foto antonio  1.jpgDenuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.

Dr Antonio Giangrande  

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INCHIESTE IN TESTO: TEMA - TERRITORIO

 

 

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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I TORINESI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!

di Antonio Giangrande

(Inchiesta basata su atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).

   


TUTTO SU TORINO

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

I TORINESI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!

Quello che i Torinesi non avrebbero mai potuto scrivere.

Quello che i Torinesi non avrebbero mai voluto leggere. 

di Antonio Giangrande

SOMMARIO

 

INTRODUZIONE

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.

BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!

IL BUSINESS DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

GRINZANE E LA MAFIA BIANCA.

APPALTOPOLI, BRUNO TINTI E QUELLO CHE NON SI DICE.

TORINO NON AMA ALESSANDRO DEL PIERO.

SE RUBARE PER COLPA NON COSTITUISCE REATO.

FIRME FALSE, ABITUDINI PIEMONTESI.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

LUIGIA PADALINO. MESSA A TACERE PERCHE’ CERCAVA  LA VERITA’.

PIEMONTE…VERGOGNA. SI FA MA NON SI DICE.

PIEMONTE. GIUNTA REGIONALE ABUSIVA.

RIMBORSOPOLI. POLITICI PIEMONTESI: ABUSIVI E DANNOSI?

GIANCARLO CASELLI: LUCI ED OMBRE.

GIUSEPPE MARABOTTO NON HA INSEGNATO NIENTE. IL CASO DI VINCENZO TOSCANO E DI GIUSEPPE SALERNO.

LA LEGA DA LEGARE. RIMBORSOPOLI REGIONALE.

CONCITTADINI FAMOSI: DON CIOTTI, LA MAFIA DELLE CHIACCHIERE.

PARLIAMO DI MAFIA.

SPRECOPOLI. MORALITA’ A GO GO.

MAI DIRE INTERDIZIONE ED INABILITAZIONE: “MESSI A TACERE PERCHE’ RICERCAVAMO LA VERITA’….”

PADANIA: PO' LENTONIA? BARBARIA? NO, LADRONIA!

PARLIAMO DI MASSONERIA.

PARLIAMO DI MAGISTRATI. MARABOTTO E GLI ALTRI.

ITALIA MALATA - QUANDO I "BUONI" TRADISCONO.

PARLIAMO DI CONCORSI UNIVERSITARI TRUCCATI.

PARLIAMO DI MALASANITA'.

PARLIAMO DI INGIUSTIZIA.

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani. 

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.  

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.  Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il bene placido delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruoscrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo. 

Oliviero Toscani, intervenendo alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" su Radio 24, ha definito i veneti «un popolo di ubriaconi e alcolizzati. Poveretti, non è colpa loro se nascono in Veneto». «I veneti sono un popolo di ubriaconi - ha proseguito Toscani - Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». «Poveretti i veneti - ha ribadito - non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino. Basta sentire l’accento veneto: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino».

Oliviero Toscani e le offese ai veneti. Un pasticcio geografico da risolvere con le scuse. A «La zanzara» su Radio24 ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». Il presidente del Veneto: «Chieda scusa», scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Si chiama Toscani, è lombardo e ha fatto incavolare i veneti: bel pasticcio geografico. A «La zanzara» su Radio24 - il programma dovrebbe chiamarsi «Il ragno», visto quanti ne cattura nella sua rete - ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri (...) Poveretti i veneti, non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino (...) Basta sentire l’accento: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino». Perché lo ha fatto? Pensava di essere spiritoso. «Era una battuta divertente. Se gli unici a non divertirsi sono alcuni veneti, mi dispiace». Divertente? Mettiamola così: il fotografo Oliviero Toscani è più bravo con gli occhi che con la lingua. E l’umorismo sballato è un’aggravante, non un’attenuante. Infatti, in Veneto, sono partite proteste, querele, class action, dichiarazioni politiche (quelle non mancano mai). Significa che è vietato scherzare su nazioni, regioni, città? Certo che no. Vuol dire, come sostiene la correttezza politica, che «i caratteri dei popoli sono un’invenzione, ed esistono solo le persone»? Macché. Gli ambienti - la storia, la geografia, l’economia, la cultura - condizionano i comportamenti. Esiste un comun denominatore tedesco, come esiste un comun denominatore americano, russo, italiano. Chi lo nega è in malafede. E tra noi italiani esistono i lombardi, i toscani, i siciliani. I primi tendono all’entusiasmo, i secondi alla tattica, i terzi all’attesa. Come Berlusconi, Renzi, Mattarella. Come riassunto dell’elezione del presidente della Repubblica, vi piace? O è banale? Be’, comunque nessuno s’è offeso: non a Milano, non a Firenze, non a Palermo. Per un motivo semplice: lombardi, toscani e siciliani mi piacciono. Mi piace il fatto che esistano italiani diversi. E s’è capito anche in poche righe. Cosa sto cercando di dire? Una cosa semplice. Mai parlare, mai scrivere, mai giudicare pubblicamente un popolo, se non gli vuoi bene. Mai scegliere l’umorismo se non sei certo di saperlo maneggiare. L’ironia è la sorella laica della misericordia; il sarcasmo, il fratello odioso dell’intelligenza. Una sintesi affettuosa è consentita, gradita e utile. Una generalizzazione acida è inopportuna, sgradita e insidiosa. Oliviero Toscani, che non è né cattivo né sciocco, dovrebbe averlo capito. Chieda scusa e finiamola qui. Ostrega!

«Veneti ubriaconi», denunciato Toscani e sul web impazza la satira, scrive”Il Gazzettino”. Alcuni tribunali hanno ricevuto oggi esposti e ricorsi contro il fotografo Oliviero Toscani per le offese ai veneti definiti "Un popolo di ubriaconi, dei poveretti" , ma anche politici di vario colore si stanno attivando con iniziative: «Non può rimanere impunito, la giunta Zaia deve chiedere il rispetto della legge Mancino che punisce, anche col carcere, chi con azioni o dichiarazioni fa discriminazioni per motivi razziali, etnici o religiosi» attacca il consigliere regionale Giovanni Furlanetto del Gruppo Misto, che ha presentato un'interrogazione urgente «È necessario che la giunta difenda il proprio popolo, l'immagine che Toscani ha voluto dare è distorta e mirata a screditare un Popolo. Forse aveva bevuto prima di esternare tali pensieri verso una delle regioni più laboriose ed ingegnose d'Europa». Tornando agli aspetti legali a Padova mezza dozzina di cittadini si sono sentiti particolarmente offesi dalle dichiarazioni dell'ex pubblicitario del gruppo Benetton e ha chiesto un risarcimento danni. L'avvocato Giorgio Destro assiste Renza Pregnolato, interprete, una 59enne, nativa di Vescovana ma residente a Padova e spiega: «Abbiamo già presentato una citazione a giudizio per Toscani a comparire di fronte al Giudice di Pace, chiedendo 5 mila euro di risarcimento per danni morali per ingiuria e diffamazione - dice l'avvocato Destro - Se alla causa, che potrebbe essere discussa il 16 aprile prossimo, si aggiungeranno altre persone si può valutate una class action». Naturalmente ironie, satira e commenti stanno inondando il web.

Oliviero Toscani insiste: "Nessuna scusa ai veneti ''ubriaconi'', loro chiamano terroni i meridionali". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti..., scrive “Radio 24”. Toscani: "Non chiedo scusa ai Veneti, le ricerche mi danno ragione". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti: "Non devo chiedere scusa, non ho detto niente di male. Ci sono anche ricerche e statistiche. Il Veneto era una regione poverissima e l'unica ricchezza era la medicina, il vino e la grappa che si dava anche ai bambini per curarli. Un alcolismo atavico". "Chiedo scusa per loro dice Toscani ironicamente per quelli che non hanno capito la satira". Il governatore Zaia pretende le scuse, insistono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: "Zaia non ha niente da fare (no ga gnente da far, benedetto, dice Toscani in dialetto, ndr) se si cura di una stupidata così. Ci rida sopra. E poi alzi la mano un veneto che non ha mai dato del terrone a un italiano del sud. Ditemi un veneto che non ha mai insultato un nero o un immigrato. Vi ricordate di Gentilini?". "Non penso di aver offeso nessuno spiega ancora il fotografo a Toscani: "Alzi la mano un veneto che non ha mai insultato il Sud o gli immigrati. Ho detto una cosa banale e scontata, un po' di senso di humor, dai. Una volta era un popolo che rideva, adesso hanno la coda di paglia. Forse si sono offesi perché quello che ho detto è un po' vero. Ho letto anche che dovrei sciacquarmi la bocca, sì ma col prosecco". Ma lei ha lavorato tanto tempo con aziende venete, sputa nel piatto dove ha mangiato?: "Che storia questa. Ho lavorato e se non fossi stato bravo non mi avrebbero pagato. Li ho fatto diventare famosi, anche per prodotti in cui i veneti non sono forti. Ho lavorato seriamente, cosa devo ringraziare?".

La mia amica terrona e la paura della Polentonia. Ho un’amica di origini terrone che vive a Milano, scrive “Marteago”. Per motivi di lavoro si dovrebbe spostare in Veneto. La sapete la sua preoccupazione? Ha paura del razzismo dei veneti nei confronti dei terroni. La cosa mi ha fatto pensare. Ma noi polentoni siamo davvero così cattivi? Peggio dei milanesi? La risposta é sì e anche no. Cioé dipende. C’é sicuramente del risentimento del veneto lavoratore che paga le tasse e se le vede sperperare da Roma che li passa a dei brutti soggetti al Sud. C’é anche una forte differenza culturale. Diciamoci la verità. Siamo popoli diversi. L’Italia é un’arlecchino messo assieme a forza. Un napoletano con un veneto centra tanto quanto un veneto con un austriaco. E’ ovvio: l’Austria é più vicina. Mi permetto di fare questa analisi in virtù della mia visione mondiale dei popoli. Cioé viaggio molto, vedo molti popoli, passo le frontiere e mi rendo conto di come spesso queste frontiere non corrispondano con le vere frontiere dei popoli. In Italia, se volessimo avere delle frontiere reali, ce ne sarebbe una dalle parti di Roma. Staremmo meglio noi, e starebbero meglio anche loro, che sono in gran parte vittime della Cassa del Mezzogiorno. Insomma, motivi per non amarci ce ne sono molti. Però…dobbiamo fare uno sforzo e capire un concetto fondamentale: il singolo non può essere ritenuto responsabile delle colpe collettive. Non possiamo incolpare il mio amico Jack di Shanghai del fatto che in Cina c’é la pena di morte. Non possiamo incolpare una ragazza rumena del fatto che ci sono i Rom che rubano. Non possiamo incolpare il Fullio del fatto che la gran parte dei politici sono dei brutti soggetti. Frasi inutili: é sempre più semplice generalizzare. Almeno all’inizio. Qui sta in effetti la soluzione. Ho detto alla mia amica che se viene in Veneto la gente che conoscerà  la tratterà  bene, perché é una brava ragazza. Ci saranno sicuramente delle situazioni poco simpatiche: la cassiera al supermercato che appena sente il suo accento scende di tre gradi centigradi e le crescono le unghie, il benzinaio ignorante e leghista che sfoga la sua frustrazione facendo cadere una goccia della benzina sulle sue scarpe da terrona pagate con le sue tasse e così via. Ma ci sarà  anche gente che le vorrà  bene, nuove amicizie e situazioni simpatiche. Non sarà  sempre facile. Mi sono permesso di usare il termine “terrona” proprio per svuotarlo dell’accezione negativa. Noi siamo polentoni e loro terroni. Domani vado a Riga con quattro catanesi, quindi non posso essere accusato di niente. Voi cosa ne pensate? Avete esperienze al riguardo? E se chi legge é del Sud..come siamo noi veneti? Che difficoltà  ci sono per chi viene da fuori? Perché siamo brava gente in fondo, o no?

Toscani, lettera di scuse a Zaia, «Ma dentro di me confermo tutto». Il fotografo risponde al governatore: sono lombardo e atavicamente leghista, come voi ho nell’anima il sentore di latte vaccino e quella voglia naturale di non pagare le tasse, scrive “Il Corriere del Veneto”.

«Caro Signor Presidente, Le scrivo con l’ansia e la fretta del Suo ultimatum di 48 ore che pende sulla mia testa. Deve riconoscere, Presidente, che persino le ingiunzioni dell’Isis lasciano 72 ore alla risposta. Premesso ciò, le dico che ho una cosa in comune con la lega: l’amore per le cose colorite. Sono leghista atavicamente, essendo lombardo. Ho anch’io, dentro di me, le due anime tipiche dei padani, che sotto l’illuminismo di Cesare Beccaria e Pietro Verri nascondono questo sentore del latte vaccino (che è l’alito della lega) e di quel localismo rurale che è fatto di terra, di cielo, di laghi, di nuvole, di paesaggio, di cibo, di vino; ma anche di naturale voglia di non pagare le tasse, di tenere tutto per sé, di non essere solidali, di essere intolleranti, di mettere i cani da guardia ai cancelli di ferro battuto della propria villetta a schiera, per azzannare chiunque sia diverso: “Va ben el mat in piaza, ma che non sia dea mia raza”. Purtroppo, da tanti anni, io non sono più completamente della Vostra “Razza”, deve capire che io ormai sono toscano di fatto, oltre che di nome, e sono sicuro che se avessi fatto questa battuta ai miei conterranei, saccenti e saputelli come siamo, mi avrebbero subito citato Baudelaire e il suo “Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre!”. Perché proprio così, siamo noi Toscani, sempre ubriachi di virtù, di poesia, di bellezza. E di vino. Però, il Vostro linguaggio, mi piace ancora, perché è eccessivo, iperbolico, espressionista, colorato; un linguaggio che morde e non accarezza, in una parola sola: un linguaggio, secondo me, atavicamente ubriaco. Quindi chiedo ancora scusa a Lei, che è il Presidente di tutti i Veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po’ leghista che ho usato per fotografare i miei simpatici amici del Veneto. Nella sostanza, però, dentro di me, confermo tutto. Perché c’è un rapporto forte tra territorio, aria, fuoco, odori, saperi e sapori, sapori veneti come la polenta, il fegato alla veneziana, il baccalà alla vicentina, risi e bisi, il risotto alla trevigiana, e le bolle acide del Prosecco, l’alcolicità dell’Amarone, la tossicità del Clinto, la bella inconsistenza del Valpolicella, il tannino del Recioto di Soave, l’amarezza del Bardolino, l’asciuttezza del Pinot, il verdognolo del Verduzzo. Caro Presidente, ogni volta che La vedo, scorgo nella Sua faccia la gentilezza sotto l’asprezza, e l’asprezza sotto la gentilezza. Quindi, mi scusi e scusatemi. Sono sicuro che, questa volta, la Sua gentilezza e quella di tutti i Veneti prevarrà, sicuramente mi perdonerete, invece di perdere tempo, denaro, energia e simpatia nelle infinite vie legali. La ringrazio e ringrazio tutti i Veneti, sperando di incontrarvi presto per una fantastica bevuta alla salute dell’Italia Unita.

"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni". Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle. Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore-regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»), rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli e­book scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato. Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »), s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uomini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre ri­chieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».

Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?

«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».

È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio?

«Vero. Spero che mi venga perdonato».

Com’è nata l’idea di Terroni?

«Avevo delle domande, cercavo delle rispo­ste. Se davvero a fine Ottocento i meridiona­li erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo molti anni ho pensato di farne un libro».

Ha ricevuto offese o minacce?

«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».

Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa.

«Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».

Si può dire che Terroni abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri serpeggiava solo al Nord?

«No. È stato detto che Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film Benvenuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».

Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia?

«Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».

Che cosa pensa dei Savoia?

«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione, era animata dal pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».

Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.

«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i piemontesi spariva la cassa».

E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?

«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute, per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pagina oscura nel suo pas­sato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».

E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?

«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».

La peggiore figura del Risorgimento?

«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».

Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti, che l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?

«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente, si vantava d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».

Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino, quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai briganti.

«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».

Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono veneto. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo genere di contabilità, non la finiamo più?

«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo, allora».

Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini nelle malariche paludi pontine per bonificarle?

«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono. E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».

Scrive anche: «La Calabria non appartiene, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?

«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».

Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.

«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».

In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033 miliardi di euro.

«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il luogotenente, principe di Ca­rignano, in nome del quale il generale Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento”. Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivolgersi “alla carità nazionale”».

Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?

«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».

Il sociologo Luca Ricolfi in "Il sacco del Nord" documenta che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano le regioni settentrionali diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?

«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica all’Università di Bari».

S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni. A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.

«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».

Non nominare il nome di Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.

«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’editore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il risultato sperato».

Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.

«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’in­giusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».

Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infastidito dai «lettori meri­dionali che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consenso dell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta».

«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, saccheggio e strage?Mi pare la tipica autoassoluzione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere rimasero in piedi solo tre case persino il rispetto per la memoria».

Lei ha fatto il servizio militare?

«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».

Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?

«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».

Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per lei? E qual è la sua Heimat?

«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire né infliggere umiliazione” ».

Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Svizzera?

«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere derubato di nuovo».

Su quali basi andrebberifatta l’Unità d’Italia?

«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».

Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?

«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».

Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?

«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae, deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi, che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».

Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps?

«Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».

La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circa il 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.

«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».

C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati. Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.

«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto: aspettiamo».

Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?

«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio morire giornalista».

Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.

«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non puoi dirgli tu dove andare. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo, il paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto vedermi, si sarebbe messo a ridere».

Per chi vota?

«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».

Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione del Sud.

«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».

Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti.

«Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».

A sfottere godiamo: siam settentrionali.

Ecco perché abbiamo assolto Calderoli anche se disse “orango” alla Kyenge». Alcuni Pd, con alfaniani e Forza Italia, hanno difeso Calderoli dall’accusa di aver offeso l’ex ministro: «è insindacabile esercizio del mandato». Dalla satira ai leghisti di colore: ecco come il Senato ha perdonato Calderoli, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. L’ex ministro per l’Integrazione del governo di Enrico Letta, Cecile Kyenge, non è certo contenta. La giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ha assolto il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli dall’accusa di istigazione al razzismo, per aver detto, durante un comizio, «quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango». Per la giunta del Senato, il leghista scherzava, e soprattutto il suo pensiero è «insidacabile». Vale dunque l’articolo 68 della Costituzione, primo comma, sulle opinioni espresse da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, che il senatore 5 stelle Vito Crimi aveva invece chiesto di non far valere. La decisione della giunta sarà sottoposta alla conferma dell’aula. Spiazzata si è però mostrata Cecile Kyenge, per questo primo voto: «Non stiamo valutando Calderoli come persona» ha detto a Repubblica , «Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta». La delusione di Kyenge viene dal fatto che anche alcuni suoi colleghi del Pd hanno preso le parti di Calderoli: «Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti» dice Kyenge. Non sembrerebbe però, stando a quanto i membri Pd della giunta del Senato hanno spiegato all’Espresso, e a quanto è scritto nei verbali della seduta. La difesa di Calderoli è stata sostenuta con diverse argomentazioni. Il senatore Pd Claudio Moscardelli ha ad esempio difeso Calderoli sostenendo che «le accuse relative alle incitazioni all'odio razziale risultano infondate, atteso il contesto politico nel quale le frasi in questione sono state pronunciate e attesa anche la configurazione del movimento della Lega, nel cui ambito operano anche diverse persone di colore». La Lega dunque non è razzista perché ha alcuni militanti e un paio di amministratori locali di colore, e quella di Calderoli era una normale obiezione politica. Sempre di normale contesa tra protagonisti della scena pubblica parla un altro senatore democratico, Giuseppe Cucca. Cucca aggiunge però un riferimento alla satira. Secondo il senatore - si legge nel resoconto sintetico della seduta - «le parole pronunciate dal senatore Calderoli vanno valutate nell'ambito di un particolare contesto di critica politica, evidenziando altresì che spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose». La difesa, si può notare, è la stessa del senatore berlusconiano Lucio Malan secondo cui «il senatore Calderoli, nell'ambito di un comizio politico, ha svolto delle critiche rispetto agli indirizzi politici per le immigrazioni seguiti dal ministro Kyenge, effettuando altresì talune battute a scopo satirico». Al senatore 5 stelle Vito Crimi, dunque, il caso avrebbe dovuto ricordare molti passaggi dei comizi di Beppe Grillo. A difendere Calderoli, con il Pd, c’era anche l’alfaniano Carlo Giovanardi secondo cui «le opinioni espresse dal senatore Calderoli vanno inquadrate in un contesto meramente politico, avulso da qualsivoglia profilo di tipo giudiziario». Anche Giovanardi, come molti dem, è partito dalla constatazione che sempre più spesso in politica si parla così, per battute e sfottò: «Nella storia politica italiana sono ravvisabili numerosi casi nei quali sono state espresse critiche, anche attraverso locuzioni aspre, rispetto ad avversari politici e ciò non ha mai determinato alcun risvolto sul piano processuale penale». Diversamente dai suoi colleghi la pensa invece la senatrice, sempre Pd, Doris Lo Moro che all’Espresso spiega di aver votato a favore della proposta di Vito Crimi: «Ho ritenuto» dice «che tutte le valutazioni offerte dai colleghi dovessero esser valutate da un giudice, che potrebbe anche decidere che è vero che la satira usa spesso espressioni colorite ma che, come a me sembra, in questo caso la satira c’entri assai poco». Lo Moro critica anche un altro punto della difesa di Calderoli: il fatto che Kyenge non abbia presentato querela. «Mi pare che Cecile abbia invece spiegato quanto si sia sentita offesa, e comunque io penso che da donna, e da donna di colore, io mi sarei offesa, e avrei chiesto, come ho fatto, di valutare il fatto specifico, senza soffermarmi sulla simpatia che si può avere per Roberto Calderoli». Perché questo è l’altro punto. Al Senato Calderoli è quasi un mito. Vi potrà sembrare strano ma quasi tutti, ad esempio, gli riconoscono di esser l più bravo a guidare l’aula durante le sedute.

Le scuse del razzista ridicolo. A tre giorni dagli insulti al ministro Kyenge, paragonato a un orango, Roberto Calderoli si scusa ma non si dimette. 'Ho commesso un errore grave, ho fatto una sciocchezza' ha detto a Palazzo Madama. Dopo aver cercato in tutti i modi di giustificare le sue parole buttandola sulla simpatia, scrive Wil Nonleggerlo su “L’Espresso”. "Il mio errore è grave ma non è razzismo, il ministro Kyenge ha accettato le mie scuse e le manderò un mazzo di rose, non attaccherò mai più un avversario politico con parole così offensive. Ma non farò mai sconti a un governo che consente e quasi incoraggia l'ingresso illegale di stranieri nel nostro Paese, come sta avvenendo, e che ha consentito che una bambina e sua mamma fossero deportate consegnandole proprio nelle mani del tiranno da cui sono perseguitate". Così si è scusato Roberto Calderoli per le parole pronunciate il 13 luglio 2013 a Treviglio, dal palco della festa della Lega Nord con cui aveva paragonato il ministro Kyenge ad un "orango". Con "disagio e imbarazzo" oggi "mi scuso con il Senato" e "con il presidente Napolitano" ha detto. "Ho commesso un errore gravissimo, ho fatto una sciocchezza ma il giudizio sul mio ruolo di vicepresidente deve essere dato su quello che faccio in questa Aula". Il giorno dopo, a scandalo esploso, era cominciata la girandola di "giustificazioni" di Calderoli. Della serie, suvvia, eravamo nei "termini della simpatia". "Io mi consolo quando navigo in Internet e vedo le fotografie del governo. Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge penso subito alle sembianze di un orango".

A Radio Capital dichiara (14 luglio):

"Ma dai, è stata una battuta, una battuta nei termini della simpatia. Niente di particolarmente contro, solo mie impressioni: non l'ho paragonata ad un orango, ma ne ha i lineamenti. Ho anche detto che sarebbe un ottimo ministro, ma in Congo. Guardi, avrei rivolto le stesse critiche alla canoista".

Ok, e le dimissioni?

"Dimettermi? Ma da cosa? Ma stiamo scherzando?! Non ci penso proprio". "Io sono stato eletto dal popolo e nominato vicepresidente dal Senato. Forse chi parla delle mie dimissioni vuole aggirare un altro argomento, quello kazako".

All'Ansa, "i problemi sono altri" (14 luglio):

"Non vorrei che il polverone su di me serva a coprire altro, non sarò capro espiatorio: non vorrei che si chiedano le mie dimissioni per evitare di parlare di possibili dimissioni di qualche ministro per la vicenda kazaka. Una mia battuta non può essere paragonata ai danni che questo Governo sta facendo al Paese".

Era un "intervento politico più articolato":

"Ho parlato in un comizio, ho fatto una battuta, magari infelice, ma da comizio. Non volevo offendere e se il ministro Kyenge si è offesa me ne scuso, ma la mia battuta si è inserita in un ben più articolato e politico intervento di critica al ministro e alla sua politica".

E non accusatelo di razzismo:

"Per farmi perdonare dal ministro Kyenge la invito ufficialmente ad un dibattito alla Berghemfest nel mese di agosto, la tradizionale festa della Lega, ma sappia che non le farò sconti sulle critiche al suo modo di fare politica... E non voglio sentire accuse di razzismo da parte di politici che sono razzisti ogni giorno con i cittadini del nord".

Due giorni dopo, e siamo al 15 luglio, si parte con le interviste.

"Amo gli animali, e poi il mio era un giudizio estetico". Al Corriere della Sera dice che c'è pure "Letta l'airone", "Alfano la rana"...:

"Adesso non posso proprio. Scusi, ma inizia la MotoGp. Ci sentiamo più tardi... Ora si dibatte su una frase estrapolata dal contesto, ma al comizio ho fatto una premessa, cioè il mio amore per gli animali. Lì - sbagliando, lo ammetto - ho esplicitato un pensiero: citare l'orango era un giudizio estetico che non voleva essere razzista. Mi lasci spiegare. Io ho una mia forma mentis: quando conosco una persona, faccio paragoni estetici con un animale. Per tutti. Io vedo il presidente Letta un po' come un airone: le gambe lunghe, zampetta nella palude. Il vicepresidente Alfano? Forse un po' rana. Il ministro Cancellieri? Mi dà l'idea del San Bernardo, che è pacioso ma sa anche mordere. Fabrizio Saccomanni, dell'Economia, l'ho sempre visto come Paperon de' Paperoni che sotto le ali ha i miliardi. Il titolare degli Affari europei Enzo Moavero Milanesi lo vedo pavone, con il riporto fa la coda. Per ciascuno ne ho una... Mi è spiaciuto che, di un intervento di 45 minuti tenuto davanti a 1.500 persone, tutto si sia ridotto alla questione dell'orango. Molto è montato ad arte.

A Repubblica conferma: "Vedo le persone come animali, ma non mi dimetto":

"Ho solo detto che le sembianze della Kyenge mi ricordano quelle di un orango. Fa parte del mio modo di essere. Sono abituato ad accostare le persone agli animali. Mi viene spontaneo fare questi accostamenti. Ma le dirò di più: a Napolitano ho regalato una bottiglia di Amarone, scrivendogli che lui è come questo vino, migliora con gli anni. Il presidente non si è offeso, mica ha pensato che volessi dargli dell’ubriacone, anzi mi ha ringraziato con una bellissima lettera. Comunque io non me ne vado, la battuta è stata decontestualizzata e amplificata ad arte. Se avessi detto che Alfano mi sembra un gorilla, nessuno avrebbe gridato al razzismo".

Insomma, "era solo un giudizio estetico, il vero razzismo è contro di noi". E al quotidiano La Stampa confida che c'è pure la "gallina ovaiola":

"C'è stata molta strumentalizzazione. Ho fatto una battuta, forse un po’ sopra le righe, ma non mi riferivo certo all’aspetto razziale. Era solo un riferimento estetico. Io ho un sacco di animali, sa? Alcuni molto strani, che non si potrebbero tenere. Li rispetto molto, per questo li paragono alle persone. Guardo Letta e penso a un airone, che con le zampe lunghe riesce a vivere nella palude... Vedo Alfano come una rana, che salta di foglia in foglia. La Cancellieri? Un San Bernardo, sì, sempre pacioso, ma quando vuole riesce a mordere. Poi c’è la De Girolamo, una gallina ovaiola".

Kyenge: “Calderoli assolto per avermi detto orango, triste il Pd che lo difende”. Per la giunta del Senato le parole del leghista sono “insindacabili” e non razziste. D’accordo tutti i partiti, tranne i 5Stelle, scrive Annalisa Cuzzocrea su “La Repubblica”. Cécile Kyenge ha vissuto con sorpresa il razzismo di cui è stata oggetto durante la sua esperienza di ministro. Ed è sorpresa e delusa ora che la politica ha deciso di lasciarla sola. Ora che - in giunta per le immunità al Senato - la maggioranza ha deciso che la frase "Quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango", non è istigazione all'odio razziale. Non se lo dice il vicepresidente di Palazzo Madama Roberto Calderoli. Non per i deputati di Forza Italia, Ncd, Lega, Autonomie, Pd che in commissione hanno preso la parola per spiegare che Calderoli non è perseguibile, che le sue parole in quanto politico sono "insindacabili", che nel suo partito ci sono persone di colore e che poi è tanto bravo a presiedere l'aula. Gli unici a protestare sono stati gli esponenti del Movimento 5 Stelle. Inascoltati.

Cos'ha pensato quando gliel'hanno detto?

"Sono stata sorpresa. Poi triste. Non per me. Vorrei uscire da questa logica perché non stiamo valutando Calderoli come persona. Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta ".

Anche alcuni senatori del Pd si sono espressi contro l'autorizzazione. Un'altra sorpresa?

"Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti. Se poi l'abbiano fatto con calcoli elettorali troverei la cosa ancora più grave. Ma io vado avanti, adesso dovrà esprimersi l'aula, spero che questo sia stato solo un incidente di percorso. Se una persona che rappresenta le istituzioni può insultare chiunque mi chiedo: chi protegge i deboli in questo Paese? Si sta creando un precedente molto pericoloso ".

Si aspettava tanti episodi di razzismo contro di lei quando è diventata ministro?

"Non fino a questo punto. La Lega lo faceva coscientemente, con un calcolo elettorale di strumentalizzazione della persona. E in questo modo l'odio e il razzismo sono aumentati. Com'è possibile che non ci si soffermi sui danni culturali di questi episodi? Mi sarei aspettata appoggio e sostegno da parte delle istituzioni".

Si sente abbandonata anche dal Pd?

"Sì, anche dal Pd. Ma è una questione trasversale, mi aspettavo di più da tutti. Ancora oggi ho una decina di cause che ho deciso di seguire personalmente. Devo ringraziare la magistratura, che è molto avanti. Un consigliere regionale leghista è stato condannato a una multa di 150mila euro per aver sostituito il mio volto con quello di un orango in una foto istituzionale. E sa perché posso dire che la Lega è un partito razzista? Perché sono stati loro a pagargli l'avvocato. Sono le azioni, non le parole, che la qualificano come tale. Sfruttano la crisi. Le persone hanno paura, cercano un colpevole, e il colpevole perfetto diventa quello che ti stanno offrendo. Molti partiti fanno coscientemente quest'operazione per dividere la società. Mi rammarica la mancanza di coraggio della classe politica e delle istituzioni".

A ben vedere, però, non è che questi settentrionali e leghisti, addirittura, siano diversi dagli altri.

L'inchiesta. 'Ndrangheta, quella maxi speculazione edilizia e i rapporti tra Flavio Tosi e l'amico del clan. L'indagine sulla mafia padana prosegue e spuntano nuove intercettazioni che chiamano in causa il sindaco di Verona per un terreno che interessava a Moreno Nicolis, l'imprenditore finito agli arresti. Un'area, da quanto risulta a “l'Espresso”, poi resa edificabile dalla giunta guidata dall'esponente leghista, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi«Per mangiare devi far mangiare». Si è sentito rispondere così il ministro delle finanze della cosca emiliana guidata dal padrino Nicolino Grande Aracri. E lui, Antonio Gualtieri, in fatto di gestione delle relazioni pubbliche non è da meno: «Questi "baluba"... non capiscono che senza politica... non si fa niente». Per questo Gualtieri ha stretto una forte amicizia con Moreno Nicolis, l'industriale del ferro di Verona, vicino all'amministrazione di Flavio Tosi. Un'aspetto quest'ultimo sottolineato anche dal giudice per le indagini preliminari di Bologna che ha firmato i mandati di cattura per 117 persone, tutte legate alla 'ndrangheta di stanza in Emilia. Ora Gualtieri e Nicolis sono entrambi indagati nell'inchiesta Aemilia. Il primo è in cella per associazione mafiosa, il secondo è agli arresti domiciliai per estorsione aggravata dal metodo mafioso. I detective dell'Arma per tre anni hanno messo sotto controllo capi, gregari, politici e colletti bianchi dei Grandi Aracri. E hanno così scoperto che Nicolis godeva di ottimi contatti con il sindaco Flavio Tosi e l'ex vice sindaco, con delega all'Urbanistica, Vito Giacino, condannato in primo grado a cinque anni per concussione. È lo stesso Antonio Gualtieri che racconta, come già rivelato da “l'Espresso” , del pranzo a casa dell'industriale veronese alla presenza di Tosi e Giacino: «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna». Ma non c'è solo questo nelle informative dei Carabinieri. Gli indagati hanno in ballo diversi affari nella città di Romeo e Giulietta. Uno di questi è l'acquisizione dei beni del fallimento Rizzi, l'altro è una speculazione che sta a cuore a Nicolis. E proprio quest'ultima sarebbe andata in porto. Tra i documenti in mano agli inquirenti infatti ci sono una serie di dialoghi in cui una donna fa riferimento all'area di Borgo Roma «vicino alla Glaxo», la multinazionale farmaceutica. E spiega che «Nicolis voleva barattare l’informazione del fallimento della Rizzi Costruzioni con il sindaco di Verona Flavio Tosi, in cambio della variazione sul piano regolatore di alcuni terreni destinati a costruzioni industriali, posti nei pressi della ditta Glaxo, in area commerciale». Di certo, da quanto risulta a “l'Espresso” la variante alla fine è stata fatta: la conferma, appunto, è nel piano degli interventi approvato dalla giunta di Tosi e Giacino. Il “Piano degli interventi” varato proprio quando Giacino era nella giunta è uno strumento urbanistico che in pratica equivale al vecchio piano regolatore. Nel Piano dell'anno 2011-2012, a firma di Giacino e Tosi, compaiono proprio due varianti urbanistiche chiesta dalla Nicofer, la società di Nicolis: la prima riguarda la ristrutturazione della sua fabbrica; la seconda invece rende per la prima volta edificabili ben 16.500 metri quadri in un'area di 42 mila nella zona sud della città, in via Golino, vicino all'ospedale di Borgo Roma, proprio nei pressi della Glaxo, la stessa indicata nelle intercettazioni. Quel piano urbanistico approvato dai politici di Verona ha quindi autorizzato la Nicofer a realizzare un grande centro commerciale. Una volta ottenuta la variante, la società di Nicolis ha poi ceduto la proprietà a un gruppo della grande distribuzione, la Supermercati Tosano. Una manovra che ha trasformato quei terreni in zona edificabile, perciò la vendita è stata molto favorevole per le casse della società veronese. Ma gli interventi della giunta Tosi a favore di quell'affare tra privati non si fermano qui. Dopo l'arresto di Giacino, la Soprintendenza ha bloccato il centro commerciale perché troppo a ridosso del Forte Tomba, la fortezza costruita nell'Ottocento dagli austriaci. Un vincolo comunicato a Nicolis il 3 febbraio 2014. Nonostante ciò, poco dopo, l'area è stata venduta alla Supermercati Tosano. A novembre quest'utltima ha fatto ricorso al Tar contro la Soprintendenza. E in questa battaglia non sarà sola, perché l'amministrazione comunale si è schiarata al fianco dei privati: secondo la l'amministrazione Tosi, la società Tosano, ma anche il venditore, cioè l'amico Nicolis, avrebbero subito un danno ingiusto. Una vera e propria anomalia secondo l'opposizione. Nicolis sa rapportarsi con la politica della sua città. Lo scrivono gli investigatori antimafia, i quali precisano che questi rapporti gli garantiscono la possibilità di «manovrare degli affari e conoscere – in anticipo – eventuali orientamenti su alcune aree cittadine, in relazione all’edificabilità o meno». Per questo Nicolis è per la ‘ndrangheta emiliana una risorsa, un pezzo pregiato del suo “capitale sociale”. E l'industriale veronese con la dote che si porta dietro conquista i cuori degli 'ndranghetisti. Per il capo clan è «l'amico degli amici». E poi è tra i pochi “padani” accettati al cospetto del padrino Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”. «Una grande persona», avrebbe detto di lui lo stesso “Manuzza”. Il manager del clan Gualtieri è convinto che con Nicolis il clan potrà puntare molto in alto: «Abbiamo un bellissimo rapporto... ma bello davvero... con quel signore che mi ha dato... la macchina... è uno dei primi industriali di Verona!... e che è lui che mi sta dando una mano politicamente per fare questo affare (riferito alla Rizzi Costruzioni ndr)». Non solo, sempre secondo il braccio imprenditoriale del padrino, Nicolis «c’ha la politica in mano.., lui, il sindaco e il vice sindaco mangiano in casa sua!!». Gli investigatori sono riusciti a ricostruire anche un incontro fondamentale per le indagini, che si è tenuto a Cutro, tra “Manuzza”, Gualtieri e Nicolis. Era il Natale del 2011. E il boss, il manager e l'industriale si ritrovano nel feudo calabrese per un summit. Dopo l'incontro, Gualtieri e Nicolis si scambiano qualche opinione sul grande capo. Le cimici piazzate nel Suv dell'emissario della 'ndrangheta intanto registrano. I due non lo sospettano e parlano. Nicolis non sembra affatto stupito dell'incontro con il boss, anzi all'inizio sembra deluso: «Non mi sembra tanto forte questo qua». Ma Gualtieri, che conosce meglio di lui l'autorità criminale, lo zittisce: «Morè, ascolta, lui è quella persona che comanda la Calabria... Senti a me, a un tuo fratello, che io ti voglio bene veramente … Morè, lui comanda». Dialoghi che secondo il giudice per le indagini preliminari che ha confermato i gravi indizi di colpevolezza e concesso gli arresti domiciliari all'incensurato Nicolis, dimostrano «il forte legame con l'associazione mafiosa, di fatto non ricollegato a comuni origini regionali né a vincoli parentali». Come dire, un rapporto allacciato per un proprio tornaconto personale. Insomma, questione di business. E di conoscenze politiche.

Emilia, la 'ndrangheta punta ai politici. Ecco l'inchiesta shock. Nell'ex regione rossa le cosche hanno messo radici. E ora vogliono influenzare la politica nazionale. Dalla processione di Delrio al pranzo del sindaco leghista Tosi, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi Il ciclone giudiziario che si è abbattuto sull'Emilia scuote la vicina Verona. Anche qui la 'ndrangheta emiliana dei Grande Aracri può contare su un piccolo nucleo. Ma soprattutto è terra santa per il business. Specie se a introdurre negli ambienti giusti il braccio destro del grande capo Nicolino detto “Manuzza” è un'industriale e di nome fa Moreno Nicolis. Un profilo impeccabile: imprenditore del ferro, ambizioso e con buone relazioni nell'amministrazione del sindaco leghista Flavio Tosi. E proprio quest'ultimo finisce ospite di Nicolis nella sua taverna. Un pranzo al quale, secondo gli investigatori dell'Arma, ha preso parte il primo cittadino, l'ex vicesindaco Vito Giacino, poi caduto per corruzione, e alcuni insospettabili manager della cosca emiliana. Uno di questi è Antonio Gualtieri, ritenuto la mente degli affari della 'ndrina e per questo è finito in cella con l'accusa di associazione mafiosa.   «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna», riferisce Gualtieri a un sodale. Una vicenda ancora tutta da chiarire. Ma confermata anche da un altra indagata, un colletto bianco dell'organizzazione che ha avuto l'onore, come lei stessa ammette, di ospitare nel suo ufficio in pieno centro a Bologna il capo dei capi “Manuzza”. È solo uno degli elementi nuovi che stanno emergendo dall'inchiesta Aemilia che ha portato al fermo di 117 persone legate alla cellula mafiosa che dagli anni '80 ha messo radici tra Modena e Piacenza, e che negli ultimi anni si sta espandendo a Est, seguendo la direttrice dell'autostrada del Brennero.  Gettando le basi per un’avanzata che si è spinta ancora più a nord, cercando di abbracciare le figure più importanti. L'avanzata prosegue. Così come l'indagine, che dura dalla fine del 2010. È di due anni fa invece il faccia a faccia tra Graziano Del Rio, ex sindaco di Reggio Emilia e ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e i pm che hanno condotto l'inchiesta di questi giorni. Il politico era stato sentito in qualità di persona informata dei fatti. Il pool  era interessato alla sua versione sulla ormai famosa processione nel paesone di Cutro, fuedo calabrese del clan Grande Aracri. Lui si è sempre giustificato spiegando che era un atto dovuto visto che Reggio e Cutro sono gemellati. Con lui però a quella processione, oltre agli altri candidati sindaci, c'era anche Antonio Olivo che, secondo fonti de “l'Espresso, ha frequentato alcuni uomini di Nicolino Grande Aracri. Olivo non è indagato. Così come non lo è  Maria Sergio, ex dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio e moglie dell'attuale sindaco democratico Luca Vecchi. Di lei, che è stata sentita dai pm nello stesso periodo di Del Rio, alcuni rapporti di polizia parlano di presunti favoritismi verso imprenditori sospettati di vicinanza alla 'ndrina emiliana. Ombre decisamente più pesanti sulla politica reggiana sono quelle però che si sono addensate sul centro destra che conta i primi due politici indagati per concorso esterno: uno è  Giuseppe Pagliani di Forza Italia, arrestato, l'altro è  Giovanni Bernini, che in passato è stato il consigliere dell'ex ministro Pietro Lunardi.

Truffa dei rimborsi della Lega, chiesto il processo per Bossi e Belsito, scrive “Il Secolo XIX”. Una truffa sui rimborsi elettorali della Lega Nord per circa 40 milioni di euro, un caso sollevato originariamente da un’inchiesta giornalistica del Secolo XIX del gennaio 2011. Con questa accusa è stato chiesto il rinvio a giudizio dalla procura di Genova per l’ex segretario della Lega Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito per la presunta truffa sui rimborsi elettorali ai danni dello Stato da circa 40 milioni di euro. Oltre a Bossi e a Belsito, chiesto il giudizio anche per altri tre componenti del comitato di controllo di secondo livello del Carroccio: Stefano Aldovisi, Diego Sanavio e Antonio Turci. A chiedere il rinvio a giudizio è stato il pm Paola Calleri che ha ereditato l’inchiesta dalla procura di Milano, che l’ha trasferita per competenza territoriale. Esiste un’altra tranche della stessa indagine, quella che riguarda il riciclaggio dei fondi elettorali del Carroccio in Africa: l’ex tesoriere Francesco Belsito e i suoi sodali sono indagati con lui per un investimento estero da 5,7 milioni di euro di fondi pubblici dirottati su banche offshore; le accuse nei loro confronti sono a vario titolo di appropriazione indebita, truffa e riciclaggio. Di questi soldi, una prima “tranche” (circa 1,2 milioni di euro) sarebbe stata stornata «dal conto corrente della Lega attraverso un bonifico in favore della società inglese Krispa Enterprises, della quale Paolo Scala era titolare effettivo, presso la banca di Cipro, somma della quale una parte, pari a 850mila euro è stata restituita a febbraio 2012»; un secondo importo (pari a 4,5 milioni) sarebbe stato trasferito, sempre tramite bonifico, dal conto del Carroccio a quello «intestato a Stefano Bonet presso la Fbme Bank della Tanzania, somma non accreditata per il rifiuto di quest’ultima banca, la quale non aveva ritenuto sufficiente la documentazione allegata, ma restituita soltanto a febbraio 2012». Nel provvedimento vengono indicate come parti offese la Camera, il Senato e la Lega Nord. Anche in questo caso della vicenda si occuperà il tribunale genovese. 

LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.

Così la Mafia conquista il Nord d'Italia. Il nostro Settentrione assomiglia sempre più al profondo Sud degli Anni 80. Eppure ci sono ancora molti esponenti della politica e della società civile che negano l'esistenza della grande criminalità organizzata. Per i magistrati ormai non si deve più parlare di infiltrazione ma di interazione-occupazione. Una presenza capillare che riguarda ogni regione e provincia, fino al singolo municipio. Lo vediamo nella mappa pubblicata nella nostra inchiesta: ricostruisce, per la prima volta, dove si sono piazzati i clan e quali sono le famiglie di riferimento, scrivono Daniele Autieri, Giuseppe Baldessarro, Valerio Gualerzi, Michele di Salvo e Salvo Palazzolo con un commento di Attilio Bolzoni. Tutto su “La Repubblica”.

Il Sistema come agenzia di servizi di Salvo Palazzolo. L'ultimo capomafia siciliano che ha deciso di collaborare con la giustizia, neanche due mesi fa, ha raccontato di aver trasferito la sua residenza a Mestre per "stare un po' più tranquillo". Così ha detto Vito Galatolo, rampollo di un'antica dinastia di Cosa nostra. I suoi fidati lo andavano a trovare ogni settimana, portandogli cassette di pesce fresco e la contabilità degli affari a Palermo. Intanto, in Veneto, Galatolo tesseva nuove alleanze criminali. E nessuno se n'era accorto. Perché di questi tempi il profondo Nord sembra assomigliare tanto al profondo Sud degli anni Ottanta: ancora tanti, nella società civile e nella politica, non vedono la mafia. Mentre i magistrati continuano a denunciare, con le loro inchieste, i processi, ma anche con prese di posizione eclatanti. L'ultima, è quella del presidente della Corte d'appello di Milano, Giovanni Canzio, che sabato 24 gennaio, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha denunciato: "La presenza mafiosa in Lombardia deve essere ormai letta in termini non già di infiltrazione, quanto piuttosto di interazione-occupazione". A rischio, secondo i magistrati, c'è l'appuntamento simbolo dell'economia del Nord, l'Expo. Perché la presenza di 'Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra si fa sempre più insidiosa. Ecco allora perché è urgente tornare a ripercorrere numeri e storie delle mafie. E' l'obiettivo di questo dossier, che traccia una mappa aggiornata del "sistema", come lo chiama la Direzione nazionale antimafia. Un sistema che ha ormai affinato un metodo. Non è più quello del terrore, come nella Milano degli anni Settanta, battuta da estorsioni e sequestri architettati dai clan siciliani e calabresi. Oggi, il sistema delle mafie al Nord è una grande agenzia di servizi, che offre soprattutto capitali piccoli e grandi agli imprenditori in difficoltà, magari acquistando quote societarie. Ma l'abbraccio dei boss è fatale. Prima o poi, tutta l'azienda finirà nelle mani dei padrini. È già accaduto. Eppure, tanti imprenditori continuano a ritenere più conveniente rivolgersi all'agenzia di servizi del crimine organizzato.  Anche nel profondo Nord è ormai scoppiata una grande "voglia di mafia". Ma, in fondo - hanno ragione i magistrati più avveduti - neanche questa è una novità. Nel 1974, un importante imprenditore milanese che temeva un sequestro chiese a un amico palermitano di presentargli qualcuno in grado di proteggerlo. Così fu organizzato un incontro, a cui partecipò uno dei capimafia siciliani più importanti dell'epoca. Era Stefano Bontate: assicurò che un suo uomo avrebbe garantito giornate tranquille alla famiglia dell'imprenditore, fingendo di essere il fattore della loro villa. Quell'imprenditore si chiama Silvio Berlusconi. L'amico palermitano è Marcello Dell'Utri, che sta scontando una condanna a sette anni per aver mediato l'accordo di protezione. Dagli anni Settanta a oggi, i mafiosi sono diventati un po' più insospettabili, e i loro servizi sono aumentati.

Il tabù infranto di Michele Di Salvo. Sono ormai moltissimi i processi e le indagini che certificano la presenza delle organizzazioni criminali, di ogni matrice e origine, nel tessuto socio-economico settentrionale. Nonostante quelle che ormai possiamo considerare certezze consolidate sembra che ammettere che le mafie hanno messo le mani al nord, e in particolare a Milano, nella capitale economica d'Italia, sembra un tabù. L'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni si disse "Indignato dalle parole di Saviano" quando lo scrittore nel novembre 2010, ospite della trasmissione "Vieni via con me", accennò alle possibili infiltrazioni mafiose al nord, semplicemente citando articoli di giornale e inchieste. Maroni in quella circostanza chiese e ottenne un contraddittorio a "Che Tempo Che fa". "Come ministro e ancora di più come leghista mi sento offeso e indignato dalle parole infamanti di Roberto Saviano, animate da un evidente pregiudizio contro la Lega". Parole dette mentre era titolare del Viminale, e aggiunge che chi avesse sentito "Saviano parlare senza contraddittorio potrebbe essere indotto a pensare che in quelle parole c'è qualcosa di vero e siccome non è così voglio poter replicare a quelle stupidaggini". "Del resto che non ci fosse la volontà, prima di tutto politica, di mostrare con chiarezza il grado di penetrazione delle organizzazioni criminali nelle regioni settentrionali, è chiaramente mostrato dagli stessi rapporti semestrali preparati dalla DIA per la relazione del Ministro dell'Interno al Parlamento. Quello che dovrebbe essere il momento più elevato della rappresentazione della presenza del crimine organizzato all'organo legislativo, che dovrebbe appunto legiferare in materia anche e sopratutto tenendo conto di un quadro chiaro della situazione nazionale, e quello che dovrebbe essere un documento utile ai rappresentanti dei cittadini di tutte le regioni, omette incredibilmente una "rappresentazione grafica chiara" di ciò che sta avvenendo nel nostro paese, lasciando trasparire un messaggio per cui le organizzazioni criminali sono un fenomeno geograficamente circoscritto e concentrato, e non una questione grave nazionale che tocca anche il più piccolo comune." Il ministro -  di lì a poco segretario della Lega Nord - ammise che le mafie non erano un fenomeno locale e soprattutto non erano un fenomeno leghista. Chissà che avrebbe detto se avesse immaginato che entro tre anni sarebbe scoppiato il caso Belsito che evidenziò diversi tentativi di avvicinamento (durati circa vent'anni che gli inquirenti ipotizzano già sotto il tesoriere Maurizio Balocchi) tra le 'ndrine e d esponenti leghisti. Già, i tempi in cui il leader fondatore incontrastato della Lega era Umberto Bossi che nel 1990 sentenziava: "Basterebbero sei mesi, al massimo un anno di governo della Lega lombarda per far sparire anche l'odore della mafia da Milano". Che Milano fosse indenne dall'infiltrazione mafiosa lo disse anche Letizia Moratti intervenendo, il 25 maggio 2009, ad Annozero. Non solo politica e giornalismo si indignano quando si parla di cosche a Milano. Accade che lo facciano anche i massimi rappresentanti dello Stato. Prima della  querelle a distanza Maroni-Saviano, il 21 gennaio 2010, a negare l'esistenza della 'ndrangheta nel capoluogo lombardo era stato il prefetto della città Gian Valerio Lombardi: "A Milano ci sono mafiosi, ma la mafia non esiste". Lo disse durante la prima audizione della commissione parlamentare antimafia a Milano in vista dell'Expo. Lombardi poi specificò indirettamente che non era in discussione la presenza delle organizzazioni criminali quanto il loro modo di agire: più imprenditoriale che "esecutivo". Sul filo sottile dell'etimologia è l'ex-sindaco ed ex-ministro Letizia Moratti, che  il 23 gennaio 2010 dichiarò "io parlerei più che di infiltrazioni mafiose di infiltrazioni della criminalità organizzata". Sulle barricate anche gli imprenditori. Nel maggio 2007 Roberto Predolin, allora presidente della controllata Sogemi, la società che gestisce tutti i mercati agroalimentari all'ingrosso, alla domanda se ci fosse la 'ndrangheta all'Ortomercato rispose secco: "Che sappia io, no". Oggi le indagini certificano invece che l'Ortomercato di Milano è considerato uno dei centri di controllo della criminalità organizzata. Secondo Paolo Pillitteri, sindaco di Milano e cognato di Bettino Craxi. "Nella nostra città una Piovra, sì una grande criminalità mafiosa, non esiste". Era il 1989 ed aggiunse, a scanso di equivoci: "Il bello della Piovra è proprio che si tratta di una favola, soltanto di una favola". Del resto sia lui che un altro sindaco sindaco Borghini sarebbero stati "rassicurati" dal giudice di Cassazione Corrado Carnevale che nell'agosto del 1991 assolvendo gli imputati scrisse testualmente nelle motivazioni della sentenza: che gli imputati "si frequentassero, concludessero affari con boss del calibro dei fratelli Bono, Salvatore Enea o con società del gruppo Inzerillo, e che questi legami non fossero né privati né occasionali o sporadici, bensì per motivi e ragioni di comuni interessi, assistenza e finanziamenti e operazioni speculative... non può di per sé essere utilizzato come prova dell'organizzazione criminale, né dell'appartenenza a essa". Secondo quanto emerge dalle numerose indagini, dagli studi e dalle audizioni della commissione antimafia, le organizzazioni criminali hanno sviluppato un forte orientamento a privilegiare l'insediamento e la penetrazione al nord nei piccoli comuni. Questa tendenza è dovuta a svariati fattori. In primo luogo l'inesistenza o la debole presenza di presidi delle forze dell'ordine, e il basso interesse riservato alle vicende dei comuni minori dalla grande stampa e dalle stesse istituzioni politiche nazionali. Non secondaria la facilità di accesso alle amministrazioni locali grazie alla disponibilità di un piccolo numero di preferenze, specie in contesti in cui il ricorso alla preferenza sia poco diffuso tra gli elettori. Non secondario è anche l'aspetto di "similitudine dimensionale" tra comune di origine e comune di insediamento. In particolare la 'ndrangheta ha radici nei piccoli comuni e le mette nei piccoli comuni; stabilisce tendenzialmente un rapporto biunivoco tra un comune calabrese e un comune del nord o tra un ristrettissimo gruppo di comuni calabresi (in genere confinanti) e un ristrettissimo gruppo di comuni settentrionali (anch'essi in genere confinanti). Modello questo che tende a replicare anche fuori dal territorio nazionale, si pensi al Canada come alla Germania e agli Stati Uniti. Le 'ndrine tendono a "replicare" un modello: il luogo della massima concentrazione conosciuta di "locali" di 'ndrangheta coincide con la provincia di Milano e della provincia di Monza-Brianza, ossia con un'area che presenta una densità demografica decupla rispetto alla media nazionale. L'elevata densità demografica corrisponde in genere a migrazioni storiche e l'alta densità demografica implica maggiore mimetizzazione sociale e più favorevoli opportunità di costruzione di relazioni sociali e professionali anonime. Infine l'alta densità demografica si associa a una elevata percentuale di cementificazione del territorio, processo che implica una esaltazione delle opportunità di inserimento delle imprese mafiose. Secondo l'Istat (2012) le provincie più cementificate di Italia risultano nel 2011, nell'ordine, Monza-Brianza (54 per cento di superfici edificate), Napoli (43), Milano (37) e Varese (29), e non è un caso che tutte e quattro le provincie si caratterizzino per una forte presenza, antica o espansiva, degli interessi di stampo mafioso. La formula ideale del successo sembra essere quindi "piccoli comuni-alta densità demografica". Sottovalutazione del fenomeno e rimozione, talvolta sfociante in un vero e proprio negazionismo, vanno di pari passo con l'inadeguatezza del grado di informazione sui fenomeni malavitosi e di contrasto all'attività del crimine organizzato. Del resto il modus operandi dei gruppi mafiosi è notevolmente flessibile. Possono avvantaggiarsi dell'alta o della bassa densità demografica, della abbondanza di risorse o della crisi (usura, gioco d'azzardo), dei servizi sociali evoluti o del degrado urbano, del servizio pubblico o dell'economia privata; e nella scelta della propria rappresentanza politica non presentano predilezioni a priori per l'uno o l'altro schieramento. Le organizzazioni mafiose, pur influenti, non sembrano tuttavia disporre di amplissimi "pacchetti" di consensi. Ciò indica che il grado di organizzazione del consenso non si è ancora sviluppato, nelle regioni a maggior presenza mafiosa, come nelle realtà più tradizionali. Sia le inchieste lombarde sia quelle piemontesi rivelano la presenza di un alto numero di esponenti dei clan nati nelle regioni di nuova residenza, perfettamente orientati a riprodurre gli schemi di condotta praticati dalle rispettive organizzazioni nei luoghi di origine.

La mappa regione per regione di Michele Di Salvo.

La Lombardia è una regione di insediamento storico delle organizzazioni criminali: tutte le più importanti vi si sono stabilite non solo per le molte possibilità di investimento nelle attività legali (grandi opere, imprese, locali notturni) e illegali, ma anche per la scarsa resistenza ambientale. La disattenzione istituzionale e sociale al fenomeno mafioso e diversi fenomeni criminali differenti quali terrorismo, tangentopoli, immigrazione che hanno "coperto" il problema, hanno permesso alla criminalità organizzata una penetrazione sociale senza forti ostacoli. Il Nord-Ovest della regione (Como, Lecco, Varese, Milano e Monza e Brianza) è caratterizzato da presenze antiche e solide. Nella fascia meridionale della regione si individua una più recente e preoccupante pressione: la provincia di Lodi sembra svolgere una funzione di nicchia protetta e di area di avvicinamento all'hinterland milanese. Le provincie di Mantova e Cremona, invece, confinano con le provincie emiliane a maggiore presenza mafiosa. Fino alla fine degli anni '80 l'organizzazione predominante è stata Cosa nostra. Oggi ne risultano attivi diversi gruppi. Attualmente, invece, è la 'ndrangheta a essere l'organizzazione più forte: seppur insediatasi nel territorio lombardo nello stesso periodo di Cosanostra, è solo dagli arresti che hanno colpito i siciliani dagli anni '90 che ha affermato una sua indiscussa egemonia sviluppando una sorta di "colonizzazione" in diverse aree della regione, con una solida rete di alleanze e di rapporti istituzionali, nelle pubbliche amministrazioni,  con professionisti e imprenditori privati. Con l'indagine Infinito del luglio 2010 gli inquirenti hanno identificato sedici locali, ognuna rispondente a una propria locale madre calabrese, ma insieme coordinate dalla "Lombardia", ovvero una sovrastruttura federativa che attraversa fasi alterne di autonomia rispetto alla Calabria. Presenza più difficile da analizzare è quella della camorra, da sempre attratta dalla ricchezza e dalle possibilità offerte soprattutto dal mercato della droga lombardo. Dalle più recenti indagini sono risultati attivi nella regione diversi gruppi: la famiglia Di Lauro, il gruppo Nuvoletta, la famiglia Laezza, legata al clan Moccia di Afragola, un gruppo che fa riferimento al clan Di Biase-Savio. È emerso, inoltre, l'interesse del clan dei casalesi e del gruppo Belforte di Marcianise nel settore del gioco, e la presenza del clan Fabbrocino e del clan Gionta.

