. Se qualcuno di loro trovava regolare sistemazione in città, vendeva i diritti di abitazione in via Curtatone per cifre di una certa importanza, "anche 12mila euro". Le forze di polizia erano già intervenute all'interno in poche occasioni per stroncare altri tipi di commercio assai più irregolari: sette inquilini arrestati per traffico di migranti, e altri identificati e fermati per traffico di stupefacenti.

Roma, racket di affitti nel palazzo occupato dai migranti: aperta un'inchiesta. La procura di Roma ha aperto un'inchiesta sull'occupazione del palazzo in via Curtatone: si ipotizza un racket degli affitti ai danni dei migranti dopo il ritrovamento di alcune ricevute, scrive Ginevra Spina, Sabato 26/08/2017, su "Il Giornale". All'interno dello stabile di via Curtatone a Roma, sgomberato sabato 19 agosto, i carabinieri hanno trovato delle ricevute: potrebbero essere "affitti" fatti pagare agli ex occupanti. La procura di Roma ha aperto un'inchiesta sull'occupazione dell'immobile di via Curtatone sgomberato nei giorni scorsi. A far scattare le indagini l'ipotesi di un racket degli affitti ai danni di eritrei ed etiopi che occupavano lo stabile, ma anche di eventuali stranieri di passaggio, nata dal ritrovamento all'interno dell'edificio di ricevute firmate dai migranti dai quali sembrerebbe che si pagasse 10 euro al giorno per avere la disponibilità di un letto. "Tre giorni al quinto piano, stanza 22. Trenta euro", è scritto su un foglio. Altre ricevute come queste sono rinvenute nello stabile assieme a un pc usato per confezionare badge da distribuire agli occupanti. I magistrati vogliono fare luce "su quanto avveniva all'interno dell'immobile occupato in via Curtatone a Roma" e sulle modalità dell'occupazione. Se veramente ai migranti veniva fatto pagare un "affitto" per poter occupare lo stabile, allora l'edificio era in grado di fruttare migliaia di euro al mese. Ma a chi? Probabilmente si tratta dei primi stranieri che hanno occupato il palazzo, ma non è escluso che il giro di racket degli affitti possa allargarsi. Chi riscuoteva il denaro, infatti, potrebbe essere il tassello di un puzzle più grande: forse il gruppo faceva da intermediario, ma gli inquirenti non hanno ancora chiari ruoli e contatti. Intanto, gli ex occupanti, che proprio in queste ore stanno sfilando in corteo nella capitale insieme ai movimenti per il diritto all'abitare, respingono l'ipotesi e si difendono. "Non abbiamo mai pagato un affitto per abitare nel palazzo di via Curtatone. Raccoglievamo soldi ogni tanto quando si rompeva qualcosa per ripararla", hanno dichiarato i migranti. "Chi abitava lì non aveva neanche i soldi per pagare l'affitto, solo qualcuno lavorava - hanno raccontato alcune rifugiate - Chi aveva la possibilità partecipava alla colletta come, ad esempio, quando si rompeva qualche finestra o alcuni mesi fa che si è rotto il motore dell'acqua. Lo abbiamo riparato noi. Certo non potevamo aspettare i tempi del Comune". Gli ex occupanti dell'edificio negano anche di aver mai avuto dei badge per entrare. "Gli ospiti che dovevano accedere al palazzo mostravano i documenti all'ingresso - hanno spiegato - ma mai nessuno ha avuto un pass".

La carezza del poliziotto della Diaz, scrive Vincenzo Canterini (ex responsabile reparto mobile Roma) il 26 Agosto 2017 su “Il Tempo”. «Caro direttore, perdona il disturbo. Sono quel Vincenzo Canterini che guidava gli splendidi poliziotti del Settimo Nucleo ingiustamente crocifissi per i fatti di Genova, più esattamente per la storia della Diaz. Ho pagato, e sto pagando, il conto. Ma da allora poco è cambiato: ad ogni scontro con agitatori di professione e violenti il partito dell'antipolizia, sempre più numeroso e sempre più coccolato dai media, trova il modo di girare la frittata e far passare i cattivi per buoni. Con il risultato che, dei buoni veri, non si preoccupa più nessuno. Certo, si dirà, parla Canterini, "quello della Diaz". E allora facciamo che smettiamo di parlare di me e parliamo di un altro poliziotto, che so per certo essere un poliziotto modello e che da ieri, grazie a una foto, è diventato l'esempio della polizia dal volto umano. La patente di agente non picchiatore gliel'ha rilasciata lo stesso partito dell'antipolizia, commosso per la foto-simbolo che lo ritrae mentre accarezza una signora extracomunitaria. Lo sanno tutti a Roma chi è quel poliziotto perché da anni rischia la pelle in piazza come tanti suoi colleghi che con me erano a Genova, ed erano alla Diaz. Quel bravo poliziotto non ha cominciato ieri ad essere un modello perché bene, anzi benissimo, si comportò all'interno di quella scuola che venimmo improvvidamente chiamati a sgomberare. Non se ne può fare il nome né il nomignolo perché chi ha visto la morte in faccia a Genova, come noi del Settimo, da quel giorno del 2001 non ha più un'identità. Perdonami, caro direttore, dello sfogo. Ma davvero non se ne può più di questo perbenismo e della mistificazione della verità. La polizia è sana, lo è sempre stata e la gente lo sa. Non esiste un'altra verità, non esistono poliziotti buoni e cattivi. Portare rispetto a chi indossa una divisa è un dovere di tutti.»

Eritrei sgomberati, poliziotto del "spaccategli un braccio" indagato anche per le cariche agli operai ThyssenKrupp, scrive il 26 Agosto 2017 "Libero Quotidiano". "Una campagna diffamatoria incredibile quella che in queste ore sta avvenendo ai danni dei miei colleghi", dice Gianni Tonelli, segretario generale del Sindacato autonomo di polizia (Sap), che chiede: "Non saranno questi i presupposti per identificare in quanto successo il primo caso di tortura psicologica in Italia?". Tonelli si dice indignato per le polemiche seguite alle operazioni di sgombero del palazzo occupato di via Curtatone. "L'Unicef ha parlato di bambini terrorizzati perché trasportati in questura. Non vorrà mica insinuare un trauma psicologico? Ieri in piazza sono state lanciate bombole del gas, sassi e bottiglie. Se una di queste cose avesse colpito un bambino? L'Unicef - fa notare il sindacalista - dovrebbe pensare a questo senza cavalcare l'onda del momento". Quanto alla frase pronunciata da un funzionario ("Se lanciano qualcosa, spezzategli un braccio"), "è forte - ammette Tonelli - ma è stata strumentalizzata per deviare l'attenzione da quello che è il vero problema in Italia, ovvero un'invasione incontrollata". L'agente che ha pronunciato quella frase, però, uno esperto, di 46 anni, con un passato brillante alla squadra mobile di Roma, poi alla guida di diversi commissariati, ora sotto indagine, è lo stesso che il 29 ottobre 2014, proprio in piazza Indipendenza, ordinò di caricare gli operai della ThyssenKrupp di Terniche intendevano raggiungere il ministero dell'Economia. Ci furono quattro feriti tra i lavoratori e altrettanti contusi fra gli agenti, con molte polemiche. Il video è tornato ora alla ribalta e l'associazione Nazionale Funzionari di polizia critica lo "strumentale clamore" nato da una "frase sbagliata", detta dopo che i poliziotti sono stati "bersaglio di ogni oggetto contundente". Una frase, dice il segretario dell'Anfp Enzo Marco Letizia, che "rischia di diventare l'unico scandalo di cui parlare e sul quale scatenare un'improvvisa voglia giustizialista".

Il funzionario di Polizia nel video “spaccategli un braccio” dello sgombero dei migranti, fece caricare gli operai Thyssen nel 2014. Tre anni fa scoppiò un caso analogo sulle manganellate ordinate contro i lavoratori dell’acciaieria Ast di Terni che manifestavano, fra i quali vi era per protesta anche il leader della Fiom Maurizio Landini. Ora la violenza verbale contro i migranti, scrive il 26 agosto 2017 “Il Corriere del Giorno”. Il funzionario della Polizia di Stato che nel video del quotidiano La Repubblica dice “se tirano qualcosa spaccategli un braccio” incitando gli agenti che inseguono i migranti a Termini è la stessa persona che proprio nella stessa   piazza Indipendenza, dette ordine di caricare il 29 ottobre 2014, i lavoratori della fabbrica di Terni della Ast Thyssen-Krupp (vedi foto a lato) che volevano raggiungere la zona dei ministeri imboccando via Solferino, presidiata dalla polizia, ordinò “Caricate! Caricate!”. In quella occasione quattro manifestanti rimasero feriti, e 4 poliziotti contusi. Tutto ciò è emerso da un confronto tecnico tra i video girati ieri dopo lo sgombero dei migranti nordafricani e quello realizzato dai video-operatori della trasmissione di RaiTre ‘Gazebo’ di tre anni fa. Maurizio Landini all’epoca dei fatti segretario della Fiom era nelle prime file del corteo. “Siamo con voi, che cazzo state facendo?” disse ai poliziotti ed ebbe un acceso scambio di battute con il funzionario della Polizia di Stato in questione. La Questura di Roma a suo tempo giustificò la carica di contenimento con la motivazione che “i manifestanti intendevano occupare la vicina stazione Termini”. Stavolta il nuovo capo della polizia Franco Gabrielli ha disposto l’apertura di un’indagine disciplinare ha chiesto una dettagliata relazione della vicenda.  Gabrielli ha detto: “ma non saremo la foglia di fico di altri”.  Il capo della Polizia sembra quasi voler dare un seguito concreto a quello che, il 21 luglio scorso, proprio al quotidiano La Repubblica aveva detto spiegando che la “sua” Polizia non deve avere paura. Che deve “parlare il linguaggio della verità”. Durante l’inseguimento di 48 ore fa, il funzionario della Questura di Roma che guidava la celere ha gridato: “Devono sparire, peggio per loro. Se tirano qualcosa spaccategli un braccio”.  Una nota della Polizia di Stato ha reso noto che nel “contesto di un corretto comportamento delle forze dell’ordine impegnate ad effettuare lo sgombero di palazzo Curtatone, abusivamente occupato ed oggetto di un sequestro preventivo da parte dell’autorità giudiziaria”, la Questura di Roma ha aperto una “formale inchiesta” dopo la “visione dei filmati pubblicati su alcuni siti che riportano una frase di un operatore che invita ad usare metodi violenti in caso di lancio di sassi”. Nelle successive contromanifestazioni, aggiunge la Questura della Capitale, le “unità impiegate in quel contesto non sono state ulteriormente utilizzate nel servizio di ordine pubblico”.