Il Piemonte, come la Lombardia, ha storicamente esercitato una forte attrattiva sulla criminalità organizzata. L'espansione urbanistica degli anni '60, compresa quella delle zone turistiche, ha contribuito allo sviluppo di un fenomeno di colonizzazione a macchia di leopardo. In Piemonte  si assiste a una netta prevalenza della 'ndrangheta rispetto alle altre forme di criminalità organizzata, evidenziata dalle recenti operazioni Minotauro e Albachiara. Grazie a esse è stato messo in evidenza un radicamento forte e strutturato soprattutto nella città di Torino e nella sua provincia, che conferma quanto scritto nel 2008 dalla DDA di Torino, secondo la quale la criminalità calabrese risulta essere stabilmente insediata nel tessuto sociale mentre "i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di suddivisione delle zone e dei settori di influenza". Ed è stato anche messo in evidenza il progressivo inserimento della criminalità organizzata sia nel tessuto economico sia nell'area di azione della politica e delle pubbliche amministrazioni. Anzi proprio la compiacenza di alcune amministrazioni locali ha favorito la crescente presenza delle organizzazioni mafiose nel settore dell'edilizia e dei lavori pubblici. Nel 2012 l'inchiesta Minotauro ha messo infatti in luce l'esistenza di 9  cosche locali nell'area metropolitana, ma anche di una struttura territoriale non riconosciuta, chiamata "Bastarda", con influenze in provincia di Torino. Gli inquirenti, allo stato delle indagini, ipotizzano l'esistenza in Piemonte del "Crimine", organismo al vertice della struttura criminale sito a Torino e funzionale alla gestione del territorio, mentre manca la "Camera di Controllo" (apparato di coordinamento dell'organizzazione criminale presente in Lombardia e in Liguria), sebbene dalle intercettazioni si evinca la volontà della 'ndrangheta di istituire tale struttura anche in Piemonte. (Secondo il collaboratore di giustizia Rocco Varacalli questa struttura controlla anche i comuni di Rivarolo Canavese, Castellamonte, Ozegna, Favria e Front).

In Valle d'Aosta la stessa Commissione regionale speciale per l'esame del fenomeno delle infiltrazioni mafiose in regione pur sostenendo nel 2012 che non esiste una presenza strutturata di organizzazioni criminali, ha però evidenziato "l'influenza di grandi famiglie della 'ndrangheta che si è manifestata nel corso degli anni con episodi di riciclaggio di denaro, di traffico di stupefacenti e di estorsioni". La Direzione Nazionale Antimafia già nel 2010 era andata oltre, ipotizzando la presenza di una locale di 'ndrangheta. L'ipotesi troverebbe conferma in alcune intercettazioni dell'operazione torinese Minotauro. Nonostante la predominanza della 'ndrangheta, si colgono in Valle i segni di presenza di altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso. Nella seconda metà degli anni '90 hanno operato nella regione soggetti legati alla Stidda e vi si sono trasferite due famiglie legate al clan gelese degli Emmanuello ed è emerso l'interesse della cosca Mandalà per il casinò di Saint Vincent, a seguito di alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Francesco Campanella.

La Liguria rappresenta una regione storicamente interessante per le principali organizzazioni criminali di tipo mafioso: terra di confine, costituisce tuttora una base logistica per la gestione di latitanti che, passando per Ventimiglia, trovano rifugio nelle località contigue francesi; terra di mare, offre strategici snodi portuali in cui far confluire partite illecite di droga; terra di immigrazione, dalla seconda metà degli anni '40 diviene residenza di esponenti criminali all'interno dei flussi migratori, provenienti soprattutto da Sicilia e Calabria, composti da onesti corregionali in cerca di occupazione; terra di soggiornanti obbligati, e terra del gioco d'azzardo - con il casinò di Sanremo - da decenni rappresenta una tra le principali sedi del riciclaggio di denaro di illecita provenienza. Ad oggi si riscontra la presenza delle principali organizzazioni criminali di stampo mafioso, con un evidente primato della 'ndrangheta su camorra e cosa nostra, in linea con lo scenario nazionale ed internazionale in cui la mafia calabrese ricopre da anni un ruolo apicale. La 'ndrangheta si caratterizza per una presenza stabile e strutturata nella regione, con cosche locali  innestate sul territorio secondo una precisa strategia di colonizzazione. Con l'inchiesta Il Crimine (2010), oltre allo scenario della 'ndrangheta in Liguria emerge l'esistenza di una camera di controllo e di "almeno nove locali", rispettivamente a Genova, Lavagna, Ventimiglia, Sarzana, Sanremo, Rapallo, Taggia, Savona e Imperia. La presenza di una camera di controllo, o camera di compensazione, esistente in Lombardia ma assente in Piemonte, sembra sottolineare l'elevato grado di strutturazione della associazione in Liguria, in particolare nella provincia di Imperia. La presenza di Cosa nostra è stata riscontrata nelle diverse provincie. L'esistenza di decine di Cosa nostra nel capoluogo risale agli anni '80. Nel 1979 un importante boss mafioso, Salvatore Fiandaca, venne inviato al soggiorno obbligato nel comune di Genova diventando negli anni successivi capo decina del clan Madonia. Negli anni giunsero in Liguria diverse famiglie mafiose: Vallelunga, Di Giovanni, Lo Iacono, Aglietti, Morso, Monachella e gli Emmanuello attratti dalla presenza di numerosi cantieri, dalle opere di costruzione del tratto autostradale, nonché dalla posizione strategica della regione confinante con la Francia. La presenza della Camorra è rilevante nella città di Genova, dove è attiva nello spaccio di sostanze stupefacenti, nel levante ligure nell'ambito dell'edilizia, degli autotrasporti, dell'agricoltura in serra mentre a Sanremo è dedita prevalentemente al riciclaggio e al traffico di merce contraffatta.

In Emilia Romagna le principali organizzazioni criminali operano pacificamente sul medesimo territorio, talvolta stringendo patti per la conclusione di affari nei settori maggiormente remunerativi. La 'ndrangheta si dimostra, insieme al clan dei casalesi, la realtà criminale più incisiva. Seguono altri clan camorristici presenti nella provincia di Modena e in Romagna, più alcune presenze significative di Cosa nostra. In Romagna il riciclaggio è favorito dalla vicinanza con la Repubblica di San Marino. La 'ndrangheta risulta attiva in particolare nelle provincie di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza. Le 'ndrine maggiormente rappresentate sono quelle originarie di Platì, San Luca, della Piana di Gioia Tauro, di Isola di Capo Rizzuto ma in particolare quelle provenienti da Cutro, nel crotonese. La camorra risulta particolarmente attiva in provincia di Modena, benché recenti indagini rivelino un apprezzabile spostamento verso la sponda romagnola. La presenza dei casalesi sul territorio è in aumento e, negli ultimi anni, la magistratura ne ha più volte sottolineato la pericolosità. Si tratta di compagini criminali poco strutturate, sotto-gruppi vincolati da un legame stringente con i clan campani di provenienza. Senza alcuna ambizione di egemonia, spesso stringono affari con esponenti di altre organizzazioni criminali (calabresi o siciliane) con le quali operano soprattutto nell'ambito del gioco d'azzardo e delle estorsioni. Con l'operazione Vulcano del febbraio 2011 i carabinieri del ROS di Bologna hanno tratto in arresto soggetti appartenenti a tre clan camorristici diversi: i casalesi afferenti a Nicola Schiavone, i Vallefuoco di Brusciano e i Mariniello di Acerra. La peculiarità del sodalizio criminale che ne è emerso sta nel fatto che questi clan sono tra loro in conflitto in Campania, ma in Emilia Romagna risultano compartecipi in affari illegali. Di pochi giorni fa la maxiretata sulla 'ndrangheta con 117 richieste di custodia cautelare. Mani delle cosche sugli appalti, anche quelli della ricostruzione con gli indagati che ridono dopo il terremoto del 2012. E che parlano fra loro un linguaggio fatto di allusioni e frasi gergali. Cosa nostra appare oggi meno incisiva rispetto alle altre due principali organizzazioni criminali. L'organizzazione siciliana risulta particolarmente attiva nel modenese, nei comuni di Sassuolo, Carpi e Fiorano, residenze in passato di importanti soggiornanti obbligati o di sorvegliati speciali. Ancora nel 2005 diversi uomini legati al boss Bernardo Provenzano furono arrestati nei comuni di Castelfranco Emilia, Nonantola e Modena. Nella zona di Parma risultano presenti esponenti delle famiglie Emmanuello e Rinzivillo originarie di Gela e appartenenti a Cosa nostra nissena, e nella zona di Piacenza è stata riscontrata la presenza di esponenti del clan Galatolo, operante nel quartiere Acquasanta di Palermo.

Il tessuto economico del Veneto risulta essere particolarmente attrattivo per i gruppi criminali perché caratterizzato da piccole e medie imprese, un alto tasso di industrializzazione e da una fitta rete di sportelli bancari. Al dinamismo del sistema imprenditoriale e alla sua ricca articolazione si sovrappone la perdurante crisi economica in cui versa l'Italia, con la conseguente mancanza di liquidità. Questa situazione, associata alla reticenza delle banche ad erogare prestiti alle imprese a rischio di insolvenza, sembra avere portato molti piccoli imprenditori veneti in difficoltà a rivolgersi alla criminalità organizzata. Basti ricordare l'indagine Aspide del 2011 che ha visto coinvolti soggetti che erogavano crediti agli imprenditori per poi vincolarli al pagamento di interessi altissimi fino ad ottenere l'acquisizione delle attività.  Il Veneto, inoltre, costituisce un potenziale snodo strategico per i traffici illeciti, interni e internazionali, dal narcotraffico al traffico illecito di rifiuti. Tra gli anni '70 e '90, molti boss di Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta vi sono stati inviati al confino. Si pensi a Salvatore "Totuccio" Contorno, al boss 'ndranghetista Giuseppe Piromalli oppure ad Anna Mazza, appartenente al clan Moccia di Afragola e conosciuta come la "vedova della camorra". Oggi diverse operazioni di polizia hanno dimostrato una presenza vivace della criminalità organizzata e, in particolare, della camorra, presente soprattutto nelle provincie di Venezia e di Padova. La prevalenza di sodalizi campani rispetto ad altre forme di associazionismo mafioso, si riflette anche sulla natura e sulle modalità di infiltrazione, configurato come delocalizzazione di specifiche attività. Negli ultimi anni si è riscontrata però una sempre più consistente presenza della 'ndrangheta, specialmente nella provincia di Verona. Un esempio significativo è il caso del comune Garda, dove nel 2012 è stato richiesto il commissariamento per sospette infiltrazioni della 'ndrangheta negli appalti e negli uffici comunali. Nella regione non mancano neppure gruppi riferibili a Cosa nostra, che sembrano attivi nella marca trevigiana, nel veneziano e nel padovano.

In Friuli Venezia Giulia nel corso degli anni è stata riscontrata la presenza di soggetti riconducibili alla mafia siciliana, alla camorra, alla 'ndrangheta calabrese e a sodalizi pugliesi. La collocazione geografica della regione, il peculiare tessuto socio-economico e la piccola imprenditoria che caratterizzano l'economia locale costituiscono un'attrattiva per gruppi criminali. Il Friuli ha così assunto un ruolo strategico "di secondo grado", diventando una sorta di area di transito in prossimità del confine con la Croazia e la Slovenia, ma anche uno snodo importante per i traffici illeciti, soprattutto via mare, che ha visto particolarmente coinvolte la città di Trieste e il comune di Monfalcone. L'arresto di diversi latitanti, affiliati a gruppi criminali di diversa provenienza: cosche campane, clan calabresi o gruppi di origine pugliese, induce a ritenere che la criminalità organizzata consideri il Friuli Venezia Giulia un luogo sicuro dove cercare rifugio, una regione in cui è agevole, anche per la disabitudine locale a confrontarsi con il tema, allestire proprie "reti di assistenza".  La predominanza storica è della camorra, particolarmente interessata ad operare nella zona di Trieste, nel comune di Monfalcone e sul litorale udinese. Per quanto riguarda Cosa nostra, invece, la presenza si è concentrata storicamente nella provincia di Pordenone e, in particolare, nel comune di Aviano e dintorni, e nella provincia di Udine.

In Trentino Alto Adige le diverse forme di criminalità organizzata, e in particolar modo la 'ndrangheta, hanno adottato una strategia di infiltrazione "leggera", mantenendo il classico basso profilo, che non si esprime solo nell'assenza di locali. La posizione geografica della regione gioca un ruolo strategico e di attrazione in quanto collocata in prossimità del confine con la Svizzera e proiettata verso il centro dell'Europa. Non è un caso, infatti, se l'attività più diffusa sul territorio sia proprio il narcotraffico.

"Sono ovunque, solo la cultura ci può salvare" di Valerio Gualerzi. Sarebbe il caso di cambiare espressione. Quando si racconta di vicende mafiose lontane da Sicilia, Calabria o Campania il riflesso condizionato ci porta ancora a usare la parola "infiltrazione", ma da anni si tratta ormai in realtà di un vero e proprio radicamento. Il professore Enzo Ciconte, a lungo parlamentare nelle file del Pci-Pds e coautore dell'Atlante delle mafie edito da Rubbettino, ne è convinto. "Sa qual è la prova migliore di quanto le sto dicendo? Provi a leggere un'ordinanza giudiziaria coprendo l'intestazione del tribunale che l'ha emessa. Dalle descrizioni dei fatti e del contesto faticherebbe a capire che non si riferisce a vicende avvenute al Meridione, ma a Pavia piuttosto che a Sanremo. Le mafie sono presenti ormai stabilmente in tutta Italia e in particolare nel triangolo Liguria, Lombardia, Piemonte".

Professor Ciconte, possibile che nessuno sia riuscito a rimanere immune?

"Si tratta di una diffusione non omogenea, a macchia di leopardo, con alcune aree che ancora resistono meglio di altre, come buona parte dell'Emilia Romagna, ma nel complesso la criminalità organizzata, e in particolare la 'ndrangheta, sono riuscite ovunque a conquistare l'economia locale, a stringere rapporti con l'imprenditoria e a far eleggere sindaci, amministratori e consiglieri comunali. In quest'ultimo caso il problema è stata la formulazione dell'articolo 416 ter che punisce i politici solo se aquistano voti in denaro, ma non interviene se la controparte sono favori generici. La presenza mafiosa al nord è talmente forte che ormai anche un tratto considerato tipico del sud, come l'omertà, è ormai una caratteristica del settentrione. Allo stesso modo tante inchieste dimostrano che il rapporto tra imprenditoria locale e mafie non è più subito, ma spesso cercato dagli stessi imprenditori, magari per delegare il recupero crediti".

Che cos'è che ha favorito il radicamento di questa presenza?

"I fattori decisivi sono quelli culturali ed economici, spesso intrecciati. Penso ad una società che negli ultimi decenni è stata dominata dalla parola d'ordine 'arricchitevi' e dal disprezzo delle regole, anni in cui il presidente del Consiglio sosteneva la liceità dell'evasione fiscale. La crisi poi ha fatto il resto, perché se le banche chiudono i rubinetti del credito, la disponibilità di liquido delle mafie è invece illimitata. Anzi, la mafia ha bisogno di far girare il suo denaro per ripulirlo e non stiamo parlando di usura, ma di investimenti".

Eppure gli episodi di violenza continuano ad essere concentrati al sud.

"Certo, la grande criminalità organizzata non vuole attirare l'attenzione su di sé e uccide solo se strettamente necessario. Se possibile poi preferisce aspettare l'occasione giusta, quando la vittima torna nella terra d'origine per le vacanze o per fare visita ai parenti. Lì un omicidio desta meno impressione, fa meno notizia".

Nel loro trapiantarsi al centro nord le mafie hanno assunto caratteristiche diverse in base al luogo di insediamento?

"Direi di no. A parte le scontate attività illecite come il traffico di droga, hanno puntato soprattutto sull'edilizia e sulle imprese per il movimento terra, oltre che su commercio e ristorazione".

Qual è l'antidoto per riconquistare la legalità ed evitare che il contagio si diffonda ancora?

"Innanzitutto bisogna prendere coscienza della portata del problema. Ognuno deve fare la propria parte. Se l'imprenditore fa l'imprenditore non serve l'antimafia. Sembra una banalità, ma non lo è. Come in una banda, affinché ci sia armonia occorre che ogni strumento dia il suo contributo. Senza dubbio però la battaglia si gioca soprattutto sul piano culturale. Le mafie questo lo hanno capito e hanno prima messo da parte la loro tradizionale ritrosia, venendo allo scoperto con interviste e dichiarazioni dei boss, e ora cercano di imporre loro modelli culturali, come con la musica dei neomelodici in Campania".

Il "mondo di sotto" della camorra a Roma di Daniele Autieri. Nel "mondo di sotto" ritratto da Massimo Carminati come il luogo dove si agitano i "morti" e dove regnano crimine e violenza, le leggi, gli equilibri, i regolamenti di conti sono gestiti da un'organizzazione spietata e capillare, dotata di massicci gruppi di fuoco, e protetta da un grande fratello criminale che osserva a 200 chilometri di distanza. Alcuni inquirenti già la chiamano "Camorra Capitale" perché è cresciuta negli ultimi venti anni imbastardendo le origini camorriste con embrioni della criminalità romana. Soprattutto di stampo neofascista. "È la teoria del mondo di mezzo, compà  -  ripeteva Carminati a Riccardo Brugia  -  ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo". Scovati gli intrecci e le connivenze con i "vivi" della politica, mancava un tassello per completare il quadro a tinte fosche disegnato dal boss di "mafia capitale". Mancavano i "morti". E il mondo di sotto, quello dei "morti", Massimo Carminati lo fissa negli occhi il 30 aprile del 2013, fuori dal bar "La Piazzetta" in zona Fleming, quando incontra Michele Senese. È quest'uomo nato ad Afragola che tiene in mano lo scettro criminale della città. Estorsioni, traffico internazionale di stupefacenti, ricatti, minacce: un padrone assoluto che impone la sua legge sotto l'egida del piombo. E al suo fianco i "napoletani di Cinecittà", partiti da Roma Est per conquistare la Capitale. Un obiettivo raggiunto perché il gruppo esercita ormai il controllo quasi ovunque, da Tor Bella Monaca a Ponte Milvio e, oltre alle attività più tradizionali delle organizzazioni mafiose, si è infiltrato nel ventre malato dell'imprenditoria romana. Le origini: l'omicidio Carlino. Casa di reclusione di Rebibbia, Roma. Anno 1999. Michele Senese, boss della camorra trapiantato da anni a dirigere il traffico criminale della Capitale si affaccia alla finestra della sua cella e urla in direzione di Carlino, uno dei capi della banda della Maranella. "Se non lo ammazzi tu a tuo fratello, lo ammazzo io. Vi ammazzo a tutti quanti". Due anni dopo la promessa è mantenuta. Il 10 settembre del 2001, mentre Senese è ancora in carcere, un commando di fuoco assalta la villa di Torvajanica dove vive Giuseppe Carlino e lo uccide davanti agli occhi della madre. L'omicidio lava il sangue di Gennaro Senese, fratello di Michele, assassinato dai Carlino a Centocelle il 16 settembre del 1997. Ma quello della faida familiare è solo uno spunto per mettere in chiaro un imperativo rimasto fino ad allora fumoso: Roma è della camorra. E del clan Senese. Lui, Michele, è un astro nascente nel firmamento criminale. Riconosciuto come un fiancheggiatore della banda della Magliana, si stabilisce in pianta stabile a Roma negli anni '80 dopo aver partecipato alla guerra di camorra che insanguina la provincia di Napoli. Affiliato al clan Moccia, costruisce il suo potere criminale a Roma, dove viene conosciuto da tutti come "ò pazzo" per la sua abilità nello scontare le pene all'interno degli ospedali psichiatrici piuttosto che in galera. Ma le indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri di via in Selci lo mettono all'angolo, insieme a una parte nutrita della sua organizzazione e il 26 giugno del 2013 viene nuovamente arrestato. Questa volta è diversa dalle altre perché il primo grado di giudizio lo riconosce come il mandante dell'omicidio Carlino e lo condanna all'ergastolo. Occhi di ghiaccio. Se il boss di Afragola è il mandante (quando Carlino viene ucciso Senese è ristretto in un ospedale psichiatrico in Toscana), gli esecutori materiali sono altri. E quegli uomini, negli anni di carcere del capo, hanno imposto la sua legge su Roma. Il primo e più temuto è Domenico Pagnozzi (agli arresti con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso), chiamato nell'ambiente ice per via dei suoi occhi di ghiaccio. E con lui Fiore Clemente, Giovanni De Salvo, Raffaele Carlo Pisanelli, Giovanni Moriconi, Vicenzo Carotenuto e Antonio Riccardi. Tutti fedelissimi, riconosciuti colpevoli di aver partecipato al delitto Carlino. Eppure la decapitazione del vertice dei "napoletani di Cinecittà" non frena le attività dell'organizzazione. Tor Bella Monaca come Scampia. Il 24 gennaio scorso il Nucleo investigativo dei carabinieri di Frascati, insieme al Nucleo di polizia tributaria della Finanza, arresta 18 persone nella periferia est di Roma: Tor Bella Monaca. L'operazione sgomina un'organizzazione che gestisce lo stoccaggio e lo spaccio nel quartiere, divenuto per mezza Roma il supermarket degli stupefacenti. A guidare il gruppo è Manolo Monterisi, romano, 36enne, soprannominato "il pugile" e definito dai carabinieri del Nucleo "promotore e organizzatore dell'associazione". Tuttavia, fonti investigative confermano che Monterisi non lavora da solo. Anzi. Alcuni pentiti hanno infatti dichiarato che alle spalle del pugile ci sarebbe Michele Senese e il suo clan. La piazza di TorBella è roba loro. Gli imprenditori. "Camorra capitale" è ovunque. Nel traffico di stupefacenti, negli omicidi, nelle gambizzazioni, ma anche nel "business" delle estorsioni. Se è vero che a Roma il pizzo non esiste, almeno non nella sua forma tradizionale, è anche vero che un numero consistente di imprenditori è finito nelle mani della camorra. Perché? Da anni si è sviluppata una indefinita zona grigia, una vasta macchia di petrolio nero che alimenta l'economia sommersa. Sono centinaia le imprese coinvolte, che lavorano senza pagare tasse né contributi, ma soprattutto senza godere delle tutele previste dallo Stato. E quando sorgono questioni la camorra si sostituisce all'autorità pubblica, dirimendole e pretendendo in cambio denari o l'ingresso nel business. Fino a costringere l'imprenditore a diventare uno schiavo dell'organizzazione criminale. Il mistero dell'arsenale. Nonostante le ambizioni imprenditoriali del gruppo, il controllo del territorio viene ancora esercitato con il piombo. Le armi restano la chiave di questa storia, il deterrente più efficace e l'ultimo appello per risolvere questioni pendenti. Armi che i carabinieri hanno cercato negli ultimi anni in ogni anfratto della città. Oggi però una pista riporta al passato, al 17 dicembre del 2011 quando i carabinieri scoprirono in un garage nei pressi della Casilina un vero e proprio arsenale. Mitragliatori, fucili d'assalto di nazionalità cinese, pistole automatiche, fucili AK47, e oltre 1.400 cartucce. Di lì a poco l'inchiesta "Grano nero" identifica i gestori dell'arsenale: Fabio Giannotta, Claudio Nuccetelli, Manolo Pastore e Mauro Santori. Tutti vantano un pedigree da rapinatori a partire da Giannotta, appartenente tra l'altro a una nota famiglia dell'estrema destra romana. Il padre, Carlo, è stato in passato responsabile della sede Msi di Acca Larentia e il fratello, Mirco, fu nominato dall'allora sindaco Gianni Alemanno capo dell'ufficio decoro urbano del Campidoglio. Fabio invece fa rapine e ama la bella vita: i carabinieri lo seguono mentre sfreccia sulla Casilina alla guida di una Ferrari California blu in direzione di casa. Fino ad oggi gli inquirenti non hanno fatto piena luce su chi fossero gli utilizzatori finali di quell'arsenale, tuttavia proprio in questi giorni emerge una nuova pista e indizi inediti che dimostrerebbero la contiguità di alcuni uomini finiti in "Grano nero" con il clan di Michele Senese. La camorra di Ponte Milvio e il poker."Camorra capitale" non si accontenta delle periferie. Roma è grande, e le opportunità sono ovunque. Ponte Milvio diventa così un nuovo crocevia di affari, un presidio strategico allestito intorno al Concept Garage, l'autosalone dove venivano a rifornirsi Massimo Carminati, Giovanni De Carlo, e tanti altri della banda. A gestirlo è Jacopo Sanvoisin, classe '72, una formazione nelle scuole private di Roma Nord e un debole per i "cattivi ragazzi". In uno degli allegati all'informativa di Mafia Capitale, i carabinieri del Ros definiscono Sanvoisin "vicino a soggetti di sicura caratura criminale quali Raffaele Gerbi, inteso Alan, e Angelo Senese", il figlio di Vincenzo Senese e nipote del boss Michele. Dalle indagini Sanvoisin risulta abituale utilizzatore dell'utenza telefonica intestata alla società Professional & Partners Group, all'interno della quale lavorano proprio Raffaele Gerbi e Angelo Senese che, pur essendo solo un dipendente, percepisce uno stipendio pari al doppio di quello previsto per i proprietari. Un privilegio riservato solo al nipote di un boss.

Le Terme di Diocleziano svendute ai clan di Daniele Autieri. Una prova della pervasività delle organizzazioni criminali nella "cosa pubblica" risale al 2008 quando l'Atac, la società romana del trasporto, vende al Gruppo Ragosta per 43 milioni di euro il palazzo Montemartini di via Volturno. Il palazzo ha un enorme valore storico, essendo la sede peraltro delle terme di Diocleziano, ma questo non ferma l'affare. La transazione viene condotta da Atac Patrimonio, controllata di Atac e allora guidata da Gioacchino Gabbuti (già finito in un'inchiesta della Procura di Roma con l'accusa di riciclaggio). Dall'altra parte del tavolo siedono i Ragosta, famiglia di imprenditori particolarmente influenti nel casertano. Nel 2012 un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli porta in carcere 47 persone, tra cui proprio i tre fratelli Ragosta. Secondo gli inquirenti, le imprese del gruppo sono cresciute in modo così esponenziale negli ultimi anni grazie ad un'enorme iniezione di denaro liquido di provenienza camorrista. Il salto di qualità viene compiuto nel 2001 quando i Ragosta acquistano le fallite Acciaierie del Sud. Gli assegni circolari di 4 miliardi e 683 milioni di lire che servono per la cauzione vengono emessi da una società costituita appena tre giorni prima e coperti da una società di diritto lussemburghese, la Immobilfin SA. Le indagini della Dda dimostreranno che la Immobilfin SA è direttamente riconducibile a Raffaele Ragosta e alla moglie Annamaria Iovino e che, tra il 2001 e il 2003, la finanziaria pompa nelle società italiane del gruppo ben 10,8 milioni di euro. Così l'impero dei Ragosta cresce: arrivano le grandi acquisizioni (come quella del palazzo dell'Atac) e il patrimonio raggiunge le 477 unità immobiliari per un valore stimato di un miliardo di euro. 

'Ndrangheta, la mafia dei cinque Continenti di Giuseppe Baldessarro. Vincenzo Macrì lo diceva quando era magistrato alla Direzione nazionale antimafia, una decina di anni fa: "Non vi è continente che possa considerarsi immune dalla presenza della 'ndrangheta". E' lo stesso concetto espresso più volte dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, che ha inseguito i broker delle cosche calabresi in tutto il mondo: "La 'ndrangheta è l'unica mafia presente in tutti e 5 i continenti". E' un dato di fatto, ormai certificato dalle indagini delle polizie internazionali che hanno fotografato gli interessi e il modus operandi delle "famiglie" che, comunque, restano legate alla terra d'origine e alle regole scritte nel cuore dell'Aspromonte. È la Calabria la "mamma" della 'ndrangheta. E questo a prescindere dal fatto che le cosche si siano poi insediate nel resto d'Italia e del Mondo. Per comprenderlo basta leggere le carte della recente operazione "Aemilia" della Dda di Bologna e la tranche catanzarese delle stessa inchiesta. A Reggio Emilia i "Grande-Aracri" avevano messo basi solide, ma è nella provincia di Crotone che i boss avevano le loro radici. In Emilia Romagna prendevano gli appalti, aprivano attività commerciali, gestivano gli affari e i traffici, tenevano relazioni con il mondo della politica e dell'economia, ma il modello esportato era sempre esattamente quello calabrese. E' questa la peculiarità dei gruppi criminali calabresi, sono in grado di riproporre ovunque un insieme di leggi non scritte e cultura della violenta. Ovunque significa in Italia, in Europa, e nel resto del mondo, dove cellule calabresi si sono trasferite inizialmente al seguito delle rotte dell'emigrazione e, più di recente, dei flussi economico-finanziari. Basta scorrere le relazioni annuali della Dna o delle polizie estere per scoprire che, solo per fare qualche esempio, in Germani da anni ci sono i Nirta, gli Strangio, i Pelle e i Vottari di San Luca. Opure che rappresentanti delle cosche sono attivi in Belgio e Olanda. Che in passato le 'ndrine facevano traffico di Armi con l'Ira in Gran Bretagna e che nella city di Londra, dice sempre Gratteri, "riciclano montagne di denaro sporco". La Francia e la Spagna sono da sempre considerati oasi di pace per boss latitanti e, ancora oggi, piattaforme per il traffico di cocaina. Persino la Svizzera, racconta il pentito Emilio Di Giovine, è terra per far sparire i soldi della droga e per chiudere affari sulle armi. Ma non c'è solo l'Europa. La 'ndrangheta si è già insediata stabilmente in tutti i continenti. In Australia ad esempio, la presenza della 'ndrangheta è radicata ormai da un secolo.  Esistono mappe dettagliate che spiegano come ad Adelaide, nella parte meridionale dell'Australia, siano presenti una dozzina di 'ndrine che fanno riferimento alla provincia di Reggio Calabria. I cognomi sono quelli dei Sergi, dei Barbaro, dei Perre, dei Romeo e dei Piromalli. E ancora quelli dei Polimeni e dei Papalia. A Sidney la famiglia più potente era quella degli Alvaro, mentre nel Nuovo Galles del Sud, e precisamente a Griffith, vengono indicate come potentissime le famiglie di origine "platiota", ossia di Platì nella Locride. Stessa storia per Camberra, Melbourne o Perth, in ogni città c'è una locale di 'ndrangheta. Non meno potenti le "famiglie" calabresi in Canada. Ai primi del novecento quando non si parlava neppure di 'ndrangheta, ma di "mano nera", a incutere rispetto c'erano "uomini d'onore" come Giuseppe "Joe" Musolino e Rocco Perri. Negli anni '50 arrivarono poi i soldati, gli sgarristi e i padrini della cosca guidata da Antonio Macrì e da Michele Racco, detto Mike. Identico il destino delle città del Nord America, come New York, dove già negli anni '60 le cosche calabresi si riunivano in "circolo formato" per spartirsi il territorio di alcuni quartieri della città. Ci sono poi intere colonie di calabresi anche nell'America del Sud. Brasile, Venezuela e Argentina hanno accolto per decenni migliaia di emigranti, al seguito dei quali sono anche arrivate le famiglie di 'ndrangheta. Ci sono poi paesi come la Colombia dove la 'ndrangheta ha trasferito decine di broker mandati a trattare direttamente con i narcos della coca. Il più noto di tutti è certamente Roberto Pannunzi, detto "Bebè" che aveva rapporti stabili con Salvatore Mancuso, di origini campane e  già capo indiscusso delle Auc (le forze di autodifesa colombiane). Entrambi, oggi in galera, erano trafficanti di droga capaci di muovere tonnellate di "roba" ogni settimana. Lo raccontano, ad esempio, storiche maxi inchieste della Dda di Reggio Calabria note con i nomi di "Igres" (Sergi, scritto al contrario), "Decollo", "Marcos" o "Stupor Mundi". Non manca l'appello l'Africa, il Medio Oriente e quasi tutti gli stati dell'ex blocco sovietico. In Urss i clan ci sono arrivati sono per entrare nel traffico di armi e nelle speculazioni edilizie (soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino). E' successo così in Romania e Ucraina. A questo proposito esiste un'intercettazione ambientale del 1991 in cui un boss, che non fu possibile identificare, ordinava ad un suo investitore di spostarsi all'Est: "Compra, compra tutto quello che puoi, compra tutto, non mi interessa cosa, basta che compri". In altri casi, come per il Libano, i clan vi operano nel ruolo di acquirenti di hashish ed eroina. Oggi, in molti continenti sono stabilmente insediate le seconde e terze generazioni di calabresi. Tra di esse si mimetizzano famiglie di 'ndrangheta che non hanno alcuna difficoltà a riprodurre il loro modello, ritenuto universalmente criminalmente il più longevo. Giovanotti che parlano solo dialetto e inglese. Regole vecchie e tecnologie moderne formano insomma un mix che consente ai clan di fare affari d'oro in mille settori. La droga innanzitutto, da dove arriva gran parte della ricchezza e il denaro da reinvestire giocando in borsa o entrando nei business legali. All'estero la nuova generazione di 'ndranghetisti è identica alla vecchia nella mentalità e cultura criminale, ma assolutamente nuova ed mobile nel modo di fare affari. Negli ambienti investigativi, li chiamano gli uomini delle due valigette: in una ci tengono il codice delle 'ndrine e la calibro 38. Nell'altra il denaro contante e i contratti milionari.

La "Linea del pioppo" di Attilio Bolzoni. Pensando alla mafia che ormai è dappertutto è ovvio che ci venga in mente Leonardo Sciascia e la sua "linea della palma". Come ricorderete, verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, lo scrittore siciliano parlò della "linea della palma" ("Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia.. gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno.. ed è ormai già oltre Roma") utilizzandola come metafora della "mafiosizzazione" dell'intera Italia. Sciascia ne capiva molto di mafia, avendola respirata nella sua Racalmuto e nei feudi intorno. E ne capiva molto anche della nostra Italia, intuendo l'avvelenamento che il Paese avrebbe inesorabilmente subito. Sono passati quarant'anni e - se possiamo permetterci un paradosso - oggi non sarebbe poi tanto stravagante parlare della "linea del pioppo" o della "linea del salice", tipiche piante della Padania e dintorni. E ci piacerebbe anche - usando logore frasi come "se abbassiamo la guardia", se "non raccogliamo l'allarme", se "non interveniamo per tempo" - lanciare una provocazione: state (stiamo) tutti attenti, perché se continua così tra qualche anno ci ritroveremo boss e capi mandamento o "santisti" e Cupole di varie dimensioni e forme anche in Sicilia, Calabria e Campania. C'è questo rischio: c'è il pericolo che le mafie prima o poi invadano tutto il Sud per continuare l'opera: depredare quel poco che hanno lasciato prima di spolpare definitivamente il "loro" Nord. Due Italie lontane. Questa premessa mi è venuta quasi spontanea rileggendo le cronache degli ultimi giorni. Quelle dell'imprenditore di Corleone che ha confessato ai carabinieri della locale caserma di avere subito il pizzo e rivelando i nomi dei suoi aguzzini, quelle della grande retata in un'Emilia Romagna infestata dal malaffare mafioso. Due Italie lontane, molto lontane in questo inizio di 2015. A Corleone il muro dell'omertà si è infranto per la prima volta, in Emilia Romagna nessuno ancora se la sente di parlare. Anzi, peggio: tutti rimuovono, tutti che fanno finta di cadere dal pero. I più coraggiosi si spingono a denunciare l'"infiltrazione", parola secondo noi da abolire dal vocabolario delle mafie al Nord. Infiltrarsi significa penetrare in un luogo senza che gli abitanti stessi di quel luogo se ne siano mai accorti, come presi alla sprovvista, alle spalle. In realtà nelle regioni settentrionali sarebbe meglio parlare di "radicamento", di espansione avvenuta con complicità e favoreggiamenti soprattutto locali. E ciò sta accadendo non da ieri o da ieri l'altro ma dal lontano 1963, data in cui - in quell'anno a Palermo ci fu la strage di Ciaculli, cinque carabinieri e due artificieri dell'Esercito saltati in aria davanti a una Giulietta imbottita di tritolo mentre in città infuriava la guerra fra le cosche - il ministro dell'Interno del tempo, Mariano Rumor, ebbe la felice intuizione di far trasferire fra Veneto, Emilia e Lombardia qualche centinaio di "sospetti mafiosi" (l'istituto del soggiorno obbligato, il famoso confino di polizia) esportando mezza Commissione di Cosa Nostra lontano dall'isola e aprendo la strada alla tanto sbandierata "infiltrazione" mafiosa al Nord. Sì, è vero, si sono "infiltrati" tranquillamente da più di mezzo secolo e da mezzo secolo tutti li considerano semplicemente "infiltrati". Questo è il problema. Ogni qualvolta un'indagine giudiziaria o un'inchiesta giornalistica (vedi Giovanni Tizian in Emilia, vedi Lirio Abbate a Roma) svela la loro forza anche là sopra, tutti si meravigliano come se avessero scoperto il giorno prima - e per caso - gli uomini cattivi che si arricchiscono o minacciano qualcuno nel cortile di casa loro. Come appunto in Emilia Romagna, dove il presidente della Regione Stefano Bonaccini il 26 gennaio, prima prendeva le distanze dalle denunce di don Luigi Ciotti sulla "mafiosità" di certi metodi contro il sindaco di San Lazzaro Isabella Conti, e poi - in generale, molto in generale - sosteneva che "per un periodo, magari in buona fede, al Nord non si è voluto vedere il fenomeno mafioso.. ma qui c'è l'anticorpo per potere sconfiggere questo vero e proprio cancro, che fa male a tutti". Gli "anticorpi". Li abbiamo visti quegli "anticorpi" nella recentissima operazione dell'Arma dei carabinieri, affari sul dopo terremoto, voto di scambio, patti tra 'ndranghetisti camuffati da imprenditori e costruttori locali, il business dei rifiuti speciali, sindaci, prelati e giudici nella ragnatela del boss Nicolino detto "Manuzza", appalti pilotati e tanto altro ancora che prima o poi verrà allo scoperto. E poi, cosa intende "per un periodo", il presidente della Regione Emilia? Lo sa quando è arrivato Giacomo Riina (lo zio del capo dei capi di Cosa Nostra) a Budrio, ventitré chilometri da Bologna? Nel 1967. Sposato con una sorella di Luciano Liggio, aveva scelto un piccolo comune alle porte di Bologna come suo quartiere generale. Dal 1967, un periodo lungo, molto lungo. E' sempre una "sorpresa" ritrovarsi la mafia fra i piedi. E di certo non solo in Emilia. Basta ricordare tutti quei sindaci e quegli amministratori da Roma in su, quei prefetti (memorabile la battuta negazionista del rappresentante di governo di Milano di qualche anno fa), quei magistrati distratti o privi di una specifica competenza in materia antimafia, un paio di ministri dell'Interno di qualche governo fa, soprattutto di milioni e milioni di italiani sicuri e convinti che mafia e mafiosi - ancora oggi - siano "patrimonio" di un altro Paese. Solo verso sud, da Napoli fino a Trapani. Non c'è consapevolezza, non c'è coscienza. E c'è anche un po' di tornaconto. Prendiamo come altro esempio la vicenda di Mafia Capitale. Possibile che quasi nessuno si sia mai accorto delle scorrerie de Er Cecato e della sua banda (con amici non solo in Comune ma in tutto il sottobosco politico, non solo nelle zone tradizionalmente criminali della città ma con agganci ministeriali) prima dell'arrivo dei procuratori Pignatone e Prestipino e di un gruppo di carabinieri che venivano dalla Sicilia e dalla Calabria? Vi sembra normale che uno come Er Cecato sia andato liberamente in giro per Roma per così tanto tempo e così indisturbato? Forse qualche complice che l'ha "coperto" ci sarà pure o no? Forse sarà anche arrivata l'ora di ridiscutere tutti insieme cos'è mafia e cosa non è mafia. A meno che, da Roma (compresa) in su, non si voglia condividere il pensiero di Giuseppe Pitrè, illustre letterato e antropologo di fine '800. Quello che sosteneva che la mafia "non era una setta né un'associazione a delinquere". Ma uno stato d'animo. Dei siciliani, solo dei siciliani.

BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!

“Cose nostre: per un uso sociale dei beni confiscati alla mafia” recita il titolo di un convegno tenuto il 12 febbraio 2015 a Manduria nel tarantino e promosso dai Verdi e dal movimento Giovani per Manduria. A relazionare sul tema son venuti da Mesagne, nel brindisino, quelli di “Libera” ed erano presenti soggetti istituzionali di Manduria e di Mesagne.

“Cose nostre” si affermava nel titolo del convegno, mutuata dallo spot nazionale di “Libera” come se di una espropriazione proletaria si trattasse.

La Gazzetta del Mezzogiorno e Manduria Oggi ha dato ampio risalto all’evento.

Già nel marzo 2010 si leggeva su La voce di Manduria che "Il comune bandirà una gara per l'affidamento alle associazioni di tutti i 25 beni (terreni ed immobili) confiscati alle due famiglie mafiose Stranieri e Cinieri di Manduria. I primi tre lotti riguardano l'ex ristorante Tutti Frutti ed altre due villette a San Pietro in Bevagna. L'associazione contro le mafie, Libera, coordinerà i progetti finanziati dalla Regione Puglia.

Già da allora “Libera” voleva mettere le mani sui beni manduriani, non riuscendoci.

Si legge su Manduria Oggi del 3 dicembre 2014  «Quando la Regione Puglia, nel 2010 varò il progetto “Libera il Bene”, una iniziativa che promuoveva, con finanziamenti, il recupero e il riuso dei beni confiscati, nessun ente locale della provincia di Taranto partecipò, perdendo così una occasione preziosa» ricorda Anna Maria De Tomaso Bonifazi, referente per la provincia dell’associazione “Libera”. «Più volte “Libera”, fin dal 2004, ha chiesto di conoscere lo stato degli immobili confiscati sia al Comune di Taranto che a quello di Manduria, ricevendo risposte evasive. Eppure proprio a Manduria, in un periodo di commissariamento del Comune, il Prefetto di Taranto e i referenti nazionali di “Libera” riuscirono finalmente a mettere a bando i beni confiscati. Ma ci accorgemmo ben presto che si trattò di una vittoria di Pirro, perché, con l’elezione del nuovo Consiglio Comunale, il sindaco che si insediò annullò tutto e, di fronte alle rimostranze di “Libera”, non seppe fornire spiegazione alcuna, se non rifacendosi ad una decisione del segretario generale del Comune».

Vorrei, se possibile, come presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, associazione antiracket ed antiusura riconosciuta dal Ministero dell’Interno, in quanto iscritta presso la prefettura di Taranto dal 2006, ma non facente parte della sfera di Libera, contribuire a far chiarezza su un dato, tenuto conto che nei convegni si devono sentire tutte le campane e fare compendio, specialmente se in quel convegno di diritto si avrebbe avuto interesse a prendere la parola. Non foss’altro per  spirito territoriale, avente la sede legale a 10 km da Manduria. E non è per spirito polemico, ma per ragioni di verità, per non  far passare dei principi non esatti ma ritenuti come tali, in virtù dell’ampia visibilità che a “Libera” si dà. Opinioni secondo scienza e coscienza forte delle mansioni nazionali che ricopro.

Si spera che la mia precisazione abbia lo stesso risalto che si è dedicato ai presenti al convegno.

Descrizione del Fenomeno, si legge sul sito della Commissione Nazionale Antimafia. Uno degli elementi fondamentali per sconfiggere le mafie è procedere al loro impoverimento confiscando loro tutti i beni e i patrimoni acquisiti mediante l'impiego di denaro frutto di attività illecite. Si tratta di un principio fondamentale che Pio La Torre, segretario regionale del partito comunista in Sicilia e parlamentare della Commissione antimafia, ucciso a Palermo il 30 aprile 1982, capì in modo molto chiaro. Infatti, la legge che successivamente introdurrà nel codice penale italiano l'articolo 416-bis e altre norme, denominate misure patrimoniali, che consentono la confisca dei capitali mafiosi, porta il suo nome insieme a quello dell'allora Ministro dell'Interno, Virginio Rognoni. I beni dei quali sia stata accertata la proprietà da parte di soggetti appartenenti alle organizzazioni mafiose vengono confiscati, vale a dire sottratti definitivamente a coloro che ne risultano proprietari. Questi beni sono rappresentati da immobili (case, terreni, appartamenti, box, ecc.), da beni mobili (denaro contante e titoli) e da aziende. Secondo quanto previsto dalla legge 7 marzo 1996, n. 109, una legge di iniziativa popolare sostenuta dalla raccolta di un milione di firme da parte dell'associazione Libera, i beni immobili possono essere usati per finalità di carattere sociale. Questo significa che essi possono essere concessi dai comuni, a titolo gratuito, a comunità, associazioni di volontariato, cooperative sociali e possono diventare scuole, comunità di recupero per tossicodipendenti, case per anziani, ecc. Nelle regioni meridionali, ad esempio, sono sorte delle Cooperative sociali di giovani che coltivano terreni confiscati alle organizzazioni mafiose producendo pasta, vino e olio. In base alle previsioni della legge finanziaria 2007 (Legge 27 dicembre 2006, n. 296, comma 201-202) i beni confiscati possono essere assegnati anche a Province e Regioni. I beni immobili non assegnati ai comuni sono acquisiti al patrimonio dello Stato e vengono utilizzati per finalità di giustizia, ordine pubblico e protezione civile. I beni mobili vengono trasformati in denaro contante, il quale viene successivamente depositato in un apposito fondo prefettizio. Le aziende vengono vendute, date in affitto o messe in liquidazione. Il ricavato viene versato nel fondo prefettizio. La Cancelleria dell'Ufficio giudiziario provvede a comunicare il provvedimento definitivo di confisca ai seguenti soggetti: l'Ufficio del territorio del Ministero delle Finanze, il Prefetto, il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell'Interno. L'Ufficio del territorio una volta stimato il valore del bene da assegnare sente il Prefetto, il Sindaco, l'Amministrazione ed entro novanta giorni formula una proposta finalizzata all'assegnazione del bene. È il Direttore Centrale del Demanio che entro trenta giorni emette il provvedimento di assegnazione.

Bene. Su tutti i territori italiani operano delle associazioni distribuite per competenza provinciale ed iscritte presso le rispettive Prefetture. Dichiarazione, relazione e documentazione comprovante l’attualità dei requisiti e delle condizioni prescritte di cui agli artt. 1 e 3 del regolamento (DM 220 del 24/10/2007) recante norme integrative ai regolamenti per l’iscrizione delle associazioni e organizzazioni previste dall’art. 13, comma 2, L. 44/99 e dall’art. 15, comma 4, L. 108/96.

Associazioni antimafia che operano per assistere le vittime di estorsione ed usura, molte delle quali non fanno capo a Libera, che, spesso, presso la CGIL fa eleggere domicilio alle delegazioni locali.

Quindi sfatiamo un fatto: i beni confiscati non sono roba loro, ossia di “Libera”.

Un’altra cosa. I beni già sequestrati in odor di mafia, si confiscano solo a sentenza di condanna definitiva. In caso contrario tornano ai legittimi proprietari. Ma di altre questioni nei convegni di cui si parla ci si dovrebbe occupare: Ossia denunciare pubblicamente quello che la gente non sa circa gli interessi economici e politici che ruotano intorno ai beni sequestrati, prima, ed eventualmente confiscati, poi...

Che fine ha fatto la “robba” dei boss? L’ Antimafia al lavoro sui dossier. «Da più parti riceviamo denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia», ha spiegato Nello Musumeci, presidente della commissione regionale (siciliana ndr), che sta analizzando l’utilizzo delle ricchezze sottratte a Cosa nostra, scrive Giuseppe Pipitone su “L’Ora Quotidiano”. «Dopo avere completato le trascrizioni – annuncia il presidente dell’Antimafia – provvederemo a trasmettere il documento anche all’autorità giudiziaria. Abbiamo riferito al prefetto (Postiglione ndr) che in un anno e mezzo la commissione ha raccolto il grido di allarme di giornalisti, amministratori, imprenditori e rappresentanti dei lavoratori che denunciano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni tolti alla mafia». «In alcuni casi – ha spiegato Musumeci – si tratta di denunce di vere e proprie incompatibilità, situazioni preoccupanti. In altri casi abbiamo riscontrato la concentrazione di molti incarichi nelle mani di un unico amministratore e tentativi di favorire società e studi professionali». Palermo è la capitale della ”robba” dei boss. Il quaranta per cento di tutti i beni confiscati a Cosa Nostra, infatti, si trova nel capoluogo siciliano. Ed è proprio da Palermo che arriverà il primo dossier con le anomalie sulla gestione degli immobili confiscati alla mafia. Un patrimonio imponente: più di diecimila immobili, mille e cinquecento aziende, più di tremila beni mobili. Numeri che fanno dell’Agenzia per i beni confiscati, creata nel 2009 per gestire “la robba dei boss”, la prima holding del mattone d’Italia. E probabilmente anche la più ricca: il valore dei beni confiscati alle mafie, infatti, si aggira intorno ai 25 miliardi di euro. Un vero tesoro, che però spesso non riesce ad essere restituito alla collettività. A Palermo, per esempio, sono solo 1.300 i beni assegnati su un totale di 3.478. “Da più parti riceviamo, in audizione, denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia. Denunce che, dopo le trascrizioni, trasmetteremo alla magistratura e al ministero dell’Interno per le necessarie verifiche”, ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale Antimafia, che sta lavorando ad un dossier sulla gestione dei beni confiscati. Proprio ieri la commissione Antimafia ha ascoltato la deposizione del prefetto Umberto Postiglione, che ha sostituito Giuseppe Caruso alla guida dell’Agenzia. “Insieme alla commissione Lavoro dell’Assemblea regionale siciliana – ha continuato Musumeci – stiamo elaborando una proposta di modifica della legge nazionale vigente  ponendo particolare attenzione due problemi: la tutela dei dipendenti di quelle aziende che spesso chiudono dopo la confisca; il patrimonio di edilizia abitativa da destinare, a nostro avviso, alle famiglie indigenti e alle Forze dell’ordine piuttosto che restare inutilizzato e in completo abbandono”. L’emergenza principale è forse rappresentata dai dipendenti delle aziende sottratte a Cosa Nostra. La maggior parte delle società confiscate, infatti, finisce per fallire, e i dipendenti rimangono senza lavoro. Questo perché il codice antimafia recentemente approvato, che ha preso il nome del ministro Angelino Alfano, prevede la liquidazione di tutti i crediti non appena l’amministratore giudiziario prende possesso della società. “Significa che se questa norma venisse intesa in senso rigido, il tribunale deve procedere a liquidare il 70 per cento dell’impresa per pagare tutti i crediti: e quindi non resterebbe alcuna risorsa per continuare a far vivere l’azienda”, spiega il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci. Con il risultato che dopo la confisca gli ex dipendenti delle aziende di Cosa Nostra rimangono senza lavoro. “Con la mafia si lavora, con lo Stato no” gridavano negli anni ’80 gli operai delle prime aziende confiscate a Cosa Nostra. Oggi la situazione non sembra particolarmente migliorata. Un segnale poco incoraggiante,  pericolosissimo in una terra come la Sicilia che di segnali vive e si alimenta. Questo vale per la Sicilia, così come vale per tutta l'Italia.

Spero di aver dato un contributo costruttivo al dibattito.

IL BUSINESS DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

La mafia dell’antimafia. Il business dei beni sequestrati e confiscati. Come si vampirizzano le aziende sane. «L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.»

Il 3 febbraio 2015, nel suo primo discorso di insediamento da Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha parlato di lotta alla criminalità organizzata e di corruzione.  "La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute", ha detto nel suo discorso di insediamento. "La corruzione - ha aggiunto - ha raggiunto un livello inaccettabile, divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini, impedisce la corretta espressione delle regole del mercato, favorisce le consorterie e danneggia i meritevoli e i capaci". Il capo dello stato ha citato le "parole severe" di Papa Francesco contro i corrotti, "uomini di buone maniere ma di cattive abitudini". Ed ha sottolineato quanto sia "allarmante la diffusione delle mafie in regioni storicamente immuni. La mafia è un cancro pervasivo, distrugge speranze, calpesta diritti". A giudizio del presidente Mattarella occorre "incoraggiare l'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, che spesso a rischio della vita si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie - ha ricordato cedendo per un attimo alla commozione - abbiamo avuto molti eroi, penso a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste competenti tenaci e una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere verso la comunità". Ad ascoltare Mattarella a Montecitorio c'erano il presidente della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Leoluca Orlando, che proprio di Falcone era acerrimo nemico.

Molti altri lo hanno ascoltato a Montecitorio: persone oneste e meno oneste. Tra le persone oneste folta schiera è nel centro sinistra: quasi tutti o tutti. Fiancheggiatori della giustizia e della legalità o vittime o parenti di vittime della mafia. Se non lo sono, vale lo stesso. Nel centro destra, poi, son tutti mafiosi (a prescindere). Certo è questo quel che si vuol far intendere. Ma a destra non se ne curano. Basta loro adoperarsi per gli interessi del loro capo. I magistrati, poi, sono gli innominati di manzoniana memoria. Loro sì onesti per davvero, perchè la gente comune non lo sa, ma i magistrati non hanno nulla da spartire con i comuni mortali, perchè loro, i magistrati, vengon da Marte.

Dopo l'elezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato, su Facebook la politica si scatena nei commenti, scrive “Libero Quotidiano” ed “Il Giornale”. Qualcuno non condivide l'elezione come fa Matteo Salvini, ma qualcun altro tra i grillini (che hanno votato Imposimato), ha attaccato il neo-presidente in modo duro. A farlo è Riccardo Nuti che afferma: "Lodare Mattarella come antimafia perché il fratello fu ucciso dalla mafia è falso e ipocrita perché allora bisognerebbe dire anche che il padre era vicino alla mafia". Lo scrive su Facebook il deputato M5s, che aggiunge: "Ma se è vero che gli errori dei genitori non possono ricadere sui figli, allora non possono essere utilizzate altre vicende dei parenti in base alla propria convenienza. L'uccisione di un parente da parte della mafia (i motivi possono essere tanti e diversi fra loro) non da nessun bollino di garanzia di lotta alla mafia". Un commento che di certo farà discutere. 

L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.» Non lo dice Don Ciotti, presidente nazionale di “Libera”, anche perché non oserebbe mai, ci vorrebbe pure. Lo afferma categoricamente il dr Antonio Giangrande, noto scrittore e sociologo storico e fine conoscitore del fenomeno della Mafia, della Massoneria e delle Lobbies e della Caste, oltreché presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Ed è tutto dire. Io sono il presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione iscritta presso la Prefettura di Taranto. Per le problematiche sociali affrontate, siamo l’associazione madre di tutte le associazioni tematiche e territoriali, così come riporta il nostro sito web. Se qualcuno ha un problema me lo segnala. Non ho il potere di risolverlo, (nessuno può) ma di elevarlo agli onori della cronaca, sì. Io sono il Don Ciotti della mia associazione, per intenderci. Però abbiamo un difetto. Io ho un difetto: non sono comunista e non santifico i magistrati. Per questo i media ci ignorano. Ma non i cittadini. Prova a mettere su google il mio nome e vedrai quanti parlano di me. Ho pochi amici su Facebook e sul gruppo associazione contro tutte le mafie, perché dopo un po’ di tempo cancello gli amici o gli iscritti, quando verifico che hanno sbagliato amico o gruppo. Noi siamo diversi e ce ne vantiamo. Ogniqualvolta mi hanno interpellato, le vittime hanno preteso la soluzione. Mai una volta che abbiano offerto il loro appoggio, il loro sostegno. Non ho potere, ne sono sostenuto da alcuno e pure i coglioni mi dicono: che ci stò a fare. A prendere le ritorsioni dei magistrati che tentano in ogni modo di tacitarmi. Ogni volta che qualcuno si è confrontato con me per forza di cose voleva alzare la sua bandiera ed il suo nome, per un interesse personale. Gli onori a lui, le rogne a me. Le lotte si portano avanti insieme e non per la propria guerra. E’ un tallone di Achille parlare di sé. Si sarà sempre additati di mitomania o pazzia o di interesse personale. Pensi che qualcuno abbia pensato a me per competenza, capacità, esperienza e coraggio per portare avanti in Parlamento le aspettative del popolo. No. Pur incapaci son tutti pronti ad ante mettersi. Io parlare di voi o di altri e come se parlassi per me. Ma parlo di voi e ne sono contento. Perché è come se fossi uno di voi. Quest’ultima inchiesta è pubblicata su 500 siti web di portali di informazione a me collegati in tutta Italia. Pensi che ciò non basti a dare spazio alla tua storia, che non è la tua: è di mille come te? Pensi che lo abbia fatto per un interesse personale e che abbia chiesto a qualcuno un compenso? Quindi non serve avere una associazione in più, ma basta avere la consapevolezza di avere una guida o di avere uno strumento che porti ad un risultato. E mi dispiace dirlo, sarà solo quello di aver fatto conoscere la propria storia e non sarà quello di avere giustizia in questa Italia e con questi italiani. Segui me, vediamo fin dove arriviamo, perché il mio cammino è iniziato 20 anni fa. Io son Antonio Giangrande e basta questo basta. Pensa a Berlusconi: se è successo a lui, e non è stato capace di difendersi, figuriamoci ai poveri cristi. C'è qualcosa da fare: far conoscere la verità a tutti ed in tutti i modi. Solo quello ci rimane da fare. I miei siti web. I miei canali youtube. La mia tv web. I miei libri. Sono tutti strumenti di divulgazione che fanno male al sistema e ciò serve a cambiarlo. Come azione politica noi combattiamo, oltre che per cambiare il sistema, anche per una proposta concreta: il difensore civico giudiziario a tutela del cittadino che abbia i poteri del magistrato ma che non sia uno di essi: corporativo ed amicale. Questo sì che cambierebbe le cose in fatto di garanzia per le vittime di giustizia.

L’antimafia non combatte i mafiosi. Il suo intento è osannare i magistrati (i Pubblici Ministeri in particolare) per asservirli ai loro fini. Ossia: eliminare i rivali politici (avete mai visto qualcuno di sinistra condannato per mafia o per il reato inventato dai magistrati quale l’associazione o la partecipazione esterna alla mafia?) e sfruttare economicamente i beni sequestrati ed espropriati, spesso ingiustamente.

L’Antimafia: o si è con loro, o si è contro di loro. Ti chiami Giangrande o Sciascia uguale è. E’ inutile rivolgersi ai parlamentari per ottenere giustizia. Molti sono genuflessi alla magistratura, qualcuno è colluso, tanti sono ricattati o sono ignavi. La poltrona vale qualsiasi lotta di civiltà. Per questo nessuno di loro merita il voto degli italiani veri.

Ecco allora che nasce impettito il fenomeno mediatico dell’invasione virulenta della mafia in tutta Italia. L’Italia all’estero è una nazione ormai infetta. Non è più la Sicilia martoriata da Cosa Nostra o dalla Stidda, con vittime illustri uccise dai boss (dello Stato), o non è più la Calabria martirizzata dalla ‘Ndrangheta, o non è più la Campania tormentata dalla Camorra. Oggi l’Italia per i magistrati è tutta una mafia. E gli intellettuali di sinistra ci marciano. Ed all’estero ringraziano per il degrado del Made in Italy. Fa niente se prima l'illegalità diffusa si chiamava tangentopoli e guarda caso i comunisti non son stati colpiti. Oggi nel fenomeno criminogeno (sempre di destra, sia mai) ci sono di mezzo siciliani, napoletani e calabresi: allora è mafia!