“La frase pronunciata in piazza è grave”, ha detto oggi il prefetto Gabrielli intervistato dal quotidiano La Repubblica  “Sì. Grave”.

Quindi?

“Quindi avrà delle conseguenze. Abbiamo avviato le nostre procedure interne e non si faranno sconti. Questo deve essere chiaro. Ma...”.

Ma?

“Ma ritengo altrettanto grave che l’idrante e le frasi improvvide pronunciate durate la carica diventino una foglia di fico”.

Vorrà forse parlare dell’esimente dello “stress” in momenti di tensione?

“No. Voglio dire un’altra cosa. Che la gravità di quello che è successo in piazza non può diventare un alibi per coprire altre responsabilità, altrettanto gravi. E non della Polizia”.

E di chi?

“Di chi ha consentito a un’umanità varia di vivere in condizioni sub-umane nel centro della capitale. E dunque che si arrivasse a quello che abbiamo visto oggi”.

Così non capisce nessuno, prefetto. Fa riferimento alle responsabilità dell’amministrazione comunale e regionale?

“Mettiamola così. Due anni fa, da prefetto di Roma, insieme all’allora commissario straordinario Tronca, avevamo stabilito una road map per trovare soluzioni alle occupazioni abusive. E questo perché il tema delle occupazioni non si risolve con gli sgomberi ma trovando soluzioni alternative”.

Quindi?

“Quindi è accaduto che non ho più avuto contezza di cosa sia accaduto di quel lavoro fatto insieme a Tronca. Era previsto da un delibera un impegno di spesa di oltre 130 milioni per implementare quelle soluzioni alle occupazioni abusive. Qualcuno sa dirmi che fine ha fatto quel lavoro, e se e come sono stati impegnati quei fondi?”.

Con tutta la stima per il Prefetto Gabrielli e il Ministro dell’Interno Minniti, resta da chiedersi quando disporranno che le forze dell’ordine durante il servizio di ordine pubblico debbano indossare delle casacche (o caschi) numerati per identificarli? In altri Paesi più civili e garantisti del nostro hanno risolto così gli eccessi, di qualche esagitato in divisa, che con comportamenti incivili offende il duro e difficile lavoro dei loro colleghi per garantire la legalità.

Possibile che dopo i nefasti eventi della caserma Diaz di Genova, nessuno abbia il coraggio “politico” di prendere un provvedimento del genere?

Parla il funzionario della carica: “Non sono un violento ma ero sotto pressione e ho detto frasi in libertà”. L’autodifesa del dirigente di Polizia che durante lo sgombero di via Curtatone ha urlato “spezzategli un braccio”. Rischia il trasferimento immediato. "Non dovevo neppure essere lì, avevo terminato il turno, ma ho sentito dalla radio che i miei uomini erano in difficoltà", scrive Federica Angeli il 27 agosto 2017 su "La Repubblica". Stanco, sotto pressione e preoccupato. Sa che su quella frase ("Se tirano qualcosa spezzategli un braccio") si gioca una carriera, passata indenne già dall'infortunio della carica agli operai Thyssen, ora che era a un passo dalla nomina a questore. A due giorni da quei fatti, il funzionario di polizia diventato suo malgrado il protagonista dello sgombero dei migranti di piazza Indipendenza si sfoga con un paio di amici e colleghi che sono andati a trovarlo a casa. "Non dovevo neppure essere lì, ero libero da quel servizio, avevo terminato il mio turno, ma ho sentito dalla radio che i miei uomini in piazza Indipendenza erano in difficoltà e sono intervenuto. Lo so, quella frase è infelice, presa da sola ha un sapore sinistro, ma bisogna contestualizzarla. Rispondevo a un agente che mi raccontava che lui e altri erano stati colpiti da sanpietrini. Mi ha chiesto: e se questi ci tirano addosso qualcosa? Allora gli ho risposto in quel modo, ma bisogna trovarsi nella mischia, in mezzo alla bolgia, esposti a rappresaglie imprevedibili. Bisogna viverli quei momenti per comprendere di cosa stiamo parlando". Nelle sue parole c'è la stessa autodifesa consegnata a una relazione di servizio arrivata ai piani alti del Viminale, decisi a dare una lezione esemplare a chi abusa della propria divisa. L'orientamento è quello di chiudere in fretta un'istruttoria dagli esiti prevedibili, a sentire i sindacalisti dei funzionari di polizia che hanno esperienza di queste faccende e intuito perfettamente che il vento sembra essere cambiato: probabile un trasferimento o comunque un rallentamento a un percorso di carriera segnato dalle tappe dell'età, 52 anni, e da un curriculum ampio. E segnato anche da qualche precedente che finora non aveva rappresentato alcun inciampo. A Livorno dove il funzionario, romano d'origine, era approdato qualche anno fa dopo gli esordi al reparto mobile di Genova e poi all'investigativa della capitale, il suo autista rimediò un'ammenda per aver spaccato in testa a una manifestante la radio di servizio. Lesioni colpose, sentenziò il giudice contro una richiesta di condanna a cinque mesi. C'era anche lui in quella mischia in piazza Cavour nel 2012 ma rimase fuori da ogni addebito. Più di recente, già arrivato a Roma, nell'incarico che lo ha portato in piazza nei giorni scorsi, in sua difesa si era schierato l'allora ministro dell'Interno, Angelino Alfano. Una relazione in Parlamento a fronte di una richiesta di dimissioni, per dire che la carica ordinata dal funzionario contro i sindacalisti del corteo della Thyssen non era stato che la normale reazione a un tentativo di deviazione del corteo autorizzato. Vicenda chiusa per una storia che lo portò alla ribalta, giubbotto di pelle e ricetrasmittente in mano, mentre ripeteva ai suoi "caricate, caricate", come mostrato da un filmato di Gazebo. Era il 29 ottobre del 2014 e i manganelli spaccarono la testa a lavoratori e sindacalisti. Nella confusione anche alcuni agenti rimasero contusi. Il Viminale, allora fece quadrato, e il funzionario rimase al suo posto. Per ironia della sorte anche la vicenda per la quale rischia adesso una sanzione lo vede al centro della scena nello stesso luogo, a due passi dalla stazione Termini. I suoi lo difendono a spada tratta: "Non ci stiamo a farlo passare per un fascista dal manganello facile, quella frase alimenta una distorsione mediatica". E lui stesso, arrivato all'ordine pubblico, dopo trascorsi anche alla scientifica, lo ribadisce agli amici: "Ma davvero pensate che io possa ordinare di bastonare senza un perché?". "Vogliono inchiodarlo a una frase? - dice Saturno Carbone, segretario generale del Siulp - Ma è un abbaglio. Conosco il collega e so bene che non è un esaltato, è una persona mite, un professionista rigoroso e attento. Certe espressioni vengono fuori ma non hanno mai un senso letterale. Non è che espressioni come quelle possono essere interpretate come un via libera a picchiare, non scherziamo". In attesa di conoscere la decisione del capo della polizia, il dirigente affina la propria difesa e concerta con il sindacalista che dovrà affiancarlo nel procedimento disciplinare interno la linea di condotta da tenere. Telefonate, incontri, l'analisi di quanto circola in rete. Un lavoro intenso che a tratti si interrompe per una considerazione e per ribattere sullo stesso punto: "Non sono un violento, ho svolto con grande coscienza il mio lavoro, cerco sempre la mediazione, ma nella mischia ci stanno le parole in libertà così come capita di dover far ricorso alla forza per contrastare un attacco. È quello che si temeva in piazza l'altro giorno, quando un gruppo nutrito di manifestanti si è diretto verso la stazione. In quella situazione l'unico interesse era bloccarli, non potevamo rischiare che la protesta si propagasse. E pensare che non dovevo neppure essere lì, conterà pure qualcosa aver voluto condividere un momento di difficoltà dei propri uomini?".