L’antimafia per creare consenso e proselitismo monta campagne stampa di sensibilizzazione che incitano le vittime a denunciare. “DENUNCIA IL RACKET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito.

Le vittime, diventate testimoni di giustizia, successivamente sono abbandonate al loro destino, che porta questi a pentirsi ed a  rinnegare quanto fin lì fatto. Esemplari sono le testimonianze da tutta Italia tra i tanti di: FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

A cosa porta per davvero l'interesse dell'Antimafia se non tutelare le vittime dell'estorsione e dell'usura, così come propinata?

Il fenomeno taciuto è la gestione dei beni sequestrati, prima, e confiscati, poi. Per capire bene il fenomeno di cui si crede di essere unica vittima bisogna andare al di là di quello che si conosce.

I beni di sospetta leicità sono sequestrati con un provvedimento giudiziario come misura di prevenzione ed eventualmente confiscati con successiva pena accessoria in sentenza, che spesso non arriva. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Ma no è così.

I beni sotto tutela sono appetibili da tutti coloro che agiscono all’interno del sistema. Apparato non accessibile a tutti.

Firma l'appello: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra", si legge sul sito web di "Libera". "Cosa nostra"? Mi sembra di aver già sentito da altri lidi questa affermazione. "Cosa vostra"? Con quale diritto?

"Attorno ai beni confiscati e all’assegnazione di essi si può sviluppare l’unica vera opportunità per coinvolgere attivamente la società civile nella lotta alle mafie, portandola al suo esito più elevato: quello di estirpare culturalmente il fenomeno mafioso sul territorio a cominciare dal riuso di beni confiscati che devono essere effettivamente restituiti alla collettività", si legge su vari siti web di associazioni e comitati fiancheggiatori di "Libera" e della CGIL.

Una espropriazione proletaria nel nome dell’antimafia? Una buona trovata.

Rock e sociale incrociano le loro strade in Il silenzio è dolo. Il brano è di Marco Ligabue e si intitola "Il silenzio è dolo". Marco Ligabue l'ha scritta quando ha scoperto la storia del contestato sorteggio con cui sono stati "selezionati" gli scrutatori per le recenti elezioni europee nei seggi di Villabate, in Sicilia. L'iniziativa è stata presentata a Montecitorio e ha riscosso l'appoggio del presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Nino Di Matteo, convinto che "la mafia ha sempre prosperato nel silenzio, i mafiosi vogliono che di mafia non si parli". Della selezione e dell'operato degli scrutatori e dei presidenti di seggio, uguale in tutta Italia, sorvoliamo, anche perché è cosa di sinistra, ma attenzioniamo un fatto. I Parlamentari e l'associazione Nazionale Magistrati non hanno posto uguale attenzione all'appello di Pino Maniaci. Ed i media neppure.

«Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento - scrive Pino Maniaci - C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco».

Il business dell'Antimafia. Conoscete Cavallari, il re mida della sanità? A bari si son fottuto tutto di questo signore. Tutte le sue cliniche private. Per i magistrati era mafioso perchè era associato con sè stesso. E poi come si dice, alla mano alla mano…Ossia conoscere altre storie similari ma non riuscire a cambiare le cose?!? Perché ognuno pensa per sé. Una voce è una voce; tante voci sono un boato che scuote. Peccato che ognuno pensa per sé e non c’è boato. Basterebbe unirsi e fare forza.

Si prosegue con Matteo Viviani, che raccoglie la testimonianza  di una famiglia siciliana di imprenditori: Mafia, antimafia e aziende che affondano. I Cavallotti hanno subito estorsioni dal braccio destro di Provenzano, irruzioni armate in casa, finendo poi in galera per aver pagato il pizzo. Erano glia anni di Cosa Nostra, spiegano, e tutti pagavano il pizzo. Nonostante dopo anni di processo sia stato appurato che i Cavallotti non siano mafiosi, continuano a non poter gestire la loro azienda. L'amministratore che se ne sarebbe dovuto occupare infatti, ha effettuato operazioni di vendita poco chiare di cui, alla fine, ha beneficiato economicamente. Viviani lo raggiunge, ma lui non dà risposte. Il 29 gennaio 2015 è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo Stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi  forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo, ancora continua, scrive Salvo Vitale. I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato. Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione  le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello Stato.  Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo Stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un  utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo  sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato  vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.

Ma per la Commissione Antimafia la mafia è tutt’altra cosa…

La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali del 2014, e si capisce di cosa stia parlando. Gli italiani, soliti ignavi, non lo dicono, ma dimostrano il loro odio e disprezzo, o comunque il loro distacco dalla politica contemporanea che viene da lontano con l’astensionismo od altre forme di protesta. La politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari. Secondo Renato Mannheimer su “Il Corriere della Sera” la politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari, dico io, proprio perché interessati dai favori richiesti e ricevuti. I risultati delle ultime amministrative hanno dato una scossa violenta alla vita dei partiti. L'elevato tasso di astensione, il gran numero di schede bianche e nulle (di cui troppo poco si è parlato) e il successo di un movimento antipartitico come la lista 5 stelle hanno mostrato tutta la debolezza delle forze politiche tradizionali nell'opinione pubblica italiana. D'altra parte, questo scarso appeal dei partiti era già stato indicato dalle ricerche che mostravano il decrescere progressivo del grado di fiducia nei loro confronti. La sfiducia verso i partiti si inquadra in un più generale trend di disaffezione da tutte le principali istituzioni politiche, anch'esso accentuatasi negli ultimi anni. L'indice sintetico di fiducia per le istituzioni politiche elaborato da Ispo (che misura, attraverso un algoritmo statistico, il consenso verso diverse istituzioni, dall'Ue al Parlamento, al Governo, fino al presidente della Repubblica) mostra al riguardo un calo drastico al valore del 25,5 di oggi. Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere. Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……

Ma non solo la politica paga fio. Non si fidano della magistratura 2 italiani su 3, scrive Errico Novi su "Il Garantista". E’ un crollo. Il tasso di fiducia nei magistrati passa dal 41,4% di un anno fa ad appena il 28,8%. Lo dice il Rapporto 2015 dell’Eurispes, presentato ieri a Roma dal presidente dell’istituto Gian Maria Fara. Che definisce il dato su giudici e pm «preoccupante e inatteso». Di fatto quello della magistratura è il potere che perde maggiori consensi: più del 30% di quelli che già aveva. Il governo è messo male, il dato della fiducia è al 18,9%, eppure è in lieve crescita rispetto a un anno fa. Il che autorizza a credere che nella lite tra le toghe e l’esecutivo sul taglio delle ferie, i cittadini parteggino decisamente per quest’ultimo. I dati rischiano di galvanizzare Renzi. Soprattutto nella sua guerra a distanza con i magistrati. Secondo il Rapporto Italia 2015 dell’Eurispes la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni tende al ribasso. Ma se si va nel dettaglio, le cose si mettono davvero malissimo per la magistratura, che ha un tasso di consenso ridotto ormai al 28,8% e diminuito nel giro di un anno di ben 12,6 punti percentuali (nel 2014 era dunque al 41,4%, tutta un’altra cosa). Il governo come istituzione nel suo complesso ha un punteggio da incubo, sta al 18,9%. Ma seppur di qualche decimale, e in un clima di generale scoramento, è in salita. Non che ci sia da festeggiare visti i numeri, ma insomma il presidente del Consiglio potrebbe dedurne che gli italiani parteggiano più per lui che per le toghe, nella contesa sul taglio delle ferie. Interpretazioni a parte, le statistiche presentate ieri alla Biblioteca Nazionale di Roma da Gian Maria Fara, che dell’Eurispes è presidente, fanno impressione. Il giudizio degli italiani nei confronti delle istituzioni resta complessivamente negativo, il 69,4% dice di riporvi minore fiducia che in passato. E questo in un quadro complessivo di certezze sempre più scarse, di valutazioni molto critiche nei confronti dell’Unione europea e della moneta unica e in un generale clima di oppressione percepita nei confronti di fisco e burocrazia. Nulla di sorprendente, però. Tranne il dato sui magistrati. Che tracollano in modo davvero verticale – di fatto perdono oltre il 30% dei consensi che avevano – nonostante il grande impatto mediatico di inchieste come quella su Mafia Capitale. E’ la pietra tombale sul ricordo stesso della stagione di Mani pulite. Un cambio di paradigma che tra l’altro è stato ampiamente rappresentato pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, proprio con il riferimento alla golden age di Tangentopoli. Nella sua esposizione pubblica Fara non si dilunga granché sul dato. Si limita a definirlo «preoccupante e inatteso». E a proporlo anche in versione capovolta: «La quota di cittadini che non ripongono fiducia nella magistratura è passata dal 54,8% del Rapporto 2014 al 68,6% dell’ultimo rilevamento». Il clima del Paese non è certo colorato di rosa, dice lo studio presentato. Gli aspetti patologici da rimuovere in fretta sarebbero la pervasività della burocrazia e le tasse asfissianti. Soprattutto il primo elemento potrebbe indurre il sospetto che il crollo della magistratura nell’indice di gradimento degli italiani sia parte di una più generale ripulsa nei confronti di tutto ciò che è apparato e potere pubblico. E invece non è così. Niente da fare, le toghe non possono aggrapparsi neppure a questo. Perché nonostante l’analisi del presidente Fara parta da quello che lui chiama il «Grande Fardello» degli adempimenti infiniti e del fisco, la fiducia nei confronti della pubblica amministrazione non è in calo, anzi: è in clamorosa ascesa, fa registrare un +18,1% e si risolleva così da un dato precedente molto basso, fino a raggiungere il 39,1%. Meglio i travet e gli impiegati, meglio i ministeriali di giudici e pm. Chi l’avrebbe mai detto. Persino i partiti si riprendono un po’ (arrivano al 15.1% con un significativo +8,6% rispetto a un an anno fa), addirittura i vituperatissimi sindacati hanno consensi più che doppi rispetto alle forze politiche (tasso di fiducia al 33,9%, con un +14,7). La magistratura niente, è così penalizzata dalla ricerca dell’Eurispes da far pensare a un rancore profondo, diffuso, quasi a una voglia di fargliela pagare. Figurarsi se davvero insisteranno con il piagnisteo per quei 15 giorni su 45 di vacanza in meno.

Tutto il potere alle toghe. Dai la parola all’imputato? Favoreggiamento, scrive Guido Scarpino su "Il Garantista". Da 17 anni scrivo sui giornali e denuncio la mafia. Mi hanno anche bruciato la macchina e minacciato. Mi è capitato poi di dare diritto di replica agli imputati. Per esempio a un certo Serpa. Perché lo ho fatto? Perchè vivo – o così credo – in uno stato di diritto. Non è che se uno è accusato di un reato mafioso perde il dirtto a difendersi, no?. E invece un Pm, durante la requisitoria, se l’è presa con quei giornalisti che danno la parola ai boss e di conseguenza «favoreggiano la mafia…» Il diritto di replica può essere concesso anche ad un boss di ‘ndrangheta in semilibertà o ad un presunto “capoclan” a piede libero? E’ una domanda, a mio avviso superflua - soprattutto se posta dal cronista di un giornale che si chiama il Garantista – che pongo a me stesso dopo aver udito la requisitoria di un pubblico ministero antimafia, svoltasi a Paola, in provincia di Cosenza, che, bontà sua, ha distribuito bacchettate a destra e a manca: ai politici, ai parlamentari e finanche – mi chiedo cosa ci sia dietro – al “solito articolista”, che avrebbe condotto una “attività di favoreggiamento” per aver offerto il diritto di replica. In un clima di omertà e condizionamento denunciato dal pm, mi sarei atteso, dallo stesso pm, quanto meno nomi e cognomi. Tuttavia, ciò non è accaduto, ed il quesito di cui sopra lo pongo a me stesso, anche perché il sottoscritto, in diciassette anni di professione in cui ha documentato quasi quotidianamente le attività delittuose delle cosche tirreniche, nonostante le auto bruciate (la sua auto) e le tante minacce mafiose subite (“spedizioni punitive” sotto casa e proiettili inclusi), ha avuto il buon senso di far parlare, in replica, il boss della cosca Serpa, a quel tempo in semilibertà. Mario Serpa ha infatti contattato, anni addietro, il cronista perché voleva replicare a chi, come il sottoscritto, lo accusava d’aver mandato alcuni parenti – che incutevano terrore facendo il suo nome – a taglieggiare gli esercenti commerciali; anticipava telefonicamente, al giornalista, l’invio di una lettera a sua firma, concordata con l’avvocato Gino Perrotta, che il giornale pubblicò sulle pagine regionali a corredo di un altro pezzo, a dir poco “cattivo”, sempre a firma del sottoscritto, in cui si riportava il curriculum criminale dello stesso boss di Paola. Quella missiva (che non è stata sequestrata, come erroneamente riferito) è stata consegnata, dal sottoscritto, ai carabinieri, dopo essere stata pubblicata. In diciassette anni di attività, dunque, ho fatto parlare Mario Serpa e non credo d’aver “favorito” nessuno. Era un suo diritto parlare, in uno Stato di diritto e dopo centinaia di batoste a mezzo stampa. Peraltro era stato promesso dal detenuto in semilibertà, sempre al sottoscritto, l’invio di un corposo “dossier-confessione” a sua firma, da trattare – era questo l’intento – in una serie di articoli o attraverso la stesura di un libro. Una inchiesta giornalistica che mi avrebbe consentito di raccogliere una importante “verità di parte” da mettere in contrapposizione ai fatti storici ed ai fatti processuali della mala nella provincia di Cosenza.  Poi Mario Serpa venne arrestato e quel dossier venne trovato in carcere e finì – questo sì – sotto sequestro. Ho fatto parlare, poi, Nella Serpa, cugina di Mario e presunta “reggente” della cosca di Paola. Mi ha inviato delle lettere dal carcere che ho pubblicato (due, di cui una in ricordo del suo avvocato, il noto compianto penalista Enzo Lo Giudice), mentre altre tre/quattro missive (credo anche telegrammi), contenenti dure accuse e velate minacce al sottoscritto, non le ho rese note – ma consegnate (e non sequestrate) ai carabinieri quando mi è stata bruciata l’auto – solo perché di scarso interesse pubblico. Ricordo ancora, quando lavoravo a Calabria Ora, di essere stato contattato da un “gancio” per una intervista al boss di Cetraro, Franco Muto, che poi, nonostante la mia piena disponibilità a recarmi in quel di Cetraro, dove sono sempre stato odiato per le innumerevoli pagine da me stilate contro la cosca, non venne mai rilasciata. Ricordo ancora, diversi anni or sono, di essere stato convocato dai carabinieri, su richiesta dello stesso pm, per aver ospitato sulle mie pagine la denuncia di un avvocato penalista (Gino Perrotta) a discolpa di un suo assistito, un aspirante pentito prelevato dal carcere senza autorizzazione per indurlo a contattare telefonicamente i suoi “compari” al fine di raccogliere indizi nell’ambito di indagini antimafia. In questo caso, il magistrato perse mezz’ora del suo prezioso tempo solo per pormi una domanda: “Ma lei con chi sta? Con noi o con loro?”.  Io risposi: “Io sto con me stesso. Faccio il giornalista”. Una risposta che mi portò, poco dopo ad un’altra convocazione, questa volta in caserma a San Lucido – pare sempre su richiesta dello stesso pm - per rispondere sulla fonte di una notizia di cronaca nera apparsa sul mio giornale ed a mia firma. Chiaramente mi rifiutai di fare nomi, ma fornii ai carabinieri (me l’ero portato dietro, perché avevo previsto la mossa del “nemico”) copia di un articolo apparso il giorno prima su un giornale concorrente in cui il giornalista intimo amico di quel pm, pubblicò la stessa notizia, precedendomi, ma lui – il collega – non venne convocato da nessuno. Dunque, dopo migliaia di articoli contro le cosche del Tirreno (ospitando anche tante veline dei “buoni”), dare spazio in replica, con tre articoli, ai “cattivi”, può anche non fare piacere a tutti, ma a me interessa poco proprio perché opinione “interessata”.  Mi sono sempre guardato le spalle dalla ‘ndrangheta e dalla malapolitica ed ho imparato ad essere guardingo anche verso “padroni” in cerca di “servi” e verso quei pochissimi pm che vivono di visibilità ad ogni costo. Dopotutto, se un giornalista che fa parlare un mafioso è accusato – verbalmente, e non certo sulla carta – di essere un “favoreggiatore” (opinione personale non condivisa), un magistrato che acquista consapevolmente una villa abusiva (è la motivazione di un giudice), è uno che non rispetta le regole e non è in condizioni di dare lezioni a nessuno. P.S.: Oggi sono in vena di consigli: non dimenticate di chiedere al neo pentito Adolfo Foggetti chi è il mandante e chi l’esecutore dell’incendio della mia auto. Poi confrontate i nomi con quelli da me forniti al magistrato di Paola.

Ma questi magistrati non sono coerenti.

L'ex pm antimafia Ingroia difende un boss pluriomicida. È il legale del camorrista La Torre, accusato di 40 delitti. Di lui Saviano disse: "È solo uno smargiasso ambiguo", scrive Gianpaolo Iacobini su "Il Giornale". Antonio Ingroia, l'ex pm antimafia che difende un camorrista. Più d'uno è saltato sulla sedia quando il nome del magistrato che dava la caccia ai capi di Cosa Nostra è risuonato nelle aule del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere insieme a quello di Augusto La Torre, fino ai giorni dell'arresto - e pure oltre - boss del clan dei Chiuovi di Mondragone, alleato dei Casalesi ed egemone nell'alto Casertano, nel basso Lazio e lungo la costa domizia tra il 1980 e gli inizi dei Duemila. Davanti ai giudici sammaritani La Torre - che dietro le sbarre s'è laureato in Psicologia - è comparso da testimone nel processo a carico di Mario Landolfi, imputato di corruzione e truffa aggravata dal metodo mafioso per la vicenda d'un consigliere comunale dimessosi, secondo la Procura, in cambio dell'assunzione trimestrale della moglie in una società di servizi. L'ex ministro s'è sempre detto innocente e La Torre, in videoconferenza, ha smentito avesse contatti col clan, ma a far notizia è stata la nomina del nuovo legale del boss psicologo, poi confermata dal portavoce dell'ex procuratore aggiunto. Quello che, all'indomani del giuramento da avvocato, assicurava: «Per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti». E invece alla fine s'è ritrovato al fianco d'un barone del crimine organizzato, condannato in via definitiva a 22 anni per associazione camorristica e ad altri 9 per estorsione aggravata ed a tutt'oggi sotto processo anche per omicidio. La replica: «Nessuna contraddizione: è un collaboratore di giustizia». Insomma, un conto sarebbe difendere i mammasantissima tutti d'un pezzo, un altro assistere mafiosi contriti, anche quando, confidando nell'impunità, confessano i peggiori misfatti. Come La Torre, autoaccusatosi di una quarantina di omicidi, con le vittime crivellate di colpi, gettate nei pozzi di campagna e dilaniate con le bombe a mano, per smembrarne i corpi e lasciarli a marcire sotto acqua e terra. Di sicuro, c'è collaboratore e collaboratore: l'imperatore di Mondragone, detenuto dal 1996, saltò il fosso nel 2003, ma poco dopo la protezione gli fu revocata per un'estorsione. E i Tribunali hanno fin qui preso con le molle le sue dichiarazioni, negandogli sconti di pena, mentre proprio uno degli Ingroia-boys, lo scrittore Roberto Saviano, nel luglio del 2012 ne stroncava l'attendibilità, definendolo su Facebook «un pentito pieno di lati ambigui: smargiasso e feroce, è arrivato a far pentire l'intero clan per ricevere sconti di pena, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri. Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila tempo fa chiedeva anche danaro: aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste». Avesse ragione Saviano, che a sentire gli ingroiani ha ragione per definizione, è questo il nuovo cliente di Antonio Ingroia, un avvocato che non difende né mafiosi né corrotti. Ipse dixit.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

Magistrati coraggiosi contro le banche cercasi, scrive Enzo Di Frenna su “Il Fatto Quotidiano”. C’è qualcosa di legale in questo meccanismo? A novembre 2011 il presidente della Banca centrale europea, l’italiano Mario Draghi, incontra i vertici di alcune grandi banche – tra cui Goldman Sachs, Morgan Stanley, Barclays Capital– e dopo qualche settimana annuncia prestiti fino a tre anni per le banche europee con l’obiettivo di “ridare fiato all’economia” ed evitare il “credit crunch”, cioè la chiusura dei rubinetti monetari alle piccole e medie imprese. I soldi, in pratica, sono regalati (tasso 1%). Non si ha notizia che Draghi abbia fatto firmare alle banche un contratto che le costringesse ad usare quel denaro per sostenere gli imprenditori. Insomma, una roba del tipo: se li usi per speculare, il tasso passa al 15% e paghi anche una penale. È una soluzione elementare, non ci vuole una laurea in economia per usare una tale precauzione. Invece, cosa succede? Le banche succhiano un torrente di denaro alla Bce – cioè soldi dei cittadini europei – e li usano per speculare e acquistare titoli di Stato, sui cui guadagnano somme elevate. Ecco cosa è accaduto in Italia. Il 21 dicembre 2011 la Bce di Draghi mette a disposizione delle banche italiane 116 miliardi di euro lordi, ma – attenzione – l’incasso netto è intorno ai 60 miliardi. Nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia si scopre che tra dicembre 2011 e gennaio 2012 le banche  hanno speso 28 miliardi di euro per acquistare BTP e altri titoli: in soli trenta giorni la loro quota complessiva è passata da 209 a 237 miliardi. Altri 41 miliardi li hanno spesi per acquistare bond e il totale arriva a 69 miliardi di euro. Quindi hanno usato i soldi per speculare e arricchirsi, invece che “ridare fiato all’economia” e aiutare le imprese. Tra febbraio e marzo 2012 si suicidano diversi imprenditori, anche con metodi violenti come darsi alle fiamme. Poi scopriamo che 12 mila aziende hanno chiuso nell’ultimo anno e 50 mila lavoratori sono stati licenziati. Emergono storie di imprenditori a cui le banche hanno chiuso i rubinetti del credito. Michele Santoro a Servizio pubblico, la scorsa settimana ha intervistato Maria Teresa Carlucci, la moglie di un imprenditore suicida a cui la banca ha rifiutato un prestito di 500 euro. Posso aggiungervi che anche un paio di amici – titolari di piccole attività commerciali – mi hanno riferito che sono in gravi difficoltà a cause della stretta creditizia applicata improvvisamente dalle loro banche. Ecco invece un commento copiato dal mio profilo Facebook: “Vedo che la gente è spaventata, che tante attività chiudono o che stanno per chiudere. Negozi chiusi da tanti mesi che nessuno prende in affitto perché avviare qualsiasi attività è troppo rischioso. Sono molto preoccupata per il futuro. Tanto tanto preoccupata. Non capisco perché la crisi la devono risolvere le classi meno abbienti» (Antonella). Quindi abbiamo la seguente situazione: la Bce ha fallito il suo obiettivo. Le imprese sono strangolate nel “credit crunch” e altri padri di famiglia potrebbero decidere di uccidersi. Ci sono i presupposti per avviare un’inchiesta giudiziaria? Si possono sequestrare i contratti che Mario Draghi ha firmato con le banche italiane? Possiamo conoscere i nomi degli amministratori delegati di quelle banche che hanno preso i soldi della Bce per comprare titoli e speculare? Mi rivolgo dunque alla magistratura. E chiedo ad Antonio Di Pietro, ex magistrato, di farsi portavoce di questa istanza presso la categoria che ha rappresentato negli anni di Mani Pulite. È possibile trovare magistrati coraggiosi che possano indagare su questo meccanismo e – se saltano fuori le prove di illegalità – far scattare le manette a chi usa il denaro in modo così spregiudicato? È’ possibile vedere in galera qualche banchiere senza scrupoli, che non arrossisce neppure quando nega un prestito di 500 euro a un padre di famiglia e anzi – cosa atroce – usa gli spiccioli per fare profittto con manovre speculative? Avete presente Callisto Tanzi dimagrito e col sondino al naso? Avete presente il suo pentimento in tribunale per aver causato sofferenze ai suoi clienti truffati? «Non mi rendevo conto dell’esaltazione…», ha detto. Ecco, vorrei vedere decine banchieri in galera e poi cospargersi il capo di cenere per aver causato così tanta sofferenza. Vorrei vederli pentiti per l’ubriacatura finanziaria e rinchiusi al sicuro dietro le sbarre. I giornalisti con la schiena dritta hanno fatto il loro dovere denunciando queste anomalie. Ora tocca ai magistrati.

Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.

"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."

Usura, un imprenditore accusa: «Ora a Milano i giudici stanno con le banche». Da qualche mese il Tribunale del capoluogo lombardo, dove hanno sede legale parecchi istituti di credito, ha iniziato a respingere le cause di usura bancaria. Motivando così la scelta: le perizie tecniche devono essere svolte secondo i criteri fissati dalla Banca d'Italia. I cui azionisti, però, sono gli stessi istituti, scrive Stefano Vergine “L’Espresso”. «Grazie all’azione di lobbying, le banche hanno fatto breccia nel Tribunale di Milano. Da qualche mese i giudici della corte lombarda stanno infatti rigettando le cause per usura che imprese come le mie stanno continuando a proporre, e questo è paradossale considerando che invece nel resto d’Italia le ragioni dei consumatori continuano a prevalere». A parlare è G.P., un imprenditore del settore immobiliare, titolare di due società e amministratore di altrettante imprese. Preferisce non rivelare il suo nome perché - dice – «ho ancora diverse cause in corso e questa intervista potrebbe danneggiarmi». Il suo è però un attacco diretto. Contro le banche, accusate di applicare tassi d’usura all’insaputa di imprese e cittadini. E contro l’orientamento prevalente nel Tribunale di Milano che, spiega l’imprenditore, «ultimamente ha iniziato ad accettare acriticamente la posizione sostenuta dagli istituti di credito». Sul tavolo c’è una questione spinosa come quella dell’usura. Non quella applicata dalla criminalità organizzata, ma l’usura bancaria. Un fenomeno difficile da quantificare con precisione. Le uniche cifre sono quella della Fondazione SDL, un centro studi basato a Brescia, di cui fanno parte avvocati, commercialisti e imprenditori come G.P. Analizzando circa 150 mila prodotti bancari, SDL dice di aver rilevato nel 71 per cento dei casi la presenza di usura oggettiva ai sensi del codice penale. E sulle 19 mila pratiche giudiziarie intentate finora contro le banche, afferma di aver ottenuto per i propri clienti, quasi sempre tramite transazioni, diverse decine di milioni di euro. «Tutte queste vittorie hanno costretto le banche a reagire», sostiene G.P., convinto che ora «la loro attività di lobbying abbia attecchito al Tribunale di Milano».

G.P., ci racconti in breve la sua storia personale.

«Nel 2012, grazie ad un amico che fa il perito per le banche, ho scoperto che sui conti correnti e sui mutui delle mie aziende venivano praticati tassi d’usura. Mi sono allora rivolto alla studio legale SDL, del professor Serafino Di Loreto, il quale mi ha spiegato come, in base alla legge 108 del 1996, mi veniva effettivamente praticata usura».

Ha fatto causa alle banche?

«Sì, ho fatto una decina di cause. Ovviamente per recuperare quanto pagato ingiustamente, ma anche per un senso di responsabilità civile: riflettendo su quanto mi stava accadendo, ho capito che dovevo farlo per non lasciare ai miei figli una società in cui la classe dirigente, in questo caso quella bancaria, esercita usura sulla piccola e media impresa e sulle famiglie».

Alla fine le cause le ha vinte?

«La prima l’ho vinta, a Milano: nel conto corrente di una mia azienda la perizia disposta dal tribunale ha rilevato usura penale per 50 mila euro. Le altre cause sono ancora in corso».

E cosa c’entra il Tribunale di Milano allora?

«Al Tribunale di Milano l’orientamento predominante è pro-banche, e questo è particolarmente importante visto che gran parte degli istituti ha la propria sede legale proprio nel capoluogo lombardo».

In che cosa consiste questo orientamento pro-banche di cui parla?

«Le cause per usura bancaria a Milano incontrano resistenze molto maggiori rispetto al resto d’Italia. Questo lo dico perché, da collaboratore di una fondazione che si occupa a livello nazionale di difendere i consumatori dall’usura bancaria (la fondazione SDL, ndr), ho avuto modo di notare la differenza di trattamento che ultimamente Milano sta riservando alle banche».

Concretamente, in che cosa consiste questo trattamento privilegiato?

«Tutto si gioca sulle perizie che il tribunale dispone per analizzare i conti correnti e ravvisare se vi è stata o meno usura. Nel resto d’Italia prevalgono le indicazioni di redigere la perizia sulla base dei criteri della legge 108 del 1996 e delle successive conferme della Cassazione. A Milano, invece, la linea predominante è quella di analizzare i conti correnti non sulla base della legge dello Stato, ma seguendo le istruzioni secondarie della Banca d’Italia».

E qual è il problema?

«Il problema è che le istruzioni della Banca d’Italia sono decisamente più vantaggiose per gli istituti. E non è un caso, visto che gli azionisti della Banca d’Italia sono le stesse banche. E’ un po’ come se, dopo un incidente d’auto provocato dallo scoppio di una gomma, il perito valutasse le cause dell’incidente seguendo le indicazioni della ditta costruttrice di pneumatici e non quelle previste dalla legge».

Lei però ha detto che a Milano una causa l’ha vinta, in realtà.

«Sì, è vero. L’ho vinta perché la banca aveva talmente esagerato che, nonostante siano stati applicati i criteri favorevoli della Banca d’Italia, il conto corrente è risultato essere comunque in usura».

Quindi alla fine le imprese che fanno causa alle banche continuano a vincere anche a Milano?

«La gravità della situazione è proprio questa. Ultimamente, sia personalmente che alla Fondazione SDL, risulta che l’orientamento prevalente del Tribunale di Milano sia quello di rigettare le cause per usura se la perizia con la quale si presenta il caso non è redatta sulla base delle istruzioni della Banca d’Italia. Questo mi sembra gravissimo perché le istruzioni di una società privata, seppur autorevole come la Banca d’Italia, disattendono diverse sentenze della Cassazione. Mi pare inoltre molto grave precludere la via del contenzioso a tutte quelle aziende piccole e medie che non hanno la forza economica per ricorrere in appello e cassazione, dove invece potrebbero ottenere ragione».

Adesso cosa farà?

«Continuerò a seguire le mie cause, che fortunatamente sono state presentate prima di questa ulteriore virata pro-banche del Tribunale di Milano. Di certo se subirò delle sentenze ingiuste ricorrerò, con il mio avvocato Biagio Riccio, in appello e in Cassazione, perché sono sicuro che alla fine otterrò giustizia. Al di là delle questioni personali, però, vorrei che questa intervista desse origine a un dibattito, aperto a tutte le parti in causa, perché sulla questione dell’usura bancaria e più in generale del credito alle imprese si gioca la ripresa italiana e il futuro dei nostri figli».   

Banche, tassi usurai alle aziende. Una società di consulenza bresciana ha scoperto che i tassi applicati sui prestiti si sono alzati, al limite dello strozzinaggio. Ma pochi imprenditori denunciano e l'ABI e la Banca d'Italia non controllano. Cronaca di una nuova, pericolosa deriva, scrive Massimiliano Carbonaro su “L’Espresso”. Anche le banche, in Italia, prestano 'a strozzo', attraverso meccanismi complessi nel rilascio dei finanziamenti a favore delle imprese. Sono molti gli istituti di credito coinvolti in questa nuova e pericolosa deriva. Sul fenomeno non esistono cifre complessive esatte, così come non si conosce la quantità di questi prestiti a tassi usurai. Questo perché, nelle occasioni in cui finora il problema è emerso in sede giudiziale, le stesse banche attraverso accordi di conciliazione sono riuscite a non far diventare pubblica la questione. La stessa Banca di Italia, pur ammettendo di non avere il polso complessivo della situazione, ha annunciato che deve rivedere il sistema di rilevazione dei tassi bancari. Come è noto, il grosso del tessuto imprenditoriale italiano è fatto da piccole e medie imprese che non sono strutturate per affrontare problematiche di natura finanziaria. Solo quando i costi di gestione dei loro conti correnti diventano particolarmente alti, gli imprenditori cominciano a porsi domande: così i titolari delle aziende hanno cominciato a rivolgersi a consulenti esterni per cercare di capirci di più. Tra queste società di consulenza c'è la bresciana SDL Centro Studi. Si tratta di una società con una trentina di dipendenti, unica rispetto al panorama delle concorrenti perché offre gratuitamente il primo screening sui conti. Negli ultimi due anni e mezzo ha esaminato oltre 29mila conti correnti intestati ad aziende, scoprendo che il 90% è afflitto da questo problema. Tutto è cominciato nel 2010 quando l'avvocato bresciano Serafino di Loreto è stato coinvolto nel fallimento della società di un amico che per la disperazione si è tolto la vita. A una attenta analisi della situazione societaria della ditta fallita è emerso che i conti erano infettati da usura e soprattutto che la somma degli interessi non dovuti estorti dalle banche l'avrebbe salvata dal fallimento. Questa scoperta ha spinto Di Loreto a creare una società in grado di scandagliare in maniera rapida la situazione finanziaria di un'impresa evidenziandone le anomalie. L'accertamento della SDL sui conti aziendali procede secondo vari step. In primo luogo si verifica se il tasso applicato è inferiore o meno al tasso oltre il quale siamo davanti all'usura. Ogni tre mesi Banca di Italia segnala i tassi effettivi medi rilevati e segnala i tassi 'soglia' su base annua per ogni categoria di operazione e per differenti range di importo oltre cui si verifica l'usura. L'altro fronte su cui lavora la SDL riguarda l'anatocismo, ovvero l'applicazione di interessi sugli interessi maturati che fanno crescere esponenzialmente il debito. «Il risultato degli accertamenti è per molti versi inaspettato. Tendenzialmente non sei portato a credere che una banca possa fare una cosa simile» commenta l'avvocato Di Loreto, responsabile legale della SDL «ma la cosa impressionante è che in pratica sono coinvolte tutte le banche italiane. Si stanno accanendo sulle nostre aziende, infliggendo costi ben superiori a quanto dovuto». Nel dettaglio la SDL è entrata dentro le carte di 9845 imprese, prevalentemente dislocate tra il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e la Toscana: il 90% dei conti presentava usura e anatocismo. Secondo i calcoli, poi certificati da commercialisti esterni, quello che le banche non avevano diritto a percepire oscilla tra il 30% e il 70% di quanto prelevato dai conti: si varia molto in base agli istituti di credito e alle tipologie di conto. Non sono solo i conti correnti delle imprese ad essere attaccati: ciò che emerge è un sistema perverso in cui le banche colpiscono gli imprenditori stessi rivalendosi sul loro patrimonio con l'intento di riuscire a rientrare dei debiti contratti per portare avanti l'attività dell'azienda: spesso, però, una parte di questi è frutto di interessi illegittimi. Il quadro del fenomeno fatica a venir fuori perché quando un imprenditore si ribella, utilizzando le perizie fornite da Di Loreto, e cita la banca in tribunale, l'istituto di credito preferisce arrivare a una transazione amichevole e soprattutto segreta. E' molto chiaro in tal senso l'accordo raggiunto tra un'azienda bresciana cui SDL ha fatto da consulente e una banca (non si può rendere noto il nome dei soggetti coinvolti altrimenti l'intesa potrebbe saltare) in cui l'istituto di credito ha preferito rinunciare a 350 mila euro dei 650mila concessi come prestito all'azienda. Questo dopo che era intervenuta una sentenza relativa ad un decreto ingiuntivo in cui il giudice rilevava che 42mila euro di debiti dell'impresa con la banca erano frutto di usura e anatocismo. Secondo il panorama delle conciliazioni esaminate, nessun gruppo creditizio italiano sembra sfuggire a questa strategia. C.C., un imprenditore del milanese attivo nel settore dei servizi che preferisce rimanere anonimo, si è sentito dire da un direttore di banca: «Non siamo un ente di beneficenza». «Sono furente» commenta l'imprenditore «non solo per i soldi che mi hanno rubato, ma anche i mancati investimenti e la perdita di competitività in campo internazionale». L'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato una richiesta di interessi non dovuti per 200mila euro. «Fino a un anno fa, spiega Di Loreto, si trattava esclusivamente di un recupero crediti legittimo. Ora invece stiamo assistendo da parte delle banche a una vera caccia alle imprese per far rientrare a tutti i costi e in tempi rapidi i clienti dei crediti concessi». Uno scenario per G.P., un imprenditore edile che con il suo gruppo di società detiene un patrimonio di immobili da circa 30 milioni di euro, definisce drammatico: «Sono 40 anni» spiega «che lavoro con le banche, ma in una situazione simile non mi ero mai trovato. Tra l'altro questo attacco indiscriminato alle imprese farà sì che quando ci sarà la ripresa rimarremo bloccati. Il tessuto di piccole e medie aziende che sostengono l'economia italiana nel frattempo sarà stato distrutto». Manco a dirlo, l'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato crediti estorti dalle banche per 1,5 milioni di euro. L'aspetto più assurdo della vicenda è che gli istituti procedono pressoché impuniti e che l'Abi (Associazione bancaria italiana) non rilascia alcuna dichiarazione. Il motivo? Non sono tenuti a esercitare il controllo sui loro soci. Banca d'Italia, che invece questo controllo lo dovrebbe effettuare, sottolinea come «le numerose denunce per usura siano basate sull'impiego di criteri di calcolo difformi». A questo però aggiunge che «sta rivedendo le istruzioni in materia di rilevazione dei tassi effettivi globali». Insomma, la situazione sembra priva di reale controllo.

I magistrati indagano i banchieri, poi ci vanno pure a scuola, scrive “Alètheia”. E pensare che ci stupivamo della telefonata fatta dal ministro della giustizia Cancellieri alla famiglia Ligresti. Le banche, tramite l’Abi (Associazione bancaria italiana), hanno sempre cercato di condizionare la giustizia, con protocolli di intesa (novembre 2006) con il Ministero della giustizia per progetti di formazione destinato a magistrati, cancellieri, ed altri operatori del settore giudiziario, per favorire la conoscenza e l’adozione degli strumenti del processo civile telematico, contribuire allo scambio di informazioni e best practice tra gli addetti ai lavori e agevolare la costruzione di una cultura italiana sulla giustizia telematica. Molti gli episodi di evidenti conflitti di interessi, come quella di alcune banche di finanziare i corsi dei magistrati, o la poco trasparente gestione delle esecuzioni immobiliari tra la società Asteimmobili di natura privatistica, chiamata a svolgere nei tribunali compiti di natura pubblicistica, nonché il palese conflitto di interessi sotteso alla decisione di assegnare all’Abi la gestione integrata di tutte le informazioni relative ai procedimenti giudiziari nei fallimenti ed esecuzioni immobiliari e l’invio informatico degli atti processuali. Lo scorso 4 luglio 2014 ed a seguito chiusura indagini per il reato di usura a carico di alcune banche e di ex dirigenti Bankitalia da parte del Pm di Trani Michele Ruggiero, la Scuola superiore della magistratura ha organizzato, d’intesa con la Banca d’Italia e l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) i cui ex vice-presidenti sono stati indagati (Emilio Zanetti scandalo Ubi-Banca) o arrestati (Giovanni Berneschi, scandalo Banca Carige Genova), un corso interdisciplinare sul tema dell’usura, riservando 30 posti per magistrati addetti al settore civile e 40 posti per magistrati addetti al settore penale (funzioni giudicanti e requirenti). Come si può leggere dalla lettera, Prot.n. 1980/2014USSM; inviata alla Direzione Generale dei Magistrati, Ispettorato Generale, Al Presidente della Corte di Cassazione Dr. Giorgio Santacroce, Al Procuratore Generale della Corte di Cassazione Dr. Gianfranco Ciani, Ai Presidenti delle Corti d’Appello, Ai Procuratori Generali delle Corti d’Appello, con l’oggetto: incontro di studi ”L’Usura: profili civilistici e penalistici“ 14-15 luglio 2014 Roma; Piazza del Gesù n. 49 – Sala della Clemenza, Palazzo Altieri. Roma, 4 luglio 2014. Firmato: la Segreteria della Scuola Superiore della Magistratura. Essendo gravissimo questo ultimo tentativo di indottrinamento degli operatori della Giustizia ad interessi di parte, che si consumerà il 14 e 15 luglio a Roma, nella sede Abi di Palazzo Altieri, dove è stato convocato un incontro di studio organizzato in fretta e furia dalla SSM (Scuola Superiore della Magistratura) d’intesa con la Banca d’Italia e l’ABI, proprio sul tema dell’usura bancaria, dove sono stati ammessi 70 magistrati, che potrebbe avere la finalità di condizionare indagini penali in corso, che vedono tra gli indagati primari esponenti delle banche associate all’Abi, che annovera molti banchieri incriminati e perfino arrestati, con sede in Piazza del Gesù, 49, a Roma proprio a Palazzo Altieri, e la Sala della Clemenza è tra le più prestigiose sale dove vengono svolti incontri, dibattiti, convegni, conferenze. Adusbef e Federconsumatori hanno denunciato un aspetto ancor più grave, che vede l’ex ministro della Giustizia del Governo Monti, prof.ssa Paola Severino nella duplice funzione di docente e partecipante attiva al corso sull’usura somministrato ai magistrati nella tavola rotonda di apertura per disquisire, assieme ad altri illustri relatori, sui profili civili e penali della legislazione antiusura, ed allo stesso tempo nella veste di avvocato difensore e consulente legale di celebri indagati (probabilmente anche nel processo penale istruito dal Pm di Trani Michele Ruggiero), accusati di aver violato la legge 108/96 ed il reato sull’usura. Poiché tale palese commistione tra organi giudiziari come il SSM, che avrebbe finalità di offrire formazione oggettiva ai magistrati, con i rappresentanti di dirigenti indagati o arrestati come Abi e Banca d’Italia, fa sorgere il dubbio di una giustizia addomesticata a misura di potenti, al contrario di quanto sancito dalla Costituzione Repubblicana ancora vigente, configura insanabile vulnus per la necessaria terzietà materiale e sostanziale, con lo studio dell’usura “a casa” del principale indiziato di attività usuraria, analogamente a corsi di formazione sui reati di mafia organizzata a Corleone, a casa di Totò Rjina o Bernardo Provenzano, Adusbef e Federconsumatori hanno inviato un corposo esposto alle maggiori cariche istituzionali italiane ed alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, denunciando il grave pericolo per le garanzie Costituzionali ed i diritti delle persone, specie se correntisti e risparmiatori, da una giustizia molto spesso ingiusta per i comuni cittadini.

Corso anti-usura per pm. In cattedra le banche, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano, 12/07/2014 pagina 10. Il problema è molto complesso. Da quando il codice penale è stato modificato e il reato di usura non è più tipico dello strozzino ma anche dei banchieri qualora applichino tassi esagerati, le nostre scienze giuridiche si arrovellano: quando si può considerare superato il tasso-soglia oltre il quale scatta il reato? Pare che dopo quasi vent'anni non siano " ancora sopiti i problemi interpretativi", e così il presidente della Scuola Superiore della Magistratura, Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, ex candidato a sindaco di Milano ed ex saggio di Giorgio Napolitano, ha avuto un'idea notevole. Ha organizzato un corso di formazione per magistrati in collaborazione con l'Abi (associazione bancaria italiana) e con la Banca d'Italia. Gente che di usura se ne intende, ovviamente, ma con il difetto di essere potenzialmente nel mirino dei magistrati che sono chiamati a formare. I Presidenti di Adusbef e Federconsumatori, Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, hanno preso carta e penna per scrivere una lettera di protesta alle Nazioni Unite, alla Corte Europea per i diritti dell'uomo, al presidente Napolitano, al premier Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Chiedono che Onida sia severamente censurato, e lo fanno con parole forti: " Chi ha ordito questa turpe trovata merita di essere sollevato dagli incarichi. Tanto al fine di evitare che altri magistrati magari siano costretti in futuro a partecipare a corsi antimafia a Corleone, nelle ville di Totò Riina o Bernardo Provenzano". Il corso si tiene il 14 e il 15 luglio 2014 nella sede dell'Abi, gentilmente messa a disposizione dal presidente dell' Abi, Antonio Patuelli. Colpisce che settanta magistrati provenienti da tutta Italia vengano mandati a scuola di usura presso un' associazione che si è trovata in pochi giorni con un vicepresidente arrestato, Giovanni Berneschi ex presidente di Carige, e uno indagato, Emilio Zanetti, ex presidente di Ubi-Banca. Lo stesso Patuelli deve la nomina alle dimissioni del predecessore Giuseppe Mussari, travolto dallo scandalo Montepaschi e oggi rinviato a giudizio anche per usura. Competenza per competenza, non si capisce perché non abbiano invitato anche Mussari a spiegare ai magistrati in cerca di formazione professionale i segreti dell'usura. C'è però, tra i docenti, Paola Severino, ex ministro della Giustizia e penalista di primo piano. Prima di diventare Guardasigilli a novembre 2011, era impegnata nel processo sull'aeroporto di Ampugnano che coinvolgeva Mussari e altri esponenti del Monte dei Paschi. E proprio a causa della nomina dovette abbandonare la difesa di una banca accusata di usura. Non è dato sapere se le due giornate di aggiornamento professionale prevedano anche esercitazioni pratiche. Ci sarebbe un ottimo caso di scuola a disposizione, l'inchiesta per usura del pm di Trani Michele Ruggiero, che vede indagati, tutti insieme, il presidente della Rai Anna Maria Tarantola come ex capo della Vigilanza della Banca d'Italia, l'ex ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni in quanto ex direttore generale della Banca d'Italia, e poi i capi o ex capi di alcune della maggiori banche italiane: Luigi Abete e Fabio Gallia della Bnl, Alessandro Profumo di Unicredit e il suo successore Federico Ghizzoni, Mussari per il Montepaschi insieme all'ex vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone, di cui Severino è da sempre difensore di fiducia. Peccato solo che il pm Ruggiero non sia stato invitato al corso, poteva essere l'occasione per i vertici di Abi e Bankitalia, e per la stessa Severino, di spiegargli per le vie brevi l'eventuale esagerazione delle sue ipotesi investigative. Per Adusbef e Federconsumatori, che hanno sollevato il problema, in gioco c'è la separazione dei poteri, "il doveroso distacco tra Abi e Ordine Giudiziario il cui collante risalente nel tempo stride con un paese ad ordinamento costituzionale e democratico". Una questione antica. Nel 2010 Lannutti, da senatore, interrogò il ministro dell' Economia Giulio Tremonti e il Guardasigilli Angelino Alfano, per sapere come mai l'Abi, con il patrocinio del ministero della Giustizia, avesse "sviluppato un progetto di formazione e-learning destinato a magistrati, cancellieri, avvocati e a tutti gli operatori del settore giudiziario per favorire la conoscenza e l'adozione degli strumenti del processo civile telematico". E riproponendo il tema della società Asteimmobili, costituita dall'Abi per gestire l'esecuzione dei fallimenti. Un' altra invasione di campo.

GRINZANE E LA MAFIA BIANCA.

Soria: “Pagavo politici, vip e giornalisti”. L’ex patron del Premio Grinzane Cavour accusa: “Viaggiavano a mie spese e chiedevano soldi”. E fa molti nomi: dalla Bresso a Leo, da Vernetti agli ex assessori Alfieri e Oliva. "Non sono certo l'unico responsabile, tanti ne hanno beneficiato", scrive "Lo Spiffero". Tanti ne hanno approfittato, qualcuno solo per farsi bello e guadagnare in prestigio, ma molti hanno beneficiato direttamente: viaggiando a scrocco, partecipando a iniziative in mezzo mondo, alcuni anche ottenendo compensi e fondi in nero. Vuota il sacco Giuliano Soria ed è un fiume in piena che rischia di travolgere il mondo politico e parte dell’establishment, piemontese e non solo. Il patron del Premio Grinzane Cavour, condannato in primo grado a 14 anni e mezzo, parla per la prima volta e al processo d’appello scaglia accuse durissime. Tra i nomi citati da Soria c’è l’ex presidente della Regione Mercedes Bresso, il suo assessore alla Cultura Gianni Oliva (“Ha viaggiato con la moglie a spese del Grinzane. È un appassionato di tartufi”, spesso ospite nel suo appartamento di Parigi o agli eventi di Addis Abeba), il predecessore del centrodestra Giampiero Leo ("Abbiamo aiutato economicamente in nero"), l’ex responsabile della Cultura del Comune di Torino Fiorenzo Alfieri, ma anche l’ex parlamentare Gianni Vernetti (“più volte”) e l'onorevole Gianluca Susta. Per ben due volte il "vorace" Alfieri ha battuto cassa per sostenere Sergio Chiamparino, cosa che lui avrebbe prontamente fatto. Persone che lo blandivano, lo riverivano, si vantavano della sua frequentazione, e poi al primo inciampo l'hanno scaricato. Nella sua lunga deposizione Soria ha anche rivelato l’escamotage attraverso il quale riusciva a “liberare” i soldi in nero da utilizzare per pagare politici e personalità: si tratta di una serie di fatture emesse a tal Carmelo Pezzino: false fatturazioni per lavori inesistenti. Ma è il milieu che ruotava attorno al Premio e alle sue manifestazioni a rivelarsi interessante. Alle cene e agli eventi la “zarina”, ora eurodeputata Pd, era sempre presente, spesso insieme al marito, destinatario di regali costosi. C’era il dirigente regionale Roberto Moisio, una sorta di cardinale Richelieu: “Era lui il vero attore”, ha detto. Con queste dichiarazioni Soria ha cercato di attenuare le responsabilità di suo fratello Angelo, ex dirigente della Regione, autore di alcune delibere con cui stanziava finanziamenti diretti alla galassia di associazioni che ruotavano intorno al premio: “Le decisioni venivano prese sopra la sua testa”. La “scellerata convenzione” tra la Regione Piemonte e il Grinzane Cavour era stata firmata sotto il regno della giunta di Enzo Ghigo (Forza Italia) e Leo (ora Ncd). Ha parlato poi del dirigente del Ministero dei beni culturali Gaetano Blandini e dell’ex direttore regionale dei Beni culturali in Piemonte Mario Turetta, ora diventato direttore della Reggia di Venaria: “Lo stesso Turetta è venuto più volte con i suoi amici”, ha affermato parlando dei numerosi convivi organizzati. Giornalisti di quasi tutte le testate erano ospiti a piè di lista delle decine di iniziative organizzate, così attori e testimonial d’eccezione in grado di dare lustro: da Michele Placido a Giancarlo Giannini, da Stefania Sandrelli a Isabella Ferrari. E ancora Alain Elkann (“che pretese per sé e la moglie di allora un viaggio a New York che ci costò 13mila euro”), Charlotte Rampling, Eleonora Giorgi, Corrado Augias (“addirittura assillante sui pagamenti in nero”).Tutti alla corte del Caudillo del Monferrato che ammette di “aver commesso molti errori”, di aver maltrattato i collaboratori (il castello ha iniziato a franare proprio dopo la denuncia per molestie sessuali del suo domestico), ma non ci sta a passare per unico responsabile di una “macchina di cui tanti hanno goduto benefici”. “Non regge il vestito che io sono l’unico responsabile di questa macchina. Non avrei potuto portare questo vestito”. Soria ha sottolineato più volte di considerare il Premio come un figlio: “Sento il problema di aver perso un figlio. Di aver dedicato 28 anni della mia vita a qualche cosa che è stato distrutto. Mi chiedo se questa non sia una colpa collettiva”.

Ampio eco poi ha avuto sulla stampa nazionale, di cui si da conto anche con le versioni di tutti gli interessati.

Processo Soria: “Fondi neri per politici, attori e giornalisti”, scrive Andrea Rossi su  “La Stampa”. Il patron del Grinzane Cavour: “Sono pentito per Nitish e per i collaboratori su cui scaricavo il mio stress, ma c’è chi viaggiava a nome del premio e chiedeva soldi”. Il sostituto procuratore generale ha chiesto la conferma delle condanne in primo grado. «Sono pentito, ho commesso molti errori. E mi dispiace, soprattutto per i miei collaboratori su cui scaricavo il mio stress e per Nitish (il domestico che l’ha denunciato per molestie, ndr) cui ho provocato molte sofferenze». In aula al processo d’appello che si è aperto ieri Giuliano Soria parla per la prima volta. Il patron del Premio Grinzane Cavour, condannato in primo grado a 14 anni e mezzo, scaglia accuse durissime. E rivela che il fiume di fondi neri creato dal Grinzane serviva per compiacere politici, attori e scrittori. I primi - e Soria ne cita molti, da Bresso a Leo, da Vernetti (Pd) agli ex assessori Alfieri e Oliva - viaggiavano a spese del premio, si facevano ospitare e chiedevano soldi. Attori e scrittori invece - da Giancarlo Giannini a Stefania Sandrelli, da Isabella Ferrari a Michele Placido - pretendevano di essere pagati in nero per partecipare agli eventi del Grinzane. Soria difende il fratello Angelo, ex funzionario della Regione, anche lui condannato: «La politica ci usava per il suo prestigio. Non regge il vestito secondo cui avrei fatto tutto da solo. Tutti sapevano che funzionava così. Invece hanno scatenato contro di me una campagna di linciaggio morale». «Ho sostenuto l’allora sindaco Sergio Chiamparino in due occasioni», ha affermato, «e ho aiutato l’assessore Alfieri voracemente». Poi ha citato gli assessori Oliva e Giampiero Leo («In nero»), il parlamentare Gianni Vernetti («Più volte»). Fra i giornalisti che beneficiavano delle iniziative del premio «Corrado Augias era il più vorace, era addirittura assillante sui pagamenti in nero». Alain Elkann «pretese per sé e la moglie di allora un viaggio a New York che ci costò 13 mila euro». Poi Soria ha elencato «la sfilza di attori pagati in nero» in occasione del festival di Stresa. «È costume nel mondo dello spettacolo». Il primo è Giancarlo Giannini, «che volle essere pagato prima ancora di entrare». «Partivo per Stresa - ha raccontato - con 100 mila euro per gli attori». Il sostituto procuratore generale Corsi ha chiesto la conferma delle condanne in primo grado con l’eccezione dei reati caduti in prescrizione. E dunque: 11 anni, 9 mesi e 15 giorni per Soria, 6 anni e 8 mesi per il fratello Angelo, e 2 anni e 10 mesi per lo chef Bruno Libralon.

Soria a processo: "Con i fondi neri del Grinzane ho pagato politici, giornalisti e attori". L'ex patron: "I vip ci usavano per il loro prestigio". Poi fa i nomi: da Giancarlo Giannini a Michele Placido, da Alain Elkann a diversi assessori comunali e regionali. Attacco a Mercedes Bresso: "Il premio dipendeva da lei". Il presidente della Regione, Chiamparino: "Posso capire che getti fango nel ventilatore per difendersi". Il pm chiede 11 anni 9 mesi: "Le scuse non bastano", scrivono Federica Cravero e Sara Strippoli su “la Repubblica”. Soldi in nero a politici piemontesi, giornalisti e attori di primo piano: di questo ha parlato Giuliano Soria, ex patron del premio letterario Grinzane Cavour, interrogato oggi a Torino al processo d'appello in cui risponde di peculato. I vip, ha detto, "ci usavano per il loro prestigio". Soldi in nero a politici, giornalisti e personaggi dello spettacolo. Giuliano Soria, ex patron del Premio Grinzane, e' comparso questa mattina davanti alla Corte d'appello di Torino dove e' accusato di peculato e molestie ad un collaboratore, per le quali in primo grado e' stato condannato a 14 anni e mezzo di reclusione, per una deposizione spontanea nella quale ha sottolineato che il premio culturale da lui guidato era uno strumento "per compiacere il mondo politico e dello spettacolo che ci usavano per il loro prestigio". "Non regge il vestito che io sono l'unico responsabile di questa macchina. Non avrei potuto portare questo vestito". Soria ha sottolineato più volte di considerare il Premio come un figlio: "Sento il problema di aver perso un figlio. Di aver dedicato 28 anni della mia vita a qualche cosa che e' stato distrutto. Mi chiedo se questa non sia una colpa collettiva". Nella sua deposizione, Soria ha fatto un lungo elenco di nomi di persone che hanno utilizzato la macchina del Premio per viaggiare gratuitamente all'estero o ricevere denaro in nero oltre a quello consegnato con i premi. "Abbiamo dato soldi in nero a politici, attori e scrittori", è un fiume in piena Giuliano Soria, che in aula al processo d'appello ha reso spontanee dichiarazioni per difendersi dalle accuse - dalle molestie sessuali al peculato - per cui in primo grado è stato condannato a 14 anni e mezzo. "Ero stressato e sono dispiaciuto di ave provocato a Nitish tanto dolore", ha detto a proposito del maggiordomo mauriziano maltrattato dal patron del premio Grinzane Cavour. Ma è quando parla degli ospiti che la testimonianza fa tremare il jet set quando ha tirato in ballo diversi nomi noti che avevano girato il mondo a spese del Premio: "Mario Turetta (ora direttore di fresca nomina della Reggia di Venaria, n.d.r.) con i suoi amici, Alain Elkann, l'onorevole Susta, Gianni Oliva...". E poi: "Ho sostenuto in nero l'assessore Giampiero Leo, l'assessore Alfieri era vorace, chiedeva anche aiuti per il sindaco Chiamparino che ho sostenuto in due occasioni". In particolare il mondo dello spettacolo pretendeva di essere pagato in nero: "Giancarlo Giannini, Michele Placido, Charlotte Rampling, Eleonora Giorgi, Corrado Augias e i fondi neri li trovavamo attraverso le fatture di Carmelo Pezzino". "Il Grinzane Cavour dipendeva dai politici - ha spiegato in aula - e in particolare da Mercedes Bresso, presidente della Regione Piemonte, che lo usava per le sue attività di relazione. Molte manifestazioni sono state organizzate soltanto per compiacere lei e il marito". "Lui non mi ha mai pagato nulla e le sue sono affermazioni ridicole e pazzesche" è stata la replica di Bresso, oggi europarlamentare. Soria, in particolare, ha citato due iniziative del premio, una all'Hermitage di San Pietroburgo - in occasione del compleanno di Bresso - e l'altra a Vinadio.  "Era - risponde l'ex presidente - una normale cena ufficiale del Premio Grinzane, certamente non organizzata in mio onore. Casualmente era il giorno del mio compleanno e alla fine c'è stata una torta. Io non conoscevo nessuno degli invitati, salvo chi aveva offerto la cena al Grinzane, cioè Ceretto, che era uno degli sponsor del Premio". "Mio marito - aggiunge Bresso - aveva fatto gratuitamente il giurato per il Premio e in alcune occasioni era stato invitato, sempre gratis, come relatore a dei convegni. L'unica volta che ha accettato qualcosa è stato proprio in una di queste occasioni quando, alla fine del convegno, gli hanno offerto un libro. E questo è tutto". Soria, durante il suo intervento, ha cercato di scagionare il fratello Angelo (all'epoca dirigente della Regione) dall'accusa di avergli fornito irregolarmente dei fondi pubblici. "Quelle decisioni - ha sostenuto - passavano sopra la sua testa. Le prendevano Mercedes Bresso e Roberto Moisio, direttore della comunicazione della Regione. Se Bresso era soprannominata la zarina, Moisio era 'Richelieu'". "Quando andavo in qualche posto in veste ufficiale - conclude l'ex presidente - ero sempre ben attenta a seguire le regole. Era la Regione a sostenere le spese. E sono tutte cose ufficiali e rendicontabili". Anche Moisio, ex responsabile della comunicazione della Regione, ha affidato all'Ansa, una smentita: "Valuteremo le azioni più opportune non appena avrò le trascrizioni dell'intervento del professor Soria. Le sue affermazioni sul mio conto non corrispondono al vero. Non ho mai preso parte a pranzi o cene". Alle dichiarazioni di Soria in aula replica anche, dopo pochi minuti, il presidente della Regione Sergio Chimparino, tirato in ballo in relazione al finanziamento della sua campagna elettorale per la poltrona di sindaco di Torino: "Non  posso escludere che Soria abbia partecipato a qualche  cena di finanziamento organizzata da Alfieri o da qualcun altro. Progressivamente da sindaco ho ridotto i finanziamenti alle tante attività del Grinzane. Mi ricordo solo una volta quando sono andato in Langa  dove sono rimasto mezz'ora perché mi ero perso. Ero con mia moglie. E ricordo la partecipazione a Parigi per  l' anno  del Libro dell'Unesco. Dopo la cerimonia, mentre  Soria girava in auto blu io ho preso un taxi con Cigliuti e sono andato a mangiare una bistecca in  brasserie. Posso comprendere che  per difendersi uno getti fango nel ventilatore". Il sostituto procuratore generale Vittorio Corsi ha chiesto in appello una condanna di 11 anni, 9 mesi e 15 giorni per effetto di alcune prescrizioni sopravvenute nei confronti di Soria, accusato di peculato e molestie sessuali a un collaboratore. In primo grado Soria era stato condannato a 14 anni e mezzo. L'accusa ha poi chiesto una condanna a 6 anni e 8 mesi per il fratello Angelo, ex direttore della Regione Piemonte (rispetto ai sette anni del primo grado) e la conferma della condanna a due anni e 10 mesi per il terzo imputato,  lo chef Bruno Libralon. Il pg ha definito sostanzialmente insufficienti le scuse presentate oggi con la deposizione spontanea di Giuliano Soria che ha detto "con i soci era generosissimo, ma con i sottoposti molto meno", costretti a multe e a fare la spia per il capo del Grinzane. "Il suo non era un cattivo carattere ma maleducazione e non mi sento di chiedere le attenuanti generiche" ha detto Corsi ricordando che Soria non ha messo a disposizione dei rimborsi delle parti civili la gran parte del patrimonio immobiliare che tuttora detiene tra Parigi, Torino e Ospedaletti.