Idranti contro gli immigrati? Un Cruciani senza pietà: vi dico io cosa dovete fare, scrive Giuseppe Cruciani il 26 Agosto 2017 su "Libero Quotidiano". I manganelli? No, per carità. Fa brutto e ricorda Genova. Le cariche? Sì, ma con moderazione, senza esagerare che qualcuno potrebbe farsi male. Gli idranti? Che schifo, roba da aguzzini cileni. A sentire alcuni esponenti del buonismo e terzomondismo nostrano non si capisce come la polizia possa agire per sgomberare palazzi o piazze occupati illegalmente. E ripeto: il-le-gal-men-te. Come si libera una piazza in una zona centrale e vitale della Capitale dove bivaccano cento persone? Invitandole a giocare a tressette? Portandoli fuori col flauto magico? O magari facendo intervenire Francesco Totti? Ce lo dovrebbe spiegare per esempio il presidente del partito che è anche l'azionista di maggioranza del governo, cioè Matteo Orfini del Pd, il quale guardando le immagini di piazza Indipendenza da qualche spiaggia vacanziera ha detto che «non si risponde alla povertà con le cariche e con gli idranti». Ma cosa c' entra la povertà? Cosa c' azzecca la disperazione? Niente, un fico secco. Eppure basta uno spruzzo d' acqua e qualche ferito a un Gad Lerner per attaccare gli agenti, che dovrebbero «mettere a posto la coscienza» ed è «troppo comodo» farlo «con la carezza di un poliziotto» (il riferimento è a quel celerino che mette la mano sulla guancia di una donna in lacrime per consolarla, ma a Gad non va bene manco questo). Che dire ancora di Monica Cirinnà, la madrina delle coppie gay, la quale prova «vergogna» perché «in 22 anni a Roma non ho sgomberato neanche un canile senza soluzione alternativa». E già, altro che Minniti e prefetti vari, bisognava affidarsi a lei che ha trovato tante belle soluzioni per i cani senza dimora, ovviamente senza causare traumi e senza farli scappare. Poi, ovviamente, ci sono le ong come Medici senza Frontiere, ormai un vero e proprio Stato dentro lo Stato, o agenzie dell'Onu come l'Unicef, che invece di limitarsi a fare quello che devono fare, cioè assistenza, si schierano politicamente e parlano di «violenza indiscriminata» e «sgomberi senza alternative» (e nessuna parola è arrivata proprio dall' Unicef sull' utilizzazione come scudi umani di bambini esposti alle finestre dei palazzi occupati e con bombole del gas in mano). Sarebbe curioso capire da costoro, e da quelli che sul web trasudano rabbia e dipingono i nostri poliziotti come belve feroci e fasciste, come si affronta un lancio di bottiglie, come si fa a dialogare con persone che armeggiano con bomboloni pronti a esplodere e lanciano sassi perché vogliono restare dove non hanno diritto di stare. Ma lo sanno tutti questi perbenisti che quel palazzo occupato dal 2013 era un concentrato spaventoso di illegalità come pochi altri? Che ogni tentativo di controllo era respinto dagli occupanti? Che poco tempo fa tra le centinaia di profughi e richiedenti asilo erano stati arrestati pure degli scafisti? Lo sanno, o fanno finta di non saperlo, che occupazione e proteste vengono sobillate da centri sociali e sedicenti (e italianissimi) movimenti per la casa? E che migliaia di persone hanno perso soldi e lavoro per colpa di quel palazzo catturato dai migranti? Dovrebbero leggersi, questi soloni, il perfetto racconto che ha fatto un blogger esperto di cose romane (il suo sito si chiama, significativamente, romafaschifo.com): «Chi parla di violazione dei diritti umani puntando il dito contro le forze dell'ordine, dovrebbe prima ancora che vergognarsi rendersi conto che sta facendo il gioco di chi a Roma, in maniera subdola e criminale, da anni strumentalizza il disagio, la povertà, la difficoltà». E poi: «Le mosse degli agenti sono state pressoché impeccabili. Lo sgombero, finalmente. Come chiesto da tempo dal Tribunale. La reazione misurata al successivo e per certi versi inaspettato asserragliamento degli occupanti in piazza. L' attesa di giorni e giorni. Il controllo della situazione in una zona difficilissima. Più si offrivano alternative ai migranti, più queste alternative venivano rifiutate. Cosa doveva fare la Prefettura? Far finta che non ci fosse una intera piazza trasformata in accampamento? Con decine di infiltrati dei movimenti? Con decine di persone che non avevano nessun titolo di avere assistenza alloggiativa e che dunque erano lì solo a piantar grane? Con fuochi e bombole pronte caricate come marmitte sui terrazzi? Con gli addetti dell'Ama che il giorno prima erano passati solo per pulire e sono stati presi a sassate?». Questa è la realtà, caro Orfini e compagnia cantante, altro che violazioni dei diritti umani e altre cazzate del genere. Invece no. Ci sono frotte di giornalisti e politici scandalizzati perché la polizia è intervenuta alle sei di mattina (e quando dovevano cominciare, dopo il cappuccino?) e altre anime belle colpite al cuore dalle parole pronunciate da un funzionario durante un inseguimento nel piazzale della Stazione (se tirano qualcosa spaccategli il braccio), cose normali in tutte le polizie del mondo e comunque alla fine non ci sono stati spaccamenti di niente. Nessuno di questi, invece, ha qualcosa da dire sul fatto che molti profughi hanno rifiutato altre case in periferia o vicino Roma al grido di «ormai ci siamo integrati qui, i nostri bambini vanno a scuola e non andiamo via da questo quartiere». È stata intervistata da Sky una signora che non ha accettato di andarsene perché i letti offerti «erano troppo stretti». Proprio così: letti troppo stretti. Altri, mentre migliaia di romani (e di italiani) ogni giorno fanno chilometri per raggiungere il posto di lavoro e tornare a casa, hanno detto no ad alcune villette in provincia di Rieti. Per questa follia, nessuno si è scandalizzato. Ecco, di fronte a tale scenario è giunta a un certo punto la notizia che anche un cuoco, tal Chef Rubio, si è indignato non poco per le immagini dei getti d' acqua sugli occupanti. Ha detto, l'esperto di ordine pubblico, che si vergogna di essere italiano. Poi si è rimesso a spadellare e l'Italia, il Paese, non era facile, ha superato pure questa durissima prova.

Sgomberi e immigrati, Feltri brutale contro Franco Gabrielli: "Sei il capo della Polizia o dei boy scout?", scrive Vittorio Feltri il 26 Agosto 2017 su "Libero Quotidiano". Se non si capisce che occupare le case altrui è una forma intollerabile di violenza, si rischia di dire cazzate che confondono le idee. Non è solo questione dell'edificio sgomberato a Roma che ha generato tante stupide polemiche. Il problema è molto più grave e diffuso. Anche a Milano succede spesso che una vecchia signora esca di casa per fare la spesa e immediatamente ci sia un figlio di buona donna che approfitta della assenza della proprietaria per entrare nei suoi locali onde impossessarsene. È una bella cosa da approvare o anche solo da sopportare? Eppure si dà il caso che nessuno provveda a intervenire allo scopo di restituire l'alloggio a chi proditoriamente ne è stato privato. Di norma la poverina succube di prepotenti non ha mezzi propri per ribellarsi e finisce all' ospizio. Si commette così una ingiustizia che grida vendetta. Simili odiosi episodi si registrano ogni giorno. È possibile andare avanti così? Occorre aggiungere che gli usurpatori della proprietà altrui sono dei disperati a cui bisogna concedere delle attenuanti, ma non l'impunità. Se passa il concetto che il meno debole frega con l'inganno il debolissimo, va a farsi benedire la legalità. Inammissibile. Serve il pugno di ferro per impedire simili soperchierie. La polizia deve agire e non farsi impietosire. La guerra fra poveri è disgustosa. Se poi viene danneggiata la persona meno robusta, come sempre accade, è obbligatorio difenderla. La miseria non giustifica l'aggressione a gente senza la capacità di proteggersi. Ciò detto, ribadiamo: se le occupazioni abusive sono violenze, chi le effettua non si lagni se qualcuno lo prende a calci nel posteriore. Merita di essere punito. Ecco perché non ci scandalizziamo se lo stabile di piazza Indipendenza nella capitale è stato sgomberato dagli agenti con maniere brusche. Era l'unico modo per ripristinare la legalità. O ce ne era un altro, tipo la persuasione, la gentilezza, la diplomazia, mazzi di fiori e baci in fronte? Buttare fuori gli occupanti di alloggi richiede fermezza e decisione, altrimenti non se ne vanno. Una operazione del genere non è certamente elegante ma necessaria, uno spettacolo orribile però senza alternative. E allora l'ex prefetto dell'Urbe, attuale capo della polizia, Franco Gabrielli, ha sbagliato delle grosse a prendersela con i propri uomini che hanno eseguito gli ordini con professionalità ed efficacia. È stato chiesto loro di svuotare il palazzo dei pensionati? Ebbene lo hanno fatto nell' unica maniera possibile, scacciando chiunque. Gabrielli ha redarguito un poliziotto che, davanti al lancio da una finestra di una bombola di gas (non una piuma) destinata a colpire in testa un agente, ha gridato: spezzate un braccio al perfido lanciatore. Che altro avrebbe potuto dire? Gettateci in capo anche un tavolo o un armadio? Egregio dottor Gabrielli una domanda: l'edificio romano andava sgomberato ai tempi in cui lei era prefetto? Se è così perché non ha eseguito tale sgombero? E ora ci spieghi perché attacca i suoi collaboratori che, invece, si sono impegnati a realizzare le disposizioni piovute dall' alto. I poliziotti non sono assistenti sociali né suore: non sono obbligati per decreto a prenderle ma è consentito loro di reagire. Lei ha la vocazione del tutore della legge o del boy-scout?

Giorgia Meloni, parole durissime contro Pd, immigrati e occupazioni abusive, scrive il 26 Agosto 2017 "Libero Quotidiano". Giorgia Meloni si sfoga sui social contro il governo. Lo accusa di mollezza sul caso di Roma e degli sgomberi. "Il governo Pd", scrive l'onorevole su Facebook, "sospende tutti gli sgomberi delle occupazioni abusive perché prima di 'intervenite servono soluzioni alternative. Tradotto: se occupi illegalmente lo stato ti garantisce una casa; se invece rispetti la legge poi continuare a dormire sotto i ponti". Prosegue, in un'escalation di rabbia: "La sinistra al governo si arrende ancora una volta alla mafia delle occupazioni abusive. E lascia le nostre città in balia di zone franche, prepotenti e illegalità diffusa". Qual è la ricetta della Meloni al problema? "La posizione di Fratelli d'Italia è opposta: se hai diritto a una casa popolare, ti metti in fila come tutti gli altri e aspetti il tuo turno; se occupi illegalmente, ti sgombero con la forza e ti sbatto in galera e, se sei straniero, ti caccio dall'Italia". Sempre sul tema, la Meloni aveva scritto un altro post: "Gli occupanti di piazza Indipendenza avrebbero rifiutato gli alloggi offerti. Pare non fossero di loro gradimento. Gli immigrati che hanno vissuto per anni nell'illegalità e che fanno gli schizzinosi, si possono cortesemente rispedire a casa loro? E quei quattro scemi dei centri sociali, che manifestano con gli africani, si possono mandare in Africa con loro? Grazie". Non mi sento italiano…ma per fortuna o purtroppo lo sono…A proposito dello sgombero dell’immobile occupato abusivamente da stranieri a Roma: Perché gli organi di informazione ideologizzati, che hanno perso ogni forma di credibilità, esaltano una frase detta sotto pressione e tensione da un solo poliziotto e sottacciono le violenze a danno degli altri agenti di polizia? E perché gli scribacchini si indignano dello sgombero di un immobile occupato abusivamente e pagato con i fondi pensione dei cittadini italiani, mentre tacciono spudoratamente, quando ad essere cacciati di casa sono quei cittadini italiani vittime di sfratti o esecuzioni forzate, frutto di usure bancarie impunite o di sentenze vendute?

Abusivi buoni e cattivi. Non tutti gli abusivi sono evidentemente uguali: quelli ischitani, quelli dei piani rialzati, sono da condannare senza processo, quelli africani che occupano un palazzo al centro di Roma sono da tollerare, scrive Nicola Porro, Sabato 26/08/2017, su "Il Giornale". Non tutti gli abusivi sono evidentemente uguali: quelli ischitani, quelli dei piani rialzati, sono da condannare senza processo, quelli africani che occupano un palazzo al centro di Roma sono da tollerare. Eppure entrambe le categorie sono illegali. Ed entrambe le categorie hanno a che fare con la casa e il suo diritto di proprietà. Ma come negli anni '70 un'infelice legislazione ha stabilito che nei rapporti di lavoro c'è una parte debole (il lavoratore) che gode di una presunzione di innocenza in un'eventuale controversia, così l'«occupante abusivo» di uno stabile gode di una protezione superiore al legittimo proprietario dello stesso. Se poi l'occupante è un centro sociale (ultimo il caso scandaloso di Bologna e del sindaco Merola) o un emigrante, la posizione debole si rafforza. Dicevamo che al centro di tutto vi è il diritto di proprietà. Gli abusivi ischitani lo hanno interpretato in senso estensivo e contro una legge di ordine pubblico. Costruiscono dove non devono o ampliano senza permesso. Ci si trova, i giuristi sofisticati ci perdoneranno, nel campo del diritto amministrativo-pubblico. Gli occupanti africani dello stabile a Roma violano invece una norma fondante del diritto privato: e cioè la tutela della proprietà. Per un liberale il diritto privato è alla base della nostra convivenza civile. Per farlo rispettare abbiamo inventato lo Stato, i tribunali, e abbiamo concesso loro il monopolio della violenza. Se potessimo fare una classifica degli orrori illiberali, verrebbe decisamente prima il furto della proprietà (ciò che banalmente succede quando un immobile viene occupato) rispetto all'utilizzo contro le norme pubblicistiche della stessa (l'apertura di una finestra, l'innalzamento di un piano). Non si capisce dunque come sia possibile tutta questa comprensione per i poveri cittadini sgomberati (il discorso non vale solo per gli eritrei di piazza Indipendenza) e l'implacabile pugno di ferro per gli abusivi ischitani e non solo. Non prendiamo le parti né dei primi né dei secondi. Ma cerchiamo semplicemente di dire che per un liberale la differenza tra il sindaco Merola che concede locali pubblici ad un centro sociale dopo averli sgomberati da un altro edificio, e il sindaco che non procede alle demolizioni, non esiste. Anzi Merola commette un delitto ancor maggiore. Ps. Vivi complimenti al prefetto di Roma che ha rivendicato lo sgombero senza nulla cedere al piagnisteo collettivo.

Rivolta degli immigrati La polizia difende l'Italia. Sgomberato un palazzo occupato: i profughi aizzati dagli autonomi rifiutano altre case e lanciano bombole di gas. Inevitabili le cariche, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 25/08/2017, su "Il Giornale". In ogni caso non dovevano e non potevano essere lì. Le centinaia di immigrati, in maggioranza etiopi ed eritrei, che si erano accampati a Roma nella centrale piazza Indipendenza, e che la polizia ha sgomberato con la forza, sono l'immagine del fallimento della politica delle porte aperte a tutti, profughi e no. Un profugo, a differenza dei tanti clandestini, ha sì dei diritti, tra i quali non c'è quello di occupare abusivamente le case come loro avevano fatto, ma deve farsi carico di doveri, tra i quali non è previsto quello di opporsi alla polizia con lanci di sassi e bombole di gas come è accaduto ieri. Era stata loro offerta una sistemazione abitativa dignitosa ma non hanno accettato. Per loro si poteva fare di più e di meglio? Probabilmente sì, se non avessimo inseguito e perseguito in questi ultimi anni la folle ambizione di poter ospitare chiunque mettesse piede sul nostro territorio, senza alcun criterio e selezione di merito in base ai trattati internazionali e alle reali possibilità di accoglienza. Ma anche al netto del fallimento della gestione dell'emergenza resta inaccettabile che qualcuno - profugo o no - si opponga con la forza e la violenza alle forze di polizia che stanno eseguendo un ordine. Non posso farlo io, non possiamo farlo noi cittadini italiani, perché mai dovrebbe essere concesso farlo a ospiti sia pur bisognosi? Le forze dell'ordine non hanno usato le maniere spicce contro dei poveri immigrati indifesi, ma contro cittadini (provvisori) che non rispettano la legge, né più né meno di come fanno regolarmente con quegli italiani che pensano di essere padroni di piazze e strade durante scioperi e manifestazioni. Oggi i soliti noti diranno e scriveranno di un'operazione di polizia da regime. Quando c'è da sparare fango sulla polizia i volontari abbondano. Sono gli stessi che poi la invocano quando rigano loro il suv ultimo modello o pretendono dal prefetto amico di stracciare la multa per divieto di sosta. Noi pensiamo che i poliziotti abbiano fatto bene a fare ciò che hanno fatto. Che se qualcuno lancia loro contro una bombola di gas, hanno il pieno diritto di usare la forza. Per difendere loro stessi ma soprattutto per difendere noi tutti e la democrazia.

Scontri a Roma, Alessandro Sallusti contro Christian Raimo: "Ci sono donne incinte che non tirano sassi", scrive il 25 Agosto 2017 “Libero Quotidiano". Alessandro Sallusti litiga brutalmente con lo scrittore Christian Raimo durante la puntata di ieri di In Onda su La7. Davanti ai conduttori Luca Telese e David Parenzo, i due si sono scontrati nel ricostruire i disordini seguiti a Roma allo sgombero di un palazzo adiacente alla stazione Termini occupato da anni da profughi eritrei. Lo scrittore, su Facebook, aveva attaccato le forze dell'ordine. "Questa non è la mia città: hanno fatto una guerra contro i poveri e l'hanno chiamata legalità", aveva scritto. E in televisione rincara la dose attaccando Sallusti: "Cosa ne sa? Non c'era nessun giornalista del Giornale a Roma, lei se ne sta lì a Forte dei marmi". "Ma cosa ne sa lei", ribatte Sallusti. "C'erano delle donne incinte", dice Raimo. "E allora? Ci sono tante donne incinte che non tirano sassi", dice il direttore de Il Giornale.

Lerner contro la polizia "Così si lava la coscienza".

Gad Lerner commenta la foto simbolo degli scontri di Roma e mette nel mirino gli agenti di polizia, scrive Franco Grilli, Venerdì 25/08/2017, su "Il Giornale". Gad Lerner festeggia l'addio al Pd attaccando i poliziotti. L'occasione per puntare il dito contro gli agenti è lo scontro avvenuto ieri tra le forze dell'ordine e gli immigrati sgomberati da un edificio a piazza Indipendenza a Roma. Le fasi dello sgombero sono stati segnati da due episodi. Il primo riguarda le parole di un funzionario che per difendere i suoi uomini dal lancio di bombole di gas da parte dei migranti ha detto: "Se serve spaccategli un braccio". L'altro episodio invece riguarda una foto che ritrare un poliziotto che con fare comprensivo accarezza la testa di una donna cercando di spiegare cosa stesse accadendo. Ebbene, Gad Lerner ha usato proprio quella foto per commentare i fatti di Roma e le sue parole hanno suscitato on poche polemiche. Con un tweet in cui ha riportato l'immagine del poliziotto e della donna ha affermato: "Troppo comodo mettersi a posto la coscienza con la carezza di un poliziotto". Un attacco senza se e senza ma alle forze dell'ordine che ieri hanno di fatto riportato ordine in un palazzo e in una zona di Roma per troppo tempo rimasta in mano al disordine creato dagli immigrati.

Dopo le bombole, le accuse. Attacco totale alla polizia. Sinistra e buonisti mettono nel mirino gli agenti. Che sui social postano la loro rabbia: "Siamo stati abbandonati", scrive Chiara Giannini, Sabato 26/08/2017, su "Il Giornale". La rabbia dei poliziotti e dei cittadini esplode sui social: «Basta, non ne possiamo più, la politica si assuma le sue responsabilità», dicono gli agenti. Dopo i fatti di piazza Indipendenza, a Roma, i rappresentanti delle forze dell'ordine si ribellano agli attacchi continui. «Troppo facile giudicare stando seduti a guardare un video - scrivono sulla pagina Sostenitori della Polizia di Stato -. Al contrario chi rischia in prima persona di essere ucciso in piazza». E c'è anche chi specifica che «chi tenta di colpire un agente con una bombola di gas è solo un assassino». «Orgoglioso di essere un poliziotto, orgoglioso dei miei colleghi», scrive un agente. Una donna commenta solidale: «Io avrei mandato i politici. Forza ragazzi, noi siamo con voi e con le forze dell'ordine». Su un’altra pagina, Italia Celere, c'è chi rincara la dose: «Siamo senza contratto, ci tappano la bocca e sospendono tutti i diritti costituzionali, ma da noi pretendono quella perfezione che loro non sanno dare». Il limite, insomma, è superato. Il capo della Polizia, il prefetto Franco Gabrielli, chiarisce che la frase pronunciata dal funzionario che ha creato tanta polemica, «è grave e avrà le sue conseguenze». A pronunciarla un funzionario già coinvolto nel caso delle cariche contro gli operai della Thyssenkrup nel 2014: in tre finirono all'ospedale. Sul singolo episodio si farà chiarezza, ma Gabrielli si schiera dalla parte dei suoi uomini e dice senza mezzi termini: «È altrettanto grave che l'idrante e le frasi improvvide pronunciate durante la carica diventino una foglia di fico. Le responsabilità sono di chi ha lasciato vivere quelle persone in condizioni subumane». Eppure c'è ancora chi, come Giuseppe Civati, chiede le dimissioni del ministro dell'Interno, Marco Minniti, perché «l'operazione poliziesca è l'ultimo capitolo di un libro che non avemmo mai pensato di leggere». A difendere il titolare del Viminale, però, arriva il prefetto di Roma, Paola Basilone: «Non ha avuto alcuna responsabilità nello sgombero». E anche nella politica c'è chi si schiera dalla parte della polizia. Il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, ieri in visita a Catania, ha chiarito: «Io credo che le regole vadano sempre rispettate. È chiaro che la frase detta (dal funzionario di polizia, ndr) è stata sbagliata e non può certamente avere consenso da parte di chicchessia. Ma è molto più grave vedere persone che sono accolte nel nostro Paese che lanciano bombole del gas contro ragazzi, carabinieri, poliziotti che fanno rispettare le regole nel nostro Paese». «Troppo facile scaricare sulle Forze dell'ordine responsabilità che sono di altri», gli fa eco Paolo Romani, presidente dei senatori di Forza Italia. E poi c'è l'altra nota stonata del caso Piazza Indipendenza: le accuse del Comune alla Prefettura, su cui interviene il presidente dell'associazione Prefettizi Antonio Corona: «Il prefetto Basilone è stato encomiabile, pure nelle dichiarazioni successivamente rese agli organi di informazione». Per i rappresentanti sindacali della polizia la misura è talmente colpa che annunciano iniziative ad hoc. Il 16 settembre avrà luogo, da Padova a Venezia, una pedalata, organizzata da Matteo Stacco di «1609» e sposata dal Sap. Migliaia di persone pedaleranno in autostrada per solidarizzare con gli agenti sospesi per aver espresso disagio. «Per fortuna - dice il segretario generale del Sap, Gianni Tonelli - i cittadini stanno prendendo consapevolezza del fatto che le politiche di governo sono sbagliate. I nostri agenti vengono aggrediti di continuo da delinquenti che il giorno dopo vengono rilasciati. Siamo stanchi, rischiamo per una manciata di lenticchie e nessuno ci dice "bravi". La stampa ideologizzata e il mondo politico che ci criminalizza e ci disumanizza fanno il resto. Tutto ciò è inaccettabile».