Grinzane Cavour, l’ex patron Soria accusa: «Soldi in nero ai politici». Tirati in ballo anche giornalisti e attori, citato Chiamparino. Ma il governatore: «Mai avuto alcun rapporto finanziario con Soria. Lui in auto blu, io in taxi», scrive Elisa Sola su “Il Corriere della Sera”. «Soldi in nero a politici piemontesi, giornalisti e attori di primo piano». Giuliano Soria, l’ex patron del Premio Grinzane Cavour, finito in manette per peculato e violenza sessuale e condannato a 14 anni e sei mesi in primo grado, ha deciso di rendere una lunga dichiarazione spontanea al processo d’appello in cui risponde di malversazione dei contributi pubblici e dei maltrattamenti a un giovane domestico. Soria ha fatto - per la prima volta da quando, nel 2009, è scoppiato lo scandalo - nomi e cognomi, lanciando accuse pesanti, di cui dovrà essere accertata la veridicità. In appello, il procuratore generale Vittorio Corsi ha chiesto per l’ex patron del Premio una pena di 11 anni e 9 mesi di reclusione (rispetto al processo di primo grado, alcuni capi d’accusa sono prescritti). «Il Grinzane dipendeva dai politici» ha dichiarato l’ex presidente dell’associazione culturale. «La Bresso, per esempio – ha proseguito Soria riferendosi alla ex presidente della Regione Piemonte - lo usava per le sue attività». «Il vero attore dei contributi regionali era Roberto Moisio (l’ex capo di gabinetto della giunta Bresso, ndr) e gli accordi venivano presi tra me, Bresso e Moisio. Se Bresso era chiamata “la zarina”, Moisio era il suo Richelieu». Soria ha sostenuto davanti alla Corte che il fatto che il Grinzane Cavour venisse finanziato con tranche da migliaia di euro dalla Regione, non dipendesse dalla generosità di suo fratello, Angelo Soria, anche lui imputato, ex funzionario regionale a capo della comunicazione istituzionale. Ma direttamente dalla ex governatrice, che, durante gli anni del proprio mandato regionale, era legata al presidente del Grinzane anche per avere scritto un libro che era stato presentato al pubblico proprio durante un evento culturale creato e sponsorizzato da Soria stesso. «Ho aiutato anche l’assessore Giampiero Leo» ha detto poi Soria, parlando del politico di centrodestra. «Tutti in nero» ha proseguito l’ex patron. E ancora. «Alfieri (ex assessore alla Cultura del Comune di Torino, ndr) per conto di Chiamparino (quando era sindaco di Torino) e direttamente due volte Chiamparino». Soria ha dichiarato di aver «sostenuto» anche Gianni Oliva, del Pd, ex assessore regionale alla Cultura. «Faceva viaggi con la moglie... a lui piaceva tanto il tartufo» ha specificato l’imputato. «Poi c’era Turetta», ha detto riferendosi all’esponente della Sovrintendenza dei Beni culturali. «E c’erano i giornalisti – ha concluso - potrei fare tanti nomi ma ne faccio uno solo: Corrado Augias, era assillante sui pagamenti in nero: era vorace. Per la Rai c’era Perera». «E il patetico Alain Elkann…» ha detto ancora Soria. «Tredicimila euro per lui, per la moglie e i figli, tutti a New York…». La reazione di Chiamparino non tarda ad arrivare. «Può darsi che Soria abbia partecipato a qualche cena di finanziamento organizzata dall’assessore Alfieri o da qualcun’altro, questo non posso escluderlo, ma io non ho mai avuto rapporti finanziari con lui» ha detto il presidente della Regione Piemonte, commentando le dichiarazioni rese in aula dall’ex patron del Premio Grinzane Cavour. «Da sindaco di Torino - ricorda Chiamparino - sono stato costretto sempre a ridurre i contributi alle tante attività del Grinzane. Ricordo ancora quando andammo a Parigi per l’Anno del Libro dell’Unesco. Lui girava in auto blu, mentre noi siamo andati a mangiare una bistecca in taxi nel quartiere latino. È una tattica comprensibile che Soria metta fango nel ventilatore per cercare di difendersi disperatamente». Mentre la capogruppo della Lega Nord in Consiglio regionale, Gianna Gancia, attacca il governatore: «Sentiamo quello che sta dicendo Soria, sono sicura che lei potrebbe arrivare, con la dignità che l’ha sempre caratterizzata, alle dimissioni. Cota è stato buttato giù per molto meno». Al processo, le accuse di Soria sono andate oltre. «Anche gli attori venivano pagati in nero – ha detto l’ex patron del Premio–. Mi dicevano “O ci paghi in nero o costiamo tre volte tanto”». Tra i nomi citati dall’ex patron del Grinzane, anche molti vip: Michele Placido, Giancarlo Giannini, Eleonora Giorgi, Charlotte Rampling. Il sistema, secondo Soria, era collaudato. Il Grinzane Cavour organizzava eventi culturali prestigiosi, non solo in Piemonte, ma in località italiane e anche all’estero. Tutti ricordano i vari premi Grinzane a Mosca, a San Pietroburgo, a New York. Soria contattava politici e personaggi famosi, offrendo loro la villeggiatura in hotel o resort di lusso, pranzi, cene e trasporti per loro e le loro famiglie. Inoltre, per alcuni, ha detto, pagava «le prestazioni», ovvero la loro presenza all’evento letterario, e forse anche altro. Se fosse vero quanto ha dichiarato l’ex patron in aula, se cioè queste persone avessero intascato dei soldi in nero, la situazione potrebbe diventare delicata perché il denaro che Soria usava per finanziare gli eventi dell’associazione culturale proveniva in gran parte da enti pubblici, in primis dalla Regione Piemonte. E il reato di peculato, l’avere usato soldi pubblici per scopi privati, è quello più grave contestato a Soria al processo. «Trattavo male le persone che mi aiutavano a fare grande il Grinzane – ha ammesso Soria alla fine della dichiarazione – lo facevo per compiacere i politici. Ma non sono io l’unico responsabile di questa macchina, non potevo indossare solo io questo vestito. Io ho sbagliato e chiedo scusa ma non sono stato l’unico». «Non ho un carattere facile – si è giustificato - e sono irruento e aggressivo, ma non era facile reggere una macchina complessa. Il Grinzane era presente in 22 Paesi. Anche per questo sono stato insensibile e aggressivo verso collaboratori, ma non ce l’avevo con loro. Mi spiace in particolare per la sofferenza creata in Nitish (il maggiordomo tuttofare che avrebbe subito la violenza sessuale, ndr). Non ho capito quanto soffrisse».

Grinzane, accuse dell’ex patron Soria Augias: sono sconvolto, una vendetta. Michele Placido: «Ha detto solo fesserie, sporgerò querela», scrive Luca Mastrantonio su “Il Corriere della Sera”. «Guardi, è una tale enormità, Madonna... sfiora l’indecenza!». Finisce così la conversazione telefonica con Corrado Augias, iniziata nella tarda mattinata di martedì, quando il giornalista e scrittore aveva appreso, filtrata nei toni, l’accusa di Giuliano Soria. L’ex patron del premio letterario Grinzane Cavour, condannato a 14 anni e sei mesi per peculato e violenza sessuale, all’apertura del processo di appello, martedì, ha indicato Augias nella lista di presunti destinatari di pagamenti in nero per il premio. «La cosa mi ha sorpreso - esordisce Augias -, stiamo parlando di alcune migliaia di euro ricevute per rimborso spese o come premio letterario, di cui ho dato conto all’Agenzia delle entrate. E poi sono passati, quanto? Dieci anni? Per dire: Soria mi chiese di presentare Orhan Pamuk, premiato nel 2002; autore che per altro non conoscevo. Ecco, il valore del Grinzane era la capacità d’intercettare anzitempo grandi autori mondiali». Come Pamuk, che riceverà il Nobel nel 2006, altri futuri Nobel sono stati premiati con il Grinzane internazionale: Gunther Grass, J. M. Coetzee, Doris Lessing, V. S. Naipaul e Mario Vargas Llosa. In trasferta a New York, il Grinzane premiò anche Philip Roth, del quale, al processo, martedì, Soria ha detto: «Per farlo venire non bastavano 30 mila dollari». Le cronache dell’epoca parlavano di un assegno da 25 mila euro. Ma più delle presunte cifre, colpiscono i giudizi di Soria. L’atteggiamento di Augias, infatti, cambia dopo aver appreso che in aula è stato descritto da Soria come «il più vorace, assillante sui pagamenti in nero. Sfiorava l’indecenza». A questo punto Augias sbotta: «Guardi, non è assolutamente vero, mi sgomento, cado dalle nuvole. Si tratta di un insulto personale. Non so, sembra una vendetta personale. Nella mia lunga vita nessuno mi aveva detto qualcosa del genere, siamo alla calunnia». Quale può essere il motivo di un tale attacco? «Non riesco a seguire nessun ragionamento, sono sconvolto, devo assorbire la cosa».  In serata, Augias scrive una lettera in cui si riserva di «esaminare gli atti processuali per valutare un’azione di risarcimento danni». C’è spazio anche per un ricordo personale, ora amaro: «Anni fa, nella casa di Quai St. Michel a Parigi, alla presenza tra gli altri di sua madre, Soria ebbe parole di così grande apprezzamento e simpatia da spingersi a offrire a mia moglie Daniela Pasti di lavorare per lui». Chi non ha ricordi, né amarezza, è Giancarlo Giannini, anche lui indicato da Soria: «Chi? Sorìa, Sòria, Sorél non so chi sia. Un premio? Mi coprono di premi! Alla carriera, sperando che io muoia. Comunque se insiste - dice accelerando la voce - lo querelo, così mi prendo i suoi soldi... Neri!». L’ha presa molto sul serio Michele Placido: «Sporgerò querela. A Sorì, che vuol dire che nel mondo dello spettacolo si paga tutto in nero? Che vuol dire? Che il Piccolo di Milano che ospiterà la mia compagnia mi pagherà in nero? Che fesseria!». Certo, aggiunge, ci sono delle ambiguità: «Per Romanzo criminale ho ricevuto il Premio di Qualità del ministero della cultura: 20 mila euro. Esentasse, uno dice: lo Stato che fa, si tassa sui premi che dà? Sì! La Guardia di Finanza mi ha fatto un controllo e una multa da diecimila euro. Soria forse ha giocato su queste ambiguità per intascare meglio, ma a me non mi frega».

Soria: "Augias vorace e assillante sui pagamenti in nero". Ma lo scrittore si difende..., scrive “Libero Quotidiano”. Corrado Augias si difende dalle accuse mosse da Giuliano Soria: "Capisco l'amarezza di Giuliano Soria per la sua vita sconvolta e per quella del premio Grinzane da lui fondato [...] Non mi spiego perché Soria mi includa nel novero di coloro che lo 'sfruttavano' definendomi per di più 'vorace', 'indecente'. Ricordo che anni fa [...] ebbe parole di così grande apprezzamento e simpatia da spingersi a offrire a mia moglie Daniela Pasti di lavorare per lui. È vero che le tre o quattro prestazioni - richiestemi da Soria - sono state pagate come rimborso spese a forfait e, una volta, sotto forma di premio letterario. Di tutte le somme guadagnate, con lui e con qualsiasi altro datore di lavoro, ho sempre dato conto al fisco come dimostra la certificazione dell’Agenzia delle entrate".

Di seguito l'articolo di Francesco Borgonovo pubblicato su Libero di mercoledì 18 febbraio 2015 sulla vicenda di Augias. Dopo le dichiarazioni di Giuliano Soria, possiamo dire che Corrado Augias avrà un motivo in più per essere ricordato nella storia della cultura italiana. Perché la frase con cui Soria lo tira in ballo ha molto di romanzesco: «Corrado Augias era il più vorace, era addirittura assillante sui pagamenti in nero, sfiorando l’indecenza». Gli altri motivi per cui Augias va rammentato sono noti: non solo le sue trasmissioni, ma pure la sua attività di autore di bestseller. In particolare, va citato il volume - presto finito ai piani alti delle classifiche di vendita - firmato assieme al teologo Vito Mancuso e intitolato Disputa su Dio e dintorni. Un attento lettore si rese conto, sfogliando il volume, che qualcosa non tornava. Aveva, come dire, una sensazione di già sentito. Non si sbagliava. La pagina 246 del libro di Augias (a lui attribuibile) era praticamente identica alla pagina 14 del ponderoso volume La creazione (edito da Adelphi) del noto biologo di Harvard Edward Osborne Wilson. In pratica, Augias aveva fatto copia e incolla. Interpellato da Libero sul clamoroso plagio, si difese così: «Mi sono avvalso oltre che di convincimenti e riflessioni personali, di numerose testimonianze, citando la fonte ogni volta che è stato possibile». Cioè: Augias ha scritto un librone assieme a un teologo di fama e per sostenere le sue argomentazioni ha preso a casaccio da internet. Niente male, quanto a etica professionale. Tra l’altro, c’è da notare che quel libro era pubblicato da Mondadori. Cioè la casa editrice di Silvio Berlusconi. E Augias, come noto, non è un grande fan del leader di Forza Italia. La sua lunga attività giornalistica lo dimostra: basta leggere la rubrica delle lettere che tiene su Repubblica, dove si dà arie da gran moralizzatore. Resta celebre una sua intemerata contro Marina Berlusconi, a cui Augias rimproverava di aver preso le difese del padre sul caso Ruby. L’integerrimo Corrado sostenne che la «sdegnata Marina Berlusconi» avrebbe dovuto rendersi conto del «livello morale di suo padre». E, se proprio non poteva fare a meno di difenderlo in pubblico, avrebbe dovuto fare «qualcosa, in privato per salvarlo da una così penosa vecchiaia». Probabilmente, la famiglia Berlusconi non risultava così penosa ad Augias quando gli versava gli anticipi dei libri. Eppure sono numerose le interviste in cui il caro Corrado si è esibito in sermoni contro Silvio. Per esempio quella concessa a Daria Bignardi in cui disse che «in Italia non c’è spazio per un cavaliere condannato per frode fiscale. La revoca del titolo è sacrosanta». Però sorge un dubbio. Anche Augias si fregia del titolo di cavaliere. Dunque, se fossero confermate le accuse di Soria secondo cui avrebbe preteso «sfiorando l’indecenza» dei pagamenti in nero, che farà? Mollerà il prestigioso riconoscimento? Dopo tutto lo ha detto lui: qui non c’è posto per cavalieri che fanno i furbi col Fisco.

"Ho mantenuto politici, artisti e vip di sinistra". L'ex patron del premio Grinzane: "Tutti chiedevano presentazioni, favori, viaggi. Era un sistema", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Il tono è dimesso, ma la precisione è quella di un cecchino. Giuliano Soria, patron indiscusso del Grinzane Cavour, ha una memoria infallibile. E racconta le pagine di quella che lui considera «la colpa collettiva» del Grinzane. Il peccato originale rimosso in gran fretta da un'intera classe dirigente. «Era un sistema, tutti volevano viaggi, chiedevano presentazioni, un favore, una busta in nero, un pagamento sottobanco». La giornata più lunga dell'ex presidente della manifestazione letteraria più acclamata d'Italia inizia con una deposizione a Palazzo di giustizia. Qui Soria, difeso dagli avvocati Luca Gastini, Aldo Mirate, Gianluca Vista e Giorgio Romagnolo, si sofferma sulle debolezze della sua corte. Un tema ripreso in questa intervista al Giornale.

Soria, fu arrestato nel marzo 2009. Sei anni dopo arriva la vendetta?

«Nessuna vendetta. Io voglio solo chiarire come era organizzato questo parterre scintillante. Mi difendo, visto che in primo grado mi hanno affibbiato tutte le colpe del mondo».

Con una condanna a 14 anni mezzo per aver gestito allegramente 4,5 milioni di soldi pubblici.

«Ecco, io mi prendo le mie responsabilità, sono dispiaciuto, sinceramente, sul piano umano per i danni che ho provocato, per esempio al mio maggiordomo Nitish, però un attimo, non esageriamo. Non ero un marziano fuori dal mondo».

Soria, da dove cominciamo?

«Dal più moralista dei moralisti. Corrado Augias».

Augias?

«Partecipava a una miriade di nostre manifestazioni.. Il Grinzane, il Grinzane Cinema, il Grinzane junior, il Grinzane noir. E ogni volta chiedeva, anzi pretendeva di essere pagato in nero».

Questa è la sua versione. Augias negherà, magari querelerà...

«Faccia pure. Lui era una star, esigeva cachet da 7-8 mila euro a botta, il problema è che li voleva assolutamente in nero. Come ho detto davanti ai giudici era assillante fino all'indecenza. E faceva un discorsetto di questo tenore: "Se vuoi pagarmi in chiaro, allora il compenso dev'essere quadruplicato"».

Lei?

«Accettavo. Io ad Augias ci tenevo. Ma non creda che fosse l'unico».

Chi altri?

«Ho pagato in nero star come Stefania Sandrelli, Charlotte Rampling, Isabella Ferrari, Michele Placido, Giancarlo Giannini».

Quereleranno pure loro.

«Facciano pure. Io voglio spiegare il contesto del Grinzane, mi interessa la verità. Adesso, dopo sei anni di attesa, è arrivato il momento di raccontare vizi e debolezze. Per esempio i viaggi a scrocco intorno al mondo».

Chi era della compagnia?

«Il più simpatico è senz'altro Alain Elkann. Organizzo una premiazione a New York per il grandissimo Philip Roth. Lui viene, con la moglie Rosy, e io a spese del contribuente devo sovvenzionargli il viaggio aereo in first, più l'hotel superstellato. Sa cosa vuol dire?».

Ci spieghi.

«Un conto da 13mila euro. Ma non è finita».

Che altro c'è?

«Lui organizza nella sua villa vicino a Moncalieri una festa per il Grinzane con 120 invitati. Provi a indovinare chi ha pagato il conto».

Sempre lei?

«Sempre a spese del contribuente».

Ma era un continuo.

«Con i politici in prima fila. Per la governatrice Mercedes Bresso ho promosso una festa da sogno nella vecchia ambasciata prussiana a San Pietroburgo in occasione del suo compleanno. Duecento invitati, un'orchestra invisibile laggiù, nel golfo mistico, le candele, una superba torta nuziale».

La spesa?

«Una spesuccia, credo di ricordare, da 30mila euro. Consideri anche la sistemazione della Bresso e del marito, dell'assessore alla Cultura Gianni Oliva e della moglie, di vari dirigenti della regione. A proposito Gianni Oliva, storico e autore di molti libri, era un mio cliente affezionato. Mosca, Parigi, San Pietroburgo: non mancava mai. Spesso con la gentile consorte al seguito. E a ottobre...».

A ottobre?

«Mi telefonava: "Sai do una cena, avresti dei tartufi?"».

Lei?

«Regalavo, a colpi di 800, mille, 1.500 euro alla volta. Sempre tartufi bianchi di Alba».

Il Giornale ieri ha anticipato il suo racconto e ha chiamato in causa per finanziamenti illeciti Sergio Chiamparino, allora sindaco e oggi governatore. Chiamparino replica parlando di «fango nel ventilatore».

«Ci siamo visti al caffè in piazza Vittorio. Era il 2006 e Chiamparino ha ricevuto contributi in nero per la sua campagna elettorale. Non una ma due volte, per un totale di 25mila euro. Ventimila euro la prima volta, 5mila la seconda. Altro che ventilatore. C'era un ottimo rapporto, come con la Bresso che deve ancora ringraziarmi perché fui io a far pubblicare il suo romanzo da Rizzoli, curandone anche l' editing».

«Grinzane Cavour», tremano i big Pd, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Un sistema ai confini dell'illegalità. Contributi in nero. Viaggi verso mete scintillanti a spese del contribuente. Pagamenti sottobanco. Favori in un reticolo di rapporti. C'era di tutto dietro la vetrina prestigiosa del Premio «Grinzane Cavour », uno dei marchi più robusti della cultura letteraria italiana. Un logo che produceva manifestazioni e premi a raffica, sotto la regia del presidente Giuliano Soria. A quasi sei anni di distanza dalla sua rovinosa caduta, Soria torna in aula, in corte d'appello, per alzare il sipario su quel sistema. E per proporre ai magistrati piemontesi una serie di nomi eccellenti che ebbero rapporti con quel mondo: l'ex governatrice e oggi europarlamentare del Pd Mercedes Bresso, l'ex assessore regionale alla Cultura Gianni Oliva, storico e autore di numerosi libri, l'attuale presidente della regione Sergio Chiamparino, fino a pochi giorni fa fra i candidati al Quirinale. Soria verrà ascoltato questa mattina e dovrebbe fare quei nomi, illustrare alcuni episodi, parlare del contesto dorato in cui si organizzavano trasferte lussuose all'estero, pranzi stellati, happening aperti agli amici degli amici. Il Grinzane calamitava scrittori di grido e premi Nobel, il Grinzane distribuiva doni e contributi ai pezzi da novanta della nomenklatura rossa, era generoso anche con gli amici del centrodestra, e poi con giornalisti, dirigenti del ministero dei Beni culturali, attori. Difficile, alla vigilia, pesare le dichiarazioni di Soria ma certo si annuncia un piccolo terremoto. «Il Grinzane - si è sempre sfogato lui in questi anni di solitudine e polvere - era una colpa collettiva, invece mi hanno addossato tutte le responsabilità». Non era così. E dunque Soria ha deciso di sfruttare l'opportunità dell'appello per mettere i puntini sulle i. Leggerà la memoria che ha preparato e per contestualizzare le proprie responsabilità inevitabilmente punterà il dito in numerose direzioni. Si soffermerà su alcune circostanze e darà la propria versione: un festa fiabesca organizzata a San Pietroburgo, al teatro tedesco, in occasione del compleanno della Bresso, con duecento invitati e un'orchestra a disposizione. E ancora un contributo a suo dire non regolarizzato, destinato a Chiamparino, per alcune migliaia di euro. A seguire un carosello di buste, spedizioni all'estero senza risparmio, e via elencando in un andirivieni di nomi, a cominciare dall'allora assessore alla cultura Gianni Oliva. In qualche modo l'intendimento di Soria, difeso da due principi del foro, Luca Gastini e Aldo Mirate, è quello di disegnare una sorta di affresco di quella realtà che allora tutti consideravano un vanto per il Piemonte. Chiudendo gli occhi davanti alle pagine oscure. Poi tutto precipitò. Soria viene arrestato il 21 marzo 2009 e condannato in primo grado alla pena pesantissima di 14 anni e 6 mesi per la gestione disinvolta di 4,5 milioni di finanziamenti pubblici. Ora proverà a descrivere le ramificazioni e le connessioni di quel piccolo impero culturale che il mondo invidiava. Molti fatti, ammesso che abbiano un profilo penale, potrebbero già essere prescritti. E dunque restare senza conseguenze. Si vedrà in aula. Soria si è preparato con puntiglio all'appuntamento, ma questo naturalmente non vuol dire che la sua testimonianza sia considerata credibile a scatola chiusa. La corte d'appello ha però tutto l'interesse a chiarire, nei limiti del possibile, il funzionamento di quei meccanismi e dunque valuterà con pazienza e prudenza le parole dell'ex presidente. Prima della requisitoria affidata al sostituto procuratore generale Vittorio Corsi. 

Premio Grinzane, il patron Soria accusa: "Cene, regali e pagamenti in nero ai vip". Nella lista Augias, Chiamparino, Isabella Ferrari, scrive “Libero Quotidiano”. Il salotto radical-chic rischia di travolgere proprio gli intellettuali di sinistra. Lo scandalo del premio Grinzane è finito a processo con Giuliano Soria, ex patron del prestigioso riconoscimento letterario torinese, che rischia 11 anni di carcere per malversazione, peculato e violenza sessuale. Condannato in primo grado a 14 anni, oggi "il professore" potrebbe godere di uno sconto perché alcune accuse sono cadute in prescrizione. Comunque vada la vicenda processuale di Soria, resta però la "colpa collettiva" di politici, intellettuali e attori. Tutti coloro che, secondo il patron del premio Grinzane, partecipavano all'evento ricevendo in cambio regali, viaggi, cene e feste pagate e soprattutto denaro in nero, in una vicenda per molti versi parallela agli scandali di Regionopoli (anche in Piemonte) che quegli stessi intellettuali hanno spesso condannato. Tra i vip tirati in ballo, c'è la "zarina" Mercedes Bresso, ex presidente del Piemonte e ora eurodeputata Pd, che secondo le accuse di Soria avrebber ricevuto regali costosi insieme al marito. Il dirigente regionale Roberto Moisio sarebbe stato invece il regista delle operazioni, quello che teneva i contatti con i politici che dirigeva gli stanziamenti di finanziamenti pubblici al premio. "Abbiamo aiutato economicamente in nero l'assessore Giampiero Leo (Ncd) - ha detto Soria ai giudici -. Abbiamo aiutato l'assessore Alfieri (Fiorenzo, ex componente della giunta comunale di Sergio Chiamparino) anche per il signor Chiamparino, a cui ho dato personalmente sostegno in due occasioni". L'ex assessore alla cultura Gianni Oliva, ora consigliere regionale del Pd, avrebbe invece "viaggiato con la moglie a spese del Grinzane. E' un appassionato di tartufi". La "scellerata convenzione" tra la Regione Piemonte e il Grinzane Cavour coinvolgeva anche politici di centrodestra, diplomatici e attori, che avrebbero chiesto soldi per partecipare alle serate di gala. Nella lista di Soria sono presenti Isabella Ferrari, Giancarlo Giannini, Michele Placido, Charlotte Rampling, Eleonora Giorgi, Stefania Sandrelli: "I vip ci sfruttavano per il loro prestigio", sono le parole di Soria riportate dal Fatto quotidiano. Infine ci sono gli intellettuali e i giornalisti di sinistra:  E potrebbe tremare anche viale Mazzini, perché "sulla Rai c’è un capitolo nero, era un andazzo a cui era difficile resistere. A tutti questi casi dovevamo far fronte con dei fondi in nero". Che con il rosso, per restare in ambito letterario, ci sta pure bene.

Attenti al ladro!!

Torino, beve una bibita da 1,20 euro senza pagare. Due mesi di carcere e 6 anni di calvario: prosciolto, scrive “Libero Quotidiano”. Nel 2008, un 38enne marocchino bevve una bibita, di nascosto, da 1,20euro all'interno di un supermercato di Mondovì. Sorpreso da un vigilante è stato denunciato per furto aggravato dallo violenza sulle cose e, nel 2009, condannato con decreto penale a due mesi di carcere e 100 euro di multa con la condizionale. Ci sono voluti sei anni per chiudere il caso e prosciogliere Youssef dalla Corte d'Appello del capoluogo piemontese. Non si tratta neanche di furto, ma di tentato furto, spiega il difensore. E l'inghippo sarebbe nella linguetta della lattina stessa, la quale non è un sigillo di protezione, ma solo un mezzo di chiusura. La sentenza è ora stata cancellata: i giudici hanno accolto la tesi della difesa e hanno sancito che il processo di primo grado non doveva neppure cominciare. Il suo avvocato, Fabrizio Bruno di Clarafond, uscendo da Palazzo di Giustizia ha commentato: “C’è di che avvilirsi. Non bastava fargli pagare il prezzo della lattina?”.

Mondovì, sei anni di processo per una Coca-Cola bevuta di nascosto. Youssef, marocchino, nel 2008 aveva commesso il piccolo furto in un supermercato. Valore della “refurtiva”: un euro e 20 centesimi, scrive Giuseppe Guastella su “Il Corriere della Sera”. Quanto tutto lasciava prevedere che si sarebbe arrivati all’ inesorabile prescrizione, l’avvocato ha convinto i giudici evitando che altro tempo si sommasse ai quasi 6 anni già consumati per processare un marocchino accusato di furto aggravato per essersi tracannato una bevanda del valore di ben un euro e 20 centesimi. La storia di uno dei tanti processi dalla dubbia rilevanza che intasano i tribunali e costano tempo e denaro parte il 12 agosto del 2008 quando, arso dal caldo, il 31enne Youssef prende una lattina dallo scaffale di un supermercato di Mondovì, spinge la linguetta e manda giù. Un vigilante lo vede e l’uomo viene denunciato per furto aggravato dalla «violenza sulle cose», cioè dalla apertura della lattina. Condannato con decreto penale, fa appello assistito dall’avvocato Fabrizio Bruno di Clarafort secondo il quale al più si può parlare di furto semplice dato che non c’è stata alcuna «violenza», perché per bere la lattina doveva pur essere aperta. Il gup non dà retta e il 22 aprile 2009 condanna il marocchino a 2 mesi di carcere e 100 euro di multa con la condizionale. Si va in Corte d’appello. Arenato per quasi 6 anni (un altro e si sarebbe prescritto) ieri il fascicolo riemerge in aula. I giudici danno ragione alla difesa e il furto diventa «semplice», e dato che il negozio non ha fatto querela, indispensabile per procedere, l’imputato viene prosciolto. Youssef non lo saprà mai, ammesso che ancora gliene importi: mentre la giustizia italiana procedeva inesorabile, lui è tornato in Marocco.

APPALTOPOLI, BRUNO TINTI E QUELLO CHE NON SI DICE.

L'inchiesta di appaltopoli a Torino. Torino, anno 2002: l'inchiesta di "appaltopoli" in mano al magistrato Bruno Tinti sconvolge la città. Viene scoperto un vero e proprio sistema per truccare le gare d'appalto che coinvolge imprenditori edili e dipendenti comunali. A 12 anni di distanza siamo andati a vedere cosa ne è stato di quell'inchiesta e dei suoi imputati. Quello che abbiamo scoperto mette i brividi e spiega molto del motivo per cui la corruzioni prosperi all'interno del paese.

Ladri e corrotti, niente paura, sarete prescritti, scrive Bruno Tinti su “Il Fatto Quotidiano”. «L’ultimo processo che ho fatto è stato “Appaltopoli”. Cordate di imprenditori che si spartivano gli appalti con offerte coordinate: oggi io, domani tu; ai più piccoli qualche subappalto. Il prezzo lo stabilivano loro e il Comune pagava. Sistema perfetto, non servivano corruzioni. Che però c’erano, per non essere disturbati nella fase di esecuzione dei lavori: regalie e stipendi ai dipendenti comunali. Arrestammo gli imprenditori e quasi tutto l’ufficio tecnico del Comune. 3 anni di indagini, dal 2002 al 2005, 140 persone e 20 società incriminate. Nel 2005 udienza preliminare: un centinaio di patteggiamenti (tra cui tutti i dipendenti comunali) e 43 rinviati a giudizio. Nel 2008 la sentenza: 2 assoluzioni, 10 prescrizioni e 31 condanne: 5 o 6 anni di prigione, in media. Nel 2009 l’Appello: tutto prescritto. Ricordo tre episodi. I dipendenti comunali riammessi in servizio dopo il patteggiamento. Un imprenditore intercettato che diceva ai colleghi, dubbiosi se continuare le gare truccate anche con indagini in corso (avevano una talpa, sospettai di un politico locale ma non ebbi mai prove sufficienti): “Ma sì, continuiamo, al massimo ce la caveremo con una multaccia!”. Un altro imprenditore che voleva patteggiare una pena ridicola, un anno circa che non avrebbe scontato per via della sospensione condizionale, e che, al mio scandalizzato rifiuto, disse sprezzante: “Faccia come vuole, sarò assolto per prescrizione”».

Interrogazione a risposta scritta Atto Camera Interrogazione a risposta scritta 4-07727 presentata da VINCENZO FRAGALA' giovedì 16 ottobre 2003 nella seduta n. 374.

FRAGALÀ. - Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che: dalla stampa quotidiana si apprende che la procura di Milano ha aperto un'inchiesta per violazione del segreto d'ufficio nei confronti del magistrato Bruno Tinti, attuale Procuratore aggiunto a Torino e titolare dell'inchiesta Telekom Serbia; il dottor Bruno Tinti, conosciuto per le sue posizioni giudiziarie proclamate sulla rivista «Micromega» è sospettato di aver violato il sistema informatico riservato della Procura torinese e di aver aperto con la sua password i dati relativi a una indagine affidata al pubblico ministero Andrea Padalino; durante alcune intercettazioni telefoniche un intermediario si sarebbe vantato di aver chiesto al pubblico ministero Bruno Tinti di controllare l'esistenza dell'inchiesta condotta da Padalino; ecco perchè la trasmissione degli atti dell'indagine nei confronti del dottor Tinti è stata trasmessa per competenza alla Procura di Milano; l'indagine del pubblico ministero Andrea Padalino ha comportato l'arresto per truffa aggravata del proprietario di sette concessionarie di auto di lusso, tra cui a Torino Agosti Tocci, vecchio amico di Bruno Tinti; per paradosso nell'estate del 2001 Bruno Tinti aveva trasmesso alla Procura di Milano gli atti di accusa contro il magistrato Francesco Saluzzo, sospettato di aver avvertito delle imminenti perquisizioni il suo amico Roberto Colaninno, in seguito completamente scagionato; adesso le parti sembrano essersi invertite, e a Milano sulla scrivania dell'aggiunto Carnevali, sostiene sempre la stampa quotidiana, c'è un fascicolo delicatissimo riguardante Bruno Tinti e di cui il Procuratore capo Marcello Maddalena non vuole assolutamente parlare; ancora un'ulteriore inchiesta giudiziaria sull'operato di un magistrato, prima indagato e poi prosciolto, ha scosso la Procura di Torino. Si tratta del pubblico ministero Paolo Storari, anch'egli titolare delle indagini su Telekom Serbia e sullo scandalo «Appaltopoli». Storari sarebbe stato indagato dai pubblici ministeri milanesi per violazione del segreto d'ufficio sulla base della vicenda della presunta fuga di notizie che lo scorso anno aveva portato all'indagine nei confronti del Procuratore aggiunto Francesco Saluzzo; indagine amplificata nell'ottobre dello scorso anno da un grande quotidiano che parlò apertamente di «spia in Procura» pubblicando i tabulati delle telefonate che Saluzzo avrebbe fatto a Colaninno per avvisarlo delle indagini su Telecom Italia svolte da Tinti, Storari e Furlan; richiesto il proscioglimento di Saluzzo, il gip Salvini ha ratificato l'archiviazione, rinviando gli atti alla Procura di Milano per individuare i responsabili della violazione di segreti d'ufficio verificatasi nell'ottobre del 2001 ai danni dello stesso Saluzzo; per questa accusa nei confronti del pubblico ministero Storaci, era stato richiesto il rinvio a giudizio, seguito dall'udienza preliminare in cui Paolo Storari è stato prosciolto; da queste intrecciate vicende emerge, ad avviso dell'interrogante, un filo rosso di collegamento tra alcune stanze segrete della procura di Torino e un grande quotidiano nazionale che ha recentemente e ripetutamente pubblicato verbali coperti dal segreto di indagine riguardanti l'inchiesta Telekom Serbia -: se il Ministro intenda assumere iniziative e provvedimenti nell'ambito delle proprie specifiche competenze ispettive per fare luce sui fatti sopra descritti e individuare conseguentemente eventuali profili disciplinari su cui esercitare i propri poteri. (4-07727)

TORINO NON AMA ALESSANDRO DEL PIERO.

Torino, negata a Del Piero la cittadinanza onoraria. Bocciata la proposta della Lega Nord. Sì a Papa Bergoglio e al cappellano del Torino, scrive “Il Corriere della Sera”. Alessandro Del Piero non sarà cittadino onorario di Torino: il Consiglio comunale ha detto no alla onorificenza chiesta dalla Lega Nord per l’ex bandiera della Juventus, «sconfitto» sui banchi della Sala Rossa da Papa Bergoglio e da don Aldo Rabino, storico cappellano del Torino, che l’hanno invece ottenuta. Uno «smacco» per l’ex numero 10 bianconero, che di derby in carriera ne ha persi davvero pochi. In realtà, i motivi del no a Pinturicchio sono più di natura politica che di fede calcistica, con il centrosinistra «tiepido» su una proposta dell’opposizione di centrodestra. Neppure i favori del sindaco Piero Fassino, tifoso juventino, sono serviti a convincere il Pd a dire sì in maniera compatta. E anche gli alleati non hanno gradito. «Il Comune ha concesso la cittadinanza onoraria a chiunque, anche a chi come Roberto Saviano non ha mai avuto nulla a che fare con Torino. Quando si tratta di conferirla a un personaggio che ha portato ovunque la torinesità, decide di negarla», protesta il capogruppo del Carroccio, Fabrizio Ricca. «La cittadinanza onoraria va usata con saggezza», replica il capogruppo Pd Michele Paolino, che nonostante sia tifoso del Torino non ne fa una questione di bandiera: «Forse sarebbe opportuno - è la sua proposta - introdurre riconoscimenti diversi, ad esempio un premio alla città». «La mia è stata una decisione super partes - dice invece il moderato Giovanni Maria Ferraris, assessore allo Sport della Regione Piemonte -. Senza nulla togliere a questo grandissimo campione, spettava alla Conferenza dei Capigruppo valutare se portare o meno la proposta in aula». Fatto sta che il derby della cittadinanza onoraria l’hanno vinto il Toro, a digiuno di successi nella stracittadina da vent’anni, e Papa Bergoglio. Lui sì super partes, nonostante la simpatia per il San Lorenzo.

A Roberto Saviano noi preferiamo Alessandro Del Piero, scrive by Giulia Zanotti su “Nuova Società”. Chi lo sa. Forse il Pd torinese la domenica preferisce passarla a messa anziché allo stadio. O forse l’unico colore calcistico che piace è quello granata e non bianconero. Di sicuro risulta difficile trovare una spiegazione a quanto successo ieri in Consiglio Comunale quando è stata respinta la mozione, proposta dalla Lega Nord, di dare la cittadinanza onoraria all’ex capitano della Juventus Alessandro Del Piero. Certo, qualcuno storcerà il naso dicendo che ci sono problemi più gravi da affrontare sotto la Mole che il conferimento di questo titolo a un calciatore. Eppure, basta dire che nella stessa seduta sono stati approvate altre due cittadinanze. La prima a Papa Francesco: giustissima se si considera che Bergoglio da quanto è Pontefice Torino non l’ha vista nemmeno in fotografia ma che con la sua visita già in programma il 21 giugno, in concomitanza con l’ostensione della Sindone, aiuterà non poco le finanze dissestate del Comune. Più difficilmente capiamo la scelta di fare cittadino onorario anche don Aldo Rabino, cappellano del Toro, se non che di sicuro piace alla Sala Rossa visto che già la sua nomina a presidente onorario della Fondazione Filadelfia era stata accolta con gran soddisfazione dall’assessore allo Sport Stefano Gallo che lo aveva definito “un padre spirituale del progetto”. Ma se abbiamo capito i motivi per cui da oggi ci sono due torinesi in più stentiamo a comprendere quelli del no a Del Piero. No per giunta imbarazzante visto che mentre la proposta aveva la “benedizione” del sindaco Piero Fassino il Pd si è diviso tra astenuti e contrari. Sarà che la mozione, che per giunta giaceva da un paio d’anni in un cassetto, è stata presentata dalla Lega Nord e quindi non poteva che essere rifiutata. Sarà che il nome dell’ex capitano bianconero tocca sfere troppo basse rispetto a quelle celestiali di Papa Francesco, ma anche quelle radical chic di Roberto Saviano. Già, anche lo scrittore di Gomorra è cittadino onorario della nostra città per quanto non si capisce cosa abbia fatto di così importante per i torinesi. Ma forse è più allettante ingraziarsi il mondo radical chic che quello degli stadi: chissà che qualche consigliere non abbia temuto di essere paragonato a Fantozzi in canottiera con frittata di cipolle e birra gelata piuttosto che ai fascinosi intellettuali da salotto. Poco conta, e non è questione di tifo, che nei 18 anni in cui Del Piero ha indossato la maglia della Juventus è stato un simbolo anche dalla città esportando il nome di Torino anche a quei tifosi che lo seguivano dall’estero. Ironia della sorte proprio oggi l’ex Pinturicchio sul suo Facebook ha postato una foto dalla sua nuova casa in Australia: “Happy to be back in Sidney”, “Felice di essere di nuovo a Sidney” scrive, forse anche per dimenticare una Torino che gli è stata troppo ingrata sia calcisticamente che non.

SE RUBARE PER COLPA NON COSTITUISCE REATO.

Spese pazze Piemonte, nove assolti nel processo bis: “Non ci fu dolo”. Tra gli imputati il segretario piemontese del Pd, Davide Gariglio, e l’attuale vicepresidente della giunta regionale, Aldo Reschigna. Il gup Daniela Rispoli ha accolto, nel processo con rito abbreviato, la tesi della stessa procura, secondo la quale gli episodi di peculato contestati non costituiscono reato, scrive Andrea Giambartolomei su “Il Fatto Quotidiano”. Il fatto non costituisce reato. Nove consiglieri regionali del Piemonte sono stati assolti dal gup di Torino Daniela Rispoli. Erano accusati di aver ottenuto rimborsi illeciti tra il 2010 e il 2012. Tra di loro ci sono anche due assessori della giunta di Sergio Chiamparino, il vicepresidente della Regione e assessore al Bilancio Aldo Reschigna (Pd) e l’assessora alle pari opportunità e al diritto allo studio Monica Cerutti (Sel). Stando alla sentenza letta in aula l’aver ottenuto rimborsi – esigui – per cene e trasferte non è stato peculato, così come avevano ribadito più volte i sostituti procuratori Giancarlo Avenati Bassi ed Enrica Gabetta. “Da questo momento in avanti abbiamo tutte la serenità necessaria per impegnarci ancora di più sull’importante lavoro di riordino e di rilancio della Regione”, ha detto il governatore. Proprio i due pm martedì, nella requisitoria di questo processo abbreviato, avevano spiegato che per loro “il fatto non costituisce reato” perché a questi nove politici mancava il “dolo”, l’intenzione di compiere il peculato. Dall’inizio di questa vicenda, cominciata nell’autunno del 2012, era la terza volta che ribadivano questa affermazione nei confronti di questi politici. Al termine della sterminata inchiesta della Guardia di finanza avevano chiesto l’archiviazione, ma il giudice per l’indagine preliminare Roberto Ruscello aveva voluto vederci chiaro e i due pm avevano ribadito le loro ragioni in un’udienza filtro. Ciò nonostante il gip ha aveva disposto l’archiviazione per sette di quelli rimasti in ballo (tra cui l’ex presidente Mercedes Bresso) e l’imputazione coatta per altri nove che hanno scelto invece il rito abbreviato: così, a porte chiuse, la posizione dei politici è stata chiarita “allo stato degli atti”. All’uscita dall’aula il segretario regionale del Pd Davide Gariglio (che era accusato di aver speso poco più di novemila euro) si è detto soddisfatto “sia sul piano personale, sia sul piano del partito”: “Abbiamo dimostrato di aver agito senza la volontà di raggirare le leggi”. Secondo lui se ci fosse stata una condanna “la giunta Chiamparino sarebbe andata avanti ugualmente. Adesso però sono state sgomberate alcune grosse pietre d’inciampo”. Il vicepresidente della Regione Reschigna (a cui erano contestati rimborsi per 5.500 euro circa) sostiene per lui è stato importante “riuscire a preservare un’immagine e mantenere fede a un impegno di trenta anni”, come ha più volte detto ricordando le sue attività a Verbania dopo la tangentopoli locale che nell’autunno del 1993 aveva spazzato via l’amministrazione cittadina. Nel caso di condanna sia lui sia la collega Cerutti erano pronti a dimettersi: “Legge Severino o no, non avrei potuto reggere l’incarico col pensiero di difendermi di più e ricorrere in appello”, ha detto l’assessora di Sel, che doveva giustificare circa 20mila euro di rimborsi. “Sono state assolte persone che ho sempre ritenuto essere persone oneste, dichiarandolo anche pubblicamente”, ha commentato Chiamparino. Nel centrosinistra sono stati assolti anche il senatore Stefano Lepri e la consigliera regionale Angela Motta (Pd) e Eleonora Artesio della Federazione di sinistra. Si sono salvati pure alcuni politici del centrodestra, come Fabrizio Comba, Gianluca Vignale e Giampiero Leo: “Spero che questa sentenza possa aiutare anche i colleghi che stanno facendo il dibattimento”, afferma quest’ultimo. Questa sentenza potrebbe infatti essere usata dalle difese nell’altro processo nel quale, tra gli imputati, compare anche l’ex governatore leghista Roberto Cota. La procura, però, con questa impostazione pensa di poter proseguire e chiedere le condanne di coloro che avrebbero ottenuto rimborsi esorbitanti e ingiustificabili. In estate 14 ex consiglieri avevano patteggiato e altri quattro erano stati condannati.

Via l'ostacolo all'eventuale corsa al Colle come nel 2013: la Rimborsopoli rossa non è reato, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. La giustizia a orologeria, per lui, funziona al contrario. Magicamente. Per gli altri politici, di solito, è una iattura. Per Sergio Chiamparino, invece, spazza via gli eventuali problemi. È accaduto giusto un anno fa, quando la scomoda inchiesta sulla mancata riscossione degli affitti dei Murazzi graziò con l'archiviazione soltanto lui, indagato a sua insaputa per abuso in atti d'ufficio, consentendogli di correre senza ombra alcuna per la poltrona di governatore del Piemonte, prontamente liberata dai giudici del Tar che diedero torto a Cota e altrettanto prontamente conquistata da lui. E in un certo senso accade anche oggi, che Chiamparino non è in pole position per la corsa al Quirinale e però forse qualche chance di salire al Colle ce l'avrebbe. Il gup di Torino, infatti, ha assolto i nove consiglieri regionali coinvolti nella seconda tranche della cosiddetta «Rimborsopoli» per le spese pazze dei gruppi in Regione Piemonte. Il «Chiampa» non era coinvolto. Ma dentro c'erano due suoi assessori, uno dei quali anche vicepresidente della sua giunta, il segretario regionale e capogruppo in Regione del Pd, un parlamentare democrat. Insomma, una bella fetta di partito piemontese. E il «liberi tutti» che arriva giusto adesso è un aiutino niente male. Elimina infatti ogni eventuale problema, nel caso in cui sul nome di Chiamparino si verificasse ancora una convergenza in direzione Colle. Non è fantapolitica. E nemmeno un'ipotesi peregrina, come insegna la storia recente. È aprile, anno di grazia 2013, l'inizio delle votazioni per eleggere il nuovo presidente della Repubblica che di flop in flop e di bruciatura in bruciatura - da Franco Marini a Romano Prodi - portarono alla fine all'incoronazione bis per Napolitano. Il nome di Chiamparino per il Colle viene fuori un po' a sorpresa nella prima giornata di votazioni. Anzi, proprio alla prima votazione, in chiave anti-Marini. A tributare a Chiamparino 41 voti sono i renziani, che si opponevano alla designazione del segretario della Cisl. Il vero trionfo per l'ex sindaco di Torino arriva però alla seconda votazione, quando nel gioco di sgambetti e veti incrociati per lui di voti ne arrivano 90, ben più di quelli a disposizione dei Matteo-boys. Come finì allora è ben noto. Liti, scontri e poi il Re Giorgio bis. Adesso, due anni dopo, quella strana congiuntura sul nome di Chiamparino potrebbe riproporsi. Ed eliminare uno scheletro giudiziario imbarazzante per il Pd piemontese non è comunque un male. Né per Chiamparino né per i democratici. La decisione del giudice di Torino, attesa perché già la procura aveva chiesto il proscioglimento dei nove indagati della seconda tranche - sei del centrosinistra e tre del centrodestra - è arrivata ieri. Interessante la motivazione, «perché il fatto non costituisce reato». Traduzione: il fatto c'è. Quelle cene contestate non erano rimborsabili con soldi pubblici. Solo che da parte dei nove consiglieri non c'è stato alcun dolo. Di conseguenza, tutti assolti. La rimborsopoli, se di sinistra, non è reato.

In Piemonte anche le spese pazze non sono tutte uguali, scrive Marcello Calvo su “Il Giornale d’Italia”. Rimborsopoli, nel processo bis la procura di Torino chiede l'assoluzione per tutti gli imputati. Per la pubblica accusa i consiglieri non avrebbero agito con dolo nell'utilizzo dei fondi pubblici. Spese pazze in Piemonte, richiesta di assoluzione per gli ex 9 consiglieri regionali imputati. Che fa da prologo a una sentenza praticamente scritta che rischia di creare un pericoloso precedente. E’ questo il colpo di scena svelato dalla procura di Torino nel processo bis ai “vecchi” onorevoli sotto la Mole nell’ambito dell’indagine sui rimborsi ai gruppi regionali della scorsa amministrazione (che avrebbero percepito rimborsi illeciti dal maggio 2010 al settembre 2012) che hanno scelto il rito abbreviato. Tra gli imputati pure il vicepresidente dell’attuale giunta Chiamparino, Aldo Reschigna. E la collega Monica Cerutti. Oltre al segretario Pd piemontese Davide Gariglio. E pensare che il 20 ottobre scorso, dopo la richiesta di archiviazione della procura, il gip Roberto Ruscello aveva ordinato l’imputazione coatta, ritenendo tutte le spese come illegittime (compresi pranzi e cene istituzionali). Con i pubblici ministeri “costretti” a chiedere il rinvio a giudizio degli interessati nel giro di 10 giorni. Ebbene, per la pubblica accusa non ci sarebbe stato “dolo” da parte degli ex consiglieri nel chiedere i rimborsi contestati. Non sarebbe emersa dunque la consapevolezza di un utilizzo illecito dei fondi pubblici. Per tutti questi motivi, “il fatto non costituisce reato”. Nell’inchiesta sono coinvolti pure Gianluca Vignale, Giampiero Leo e Fabrizio Comba (centrodestra). E ancora: Stefano Lepri, Angela Motta e Eleonora Artesio (centrosinistra). Imputato anche Luca Pedrale, già capogruppo di Forza Italia, ma la sua posizione è stata già stralciata. Nessuna sorpresa, a dir la verità. E una richiesta in linea con le archiviazioni sostenute nei mesi scorsi al termine della fase di indagine del ramo principale che ha visto finire sul banco degli imputati pure l’ex governatore Roberto Cota. Che viaggia certamente controcorrente rispetto alle decisioni prese da parte dei magistrati del tribunale di Torino. Ben 4 condanne e 14 patteggiamenti. Per consiglieri accusati di aver utilizzato fondi pubblici per acquisti di ogni tipo: dal giardinaggio all’estetista, dalle cravatte ai videogiochi passando per gratta e vinci e frullatori.  Con i giudici di prime cure che hanno stabilito come non si potesse parlare di “pranzi e cene per finalità istituzionali”. Tant’è, c’è una procura che la pensa evidentemente diversamente. E il dispositivo che verrà emesso dal gup di Torino, in caso di sentenza con formula assolutoria, potrebbe legittimare molti “Batman” piemontesi a procedere sulla stessa falsa riga adottata dai più in questi anni di sprechi e presunte malefatte.

FIRME FALSE, ABITUDINI PIEMONTESI.

Ancora scandalo firme false in Piemonte: questa volta nel mirino è la sinistra, scrive Riccardo Ghezzi su “Quelsi”. Firme false in Piemonte. Un film già visto, ma questa volta accusatori e accusati si sono scambiati i ruoli. Non è più la maggioranza del centro-destra nel mirino dell’opposizione, ma il centro-sinistra a sostegno di Chiamparino che ha vinto le elezioni due mesi fa. Le irregolarità nella presentazione delle liste sono state un tormentone nell’arco dell’intera precedente legislatura, fino alla caduta anticipata della giunta Cota. Questa volta è il centro-destra, ritrovatosi all’opposizione a rendere pan per focaccia: la Procura della Repubblica di Torino ha infatti aperto una nuova indagine per accertare presunte irregolarità di Pd e altre liste di centro-sinistra nella raccolta firme. E’ il cosiddetto “fascicolo K”, ancora senza indagati. Tali irregolarità sono state denunciate dall’europarlamentare della Lega Nord Mario Borghezio, il quale dopo aver avuto accesso agli atti e verificato “palesi incongruenze” quali cognomi sbagliati, dati anagrafici ripetuti, firme ottenute a centinaia di chilometri dalla residenza, si è recato dal Procuratore Capo di Torino, Armando Spataro. L’esposto è sfociato nell’apertura dell’indagine e nella fissazione di un’udienza prevista per il prossimo 6 novembre. Il segretario regionale del Pd, Davide Gariglio ha bollato come “baggianate” le accuse della Lega Nord, ma il quotidiano La Stampa nei giorni scorsi ha minuziosamente analizzato tutti gli errori nella raccolta firme contenuti nell’esposto di Borghezio, alimentando dubbi e perplessità sull’effettiva regolarità della presentazione di alcune liste regionali, compreso il listino bloccato. Se i giudici dovessero dare ragione a Borghezio, per il Piemonte si aprono nuovi scenari di incertezza. Sperando di non dover aspettare quattro anni, come nella passata legislatura. E sperando pure che non siano usati i famosi “due pesi e due misure”.

Piemonte, torna l'incubo firme false: accuse alla lista Chiamparino e al Pd, indaga la Procura. E' stato il leghista Mario Borghezio a presentare l'esposto al procuratore capo Armando Spataro: nel mirino la lista per l'ex sindaco e quelle del Pd a Cuneo e a Torino. E' come se si ripetesse, a schemi rovesciati, la vicenda che alla fine portò all'annullamento delle elezioni 2010 e alla caduta della giunta Cota, scrive Ottavia Giustetti su “La Repubblica. Firme false per presentare la lista del presidente Sergio Chiamparino alle elezioni regionali e il Pd: dopo che il Tar ha fissato l’udienza per la discussione del ricorso il 6 novembre, anche la procura ha aperto un fascicolo che contiene l’esposto presentato da Mario Borghezio direttamente al procuratore capo, Armando Spataro, qualche giorno fa. E sono trascorsi più di quattro anni ma in un certo senso sembra di assistere a una scena già vista: fascicolo ancora senza ipotesi di reato né indagati, ma già assegnato al pm Patrizia Caputo, la stessa che coordinò le indagini nella vicenda di ricorsi e denunce incrociate tra Mercedes Bresso e Roberto Cota nel 2010. Questa volta sotto la lente della procura finiranno le 2292 firme depositate a corredo della lista maggioritaria del candidato Chiamparino, e le proporzionali del Pd collegate, di Torino e Cuneo. I canali anche questa volta sono due: il primo amministrativo, dunque al Tar, per la richiesta di annullamento delle elezioni nei confronti del presidente e dei consiglieri Gilberto Pichetto, Giovanni Maria Ferraris e Giorgio Ferrero; il secondo penale, con un’inchiesta che, se andrà avanti, potrebbe portare ad avvisi di garanzia per falso e, in base alle accuse contenute nell’esposto, anche per abuso d’ufficio. Il leghista Borghezio, infatti, non ha denunciato solamente autenticazioni false ma anche il conflitto di interessi di un gruppo di autenticatori che erano anche loro tra i candidati alle elezioni, e che sono stati poi eletti: Marco Grimaldi, Valentina Caputo, Nadia Conticelli e Antonio Ferrentino, che ora si difendono: "Accuse strumentali, è tutto in regola". L’avvocatura della Regione che ha l’incarico di seguire la vicenda direttamente dal presidente sostiene che non vi sia alcun conflitto in questo caso, e che al contrario c’è ampia giurisprudenza che legittima la presenza degli stessi pubblici ufficiali sia tra i candidati che tra gli autenticatori delle firme. Infine, appunto, il falso.  Il caso più eclatante sarebbe quello del consigliere provinciale Pasquale Valente che in un solo giorno ha verificato l’autenticità di 329 firme «considerando un arco temporale di 12 ore - è scritto nel ricorso della leghista Patrizia Borgarello - significherebbe una firma ogni due minuti senza previsione di alcuna interruzione». E, aggiunge, in due posti diversi sempre nello stesso giorno: Torino e Cossano Canavese. Poi: firme uguali, vergate con mano diversa - sempre secondo l’accusa -, elenchi di cittadini stranamente presentati in ordine alfabetico («Come se uno che raccoglie firme avesse la capacità di mettere tutti i sottoscrittori in fila in base all’ordine alfabetico del cognome » dice Mario Borghezio), infine firme in cui al posto del cognome è finito per errore il luogo di residenza, fatto che fa pensare non a una processione di cittadini che davanti a un pubblico ufficiale firmano e danno le proprie generalità quanto piuttosto a qualcuno che si sia messo lì a copiare in fretta e furia un lungo elenco di nomi e abbia confuso in qualche caso le varie caselle.

Elezioni Piemonte, aperta inchiesta dopo denuncia Lega: “Firme false”, scrive Andrea Giambartolomei su “Il Fatto Quotidiano”. L’indagine è stata assegnata a due sostituti procuratori, Patrizia Caputo e Stefano Demontis. Gli accertamenti non sono ancora iniziati, ma il primo passo da fare sarà l’acquisizione di tutti i documenti (le varie liste con le sottoscrizioni dei sostenitori) conservati negli uffici elettorali del Palazzo di giustizia. Sulle presunte firme false e le altre presunte irregolarità delle lista a sostegno di Sergio Chiamparino, presidente della Regione Piemonte, la procura di Torino ha aperto un fascicolo. L’indagine è stata assegnata a due sostituti procuratori, Patrizia Caputo e Stefano Demontis, del Dipartimento per i reati contro la Pubblica amministrazione guidato da Andrea Beconi. Gli accertamenti non sono ancora iniziati, ma il primo passo da fare sarà l’acquisizione di tutti i documenti (le varie liste con le sottoscrizioni dei sostenitori) conservati negli uffici elettorali del Palazzo di giustizia. Dopodiché le procedure saranno quelle utilizzate per altre indagini che in passato hanno portato alla condanna di alcuni politici locali come Michele Giovine, Renzo Rabellino e della democratica Caterina Romeo. Verranno sentite delle persone informate sui fatti, come gli autenticatori o i firmatari i quali dovranno riferire se hanno veramente sottoscritto i documenti e in quale contesto. Poi potrebbero essere disposte delle perizie calligrafiche fatte da consulenti tecnici. A indagare saranno due pm perché la Caputo, che ha coordinato le indagini sui casi passati, prossimamente dovrà cambiare pool e per questo sarà affiancata da Demontis. I due pm dovrebbero vedersi oggi o nei primi giorni della prossima settimana per decidere sul da farsi. Tutto nasce dall’esposto dell’europarlamentare leghista Mario Borghezio, alla ricerca di una vendetta per quello che la Lega Nord e Roberto Cota hanno dovuto subire negli anni della legislatura in Piemonte, con i ricorsi al Tar e gli esposti contro la lista “Pensionati per Cota”. Lo storico esponente del Carroccio dopo aver ottenuto una copia degli atti sulle liste provinciali di Torino (e anche di Cuneo) del Partito democratico e di “Chiamparino per il Piemonte”, più gli atti del “listino” regionale “Chiamparino presidente”, ha preparato un esposto di sette pagine corredato di fotografie coi dettagli delle firme, allegando anche copie dei documenti ottenuti. La denuncia è stata poi consegnata al procuratore capo di Torino Armando Spataro durante un incontro avvenuto una settimana fa. Nell’atto si legge che “anche solo da un esame superficiale emergono subito dubbi in merito alla regolarità nonché all’autenticità di molte sottoscrizioni relative alle tre liste” perché “le firme apposte dai sottoscrittori appaiono vergate da poche mani, ovvero si ritrovavano grafie che, a parere di coloro che hanno posto in essere i suddetti controlli, si ripetono con regolarità in più moduli”. Non è tutto. “In molti casi pare agli scriventi che chi ha scritto le generalità dei sottoscrittori avesse poi anche firmato, ripetutamente, nello stesso modulo”. In sostanza si sospetta che qualcuno abbia copiato i dati anagrafici e dei documenti da altre liste per poi firmare al posto dei sottoscrittori. Ciò emergerebbe osservando la grafia accanto ai nomi della lista regionale “Chiamparino Presidente” e quella della lista provinciale del Pd: “Si palesa anche ad un occhio inesperto una differenza (in alcuni casi addirittura macroscopica) di grafia”. Borghezio ha quindi chiesto di accertare “eventuali falsità ideologiche dei pubblici ufficiali autenticatori”. Dalla politica, per ora, non arrivano commenti, né l’opposizione sembra voler cavalcare la polemica. Il presidente Chiamparino preferisce non rilasciare dichiarazioni sulla vicenda nell’attesa del lavoro degli inquirenti. Il Pd aveva replicato che tutto era regolare: “Le autentiche sono lecite”. “L’autentica è assolutamente lecita”, aveva spiegato Nadia Conticelli, consigliere regionale Pd chiamata in causa da Borghezio per via delle due firme, apparentemente diverse tra di loro, poste su un documento in qualità di sottoscrittrice e anche di autenticatrice. “Le firme che ho raccolto le ho prese io, le hanno fatte davanti a me, le ho autenticate col timbro della circoscrizione. Penso che la Lega dovrebbe puntare a delle motivazioni politiche”.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

LUIGIA PADALINO. MESSA A TACERE PERCHE’ CERCAVA  LA VERITA’.

Questa è la storia di Luigia Padalino. Radiata dal Consiglio dell'Ordine degli assistenti sociali perchè voleva fare bene il suo lavoro.

«ALLA DIREZIONE GENERALE GIUSTIZIA CIVILE, UFFICIO III - REPARTO II - VIGILANZA ORDINI PROFESSIONALI E LIBERE PROFESSIONI.

OGGETTO: UN ATTO DELIBERATIVO DI RIGETTO DEL MIO RICORSO CONTRO LA RADIAZIONE DALL'ALBO (RADIAZIONE DISPOSTA DALL'ORDINE DEGLI ASSISTENTI SOCIALI DEL PIEMONTE) CHE LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO NAZIONALE SI RIFIUTA DI FORNIRE.

PREMESSA.

Egregio Sig. Ministro, nel mese di novembre 2013 lei ha firmato il decreto qui allegato con il quale veniva nominato il commissario straordinario per l'Ordine degli Assistenti sociali del Piemonte, in seguito allo scioglimento del Consiglio dell'Ordine uscito dalle elezioni del luglio 2013. Elezioni viziate da irregolarità gravi. Lo scioglimento era stato disposto dal Consiglio Nazionale dell'ordine assistenti sociali che è presieduto dalla Signora Edda Samory.

DI SEGUITO ESPONGO.

In data 17/10/2012, con un ritardo di un anno e mezzo e in violazione delle norme sulle sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico, la scrivente Luigia Padalino riceveva notizia del rigetto del suo ricorso contro la radiazione, ricorso che era stato presentato, per il tramite dell'Ordine del Piemonte, agli inizi di maggio del 2011. Nell'atto di rigetto qui allegato ed inviato alla scrivente con raccomandata cartacea, (visto che sia il Consiglio nazionale che l'Ordine del Piemonte, non conoscono l'uso della posta certificata) la signora EDDA SAMORY riusciva a sbagliare persino il mio ordine di appartenenza : ABRUZZO E NON PIEMONTE. Non forniva nel "pezzo di carta" inviato nè motivazioni del provvedimento di rigetto nè qualsivoglia spiegazione (e ci aveva messo un anno e mezzo!!!) ma assicurava che: "E' facoltà degli interessati in indirizzo di richiedere copia dell'atto deliberativo".

In data 07/11/2012 inviavo al Consiglio Nazionale con POSTA CERTIFICATA la richiesta del suddetto atto deliberativo.

NESSUNA RISPOSTA.

Nel mese di luglio 2013 vado a trovare nel suo studio di ...........L'AVV. ................docente di diritto amministrativo  che è anche PRESIDENTE di.......................................Gli racconto i ritardi e gli abusi del Consiglio Nazionale, della mia intenzione nel mese di novembre 2012 di presentare ricorso al TAR contro il rigetto del mio ricorso e di come il suddetto Consiglio non avesse mai risposto fornendomi l'atto necessario per presentare quel ricorso SABOTANDO IN QUESTA MANIERA IL MIO DIRITTO ALLA DIFESA. L'avvocato ....................invia un fax al Consiglio nazionale per chiedere l'atto deliberativo. Siamo a metà luglio 2013. Il 04 agosto 2013 è l'ultimo giorno dell'apertura dello studio legale e, da me sollecitato, l'avvocato .............mi comunica che nessuna risposta è pervenuta dal Consiglio Nazionale.

Il 19 settembre del 2013, di fronte al silenzio prepotente del CONSIGLIO NAZIONALE ORDINE ASSISTENTI SOCIALI, l'avv. ....................mi suggerisce l'unica strada percorribile: UN RICORSO AL TAR DEL LAZIO PER L'ACCESSO AGLI ATTI.

UN RICORSO PERO' CHE HA DEI COSTI NOTEVOLI E CHE MAI ENTRERA' NEL MERITO DEI FATTI. SERVIRA' SOLO PER AVERE QUELLA DELIBERA CHE A ME SPETTEREBBE DI DIRITTO.

Io mi sono rifiutata di assecondare gli abusi del CONSIGLIO NAZIONALE E NON HO PRESENTATO QUESTO RICORSO AL TAR DEL LAZIO.»

Da quanto risulta l'esposto per omissione di atti di ufficio presentato al Ministero, come usualmente avviene (detto per cognizione di causa), rimane LETTERA MORTA.

E' da capire, però, l'antefatto.

E' il giorno della memoria anche per Romana Borgna. Questa è la lettera inviata da Luigia Padalino e pubblicata su Tribuna Novarese, oltre che su “SosPsiche”. «La signora Romana Borgna oggi non esiste più, nel senso che non esiste più la sua voce e la sua versione dei fatti, visto che è stata interdetta con sentenza del Tribunale di Torino (giugno 2008) e sulla sua persona impera un tutore, un'avvocatessa torinese. Una breve presentazione di chi vi sta scrivendo. Sono una cittadina di Novara   che lavora in un ente pubblico milanese che niente ha a che fare col servizio sociale. Però spendo la mia laurea in Servizio Sociale e il mio tempo libero  a beneficio delle vittime di malagiustizia, nei casi in cui sia implicato un uso distorto della psichiatria. Il codice deontologico degli assistenti sociali consente a questi di lavorare gratuitamente. La mia attività si è sempre svolta sul territorio milanese o in altre regioni. Mai in Piemonte. E fino ad ora è stata un'attività che non è mai finita sui giornali. Ecco come è iniziato il mio coinvolgimento in questa vicenda che grazie all'ordine degli assistenti sociali del Piemonte e all'ex presidente del  Consiglio Nazionale (Franca Dente) si è trasformata  in un  autentico incubo. La sera dell'11 gennaio 2009 leggo sul sito internet del giornale "Cronaca qui" di Torino un articolo a firma di Marco Bardesono, che qui si allega. Si racconta di un'anziana professoressa che è stata portata via da casa sua e confinata in un ospizio, il cui indirizzo viene tenuto segreto, non solo all'imputata di circonvenzione di incapace cioè la sua badante, ma anche agli stessi amici. Amici che però difendono quella badante e si dicono disposti ad aiutarla per le spese legali. Nell'articolo si racconta che la signora Borgna è stata interdetta e questo mi meraviglia molto visto che dal 2004 esiste la legge n. 6, meglio nota come legge istitutiva dell'amministrazione  di sostegno. Decido di mandare una mail alla procura di Torino, senza sperare peraltro, che la stessa venga letta. Invece il giorno dopo vengo contattata da un'assistente sociale del Pool soggetti deboli che mi impone di presentarmi a Torino. A nulla valgono le mie proteste. Il 16 gennaio 2009 vengo ricevuta dal pm Marcello Maresca che non mi dà nessuna spiegazione, riempie una pagina di verbale di cui non ricevo copia e vengo rimandata a casa. Da quel momento nessun segno di vita dagli uffici giudiziari. Però  ogni tanto ripensavo a quell'anziana professoressa. Avevo l'impressione che la  vicenda fosse  molto opaca  e alcuni mesi dopo, (maggio 2009), grazie ad una giornalista che in quel momento stava svolgendo un'inchiesta sul mondo della salute mentale in Italia (PORTE GIREVOLI - REPORT - MAGGIO 2009), riesco a mettermi in contatto con la badante inquisita, la signora Adriana Campanino. La incontro a Torino e  mi mostra il fascicolo del suo procedimento penale che ha chiesto in prestito al suo avvocato. E' lì che rinvengo copia del verbale del mio interrogatorio e degli altri che erano seguiti dopo la mia segnalazione. Ma dentro quel fascicolo c'è anche la documentazione del procedimento di interdizione della prof.ssa Borgna. Una documentazione agghiacciante. Rinvengo le lettere di protesta della prof.ssa Borgna inviate all'allora suo giudice tutelare, Marisa Gallo. Lettere contro il suo primo tutore, la sorella del suo defunto marito, e contro il secondo tutore, l'avvocatessa torinese. Decido di offrire la mia consulenza gratuita come assistente sociale,  iscritta all'ordine del Piemonte,  alla signora Campanino che mi firma un regolare incarico. L'incarico di svolgere un'indagine sociale che poi è il mestiere che dovrebbero fare, se fosse loro consentito di farlo, gli assistenti sociali. Nascono tre relazioni che vengono inviate a tre soggetti: il pm che mi aveva interrogato il 16/01/2009, l'allora avvocato difensore della Campanino e, per conoscenza, il procuratore capo dott. Caselli. Una relazione porta la data del 18 maggio 2009, le altre due vengono invate nel mese di giugno 2009. Il quadro che  fornisco della vicenda Borgna - Campanino è completamente diverso da quello che è stato fornito dai servizi sociali che si sono interessati del caso nel corso degli  anni (non solo il servizio di via Bogetto 3 a Torino). Confesso di aver scritto quelle relazioni con un tono decisamente indignato, ma a corredo di esse c'era una monumentale documentazione giacchè non è mai stato mio costume affrontare le storie delle persone con superficialità. Ero  molto  indignata  dopo che la Campanino mi aveva fatto vedere alcuni documenti che la Borgna le aveva affidato, relativamente alla strage della Valcasotto. Una persona come la Signora  Borgna meritava maggiore rispetto dai Servizi sociali e dagli uffici giudiziari. Ma dopo l'invio delle relazioni, tutto continua a tacere. Il 6 ottobre 2009 si tiene a Torino  l'udienza preliminare del processo contro la Campanino e l'avvocatessa Tutrice trova nel fascicolo le mie relazioni. Estrae copia delle relazioni senza gli allegati. Piccata dal contenuto delle stesse  scrive una lettera al giudice tutelare Daniela Giannone (subentrato al giudice Marisa Gallo) che qui si allega Ritiene che le mie accuse di abusare del suo ruolo ai danni della Borgna  siano destituite di ogni fondamento, ma poi soprattutto si arroga il diritto di giudicare la figura del dottor Mauro Uberti che lei non ha mai conosciuto. Si permette di giudicare la tonalità dei rapporti tra il dottor Uberti e la professoressa Borgna che duravano da decenni. Il giudice tutelare Daniela Giannone  non sente il bisogno di verificare quello che ha scritto l'avvocatessa tutrice, non sente il bisogno di interpellare il dottor Uberti,  e spedisce la lettera e le mie relazioni direttamente  all'Ordine degli assistenti sociali  del Piemonte che il 28/11/2009 mi notifica l'apertura di un procedimento disciplinare. Un procedimento che si trascina per mesi senza che l'ordine mi convochi per ascoltarmi. Lo farà solo e con modalità abnormi, il 29/04/2010. Dimenticavo di dire che, contemporaneamente al giudice Giannone, aveva presentato all'ordine le sue doglianze anche l'assistente sociale del servizio sociale di via Bogetto 3 a Torino. Dopo aver letto la lettera dell'avvocatessa tutrice (tramite accesso agli atti presso l'ordine a Torino  il 23/12/2009),   grazie alla rete,  rintraccio il dottor Uberti  che ha un sito internet e mi racconta un  altro pezzo della vicenda Borgna. Era lui che si era presentato un giorno  di marzo 2009 nella clinica dove la Borgna era stata "reclusa" e gli era stato impedito di vederla. L'1   luglio 2009 aveva scritto una lettera al giudice tutelare di Torino facendola depositare da uno studio legale e lamentando la situazione di isolamento della professoressa. La lettera è qui allegata. Non aveva avuto nessuna risposta. Il 21 gennaio 2010 deposita un'altra lettera  all'ufficio del giudice tutelare, sulla condizione di isolamento della prof.ssa ,  raccontando quanto questa condizione abbia recato danno  anche alla pubblicazione del libro del prof. Amedeo, visto che servivano foto migliori  dei familiari ammazzati,  che la stessa Borgna non aveva potuto fornire. Neanche a questa lettera lui ha avuto risposta. Frattanto l'ordine degli assistenti sociali proseguiva nel suo silenzio, ma mi faceva pervenire la lettera della dott.ssa Marchello, dirigente dei servizi sociali di via Bogetto a Torino, in cui la stessa autocertificava la bontà dell'intervento del Servizio. E l'ordine del Piemonte non riteneva di richiedere copia della cartella sociale sul caso Borgna. Non riteneva di chiedere copia di documenti di nessun genere. Lo metteva per iscritto nel mese di aprile 2010 la presidentessa della commissione per l'accesso, Graziella Povero, che, per chi non lo sapesse, è anche la presidentessa dell'associazione nazionale assistenti sociali (ASSNAS), con sede a Torino. A dimostrazione del fatto che la professione di assistente sociale ha il suo "cuore" in Piemonte. In cosa sia consistita l'istruttoria del procedimento disciplinare a mio carico, nessuno lo può sapere, nemmeno io. Il mio delitto è consistito nella violazione di 5 articoli del codice deontologico che hanno a che fare con il rapporto del professionista con i colleghi e l'astensione dal giudizio. In pratica un professionista quando è iscritto ad un ordine si deve preoccupare di più del rapporto col collega piuttosto che del suo cliente. Se vede un collega incompetente o pavido, lo deve soccorrere, non si deve preoccupare dell'utente o del cliente. Se poi si accorge che con la scusa del segreto professionale e della legge sulla privacy sono stati commessi reati gravissimi ai danni di un utente, non si deve permettere di dare giudizi sulla qualità dei servizi sociali e giudiziari. L'ordine degli assistenti sociali del Piemonte ha ricevuto le copie integrali delle mie relazioni alla procura di Torino, ma ha ricevuto anche moltissimi altri documenti che non sono agli atti del procedimento penale contro la Campanino. Li ha trasmessi alla Procura? In una delle tre relazione  del 2009  si parlava delle intimidazioni messe in atto, dall'avvocatessa tutrice, nei confronti di un bancario ex allievo della prof.ssa Borgna. Si parlava di rendiconti completamente falsi inviati dall'ex tutore della Borgna al Giudice Marisa Gallo, dove si certificava il pagamento di contributi previdenziali in favore della Campanino mai versati. La Campanino lavorava "in nero". E non faceva le pulizie, veniva definita "infermiera", nei rendiconti, nonostante abbia come titolo di studio la terza elementare. Non è un reato l'omesso versamento di contributi? E il falso ideologico esiste ancora? Ma l'ordine del Piemonte non si è accontentato di sospendermi con il provvedimento notificatomi il 15/06/2010. Una settimana dopo la notifica della sospensione dalla professione per un anno mi arriva la notifica di un secondo procedimento disciplinare, sempre per lo stesso caso,  la cui "udienza" a Torino era fissata per l'11/01/2011. Naturalmente non mi sono nemmeno presentata, ma ho sempre inviato comunicazioni scritte. Bene fanno i Radicali a porre come pressante il problema della violazione dei diritti umani in Italia. Solo in uno Stato profondamente infettato dalla corruzione, dalla burocrazia asfissiante  e dal nazismo può succedere una vicenda come questa. Ma questa lettera è solo l'inizio perché attraverso la rete renderò pubbliche tutte le intimidazioni che ho subito dall'ordine del Piemonte durante e prima del procedimento disciplinare, compresa quella "convocazione" del 2007 in cui la signora Barbara Solvetti, allora come oggi presidentessa, mi "consigliò" di svolgere le mie funzioni contro la malagiustizia fuori dall'ordine. Grazie per l'attenzione. Luigia Padalino».

PIEMONTE…VERGOGNA. SI FA MA NON SI DICE.

Piemonte: la vendemmia della vergogna. Centinaia di immigrati dall'Est. Impiegati nella raccolta dell'uva. Anche al Nord, come a Rosarno: vivono in baraccopoli alle periferie dei paesi, in condizioni igieniche precarie, senza tutele. Per produrre a basso costo anche i vini prestigiosi. I controlli stanno aumentando. Ma non abbastanza per fermare la richiesta di schiavi, scrive Antonello Mangano su “L’Espresso”. La vendemmia in Piemonte era la festa della comunità. Un momento tradizionale in cui erano coinvolti interi paesi. Oggi invece l’eccellenza del made in Italy si produce in baraccopoli dove i cartoni sono usati come letti e gli unici bagni a disposizione sono quelli chimici. Ogni anno aumentano i bulgari accampati per la raccolta dell'uva. Da tempo i macedoni hanno sostituito gli italiani per i lavori di fatica nella produzione di vini di prestigio: un «esercito di riserva» composto da braccianti dell’Est che vivono in condizioni disumane. Le stesse delle campagne del Sud più volte denunciate da "l'Espresso". «Sicuramente c’è dietro il caporalato», denuncia Marco Gabusi, sindaco di Canelli, comune in provincia di Asti: «Arrivano almeno 500 persone, una parte si accampa a cielo aperto. Non sono ospitati da nessuno, e vengono pagati 4 euro l’ora. Con le forze dell’ordine abbiamo scoperto una decina di aziende che usano lavoratori in nero. Li prendono la mattina e li riportano la sera. Chi fa le cose in regola deve pagare anche le visite mediche, spende almeno 200 euro più subito e 10 euro l’ora lordi poi. Alcune piccole aziende vogliono invece risparmiare. Ma il fenomeno è ancora limitato». «Nei paesi della vendemmia sta diventando una consuetudine», spiega Alberto Mossino dell’associazione "Piam", uno tra i primi attivisti astigiani a denunciare la situazione: «Solo che erano piccolissimi numeri, poche persone che dormivano in piazza, in macchina o al massimo su una panchina. Le novità di quest'anno sono due: la presenza di una struttura stabile, ovvero una baraccopoli per un centinaio di persone. E il fatto che il piccolo paese di Canelli sia diventato un hub per i braccianti di tutto il circondario. Il sindaco ha deciso così di toglierli dalla piazza e spostarli nell’area industriale. L’intervento di accoglienza si è concretizzato in 24 posti alla Caritas, subito riempiti. Il Comune ha offerto una doccia con l’acqua fredda e due bagni chimici. Il punto è che chi incassa diecimila euro all'ettaro grazie al moscato può anche spendere qualcosa di più per ospitare i vendemmiatori». In queste zone si producono infatti vini dai nomi prestigiosi: Asti Spumante, Moscato, Barbera, Dolcetto. «Da Nord a Sud si sta uniformando la richiesta di lavoro non specializzato e sottopagato», spiega Giancarlo Gariglio, curatore della guida Slow Wine: «Si chiede manodopera straniera per un tempo molto limitato, che andrebbe gestita in maniera intelligente. Nei vigneti piemontesi, però, i controlli sono molto forti, addirittura con gli elicotteri». Il sindaco ha una soluzione originale. Italianizzare il lavoro. «Per ogni cittadino di Canelli assunto da una cooperativa o da un’azienda agricola, abbiamo riconosciuto 160 euro di contributo per almeno 10 giorni di lavoro», spiega Gabusi: «Venticinque disoccupati del posto hanno fatto la vendemmia. La gente non ha aderito in massa perché i tassi di disoccupazione sono ancora bassi. Vorremmo un’emigrazione da 30 chilometri anziché da mille. Con l’ordine pubblico e con gli incentivi metteremo fine a questo fenomeno». La vicenda della baraccopoli di Canelli ha richiamato l’attenzione internazionale. La Confederation Paysanne , importante organizzazione dei piccoli produttori francesi, ha avviato una ricerca sullo sfruttamento agricolo in Piemonte. I risultati, di quest'anno, sono sconcertanti: la vendemmia è in mano a cooperative di macedoni che svolgono intermediazione di manodopera, un tempo strettamente regolamentata ma fortemente facilitata dal 2003. Lo strumento dei “soci lavoratori” garantisce un’ampia flessibilità nel lavoro a giornata. Formalmente non è caporalato, ma i risultati sono gli stessi: salari reali sempre più bassi. I braccianti bulgari sono l’ultimo anello della catena, veri riservisti della vendemmia. È nato persino un giro di passaporti, perché i bulgari sono comunitari e l’ingaggio è più semplice. Spesso è tutto legale. La Bulgaria riconosce la  cittadinanza ai macedoni che dimostrano le loro radici bulgare. Così molte persone ottengono un passaporto dell’Unione. «Ho fatto la raccolta delle castagne a Bari, le patate a Creta e la vendemmia in Piemonte», racconta Marko, bulgaro di 55 anni. «In Grecia si guadagnano 35 euro al giorno, in Piemonte anche 60. Ma la maggior parte dei giorni sono pagati in nero». «La cooperativa che lavora a regola d’arte costa un po’ di più del singolo bracciante, 13 euro l’ora», dice il sindaco Gabusi: «Ma elimina le pastoie burocratiche, ti manda gente che lavora e in due giorni hai fatto la vendemmia». «A Canelli il 10 per cento della popolazione è macedone», ci spiega Julie Rouan, ricercatrice per la Confederation: «E ci sono circa quindici cooperative di questo tipo, quasi tutte gestite da macedoni, tre delle quali sono conosciute e permanenti. Altre, più dubbie, aprono e chiudono d’un anno all’altro. Nessuno è capace di ricordare il loro nome. Alcune sono gusci vuoti creati per fatturare al più basso il prezzo del lavoro. Non risultano quasi mai d’iniziativa collettiva, ma solo della volontà di un imprenditore». L’agricoltore non è più il datore di lavoro, ma il cliente della cooperativa. Chiede una prestazione e riceve una fattura. «In teoria», spiega ancora Rouan: «per non essere colpevoli del reato di intermediazione illecita di manodopera, le cooperative devono fornire tutti i mezzi di produzione ed essere presenti sul terreno. Difficile quando una cooperativa di 120 soci fornisce più di 30 clienti diversi. A volte con un solo lavoratore sul posto per ogni cliente». Come un virus lo sfruttamento nelle campagne italiane si estende da Sud a Nord. Da anni a Saluzzo, nel distretto agricolo di Cuneo, si crea una baraccopoli nello spiazzo del Foro Boario, la fiera del bestiame che a settembre mette in passerella le migliori vacche frisone della zona. A pochi metri di distanza centinaia di braccianti africani dormono in casupole di cartone, in fredde tende del Ministero dell’Interno o – i più fortunati – in pochi container pagati dalla locale Coldiretti. Il tema del lavoro schiavile in agricoltura è del tutto assente nel nostro dibattito pubblico. Non così in Europa. Un’inchiesta in prima serata di France 2, “Il raccolto della vergogna” , ha suscitato un ampio dibattito tra i consumatori transalpini. I giornalisti hanno ripercorso la filiera di una confezione di broccoli dal bancone di un supermercato parigino all’azienda pugliese che faceva ricorso al caporalato. Der Spiegel e The Ecologist propongono all’opinione pubblica tedesca e inglese servizi periodici sulle drammatiche condizioni dei lavoratori impegnati stranieri nelle nostre campagne. Il rischio di compromettere l’immagine dell’agroalimentare Made in Italy è serio. Tutti discutono dell’agricoltura italiana. Tranne gli italiani.

Piemonte, scandalo fondi regionali: 4 condannati, 24 a processo, 14 patteggiano. Tra le altre decisioni del gup la pena di un anno e 8 mesi per l'ex presidente del consiglio regionale Cattaneo che aveva chiesto il rito abbreviato. Il dibattimento per gli altri inizierà il 21 ottobre: a giudizio ci sarà anche l'ex governatore Cota, scrive Andrea Giambartolomei su “Il Fatto Quotidiano”. Quattro condanne, 14 patteggiamenti e 24 rinvii a giudizio nel processo per la “Rimborsopoli” in Piemonte. Il gup di Torino Roberto Ruscello ha accolto le richieste dei pm Giancarlo Avenati Bassi ed Enrica Gabetta e ha condannato tre ex consiglieri regionali e un imprenditore-politico che avevano scelto il rito abbreviato. Sono l’ex presidente del Consiglio regionale Valerio Cattaneo (un anno e otto mesi), Carla Spagnolo (un anno, otto mesi e venti giorni), Roberto Boniperti (due anni e sei mesi) e Gabriele Moretti, ex consigliere comunale di Torino della lista dei Moderati a capo della società Contacta (tre anni di pena), tutti interdetti per la durata della pena. Cattaneo nel 2012, intervistato da ilfattoquotidiano.it, aveva escluso che ci fosse un “caso Piemonte”. Il gup ha pure accolto le richieste di patteggiamento formulate dai difensori di 14 consiglieri in accordo con la procura. Un anno per Michele Marinello, Francesco Toselli, Giovanna Quaglia ed Elena Maccanti; un anno e un mese per Marco Botta e Cristiano Bussola; un anno e tre mesi per Gianfranco Novero e Tullio Ponso; un anno e quattro mesi per Maurizio Lupi dei Verdi Verdi (lui sarà processato pure per una truffa in concorso con la figlia), Franco Maria Botta, Antonello Angeleri e Andrea Buquicchio; un anno e sei mesi per Luca Pedrale e Mario Carossa. Tutti gli altri invece sono stati rinviati a giudizio e per loro il processo comincerà il 21 ottobre, quando tra i banchi ritroveranno l’ex governatore leghista Roberto Cota, accusato di peculato per aver ottenuto pure i rimborsi illeciti, tra cui quello per le “mutande verdi” (dei bermuda color kiwi acquistati durante un viaggio negli Stati Uniti). A processo erano finite 41 persone accusate di peculato e, in alcuni casi, truffa. Tutti avrebbero percepito rimborsi illeciti dal maggio 2010 al settembre 2012, momento in cui sono cominciate le indagini della procura e della guardia di finanza dopo la segnalazione del consigliere M5S Davide Bono e dopo le dichiarazioni dell’ex vicepresidente della giunta Roberto Rosso(Pdl) a un tv privata lombarda. A giudizio sono finiti Angiolino Mastrullo, Augusta Montaruli, Lorenzo Leardi, Rosanna Valle, Massimiliano Motta, Roberto Tentoni, Angelo Burzi, Michele Formagnana, Girolamo La Rocca, Daniele Cantore, Alberto Cortopassi e Rosa Anna Costa (tutti del Pdl, poi confluiti nei gruppi di Fi, Ncd, Fdi, Progett’Azione); Massimo Giordano, Roberto De Magistris, Federico Gregorio, Riccardo Molinari e Paolo Tiramani (Lega Nord); Michele Giovine (Pensionati per Cota), Michele Dell’Utri (Moderati); Luigi Cursio (Idv); Giovanni Negro (Udc); Andrea Stara (Insieme per Bresso); Maurizio Lupi (Verdi Verdi, che ha patteggiato la pena per peculato ma è stato rinviato a giudizio per truffa). Rinviata a giudizio anche la figlia del consigliere Maurizio Lupi, Sara, collaboratrice del gruppo dei Verdi Verdi. I finanzieri acquisirono la documentazione negli uffici dei gruppi consiliari e dopo una verifica basata sugli scontrini raccolti, sulle testimonianze e sui tabulati telefonici che registravano gli spostamenti dei politici, hanno definito un quadro. Inizialmente gli indagati erano 52, ma per alcuni di loro i pm Avenati Bassi e Gabetta hanno chiesto l’archiviazione, che deve ancora essere valutata dal gup. La procura nel frattempo aveva pure aperto un’indagine sui rimborsi ricevuti dai consiglieri della legislatura del periodo 2005-2010, un’indagine che ora è ferma: al termine della prima inchiesta il finanziere che più di tutti aveva coordinato le attività e gli accertamenti, il capitano Francesco Maria Mangano, è stato promosso al gruppo Grandi verifiche fiscali. La decisione dei vertici delle Fiamme gialle non è piaciuta alla procura torinese, privata della figura che ha seguito fin dall’inizio i risvolti delle indagini. Fermi i controlli pure dal punto di vista contabile. Le sezioni unite della Corte dei conti e la Cassazione hanno bloccato la sezione regionale di controllo dalle verifiche sui rimborsi del 2012 e degli anni precedenti: “Il sindacato della stessa Corte dei Conti non ha potere discrezionale e non può entrare nelle scelte discrezionali dei gruppi”, scrivono i magistrati precisando che le valutazioni possono essere basate solamente sui documenti.

PIEMONTE. GIUNTA REGIONALE ABUSIVA.

Piemonte: l'accusatrice di Cota indagata per firme false. Luigina Staunovo Polacco, la "paladina della legalità" sotto accusa per firme false per la sua lista a favore della Bresso, scrive Claudia Daconto su “Panorama”. Da anni si presenta come il simbolo della legalità, la paladina della giustizia. Per questo non ha esitato ad attaccare ed accusare il Governatore del Piemonte Roberto Cota per le presunte irregolarità nella presentazione delle liste. Peccato che anche lei avrebbe barato. Luigina Staunovo Polacco, presidente della lista Invalidi e Pensionati per Bresso, andrà a processo il 19 giugno 2014 con l'accusa di aver presentato “scientemente e consapevolmente, le candidature per le elezioni regionali del 2010 avvalendosi di firme false”. Si tratta della stessa persona che all'epoca dell'elezione del governatore del Piemonte Roberto Cota, aveva fatto ricorso al Tar contro la lista di Michele Giovine, “Pensionati per Cota”, accusandola del medesimo reato. Qualche giorno fa, quattro anni dopo le votazioni, Il Tar ha accolto il ricorso e annullato le elezioni regionali del 2010. Una decisione contro la quale il leghista Cota, indagato per le spese pazze in Regione, ha già presentato appello al Consiglio di Stato. "Ci mancava poco che si impiccasse il Presidente in carica in Piazza Castello - commenta con Panorama.it l'avvocato di Roberto Cota, Domenico Aiello - e invece, a sorpresa, colei che sino a ieri si é stracciata le vesti rappresentandosi come vittima di ingiustizie e nefandezze si scopre esser sempre stata ideatrice e beneficiaria di condotte illecite al pari se non peggiori di quelle attribuite alla controparte politica. Eppure gli Zar non sono mai stati farisei! Mi chiedo se sia chiaro con quanta disinvoltura, capacità criminale e mancanza di pudore sia stata violentata l'opinione pubblica. Il noto sistema delle due velocità di giudizio, pregiudica certamente e irrimediabilmente la parte politica che lo subisce, ma alla fine rafforza il senso di sconforto e di sfiducia del cittadino nei confronti della Giustizia Italiana. Ma sono certo che di questo fallimento oramai conclamato, silente dagli effetti disastrosi per la democrazia, non vi sarà traccia in alcuna delle prossime relazioni di inaugurazione dell'anno giudiziario". Quando si dice, insomma, che “chi di ricorso ferisce di ricorso perisce”. La signora, che sul sito del suo partito, aggiornato l'ultima volta nel 2008 per mettere in guardia dagli “inganni” del concorrente Carlo Fatuzzo del Partito Pensionati e che non risulta raggiungibile al numero di telefono in quanto inesistente, si mostra in una foto in bianco e nero di almeno 50 anni fa, attacca: “E' chiaramente una vendetta. Non ho mai fatto uso di firme false – e allontana da sé ogni responsabilità - Soprattutto, non sono stata io a presentarle ma Andrea Buquicchio, dell’Italia dei valori, tramite i suoi delegati. Non era mai successo che finisse in giudizio il presidente di un partito per autenticazioni fatte da altri”. Eppure già in passato un altro esponente del suo partito, Marco Di Silvestro, era stato imputato per violazione delle leggi vigenti in materia elettorale e nel novembre del 2012 aveva patteggiato l'accusa riconoscendo, di fatto, di aver falsamente autenticato l'accettazione della candidatura di 13 esponenti delle liste Pensionati e invalidi per Bresso alle regionali del Piemonte e alle comunali di Moncalieri nel 2010. "La cosa drammatica - aggiunge l'avvocato Aiello - è che fino all'ultimo l' accusa "amica" ha perseverato nel tentare di rinunciare all'esercizio dell'azione penale ed è solo grazie ad un Giudice terzo che la Procura di Torino dovrà sostenere l'accusa nei confronti della vera grande truffa perpetrata contro il voto dei cittadini piemontesi espropriati di ogni certezza". Prima che il gup decidesse per il suo rinvio a giudizio, per Luigina Staunovo Polacco la pm Patrizia Caputo aveva infatti chiesto aveva chiesto il proscioglimento. Adesso Contro di lei si è costituito parte civile Michele Giovine, dei Pensionati per Cota, e tutti i gruppi della maggioranza di centrodestra. Tra questi Fratelli d'Italia il cui capogruppo in Regione, Franco Maria Botta, attacca: "La sua lista patacca a sostegno di Bresso è l'unico vero scandalo delle elezioni 2010 perchè chi ha puntato il dito contro il centrodestra era l'artefice di un inganno senza precedenti"; il collega Agostino Ghiglia invita Mercedes Bresso a non fare "la moralista a targhe alterne" e a dimettersi da consigliera mentre il responsabile Enti Locali del Piemonte di Forza Italia, Osvaldo Napoli, esorta ad accendere  "i riflettori sulla figura straordinaria di quella Giovanna d'Arco del moralismo piemontese che e' l'ex presidente Bresso".

10 gennaio 2014. Tutti a casa. La profezia impressa su uno striscione appeso da mesi sul muro di fronte al Consiglio regionale piemontese si sta per avverare, scrive Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera. La decisione con la quale il Tar accoglie il ricorso presentato dall’ex governatore Mercedes Bresso «per il suo effetto annulla la proclamazione degli eletti», così si legge nel provvedimento. Le elezioni regionali della primavera del 2010, con il trionfo a sorpresa di Roberto Cota su Bresso, la zarina del Pd, è come se non ci fossero mai state. Fine di una controversia che si trascina dai mesi seguenti il risultato di quella consultazione, una specie di spada di Damocle che di fatto in questi anni ha paralizzato vita e attività del Consiglio regionale. Bresso era stata sconfitta con soli 9.372 voti di scarto. Tra quelli raccolti dallo schieramento di Cota c’erano le 27.797 preferenze ottenute dai “Pensionati per Cota” di Michele Giovine. Una lista che si rivelò costituita con firme false, addirittura candidando persone a loro insaputa, come stabilito da una inchiesta della magistratura. Nell’estate del 2010 il Tar aveva rimandato tutto all’esito definitivo della giustizia penale. Il 14 novembre 2013 la Cassazione ha confermato la condanna di Giovine a due anni e 8 mesi. La sentenza di oggi del Tar non è definitiva, per il centrodestra è ancora possibile un appello al Consiglio di Stato. Ma nel corso della estenuante querelle giudiziaria è stato proprio quest’ultimo organo a stabilire la titolarità a decidere del Tar dopo gli esiti del processo penale. Molto probabile, quindi, il voto a primavera, con scioglimento anticipato di un consiglio regionale e di una maggioranza già fiaccata dall’inchiesta sui rimborsi elettorali, che vede indagati tutti e 43 i consiglieri regionali del centrodestra, compreso Cota. Nel centrosinistra il candidato c’è già, seppur manchi ancora la conferma ufficiale. E’ Sergio Chiamparino, considerato da tutti, renziani e non, come una carta sicura. Nel centrodestra piemontese, dopo questa ennesima mazzata, sta per cominciare la resa dei conti.

Tutto da rifare. Il Tar del Piemonte ha accolto «il ricorso principale» promosso da Mercedes Bresso contro il risultato delle elezioni regionali del 2010, scrivono Marco Letizia ed Elisa Sola su “Il Corriere della Sera”. Ricorso che era dovuto allo scandalo legato alla scoperta di firme false per la presentazione della Lista dei Pensionati per Cota di Michele Giovine, poi condannato in via definitiva a 2 anni e 8 mesi di carcere. Secondo quanto si ricava da una prima lettura del dispositivo è necessario tornare al voto. L’annullamento della proclamazione degli eletti porta infatti alla decadenza della Giunta regionale e, quindi, alla sospensione di tutta l’attività in corso. È quanto trapela da esponenti della stessa Giunta regionale . Contro la sentenza è in ogni caso possibile fare ricorso al Consiglio di Stato e Cota ha dichiarato che è pronto a presentarlo. «Con la pronuncia del Tar di oggi ha dimostrato che le elezioni del Tar del 2010 erano truccate - è stato il primo commento di Mercedes Bresso,ex presidente della giunta regionale e battuta per poche migliaia di voti dal leghista Roberto Cota - . Per me è una vittoria. Ora la giunta Cota non esiste più Ora si rivada al voto, credo che sia possibile votare tra poche settimane, nel famoso election day fissato per le europee». Come detto, la sentenza arriva al termina di una lunga procedura giudiziaria che ha visto annullare i voti (circa 27.000) verso un lista pensionati legata all’attuale governatore, il leghista Roberto Cota. La Lista dei Pensionati per Cota aveva infatti falsificato le firme per presentare la lista oltre a candidare persone inesistenti. Avendo la candidata del centrosinistra Mercedes Bresso perso le elezioni per circa 9000 voti, la sentenza del Tar porta quindi all’annullamento delle elezioni del 2010. Si potrebbe ritornare al voto già in primavera. «Seppure in ritardo è stata fatta giustizia - ha detto ancora Mercedes Bresso . La sentenza è immediatamente esecutiva, anche se ci sarà il ricorso, riusciremo a andare al voto insieme alle amministrative e alle europee. Sono contenta soprattutto per il Piemonte, perché gira pagina. Non ho tuttavia intenzione in questo clima politico di ricandidarmi alle prossime regionali ,in questo senso ho già dato. La mia ambizione è di ritornare al Parlamento europeo- In ogni caso deciderà il Pd». Con ogni probabilità, in caso di nuove elezioni in primavera, il centrosinistra presenterà come candidato, l’ex sindaco di Torino e attuale presidente della compagnia di san Paolo Sergio Chiamparino, molto vicino al l’attuale segretario del Pd, Matteo Renzi. «Se nei prossimi mesi si andrà al voto anticipato per la Regione Piemonte vi sarà la mia disponibilità a una eventuale candidatura alla Presidenza della medesima che, naturalmente, non dipenderà solo da me». ha subito dichiarato Chiamparino. Del resto se Sergio Chiamparino vorrà candidarsi a presidente della regione, potrà farlo da uomo libero da procedimenti penali in corso. L’attuale presidente della Compagnia di San Paolo era stato indagato dalla procura di Torino con altri dirigenti del Comune, che ha guidato fino al 2011, per la mala gestione dei locali dei Murazzi del Po, centro della movida torinese. Oggi il sostituto procuratore Andrea Padalino ha chiuso l’indagine, notificando la chiusura ad alcune persone ma non a Chiamparino. L’ex sindaco di Torino non figura quindi più tra gli indagati.

COTA - «La sentenza è una vergogna» ha dichiarato Cota, già scosso da altri avvenimenti giudiziari. La sentenza arriva infatti dopo il suo coinvolgimento come indagato, nell’inchiesta sui rimborsi alla regione Piemonte. Cota ha poi dichiarato che in attesa della risposta del Consiglio di Stato andrà avanti come prima. Un atteggiamento bollato dalla Bresso come «irresponsabile».

SALVINI - Non fa una piega invece il neosegretario della Lega Matteo Salvini che su Facebook scrive: «Giudici e sinistra, anche quando perdono, riescono a vincere. Un attacco alla democrazia, ecco di cosa si tratta. Altro che mutande! Forse a qualcuno hanno dato fastidio i 30 milioni di risparmio secco, all’anno, dei costi della politica in Regione. Forza Piemont, forza Lega, continuiamo a lavorare».

RADICALI - Particolarmente soddisfatti della sentenza i Radicali, che però precisano: «In questo momento di gioia non possiamo, però, tacere di una grave inadempienza del Consiglio Regionale del Piemonte: a un mese dalla sentenza di Cassazione (14 dicembre 2013) che ha condannato in via definitiva Michele Giovine, - aggiungono i Radicali piemontesi - questi non è ancora stato dichiarato decaduto da consigliere regionale; dal dicembre 2012, da oltre un anno, Giovine è stato sospeso e percepisce metà indennità di consigliere e la sua compagna di partito Sara Franchino, divenuta consigliere al suo posto, percepisce l’indennità intera».

LETTA - Sulla questione è intervenuto anche il premier Enrico Letta: «Non commento mai le sentenze, ci saranno le conseguenze del caso, si andrà al voto. Certo, tre anni e mezzo sono un tempo assolutamente incredibile e penso che tutti si debba riflettere su questo. Forse bisogna riguardare alcune di quelle norme».

La vicenda giudiziaria dei ricorsi elettorali in Piemonte è iniziata nel 2010, dopo il voto regionale che ha portato il leghista Roberto Cota ad occupare la poltrona di governatore, scrive Elisa Sola su “Il Corriere della Sera”. La differenza dei voti tra i due candidati presidenti – Cota e la presidente allora uscente Mercedes Bresso, del Pd - era di 9.157 voti, pari a uno scarto dello 0,4%. Bresso e altre liste di centrosinistra, i Verdi, i Radicali e i Pensionati per Bresso, avevano depositato ricorso contro la vittoria del leghista per «irregolarità amministrative». Il primo livello giudiziario della querelle si è svolto quindi al Tribunale amministrativo regionale. La prima sentenza espressa è del luglio 2010: il giudice aveva rinviato alla giustizia ordinaria civile la questione più rilevante di tutta la complessa questione amministrativa, almeno dal punto di vista dei voti raccolti, quella della Lista dei Pensionati per Cota di Michele Giovine. Giovine aveva raccolto alle scorse regionali ben 27mila voti, determinanti per la vittoria di Cota. Secondo Bresso i suoi voti erano stati raccolti con firme false, inficiando la regolarità dell’esito delle regionali. Contemporaneamente il Tar aveva disposto un’operazione di verifica delle schede elettorali, alla luce degli atti «demolitori», cioè quelli in grado di produrre effetti sull’esito del voto individuati dalla sentenza. Nel corso del secondo grado di giudizio amministrativo, presso il Consiglio di Stato, i magistrati avevano bloccato le operazioni di verifica sulle schede elettorali e in via incidentale avevano sollevato il dubbio di costituzionalità sulla sentenza espressa precedentemente dal Tar, perché nel rinviare alla giustizia ordinaria civile la verifica dei falsi commessi dalla Lista Pensionati per Cota non verrebbe rispettato il principio della Costituzione italiana della «ragionevole durata del processo». Il 4 ottobre 2011 la Corte Costituzionale ha respinto il rilievo sollevato dal Consiglio di Stato lasciando quindi il processo sulla Lista Pensionati per Cota alla giustizia civile ordinaria. Parallelamente è iniziato anche un processo penale contro Michele Giovine che si è concluso in Cassazione con la sua condanna a due anni e otto mesi. Dopo quest’ultima sentenza i legali di Bresso hanno presentato al Tar del Piemonte un’istanza di riapertura del processo, fino ad allora sospeso in attesa della sentenza della Cassazione.

Cota a casa, ma quattro anni per scoprirlo sono troppi, scrive Davide Ricca su huffingtonpost.it. Solo quattro anni. Ci sono voluti solo quattro anni per sapere che in Piemonte le elezioni del 2010 sono state irregolari, che il Presidente non doveva essere Roberto Cota, che le elezioni vanno rifatte. In questi quattro anni l'Italia ed il Piemonte in particolare, la mia Regione, hanno subito la crisi economica ed industriale più pesante che si sia mai vista. Siamo piombati nel baratro e stiamo provando a venirne fuori. Il numero più alto di ore di cassa integrazione ordinaria e straordinaria di tutto il Paese, la crisi nazionale eppure molto "torinese" del settore automotive e del suo indotto, la crisi del tessile, la crisi del settore orafo, la ricerca di nuove vocazioni tra cui il turismo, le difficoltà dei Comuni e delle amministrazioni locali, (basti pensare ai semi-default del Comune di Alessandria e della Provincia di Biella), la partenza dei lavori della TAV. Insomma è successo di tutto. Sarebbe semplice oggi attaccare il centrodestra, invece sono semplicemente allibito e basito. Come facciamo a dare certezze a chi vuole investire in Italia, ai nostri figli, a chi prova a fidarsi del nostro Paese se ci mettiamo quattro anni per dire che è tutto da rifare. Quale legittimità e autorevolezza ha il nostro intero sistema istituzionale? Quale certezza del diritto? Le scelte fatte dalla Regione: la riprogrammazione dei Piani Operativi dell'ultimo sestennio, la contrattazione sulla nuova Programmazione Comunitaria, il nuovo Piano Sanitario, il nuovo Piano dei Trasporti. Mamma mia. Si riparte da capo? Si deve lavorare in continuità? Chi ha un'azienda, e io tra essi, chi vive in Piemonte, non può che sentirsi disorientato e, a dirla tutta, abbandonato. Mi spiace, ma questa volta le mutande di Cota, i rimborsi dei Consiglieri Regionali (tra l'altro pare che adesso si torni indietro a verificare anche quelli della scorsa legislatura), non c'entrano nulla. Questa volta c'entra solo la lentezza pachidermica dello Stato. Quella denunciata da chi sta provando a cambiare verso all'Italia da un po' di tempo a questa parte. E' illegittima la Giunta Regionale? E' illegittimo il Consiglio Regionale, come sono illegittimi i parlamentari eletti con il porcellum (quanto abbiamo dovuto aspettare anche in questo caso il pronunciamento della Corte Costituzionale e ancora non abbiamo le motivazioni)? No! Credo sia non legittimo sopportare ancora questo "stato dello Stato".

I tempi di un paese poco normale, scrive Luigi La Spina su “La Stampa”. C’è un Paese, nel civile e democratico occidente, in cui l’organo dello Stato più importante, quello che rappresenta la volontà popolare, il Parlamento, è composto, da quasi un anno, da senatori e deputati eletti con una legge contraria alla Costituzione. Nello stesso Paese, una delle più grandi regioni del nord, il Piemonte, è governata, da quasi quattro anni, da un presidente e da una giunta eletti illegittimamente. Questo Paese è l’Italia. La decisione con la quale il tribunale amministrativo piemontese, ieri, ha dichiarato nulle le elezioni che, nella primavera 2010, avevano deciso, per poche migliaia di voti, la vittoria dello sfidante leghista, Roberto Cota, sull’ex presidente Mercedes Bresso, ricandidata dal centrosinistra, non è certo sorprendente nel merito della questione. Dopo l’accertamento della falsità di alcune firme su una lista d’appoggio al candidato di centrodestra, la sentenza era prevedibile. Ma il verdetto è sconvolgente perché arriva quasi alla fine di una legislatura regionale e, per di più, non è ancora definitivo, dal momento che il ricorso dei perdenti al Consiglio di Stato sicuramente allungherà ancora questi tempi infiniti, con il rischio pure di un annullamento del giudizio del Tar. Si può ancora definire «normale» un Paese nel quale ci vogliono quattro anni per verificare la regolarità di una elezione importante, come quella per una Regione? Si può ammettere che per quasi un’intera legislatura il presidente del Piemonte e la sua giunta abbiano esercitato un potere illegittimo, abbiano emanato leggi illegittime, abbiano deciso nomine illegittime? L’Italia ha dimostrato di sopravvivere, con il sacrificio dei suoi cittadini, a una crisi economica devastante per molte famiglie. Come può sopravvivere l’immagine di questo Paese quando le sue istituzioni sono esposte al rischio peggiore, quello del ridicolo? Come si può pretendere di esigere il rispetto che l’Italia dovrebbe riscuotere all’estero, quando una disputa elettorale non viene decisa nel giro di un mese, come avviene in tutti i Paesi del mondo, ma si trascina fino a quando la soluzione diventa sostanzialmente inutile. Perché la politica, come la vita degli uomini, non si può «resettare» come si dice nei linguaggi informatici. La gravità del caso Piemonte è proprio quella dell’assoluta osservanza di leggi e procedure. Non si possono imputare speciali pigrizie ai giudici amministrativi, né particolari atteggiamenti ostruzionistici agli avvocati delle parti. Tutti hanno compiuto, con scrupolo e competenza professionale, i doveri imposti dal loro ruolo. L’inaccettabile ritardo del verdetto (quasi) definitivo dimostra, in maniera simbolicamente molto efficace, la paralisi in cui l’Italia è sprofondata da almeno vent’anni. Vent’anni perduti in dispute inconcludenti, in cui alla vicende giudiziarie di Berlusconi sono state sacrificate riforme della giustizia indispensabili, quelle che interessano davvero i cittadini. Quelli che aspettano da decenni che si concluda una causa civile, quelli che sono costretti a rinviare o a cancellare investimenti che darebbero preziosa occupazione perché ad ogni passo s’imbattono in ricorsi ostativi dalle parti più disparate, con le pretese più improbabili. Quelli che, in attesa di giudizio e magari innocenti, affollano per anni le carceri, le cui condizioni vergognose ci espongono alle condanne delle corti internazionali. Una classe politica del tutto inadeguata come quella che ci ha governato nella cosiddetta seconda Repubblica ha condannato il nostro Paese all’immobilismo più assoluto. Una nazione in cui le decisioni, anche le più importanti, vengono delegate ai ritmi lenti e tortuosi della giustizia italiana. Così, del tutto regolarmente per carità, la Corte Costituzionale scopre, solo dopo quasi dieci anni, che la legge con la quale si elegge il Parlamento ha portato alla Camera e al Senato illegittimi rappresentanti del cosiddetto popolo sovrano. Così, dopo quattro anni, (forse) si stabilirà che Cota e la sua giunta hanno esercitato in Piemonte un potere abusivo, occupando abusivamente poltrone che sarebbero spettate ad altri.  Non servono agli italiani facili e demagogiche proteste, né ricette miracolistiche e dall’applicazione impossibile, ma una riflessione seria e severa sulle responsabilità collettive in questi anni di sciagurata dilapidazione del patrimonio nazionale non solo economico, ma soprattutto morale e civile. La battaglia di tutti contro tutti, corporazione contro corporazione a colpi di veti reciproci, ha impedito nel nostro Paese il varo di tutte quelle riforme, radicali e urgenti, indispensabili perché l’Italia torni a essere una normale democrazia dell’Occidente. A cominciare da quella sui tempi della giustizia. 

Non solo Cota, i ricorsi sulle firme false fioccano da Nord a Sud di Michela Finizio su “Il Sole 24ore”. I ricorsi per contestare i risultati elettorali non hanno colore o partito politico. Dal Pdl al Pd, passando per la Lega, sono numerosi le inchieste avviate negli ultimi anni sul territorio italiano che mettono – o hanno messo in crisi – i risultati delle urne. Anti-politica o reale corruzione del sistema elettorale, fatto sta che i ricorsi fioccano. E non sono solo i Radicali, che da tempo rappresentano queste battaglie legali, a presentare gli esposti che danno avvio alle indagini. Per ultima, a fine ottobre, è stata assolta perché il fatto non sussiste Monica Perugini, ex segretario di Sinistra Popolare, finita a processo per falso ideologico e falso materiale in relazione al giallo delle firme raccolte per le elezioni amministrative di Mantova nel 2010. In sostanza, secondo il capo d'accusa, la Perugini avrebbe raccolto all'Arci Salardi 25 firme per la candidatura a primo cittadino di Fiorenza Brioni, ex sindaco di Mantova, e di averle poi utilizzate per se stessa a sostegno della propria candidatura. Il processo, trascinatosi per tre anni, era stato avviato in seguito ai primi sospetti del referente della lista antagonista, per la Sinistra Unita a Mantova, Claudio Balestrieri, che aveva trasmesso tutto il materiale in Procura. A Milano, a partire della decisive denunce di Radicali italiani, è ancora in corso il processo per le 700 firme false per le liste Formigoni alle regionali lombarde, nel quale tra gli imputati figura anche Guido Podestà, il presidente Pdl della giunta della Provincia di cui fa parte Silvia Garnero. Anche quest'ultima, la più giovane assessore provinciale d'Italia, 25 anni, è stata indagata a Milano per falso in atto pubblico nell'autenticazione delle firme per i referendum radicali sulla giustizia: nipote della parlamentare Daniela Santanchè, è finita nel mirino per aver autenticato 14 firme (per ciascuno dei 6 referendum) di persone che invece le hanno disconosciute (13 su 14, perché uno sarebbe un morto). Anche se la vicenda Formigoni è stata superata dalla storia, con le elezioni dell'attuale presidente della Lombardia, il governatore Roberto Maroni, i ricorsi però non si sono fermati. Il consigliere provinciale monzese della Lega Nord Giuliano Beretta è stato indagato per falso dalla procura di Monza, con l'accusa di aver falsamente autenticato circa 900 firme raccolte nella circoscrizione Monza e Brianza a sostegno della lista Maroni Presidente alla Regione Lombardia. L'inchiesta era stata avviata dal Pm Franca Macchia in seguito alla denuncia presentata qualche settimana fa dai Radicali. A marzo 2013, inoltre, è stata condannata a un anno e tre mesi, pena sospesa, Erika Faienza, consigliera provinciale Pd di Torino ritenuta responsabile di falso in violazione della legge elettorale. Per l'accusa, sostenuta dal pm Patrizia Caputo, la stessa del più famoso caso Giovine, avrebbe autenticato delle firme per la lista Piemonte Europa Ecologia a sostegno di Piero Fassino, in occasione delle ultime elezioni comunali, senza però essere presente. Assistita dall'avvocato Giampaolo Zancan, Faienza ha sempre negato la circostanza. A ottobre 2013, infine, due ordinanze di custodia cautelare agli arresti domiciliari sono state emesse a Lodi dal gip Alessandra Del Corvo a seguito dell'inchiesta avviata nel gennaio 2012 da Polizia e Carabinieri lodigiani sulla presentazione di false firme di sostegno per la lista La Destra, che faceva capo a Francesco Storace, in vista delle elezioni politiche. Tutto è cominciato quando alcuni rappresentanti de La Destra, veri o falsi ancora non è chiaro, hanno chiesto all'ufficio elettorale del Comune di Lodi il rilascio dei certificati di iscrizione alle liste elettorali di più di 500 cittadini. Gli elenchi dei sottoscrittori della lista guidata da Storace sono però risultati irregolari e perciò l'ufficio elettorale ha inviato una segnalazione alla procura. Nel 2010 ad una firma era rimasto appeso anche il listino collegato alla candidata del centrodestra Renata Polverini, che a pochi giorni dalla consultazione elettorale per le regionali del Lazio la Corte d'Appello aveva fatto saltare per «impedimento burocratico»: al listino, poi riammesso, mancava la firma di uno dei rappresentanti di lista. Dal Lazio alla Lombardia il caos sulle consultazioni elettorali non è mai arrivato all'annullamento dei risultati, come è accaduto per le regionali del Piemonte. In corso, archiviate oppure concluse con condanne ad esponenti non rilievo o esterni alla politica, spesso le battaglie legali sono state avviate tramite i ricorsi dei Radicali. Fatto sta che ora l'esito dell'inchiesta sulle elezioni regionali in Piemonte oggi fanno riflettere sul sistema di raccolta delle firme per i listini elettorali: in un clima che sempre più spesso cavalca l'antipolitica e la sfiducia nelle istituzioni, le tante inchieste avviate sul territorio mettono in crisi l'intero assetto istituzionale.