Gli attivisti non mollano e scendono in piazza. Si temono violenze. La Questura predispone varchi d'accesso e agenti anti-sommossa, scrivono Elena Barlozzari e Francesco Curridori, Sabato 26/08/2017, su "Il Giornale". La quiete apparente dopo la tempesta. In questo scorcio di fine estate, in una Capitale ancora in vacanza e semi-deserta, l'aria di piazza dell'Indipendenza è ancora satura di una tensione sottile. Lo stabile di via Curtatone, posto sotto sequestro dall'autorità giudiziaria, è presidiato da agenti in tenuta antisommossa. A sbarrare l'accesso c'è ancora l'idrante con cui gli agenti hanno disperso gli ex occupanti. Si teme che «l'azione d'infiltrazione posta in essere dai movimenti di lotta per la casa», denunciata dalla Prefettura, possa incoraggiare un nuovo tentativo di occupazione. D'altro canto, ad oggi, ancora nessuna delle soluzioni alloggiative offerte dalla società che gestisce l'immobile e dal Campidoglio sembra soddisfare le esigenze dei rifugiati. «Non gli piacciono le case che gli sono state assegnate, loro pretendono di restare in centro commenta una barista ed è assurdo». In piazza Indipendenza si vedono solo cronisti e poliziotti. Tutti in attesa dell'inizio della conferenza stampa annunciata dal Coordinamento Cittadino Lotta per la Casa. Una mamma spinge la sua carrozzina e sentenzia: «Quello sgombero andava fatto, da quando sono diventata madre mi sono resa conto che l'Africa, in Italia, non ci può entrare. Non è questione di razzismo, ma di numeri». Dopo di lei, Augusto Caratelli, presidente del Comitato Difesa Esquilino Monti, racconta: «Sono anni che denunciamo la presenza di centinaia di occupanti dentro questo stabile e l'esasperazione di residenti e commercianti. L'immobilismo istituzionale è drammatico». Qualcuno lo interrompe: «Meno male che ci sono i comitati dei cittadini a difendere chi è ricco, chi ha i privilegi». A parlare è un ragazzo con la stella rossa sulla maglietta. Eccoli, sono arrivati gli antagonisti. Poi la portavoce del Coordinamento Cittadino Lotta per la Casa rincara la dose: «Noi siamo qui da 5 giorni, lei dov'era?». Fulminea la replica di Caratelli: «E lei dove stava lo scorso anno? E quello prima? Scommetto che nessuno di voi vive qui». Su una sola cosa i «duellanti» sono concordi: «L'accoglienza romana ha fallito». «Quelle persone vivevano qui da anni spiega Maurizio Debanne della Ong Intersos e la proprietà voleva riprendere possesso dello stabile. Il punto è che qui parliamo di persone che godono dello status di rifugiati e le abbiamo cacciate per strada. La soluzione andava trovata prima dello sgombero e dopo. Questa è una pagina molto triste per Roma». I nordafricani, nel frattempo, si sono riuniti a qualche isolato di distanza. Dopo gli scontri di mercoledì scorso hanno paura ad avvicinarsi al cordone di polizia che presidia via Curtatone così volontari, attivisti e antagonisti si spostano in via Montebello dove, finalmente, inizia la conferenza stampa. «Sprar e centri d'accoglienza sono delle alternative temporanee, inadeguate e non risolutive. Non si possono affrontare i problemi sociali come materie di ordine pubblico. Questo è ciò che abbiamo intenzione di dire domani alle 16 con il corteo che partirà da piazza dell'Esquilino», annuncia una «compagna» sventolando una comunicazione della Questura. «Domani verranno predisposti dei varchi d'accesso con uomini in tenuta antisommossa». Limitazioni inaccettabili, che loro leggono come una «provocazione» che «innalza la tensione» e «criminalizza la solidarietà».

Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano il 26 Agosto 2017: rubano ai pensionati per dare agli stranieri. Ci vanno sempre di mezzo i vecchi, sfruttati da tutti, specialmente da chi dovrebbe proteggerli, prendersi cura di loro. La notizia di oggi è raggelante. A Roma un edificio acquistato con i soldi dei pensionati, i loro contributi previdenziali male amministrati, è stato occupato indovinate da chi? Dai soliti migranti accolti su pressione della sinistra e mantenuti dallo Stato. La Polizia ha cercato di sgomberarlo e si è trovata di fronte ad un esercito di esagitati che non avevano alcuna intenzione di abbandonare i locali di cui si erano abusivamente impossessati, senza essere ostacolati. Gli agenti, impegnati a fare il proprio dovere, sono stati presi d' assalto, colpiti addirittura da bombole di gas scagliate ovviamente con violenza. Essi hanno risposto con idranti e altre "armi". Risultato, le forze dell'ordine sono state accusate dai progressisti di aver ecceduto, come se fosse un gioco da bambini liberare un palazzo da gentaglia che ruba alloggi e li difende menando le mani. In pratica i signorini che predicano accoglienza se la prendono con i derubati anziché coi ladri. Brutta cosa. Per completezza d' informazione, come si diceva una volta, occorre specificare che i migranti abusivi sono stati invitati a recarsi a Rieti (dove esistono quartierini idonei) quindi non potevano essere considerati dei senza tetto. Essi però pretendevano di rimanere a Roma. Questione di gusti. Quelli dei profughi sono raffinati e andrebbero soddisfatti. Identica scena si è svolta a Bologna. Anche qui un edificio sgomberato e la richiesta pressante degli extracomunitari cacciati di ottenere una sistemazione alternativa di lusso: dormitorio, asilo sociale, mercatino eccetera. Lo Stato si arrende allo scopo di non creare malcontento e disordini. In sintesi siamo schiavi di coloro che ci invadono e non abbiamo il coraggio di imporre la legalità. Ciò che più indigna, oltre al disprezzo manifestato dalla sinistra verso i poliziotti, è il fatto che il patrimonio immobiliare dei pensionati venga dissipato per andare incontro alle esigenze dei migranti. È noto che gli enti previdenziali hanno comprato case per investire bene i denari versati dai lavoratori, al fine di garantire loro assegni congrui nel momento in cui si collocano a riposo. In realtà questi appartamenti per anni sono stati affittati, a pigioni irrisorie, alla nomenclatura (politici, sindacalisti, amici degli amici) e ora si scopre che vengono occupati dagli stranieri, gratis, arrecando un danno finanziario alle persone in quiescenza, per le quali si dice che non ci sono quattrini a sufficienza. Per forza, si spendono capitali nel sostentamento degli immigrati sottraendoli ai nostri connazionali della terza età. È uno scandalo, ma chi ci bada?

Sto dalla parte degli sgomberi e delle forze dell’ordine, non di chi vive sulla luna, scrive il 25 agosto 2017 Alessandro Catto su “Il Giornale”. Etimologicamente democrazia significa governo del popolo, nonché la possibilità, per lo stesso, di potersi esprimere e poter tutelare i propri interessi. Un sistema con i suoi pro ed i suoi contro, ma che per essere definibile come tale deve rispettare questa definizione. Mai come in questo scorcio di ventunesimo secolo tuttavia vediamo il termine in questione venir strumentalizzato, divenire ostaggio di chi vuol distorcerlo definendo la democrazia solamente come il trionfo delle proprie istanze, spesso considerate corrette in maniera aprioristica, uniche degne di considerazione, uniche capaci di gravitare nel rassicurante cortiletto della ragione, al di fuori del quale al trionfare vi sarebbe una indistinta massa di fascismo, populismo e razzismo, anche quando le opinioni espresse sono tra le più ragionevoli e moderate. Un ambito nel quale questa prassi diventa più evidente che mai è quello dell’immigrazione, con una platea di benpensanti sempre pronta a negare le evidenze, a far credere che sia possibile far svernare in Italia centinaia e centinaia di migliaia di immigrati in una sorta di anarchia della politica, nella quale il cittadino perde la propria possibilità di diniego e in cui lo Stato, anche per mano delle sue forze dell’ordine, quasi non può più far valere la legalità, nemmeno quando questa è messa in dubbio da quotidiani episodi di degrado, soprusi, violenze ed occupazioni. In questa cornice orwelliana, vorrei rivolgere un accorato appello a chi in queste ore sta dando il via ad una feroce opera di delegittimazione nei confronti della politica degli sgomberi e nei confronti dell’operato delle forze dell’ordine, ree di essersi difese da violenze e attacchi ingiustificabili. Vorrei dire ai soloni dell’accoglienza, al clero politicamente corretto e ai parroci del buonismo che al posto che in lussuosi attici in zone centrali delle metropoli più chic, protette viuzze, salotti della Roma perbene o della Milano degli aperitivi, per una volta mi piacerebbe vederli abitare in qualche periferia cittadina, androne multietnico, zona popolare in preda al degrado e alle peggiori conseguenze di una politica migratoria di questa portata. Ma non mi piacerebbe vederli in qualità di facili comparse, muniti del solito sorriso da catechesi permanente, stretti in giacche eleganti e scarpe d’ordinanza, per poi far ritorno a casa nel comfort e nella protezione. Mi piacerebbe vederli vivere tutti i giorni, lavorare, fare le più intime e quotidiane mansioni nel degrado che affolla decine e decine di periferie italiane, mi piacerebbe vederli nei reparti di polizia a contrastare la microcriminalità dei sobborghi. Mi piacerebbe vedere come reagirebbero, avendocelo non davanti, ma dentro, questo vuoto di ingiustificabile anarchia. Mi piacerebbe vederli mediare con questo tipo di problematiche con la sicumera palesata oggi, con la solita, moderata e calibrata prassi da benestanti francescani per hobby, che scommetto durerebbe lo spazio di due pomeriggi. Di fronte a tanta ipocrisia, non vi può che essere un pieno supporto alla politica degli sgomberi, al ripristino della legalità nelle periferie e ad una politica migratoria degna di un paese civile, ovvero di un paese dotato ancora di qualche legge, di qualche architettura comune e di un senso per i propri cittadini e per il proprio popolo, che di queste nenie per accoglienti da salotto si è stancato da tempo.