Benvenuti in Piemonte, provincia de Il Cairo, scrive Lanfranco Palazzolo su “Tempi”. L'annullamento da parte del Tar delle elezioni regionali del 2010 non ha sorpreso nessuno. Per la semplice ragione che in passato si è arrivati ad epiloghi del genere ricorrendo alla magistratura. E non solo in Italia. Per trovare un precedente internazionale non è necessario andare troppo lontano. Il 6 marzo scorso il Tribunale amministrativo de Il Cairo aveva annullato le elezioni politiche prima del loro svolgimento previsto per il successivo 22 aprile con questa motivazione: la Corte costituzionale deve valutare la compatibilità della nuova legge elettorale prima che gli elettori si rechino alle urne. Da noi succede esattamente il contrario. Questo annullamento «piemontese» è l'esordio delle cancellazioni delle consultazioni elettorali al Nord. Prima di questa circostanza erano rimasti coinvolti nella black-list la Regione Molise, il Comune di Messina e la Regione Abruzzo. Il primo precedente in questo genere di pronunciamenti è stato quello del Tar del Molise che il primo marzo del 2001 annuncia la cancellazione delle elezioni dell'anno prima, vinte dal centrosinistra per poche decine di voti, a causa delle numerose irregolarità presentare da Rifondazione comunista e dai Verdi sulle liste. La decisione manda in tilt tutto l'apparato amministrativo della Regione perché nessuno è in grado di dire chi avrebbe dovuto sostituire la giunta di centrosinistra guidata da Giovanni Di Stasi. Il Presidente della Regione chiama Palazzo Chigi e riceve l'assicurazione che la Giunta può restare in carica per il disbrigo degli affari correnti. Il 18 giugno 2001 il Consiglio di Stato conferma l'annullamento delle elezioni. L'anno dopo, il 9 gennaio del 2002, entra in scena il Tar dell'Abruzzo che annulla le elezioni regionali del 2000 perché si scopre che l'assessore alla Sanità Rocco Salini è stato eletto con una condanna passata in giudicato. Salini viene eletto con 12 mila preferenze, mentre il centrodestra vince la partita delle regionali per appena 3000 voti. Ma il Consiglio di Stato annulla il precedente pronunciamento il 19 febbraio 2002. Il Consiglio regionale di Pescara viene reintegrato fino al giudizio di merito che dà ragione alla Giunta in carica. Il centrodestra abruzzese si salva in calcio d'angolo. Ma non è finita qui. Il 3 ottobre 2007 ci pensa il Consiglio di giustizia amministrativa siciliano ad annullare il voto per il Comune di Messina. Stavolta la sventura tocca alla Giunta di sinistra guidata da Francantonio Genovese. A far cadere la giunta comunale è il Nuovo Psi di Gianni De Michelis. È Bobo Craxi a presentare il ricorso per far riammettere la sua lista alla competizione elettorale dopo l'esclusione delle elezioni comunali del 2005, quando il Tar della Regione Sicilia aveva respinto la sua richiesta. La sequenza degli annullamenti torna a colpire nuovamente il Molise nel 2012. Stavolta è prima il Tar della regione, il 17 maggio 2012, e poi il Consiglio di Stato, il 29 ottobre dello stesso anno, ad annullare il voto delle elezioni regionali del 2011, vinte dal candidato del centrodestra Michele Iorio. Ma il caso più incredibile è accaduto a Catanzaro tra il 2012 e il 2013. In questa circostanza, il 22 novembre 2012, il Tar della Calabria annulla il risultato di 8 sezioni per le elezioni amministrative svoltesi nel giugno 2012. Il pronunciamento rimette in discussione la Giunta di centrodestra guidata da Sergio Abramo. Anche in questo caso lo scarto tra il vincitore e lo sconfitto, il candidato del centrosinistra Salvatore Scalzo, è di appena 130 voti. Si torna a votare il 21 gennaio 2013. Alle elezioni comunali vengono chiamati a presiedere queste 8 sezioni altrettanti magistrati. Al termine delle operazioni di scrutinio, computando i voti validi delle elezioni del precedente giugno, Sergio Abramo risulta il vincitore al primo turno ottenendo in totale 28.833 voti pari al 50.6% contro i 24.219 pari al 42,5% dello sfidante di centrosinistra. Adesso, con l'annullamento delle elezioni al Nord, in Piemonte, l'Italia è unita davvero.

RIMBORSOPOLI. POLITICI PIEMONTESI: ABUSIVI E DANNOSI?

Rimborsopoli, indagine chiusa. Cota e 43 consiglieri “avvisati”. Peculato, truffa, rimborso illecito ai partiti sono le accuse, ma con responsabilità e coinvolgimenti diversi, scrivono Marco Accossato, Paola Italiano; Massimiliano Peggio ed Andrea Rissi su “La Stampa”. Peculato, truffa, rimborso illecito ai partiti: sono le accuse - con responsabilità e coinvolgimenti diversi - mosse per «Rimborsopoli» ai consiglieri della Regione Piemonte. Indagate 43 persone, che hanno ricevuto oggi pomeriggio gli «avvisi» di chiusura indagini, direttamente o tramite i loro legali. Tra gli indagati c’è il governatore del Piemonte, Roberto Cota e gran parte dell’ex Pdl: 19 sono infatti esponenti del vecchio Popolo della Libertà, 12 della Lega, 3 dell’Italia dei Valori, 2 dell’Udc. Un indagato c’è anche fra i Moderati, nel Gruppo Misto, in Insieme per Bresso, in Uniti per Bresso, tra i Verdi Verdi e tra i Pensionati per Cota. La stessa Mercedes Bresso, ex presidente della Regione, è indagata, tranne che per peculato. «Avviso» anche a Valerio Cattaneo, presidente del Consiglio regionale. A tutti viene chiesto conto delle spese pazze a carico del contribuente: cibi (tartufi compresi), abbigliamento, oggetti per animali, profumi, fiori. Tra i conti finiti nel mirino della procura anche un tosaerba, corsi di lingue straniere, carburante, fino ad assorbenti igienici comprati da un uomo. Spese che non potevano passare inosservate, dal 2010 al 2o12. Nel fascicolo in mano alla procura adesso si conosce nel dettaglio chi comprava cosa. Franco Maria Botta - ad esempio - si è fatto rimborsare acquisti da Olympic per 12 mila euro, in profumerie per 2.174, ben 2.319 di fiori, e una somma molto vicina per l’acquisto di valigie. Marco Botta è, fra gli indagati, quello che più amava il cibo, stando alle sue spese: 36 mila euro fra macelleria e panetteria. Daniele Cantore, invece, ha invece una passione per le cravatte di Marinella. Mentre Roberto Boniperti ha - tra le spese a carico del cittadino - una lavatrice. Il Centrodestra è coinvolto quasi nel suo complesso: Luca Pedrale, C ristiano Bussola, Daniele Cantore, Alberto Cortopassi, Rosa Anna Costa, Girolamo La Rocca, Lorenzo Leardi, Angiolino Mastrullo, Carla Spagnuolo, Pier Francesco Toselli, Michele Formagnana (tutti Pdl). Poi Franco Maria Botta, Marco Botta, Augusta Montaruli, Massimiliano Motta (Fratelli d’Italia), e Angelo Burzi, Roberto Tentoni, Rosanna Valle (Progett’Azione). Mastrullo ha, tra le attività «a carico», spese in un centro benessere, la Spagnuolo ha pagato carburante, manutenzione della propria auto e oggetti per la casa. Montaruli ha pagato circa 5 mila euro per imparare l’uso dei social network. 

Inchiesta spese pazze. La Procura pronta alle richieste di rinvio, scrive Maurizio Tropeano su “La Stampa”. L’interrogatorio del consigliere regionale Daniele Cantore ha segnato lo spartiacque tra la chiusura del primo atto dell’inchiesta Rimborsopoli e l’apertura della seconda fase, quella che analizzerà come sono stati utilizzati i fondi pubblici in dotazione ai gruppi regionali nel periodo 2008/2009.  La mossa della procura della Corte dei Conti di Torino che ha chiesto a 55 consiglieri dell’ottava legislatura, quella a guida del centrosinistra, il risarcimento per un presunto danno erariale e peculato ai danni della regione Piemonte, infatti è stata concordata con la procura della Repubblica di Torino. I titolari dell’inchiesta sulle spese pazze che finora hanno indagato sui fondi 2010-2012, infatti, hanno annunciato ai magistrati contabili l’intenzione di approfondire le indagini svolte fino a questo punto. Indagini, però, che secondo il sostituto procuratore generale della Corte dei Conti, Corrado Croci, hanno fatto emergere «una serie di gravi irregolarità e violazione di legge nella gestione e nella spesa dei fondi assegnati ai gruppi consiliari per lo svolgimento dei loro compiti istituzionali».  Questo è il futuro prossimo. Il presente è legato alla chiusura degli interrogatori dei 43 consiglieri regionali. Si tratta in maggioranza di consiglieri del centrodestra, tra di loro il governatore Roberto Cota, e il presidente del Consiglio regionale, Valerio Cattaneo. Ma ci sono anche due consiglieri del Pd, tra cui l’ex presidente Mercedes Bresso, e gli eletti di Sel, Udc e Italia dei Valori. Cantore che era già si era fatto interrogare lo scorso aprile quando erano arrivati gli inviti a comparire e poi aveva presentato una memoria supplementare adesso si dice convinto, «dopo aver fatto una serie di nuovi approfondimenti, di essere in grado di aggiungere chiarimenti su alcuni degli aspetti contestati». E comunque «ho sempre agito in buonafede sulla base di prassi e regole seguite in passato».  La chiusura della prima fase dell’inchiesta spese pazze si porterà dietro, inevitabilmente, l’aumento delle tensioni politiche. Oggi il segretario regionale del Pd, Gianfranco Morgando, e il capogruppo Aldo Reschigna, incontreranno il capo della segreteria di Matteo Renzi, Luca Lotti, e il portavoce nazionale, Lorenzo Guerini, per cercare di convincere il sindaco di Firenze a partecipare ad una manifestazione a Torino per dare la «spallata» a Cota. Ma il governatore fa spallucce.  

Rimborsopoli atto II. La Corte dei Conti avvisa 55 consiglieri. I giudici: risarcite i fondi spesi illecitamente nel 2009, scrive Maurizio Tropeano su “La Stampa”. La procura della Corte dei Conti di Torino ha inviato a 55 consiglieri regionali su 60 della passata legislatura, quella che ha visto Mercedes Bresso e il centrosinistra alla guida della Regione, la richiesta di risarcimento per un presunto danno erariale e per peculato per «l’indebita percezioni delle somme spettanti ai gruppi consiliari». La richiesta del sostituto procuratore Corrado Croci è stata firmata il 23 dicembre in tempo utile per evitare che l’inchiesta sull’utilizzo dei fondi del 2009 potesse cadere in prescrizione almeno per quanto riguarda gli accertamenti di natura amministrativa e, soprattutto, il credito risarcitorio. La mossa della procura della Corte dei Conti - con conseguente costituzione in mora - ha congelato la prescrizione e permetterà ai magistrati contabili di proseguire i loro accertamenti nell’attesa che la procura della Repubblica di Torino apra l’inchiesta sull’utilizzo dei fondi da parte dei gruppi regionali nel periodo compreso tra il 2008 e l’inizio del 2010. Accertamenti che partiranno dopo la conclusione dell’inchiesta che vede tra i 43 consiglieri indagati anche il governatore del Piemonte, Roberto Cota, e il presidente dell’assemblea regionale, Valerio Cattaneo. Questioni di giorni, insomma. Per quanto riguarda la Corte dei Conti l’indagine è stata avviata nelle scorse settimane e dai primi riscontri «sono emerse gravi irregolarità e violazioni di legge nella gestione e nella spesa dei fondi assegnati ai gruppi consiliari per lo svolgimento dei loro compiti istituzionali». E in particolare, per quanto riguarda il 2009 risulta «allo stato delle indagini - scrive il sostituto procuratore Croci - che parte di questi stanziamenti pubblici siano stati distratti o comunque impiegati per fini estranei alla loro destinazione legale di assicurare lo svolgimento dei compiti istituzionali dei gruppi regionali». Ad oggi, però, non è stato ancora possibile quantificare l’entità del danno erariale dalla regione.  La richiesta di risarcimento è arrivata o sta arrivando a 55 dei sessanta consiglieri regionali di tutti gli schieramenti politici. Tra di loro anche l’ex governatrice Bresso e l’ex presidente dell’assemblea regionale, Davide Gariglio. I cinque che non hanno ricevuto la comunicazione dalla Corte dei Conti sono i leghisti Gianfranco Novero e Giuseppe Filiberti, da poco scomparso, e poi gli azzurri Lorenzo Leardi, Pier Francesco Toselli e Luca Caramella. Tutti consiglieri subentrati nel corso dell’ottava legislatura.  La raccomandata della Corte dei Conti è stata recapitata agli indirizzi privati dei consiglieri durante le vacanze di Natale. E ieri, alla ripresa dell’attività istituzionale con la riunione della conferenza dei capigruppo, l’argomento è stato affrontato in diversi capannelli. Le reazioni? Non certo di sorpresa. Nelle scorse settimane, nel pieno della bagarre politica con la richiesta del Pd di dimissioni dell’attuale governatore il capogruppo di Forza Italia, Luca Pedrale, aveva chiesto l’accesso agli atti e alla relativa documentazione delle spese dei gruppi regionali tra il 2005 e il 2010. Richiesta condivisa anche da capogruppo di Fratelli d’Italia, Franco Maria Botta. Pedrale adesso commenta: «La nostra buonafede è dimostrata dal fatto che abbiamo conservato tutta la documentazione e seguito le regole vigenti. È chiaro che il problema è di carattere nazionale e come tale deve essere risolto». Non la pensa così Roberto Placido (Pd) che non è mai entrato nell’inchiesta Rimborsopoli e che adesso, dopo aver consultato il suo legale, ha deciso di scrivere alla Corte dei Conti: «Prendo atto dell’inchiesta ma constato l’irrilevanza nei miei riguardi: sono assolutamente estraneo ai comportamenti che hanno cagionato il presunto danno erariale».

GIANCARLO CASELLI: LUCI ED OMBRE.

La sbroccata, per quanto stagionata - anzi stagionatissima - costa cara a Vittorio Sgarbi, professionista dello scontro televisivo, scrive “Libero Quotidiano”. E proprio per un attacco in tv avvenuto nel 1995, ora il critico d'arte è stato condannato. L'accusa: "danni morali" nei confronti dell'ex procuratore di Palermo, Gian Carlo Caselli. Il risarcimento: la bellezza di 100mila euro, da pagare in solido con Rti, la società del gruppo Mediaset che gestisce Canale 5. Già, perché a distanza di 18 anni, la condanna arriva per quanto affermato da Sgarbi nel corso di una puntata della sua rubrica Sgarbi Quotidiani, andata in onda per la precisione il 7 aprile 1995. In quell'occasione, il critico lesse una lettera di un anonimo che sosteneva di aver raccolto una confidenza di don Pino Puglisi, il prete ucciso dalla mafia nel 1993. Il sacerdote gli avrebbe detto di essere turbato per le pressioni di Caselli affinché si "pentisse", denunciando i fatti di mafia di cui era a conoscenza, violando anche il vincolo del segreto confessionale. "Caselli - avrebbe aggiunto don Puglisi - ha fatto di me consapevolmente un sicuro bersaglio". Caselli aveva poi negato le pressioni che gli erano state attribuite dall'anonimo, e aveva querelato Sgarbi per diffamazione a mezzo stampa ma il procedimento si è prescritto. Ma tramite l'avvocato Antonio Coppola, citò sgarbi in giudizio anche per danni morali, che gli sono stati riconosciuti ora, contestualmente all'assegno da 100mila euro.

Gian Carlo Caselli: “Io, giudice che ho fatto la Resistenza”. A Torino contro le Br. A Palermo contro la mafia. Per salvare la democrazia applicando la legge. Caselli fa il bilancio di 46 anni da magistrato, scrivono  Lirio Abbate e Paolo Biondani su “L’Espresso”. Il corteo di tre auto blindate percorre le vie di Torino, a un incrocio tra i portici è costretto a fermarsi, ma la sosta dura troppo e la macchina di testa scatta in avanti, mentre un agente mostra la paletta dal finestrino. Il procuratore simbolo della lotta alla mafia e al terrorismo, Gian Carlo Caselli, è da molti anni, troppi anni, un magistrato ad altissimo rischio. Quella scorta non è la sua, ma fa parte del corteo che lo accompagna. In strada nessuno contesta la manovra delle auto blindate. L’unico a dispiacersene è proprio Caselli: «No, no, via quella paletta, noi non l’abbiamo mai usata!». Una reazione spontanea, da cittadino che rifiuta ogni privilegio, per quanto giustificato. Caselli, 74 anni, è fatto così. Dopo 46 anni di magistratura, da fine dicembre l’ex procuratore di Torino e Palermo è in pensione, con qualche mese di anticipo su consiglio di medici amici. Testimone, anzi protagonista della storia d’Italia, in questo 2014 gli resta solo la carica di coordinatore dell’osservatorio contro le agromafie di Eurispes e della Coldiretti, a cui tiene molto. Perché Cosa nostra era nata come braccio armato dei latifondisti siciliani, perché ancor oggi le cosche spadroneggiano sui mercati alimentari, certo, ma anche perché la buona terra, il cibo sano, la rinascita dell’agricoltura sono un valore concreto su cui fondare un futuro migliore. Alla sua Torino il cittadino Caselli è molto affezionato. Mentre attraversa il centro, indica una per una le bellezze della città, ne enumera musei e palazzi, descrive le piazze ricordandone gli eventi tragici e gloriosi. Ai cronisti che lo accompagnano è orgoglioso di mostrare «come è diventata bella Torino in questi anni». E il suo racconto di 46 anni di indagini, dalle Brigate rosse alla “resistenza” contro la mafia, prende corpo come le immagini di un film. C’era una volta il terrorismo. «Il periodo più buio della nostra storia l’abbiamo vissuto negli anni Settanta. Ed è qui a Torino che le cose sono cambiate. Per caso, per un discorso di connessione con un sequestro di persona, ci era toccato il primo processo ai capi storici delle Brigate Rosse. In città c’era un clima di paura, di terrore. Ricordo l’immagine dei brigatisti che rivendicano in aula l’omicidio di Francesco Coco, il magistrato ucciso a Genova perché si era rifiutato di piegarsi ai ricatti dei sequestratori del giudice Mario Sossi. Tra le prime vittime c’è anche l’avvocato Fulvio Croce, un gentiluomo che cercava di organizzare le difese d’ufficio. Lo sbandamento nella società civile è tale che non si riesce a formare una giuria: sulla scrivania del presidente della corte si accumula una catasta di certificati di malattia, nessun cittadino accetta il rischio di fare il giudice popolare. Il processo resta sospeso per un anno, in quel momento sembra che i terroristi abbiano vinto. La città antifascista, capitale delle lotte operaie, è piegata. Ma poi, nonostante gli omicidi, le gambizzazioni, le minacce quotidiane, il processo si celebra e si chiude nel rispetto delle regole, dei diritti, perfino dell’identità politica degli imputati. Sfidando le critiche, il giudice Guido Barbaro lascia ai brigatisti la libertà di contro-interrogare i testimoni d’accusa, perfino Sossi che ne era stato ostaggio. È allora che cade l’impalcatura ideologica dei terroristi: salta la logica per cui la risposta dello Stato deve essere fascista e reazionaria. Le Br nascevano dalla strage di piazza Fontana e come Feltrinelli avevano l’incubo del golpe. Con il processo di Torino la lotta armata perde ogni alibi». Caselli rivendica il ruolo storico della magistratura italiana, ma avverte che non può esistere una soluzione solo giudiziaria. «Nella prima fase del terrorismo di sinistra ci fu sottovalutazione, ambiguità, contiguità da parte di fette consistenti del mondo intellettuale, politico e sindacale. Si parlava di “compagni che sbagliano”, slogan come “né con lo Stato né con le Br” venivano accreditati da scrittori del valore di Sciascia, di cui però ho tutte le opere... Per la sinistra in Italia la vera svolta si avrà solo con l’omicidio di Guido Rossa. Ma qui a Torino le cose cominciano a cambiare già con la stagione delle assemblee. Il sindaco Novelli, con Sanlorenzo e Viglione, esponenti della Regione, organizza incontri pubblici sul terrorismo, riuscendo a coinvolgere partiti, sindacati, parrocchie, movimenti. Alle prime assemblee partecipano solo gli organizzatori, i poliziotti del nascente Siulp, noi “magistrati di guerra”... I cittadini impauriti mandano messaggi anonimi, che vengono letti dai relatori. Ma per la prima volta si discute, si usano gli strumenti della democrazia contro il terrorismo. A poco a poco la partecipazione cresce, si organizzano assemblee affollatissime nei reparti della Fiat, dove sono gli operai a spiegare che il terrorismo sembra colpire pochi ma è nemico di tutti e non risolve nulla, anzi ritarda e aggrava i problemi. I terroristi capiscono che quello è l’inizio del loro isolamento politico, infatti vengono a spiare queste assemblee, trascrivendole in dossier che ritroveremo nei loro covi. È allora che per la prima volta entrano in crisi. Per scaricare un mitra contro una persona disarmata, bisogna avere la convinzione di essere nel giusto. Solo così può darsi quel “coraggio della viltà” che occorre per fare i terroristi in una democrazia». Con le indagini sull’ala dura dei No Tav, oggi si torna a respirare aria viziata. “Caselli farai la fine di Moro”, gli è capitato di leggere sui muri di Torino e altre città, mentre qualche imbecille firmava su Internet attacchi anonimi al procuratore “fascista” o “mafioso”. Con la sua famosa chioma bianca, il passo ormai stanco, Caselli ha la saggezza di non cadere nella provocazione: «Nessuna equiparazione è possibile tra il terrorismo del passato e ciò che succede oggi. La protesta in Val Susa è composta in grandissima parte da cittadini perbene. Discutere i costi, l’impatto ambientale, l’utilità di un’opera pubblica è un diritto. Ma commettere reati è qualcosa di più. Certo, le Br erano un altro mondo, ma è innegabile che in valle c’è qualcuno che sta provando a ricreare un laboratorio dove si sperimentano azioni violente. Per il momento è limitato, ma sarebbe velleitario escludere che possa avere potenzialità espansiva. Quello che temo di più è la sottovalutazione, la strizzatina d’occhio. Certe forme di contiguità sono benzina sul fuoco». E quegli attacchi anonimi, “Caselli morirai”, le hanno fatto male? «Il problema è che non c’è stata dissociazione sostanziale da quelle scritte. Se un commando di venti persone, organizzate e travisate, assalta un cantiere e ricaccia gli operai in un cunicolo invaso dal fumo, come è successo pochi mesi fa, l’aggravante della finalità di terrorismo è sacrosanta. Si parla di diritti negati, però qui c’è una lesione del diritto fondamentale di lavorare in sicurezza. Ma visto che non c’è il morto, allora si dice che ogni sabotaggio è legittimo e la violenza non si processa». Un bell’attacco lo ha firmato lo scrittore Erri De Luca sulla rivista di Magistratura democratica. Caselli sorride e non vuole aggravare la polemica con la sua corrente, da cui si è dimesso: «Probabilmente i dirigenti di Md credevano che De Luca, pur con il suo passato nel servizio d’ordine di Lotta continua, avrebbe avuto il pudore di non scrivere di terrorismo, invece si sono ritrovati quell’articolo e l’hanno pubblicato per non sembrare censori... Dentro Md abbiamo sempre avuto dibattiti infuocati, ma leali. La spaccatura più grave, per quanto mi riguarda, resta la decisione di non sostenere Falcone al Csm come successore di Caponnetto. Comunque stavo per dimettermi già negli anni del terrorismo, quando mi fu rinfacciato un arresto, da me ordinato d’accordo con il procuratore Caccia, di un intellettuale di sinistra. Già allora ero sospetto di eresia un po’ per tutti: per alcuni ero un fascista, per altri un giudice ragazzino, oltretutto di Md, che indagava sulle Br...». Ma quanto è forte oggi il rischio che torni il terrorismo? Caselli unisce i palmi delle mani e porta gli indici sotto il mento: «La premessa, obbligatoria, è che il magistrato è solo un notaio del passato: possiamo registrare quel che è già successo, non abbiamo strumenti per azzardare previsioni. Detto questo, posso fare due osservazioni. La prima è che i gruppi che hanno praticato la violenza in quegli anni hanno approfittato di una situazione di crisi e disagio sociale che è molto simile all’attuale. Ma le Brigate rosse si sono strutturate con un’organizzazione pesante, monolitica, mentre oggi sembra mancare un centro di riferimento. Il mondo anarchico, per definizione, rifiuta forme di organizzazione troppo centralizzata. La speranza è che il nostro Paese sia ormai vaccinato a considerare il terrorismo come un virus da isolare. Ma la situazione è fluida e non mancano comportamenti preoccupanti». Con la sua cultura da magistrato, Caselli è lontanissimo da certe ricostruzioni complottistiche degli anni di piombo. «Sono abituato a ragionare di fatti che vanno provati al di là di ogni ragionevole dubbio». Ma oggi non le sembra sospetta la decisione politica di smantellare la storica squadra investigativa del generale Dalla Chiesa? «Col senno di poi ci siamo accorti che in effetti nel 1976, con le indagini dei corpi speciali creati da Dalla Chiesa per i carabinieri e da Santillo per la polizia, le Brigate rosse erano state praticamente azzerate. Lo smantellamento fu un errore sciagurato. Il recupero è iniziato dopo l’omicidio Moro, a partire dal 1979. Ma contro i corpi speciali, che potevano indagare in tutta Italia scavalcando i comandi territoriali, c’erano invidie e ostilità anche all’interno delle forze di polizia». Quindi nella storia delle Br non ci sono misteri? «Beh, qualcosa di poco chiaro c’è. Sicuramente c’è il memoriale di Moro: perché non renderlo pubblico, se è vero che il sequestro mirava proprio a disvelare i segreti inconfessabili del potere? Che senso aveva tenere nascosto un documento in cui il leader della Dc rivelava, senza troppi giri di parole, l’esistenza di Gladio e altri segreti? Dai capi brigatisti, a cominciare da Moretti, non è mai arrivata una risposta credibile. Detto questo, del terrorismo di sinistra conosciamo quasi tutto. È dello stragismo di destra che sappiamo ancora poco o nulla». Nella biografia di Caselli ci sono continui rimandi a tre uomini eccezionali, che sono diventati eroi per tutti solo quando sono morti: Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Con il generale abbiamo lavorato per anni gomito a gomito, all’inizio non fu facile ma ne nacque un rapporto straordinario. Le Br erano molto compartimentate, a un livello alto di conoscenze poteva portarci solo un dirigente come Patrizio Peci, capo della colonna di Torino». I terroristi reagirono come i mafiosi, ammazzandogli il fratello. «Prima Linea era organizzata diversamente, anche un “soldato” semplice come Sandalo poteva conoscere tutto, persino il ruolo del figlio di Donat Cattin, e chiamare in causa Cossiga per la sua fuga in Francia. Voglio solo ricordare che Peci e gli altri ex terroristi iniziarono a collaborare quando ancora non esisteva una legge sui pentiti: segno che erano già in crisi». Dalla Chiesa nel 1982 morì assassinato proprio a Palermo. Lo Stato lo aveva lasciato solo a sfidare la mafia. Come è successo a Falcone e Borsellino. «Tutto cominciò al Csm, quando dal 1986 al 1990 ci fu un continuo caso Palermo. Falcone fu umiliato ed il pool smantellato perché non si voleva accettare il suo metodo vincente. Il momento più basso fu la calunnia dopo l’attentato all’Addaura... Ma oggi il metodo Falcone, che significa specializzazione e centralizzazione delle indagini, è diventato legge, come le norme sui pentiti, il 41 bis o la lotta al riciclaggio. Ora le convenzioni internazionali sono modellate sul modello italiano: gli stranieri sanno che il nostro Paese ha un grandissimo problema di mafie, ma hanno anche una grandissima ammirazione per le nostre tecniche d’indagine, per la capacità italiana di contrapporre alla mafia un’antimafia sociale, l’antimafia dei diritti». Caselli diventa procuratore di Palermo nel gennaio 1993 e guida per sette anni l’ufficio giudiziario più esposto d’Italia. Per i poliziotti dei Nocs che lo scortavano, era “penna bianca”. In città echeggiavano ancora le amare parole del giudice Caponnetto («Tutto è finito») dopo gli attentati di Capaci e via D’Amelio. «Sembrava che la democrazia italiana stesse soccombendo sotto i colpi dello stragismo corleonese», ricorda Caselli. «La nostra reazione è stata forte: in nome del popolo italiano ci siamo occupati prima della mafia che sparava, della frangia militare di Cosa nostra, e poi delle complicità degli imputati eccellenti». Politici e colletti bianchi vengono per la prima volta rinviati a giudizio, dimostrando che «c’era materiale sufficiente per affrontare il processo». Quando la Procura di Caselli tocca gli intoccabili, però, è l’antimafia a finire sotto attacco. «Prima di Palermo nessuna procura era mai riuscita a dimostrare, con prove sicure che hanno retto fino in Cassazione, la responsabilità e la collusione con il potere criminale mafioso di due personaggi centralissimi nella nostra storia come Giulio Andreotti e Marcello Dell’Utri. Nel caso di Andreotti, c’è una sentenza di prescrizione del reato commesso, che perciò lo giudica colpevole fino al 1980. Per Dell’Utri, oltre alla recente condanna in appello, c’è un verdetto della Cassazione che lo dichiara colluso con la mafia almeno fino al 1978. E Dell’Utri è stato definito dai giudici l’intermediario di Silvio Berlusconi». Qui il tono di Caselli si fa deciso: « Andreotti e Dell’Utri hanno avuto rapporti cordiali, proficui, non sporadici con la criminalità mafiosa. Questa realtà torbida, sconvolgente, è la base per qualunque riflessione riguardante i rapporti fra mafia, politica e imprenditoria, fino alla cosiddetta trattativa. Ma di tutto questo non si parla. O lo si fa per negare e stravolgere la verità processuale. La nostra democrazia sarà sempre debole se non faremo chiarezza su quegli anni». «Mi chiedo con quale faccia si possa parlare di fallimento della nostra stagione palermitana o di processi celebrati solo per mettere alla gogna qualche politico. Si è arrivati al punto di varare una legge contra personam per cancellare il mio diritto di concorrere alla carica di procuratore nazionale antimafia, sostenendo pubblicamente che bisognava farmela pagare per il processo Andreotti. Una legge poi dichiarata incostituzionale». Eppure la stagione di Caselli era iniziata con un successo storico, l’arresto di Totò Riina. «Si, è stato un bel segnale. Incontrai Riina, nel giorno del suo arresto, in una caserma dei carabinieri: era in piedi sotto la foto del generale Dalla Chiesa. Gli feci qualche domanda, ma disse che non voleva parlarmi. Poi c’è stata la brutta pagina della mancata sorveglianza da parte del Ros e della mancata perquisizione del suo covo. Un fatto grave, una vicenda che purtroppo è andata stortissima». Nonostante troppi veleni, Caselli resta orgoglioso dell’esperienza di Palermo: «Abbiamo fatto la resistenza contro lo strapotere mafioso. Sì, credo che a Palermo in quegli anni abbiamo contribuito a salvare la democrazia italiana. Per questo lo rifarei senza pensarci un attimo». E cosa pensa dei magistrati che scelgono la strada della politica, come Antonio Ingroia che le era stato accanto nelle indagini più delicate? «Sono tanti i magistrati prestati alla politica. Di solito si sale sul carro di questo o quel partito. Ingroia invece ne ha fondato uno suo, dimostrando anche così la sua indipendenza e coerenza. Poi non gli è andata bene, e mi dispiace». E se proponessero a lei di candidarsi? «La politica attiva non è il mio mestiere». Vent’anni fa molti giovani sognavano un futuro da magistrato in città simbolo come Palermo o Milano. Oggi pochi chiedono di lavorare in queste procure, per non parlare di Napoli o Reggio Calabria. E in molti palazzi di giustizia si scontrano fazioni e cordate. Anche la magistratura è un potere in crisi? «Parlo di ciò che conosco, e su procure diverse da Torino, dove le cose van bene, non so nulla. Certo è che in questi vent’anni la magistratura ha subito un vero e proprio assalto. La politica ha scaricato sui giudici una massa di problemi che non ha saputo o voluto risolvere: terrorismo, mafia, corruzione, e poi ambiente, salute, opere pubbliche... Prima si affida alla magistratura una delega eccessiva, con una giustizia che non si vuole far funzionare; poi si dice che sono i magistrati a voler straripare e si arriva a definirli pazzi, terroristi, golpisti, eversori... In questa situazione, mi stupisco che la magistratura sia ancora, nonostante tutto, così popolare».  «Nel complesso la macchina della giustizia tiene, spero, ma per molti magistrati è forte la tentazione di scegliere la soluzione meno rischiosa: una gestione formale e burocratica della giustizia. È chiaro che la vera posta in gioco è il principio di indipendenza, che è la premessa dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Una magistratura indipendente continua a dare fastidio. E non so dire come andrà a finire». Caselli esce dal suo ufficio di procuratore, forse per l’ultima volta. Fuori dalla porta c’è una fila di lavoratori della giustizia e comuni cittadini che vogliono salutarlo. “Penna bianca” stringe la mano a tutti. L’ultima è una signora torinese che gli dice solo una parola: «Grazie». 

Ma non è tutto oro quello che luccica. Sulla rete c’è un lettera inviata da Pietro Melis a Giancarlo Caselli. La pubblichiamo per amore di onestà come contraltare alle ossequiose interviste fatte all’Ex Procuratore generale di Torino. Al Procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli, commesso viaggiator per tutta l'Italia per pubblicizzare un suo libro da autopanegirico. «Ho notato che lei ha fatto il giro d'Italia per presentare in varie città il suo libro Le due guerre. Un magistrato fuori legge dove lei fa il suo autopanegirico. In questo libro lei difende anche il suo operato riguardo l'interrogatorio del mio amico Luigi Lombardini, che si suicidò nel 1999 nella sua stanza del palazzo di "giustizia" per sottrarsi ad una persecuzione giudiziaria da lei promossa. Avrei voluto che vi fosse un incontro pubblico tra lei e Grauso per spiegare come mai Grauso sia stato assolto per i fatti addebitatigli nel contesto dell'episodio del sequestro di Silvia Melis. Se non vi fu estorsione nei confronti del padre Tito e se risulta vera la versione di Grauso secondo cui fu lui a pagare per la liberazione di Silvia Melis (non escluso un versamento non riconosciuto apertamente anche da parte dello Stato), come mai Lombardini poteva essere accusato dello stesso reato per cui è stato assolto Grauso? E' da escludere che Lombardini, ben conoscendo la sua dirittura morale, abbia sconfinato in un reato. Al massimo si è impicciato in una questione che non poteva riguardarlo come capo della Pretura, ufficio a cui era stato confinato dall'invidia rancorosa dei colleghi di Cagliari. E vi è una questione importante da chiarire. Grauso in una intervista (leggibile su Internet) ha dichiarato dopo l'assoluzione che il gip di Palermo non aveva dato a lei alcuna autorizzazione all'interrogatorio di Lombardini e che lei pertanto avrebbe agito oltre i limiti del mandato. Se la cosa fosse vera lei avrebbe commesso una grave irregolarità (se non un reato attribuendosi un potere che non aveva). Nella sua vita lei ha predicato bene ma ha razzolato male. Un magistrato serio non fa il commesso viaggiatore girando per l'Italia al fine di pubblicizzare il proprio libro. A lei piace il palcoscenico, come ormai piace a molti magistrati penali, che, non sopportando di vivere nell'oscurità, approfittano della loro veste per esibirsi in pubblico anche come personaggi televisivi. Lei si vanta di aprire i suoi discorsi agli studenti dicendo: "non fidatevi di ciò che dico". Dunque non debbo fidarmi nemmeno di ciò che lei scrive a sua difesa. Nemmeno della sua versione dei fatti che portarono Lombardini al suicidio, di cui le dovrebbe rimordere la coscienza. Ai magistrati deve essere tolta la boria che essi hanno nel sentirsi padroni, e non umili servitori, della giustizia. Io ho smesso di votare dal 1994 perché nella baraonda politica che sta perdurando non mi sento rappresentato da alcun partito, e tanto meno da Berlusconi, che in tanti anni di governo non ha rivoluzionato (non basta riformarlo) l'ordinamento giudiziario. Non aggiungo altro perché ciò che dovrei aggiungere l'ho già scritto nel mio ultimo libro, come risulta da quanto ho scritto nel sito sotto citato. Legga bene perché si renda conto che anche in campo civile si possono commettere degli ORRORI giudiziari che gridano vendetta. Il mio esposto del 2009 al ministro Alfano e al P.G. presso la Cassazione perché venisse aperta un'inchiesta sulla mia allucinante vicenda civile ha avuto una risposta del CSM ma non se ne farà nulla. Non so nemmeno se il P.G. presso la Cassazione abbia avuto voglia di occuparsi della mia vicenda e se il CSM abbia trasmesso gli atti alla sezione disciplinare. Vi sono dei giudici che dovrebbero pagarla cara per certe sentenze aberranti. E' inutile che lei si proponga in pubblico come maestro se non riconoscerà che un giudice deve rispondere personalmente dei gravi errori che commette sottraendosi al principio costituzionale che dice che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge. Non è vero. Vi è una categoria di arroganti, a cui lei appartiene, che si sentono al di sopra della legge perché sono resi esenti da qualsiasi responsabilità. I pubblici ministeri in teoria non dovrebbero avere alcuna responsabilità perché indagano ma non giudicano. In pratica non è così perché essi sono vicini di stanza dei giudici, che spesso firmano senza nemmeno darsi la pena di studiare bene il fascicolo presentato dai pubblici ministeri. Questi dovrebbero vivere in diversi palazzi e non avere alcuna confidenza con i giudici. Dovrebbero darsi del lei. In pratica, invece, sono i pubblici ministeri che comandano. Lei certamente sarebbe uno dei più fieri oppositori della costituzione di un'Alta Corte di giustizia non formata da giudici togati (ma da una giuria popolare di esperti, come negli Stati Uniti) a cui un cittadino possa rivolgersi direttamente per porre sotto processo un giudice quando faccia sentenze palesemente aberranti , dettate da "ignoranza o negligenza inescusabile" (art. 1 Provvedimenti disciplinari) senza più passare attraverso le pastoie di altri magistrati. Se non è d'accordo sulla responsabilità civile dei giudici (senza che sia lo Stato, con le tasse pagate dai cittadini, a pagare in loro vece il risarcimento dei danni alle vittime della "giustizia") lei è un venditore di fumo, un imbroglione che predica solo da cattivo maestro. (tra l'altro domandandomi come mai non sia andato oltre una casetta editrice come Melampo). Ho letto interamente su Internet la sua storia. Non ha sopportato di essere stato escluso dalla direzione antimafia con una legge ad hoc contro di lei.»

Lombardini, il giallo del documento che spinse il magistrato al suicidio. La data dell’atto di perquisizione è precedente all’interrogatorio del pm sardo, scrive Lino Jannuzzi – su “Il Giornale”. La sera dell’11 agosto del 1998, quando il procuratore di Cagliari Luigi Lombardini si suicidò, il procuratore generale Francesco Pintus disse: «Sono avvilito, disgustato. Sono indignato, senza fiato. Ora bisogna che la verità venga fuori. Bisogna che si sappia che Lombardini è stato oggetto di un’aggressione senza precedenti. Il dottor Lombardini era un buon magistrato e in cambio è stato massacrato. Bisogna che si sappia che da anni la procura di Palermo ha aperto la caccia nei nostri uffici giudiziari, che questi sono i metodi, sono venuti in cinque. Lo hanno sentito per sei ore, capite? Sei ore. Bisogna finirla, finirla...». Per queste parole Francesco Pintus fu querelato dall’allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli e dai suoi sostituti. Dopo sette anni, quattro querele, quattro processi di primo grado e tre processi d’appello, tutti vinti, ora Francesco Pintus, e il Giornale che aveva riportato il suo sfogo, hanno avuto definitivamente ragione anche dalla Cassazione, che ha scritto: «Pintus intendeva tutelare la figura morale di Lombardini, che essendo deceduto non si poteva difendere». Se ne dovrebbe dedurre nell’ordine: che Luigi Lombardini era un buon magistrato e ha fatto bene Pintus ha tutelarne la figura morale; che Lombardini è stato accusato e massacrato ingiustamente e con un’aggressione senza precedenti dalla procura di Palermo, che da anni dava la caccia agli uffici giudiziari di Cagliari; che questi erano i metodi dei magistrati di Palermo e che con questi metodi bisognava finirla... E ci si deve domandare: a Palermo è veramente finita con questi metodi? E soprattutto: dopo sette anni e le assoluzioni di Pintus dalla querele di Caselli e compagni è venuta fuori la verità, tutta la verità? Come e perché Luigi Lombardini si è ucciso? Sotto la montagna di carte che si sono trascinate e sono cresciute da processo a processo e sono arrivate fino alla Cassazione c’è un foglio imbrattato di sangue. È l’ultima pagina di un decreto di perquisizione: Luigi Lombardini reggeva questo decreto nella mano sinistra mentre con la destra si è infilato in bocca il revolver. Il fiotto di sangue è schizzato sull’ultima pagina e ha coperto i timbri e la firma di Caselli. Ma ha lasciato intatta e ben visibile la data apposta sotto il documento: Palermo, 5 agosto 1998. È dietro questa data che si cela l’ultimo mistero del suicidio di Lombardini. Lombardini era stato accusato di essersi intromesso abusivamente e per tornaconto personale nelle trattative per il sequestro di Silvia Melis, la ragazza rapita nel febbraio del ‘97 e liberata nove mesi dopo. Caselli e quattro dei suoi sostituti, competenti per le indagini, erano volati da Palermo a Cagliari quell’11 agosto del '98, avevano occupato militarmente con le loro scorte il palazzo di Giustizia e avevano proceduto a interrogare per sei ore Lombardini, tutti e cinque gli inquirenti, alternandosi nelle domande, e uscendo e entrando dalla stanza, come si vede in quegli uffici di polizia dei film americani sui gangster. Dagli interrogatori non era venuto fuori niente, come risulta dalle bobine delle registrazioni e niente di serio e di concreto, del resto, il procuratore e i pm avevano avuto da contestare a Lombardini, che risponde a tutte le domande, esasperatamente e inutilmente ripetitive, con chiarezza e precisione e non appare mai in difficoltà. A questo punto Lombardini è invitato a uscire e ad attendere fuori, e tutto sembra finito (e infatti l’avvocato di Lombardini lascia anche il palazzo di Giustizia), ma Caselli e i suoi sostituti si riuniscono per un breve conciliabolo (pomposamente definito «camera di consiglio») e quando ne escono, consegnano a Lombardini il decreto di perquisizione. Lombardini lo legge, ha il presentimento che dopo la perquisizione lo arresteranno, si chiude nel suo ufficio e si spara. Il punto è questo: a giudicare dalla data del documento, «Palermo 5 agosto 1998», che il sangue di Lombardini schizzato sul foglio non è riuscito a coprire e a cancellare e che continua a galleggiare su quel sangue, il decreto di perquisizione sarebbe stato emesso a Palermo cinque giorni prima dell'interrogatorio e Caselli e i suoi sostituti sarebbero volati a Cagliari con il decreto già in tasca. Ma ciò contrastava con il fatto che il decreto del gip di Palermo che autorizzava Caselli e i suoi sostituti alla spedizione di Cagliari mentre li autorizzava a procedere all’interrogatorio dell’indagato, dichiarava «inammissibile» la loro richiesta di ottenere l’autorizzazione al «compimento di altri atti che si rendessero indispensabili per il proseguimento delle indagini (come la perquisizione e magari l’arresto). Alle contestazioni che gli sono state fatte nel corso dei processi per le querele per diffamazione, i magistrati di Palermo hanno risposto sostenendo che si sarebbe trattato di un equivoco, che il gip li aveva autorizzati a decidere degli atti ulteriori, la perquisizione e eventualmente l’arresto dopo l’interrogatorio, e che sul decreto di perquisizione consegnato a Lombardini era rimasta la data di «Palermo 5 agosto» soltanto per errore e per la confusione del momento, e perché non fecero in tempo a modificarla con quella dell’11 agosto. In ogni caso, la sequenza è impressionante e dimostra, ancora meglio, che tutto era stato deciso. L’autorizzazione del gip di Palermo all’interrogatorio risulta depositata alle ore 13 e 30 del 5 agosto; l’avviso per l’interrogatorio risulta spedito a Lombardini il 4 agosto, prima ancora del deposito dell’autorizzazione del gip; il decreto di perquisizione con la data (eventualmente) sbagliata viene mostrato a Lombardini dopo l’interrogatorio, e quando il suo avvocato, confortato dall’esito dello stesso interrogatorio e ignaro della (eventuale) ulteriore autorizzazione del gip di Palermo a procedere oltre, lascia il palazzo di Giustizia; Lombardini legge il decreto con la data di «Palermo 5 agosto», e capisce che hanno già deciso tutto, la perquisizione e l'arresto, a Palermo, e prima ancora dell’interrogatorio e a prescindere dall’esito dell’interrogatorio. È proprio quando vede la data che ci vomita su il suo sangue.«Sono pervaso da emozione, turbamento, dolore - scriverà Francesco Pintus nel suo diario - i cinque procuratori venuti da Palermo sono tutti lì, e si apprestano a mettere in atto, presente il cadavere, quella perquisizione al cui annuncio Lombardini era corso avanti, si era chiuso nel suo ufficio e si era sparato. Mi allontano e mi segue il dottor Caselli, mi mette una mano sulla spalla e mi dice: mi dispiace».

La versione di Giancarlo Caselli scritta da: Pasquale Motta. Nel 2005, Giancarlo Caselli ritorna sulla vicenda del Giudice Lombardini dedicandogli un passo del suo libro Giudici sotto attacco edito dalla Melampo Ecco come racconta la vicenda del Giudice Lombardini: “Un caso esemplare è quello del suicidio di Luigi Lombardini, capo della Procura presso la Pretura di Cagliari, l’11 agosto 1998. I fatti sono questi. Nel corso delle indagini sul sequestro di Silvia Melis, la procura di Cagliari si imbatte in fatti penalmente rilevanti a carico del dottor Lombardini. Ci trasmette subito gli atti, perchè per legge le indagini che coinvolgono magistrati di Cagliari spettano alla procura di Palermo. Assegno il fascicolo al procuratore aggiunto Vittorio Aliquò, che coordina i sostituti Antonio Ingroia, Giovanni Di leo e Lia Sava. Gli elementi emersi a carico di Lombardini sono seri. Durante il sequestro, Tito Melis, il padre della ragazza, viene invitato a recarsi a un appuntamento segreto, di notte, nei pressi di Elmas, l’aeroporto di Cagliari. Gli viene chiesto addirittura di viaggiare nel baule di un’auto (ma lui non riesce a entrarci). Al luogo convenuto si presenta un uomo in parte travisato. Si accerterà in modo inoppugnabile che si tratta proprio di Luigi Lombardini. L’uomo usa modi bruschi, prospetta gravi pericoli per Silvia e fa alcune richieste: il versamento di un secondo miliardo di lire (uno era già stato versato) all’avvocato Antonio Piras; una lettera “liberatoria” per lo stesso Piras dove Melis avrebbe dovuto affermare –falsamente – che la Procura di Cagliari aveva autorizzato le trattative e il pagamento. Le ipotesi di reato a carico di Lombardini sono quindi tentata estorsione (per il nuovo versamento, poi non effettuato), estorsione (richiesta della lettera, effettivamente redatta e poi acquisita agli atti del processo), falso e calunnia (per il contenuto della lettera). Quando i colleghi partono per Cagliari per interrogare Lombardini, penso che sia opportuno unirmi a loro. Mi hanno insegnato che i rapporti fra magistrati, nei casi delicati, devono intercorrere tra “pari grado”. Lui è un capo ufficio, come me. Essere presente è, da parte mia, un atto dovuto di cortesia istituzionale, anche perchè avevo avuto modo di conoscerlo in passato. D’accordo con i colleghi di Cagliari, ci preoccupiamo di incontrarlo nel palazzo di giustizia, ma lontano da giornalisti e telecamere. L’interrogatorio di Lombardini si svolge in un clima di normalità assoluta, con le “rituali” pause per un caffè e con una interruzione perché  Lombardini possa fare il punto della situazione con il suo difensore. Ce ne dà atto a verbale proprio il suo avvocato, Luigi Concas. Per fortuna (viste le disgustose strumentalizzazioni che si scateneranno) di tutto ciò resta traccia documentale, perchè l’intero interrogatorio viene fonoregistrato. Alla fine decidiamo di chiedere a Lombardini di esibire alcuni documenti. In caso contrario avremmo dovuto procedere a una perquisizione del suo ufficio. La tragedia si compie a questo punto. Lombardini cammina verso il suo ufficio con Ingroia e gli altri (tra cui un suo legale). A un certo punto fa uno scatto in avanti, raggiunge la sua stanza, si chiude dentro e si uccide con un colpo di pistola prima che chiunque possa intervenire. La perquisizione permette di trovare materiale rilevante che porterà all’incriminazione di un’altra persona. Nonostante il Consiglio superiore della Magistratura e il ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, riconoscano subito l’assoluta correttezza del nostro operato, anche in base all’ascolto della registrazione integrale dell’interrogatorio, si scatena immediatamente la canea.”

CHI HA PAURA DEI GIUDICI, scrive Delia Parrinello e Luciano Scalettari su “Famiglia Cristiana”La ricostruzione dell’interrogatorio del giudice Luigi Lombardini, culminato nel suo tragico gesto. L’indagine del pool di Palermo permette di gettare un primo sguardo sui retroscena, le ombre e i sospetti in cui si muovono i protagonisti del più squallido tra i crimini, tra minacce, intercettazioni, fondi neri e ambigue mediazioni. Arrivano in cinque, seguiti da un nugolo di poliziotti. Sono magistrati in missione da Palermo a Cagliari per interrogare un altro magistrato che alla fine di quell’interrogatorio si sparerà un colpo di pistola. Giancarlo Caselli, il procuratore che guida la missione, non sa che quel suicidio diventerà «l’accusa più ingiusta» della carriera. Antonio Ingroia, uno dei "ragazzi" di Paolo Borsellino e pm di Andreotti, non sa che sta per arrivare «il momento più drammatico della carriera». Per Lia Sava e Giovanni Di Leo, giovani sostituti, sarà il battesimo con i veleni di Palermo. Il procuratore aggiunto Vittorio Aliquò arriva a Cagliari per il dovere d’ufficio di due interrogatori contestuali: quello del procuratore della Repubblica presso la pretura, Luigi Lombardini, indagato per avere, «sotto mentite spoglie di avvocato civilista, trattato e minacciato» fra i rapitori di Silvia Melis e suo padre Tito. E l’interrogatorio dell’avvocato della famiglia Melis, Antonio Garau. Cosa non sa Luigi Lombardini? Tutto ciò che i magistrati di Palermo gli chiederanno di spiegare in quattro ore e mezzo di interrogatorio registrato: il pool di Caselli arriva con relazioni di servizio, intercettazioni telefoniche, diari e dichiarazioni dello stesso Melis che indica in Lombardini l’avvocato civilista intermediario fra la famiglia e i banditi. Procura di Cagliari, martedì 11 agosto, ore 10. Entrano i magistrati di Palermo e li accoglie il procuratore Carlo Piana. Lombardini è pronto ma c’è un imprevisto: il suo difensore Luigi Concas difende anche Garau, «c’è un problema di incompatibilità», dice Caselli a Concas. L’avvocato obietta, chiede una sospensione, si apparta con Lombardini, poi torna e comunica: «Rinuncio a difendere Garau». L’avvocato dei Melis viene sentito in un’altra stanza dai sostituti Sava e Di Leo (si avvarrà della facoltà di non rispondere). Caselli, Aliquò e Ingroia chiamano Lombardini nell’ufficio del sostituto Mura. Rispondeva di no a tutte le domande. Entra «impenetrabile e distaccato», si siede davanti ad Aliquò e Ingroia che stanno alla scrivania. Caselli cammina avanti e indietro. Parla Aliquò, legge le dichiarazioni di Melis che racconta di aver incontrato Lombardini nei pressi dell’aeroporto, il suo invito a pagare i rapitori, il suo volto coperto, il tono minaccioso. Lombardini nega. «Ma c’è la testimonianza dell’avvocato Antonio Piras: anche lui, il custode del miliardo, giura di averla incontrata la sera dell’8 ottobre». «Non conosco Piras». «Dottor Lombardini, c’è la relazione di servizio del maresciallo dei carabinieri Francesco Testoni che conferma le dichiarazioni di Melis: vi siete incontrati all’aeroporto». «Il maresciallo Testoni è una persona inaffidabile». I giudici tornano alla carica, leggono dall’agenda dell’avvocato Garau: «C’è scritto che un sedicente avvocato civilista si è incontrato con Melis all’aeroporto, era lei? C’era anche una ragazza?». «Tito Melis non dice la verità e avvocati civilisti a Cagliari ce ne sono tanti. Non mi sono mai incontrato con Melis e quindi non c’era nessuna ragazza». E l’agenda di Garau? «Non l’ho scritta io, e dunque chiedete a Garau chi era quella persona». Ma come giustifica tutto questo, che spiegazione ci offre, come si difende? «Qualcosa è stato costruito contro di me per i miei contrasti interni al mondo giudiziario sardo». Un complotto ordito dai colleghi della Procura di Cagliari. Lombardini non perde la calma, resta freddo e distaccato, sempre di poche parole. L’80 per cento di quanto detto in 4 ore e mezzo di interrogatorio è stato pronunciato dai magistrati di Palermo. Rivolgendosi al più giovane di loro, Lombardini è paterno, «so bene che è la prassi, faccia pure». Gli chiedono se vuole pranzare. «Preferisco andare al bar con l’avvocato Concas». L’interrogatorio riprende alle 15, va avanti ancora per un’ora, alle 16 parla Caselli: «Dottor Lombardini, le abbiamo esposto tutto ciò che è in nostro possesso e che la riguarda, se ha qualcosa da aggiungere la dica». Silenzio per qualche secondo, Lombardini sembra incerto, chiede un’altra sospensione per parlare con l’avvocato Concas. Restano nella stessa stanza, si appartano in un angolo, poi Lombardini torna al suo posto: «Non ho altro da dire, ma mi riservo di presentare una memoria». «Dottor Lombardini, lei usa agende, o prende appunti al computer?». «No, non uso agende e non uso il computer per questo tipo di argomenti». «Ma qualunque magistrato ha un’agenda, anche per tenere gli appuntamenti». «Non io». L’interrogatorio si conclude e Ingroia stacca il registratore, sono le 16.40. Una lunga verbalizzazione, Caselli al computer. Lombardini chiede di andare in bagno e si allontana per dieci minuti. Non c’è anima viva nei corridoi, il silenzio è totale, fuori cronisti e fotografi. C’è il rito della lettura e firma del verbale, poi i magistrati di Palermo, che hanno già deciso di perquisire lo studio di Lombardini per ottenere «non spontaneamente» agende e appunti, chiedono al procuratore e al suo avvocato: «Potete attendere ancora un quarto d’ora?». Luigi Lombardini aspetta in corridoio e si abbandona su una poltrona, la testa sullo schienale. In questa posizione un teleobiettivo lo fotografa per l’ultima volta. Lo richiamano, «si può accomodare», e gli consegnano il provvedimento di perquisizione. Non gli tremano le mani, fino all’ultimo è impassibile, dice: «D’accordo» e cerca l’avvocato. Concas non c’è. Chiede di telefonare, cerca qualcuno allo studio dell’avvocato. «Stanno arrivando», dice. Il dramma del procuratore si decide qui, in questi ultimi minuti, pensieri tumultuosi e silenzio, facciata gelida e disperazione. Un gioco delle parti senza parole e senza capire. Quando arriva il figlio dell’avvocato Concas, c’è l’ultima richiesta a Lombardini: «Ci accompagni nel suo studio», e l’ultima sua parola: «D’accordo». Apre l’ufficio, «con un balzo va verso una seconda porta, si chiude dentro e si spara». «Interrogatorio regolare», dichiara il ministro della Giustizia Flick. E manda gli ispettori a Cagliari, «all’interno della Procura dove qualcosa», diceva Lombardini, «è stato costruito contro di me».

GIUSEPPE MARABOTTO NON HA INSEGNATO NIENTE. IL CASO DI VINCENZO TOSCANO E GIUSEPPE SALERNO.