L’Italia sottomessa dai Rom grazie ai governanti di sinistra, scrive Andrea Pasini il 24 agosto 2017 su “Il Giornale”. Torno a parlavi di Rom. Mi è già capitato in passato di affrontare questo tema, anche nel recente trascorso, ma alla luce di alcune rivelazioni torno a fiondarmi sull’argomento. Partiamo da quanto emerso nelle ultime ore. Leggo su Il Giornale: “Non era bastato lo scandalo sui soldi pubblici finiti alle associazioni che organizzavano orge omosessuali. Ora l’attenzione si rivolge nuovamente all’Unar, l’Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali di Palazzo Chigi, ente che dipende (di fatto) da Maria Elena Boschi. Nei giorni scorsi infatti è stato emanato un bando da 475.400 euro per finanziare progetti che favoriscano ‘la partecipazione dei Rom alla vita sociale, politica, economica e civica’ dell’Italia”. Mezzo milione di euro volatilizzato in pratiche, sostanzialmente, inutili. Parliamo di uomini e donne che non vogliono integrarsi. Lo conferma quanto riportato dal Tg Vicenza di alcuni giorni fa. “Per vivere rubiamo”. Ammissione di colpa, ma i fondi statali continuano ad arrivare. La mano tesa per gli aiuti non manca mai. Il sentimento di sottomissione verso questo popolo non viene meno da parte delle nostre istituzioni. Prostrazione. Inginocchiamento. Senso di colpa. Chi lo sa, sappiamo solo che milioni di euro vengono sperperati in direzione di chi non se li merita. Senza stare a citare i mental coach che ha fatto intervenire sul comune di Roma, qualche mese fa, la sindaca pentastellata Virginia Raggi. Si salvi chi può. Qualcuno può pensare che la mia sia un’ossessione. La ricerca razzistica dell’errore, del peccato capitale, del marcio pur di discriminare. Nulla di più errato. Da imprenditore ho una visione privilegiata della società italiana. Mi raffronto, spesso e volentieri, con chi lavora insieme a me. Incontro, giornalmente, ceti sociali agli antipodi e vedo la difficoltà dell’uomo della strada. E non posso accettare da italiano, da cittadino e da pagatore di tasse (per lo Stato sono essenzialmente questo) che i fondi UE e quelli nazionali vengano sperperati in questo modo. Vuoi integrati? Hai un lavoro? Mandi a scuola i tuoi figli? Hai il desiderio di avere una casa e non di vivere come un nomade? Troverai tutto l’aiuto possibile, ma se la tua esistenza è basata su escamotage di ogni tipo, le porte sono chiuse. Dobbiamo invertire la rotta per dare un segnale, forte e chiaro, agli italiani in difficoltà. Come si può chiedere sacrifici, mentre tutto crolla, sempre ai soliti? Questo atteggiamento finirà per incenerire la spina dorsale dell’Italia. In un servizio di qualche mese fa, esattamente ottobre 2016, Il Giornale, ripescando negli archivi de La Stampa, usciva con un articolo dal titolo: “I rom hanno milioni di euro all’estero. Ma in Italia vivono grazie a sussidi e case popolari”. Spieghiamoci meglio, leggendo le parole vergate dal giornalista Sergio Rame: “Grazie a un’operazione congiunta tra i pm torinesi e i magistrati croati, sono venuti alla luce conti correnti milionari intestati a rom che nel Belpaese godono di sussidi, case popolari e aiuti economici di ogni tipo. Tra questi furbetti, come rivela la Stampa, ci sono personaggi come Raselma Halilovic, bosniaca 66enne che vive tra le baracche di via Germagnano a Torino e che sul un conto corrente in Croazia ha depositato un milione e 35mila euro”. Ma pensate finisca qui? L’inchiesta, con la collaborazione di Eurojust, rivela che la famiglia Halilovic può contare su un tesoro di 5 milioni di euro. Bronzo Halilovic possiede 900mila euro. Angela Halilovic, ricevente un sussidio di 245 euro al mese, conserva gelosamente 392mila euro. Naim Halilovic? Casa popolare e “solo” 60 mila euro. La moglie Susanna Salkanovi? 108mila euro. Con buona pace dei veri poveri italiani. Questo clima di guerra tra disgraziati mi fa venire il vomito. Il governo, in ogni singolo istante, mette in difficoltà i nostri connazionali accantonandoli senza pensarci due volte. Gli italiani vengono fatti passare per ospiti indesiderati. Veri e propri cittadini di serie B. E questo mi fa ribollire il sangue. Lo stesso sangue che condivido con la mia gente. “Sena Halilovic ha destato sospetto quando ha provato a prelevare 220mila euro alla Société Générale Splitska Banka dopo che ne aveva già portati all’estero 330mila”. Intanto tutto affonda. Ma ci rendiamo conto? La politica avvantaggia questo marasma, vuole incentivare, coscienziosamente, un malcontento popolare che si riversa in frustrazione e teste chinate per il popolo italiano. Invece dobbiamo ribellarci alle logiche anti-nazionali. Dobbiamo smascherare questi altarini, portarli alla luce, evidenziarli mostrando a tutti la realtà dei fatti. Solo così riacquisteremo la lucidità per riprenderci il nostro caro ed amato Paese. La sinistra ci ha venduto per un tozzo di pane, parla solo di diritti civili dimenticandosi di quelli sociali. Da anni mi batto cercando di rimanere voce libera nel mucchio selvaggio della politica. Dobbiamo, tutti insieme, denunciare questi soprusi. I sinistrati sostengono chiunque basta che sulla carta non abbia scritto cittadino italiano. Sono disgustato. Tanti, troppi nostri connazionali si fanno incantare dalle parole boldriniane, fianesche e renziane. Un richiamo sinistro, un richiamo che ci vuole tutti uguali, tutti in fila, tutti a bocca aperta per ingoiare il malcontento e risputarlo come asservimento. Il voto è un’arma, dobbiamo imparare a non usarlo contro noi stessi. Ogni errore costa cinque anni di pentimento e non c’è più margine d’errore. Ora o mai più. Avanti Italia. Avanti italiani. 

Di Maio ha mentito sulla Romania. E non è stato un semplice errore, scrive Mauro Munafò su “L’Espresso” il 12 aprile 2017. Il vicepresidente della Camera del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio è al centro di una polemica per quanto riguarda una sua dichiarazione su Facebook a proposito dell'Italia che "importa" criminali dalla Romania. Le sue parole sono state le seguenti: "L'Italia ha importato dalla Romania il 40% dei loro criminali. Mentre la Romania sta importando dall'Italia le nostre imprese e i nostri capitali. Che affare questa UE!". La frase di Di Maio è correlata dal video dell'intervento del magistrato Sebastiano Ardita all'incontro di Ivrea organizzato dall'associazione Gianroberto Casaleggio, in cui il procuratore aggiunto parla di giustizia e anche di Romania, usando però parole e toni lontani rispetto a quelli strillati da Di Maio su Facebook e, soprattutto, affermando qualcosa di assai diverso. Ma su questo tornerò dopo. Anticipiamo infatti subito un punto chiaro: Luigi Di Maio ha detto una cosa falsa, la ha privata di un contesto che serva a capire meglio di cosa si parla e, in più, invece di scusarsi ha rincarato la dose facendo finta di aver scritto una cosa ben diversa. E soprattutto ha lanciato un messaggio razzista che molti elettori hanno contestato e tanti altri hanno invece apprezzato. Cercando, immagino, di andare a rosicchiare un po' di voti alla Lega e al centrodestra nel capitolo sicurezza e anti-immigrazione. Cominciamo subito dalla fine. Una volta scoppiata la polemica, Di Maio ha scritto una precisazione su Facebook, evitando di scusarsi e provando a far credere di avere ragione. In realtà smentendosi da solo. Nel messaggio di poche ore fa scrive: "C'è un fatto, che è inopinabile: "il 40% dei ricercati con mandato internazionale emesso da Bucarest si trova in Italia" Non lo dico io, lo disse nel 2009 l’allora ministro romeno della Giustizia Catalin Predoiu, dato confermato l'altro giorno a SUM #01 dal procuratore di Messina Ardita. Motivo per cui non ho nessun motivo oggettivo di mettere in dubbio questa affermazione". Mettiamo a confronto le due frasi: "L'Italia ha importato dalla Romania il 40% dei loro criminali" e "il 40% dei ricercati con mandato internazionale emesso da Bucarest si trova in Italia". Per come la vedo io, non sono la stessa frase. Nella prima, si afferma o si cerca di far capire che il 40% dei criminali che agiscono in Italia sono rumeni o che il 40% dei criminali rumeni esercita in Italia. Nella seconda si afferma qualcosa di molto meno allarmante: cioè che tra i ricercati (quindi non condannati) rumeni al di fuori della Romania, 4 su dieci stanno in Italia. Se un giornalista usasse la prima frase per sintetizzare il concetto espresso nella seconda, commetterebbe un errore grave, molto grave. Cerchiamo di spiegare meglio infatti: i romeni sono la prima comunità di stranieri residente in Italia per numero: secondo gli ultimi dati Istat che trovate online sono circa 1.115.000 (oltre un milione) su 60 milioni di italiani. Sempre i dati Istat ci dicono anche quanti sono i "delinquenti" romeni in Italia, o meglio gli autori di delitti denunciati e identificati dalle forze dell'Ordine: nel 2015 sono stati 58mila. 58mila su un milione e 115mila. Tanti? Pochi? Diciamo che sono circa un sesto degli stranieri identificati per aver commesso un delitto in Italia. I reati commessi da stranieri sono meno di un terzo di quelli totali (scusate le approssimazioni e gli arrotondamenti). Ecco, forse messa così la situazione sembra meno preoccupante. Di più, come nota Luca Sofri sul suo blog (che leggo mentre finisco di completare questo post), i romeni emigrati in altri paesi della Ue sono circa 2 milioni e mezzo in totale: l'Italia ne ospita poco più di un milione. Quindi dire che il 40% dei romeni che commettono reati fuori dalla Romania sta in Italia non ha nulla di allarmante ma si tratta, appunto, di semplice proporzione rispetto a quanti abitano nel nostro paese. In conclusione, quanto affermato da Di Maio in prima battuta è una balla e, dopo la precisazione, un messaggio di inutile allarmismo.

Di Maio sulla graticola per avere detto una banalità, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 13/04/2017 su "Il Giornale". Ci risiamo con le verità indicibili. Con le banalità che tutti pensano ma alle quali nessuno può dare fiato. Questa volta è stato il turno di Luigi Di Maio. Il vicepresidente della Camera - politico dalla non particolare audacia - ha osato dire che il 40 per cento dei criminali romeni vengono in Italia. Apriti cielo. Si sono rotte le cateratte dell'indignazione politicamente corretta e via con uno tsunami di critiche. Si sono mossi gli ambasciatori, le associazioni e i sacerdoti del buonismo accusando l'esponente grillino di fare torbida propaganda xenofoba. Proviamo a mettere le cose al loro posto, sgombrando innanzitutto il campo dall'ombra del razzismo: non esistono popolazioni che delinquono più delle altre per questioni etniche e Di Maio poteva essere un po' più circostanziato nella sua dichiarazione. Ma ha detto una cosa vera, per una volta. La sua colpa è, semmai, averla detta con colpevole ritardo. Almeno rispetto a questo quotidiano e alla percezione di buona parte degli italiani. Nel 2013, proprio su queste pagine, in un articolo firmato da Giuseppe Marino e Fausto Biloslavo, si faceva notare come l'Italia esportasse in Romania aziende e importasse criminali. Dati alla mano. «Nel 2009 - scrivevamo - il ministro della Giustizia romeno, Catalin Preodiu, aveva fatto trapelare un dato allarmante: il 40% dei ricercati con mandato internazionale emesso da Bucarest si trovava in Italia». Dato rilanciato recentemente dal procuratore di Messina Sebastiano Ardita e prontamente raccolto da Di Maio. I numeri più recenti spostano di poco la questione. Nel 2015 - secondo le statistiche Istat - sono stati denunciati 58.555 reati commessi da cittadini romeni. Nel 2008 erano 42.177. Solamente nel 2016 i cittadini di Bucarest hanno perso il primo posto nella classifica dei detenuti stranieri nelle nostre prigioni: secondo i dati del ministero della Giustizia - aggiornati al 31 marzo di quest'anno - i romeni in carcere sono 2.719, il 14,2 per cento del totale, preceduti solamente dai cittadini marocchini. E quindi? Dove sarebbe lo scandalo? Non si può dire che il nostro Paese è un bengodi per criminali stranieri e in particolare romeni? A forza di inseguire le fake news ci si dimentica di dire la verità. Forse i politici dovrebbero perdere meno tempo a mozzar lingue in nome del politicamente corretto e dedicarsi un po' di più ai problemi reali dei cittadini. Come la criminalità.

Linate, banda dell'est chiede pizzo a clochard: "Italiani siete delle m...". Un uomo e tre donne dell'est affittano a 10 euro un posto a terra all'aeroporto di Linate. E vendono coperte a 20 euro a chi le vuole, scrive Claudio Cartaldo, Martedì 24/01/2017, su "Il Giornale". Chiedono il pizzo per dormire all'aeroporto di Linate. Una banda di tre donne e un uomo dell'est, forse nomadi, sono stati scoperti da Striscia la Notizia a lucrare sulla pelle delle persone che non hanno una casa e che in questi giorni di freddo cercano riparo nello scalo milanese. Due complici di Striscia si sono finti senzatetto ed hanno cercato di passare alcune notti a Linate. Non appena hanno disteso i cartoni in terra, si è avvicinato l'uomo della banda e ha chiesto loro 10 euro a testa per avere un posto dove dormire. Tutti i senzatetto devono pagare, altrimenti vengono cacciati dall'aeroporto e sono costretti ad affrontare il gelido inverno. I soldi devono essere consegnati fuori dallo scalo e nessuno è escluso. Per chi vuole, i quattro balordi dell'est vendono anche delle coperte al prezzo di 20 euro. Una vera e propria organizzazione che si arricchisce sulla pelle dei più bisognosi. "Io ho pochi soldi....- dice uno dei complici di Striscia - te li devo dare subito o dopo?" "Subito", risponde senza timore la più giovane componente della banda. La quale dopo aver ricevuto il denaro, indica ai due finti clochard il posto loro assegnato e spiega che "ti devi svegliare alle 6 e andare via, ok?". Per tenere una contabilità precisa, la donna si segna su un taccuino i nomi dei senzatetto cui ha estorto denaro. ""Prendiamo il nome così sappiamo quanti giorni state qua", spiega diligente. Quando l'inviato di Striscia, Max Laudadio avvicina i componenti della banda, questi scappano e negano ogni accusa nonostante l'evidenza delle immagini. La più giovane si rifugia all'interno di una zona cui le sarebbe interdetto entrare, ma l'addetto dello scalo di Linate caccia tutti: cameraman, giornalista e la donna. Allora la nomade urla la sua rabbia: "Italiani sono delle merde - grida afferrando il microfono - Perché mi rompi il cazzo?".

Furti, truffe, rapine, evasioni. Controllo nel campo nomadi sono pregiudicati 67 rom su 83. Blitz dei carabinieri a Baranzate. Si allarga la zona abusiva, scrive Andrea Galli il 25 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. La densità criminale è ormai pari alla densità abitativa. Il campo rom di Baranzate in via Monte Bisbino, visitato nelle ultime ore dai carabinieri con risultati sorprendenti (specie nel saldo tra le persone controllate e quelle pregiudicate: 83 le prime e addirittura 67 le seconde) è diviso in due parti. La prima poggia su terreni di proprietà dei nomadi che poi vivono in casette e roulotte; l’altra parte, che si spinge fino al confine con l’autostrada dei Laghi, è una zona completamente abusiva ma in larga e disordinata crescita. Ora, che il campo abbia una popolazione con enormi problemi di giustizia non ne fa un caso unico nel panorama milanese. Ulteriori massicce presenze di residenti noti alle forze dell’ordine capitano al Gratosoglio come al Corvetto, in via Quarti a Baggio come a Quarto Oggiaro, e via elencando. Di specifico però, a Baranzate, ci sono i numeri. Pesanti. Tre rom su quattro sono pregiudicati. Senza alcuna distinzione di reato e nazionalità. Per cominciare, in via Monte Bisbino non ci sono solo stranieri. Negli 83 fermati nell’operazione guidata dalla Compagnia di Porta Magenta con la collaborazione del Terzo Reggimento (è buona abitudine presentarsi in forza per evitare accerchiamenti e agguati), c’erano 29 italiani. Il resto del gruppo era formato da romeni (33), quindi da serbi, croati e bosniaci, e contemplava pure un austriaco e un belga. Il campionario di reati vede soprattutto i furti nei negozi. A seguire quelli nelle case, le truffe e le rapine. L’età, a Baranzate, non è un discrimine. Se esaminiamo i pregiudicati minorenni, ne troviamo 19, dei quali 11 femmine e 8 maschi. Ugualmente abbondante la fascia dai 18 ai 30 anni: di nuovo 11 femmine mentre i maschi erano 30. Nel campo nessuno, bisogna dirlo, ha protestato contro l’arrivo delle pattuglie, ha alzato barricate o si è opposto alle operazioni di identificazione. E allo stesso modo, quantomeno senza andar troppo indietro nel tempo, la comunità rom non sta dando problemi di sorta costringendo le forze dell’ordine a intervenire di continuo. Forse perché l’insediamento, spiega un investigatore dell’Arma, ha bisogno di «pace» e dell’assenza di visite indesiderate in quanto è base delle attività illecite, quali il nascondiglio di armi per il mercato nero di pistole e fucili, e ancora del bottino delle varie razzie. Non è leggenda che in via Monte Bisbino, negli anni, siano state trovate casseforti ammucchiate in un angolo dopo esser state smurate, trasferite, aperte e svuotate. Se qualcuno adesso protesterà contro questa delinquenza smisurata invocando la necessità di cacciare subito i rom, non ci si può dimenticare i percorsi avviati con fatica e impegno da parte di educatori, insegnanti e volontari per far studiare i piccoli. Dopodiché, sono stati 16 i romeni scoperti abitare in tane nella parte abusiva; c’era una Citroen rubata e c’era un altro romeno, 25enne, ricercato per evasione: forse era convinto che non l’avrebbero stanato o che sarebbe riuscito a scappare informato dalle classiche, eterne vedette del campo. Ma le sentinelle sono state anticipate e beffate dai carabinieri.