Impostare la giustizia come un’azienda privata, scrive Cesare Alfieri su “L’Opinione”. In Italia i magistrati avanzano in carriera per il passare del tempo e senza alcun merito, alcuni addirittura per demerito come insegnano i casi dei giudici Vincenzo Toscano, Alfredo Robledo e Ferdinando Esposito. Questi sono noti solo da ultimo, per fatti recenti di cronaca, ma sono migliaia i giudici, intere generazioni a dir la verità, che hanno navigato il mare del demerito a proprio vantaggio, non scoperti. Si guardi il caso di Vincenzo Toscano che è stato di fatto “promosso” perché trasferito da Torino a Milano dopo avere dato per lungo tempo lavoro alla propria amante garantendole consulenze strapagate e per le quali si prodigava lui stesso presso i collegi giudicanti perché ottenessero decisione favorevole. La “sanzione” inferta al giudice è stato il solo trasferimento, per di più migliorativo, e la perdita di un unico anno di anzianità, capirai, decisamente troppo poco a fronte dell’interesse generale contrapposto e per il quale la pubblica amministrazione lo ha assunto e mantiene sul nostro groppone cioè con i nostri soldi, che è l’interesse di noi tutti, del Paese al servizio imparziale della giustizia. E cosa dire della annosa lite pubblica dei ridicoli Robledo e Bruti Liberati? Di fatto li abbiamo pagati finora, li paghiamo tuttora e continueremo pure a pagarli profumatamente per regolare le loro beghe più o meno diffamatorie verso loro stessi, e ciò che più interessa verso noi tutti, spettatori fruitori del servizio giustizia, che dovrebbe essere equilibrato e imparziale. Robledo è stato spedito “in punizione” a Torino e al posto del pubblico ministero è stato mandato a fare il giudice, cioè di fatto elevato a un gradino più alto, “ promosso” nella scala della carriera togata. Bruti Liberati è rimasto invece piantato a fare danno a Milano. E Ferdinando Esposito? Parente di quell’Esposito che si pronunciò contro Berlusconi, il per niente povero giovanotto, collocato come è noto in magistratura, si è fatto pagare la casa da altri, probabilmente pure la cena in compagnia della Minetti assessora fuori posto, e intercettato e pedinato dalla ringhiante Ilda Bocassini è tuttora oggetto di un fascicolo tenuto ben chiuso nel cassetto dei procedimenti disciplinari insabbiati. Il consiglio superiore della magistratura gli ha dato un buffetto suggerendogli di non fare più il pm a Milano ma di andare a fare casini in qualità di giudice per le indagini preliminari a Torino, dove la carriera comunque prosegue in attesa di danni ai malcapitati. E Woodcock? Giudice eternamente in cerca di popolarità e di celebrità da gossip, ci ha provato finora con i disastri Vip Gate e il Savoia Gate “grazie” a cui lo Stato italiano, cioè noi, dovremo risarcire Savoia con oltre cinquantamila euro. E De Magistris? Dopo le disfatte giudiziarie Why not e Toghe lucane, “cacciato” da pm a fare il giudice, anche lui di fatto “promosso”, usata poi bene la pelle degli altri, approda in politica a fare, disastrosamente, il sindaco, come sanno tutti i napoletani. Utile riferire poi che i giudicanti quando non sono quasi tutti parenti, si conoscono comunque molto bene tra loro con estensioni, affiliazioni e apparentamenti in giro tra le corti tutte, quella dei conti, al consiglio superire della magistratura, in cassazione, alla corte costituzionale, nei tribunali civili, penali di ogni genere e grado, amministrativi, al consiglio di Stato, tra giudici di pace, in avvocatura generale dello Stato e con agganci a intreccio e incastro con le nostre università pubbliche e con la pubblica amministrazione e i suoi organi, si pensi ai ministeri, in politica. Questo ammasso amministrativo burocratico giudiziale sociale ha il proprio minimo denominatore comune consistente nel fatto di essere strenuamente quanto ingiustificatamente convinto di essere non solo nel “giusto” elevandosi a una sorta di Tribunale dell’Inquisizione generale d’Italia ma anche di essere, allo stesso modo di ciò che sostiene in questi giorni di sé Gino Paoli, persone “serie” mentre, come si è visto, così non è. Pensano, vorrebbero esserlo, ma non lo sono. La verità è che approfittano, da generazioni, del sistema sbagliato che si è data o cui è giunta scelleratamente l’Italia, per cui viene dato loro da mangiare mensilmente semi gratuitamente senza che rispondano nei fatti di ciò che fanno dalla mattina alla sera, e si ricordi che all’ora di pranzo chiudono baracca, mentre un qualsiasi altro lavoratore privato, tutti gli altri lavoratori, lavorano senza soluzione di continuità perchè non assistiti nè garantiti a spese della collettività. La giustizia pubblica, cioè retribuita a fine mese da noi cittadini italiani, dallo Stato, si muove tra autoassoluzioni e assoluzioni, sparuti ammonimenti, miracolata per lo più, tra sanzioni minime e inoffensive, mai nessuna cacciata dalla magistratura, pochissimi i casi di responsabilità civile, penale niente. I giudici fanno danni in Italia impunemente. Non sono responsabili di niente, spostano il culetto d’oro fino alla sedia giudicante e s’accomodano tutta la vita, i guai restano quelli che infliggono agli altri. In un’azienda privata ciò non può succedere perchè, per quanto si possa fare, ogni nodo viene al pettine in men che non si dica e non ci si consente di insistere più di tanto in comportamenti contrari al benessere e alla utilità dell’azienda stessa perché se ne paga immantinente il prezzo salato. La giustizia in Italia è impostata e segue “regole” essenzialmente contrarie all’interesse fondamentale del nostro Paese e di noi cittadini. Accusa e difesa in Italia non sono affatto sullo stesso piano in Italia, perché l’avvocato risponde di ciò che fa mentre il giudice no. I giudici, privi di qualsivoglia responsabilità, si allontanano prontamente dalla realtà vera e pretendono, abusano, fanno danni. Ad esempio pretendendo di fare le leggi in vece del legislatore che è unicamente quello eletto dal popolo italiano. Né si può solo sperare nel buon gusto di un comportamento corretto da parte di soggetti cui il sistema dà potere di decisione. Oggi è necessario “immergere” i giudici nella loro responsabilità, renderli responsabili, “colpevoli” di ciò che fanno, farli convergere per intero nella responsabilità di ciò che combinano, che non significa richiamarli di tanto in tanto, come ha fatto da ultimo inutilmente Sergio Mattarella alla imparzialità e alla serietà, ma trascinare l’intero corpo giudicante nel mercato privato e farlo funzionare, in maniera indipendente economicamente, da solo, lontano dallo Stato. Stato minimo e servizi, pochi, pagati con la tassazione di tutti. Il servizio giustizia deve pagarsi da solo come già succede negli arbitrati degli arbitri, nelle conciliazioni dei conciliatori, nelle negoziazioni dei negoziatori, nelle mediazioni dei mediatori. Il governo non eletto Renzi, con gli altri due governi di sinistra parimenti non eletti Monti e Letta, hanno al contrario appesantito la nostra struttura immettendo centinaia di altri giudicanti a tempo indeterminato, che significa che li si dovrebbe mantenere a vita a nostre spese, qualsiasi cosa combinino e facciano. Ecco il perché gli affari e l’economia tutta, il mercato fuggono lontano a più non posso dall’Italia giustizialista, pubblica, impiegatizia, statale, arbitraria, inaffidabile, inefficiente.

Affidava ricche consulenze all'amica, giudice torinese trasferito a Milano. E' Vincenzo Toscano, della prima sezione civile, la sentenza della Cassazione ha confermato quella del Csm, scrivono “La Repubblica” e “Il Messaggero”. Confermato dalla Cassazione, il trasferimento da Torino a Milano e la perdita di un anno di anzianità, per Vincenzo Toscano, giudice del Tribunale del capoluogo piemontese ritenuto colpevole di aver violato il dovere di imparzialità e correttezza per aver affidato "incarichi remunerati" ad una consulente, Maurizia M., "cui era legato da vincoli sentimentali, nonché a persone da questa segnalate, liquidando compensi di molto superiori alla media di quelli liquidati agli altri consulenti". Inoltre, il giudice Toscano, come presidente di collegio - spiega la Cassazione nella sentenza 3020 depositata oggi - non si era astenuto dal trattare una causa "pur essendovi obbligato per aver dato consigli sulla controversia attraverso contatti diretti con una delle parti, e per aver in tal modo compiuto atti diretti ad arrecare a costei un indebito vantaggio, anche attraverso la rassicurazione, data alla medesima ed alla Maurizia M., che egli avrebbe operato in seno al collegio da lui presieduto per ottenere una decisione favorevole, e che anche la composizione del collegio sarebbe stata realizzata a tal fine". Con questa decisione depositata oggi, le Sezioni Unite civili della Suprema Corte hanno convalidato quanto deciso dal Csm con pronuncia del 18 settembre 2013. Tutte le obiezioni difensive sono state giudicate "non fondate". Contro il togato sono state usate anche intercettazioni disposte in un procedimento penale.

Per i poveri cristi questa sarebbe stata condanna penale certa per abuso in atti di ufficio: ma così va in Italia.

Il suocero è consulente, bufera sul gip Salerno. Il giudice dell'inchiesta Gec: "Non ne sapevo niente, lascio il caso" Le indagini dei carabinieri sulla Gec sfociano nel blitz del 29 novembre 2012. Nel febbraio 2013 Salerno firma il decreto di giudizio immediato. Il 20 maggio il giudice chiede l'astensione dal procedimento, scrive “Meo Ponte”. L'inchiesta, come prevede la prassi, è stata affidata alla Procura della Repubblica di Milano ma tutti negli uffici giudiziari di Torino sperano si concluda con un lieto fine. Nell'occhio del ciclone è infatti finito un magistrato torinese, il giudice per l'indagine preliminare Giuseppe Salerno, noto per essersi occupato negli ultimi tempi di indagini scottanti sulle infiltrazioni mafiose in Piemonte e di altre nate da scandali nella pubblica amministrazione. Ed è proprio da una queste inchieste che sono nati, a sorpresa, i suoi guai. Nel novembre 2012 i carabinieri del Nucleo Investigativo, coordinati dal pm Giancarlo Avenati bassi, avevano scoperto che funzionari regionali di Piemonte, Veneto e Campania avevano ricevuto soldi o regali per compilare bandi "ad hoc" per affidare la riscossione delle tasse automobilistiche alla Gec spa, società formata per metà da privati e per il resto da nove banche del Cuneese. In manette erano finite in quei giorni 15 persone con accuse che spaziavano dalla turbativa d'asta, all'associazione per delinquere, alla corruzione e alla concussione. A firmare l'ordinanza di custodia cautelare era stato proprio il gip Giuseppe Salerno che nel febbraio 2013, dopo la chiusura dell'indagine, aveva firmato il decreto di giudizio immediato, fissando la prima udienza per il 4 giugno. Il pm aveva chiesto anche il commissariamento della Gec e il gip aveva nominato per quel ruolo un giovane commercialista, Andrea Giordana. Mentre l'inchiesta seguiva il suo iter (con i primi patteggiamenti), qualcuno dei soci cominciava a nutrire forti perplessità su un personaggio scelto come collaboratore dal commissario Giordana. "Un tipo onnipresente - ricorda qualcuno dei soci della Gec - tanto da sembrare lui il commissario". Anche efficiente però, al punto che qualche settimana fa erano iniziate a circolare voci sulla conclusione del commissariamento dato il buon andamento della società. Nel frattempo però si erano diffuse altre voci. Ben più preoccupanti. In particolare che il collaboratore del commissario Giordana, l'ingegnere Carlo Di Giacomo, non solo avesse avuto qualche noia con la giustizia in passato ma fosse anche legato da qualche vincolo di parentela con il giudice Salerno. Una breve "indagine" aveva permesso di appurare che le indiscrezioni erano fondate e che l'ingegnere altro non era che il padre dell'avvocato Luisa Di Giacomo, legale specializzato in cause di lavoro, ma soprattutto moglie del gip Giuseppe Salerno. Gli avvocati di diversi soci Gec avevano così messo il presidente dei gip Francesco Gianfrotta al corrente della loro scoperta e il pm Annamaria Loreto li aveva successivamente interrogati. Nel frattempo il giudice, appreso della presenza del suocero come collaboratore del commissario, aveva detto di non saperne nulla, giustificando la sua ignoranza con il fatto che stava separandosi dalla moglie. Nel maggio 2013 però aveva scritto al presidente del Tribunale Luciano Panzani e al presidente dei gip Gianfrotta poche righe: "Il sottoscritto dottor Giuseppe Salerno dichiara di astenersi dal procedimento penale a carico della società Gec per gravi ragioni di convenienza essendo emerso un coinvolgimento nella procedura commissariale della Gec di soggetto legato da vincolo di affinità con il giudice sottoscritto". La sua astensione era stata autorizzata, ma nel frattempo i colleghi di Milano hanno aperto un'indagine.

Commissariamento Gec, affare di famiglia, scrive “La Repubblica” . Non solo il suocero ma anche la moglie. O meglio, stando alle sue dichiarazioni, la ex moglie. Assume la fisionomia di un vero e proprio affare di famiglia la vicenda del commissariamento della Gec spa per il giudice per le indagini preliminari Giuseppe Salerno, ora sotto inchiesta a Milano. Dalla documentazione emerge infatti che il commissario Andrea Giordana non solo si avvaleva della collaborazione dell'ingegnere Carlo Di Giacomo. suocero (o ex suocero) del magistrato ma anche di quella della consorte di Salerno, l'avvocato Luisa Di Giacomo, specializzata in cause di lavoro. Ed è infatti proprio in un causa di lavoro intentata da un dipendente della Gec per impugnare il licenziamento deciso dalla società che fa capolino il nome di Luisa Di Giacomo. La mattina del 21 aprile scorso infatti davanti alla Commissione provinciale di conciliazione si ritrovano da una parte il dipendente a cui è arrivata la lettera di licenziamento e il suo legale e dall'altra la Gec spa, rappresentata dal procuratore Riccardo Travers assistito dall'avvocato Luisa Di Giacomo. La parti che si erano incontrate, come recita il verbale d'udienza, «al fine di individuare soluzioni alternative alla risoluzione del rapporto di lavoro» chiedono un rinvio che viene concesso dalla Commissione fissando un nuovo per il 10 maggio. La presenza della moglie (o ex moglie) come legale della Gec spa nella causa di lavoro aggrava la posizione del giudice Salerno. Portava infatti la sua firma l'ordinanza di custodia cautelare che nel novembre 2012 aveva fatto finire in carcere 15 persone dopo che il pm Giancarlo Avenati Bassi e i carabinieri del Nucleo Investigativo avevano scoperto il giro di soldi e favoti ricevuti dai funzionari regionali di Piemonte, Veneto e Campania per orchestrare bandi per la riscossione delle tasse automobilistiche appositamente per la Gec spa. E soprattutto era stato lui, dopo la richiesta di commissariamento del pm, a nominare come commissario Andrea Giordana, un giovane commercialista. Commissario che si era avvalso della stretta collaborazione dell'ingegner Di Giacomo, suocero (o ex suocero) dello stesso gip. Con qualche sorpresa per gli interessati. Dato che dopo qualche tempo era stato lo stesso commissario a chiedere la fine del commissariamento mentre, secondo voci ricorrenti, l'ingegner Di Giacomo che aveva comunque ben gestito la società nonostante un precedente penale «per spendita di dinari falsi», si dichiarava disposto a ricoprire l'incarico di amministratore delegato. La scoperta dei parenti del gip Salerno nella gestione commissariato della Gec aveva suscitato un piccolo scandalo. Salerno si era giustificato di non saperne nulla perché in fase di separazione dalla moglie. Nel maggio 2013 aveva però dovuto scrivere al presidente del tribunale Luciano Panzani e al presidente dei Gip Gianfrotta chiedendo di potersi astenere dal procedimento penale riguardante la Gec spa «essendo emerso un coinvolgimento nella procedura commissariale della società di un soggetto legato da affinità» con lui. Si scopre però ora che «legati da affinità» nella storia della Gec spa non c'era soltanto «un soggetto» ma almeno due perché oltre al suocero (o ex suocero) compariva anche la moglie (o ex moglie). Sulla vicenda sta indagando la procura della Repubblica di Milano che deve accertare se questo sorprendente saga familiare sia frutto del caso o di qualcosa di ben più grave.

LA LEGA DA LEGARE. RIMBORSOPOLI REGIONALE.

Roberto Cota nei guai: ha mentito ai magistrati come altri dieci consiglieri regionali durante gli interrogatori di Spesopoli, scrive “Il Quotidiano Piemontese”. Roberto Cota sembra essere stato scoperto a mentire alla Procura della Repubblica negli interrogatori subiti per i rimborsi delle spese in Regione Piemonte. Cota è stato messo in difficoltà, come altri 10 consiglieri regionali su 43, dall’incrocio fra le sue  dichiarazioni e i tabulati telefonici.  Cota aveva sostenuto di non aver potuto fare determinate spese perchè quel giorno non era nei luoghi citati,  ma poi dai tabulati dei suoi telefoni si è scoperto che in quei posti c’era eccome, proprio mentre venivano battuti gli scontrini che gli rinfaccia la Procura.  Cota ha annunciato la  presentazione di un esposto per la continua fuga di notizie sull’inchiesta sui rimborsi dei gruppi del consiglio regionale del Piemonte da parte del suo avvocato Domenico Ajello che ha dichiarato: “Alcune testate giornalistiche, nel peggior solco di un’informazione parziale ed affastellata che confonde piuttosto che informare hanno pubblicato notizie false e ricostruzioni bizantine su risultanze insignificanti e parziali dell’indagine”.

Racconta i fatti Repubblica.

Per lui, come per numerosi altri consiglieri che avevano adottato in interrogatorio la stessa tecnica. Dieci politici su 43, è stato accertato, hanno detto il falso: le celle dei loro telefoni li hanno collocati esattamente nel posto in cui veniva emesso lo scontrino incriminato. E rinnegato. Cota, in particolare, si trovava proprio alla cassa di quell’autogrill quando la dipendente scannerizzava i prodotti. Lo testimoniano i segnali che inviava il suo telefonino alle celle telefoniche poi consultate dagli inquirenti. Eppure si è presentato davanti ai pm con un lungo e dettagliato calendario di trasferte istituzionali per dire che lui lì non c’era mai stato. Ed è così finito nell’elenco di consiglieri che hanno fornito versioni false per giustificare le spese pazze che la Procura di Torino gli contestava. Forse nella speranza che le celle telefoniche non li avessero mai “agganciati”. O che nessuno facesse un lavoro tanto certosino. Se un indagato mente non commette reato. Questo bisogna dirlo. Negare una colpa è una delle linee di difesa che si possono concordare con l’avvocato. Stupisce che il presidente Cota proprio all’indomani della notifica della chiusura indagini, nella quale spiccano questi e altri dettagli imbarazzanti, rilasci pubbliche dichiarazioni di questo tenore: “Quello che mi preme maggiormente scrive in una lettera aperta come uomo prima che come politico, è far sapere a tutti i piemontesi che il loro presidente è una persona onesta, dedita al lavoro, che non esclude la possibilità dell’errore, ma è sempre stato rispettoso delle leggi”.

Sempre Repubblica ricorda che che Cota aveva aveva pronunciato a suo tempo queste parole

“Non posso restare Presidente anche solo con l’ombra di un avviso di garanzia”. Pronunciava queste parole, lapidarie, il governatore del Piemonte, Roberto Cota, ai magistrati della procura di Torino che lo ascoltavano in merito all’inchiesta sulle spese pazze della Regione. Era l’11 gennaio 2013. Da allora sono passati più di 11 mesi. E nonostante sia stata raggiunto da ben due provvedimenti, avviso di garanzia e chiusura indagini, è ancora oggi alla guida del governo piemontese.

Cota nella bufera, ecco la lista di tutte le spese anomale, scrive Massimo Numa su “La Stampa”. Le deposizioni del presidente davanti ai pm sono smentite dai tabulati telefonici. L’avvocato: era il cellulare errato. Più che i soldi, 32 mila euro in tre anni, sono le contraddizioni e i non ricordo - oggi - a mettere in difficoltà il governatore del Piemonte Roberto Cota, investito con la sua maggioranza dall’indagine di Rimborsopoli chiusa nei giorni scorsi dalla Procura di Torino. Cota ha scritto una lettera ai cittadini per ribadire la sua onestà, ma i tabulati telefonici sembrano smentire la ricostruzione dei suoi spostamenti e dunque delle spese sostenute. «Un problema dovuto ai cellulari - dice il suo avvocato, Domenico Ajello - hanno tracciato solo quello personale, ma il governatore spesso usa quello d’ufficio. Useremo i prossimi 20 giorni per chiarire».  Chiarimento che il governatore sperava di avere già fornito presentandosi due volte dai pm. La prima, l’11 gennaio 2013, come persona informata dei fatti; la seconda, il 16 aprile, come indagato per peculato. Nel primo confronto, Cota, esordì spiegando le politiche economiche della Regione che ha «tagliato le spese da 44 milioni di euro a 11». Poi, entrando nel merito dell’inchiesta: «Non ho mai usato i fondi nella disponibilità del presidente ma solo il budget di consigliere regionale». Cioè 1500 euro al mese, più 5 mila annuali. Commentando, nel corso del confronto, l’ammontare delle spese, il governatore ha detto ai pm: «Per fortuna mia moglie lavora, sennò saremmo in bancarotta!». Cota s’è autoridotto lo stipendio e guadagna 144 mila euro lordi all’anno. Poco più di 6 mila 900 euro netti al mese. La Procura domanda, Cota risponde, anche se non sempre ricorda con esattezza tutti i dettagli. Il secondo confronto è più serrato, si analizzano spese al ristorante, nei negozi, al bar. Sintesi: «Su un totale di rimborsi di 32 mila euro me ne contestate 25 mila, ma non avrei mai potuto sostenere queste spese con le mie risorse». I pm gli presentano gli scontrini di un negozio di abbigliamento: tre foulard. «Regali di compleanno di collaboratrici». Due penne pagate 160 euro, una destinata al prefetto di Novara. Definita una «spesa di rappresentanza», così come i regali per il matrimonio di Michele Coppola, suo assessore alla Cultura, e per Silvio Magliano, esponente del Pdl. Quindi libri per l’ex ministro Giulio Tremonti e l’ex governatore Enzo Ghigo. Tre le cravatte destinate agli autisti. Spuntano ricevute di soggiorni ad Alassio e San Lorenzo al Mare. Cota ricorda che riguardavano una sua collaboratrice, Michela Carossa. È la figlia di Mario, capogruppo della Lega, anche lui indagato per uso anomalo dei rimborsi. Tra le spese spunta anche un dvd del film «Fair Game». Traduzione: denaro restituito.

«Non ho mai fatto cene e festini in maschera, come è avvenuto altrove – spiega Cota al “Secolo XIX”. Non ne avrei avuto il tempo e non è assolutamente nella mia indole di uomo e padre di famiglia». Lo scrive il presidente della Regione Piemonte, Roberto Cota, in una lettera inviata ai giornali di tutta la regione. Il governatore interviene sulla vicenda dei cosiddetti rimborsi facili rivolgendosi direttamente ai piemontesi: «Avete un presidente onesto e leale, che si dedica anima e cuore al governo della Regione». Il governatore del Piemonte figura tra i 43 politici per i quali la Procura di Torino ha chiesto la non archiviazione. «Mi si contesta di aver utilizzato dei fondi a titolo personale - scrive Cota - niente di più lontano dalla verità, dalla mia indole e dalla mia storia». Per sgombrare il campo da «ogni possibile equivoco», nella lettera il presidente della giunta piemontese ricostruisce le accuse nei suoi confronti. «Mi contestano spese per complessivi 25 mila euro, in un periodo di quasi tre anni. Circa 800 euro al mese, di cui l’importo più consistente pari a 21 mila euro per pranzi, cene e viaggi connessi alla mia attività politica e istituzionale, su tutto il territorio nazionale, per impegni pressochè quotidiani. Non vedo e non riesco a immaginare - sottolinea - come avrei potuto fare simili cene o trasferte per interessi personali. Quello che mi preme maggiormente, come uomo prima che come politico - conclude la lettera di Cota - è far sapere a tutti i Piemontesi che il loro presidente è una persona onesta, dedita al lavoro, che non esclude la possibilità dell’errore, ma è sempre stato rispettoso delle leggi». «Vado avanti a testa alta, con immutato impegno» ha poi sottolineato Cota ai microfoni del Tg3. «In un momento di crisi come quello attuale - aggiunge il governatore - sento tutto il peso della responsabilità che ho assunto e che intendo portare avanti».

Cota ha mentito ai magistrati: dieci consiglieri "bugiardi". Il presidente piemontese inchiodato dai tabulati telefonici: era nell'autogrill dove aveva negato di aver fatto acquisti, scrive Ottavio Giustetti su “La Repubblica”. Due interrogatori frettolosi, il primo nella speranza di dribblare l'avviso di garanzia, il secondo per contestare le spese oggetto d'inchiesta, sono serviti solo a consacrare che Roberto Cota ha mentito. Lo inchiodano le sue dichiarazioni ai pubblici ministeri e il confronto con i tabulati telefonici disposti dalla Guardia di Finanza. "Quei soldi non li ho spesi io  aveva detto il governatore ai magistrati confutando diverse voci  non è possibile perché non mi trovavo lì quel giorno".

La lettera ai piemontesi: "Sono un presidente onesto e leale"

Così sono partiti i controlli. Per lui, come per numerosi altri consiglieri che avevano adottato in interrogatorio la stessa tecnica. Dieci politici su 43, è stato accertato, hanno detto il falso: le celle dei loro telefoni li hanno collocati esattamente nel posto in cui veniva emesso lo scontrino incriminato. E rinnegato. Cota, in particolare, si trovava proprio alla cassa di quell'autogrill quando la dipendente scannerizzava i prodotti. Lo testimoniano i segnali che inviava il suo telefonino alle celle telefoniche poi consultate dagli inquirenti. Eppure si è presentato davanti ai pm con un lungo e dettagliato calendario di trasferte istituzionali per dire che lui lì non c'era mai stato. Ed è così finito nell'elenco di consiglieri che hanno fornito versioni false per giustificare le spese pazze che la Procura di Torino gli contestava. Forse nella speranza che le celle telefoniche non li avessero mai "agganciati". O che nessuno facesse un lavoro tanto certosino. Se un indagato mente non commette reato. Questo bisogna dirlo. Negare una colpa è una delle linee di difesa che si possono concordare con l'avvocato. Stupisce che il presidente Cota proprio all'indomani della notifica della chiusura indagini, nella quale spiccano questi e altri dettagli imbarazzanti, rilasci pubbliche dichiarazioni di questo tenore: "Quello che mi preme maggiormente  scrive in una lettera aperta  come uomo prima che come politico, è far sapere a tutti i piemontesi che il loro presidente è una persona onesta, dedita al lavoro, che non esclude la possibilità dell'errore, ma è sempre stato rispettoso delle leggi". E poi affila le armi per contrattaccare la Procura di Torino, attraverso il suo avvocato milanese (avvocato anche di Roberto Maroni) Domenico Aiello, che la butta in polemica sulla scelta dei magistrati torinesi che coordinano le indagini  Andrea Beconi, procuratore aggiunto, Enrica Gabetta e Giancarlo Avenati Bassi, sostituti procuratori  di aver aderito al nuovo protocollo elettronico che prevede la consegna degli atti attraverso la posta elettronica certificata. Un metodo poco sicuro, del quale l'avvocato è rimasto sorpreso. "Vista l'importanza della questione  ha detto Aiello  non mi aspettavo un clicday". E poi ha aggiunto, entrando nel merito della linea d'accusa: "Non c'è stata nessuna valutazione giuridica dei controversi temi di diritto, proposti da più difese, da parte dei magistrati della Procura, che si sono limitati a ripercorrere pedissequamente le relazioni della polizia giudiziaria. Mi sarei aspettato, da loro, un maggior senso di responsabilità".

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

Indagato per corruzione Franco Bianchi, presidente della terza sezione Tar Lazio. Il giudice amministrativo si occupa di tutti i ricorsi che riguardano l'economia italiana: tra questi anche quella degli ex vertici del Mps contro le sanzioni per oltre 5 milioni inflitte loro da Bankitalia, scrive “La Repubblica”. Il gup di Torino ordina alla procura di indagare per corruzione Franco Bianchi, l'attuale presidente della terza sezione Tar Lazio. È la sezione che si pronuncia su tutti i ricorsi che riguardano l'Economia italiana. Il 3 luglio 2013, ad esempio, deciderà anche dei ricorsi presentati dagli ex vertici del Monte dei Paschi di Siena contro le sanzioni per oltre 5 milioni di euro inflitte loro da Bankitalia. Ma la sezione di Bianchi è balzata agli onori delle cronache di recente per aver accolto - in controtendenza rispetto ad altre sezioni del Tar - un ricorso che in sostanza ha demolito la spending review del governo sulla Sanità, annullando il listino prezzi di acquisto delle Asl e mandando così in fumo un miliardo di risparmi. La vicenda giudiziaria torinese chiama in causa Bianchi quando era presidente del Tar Piemonte: secondo l'accusa, avrebbe sottoscritto un patto corruttivo con uno dei ricorrenti, Adolfo Repice, in cambio di una raccomandazione presso l'ex dg della Rai, Agostino Saccà, affinchè trovasse un posto di lavoro al figlio. Il procedimento disciplinare. Per questo episodio Bianchi è anche sottoposto ad un processo disciplinare presso il "Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa", il Csm dei magistrati del Tar. Mentre il procedimento penale era in corso di definizione, e quello disciplinare in fase di avviamento, Bianchi veniva trasferito dalla presidenza del Tar Piemonte e "promosso" a quella della Terza sezione Lazio. La storia. Il Tar subalpino nel 2010 deve pronunciarsi su un delicato contenzioso sanitario. Due holding della sanità privata - Villa Maria Pia Hospital srl e Casa di cura san Luca - si contendono la gestione di una Rsa comunale da 300 posti letto, l'Opera Pia Lotteri gestita da un commissario, Adolfo Repice, ex segretario del Comune. Repice aveva affidato la Rsa a Villa Maria Pia, la San Luca aveva fatto ricorso al Tar. Qualcosa, però, nel contenzioso non fila liscio, tanto che uno dei tre componenti del collegio del Tar presieduto da Bianchi, Paola Malanetto, si insospettisce. E  invia un esposto in procura. "In questo processo - denuncia il consigliere Malanetto - sussistono possibili irregolarità". Non dice nulla al presidente "per fondati dubbi sulla sua riservatezza". Le intercettazioni telefoniche disposte dai pm Cesare Parodi e Francesco Pelosi traducono in realtà i sospetti della Malanetto. Repice e Bianchi hanno effettivamente fatto un accordo: favorire Villa Maria Pia in cambio di una raccomandazione da Saccà per il figlio di Bianchi. Ma i pm interpretano quei fatti come una tentata corruzione e chiedono l'archiviazione per il magistrato. Il colpo di scena. All'udienza preliminare, avvenuta nei giorni scorsi, il gup Silvia Salvadori riformula il reato in corruzione, condanna Repice (corruttore), e ordina ai pm di procedere contro Bianchi (corrotto). I pubblici ministeri stanno in queste ore preparando la richiesta di riapertura indagini nei confronti dell'attuale presidente della Terza sezione Tar Lazio.  La nuova contestazione. Secondo il giudice Salvadori, la promessa (o dazione dell'utilità), s'è consumata con l'intervento da parte di Repice nei confronti di Saccà. "Le intercettazioni telefoniche e altri risultanze - si legge nell'ordinanza del gup - dimostrano l'accordo corruttivo in funzione del quale Bianchi si è dimostrato adesivo all'interesse della parte processuale rappresentata da Repice rispetto all'esito del ricorso, e in vista del perseguimento di un proprio interesse personale, ossia l'intercessione nei confronti di Saccà a favore del figlio". Secondo il gup, la presenza, all'interno di un organo giurisdizionale collegiale "di un componente privo del requisito dell'imparzialità, perché partecipe di un accordo corruttivo, inficia, nonostante l'estraneità degli altri membri, la validità dell'intero iter decisionale perché il giudice corrotto è del tutto privo di legittimazione. Le intercettazioni. Bianchi, due giorni prima dello svolgimento della Camera di consiglio da lui presieduta (13 gennaio 2011), telefona all'amico Repice e gli parla male della memoria della ricorrente San Luca, depositata da un luminare del foro torinese, l'avvocato Vittorio Barosio, professore di diritto amministrativo università di Torino. "L'offerta di Barosio - dice Bianchi - era tutta malandata una ricostruzione diciamo tutta sua, un po' fantasiosa". Dice poi "speriamo di confermare", anticipando così, osserva il gup, "univocamente la propria posizione discrezionale rispetto al thema decidendum del ricorso" a favore dell'amico Repice. Il giorno successivo della camera di consiglio, Bianchi rassicura Repice dell'esito del processo: "Abbiano definito in quel senso". Quindi lo informa di avere avuto qualche difficoltà. La memoria del docente amministrativista Barosio, evidentemente, non era poi così fantasiosa e malandata. "Barosio ci stava mettendo tutti nel sacco", spiega Bianchi con preoccupazione. "Con la frase "Barosio ci mette nel sacco" - osserva, però, la Salvadori - Bianchi rivendica una propria opinione già formata rispetto a una decisione già condivisa". Il presidente del Tar Piemonte, conclude l'ordinanza del gup, s'era messo a disposizione anche per altri ricorsi che Repice aveva pendenti in Calabria, in particolare a Catanzaro. "Là - gli promette Bianchi - ho degli amici da sentire".

L’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE.

Qui si vi presenta Don Ciotti, che agli occhi della gente, mediaticamente strabica, è il simbolo dell’antimafia militante e partigiana. Per tutti non è Leonardo Sciascia l’icona dell’antimafia, ma è un prete venuto dal nord. Si presenta con una sua intervista resa a Fabrizio Ravelli pubblicata su “La Repubblica”. Per fare corretta informazione bisogna che all’auto biografia si presenti il contraltare della biografia non autorizzata, ossia quello che su di lui dice chi ne conosce le più nascoste virtù o i più sordidi vizi. E’ importante conoscere colui il quale, di fatto, con la sua rete di associazioni e comitati che fanno capo a “Libera” e tutti vicini alla CGIL, ha il monopolio delle assegnazioni dei beni confiscati ai cosiddetti mafiosi, quindi un bene comune da condividere anche con chi non è di sinistra e non santifica i magistrati. Tra i tanti non appartenenti all’antimafia di regime troviamo il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul tema dell’antimafia truccata ha scritto un libro “Mafiopoli. La mafia vien dall’alto. L’Italia delle mafie che non ti aspetti”. Libro inserito nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Va giù pesante Antonio Margheriti “Mastino” con un suo articolo pubblicato su “Papalepapale”. Si prendono le distanze dal tono dissacrante e satirico, a volte sprezzante, ma non diffamatorio, ma si condivide il contenuto di fondo, per questo, per diritto di critica e di cronaca, è indubbio che non si può tacere quello che altri non dicono, specialmente se lo scritto è il contraltare ad una intervista che racconta una verità personale.

Don Ciotti, prete di lotta e di governo: "Ho cominciato sui treni dei disperati". Incontro di Frabrizio Ravelli con il fondatore di Libera: "Il vescovo mi disse: affido a Luigi una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada. Don Luigi Ciotti è uno di quei preti lottatori che non mollano mai, che trovi per strada e non in sacrestia, che dà del tu a tutti (anche nel primo incontro con l'avvocato Agnelli, che non fece una piega). Il Gruppo Abele lo conoscono tutti. La sua vita, un po' meno. Si incontrano una maestra nervosa, un medico disperato, un vescovo coraggioso, e tanti altri. Conta molto che Ciotti sia un montanaro.

Montanaro veneto, no?

«Sì sono nato a Pieve di Cadore nel '45, ed emigrato in Piemonte con mio padre, mia madre e le mie sorelle per la ragione che nel dopoguerra spinse migliaia e migliaia di persone ad andare a cercare altrove la dignità di lavoro, la speranza».

E te ne sei andato a cinque anni.

«Mi ricordo l'impatto traumatico con la città di Torino, perché mio padre aveva trovato lavoro ma non aveva trovato casa. E quindi la nostra casa è stata la baracca del cantiere del Politecnico di Torino. Mio padre lavorava nell'impresa che ha costruito la parte più vecchia. Quegli anni hanno segnato la mia vita insieme con la baracca, il cantiere, le facili etichette che la gente ti mette perché tu vivi dietro uno steccato. Un pensiero sempre sbrigativo, che generalizza, e che tuttora resta una delle ferite aperte. Mio padre era muratore, poi è diventato il capocantiere, il capomastro».

A Torino da immigrato che viveva in una baracca.

«Sì, la baracca del cantiere. Dignitosa. Una delle cose che mi ricorderò sempre come un avvenimento è di quando una volta all'anno andavamo a comprare la carta da zucchero, quella blu, poi con le asticelle di legno che papà tagliava dalle assi attaccarla al soffitto. Era festa, festa in famiglia. Certo, il gabinetto era una baracca all'esterno. Però ho alcuni dei ricordi belli della mia infanzia. Il padrino della cresima che ho fatto nella parrocchia lì vicino era il gruista, Paolo il gruista. Eri un po' coccolato dagli operai. Poi venne la drammatica sera, credo fosse proprio un tornado che buttò giù i 42 metri della Mole Antonelliana, fece saltare tutti i tetti della Grandi Motori, e ci portò via gran parte della baracca. Ricordo la mia mamma che ci teneva stretti, un po' disperata. Volò via un pezzo di tetto, e il gabinetto lì vicino, che era fatto di assi».

E com'eri tu, bambino della baracca?

«L'altro ricordo è quello legato alla mia esperienza scolastica in prima elementare. Io dovevo andare a scuola in quel territorio, nella zona ricca di Torino. E avvenne un fatto che mi ha segnato molto. Questa scuola, la Michele Coppino, aveva un regolamento: tutti con il grembiule. Mia madre andò dalla maestra a dire che non era in grado di comprare il grembiule e il fiocco per me, perché aveva dovuto comprarlo alle mie sorelle, e non c'erano soldi. Quindi disse: per un mese manderò mio figlio a scuola senza il grembiule. Sai, tu puoi essere povero ma dignitoso, la dignità di andare a dire: guardi, non ce la faccio. Quindi io mi son trovato a essere diverso, dentro una scuola dove tutti avevano questo benedetto grembiule e questo fiocco interminabile, e tutti che ti chiedevano come mai tu non avevi il grembiule. Tu ti senti diverso, ti senti etichettato, ti senti giudicato. Al punto che quando qualcuno mi chiedeva dove abitavo, io non dicevo che abitavo dietro quello steccato, ma in un palazzo».

Finisce che il diverso si ribella.

«Dopo venti giorni di prima elementare, e io che già mi sentivo diverso e in difficoltà, la maestra è arrivata a scuola quel giorno nervosa, magari aveva litigato col marito. E mentre in fondo alla classe i miei compagni ridevano e scherzavano, lei non se l'è presa con loro, ma se l'è presa con me, che ero il più vulnerabile, il più visibile, mi aveva anche messo al primo banco. E io devo averle detto: ma che cosa vuoi, non c'entro niente. Lei chissà cosa ha capito, e le è scappata un'espressione che per me è stata una ferita: ma cosa vuoi tu, montanaro? Detto quasi con disprezzo. I miei compagni tutti a ridere, e quindi mi sentivo ancora più umiliato da quella affermazione. Allora io ho tirato fuori il calamaio dal banco, uno di quei vecchi banchi di scuola, e gliel'ho tirato. L'ho colpita in pieno. Espulso subito dalla scuola, dopo venti giorni. Portato a casa da un bidello. Io non l'ho mai più incontrato, ma mi ricordo quella mano che mi portava a casa, e io piangevo perché sapevo di avere sbagliato e perché sapevo che mi aspettava una punizione, e mia madre me la diede sonora. Anche se anni dopo mia madre mi disse: Luigi, io lo sapevo che tu avevi difeso la nostra dignità, però non si fa a questo modo. Il vero problema venne quando i miei compagni uscirono di scuola alle 12,30 - io ero già espulso - e avevano qualcosa di nuovo da raccontare ai genitori o alla cameriera. Lo sai mamma cosa è successo oggi a scuola? Dimmi, cicci. Un nostro compagno ha tirato il calamaio alla maestra. Ah, povera maestra. E come si chiama quel compagno? Ciotti. Guai se ti vedo con quel compagno. Sono diventato il compagno cattivo».

Montanaro, e ribelle.

«Meno male che frequentavo la parrocchia. Andavo lì, eravamo un gruppetto, nella parrocchia di questo quartiere molto ricco di Torino. E' stato per me un momento importante, quando la tua vita viene segnata da quelle etichette. L'altro episodio che mi ha segnato è successivo, io dopo le medie andrò a scuola per prendere il diploma di radiotecnico, e lì avviene l'incontro con un signore su una panchina. Un disperato, che mi aveva colpito, perché io passando col tram lo vedevo sempre lì a leggere libri, sottolineando con una matita rossa e blu. Io avevo 17 anni, con gli entusiasmi e le fantasie di quell'età. Un giorno sono sceso dal tram, sono andato lì e gli ho detto: vuole che vada a prenderle un caffé? E lui niente. Torno alla carica: vuole un té? Lui zitto. Penso, sarà sordo, ma mi accorgo che non lo è. Era un medico, amato e stimato dalla gente, ed era successa una vicenda drammatica nella sua vita, che l'aveva portato su quella panchina. Era andato ubriaco in sala operatoria, e aveva provocato la morte di una donna, la moglie di un amico. Poi era uscito di testa, stava male. Però studiava ed era curioso. Dalla panchina lui vedeva dei ragazzi al bar di fronte, che entravano e uscivano - allora non c'era l'eroina - prendevano delle amfetamine, ci bevevano dei superalcolici e sballavano, facevano la bomba. Un giorno, quando alla fine nasce un rapporto fra me e lui, anche se stentato, mi dice: vedi, dovresti fare qualcosa per quei ragazzi. Lui era un uomo disperato e sofferente, morirà pochi mesi dopo. E io mi sono detto: questo incontro non sarà un incontro qualsiasi. Mi ha indicato una strada. Anche questo episodio ha lasciato un graffio nella mia vita».

E poi?

«Poi sono andato a vivere da solo. Ho fatto un gruppetto. Poi nasce il Gruppo Abele, che a Natale ha compiuto 45 anni. Io in seminario andrò dopo, avevo già il Gruppo Abele, avevo una storia dietro. Avevamo cominciato ad andare sui treni, dove i disperati senza casa dormivano: i treni arrivavano caldi. Ho pensato, caspita io incontro questa gente fuori, facciamo delle cose insieme, non li lascio soli. A volte la mattina eravamo così stanchi che il treno partiva, e ci trovavamo a Chivasso. Passavano i controllori, te la davi a gambe. Perché sai, se parli a tavolino non capisci questi mondi. E lì nasce la storia del Gruppo Abele, nasce sulla strada, poi le prime comunità, il lavoro al Ferrante Aporti, la casa di rieducazione del Buon Pastore. Le prime comunità in alternativa a quelle strutture. Una storia che è cresciuta, e che non è un Luigi Ciotti, è un noi: ho fatto questo perché l'ho fatto con altri. Io difendo questo noi, vuol dire che non è opera di navigatori solitari. E quando verrò ordinato sacerdote dal cardinale Michele Pellegrino, grande vescovo che si faceva chiamare padre, in una chiesa zeppa di mondo di strada, alla fine di quella celebrazione non volava una mosca, lui guardò tutti questi ragazzi e disse: Luigi è nato con voi, è cresciuto con voi, e io ve lo lascio. Però affido anche a lui una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada».

Michele Pellegrino, insigne grecista, vescovo coraggioso e innovatore.

«Lui veniva da noi. Ai nostri campi in montagna. Venne una volta e c'erano tutte le ragazze del mondo della prostituzione. Lui ascoltò e poi mi disse: quando hai una sera libera vieni a cena da me, tu mi hai aperto una finestra e io voglio capire di più questo mondo. Non giudicava, non semplificava, voleva capire. Un anno dopo andrà a celebrare il Natale con le prostitute del centro storico di Torino. Uno che non si è mai tirato indietro. E sarà lui quello che prenderà posizione quando il quotidiano La Stampa farà la grande campagna per ripulire la città dalle prostitute. La redazione si spaccò in due, per quella iniziativa di legge popolare. E lui fece quell'omelia nella notte di Natale, nel duomo di Torino, partendo dal Vangelo di Giovanni, e pose delle domande sulle cause, non solo sulle donne costrette a prostituirsi ma anche sui clienti, sulla prevenzione. Tu immagina un cardinale che fa questa omelia nel duomo, e si mette contro il quotidiano della città che raccoglieva firme. Pensa che venne Gina Lollobrigida con l'aereo per mettere la firma, e Claudio Villa il reuccio della canzone italiana. E poi la tenda di Porta Nuova, era il 1973, ti faccio vedere le foto con lui: disadattati e delinquenti non si nasce ma si diventa. Quando abbiamo preso posizione contro le carceri per minorenni, perché fossero solo l'extrema ratio, e si cercassero soluzioni diverse. Il Gruppo Abele cominciò un lavoro dentro le carceri, siamo andati dentro a vivere».

Dentro le carceri?

«Sì, a Roma al ministero c'era un direttore dell'Ufficio quarto, Umberto Radaelli, che ebbe l'intuizione e ci portò dentro. E dodici di noi hanno vissuto in carcere: fu la prima esperienza grande in Italia, di condivisione e di progetto dentro il carcere dei minorenni, qui al Ferrante Aporti. Poi a Roma qualcuno si agitò, fu costruita ad arte tutta una cosa per bloccare questa sperimentazione. Noi uscimmo facendo una denuncia, e Pellegrino verrà a quella denuncia del sistema, e con accuse false fummo messi sotto inchiesta col direttore, che fu sospeso. Noi uscimmo, ma dieci anni dopo quello diventò il grande progetto Ferrante Aporti. E una volta dimostrata la falsità delle accuse il direttore Antonio Salvatore fu promosso andò al Beccaria di Milano, e ne divenne il grande direttore. Ma la sua storia cominciò qui, con quell'atto di coraggio che abbiamo condiviso, con lui e con Umberto Radaelli».

Un momento indietro. Quando già c'era il Gruppo Abele sei andato in seminario.

«Sì, sono andato in seminario qui a Rivoli, uscivo ed entravo. Il cardinale Pellegrino capì che era un servizio per i poveri, per gli ultimi, per quelle fasce dimenticate. Il Gruppo Abele fu il primo in Italia ad aprire un centro droga sulla strada, trovando un gruppo di magistrati che avevano capito che la legge era un mostro giuridico. Noi ci siamo autodenunciati per aprire il centro droga. La legge stabiliva che tu dovevi denunciare, e le strade erano due: o il carcere o l'ospedale psichiatrico. Noi abbiamo aperto in via Giuseppe Verdi a Torino, giorno e notte, dove arrivava un sacco di gente anche per essere accudita, per mangiare e per dormire. Davamo i primi supporti in una città che negava l'esistenza di quel problema, che diceva fosse poca cosa. In due anni quattromila persone arrivarono, perché non c'era nulla, quindi si andavano ad aggrappare dove trovavano dei riferimenti. La città comincia a prendere coscienza, noi cominciamo a fare la battaglia politica per avere una legge diversa, che sfocerà nello sciopero della fame del '75 in piazza Solferino, che porterà il Parlamento italiano a far la legge con cui nascono i Sert, nascono i servizi. Pellegrino sarà presente in tutti questi momenti».

Poi quando succedono cose come la spedizione punitiva contro un campo rom ti cadono le braccia.

«Sì, io l'ho detto, sono stato lì. Mi sono stancato di sentir parlare di emergenze in questo Paese. Queste non sono emergenze, sono percorsi che si sono consolidati nel tempo. E se c'è uno sgombero da fare nel nostro Paese è lo sgombero dei pregiudizi, dell'ignoranza, della non conoscenza. Questo dei rom è un popolo che ha voglia di vivere, un popolo gioioso, un popolo poetico. Che dev'essere aiutato a poter vivere delle condizioni di legalità. Questi vivono la terra di nessuno. Non si può parlare di emergenza. Io mi arrabbio quando si scopre con un misto di sorpresa e di vergogna che la miseria, la segregazione, la discriminazione, la violenza sono un problema anche nostro. Qui a Torino è avvenuta un'aggressione razzista, spiace doverlo dire, una vendetta. Ci sono belle esperienze concrete che dimostrano come l'accoglienza e le regole possono mettersi insieme. Qui a Settimo, come a Reggio Calabria per la raccolta dei rifiuti. Noi ne abbiamo assunti alcuni: vai a rubare il rame, e allora vieni qui a lavorare il rame. Si guadagnano la pagnotta in maniera onesta».

A un certo punto hai cominciato a occuparti di terroristi che stavano in galera.

«Da me venne una figura stupenda, padre David Turoldo. E mi disse: dobbiamo fare qualche cosa per dare una mano a sbrogliare questa situazione, nel rispetto della legalità. Così ho accolto diversi di loro, alcuni sono ancora qui, a una condizione: che si mettessero in gioco, che lavorassero. Che ci fosse, nel rispetto dei percorsi della giustizia, un cambiamento dentro le persone. Il paradosso, se così si può dire, è che in questo settore lavorava come volontario il procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli. Coordinava un gruppo, e si trovava a lavorare con quelli che aveva mandato in galera. Cose che sono successe in questo Gruppo Abele. Come il fatto che oggi accompagniamo in grande silenzio storie di testimoni di giustizia, nella lotta alla criminalità e alle mafie».

E poi nella tua vita entra la mafia.

«E' stata una serie di tappe. A Torino è nato il coordinamento delle comunità di accoglienza. Poi quando scoppia il problema Aids nasce la Lila, la lega per la lotta all'Aids, e io sono stato il primo presidente. Dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, mi sono chiesto: noi continuiamo a dare una mano ai giovani vittime delle dipendenze, alle ragazze sfruttate dalla prostituzione, ma chi guadagna dietro a questi? E ti dici: continuiamo a stare sulla strada, a lavorare all'accoglienza, però il problema della mafia attraversa tutto il nostro Paese. E quindi nasce Libera, per mettere insieme tante esperienze, per creare un fermento sociale. Ci chiediamo: cos'è che bisogna portare via a questi signori, i mafiosi? Il denaro, i beni, era il sogno di Pio La Torre, ma lo ammazzeranno quattro mesi prima che si facesse la legge. Però quella confisca dei beni mafiosi, che non parlava ancora di uso sociale, non funzionava, così raccogliamo un milione di firme per una legge ad hoc. E oggi ci sono più di quattrocento associazioni in Italia che gestiscono questi beni e li utilizzano. Cooperative che sono partite autofinanziandosi, tirando la cinghia, andandosi a cercare i soldi da sole. Una storia meravigliosa nata dal basso, dalla gente stufa di essere mortificata. La vendita dei beni mafiosi può esistere, ma dev'essere l'eccezione, non un dogma. Così come ho sentito che ci sono delle proposte: vendiamoli tutti e diamo il ricavato allo Stato. No, perché è uno schiaffo per il mafioso vedere i giovani che arrivano sulla tua terra, quella terra con cui hai gestito il tuo potere, la tua forza. E che sia uno schiaffo si vede dagli attentati. Quest'estate ci hanno fatto fuori trentacinque ettari di grano. Hanno bruciato olivi secolari in terra di Calabria. Distrutto impianti in provincia di Latina. Tagliate le pompe dell'acqua in un altro territorio. Eppure si è andati avanti, non s'è mai fatto un passo indietro, s'è dato lavoro a tanti giovani. Oggi qualcuno vorrebbe impossessarsene, tutti i giorni leggiamo di confische di denaro che non si sa dove finisca. Secondo me quel denaro liquido deve servire per i testimoni di giustizia, e per il risarcimento alla vittime di mafia».

Che vita fai, ti tocca correre di qua e di là come una trottola?

«Abbastanza. Ma vivo qua nel gruppo, in questa ex-fabbrica. Poi c'è il gruppo che dà lavoro a seicento persone. La mia vita è qui: stare con la gente è per me la cosa più importante e fondamentale. Poi s'è creata una rete di comunità, il lavoro di strada, il drop-in, il settore culturale, la casa editrice, la rivista Narcomafie, un centro di documentazione e ricerca, la sede dell'università della strada per la formazione degli operatori. Qui c'è tutto il lavoro per le vie di fuga che facciamo per la tratta e la prostituzione, le ragazze vengono nascoste e reinserite, in luoghi protetti perché questi le cercano. Per me l'accoglienza è fondamentale, se viene meno il faccia a faccia con le persone perdi la vita. Poi c'è Libera».

Un'ultima cosa. In questo Paese si parla del volontariato, straordinario e meritevole, come di un alibi per chi non fa niente. Non ti manda in bestia?

«Lo dico da sempre, mi auguro che ci sia meno solidarietà e più giustizia. Non verrà mai meno l'attenzione agli altri, l'accoglienza, la relazione. Però noi non possiamo diventare i delegati a occuparsi dei poveri e degli ultimi. Noi continueremo a occuparcene, perché non abbiamo mai chiuso la porta in faccia a nessuno. Ma in questo Paese, oggi, il sociale è mortificato: chiudono cooperative, chiudono associazioni. E si dimentica che la solidarietà è indivisibile dalla giustizia, non si deve dare per carità quello che spetta alla gente per giustizia. Guai se diventiamo il tappabuchi. Abbiamo anche il dovere della denuncia seria e documentata, il dovere di chiedere conto alla politica. E se è lontana dalla strada, dai problemi della gente, dalla sua fatica, allora la politica è lontana dalla politica. C'è un problema di democrazia nel nostro Paese, è una democrazia pallida che non ha senso di responsabilità».

Posizione antitetica ed aspramente critica sul personaggio pubblico è quella di Antonio Margheriti “Mastino” che, nel suo articolo,  definisce Don Ciotti come il prete da marciapiede: don Ciotti. Dolce&(volta)Gabbana e antimafia delle chiacchiere. Sottotitolo: riflessioni cattoliche a partire dall’attentato di Brindisi.

L’articolo è diviso in Paragrafi:

Siamo tutti “addolorati” col culo degli altri;

Il figlioccio di Michele Pellegrino, il cardinale rosso;

Ladri benefattori e derubati ladri. Una storiella su don Ciotti;

Il Dolce&(volta)Gabbana della Chiesa: Ciotti, il cappellaio… ops… cappellano delle mode;

Il radical-ciottismo porta infine laddove dall’inizio era stabilito dovesse portare: alla religione civile;

Diffidate dei preti pieni di patacche;

La mosca sarcofaga;

Il silenzio se non ti “uccide”, ti evita molte figure di merda;

Ciotti grida “è mafia!”. Ma i giudici chiedono aiuto proprio alla mafia;

Se per l’inchiesta Jacini al Sud “tutto è Africa” per Ciotti “tutto è mafia”;

Ciotti si scusa: gli è scappata una parolaccia: ha citato Gesù;

Dio, il Grande Sconosciuto d’Occidente;

“Ho visto pezzetti di carne sparsi”. Ma l’ha colpito solo “un quaderno di educazione civica”;

Sostituire il Decalogo con la costituzione, il confessore col magistrato;

“Non importa chi è Dio, ma da che parte sta”. Il mancato leader socialista;

Quegli studenti che marciano per marinare la scuola lecitamente: senza fantasia, senza sincerità;

E’ politicamente scorretto dire “la mafia non esiste”, anche se è vero che non esiste;

La vera mafia che pretende omertà è quella del professionismo dell’antimafia delle chiacchiere;

Dio è lui, don Ciotti. E “Libera” è il suo corpo mistico, la sua chiesa.

SIAMO TUTTI “ADDOLORATI” COL CULO DEGLI ALTRI. I fatti di Brindisi, dunque. Ognuno dice la sua, stante il fatto che gli strascichi mediatici caricaturali di stragi e delitti sono una passionaccia arcitaliana: non chiedono di meglio i teledipendenti che fare tifoseria colpevolisti-innocentisti, scoprire alla fine chi è l’assassino come in un giallo della Christie. Tanto siamo tutti “addolorati” col culo degli altri. Solo che invece di sfogliare libri gialli, fanno zapping da talk-show in talk-show nella tv delle lacrime, dei sentimentalismi, del macabro, e, subito dopo, delle sganasciate di risate mignottesche con la caccia al chi ha scopato chi, chi s’è lasciato con chi, chi ha incornato chi.

Brindisi, dunque. Napolitano e Bersani dicono: “E’ terrorismo”. Don Ciotti: “E’ mafia”. Criminologo: “Forse squilibrato”. Complottisti professionisti: “Strage di Stato” (anche se tecnicamente neppure strage c’è stata). Procura: “Non sappiamo”. Tutti insieme in comune hanno una cosa: parlano senza sapere di che parlano… e come potrebbe essere diversamente dal momento che 5 minuti dopo avevano già tutti il loro teorema buono per ogni evenienza?! Ognuno cerca di trascinare cadaveri entro la propria specializzazione e contingenze immediate, se politiche tanto meglio. Non mi meraviglierò se presto interverrà Radio Radicale a dire: “Preti pedofili”. Dopo tanti castelli costruiti sul fango di lussuose teorie politico-criminologiche, si scoprirà (come si scoprirà!) che si tratta d’un semplice sfigato di mentecatto, certamente qualche disoccupato nevrotizzato dalla mancata assunzione al bidellaggio, qualche altro che ce l’ha in modo parossistico con l’agenzia delle entrate, qualcuno che ce l’ha col prospiciente tribunale che gli ha fatto perdere o non ha mai discusso la causa che gli stava a cuore; qualche “inventore” pazzo. La banalità del male! Ma certo non è di questo che voglio parlare, non si occupa di cronaca questo sito. È un pretesto per dire d’altro.

IL FIGLIOCCIO DI MICHELE PELLEGRINO, IL CARDINALE ROSSO. Don Ciotti ha fatto tutti i suoi studi da prete, se così posso chiamarli, nel lustro peggiore della storia della Chiesa: fra il ’68 e il ’72, anni di autodemolizione, autopersecuzione, autocontestazione della Chiesa. Anni pazzi. Soprattutto anni rivoluzionari: i seminari erano diventati, in quel lustro, covi di pazzissimi sediziosi dottrinali, bordelli teologici, fucina di rivoluzionari spompati, evirati e inutili persino ai rivoluzionari al caviale laici. Ininfluenti sul mondo, ma funestissimi dentro la Chiesa. Ecco, quei cinque anni maledetti, sono tutta la formazione di Ciotti: psicologicamente, retoricamente tuttora là è fermo, non s’è mai mosso; e spesso proprio questo suo modaiolo anacronismo è travisato, in un qui pro quo ridicolo, scambiandolo per avvenirismo, futurismo. In realtà, da quaranta anni, è uno spacciatore abusivo di ricette (“salvavita”, buone parimenti per la Chiesa e per la “società”) scadute. A complicare le cose per l’allora seminarista Ciottino intervenne il fatto che il suo seminario si trovava nella Torino operaista e laicista, e per giunta il suo cardinale era il vescovo più rosso della storia d’Italia: Michele Pellegrino. Tutte le fortune, poveraccio! E allora ti spieghi tante cose. Il cardinale rosso della Torino di quel tempo infame che vide nascere proprio nelle sue fabbriche i teorici e la manovalanza del terrorismo comunista, Michele Pellegrino, definì bonariamente il suo comiziante pretino, il giovane Luigi Ciotti, “prete da strada”, e aggiunse: “la strada sarà il tuo altare”. Una permuta a tutto vantaggio non si sa bene di chi, della Chiesa dubito. Se è vero come è vero che il programma ciottesco è questo: “Non si va per la strada ad insegnare ma ad apprendere”: affascinante come slogan, bellissimo, non v’è dubbio, ideologico anche; l’apice del buonismo delle “anime belle”, di quelle che s’innamorano dell’idea già bella impacchettata e infiocchettata a prescindere da quello che c’è dentro il pacco (in questo caso: il vuoto), ignorando trasognati e poeticanti la realtà, quel sano realismo che deve essere sempre il compagno di viaggio del cattolico. Sostituito in questo caso con un tanto al chilo di sociologismo vittimistico, piagnone e melodrammatico. Che suona sempre la stessa sinfonia dagli anni ’70: “Le colpe della società!”, qualsiasi cosa uno abbia fatto, “è colpa della società”. Anche se oggi ha mutato un po’ registro: qualsiasi cosa succeda, foss’anche il crollo di Wall Street, il Nostro dice che è “colpa della mafia”. Almanacco del “clima sociale mafioso” e, va da sé, “omertoso”.

Ciotti, l’uomo che “apprendeva dalla strada”, dunque, invece che insegnare la Strada, che poi sarebbe Cristo. Senza contare che Cristo non è andato per le strade del suo tempo ad “apprendere” ma a insegnare, appunto. La stessa cosa che avrebbe dovuto fare Ciotti, insegnare le cose del Maestro, che aveva infatti detto “non chiamate nessuno maestro”, neppure una strada, “perché uno solo è il Maestro”, cioè Lui; e poi aggiunse che siccome Lui “era la via, la verità, la vita…” ai suoi toccava andare “per le strade” ad annunciarlo, a “insegnare le cose del Padre mio”. Ma siccome Ciotti è capitato in epoca materialista (infatti ripropone il “Gesù rivoluzionario” tipico degli anni ’60 e dell’agnosticismo), le cose si sono ribaltate: strada e asfalto son diventati “maestri”, Cristo un semplice passante. E uno sconosciuto. Mentre invece era Lui la Strada. E la vita. La sola salvezza possibile. Non l’antropocentrismo ideologico del Nostro. Se c’è una cosa che dalla bocca di Ciotti non s’è mai sentita è questa: “E’ peccato”. Proprio non manda giù l’idea che il singolo possa avere dei peccati, delle colpe agli occhi di Dio e che possa pagare per queste; che ci sia un Giudice Supremo diverso dal pubblico ministero. È proprio l’idea di peccato individuale che gli è estranea. Il libero arbitrio gli va bene per tutto, lo applica a tutto, ne fa uso abbondante egli stesso, è tutto un arbitrio Ciotti; però nel peccato no, l’uomo-individuo non pecca secondo “libero arbitrio”: “è la società che pecca”… anzi no (ha abolito pure la parola “peccato”) commette “ingiustizie”; è la società “che è sbagliata”, in ogni caso “è colpa della società” (quella che non vota comunista, almeno). Mai si dica che l’individuo “ha sbagliato”, peggio di peggio poi “ha peccato”, “ha scelto” liberamente di peccare.