Il fortino dei rom sinti, armi e rapine, sono tutti pregiudicati, scrive il 30/08/2014 “Il Corriere della Sera”. Aperto dal Comune nel 1999, doveva essere il «campo modello». Nell’area attrezzata alla periferia Sud vivono 250 nomadi italiani. Lasciate ogni speranza, voi che entrate. Anzi, se potete statene alla larga. L’inferno ha questo indirizzo: via della Chiesa Rossa 351. Una stradina asfaltata che corre sulla sinistra del Naviglio, quasi al confine con Valleambrosia e Rozzano. Un recinto di metallo dal quale sbucano poche lussuosissime roulotte e casette prefabbricate negli anni trasformate in ville, con statue da giardino e figure mitologiche. Nei quattro vialetti che dividono questo enorme rettangolo «urbano» circondato dai campi di mais e frumento, ci sono auto parcheggiate ridotte ormai a scheletri e altre, Bmw e Mercedes, con pochi mesi di vita. Nuove e lussuose. E anche le case nascondono tesori e televisori al plasma dalle dimensioni esagerate, mobili pregiati e un infinito campionario di oggettistica dal dubbio gusto ma dal valore consistente. Ecco il campo nomadi comunale di via Chiesa Rossa. Gli abitanti sono poco più di 250. Ma i numeri sono «variabili» in barba ai regolamenti comunali e a quei patti per la legalità voluti dal Comune. Perché le famiglie – quasi tutti si chiamano Hudorovich, Braidich e Deragna – sono imparentate tra loro e hanno legami stretti con quelle del campo di via Negrotto. Così succede che chi finisce agli arresti domiciliari possa indicare di volta in volta la dimora in un insediamento piuttosto che nell’altro. Tanto sempre di terra amica si tratta. Amica per qualcuno e ostile per molti altri. Autotrasportatori, corrieri, rappresentanti di merce preziosa o di alta tecnologia, non importa. Tutti vengono invitati a presentarsi all’anonimo indirizzo di via Chiesa Rossa 351 (indicato da un cartello lungo la strada) e poi finiscono regolarmente minacciati e derubati, se non aggrediti e cacciati a colpi di fucile. Succede spesso, quasi ogni giorno. Tanto che il famigerato «351» è ormai segnalato in tutti gli archivi degli spedizionieri come territorio da evitare, consegna da rifiutare. Il camion resta imprigionato nella via a fondo chiuso che circonda il campo, dalle case escono venti o trenta ragazzini e qualche adulto con i «ferri» in mano: pistole, vecchie doppiette o kalashnikov dell’ex Jugoslavia. L’autista è messo in fuga con le buone, altrimenti sono pistolettate sparate sull’asfalto accanto ai piedi, come nei cartoni animati sul vecchio West. Se tutto va bene il furgone viene riconsegnato dopo una mezz’ora, svuotato ma salvo. «Tutti i residenti del campo di via Chiesa Rossa 351, maggiorenni o minori, purché di età imputabile, hanno precedenti», recita un recente rapporto delle forze dell’ordine. Tutti, donne e uomini, esclusi i minori di 14 anni che per legge non possono essere accusati di reati. Un record fatto di furti (la stragrande maggioranza), rapine, aggressioni e resistenza a pubblico ufficiale. Non mancano però reati ben più seri, dalle bande di rapinatori (25 arresti nel 2008) al tentato omicidio. L’ultimo caso è della scorsa settimana quando due nomadi di via Chiesa Rossa sono stati arrestati (tre sono ancora ricercati) dopo aver cacciato a pistolettate alcuni africani che si erano accampati nei dintorni. Sembrerà assurdo a molti, ma qui anche polizia e carabinieri hanno enormi difficoltà a mettere piede. L’ultimo episodio riguarda una gazzella dei carabinieri presa a sassate. Se arriva una segnalazione la procedura non prevede interventi solitari. Anzi, si entra solo quando si sono radunati almeno quattro equipaggi e solo se strettamente necessario. Spesso il blitz finisce in un nulla di fatto, altre si riesce ad aprire una trattativa con i «leader» del campo: se si è fortunati la refurtiva, il Tir, l’auto o lo scooter, compaiono come per incanto un paio d’ore dopo fuori dalle recinzioni, in un’area comune così da non poter attribuire responsabilità ai singoli. Entrano con un po’ più di facilità quelli del commissariato competente (Scalo Romana) e della stazione dei carabinieri (Gratosoglio) o alcuni, selezionati, agenti della polizia locale, presenze ormai «tollerate». In questo modo, solo la polizia ha recuperato negli ultimi mesi una cinquantina di ruspe Bobcat rubate dai cantieri. La specialità dei nomadi di Chiesa Rossa. Ma per ottenere risultati servono prove di forza massicce. In un caso, ad esempio, i poliziotti avevano avuto la certezza che nell’area si trovassero delle statue rubate in una villa. Blitz con 150 agenti e statue lasciate, il mattino dopo, fuori dal commissariato di via Chopin: trasportate di peso e riconsegnate. Dai «cugini» di via Negrotto, quelli di via Chiesa Rossa hanno appreso il gusto per il design. Lo sanno bene i mobilieri della Brianza truffati e rapinati con maxi ordinazioni di arredi di lusso che puntualmente venivano «svaligiati» dai camion. «Noi siamo operai, ci spacchiamo la schiena nei cantieri. Sono tutte bugie», si giustificano gli abitanti. Nel 2009 ad alcuni nomadi vennero sequestrati beni per 2 milioni di euro: una villa con piscina a Dairago e auto di lusso. Il campo è stato creato nel ‘99 per gli sfollati di via Palizzi, via Fattori e Muggiano. Secondo i piani di Palazzo Marino doveva diventare «l’insediamento modello» per Milano. Chissà se la pensano ancora così.

Mario Giordano: “Gli italiani non sono razzisti. Sono stanchi”, scrive il 18/02/2017 Michel Dessì su Interviste “Il Giornale”. Incontrare Mario Giordano, direttore del TG4, da lui totalmente rinnovato tanto da aver ripreso smalto, leggerezza e credibilità, non è sicuramente cosa da poco. Il Direttore rappresenta la comunicazione a tutto tondo. Carta stampata, libri, televisione, web… Una carriera in costante mutamento che ha sempre tenuto conto della necessità della gente comune di conoscere la verità. Quella che spesso viene rivestita dell’abito chiassosamente variopinto dell’impressione e del giudizio personale.

Direttore, quanti italiani La contattano quotidianamente sperando di trovare tramite Lei la soluzione ai propri problemi?

“Tanti, tantissimi. E questo è un problema serio: quando la Tv o un giornale diventano l’unica speranza per la risoluzione di un dramma vuol dire che le istituzioni hanno fallito”.

Quanto è OFF, oggi, dare voce alla piazza piuttosto che alle tribune abbondantemente popolate di presunti vip televisivi?

“E’ molto off. E proprio per questo mi piace farlo”.

C’è stata mai un’occasione nella quale Mario Giordano sia stato OFF? Se sì, quale?

“Mi sento sempre un po’ off. E anche un po’ off limits. Però se essere on significa partecipare alla Leopolda, beh, preferisco essere off”.

L’Italia sta cambiando volto, divenendo forzatamente multietnica e, di conseguenza, multi culturale. Come cambia l’informazione quando deve soddisfare così tante esigenze?

“L’informazione è nell’occhio del ciclone di mille trasformazioni: tecnologiche, economiche, strategiche, culturali. Però io credo che la questione del multiculturalismo non riguardi tanto il mondo dell’informazione, ma il mondo in sé.  Cioè la nostra civiltà. E dobbiamo chiederci se anziché di fronte all’integrazione non siamo di fronte a un’invasione, se anziché costruire una società multietnica stiamo distruggendo le nostre radici…”

Scegliere l’Italia e gli Italiani sembra sia diventato sinonimo di razzismo e xenofobia. Il contrario non sarebbe una resa incondizionata all’invasione?

“Oggi si usa l’espressione “razzista” (ma anche xenofobo, demagogo, populista, etc) quanto mai a sproposito. L’Italia non è un Paese razzista, gli italiani non sono razzisti. Si fanno semplicemente alcune domande che io ritengo legittime. Ogni buon padre di famiglia, del resto, prima di invitare a cena sconosciuti, pensa a sfamare i suoi figli, no? E perché invece lo Stato italiano non lo fa?”

E se un giorno una classe politica a maggioranza non italiana riuscisse a cambiare totalmente la Costituzione, dove andrebbero a finire gli ultimi secoli di indipendenza e lotta per la democrazia?

“Credo che quello che ha raccontato Houellebecq in Sottomissione possa trasformarsi in una tragica realtà”.

Amare l’Italia sta diventando OFF?

“Se ci pensa lo è sempre stato. Non è un caso che i più ferventi sostenitori del multiculturalismo e dell’integrazione vengono dall’esperienza degli anni Settanta in cui la parola “Patria” era bandita e censurata (insieme a Dio e famiglia, altre due radici della nostra civiltà che stiamo progressivamente distruggendo)”.

L’Unione Europea sembra aver deluso i sogni, le aspettative, i progetti di tutti i suoi popoli. C’è chi ne è già uscito, chi lo spera, chi si sta organizzando per farlo. Lei si sente ancora cittadino europeo?

“Non mi sono mai sentito europeo.  Sulla costruzione dell’Europa è stato sbagliato tutto in modo ormai, io ritengo, irrimediabile. L’unica soluzione è tornare indietro”.

Il premier e il governo stanno cominciando a prendere le distanze dalla politica europea sull’immigrazione. Si tratta di una manovra politica, prereferendaria, oppure di una presa d’atto del collasso di tutto il sistema d’accoglienza?

“Si cerca di scaricare altrove anche le proprie colpe. Per mesi e mesi a ogni nostra osservazione ci rispondevano: “Ci penserà l’Europa…”. Ma non era difficile immaginare quello che sarebbe successo”.

Da pochissimo tempo è iniziata per Lei una nuova avventura editoriale, la collaborazione con Maurizio Belpietro sul neonato quotidiano La Verità. Cos’è la verità e quanto vale?

“La verità è una ricerca quotidiana. Vale la vita”.

Conclusioni finali…

“Una conclusione ha senso solo se è un inizio”.