LADRI BENEFATTORI E DERUBATI LADRI. VI RACCONTO UNA STORIELLA (PARADOSSALE E SATIRICA) SU DON CIOTTI. Se ti entra un ladro in casa, ti svuota casa, ti bastona il nonno: è colpa tua, pezzo di merda!, merdaccia che bivacchi e ti abbeveri in questo cesso di società!, sei tu che hai ridotto quel “poveraccio”, quella “vittima della società” a entrarti in casa, derubarti di tutto, bastonarti il nonnetto magari pure reduce della RSI (e un po’, quindi, se lo meritava!) e andarsi poi a ubriacare con gli amici gaglioffi, ossia le “altre vittime”. Sai che c’è di nuovo? Te lo dice un don Ciotti, uno che impara dalla strada invece che insegnare la retta via a quelli che per strada, quella sbagliata, ci stanno: sei tu il ladro, sei tu il bastonatore di tuo nonno; dovresti vergognarti e chiedere scusa al ladro bastonatore di tuo nonno, e se proprio vuoi essere perfetto, purgarti del tuo “peccato sociale” (tale perché nella società ci vivi), dovresti rendere al ladro pure quello che non ti ha ancora rubato, perché il possederlo da parte tua è un “furto”, verso tutte le altre “vittime della società”. Ossia tutti gli altri ladri. Ovvero, sei tu, in fondo, che hai rubato in casa dei ladri… perdon… delle “vittime della società”. Non è manco più il tuo un “peccato sociale”. È proprio mafia! Sei un mafioso. Cornuto e mazziato, dunque. La domanda curiosa che ti fai su questa de-forma mentis clericale ferma a sociologismi radical anni ’70, è una: perché tali principi di “vittimismo” sociale validi per qualsiasi criminale (o detta alla cattolica: peccatore), non possono valere, a sentire Ciotti, anche per la criminalità organizzata, per i mafiosi, appunto? Non sono criminali e dunque “vittime” l’uno e gli altri, il ladro e il mafioso? Perché no? Del resto, secondo dottrina cattolica entrambi violano lo stesso Decalogo, entrambi altro non sono che peccatori… e in questo il cattolicesimo è molto “democratico”. Perché no, Ciottino-ino-ino? Io un sospetto lo avrei, me che sono di natura maligna (realista): la mafia ha fama di essere anticomunista; un tempo persino d’essere “democristiana”; poi – dicono gli ex sputtanatori di Falcone vivo, ossia la sinistra al caviale che da morto ne ha fatto bandiera – divenne “berlusconiana”. Ha fama, cioè, di farsela coi “potenti”. Tutte cose che il Ciotti dovrebbe avere in gran dispitto. Dovrebbe. Ma pure lui, Ciotti, a suo modo è un “potente”: la potenza oggi non è data più solo dai soldi e dalle poltrone, ma dalla visibilità mediatica e dal servilismo plaudente (e ipocrita) dell’establishment televisivo nei tuoi confronti. È o non è il Ciotti un nuovo potente, “intoccabile” da qualsiasi schermo o palco appaia, qualunque cosa dica (ché poi: dice sempre le stesse cose)? È vero o no che per diventare un “intoccabile televisivo” del genere devi essere messo a contratto dalla sinistra radical-chic che di quella fanghiglia è padrona gelosa? È o non è sempre sotto telecamera? È o non è sempre in compagnia di potenti, purché comunisti o almeno catto-comunisti? Non sono i suoi commensali abituali ormai?

IL DOLCE & (VOLTA)GABBANA DELLA CHIESA: DON CIOTTI. IL CAPPELLAIO… OPS… IL CAPPELLANO DELLE MODE.

 Fine anni ’60. Per via dell’anarchismo “antiautoritario” e “antirepressivo” del ’68, in quegli anni era di gran moda la questione “abolizione del carcere”, da sostituire (diceva l’ideologo radical-chic) con “pene alternative”. Subito Ciotti se ne appassiona e fonda gruppi alternativi al carcere minorile per il “recupero dei piccoli carcerati” che spesso avevano un curriculum criminale poco sotto quello di Riina. Erano “vittime della società”. E fu la prima moda che condivise il suo talamo: tanto di applausi mondani e dell’intellighenzia radical ne derivarono. Poi la moda “abolizionista” decadde e Ciotti passò ad altro.

Primi anni ’70. Anni di piombo. L’ultima moda erano l’operaismo (in genere aizzato dalla ricca, balorda, annoiata borghesia radical, come eccentricità d’alta società) e le più assurde “rivendicazioni sindacali”. Torino ne era il sanguinoso epicentro. Il Ciottino si beccò la passione degli “operai”. Fondò associazioni e s’incoronò presidente. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Poi passarono di moda pure questi, e lui li abbandonò al loro destino, che era diventato terrorismo, nel frattempo.

Sul finire degli anni ’70. Dopo la sbornia anarcoide e marxista immaginaria del ’68, se ne ebbero i primi frutti fra quei giovincelli generosi “contestatori”: oltre al terrorismo portarono in Italia anche la “moda” e le abitudini “culinarie” dei figli dei fiori (oppiacei) d’oltreoceano: droga a colazione, pranzo e cena. Comparvero i primi tossici italiani, ex contestatori del sistema. L’ultimo Maritain, quello considerato “pessimista”, “e perciò rimosso”, scrive Messori, all’apparire di questo fenomeno fra la satolla (di pane e ideologie arruffone) gioventù d’Occidente, disse una cosa profonda e atroce, atroce perché vera, “profetica” direbbero i progressisti se non fosse null’altro che una constatazione: “Quel buco è il sacramento di Satana. E’ la cresima, è l’effusione dello spirito di una cultura che ha preso congedo dal Cristo per volgersi all’Ingannatore”. Tutte queste cose non disse e tantomeno pensò il Ciotti. Troppo affaccendato in chiacchiere, affari e presidenze pluripremiate, per pensare all’essenziale delle cose. L’affare era grosso, guadagnava ormai le prime pagine dei giornali, si facevano inchieste di grido, faceva notizia, insomma. Ciotti non se lo fece ripetere due volte: ci si buttò a capofitto, fondò associazioni, se ne incoronò presidente. I risultati sono dubbi, e più che altro contraddittori. Ossia al fondo c’era sempre e solo l’ideologia radical di Ciotti, il vero motore del suo chiacchierificio itinerante buonista e indignato speciale di professione; mentre tutto il resto era carrozzeria, pretesto e contorno, foglia di fico sulle vergogne. Illustrazioni di copertina del suo personale Capitale all’amatriciana. Leggo da una biografia del Nostro: “In quegli stessi anni, all’accoglienza delle persone in difficoltà l’Associazione comincia ad affiancare l’impegno culturale (con un centro studi, una casa editrice e l’“Università della strada”) e, in senso lato, politico, per costruire diritti e giustizia sociale, con mobilitazioni come quella che nel 1975 porta alla prima legge italiana non repressiva sull’uso di droghe, la 685”. Paraponziponzipò! Per aiutare i drogati, la prima cosa che questa anima bella propose, fu una “legge non repressiva” sull’uso di droghe. Pannella non avrebbe saputo fare di meglio. Come dire? Ci sono troppi malati di cancro ai polmoni in giro? Bene, abbassiamo il prezzo delle sigarette. I primi risultati di questo buonismo vittimista si videro un quinquennio dopo, quando in Italia scoppiò una vera pandemia di tossicodipendenza. Naturaliter: l’intellighenzia mondana e radical-chic, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Ciotti era ormai una star. Sulla pelle di chi lo divenne non sappiamo.

Con il primo lustro degli anni ’80 venne dopo la sbornia di “comunismo” al sangue, la sbornia di consumismo alla puttanesca. Con questo dilagarono sì i vizi tipici dei nuovi sazi e indifferenti, alcol, gioco e droghe (come risultato ultimo delle prediche “libertarie” radical post-68) e ottenevano i galloni della cronaca i “drogati” e i loro “recuperatori”. Venne pure dell’altro, però: il clima euforico e orgiastico, il culto del sesso sfrenato e promiscuo, nel quale il massimo della gloria effimera, della sbornia e quindi dell’indecente capovolgimento del mondo la raggiunsero gli omosessuali, nuova rumorosa e attivissima setta pagana. Che nel cuore di Ciotti dovevano immediatamente avere il sopravvento sui drogati. Infatti, manco fece in tempo a scoppiare, facendo un boato immane su tutti i media del mondo, la peste del XX secolo, l’Aids, che subito Ciotti ne divenne un “appassionato”, un santo patrono, la ennesima “voce dei senza voce” (con tutte le categorie sociali alle quali crede di aver dato “voce”, potrebbe doppiare l’intero cast di un film colossal del cinema muto). Qui pure, come aveva dato “voce” a tutti gli altri: con le chiacchiere e i tour di chiacchiere in giro per l’Italia. A confermare i “senza voce” nel loro errore, e, se battevano la strada, a “prendere lezioni da loro invece che insegnare”, senza mai affrontare la scaturigine di quell’epidemia mortifera. Ossia il peccato, quello contronatura in questo caso, la sessuomania di massa, che proprio i modaioli maitre a penser radical-chic avevano predicato e propiziato dal ’68. I risultati ultimi ora erano sotto gli occhi di tutti: ma Ciotti vedeva solo questi, ignorando come sempre le cause prime: un gatto che si morde la coda. E al solito fondò associazioni e se ne incoronò presidente. L’intellighenzia mondana, radical-chic, la stessa responsabile ideologica di questa strage, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte.

Poi viene il 1988. E diventa abortista. Se andaste a scovare le ciottate di quegli anni ne provereste brividi: posa il suo bacio bavoso su tutte le più infami mode ideologiche del tempo, indossa tutte le più spettrali, e melense al contempo, svergognate maschere dell’epoca, e diventa femminista, abortista, contraccettivista, divorzista. Ma sempre per “solidarietà umana”, è chiaro. Come i peggiori radicali, approfittando del dramma dell’Aids, fa sciacallaggio pro contraccezione, pro aborto, pro aborto selettivo: tutto questo, al solito, per “solidarietà”, per la “bella idea” dell’ideologo, per “buonismo”. Quella solidarietà, quella bella idea, quel buonismo che senza rimorso alcuno ora gli fanno sostenere il diritto di scelta per una donna di abortire un figlio malato; “per rispetto umano” verso i sieropositivi si mette a propugnare le più “umanitarie” teorie sull’aborto selettivo, che poi erano le stesse teorizzate e applicate dai nazisti (ché però quelli almeno ad un certo punto ebbero scrupoli, e si sottrassero: don Ciotti e gli abortisti no). Così così così arriva, con l’ambiguità tipica del Maligno che mescola la verità alla menzogna, ad ammettere che “abortire i bambini che potrebbero nascere sieropositivi è una possibilità che deve essere riconosciuta a una donna”. E poi naturalmente per “eliminare alla radice” il problema, cioè uccidere bambino e sieropositività, buttare bambino e acqua sporca. Ma non si rende conto che proprio la “radice”, proprio quella è il problema, non le fronde, la sieropositività: quella “radice” che questo prete vorrebbe “recidere” è la vita umana stessa, la maestà di Dio su di essa. Ma che prete è questo? Per chi lavora? Come fa a parlare così? Ah, non è affar suo dice lui, lui riconosce che v’è “una pluralità di vedute” e per non offenderne alcuna, non intende affermare quella della Chiesa. Che poi non è manco quella di Ciotti. Lui, intanto, “riconoscendo la pluralità di vedute” se ne sta in ogni organizzazione “umanitaria” fuori e radicale e abortista dentro: per dare “speranza”, pur nella “pluralità di vedute”. “Speranza” basata su cosa non è dato sapere. Il Nostro, racconta Luigi, un testimone di allora, “fece molte interviste pro contraccettivi e surrettiziamente pro aborto. Allora io scrissi ad Avvenire protestando: il direttore in persona mi onorò con una sua risposta in cui mi disse che ero inutilmente severo…”. Guardate, il discorso, giunti a questo punto, mi fa tanto schifo che lascio a voi la facoltà di approfondirlo cliccando sui ritagli di giornale del 1988 che l’amico Guido mi ha gentilmente mandato, sapendo che stavo affrontando questo articolo. Ma se proprio volete saperne di più sulle schifose prese di posizione su questi temi del Ciotti, nel fragore degli applausi delle sue platee di post-cristiani, post-comunisti, vetero-radicali, leggete online questo resoconto agghiacciante di Vittorio Agnoletto.

E siamo già a cavallo fra anni ’80 e ’90. Cominciò a scemare sui media l’interesse per drogati e sieropositivi, ed entrambi cominciavano a subire un “calo fisiologico”, che li rendeva ormai poco numerosi e perciò ancor meno appetibili. Dai media. Don Ciotti cercava altri stimoli mondani. Che infatti vennero sicuri come la morte. Iniziarono i primi flussi migratori, sino al botto scuro della nave che rovesciò miriadi di albanesi sulle coste di Brindisi. Che scappavano dai rottami di quel comunismo “nuovo” ossia “maoista” del quale proprio quelli come Ciotti & compagni radical-chic, qualche anno prima s’erano fatti cantori e sponsor, come “non plus ultra di civiltà” (era passata di moda la loro vecchia passione per l’Urss come paradiso terrestre e modello da imitare, anche per la Chiesa). Che ve lo dico a fa’? Ciotti subito andò in prima linea col suo solito armamentario chiacchierone: tour di convegni in giro a spiegarci quanto erano belli buoni e bravi i clandestini, e più ce n’erano meglio era; i soliti numeri verdi e telefoni amici, le solite leghe, associazioni e l’auto-incoronazione napoleonica del Ciotti a loro presidente-imperatore. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Ma dopo un po’, pure questa “moda” buonista con relativa retorica dell’accoglienza a prescindere, che aveva saturato tutti i media, i pulpiti e la bocca dei Ciotti e dei Tonino Bello, cominciò a scemare. Specie quando si vide che questa stessa retorica altro non aveva prodotto che un’infornata pazzesca di criminalità organizzata che invase tutte le città e che ancora scuote e insanguina la pacifica penisola e la sicurezza dei troppo generosi italiani. Generosità che nel frattempo, giustamente, s’era trasformata in risentimento.

Sentendo puzza di bruciato, mancando ormai di stimoli e di visibilità, don Ciotti stava col dito umido per aria per captare che altra corrente modaiola spirasse. Uomo fortunato, e contraddittorio, la trovò subito bella e pronta.

Contraddittorio, sì. Se è vero che alle sue spalle ora si lasciava la moltiplicazione di pani e pesci dell’immigrazione clandestina indiscriminata e persino aizzata; ossia un dilagare di manovalanza criminale anche al servizio delle mafie. E proprio adesso il Don, proprio lui, sta per buttarsi anema e core nell’oceano mediatico della “lotta”, a forza di mitragliate di logorrea, “alle mafie e alla criminalità” organizzate. Contraddittorio… Ma tant’è! Lo dico con un sorriso: sembra che prima di imbracciare una nuova moda solidaristica, si premuri, negli anni che la precedono, di coltivarne la potenziale clientela con cui “solidarizzare”. Fateci caso: per un tot di anni, come ogni radical, predica per una presunta “buona” cosa, poi quella cosa accade davvero e puntualmente è un disastro, dunque da predicatore diventa infermiere dello stesso male che ha coltivato (in buona fede, spero). Un ideologo consumato!

E infatti siamo nel 1992. Salta in aria il giudice Falcone e poi Borsellino: ne deriva un immane e giusto clamore, non sempre sincero (e mai da dove te l’aspetti) da parte di troppi . È l’argomento di fine secolo. E qui Ciotti darà il meglio e dunque, alla fine, il peggio di sé. Fonda Libera, e inizia allora un chiacchiericcio che dura da vent’anni. Ma siccome spesso manca di pretesti per gridare “al lupo al lupo”, alla fine è diventato una specie di don Villa dell’antimafia delle chiacchiere: come don Villa vede massoneria dappertutto foss’anche in un circo equestre, alla stessa maniera il Nostro grida “è mafia è mafia”, anche dinanzi a un petardo natalizio. Purché se ne parli. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaude e molteplici volte lo premia. Ormai è un abbonato speciale.

IL RADICAL-CIOTTISMO PORTA INFINE LADDOVE DALL’INIZIO ERA STABILITO DOVESSE PORTARE: ALLA RELIGIONE CIVILE. Tuttavia nel nuovo millennio pure la mafiologia e la mafiopolite acuta da talk-show, l’antimafia delle chiacchiere, ha cominciato a scricchiolare, almeno nell’interesse dei media. Vuoi perché i successori di Falcone e Borsellino erano palesemente indegni e marchiati a sangue di ideologia radical-comunista, e la lotta alla mafia è rimasta tale solo sulla carta diventando invece nei fatti un gioco sporco al massacro di lobby togate estremiste ai danni di Berlusconi; vuoi anche perché il fenomeno mafioso, almeno in Sicilia, per così come lo abbiamo conosciuto sta mostrando un fisiologico calo di peso, un ridimensionamento e una trasformazione, essendo prossimo a diventare qualcosa d’altro, per ragioni che non sto qui a spiegare. E allora, stante tutte queste magre vacche mediatiche, Ciotti ha rimesso il dito per aria per capire dove tirava il vento giornalistico. E in men che non si dica… l’ha indovinato.

Porta laddove sin dalle origini era stabilito dovesse portare, perché era inscritto nel suo Dna, l’ideologia radical-ciottista, fatta passare per clericato “impegnato”. Alla religione civile. Al culto del dio Stato; al feticcio della Costituzione; all’estremismo legalista; alle liturgie politiche; alla sociologia come nuova teologia. All’ideologia che è alla base della fine della civiltà cristiana: quella sorta dalla Rivoluzione Francese. Con tutto il corollario trombone ma pericoloso che ne deriva: mondialismo, ecologismo, monetarismo, pacifismo da paci-finti, umanitarismo ateo e peloso, filantropismo rapace ed esibizionista. È scritto ne Il Nome della Rosa: “Il Diavolo sa dove va, e andando va sempre da dove è venuto”. Perciò le mode del mondo, ossia le ideologie, anche clericali, sono la Sua strada e il Suo arco trionfale. E il trionfo di chi ne viene a patti. Quei “falsi trionfi” dettati dalle mode, che sono lo spirito del mondo e lo spirito del mondo è Lucifero, e che hanno la forza di far perdere la testa ai saggi ai potenti ai preti. “Trionfi” contro i quali Gesù stesso ci metteva in guardia. Lo stesso Gesù che ripetutamente nei vangeli ci ammonisce a guardarci dalla “gloria del mondo”, perché è un inganno. Soprattutto perché non è questo il destino del cristiano; poiché, ha predetto il Signore, il suo destino vero sarà sempre, fino alla fine dei tempi, la persecuzione e il martirio, l’infamia e non gli onori del mondo. “Hanno perseguitato me: perseguiteranno anche voi. Ma io vi dico: beati voi quando a causa mia diranno di voi, mentendo, ogni sorta di male”. Da questo si può discernere fra il vero e il finto cristiano, fra il vero servo di Dio e il servo del Mondo, fra l’agnello e il lupo travestito da agnello.

DIFFIDATE DEI PRETI PIENI DI PATACCHE . Io l’ho per regola. Diffido sempre di quei (rari, va detto) cattolici che sono ospiti “d’onore” ovunque, travolti da applausi, specie da parte di chi più è lontano dalla Chiesa, dai suoi nemici più spietati talora; diffido dei preti invitati a tutte le trasmissioni e a tutti i convegni, premiati con ogni patacca e in ogni circostanza pacchiana. Lì qualcuno sta barando: la gloria del mondo ha per compagna la menzogna. E poi la “tristezza”, dice l’Ecclesiaste. Mi fido dei martiri e dei perseguitati, dei preti umiliati a causa della loro fede, di coloro che parlando delle cose sante suscitano scalpore, sdegno, rifiuto, oltraggio dal mondo. Non dei pavoni che fanno sempre la ruota nel giardino zoologico dei preti da baraccone per la gioia del documentarista e per arruffianarsi la sazia apostasia di questo mondo che prima si è fatto nemico e poi estraneo a Dio. Lo spirito del mondo, le mode ideologiche, sono un’attrazione irresistibile per Ciotti. Questo intendo dire quando ribatto al suo definirsi “prete di strada” con un “prete da marciapiede”. Badate, non sono così cretino da mendicare in giro querele che a questo punto sarei io stesso a consigliare alla parte “offesa”: non intendo dire che don Ciotti è una puttana o una persona di costumi equivoci (e anzi, da quel punto di vista lì – spero di non sbagliarmi – credo sia stato sempre pulito). Niente di tutto questo. Intendo dire proprio che sta sul marciapiede ad aspettare che passino le carrozze con a bordo le nuove mode ideologiche: andrà con quella che offre di più. “La gloria del mondo ha per compagna la tristezza”, dice l’Ecclesiaste, dunque. Al momento, però, il Nostro ci pare abbastanza su di giri. Lo è da 40 anni.

LA MOSCA SARCOFAGA . Stavo vedendo uno dei brutti film horror anni ’70 di Dario Argento. In uno, un tale, una specie di sbirro, alleva delle grosse mosche sarcofaghe, o meglio: la mosca sarcophaga carnaria. Ora, chi come me s’intende di medicina legale e fenomeni cadaverici, sa che questa strana mosca è affamata di cadaveri, ne è la principale cliente e devastatrice: ci depone sopra le sue larve. Ma soprattutto ha un fiuto infallibile nello scovarli. Ecco perché lo strano sbirro le allevava: liberandole e inseguendole, riusciva a ritrovare nei boschi i corpi degli assassinati. M’è saltato in mente don Ciotti: pure lui appena succede qualche plateale e misterioso fatto di sangue, da Roma in giù, non si sa come questo qui mezz’ora dopo è già sul posto. Naturalmente, subito dopo i fotografi. Più fulmineo delle mosche sarcofaghe. E, in tutto questo macello di Brindisi, non poteva che piombare come mosca sarcofaga sul luogo della tragedia, don Ciotti, con la sua “Carovana” carioca, di post-cattolici, post-comunisti, post-femministi, post-brigatisti, post-figli dei fiori, post-conciliaristi, post-preti, post-italiani, post-tutto. Il carro variopinto degli hobbisti dell’antimafia delle chiacchiere, con i loro slogan a misura unica, unisex e buoni per tutte le stagioni: per protestare indistintamente e con la stessa disinvoltura, a suon di chiacchiere, contro la mafia immaginaria, contro i terroristi, la guerra, la pena di morte, il carcere, il capitalismo, Berlusconi, il fascismo, l’antisemitismo, per la “pace” (da quando non c’è più l’Urss a invadere paesi inermi, almeno… da quei paci-finti che sono), l’acqua, il vino, la pagnotta, la patonza… per tutti, meno pene ai carcerati, più pene ai mafiosi, più pene e basta, più marce e meno messe (e forse, visto il senso della liturgia del Nostro, è pure meglio), più “strada” e meno altare. Ma la cosa che fa più ridere di questi professionisti del carnevale permanente e di questo post-prete, don Ciotti e i suoi fratelli e fratelle, è una in particolare. Che sinistramente schiamazzanti come avvoltoi piombano in tempo reale laddove sentono odor di carne bruciata, non importa se umana o da kebab o da arrosto di fiera della porchetta. È ininfluente. Loro imperterriti ci piombano addosso, la impugnano con gli artigli, la sollevano in aria sventolandola e qualunque cosa sia, foss’anche un gatto morto, a prescindere, si mettono isterici a gracchiare “è mafia!”; e via con gli stessi slogan, le stesse sentenze apocalittiche, le stesse soluzioni ideologiche, le stesse frasi ad effetto (lassativo), gli stessi cartelli appesi al collo usati per qualsiasi altro evento negli anni passati, magari contro Berlusconi: “E adesso uccideteci tutti!”, “La mafia uccide, il silenzio anche”, per tacer dei barattolini Manzoni-style con su scritto “La mafia è merda”.

IL SILENZIO SE NON TI “UCCIDE”, TI EVITA MOLTE FIGURE DI MERDA. Tuttavia, molte volte, il silenzio se non ti “uccide” ti evita molte figure di… merda, giacché siamo in tema. E non è un caso che appena il Ciotti ha saputo che c’era “carne sul fuoco” a Brindisi, non si sa come, in pochi minuti ci è atterrato su, gridando ai quattro venti: “Mafia! È mafia! La mafia uccide! Il silenzio pure! Venite allo scoperto mafiosi!”. Ancora si dovevano spegnere le fiamme, che lui già denunciava a tutti i microfoni “l’omertà” della popolazione brindisina che, appena sveglia e stordita com’era per il botto, non riusciva a capire manco cosa fosse successo. Anche quando già da subito a tutti era evidente che la Sacra Corona non c’entrava una mazza perché non erano cose che rientrassero nel suo stile quelle, né aveva la forza politica ed economica per osare tanto, il Nostro non ha desistito: non avendo da trent’anni altri slogan, passando solo questo il convento, essendo solo quello il suo repertorio circense, lo usa indiscriminatamente ad ogni replica e in ogni situazione: “Mafia purchessia!”. Però siccome il senso del ridicolo, infine, lo ha pure lui, ha annacquato dopo 24 ore il “sola Mafia” (variante del “Sola Scriptura” di Lutero) con “e anche la massoneria”. A quel punto non restava che ridere! Se non altro perché la prassi politicamente corretta e la filantropia pelosa di Ciotti, nel quale ogni residuo di Dio cristiano scompare nel solo umano, anzi, nel solo sociale, disciolto nell’acido della “società civile” insomma, altro non è che la quintessenza, la realizzazione pratica manu sacerdotali delle più viete teorie della più classica massoneria.

CIOTTI GRIDA “E’ MAFIA!”. MA I GIUDICI CHIEDONO AIUTO PROPRIO ALLA MAFIA. La situazione diventa ancora più paradossale se si pensa che la stessa (non sai se più stravagante o imprudente) magistratura pugliese, attraverso il procuratore Cataldo Motta, che – almeno dicono – essere il “massimo esperto di questo fenomeno criminale” (la Sacra Corona Unita), cioè  ha (papale papale) chiesto alla mafietta pugliese di “collaborare” in qualche modo con la giustizia per scovare gli attentatori. Non basta. Mentre il prete con la “carovana” ancora sbraita a destra e manca, “mafia… omertà… c’è la mafia e pure un poco di massoneria”, mentre avviene tutta questa pretesca ridicola sceneggiata, avviene pure un’altra cosa. Vi leggo dal giornale: “Raffaele Brandi, ritenuto uno dei capi più rappresentativi della frangia brindisina della Sacra Corona Unita, ha avvicinato il caposcorta del pm Milto de Nozza e gli ha comunicato non solo che la SCU non c’entra ma che si muove in parallelo alla giustizia. ‘Dite al procuratore che se li prendiamo noi gli attentatori, ce li mangiamo vivi, è questo il messaggio’”. E mò? Che dire? Mentre don Ciotti straparla di “mafie”, pure il capo della Sacra Corona Unita “cerca il colpevole”. E lo va a dire direttamente al capo della scorta del procuratore di Brindisi De Nozza. Oltre a notare che dinanzi ai teledrammi (che non sono mai il dramma vero) tutte le istituzioni dello Stato italiano, mafie comprese, sono unite; oltre a capire che tutti hanno capito che il colpevole deve essere un pazzo isolato che non conta una mazza; oltre tutto questo, viene da domandare una cosa, al caro Milto de Nozza in primis: a Brindisi esiste ancora il reato di associazione mafiosa? Siamo o non siamo qui in presenza di un capomafia reo-confesso? Non è per arrestare questi qui che gli paghiamo la scorta? E allora: perché è a piede libero il capomafia di Brindisi? Dunque, dinanzi a tutto questo, a questi professionisti, a questi acchiappafantasmi dell’antimafia delle chiacchiere, che precipitano ogni tragedia in farsa e in carnevale… ma come fai a no ride’?

SE PER L’INCHIESTA JACINI AL SUD “TUTTO È AFRICA” PER CIOTTI “TUTTO È MAFIA”. Ma don Ciotti non ride. Insiste. Celebra la messa – se così posso chiamarla – a Mesagne, presente il povero padre della vittima. Dal pulpito urla, sbraiti, tempeste di slogan antimafia; sussultano ammutoliti i tabernacoli e le incolpevoli sacre statue, al gracchiare del prete “da strada”, del cappellano degli acchiappafantasmi contro l’immaginaria “omertà” (a indagini in corso) del popolo brindisino. Anche ora che è chiaro non c’entri nulla la mafia, che anzi è oltremodo, oltre la legalità persino, collaborazionista; ora che tutti cominciano a vedere chiaro che di qualche psicopatico deve essersi trattato.

Mentre accade tutto questo ti chiedi cosa centri questo post-prete con Mesagne? E quell’omelia, se così posso chiamarla, col solito bollito misto riscaldato, che c’entra con Mesagne, Brindisi, Melissa? “La malattia da sconfiggere è l’indifferenza” dice il presidente di Libera, nella piazza di Mesagne dove ha fatto tappa la Carovana contro tutte le mafie, Berlusconi compreso, è chiaro. “La forza sta in chi si rialza, e noi ci rialzeremo”. “Il problema della criminalità, della mafia, della massoneria è un problema di tutti ed ecco perché la Carovana continuerà a ‘sgrattare’ le coscienze”. Poi ha invitato tutti a “non avere paura”: “Bisogna evitare che tutto diventi terrore, paura, è necessario reagire”. Mafia? Massoneria? Omertà? Ma cosa crede questo acchiappafantasmi che Mesagne sia El Salvador? Giacché è un torinese, come tutti i torinesi dabbene per quanto “da strada”, crede che da Roma in giù, tutto quello che si incontra, fosse anche un vigile urbano, tutto è mafia. Da vero epigono dell’altro nordico, Stefano Jacini, quello dell’Inchiesta meridionale famigerata e insolente, che andando al Sud era convinto di trovarci l’Africa, e tanto ne era convinto che standoci altro non vedeva che “Africa” davvero, e dopo esserci stato, tornando a Torino, scrisse nell’Inchiesta parlamentare: “E’ Africa! Anzi, no: l’Africa al confronto è fior di civiltà”. Sono invasati da strisciante razzismo tutto torinese e dai più vieti e spocchiosi pregiudizi sebbene spacciati per compassionevoli, e non se ne rendono conto. “Omertà” poi… Se c’è mai luogo dove si fa più chiasso intorno a ‘sta roba è proprio la Puglia! Basti pensare ai casi di Avetrana, dei fratellini di Gravina, della piccola Maria Geusa, solo per citare i più noti. “Omertà”, “indifferenza”, dice: se i brindisini davvero sapessero chi è il colpevole dell’attentato, lo andrebbero a prelevare e lo squarterebbero vivo. Persino la mafietta locale ha garantito farebbe lo stesso. Tutto ‘sto solito casino parolaio, tutte queste carovanate, per una tragedia provocata da nient’altro (a quanto pare) che un matto! Se vai da don Ciotti e gli dici, “sai chi è stato? Uno psicopatico”. Sapete cosa dirà don Ciotti, appena individua una telecamera? “E’ il clima mafioso che genera questa follia!”. È un po’ come i medici ciarlatani degli anni ’30, che per qualsiasi malattia, dalla febbre alla varicella al cancro maligno, prescrivevano sempre e solo una cura: una purghetta di olio di ricino. Così come pure, qualsiasi fossero i sintomi psicosomatici, la malattia che diagnosticavano aveva un solo nome: “esaurimento nervoso”. Così Don Ciotti, qualsiasi cosa accada, ovunque accada, in qualsiasi forma accada, anche un incidente stradale, ha una sola diagnosi: “mafia!”; e una sola cura: “antimafia!”… della chiacchiere. Che permettono di fare pubblicità in ogni caso alla sua florida e ricca creatura: l’associazione Libera.

CIOTTI SI SCUSA: GLI È SCAPPATA UNA PAROLACCIA: HA CITATO GESÙ.  Mi raccontava un mio amico veneto, Federico: “E’ venuto a parlare da noi don Ciotti. Sono andato a sentirlo per curiosità. Ha fatto un sacco di chiacchiere, ha detto un sacco di parole a getto continuo e a ruota libera, cose che poteva dire qualsiasi laico, laicista persino. Ad un certo punto si è bloccato, è sembrato vacillare, incerto e ha detto timidamente: ‘Vi chiedo scusa se mi permetto di citare per una volta una frase di Gesù’”. Lui, prete, si è scusato per essersi fatto scappare una frase di Gesù invece che di Gaetano Salvemini! Sì è scusato per l’eventuale equivoco e confusione che avrebbe potuto ingenerare nella folla di comunisti trinariciuti, arcobalenisti, pacifinti, cattolici adult(erat)i e post-cattolici adult(erin)i, dicendo qualcosa di cristiano, invece che, magari, di sociologia fatta in canonica; se ha citato Cristo, invece che, chessò, il Dalai Lama. La verità è che è un uomo e un prete nato vecchio, è il seminarista sessantottino di sempre, progressista ma non aggiornato: è fermo ad arrugginiti luoghi comuni e sulfurei schematismi ideologici degli anni ’70. Quella poltiglia di “buoni sentimenti” e “sensibilità sociali”, umori viscerali e sociologismi, classisti e al contempo umanitaristi, che, proprio in quegli anni, nella Chiesa si trasmutarono in apostasia, con i preti contestatori; nella politica, in proiettili, con i terroristi: i primi volevano “liberare” la Chiesa e la “coscienza individuale”, i secondi il “popolo” e la “coscienza operaia”. Gli uni demolirono mezza Chiesa, gli altri mezzo Stato. Nel sangue molto spesso. E infatti vedi che in alcune nazioni, i primi si unirono ai secondi: ne nacquero i preti guerriglieri. E chiamarono tutto questo “teologia della liberazione”. Oggi abbiamo Libera. Dice l’amico Francesco da Bari: “Mafioso e omertoso. Per Libera questi termini equivalgono ad eretico e scomunicato, laddove invece legalitario ha preso il posto di santo, e sull’ambone invece che le Scritture trovi il codice penale. Il Padre eterno non è il Giudice, è un semplice presidente di corte d’Assise”. Sì, è vero. Come è vero che nella sua logorrea incontenibile, in questi 40 anni, c’è una sola parola che Ciotti non ha mai usato: “Cristo”. Abbiamo visto: gli è scappata una sola volta e se n’è scusato. Ma è un’altra la parola che non gli è mai “scappata”, che proprio non riesce a pronunciare, gli si blocca in gola: “peccato”! E tutto quello che ne deriva: pentimento, penitenza, conversione. E pur di non pronunciarla mai ha sostituito la parola “peccato” con quella di “reato”, “peccatori” con “mafiosi”, “colpa” con “imputato”, “confessore” con “magistrato”, “penitenza” con “pena”, “comandamenti” con “codice penale”, “legge divina” con “costituzione”, “convertito” con “pentito o collaboratore di giustizia”. Per lui, fermo com’è agli schemi arrugginiti degli anni ’70, non esiste il peccato individuale, ma solo la “colpa sociale”. Per questo, per non dover usare la parola “peccato” si è messo a marciare, ha sostituito le messe con le marce, la Chiesa con Libera, la coscienza cristiana con la coscienza civile (ridotta a farsa pure questa). Ed è così che gli sfugge la vera madre di tutti gli eccessi, l’origine d’ogni male: il Peccato. Che egli ha abolito motu proprio. Come mi scrive un mio amico, Vincenzo, riferendosi sardonico al Nostro: “Ma che confessione… non c’è bisogno: basta una chiacchierata mentre sei in un corteo!”.

DIO, IL GRANDE SCONOSCIUTO D’OCCIDENTE. Proprio adesso ascoltavo le parole del Papa, su Cristo che in Occidente è diventato il “Grande Sconosciuto”. E ho pensato al Ciotti che chiede scusa perché gli è scappato di citare Gesù. Dice Benedetto XVI: “Tanti battezzati hanno smarrito identità e appartenenza: non conoscono i contenuti essenziali della fede (…). E mentre molti guardano dubbiosi alle verità insegnate dalla Chiesa, altri riducono il Regno di Dio ad alcuni grandi valori, che hanno certamente a che vedere con il Vangelo, ma che non riguardano ancora il nucleo centrale della fede cristiana. (…) Purtroppo, è proprio Dio a restare escluso dall’orizzonte di tante persone; e quando non incontra indifferenza, chiusura o rifiuto, il discorso su Dio lo si vuole comunque relegato nell’ambito soggettivo, ridotto a un fatto intimo e privato, marginalizzato dalla coscienza pubblica. Passa da questo abbandono, da questa mancata apertura al Trascendente, il cuore della crisi che ferisce l’Europa, che è crisi spirituale e morale: l’uomo pretende di avere un’identità compiuta semplicemente in se stesso. In questo contesto, come possiamo corrispondere alla responsabilità che ci è stata affidata dal Signore? (…) In un tempo nel quale Dio è diventato per molti il grande Sconosciuto e Gesù semplicemente un grande personaggio del passato, non ci sarà rilancio dell’azione missionaria senza il rinnovamento della qualità della nostra fede e della nostra preghiera; non saremo in grado di offrire risposte adeguate senza una nuova accoglienza del dono della Grazia; non sapremo conquistare gli uomini al Vangelo se non tornando noi stessi per primi a una profonda esperienza di Dio”.

“HO VISTO PEZZETTI DI CARNE SPARSI”. MA LO HA COLPITO SOLO “UN QUADERNO DI EDUCAZIONE CIVICA”. Due giorni dopo don Ciotti è a Cecina: essendo prete “da strada” batte tutti i marciapiedi della nazione. A parlare di se stesso. Dei suoi “secondo me”. Di fantasmi. Di carovane e associazioni acchiappafantasmi. Di Costituzione. Di tutto, meno che della sola cosa della quale dovrebbe parlare: di Cristo, del peccato, della conversione. Ho spesso informatori volontari, che mi si fanno vivi con notizie fresche che non ho richiesto ma che poi mi tornano sempre utili. Un amico di Cecina, infatti – dove il Ciotti è andato dopo Mesagne a “predicare” le meraviglie del costituzionalismo – mi manda un essenziale ed espressionista quadretto della situazione. Lascio a lui la parola. “Se ti interessa ieri il Ciotti ha raccontato un aneddoto sulla sua visita a Mesagne: ‘Ho chiesto alla scientifica di sorpassare l’area che avevano recintato, mi hanno fatto passare, sono rimasto impressionato dai pezzi di carne sparsi su tutto il piazzale, ma mi sono soffermato su un particolare: un quaderno scritto da una delle ragazze coinvolte nell’attentato, ho sfogliato le pagine ho trovato che avevano fatto una lezione sulla nostra Costituzione (aria commossa), sì, avete capito bene, avevano fatto lezione di educazione civica a scuola. È proprio da qui che il nostro paese deve ripartire‘. Standing ovation.” Chi ha ucciso, non ha violato l’apposito comandamento divino, no: ha violato la Costituzione; chi uccide non è un peccatore, ma un reo; non la dottrina, ma l’educazione civica. L’uomo si salva da sé attraverso le sue leggi e i suoi organigrammi, le sole cose che possano giudicare e salvare gli uomini. Dio è un attore impotente, e anzi, è giudicabile persino attraverso quelle stesse leggi. Se quelle leggi sono contro Dio, non sono sbagliate le leggi, è “sbagliato” o è stato “malinterpretato” Dio stesso. Cosa sta strisciando nelle vene di Ciotti, oltre al peccato di orgoglio, l’archetipo dei peccati, il primordiale, il primo che fu commesso e che ha lambito persino l’arcangelo Lucifero, precipitandolo dai cieli, e Adamo ed Eva, precipitandoli dal paradiso terrestre? Che cos’è a strisciare sibilante nelle sue vene se non il riemergere di antiche eresie, soprattutto gnostiche e pelagiane?

SOSTITUIRE IL DECALOGO CON LA COSTITUZIONE, IL CONFESSORE COL MAGISTRATO. Come avrete notato da voi stessi, non sembra particolarmente interessato ai “pezzetti di carne”: sono un dettaglio secondario ai suoi fini ideologici. Ciò che gli interessa è la Costituzione, il culto di quella carta giuridica che è il totem, il sancta sanctorum, il vitello d’oro dei nuovi pagani di oggi, i laicisti con corollario di post-preti “adulti” sino al punto di essere ormai anche post-cristiani. E qui viene fuori anche tutto il cinismo inconsapevole dell’ideologo. Erano un’occasione quei “pezzetti di carne” per riflettere e far riflettere sul Decalogo, sul peccato, la morte, gli assoluti. Ma no, gl’interessava impugnare il feticcio dell’ideologo, la “Carta”, la nuova Rivelazione: la Costituzione. Ossia una banalissima lezione scolastica di educazione civica in un istituto professionale, fatta alla meno peggio nell’ora prevista, immaginiamo nella totale catalessi degli studenti col pensiero rivolto alla campanella. Ma siccome il Nostro è un ideologo fermo agli anni ’70, non gli interessa la banale e demitizzante realtà dei fatti, il tran-tran quotidiano, le cose viste nella loro reale giusta misura, no: gli interessa la “bella idea”. E così nella sua testa dal capello sempre unto, quel quaderno di svogliati appunti della lezione di educazione civica, diventa una gran cosa, immagina studenti dall’acuto senso civico, novizi ardenti del neo-costituzionalismo pendenti dalle labbra dell’insegnante precario che gli annuncia le verità rivelate e le secrete cose che da quella Carta secernono. Immagina un popolo di giovani eroi, che, Costituzione alla mano, commossi e coraggiosi marciano invitti per tutta la nazione incontro alla Città del Sole, la nuova Gerusalemme della religione civile.

NON IMPORTA CHI È DIO, MA DA CHE PARTE STA”. IL MANCATO LEADER SOCIALISTA. L’amico di Cecina, infatti, aggiunge: “Riassunto della serata: Culto della Costituzione, dello Stato, della democrazia, della legalità (tranne che per la Bossi-Fini) e soprattutto della Scuola (statale, ca va sans dire); dice cose condivisibili (no alla mafia, all’illegalità) e mi parla male di Eminenze e sottolinea che senza lavoro non si è liberi. Parla con un certo carisma e ha ottime doti di recitazione e buona oratoria: sarebbe stato un ottimo leader del Partito Socialista Italiano. Slogan della serata: Non importa sapere chi è Dio ma da che parte sta, cantato da un menestrello napoletano con voce solista di un sacerdote toscano di Libera”. Non importa chi è Dio, ma da che parte sta. Naturalmente, non avendo più nessun connotato, essendo Uno Nessuno Centomila, amorfo e sfigurato come l’hanno fatto diventare questi qui, non può che stare da qualunque parte lo si voglia portare, “trascinato da tutte le parti secondo ogni nuovo vento di dottrina”, dirà il cardinale Ratzinger alle esequie di Wojtyla. Per questo don Ciotti lo sente sempre dalla sua. Il suo dio minore non è altri che il “secondo me”, la cui rivelazione è contenuta nella carta costituzionale, nuovo libro sacro. Egli ne è il cappellano. Non è un caso che l’ultima volta che l’ho incontrato, è stato davanti alla bara del sommo pontefice della religione fatta di carta… costituzionale: Oscar Luigi Scalfaro.

QUEGLI STUDENTI CHE MARCIANO PER MARINARE LA SCUOLA LECITAMENTE: SENZA FANTASIA, SENZA SINCERITÀ.  Vedo il tg e leggo l’Ansa a una settimana dalla tragedia di Brindisi. E noto con fastidio alcune cose. La prima è la canonicissima ennesima “marcia” all’italiana: la liturgia madre, la messa cantata del politicamente corretto di piazza, negli ultimi tempi. Che naturalmente si tiene nella città che ha dato i natali a me e a Melissa: Mesagne. Chi marcia sono gli studenti. E la prima cosa che ti domandi è se non sia (siamo realisti!) più un marinare la scuola e una scampagnata, per giunta illuminata da flash e telecamere. Basta fare un calcolo: una marcia che non significava niente e che pestava acqua nel mortaio, la si tiene un mattino di un giorno scolastico. Eppure potevano farla in un giorno festivo, o meglio ancora nel pomeriggio, quando le scuole son chiuse. E invece no. Quella marcia in cui dei brufoloni berciavano e blateravano di “mafia” senza una logica, un fondamento, e anzi con già pesanti indizi che la discolpavano del tutto, quella marcia lì priva di senso, un senso lo avrebbe avuto se il marciare avesse comportato anche un sacrificio: la mattina andare a scuola, il pomeriggio invece che andare in giro a cazzeggiare, impegnarlo per marciare. Così non è stato: dunque era, a mio avviso – ché studente brufolone pure io son stato, e ben le conosco queste babbiate – , un marinare la scuola. Con l’aggravante dell’ipocrisia. E del cinismo. Ma poi. Bastava guardare i loro slogan per capire che non erano sinceri: la solita roba usata da vent’anni in tutte le salse: “Io non ho paura”, “E adesso uccideteci tutti”, “La mafia è una montagna di merda”, “La mafia uccide, il silenzio pure” e bla bla bla. Slogan senza fantasia, solita frittata parolaia, solita minestra a merenda, pranzo e cena. Da qui t’accorgi che non erano sinceri: dalla mancanza di fantasia (oltre che dall’aver marinato la scuola). E’ quando le cose ti coinvolgono, le senti veramente, che la fantasia si scatena. Ma in questa stanca parata delle vanità? Questo usare a casaccio il solito repertorio ciottesco senza fare uno sforzo d’immaginazione, metterci del proprio, adattarlo al contesto, indica che non sapevano di che stessero parlando, che avvertivano l’artificiosità della situazione. Perché non erano sinceri. Sapevano bene che era tempesta in bicchier d’acqua, simulazione a uso e consumo dei media. Che di altro non si trattava che sindrome da marcite cronica, nella variante mediterranea di chiacchierite da antimafiosite mitomane.

È POLITICAMENTE SCORRETTO DIRE “LA MAFIA NON ESISTE”, ANCHE SE È VERO CHE NON ESISTE. Naturalmente, in questa marcia, c’era pure tutto il resto dell’armamentario giornalistico standard per i casi falsi o presunti di “mafia”. C’era pure in questa occasione un’altra volta don Ciotti a sbraitare nella Mesagne che mi ha visto nascere “contro la mafia”, “l’omertà”, “la gente che ha paura della mafia” e “tace”… e tace soprattutto perché di tutte quelle porcherie sopra elencate non ce n’è manco l’ombra, e quindi che deve dire? C’era pure l’immancabile altro classico della tv italiana, il solito giornalista imbecille e, direbbe Sgarbi, “raccomandato e rottinculo”, che accosta col microfono un povero vecchio che ignaro prende il sole davanti al BarSport a domandagli d’improvviso: “La mafia a Mesagne esiste?”. E quello cade dalle nuvole, ma avvertendo subliminalmente, dinanzi alla tirannia nazista del microfono sciacallo, che è politicamente scorretto dire che la mafia non c’è anche se è vero che non c’è, nell’imbarazzo tace, tanto se dicesse la verità, che la mafia a Mesagne non c’è non solo non sarebbe creduto, ma passerebbe pure per “omertoso”, forse “colluso” e certamente un poco “fascista”. E dalla sera alla mattina un contadino ottantenne che ha lavorato onestamente la terra per una vita, si troverebbe “uomo d’onore”; e infatti, l’altro vecchio, più spigliato, dice giustamente “io non l’ho mai vista”. Risultato: giornalista Rai grida ai quattro venti: “Aveva ragione don Ciotti, ecco la città mafiosa, la gente ha paura della mafia, l’omertà dilaga”. Retorica da antimafia delle chiacchiere. E che, chiacchierando chiacchierando, calunnia. Mesagne non è la prima vittima dei professionisti dell’antimafia delle chiacchiere: le sue vittime, più numerose ormai di quelle della mafia stessa, contano nomi sempre più eccellenti: da Andreotti a Berlusconi. Tutti, naturalmente, assolti con formula piena da tribunali non certo di destra. Mentre quelli che davvero torturarono in vita giudici come Falcone, per poi farselo “amico” appena saltato in aria, quelli non li processa nessuno, anzi, sono fra i massimi notabili dell’antimafia della chiacchiere: parlo per esempio di Leoluca Orlando, o anche del giornale la Repubblica. E infatti scopri che chi ha tentato di aiutare Falcone, con leggi durissime che la mafia l’hanno messa in crisi sino a spingerla a sparargli addosso e a passare allo stragismo terrorista pur di farsele abolire; che chi ha tentato di salvare per amicizia Falcone dall’orda infame, calunniatrice e vigliacca dei suoi colleghi magistrati rossi siciliani, sino a prospettarne la candidatura al Senato per la DC, per strapparlo a quell’ambiente avvelenato di futuri professionisti dell’antimafia delle chiacchiere e dei comizi, furono proprio due personaggi a loro volta perseguitati dai persecutori di Falcone: Andreotti e Calogero Mannino. Guardacaso gli stessi che poi i professionisti dell’antimafia dichiararono “mafiosi” e trascinarono, naturalmente senza una prova, in tribunale. Per sfregio, per odio ideologico. Guardacaso i soli (insieme a Martelli) su cui Falcone potè contare.

LA VERA MAFIA CHE PRETENDE OMERTÀ È QUELLA DEL PROFESSIONISMO DELL’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE. Da oggi, quindi, per bolla pontificia di don Ciotti, sommo pontefice dell’antimafia delle chiacchiere, l’attentato di Brindisi è opera della mafia, e la Mesagne che diede i natali al Mastino, ossia a me, è città di mafia. E non lo sapevo. Per riflesso condizionato, quindi, occhio e croce dovrei essere mafioso pure io. Potrebbe essere. Ma voi ve lo immaginate un Mastino “omertoso”?! E proprio perché non sono né mafioso né omertoso, la dico tutta: l’unica mafia, l’unico atteggiamento mafioso e che pretende omertà qualunque cosa dica o faccia, è proprio il professionismo dell’antimafia delle chiacchiere, con tutte le su “Carovane” donciottesche. Dulcis in fundo, leggo l’Ansa del 29 maggio, attenti alle sottolineature: Marcia della legalità a Mesagne (Brindisi), il paese di Melissa Bassi. ”Melissa – ha detto Don Luigi Ciotti, presidente di Libera – è viva, anche se fisicamente non c’é più. Stamani al cimitero ho visto che qualcuno ha attaccato due pezzi di carta. C’era scritto: Melissa vive dentro di noi. Noi ci sentiamo un po’ tutti Melissa”. No, non è vero: i morti sono morti, morti per davvero per il mondo, fisicamente e prestissimo anche “dentro” tutti: solo i genitori si porteranno dentro un dolore che appartiene solitario allo scrigno del loro cuore. Tutto il resto sono chiacchiere. Se non sei una grande mistica, una grande leader, una maitre a penser, che ha segnato la storia, le cose stanno così: sei morta davvero. Mi fa schifo l’ipocrisia che dice le cose “che si devono dire” in determinate circostanze anche se non sono vere: l’ipocrisia sui morti, la menzogna invece della preghiera sparsa sui loro resti, sono sacrilegio e blasfemia.

DIO È LUI, DON CIOTTI. E “LIBERA” NE È IL SUO CORPO MISTICO, LA SUA CHIESA. Come vedete, Ciotti è capace di dire di tutto, persino cose tra il pagano e lo gnostico, purché abbastanza sentimentalistico e formato La Vita in Diretta; tutto, compreso che è “viva” e magari “dentro di noi”, anziché ammettere l’unica cosa che, da prete, avrebbe dovuto dire, la più semplice: “E’ morta, è risorta in Cristo, finalmente ha visto il Suo Santo Volto”. Non lo dice perché è fuori moda, perché in fondo non ci crede, perché se ne vergogna, perché in definitiva gli sembra irrilevante ai suoi fini. Soprattutto perché gli interessa il consenso dell’intellighenzia, delle platee, i galloni della cronaca. Gli applausi del mondo. E per ottenerli è necessaria l’apostasia silenziosa: che non consiste più (solo) nella negazione plateale delle verità cattoliche, quanto piuttosto nella rimozione discreta di Dio. Da ogni contesto. Dalla propria lingua, anzitutto. Perché Dio è lui, don Ciotti. E Libera ne è il suo corpo mistico, la sua chiesa. Costruita sulle sabbie mobili delle mode del mondo. Dello spirito del mondo, cioè. Che poi, come detto, è sempre Lucifero. Tra donchisciottismo e donciottismo non vedo la differenza: Don Chisciotte combatte contro tutti i mulini a vento, scambiati per mostri dalle braccia rotanti; don Ciotti pure, credendo però di combattere la mafia. Ho qui davanti a me Il Mercante di Venezia di Shakespeare. Lo sfoglio a caso e leggo, pensando immediatamente a Ciotti e a quelli come lui: “Le forme esteriori possono ingannare, sempre l’ornamento inganna il mondo. Nei processi, quale causa disonesta e corrotta che, sostenuta da una voce graziosa, non maschera il volto del male? Nella religione, quale colpa tanto maledetta che una fronte grave non la benedica e approvi usando un testo sacro, con una bella frase celando l’ignominia? Non c’è vizio elementare che non assuma qualche segno di virtù sulle sue parti esterne. Quanti codardi hanno cuori ingannevoli come gradini di sabbia, eppure portano sul mento la barba di Marte corrucciato e di Ercole, loro che, frugati dentro, hanno fegati bianchi come il latte. L’ornamento così, non è che l’insidiosa riva d’un mare periglioso, il velo sfarzoso che nasconde una bellezza barbarica: in una parola, la falsa verità che i tempi astuti indossano per intrappolare i più saggi”. Non a caso ho sotto gli occhi una frase rivelatrice di don Ciotti, a proposito della causa di beatificazione di Tonino Bello, suo omologo pugliese, con un curriculum simile: “Occorrono due miracoli per la beatificazione di don Tonino? Ci sono! Il primo è stato l’elezione di Vendola a governatore della Puglia; il secondo, la sua rielezione”. Non c’è niente da aggiungere.

PARLIAMO DI MAFIA

Mafia in Piemonte, le tappe di un cammino iniziato con il sangue. L'evoluzione dall'omicidio dell'imprenditore Ceretto nel 1975 a oggi, scrive Lodovico Poletto su “La Stampa”. All’inizio fu il rapimento di Mario Ceretto, l’industriale di Cuorgnè, sequestrato e trovato ucciso cinque giorni dopo. Era il 1975. Mafia e ’ndrangheta, allora, erano poco più che parole che connotavano luoghi lontani, sullo stivale. Erano poco più che battute da bar, sfottò. Trentasette anni dopo è tutto cambiato. La ’ndrangheta è qualcosa di reale, palpabile, che fa paura. A Cuorgnè come nel resto del Torinese. Da Orbassano a Settimo, passando per Leini, Bardonecchia (entrambi Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose) e Rivarolo. ’ndrangheta e mafia. E nomi che si inseguono, famiglie, contatti, affari. Per capire come è cambiata la mafia nel torinese bisogna partire da qui, da Cuorgnè, terra di immigrazione calabrese, di muratori, gente che fatica, venuta dal Sud a cercare fortuna. Bisogna partire da Giovanni Iaria, arrivato giovanissimo da Condufuri e diventato in breve personaggio discusso e ammirato. Passione politica e affari guidano tutta la sua vita. È assessore comunale, poi vicesegretario provinciale del Psi quando ancora i socialisti non erano stati travolti dallo scandalo tangenti. E poi gli affari. Iaria finisce travolto da un’inchiesta. Condannato: associazione mafiosa. Ma la sentenza viene cassata e lui è libero. Torna ad essere il brillante affabulatore di sempre ben lontano dagli schemi del mafioso. Più un uomo a cui hanno appiccicato un’etichetta che uno che fa affari sporchi. In quegli anni ciò che spaventa di più sono gli affari criminali. Il racket e lo spaccio, per capirci. Gli omicidi. Le vendette. I Comuni di Volpiano, Settimo Torinese, in parte Chivasso finiscono nelle relazioni dell’antimafia. I nomi delle famiglie Marando, Agresta, Trimboli vengono associati alle cosche che operano in Calabria, in particolare a quella di Barbaro «U castanu» di Platì, con a capo Francesco Barbaro. E ancora Calabria e Torinese che si incrociano. Ma è tutto molto lontano, soffuso. Poi nel 1995 la Commissione antimafia manda a casa tutto il Consiglio comunale di Bardonecchia. Infiltrazioni. I nome di Rocco Lo Presti, arrivato quassù giovanissimo da Marina di Gioiosa Ionica identifica per la prima volta in modo chiaro e inequivocabile che cos’è la ’ndrangheta. È affari. Appalti ed estorsioni. Minacce e conquista del territorio. Spuntano nomi di famiglie fino a ieri sconosciute ai più. Tutto questo lo scopre la gente normale, quelli che non riuscivano a capire tutti quei titoloni sui giornali. Magistratura e inquirenti invece già sapevano e lavoravano da tempo. Un dato per tutti: tra il 1970 ed il 1983, la Procura della Repubblica di Torino registra 44 omicidi di mafia. Ma la gente ancora non comprende: guarda, scrolla le spalle e se ne va. In mezzo a tutta questa indifferenza la geografia criminale nel torinese cambia pelle. Il Clan dei Cursoti, i catanesi che per dieci anni sono stati padroni incontrastati della Torino nera, viene decimato da pentiti e blitz. E lo scettro del comando passa in mano ai calabresi. Che gestiscono i traffici. La famiglia Ilacqua, ad esempio, colonizza Chivasso. Quattro fratelli approdati in Piemonte da Seminara Calabra, e che godono della protezione di Rocco Gioffrè, uno dei padrini allora più potenti, maschera il traffico di droga dentro un’autofficina. Le ’ndrine locali, intanto, si spartiscono il territorio, rispettano confini decisi nelle riunioni che si fanno al sud. E nel torinese ormai semi conquistato, vengono a svernare personaggi troppo pericolosi in Calabria. Come Rosario Zappavigna o come Rocco Occhiuto, che fece parte del commando dei tagliatori di teste di Platì, arrestato dai carabinieri nel Canavese. Viveva a Rivarolo. Da solo, in un alloggio in periferia. Tutto questo accadeva vent’anni fa, o giù di lì. Da allora la ’ndrangheta ha sparato, e tanto, conquistato territori nuovi, fatto soldi. Ha allungato le mani sugli appalti. S’è infilata nella politica. Bisogna arrivare all’operazione «Crimine» a Milano, due anni fa per avere ben chiare le dimensioni del fenomeno. In carcere, allora, finisce tra gli altri Giuseppe Catalano, il boss dei boss della ’ndrangheta nel Torinese. È di Orbassano. Ha un nipote Consigliere comunale che cade dalle nuvole quando arrestano lo zio e il padre. Poi arriva l’operazione «Minotauro». Politica e affari, adesso è chiaro sono legati in modo potente. ’ndrangheta e voti. È la pagina più recente della storia della criminalità calabrese. Ma non è l’ultima.

E il Piemonte riscopre la mafia, scrive Andrea Dotti su “Narco Mafie”. ‘Ndrangheta e famiglie siciliane, ma anche criminalità straniera: romena, cinese, nigeriana e marocchina. È quanto emerge dalla relazione redatta dalla commissione consiliare antimafia della Città di Torino. Il documento è una mappatura della criminalità organizzata presente sul territorio piemontese e si tratta del primo lavoro realizzato dalla commissione torinese, costituitasi dopo l’operazione Minotauro. Il gruppo criminale più presente e radicato sul territorio risulterebbe essere quello di origine calabrese. Nel corso degli anni la ‘ndrangheta si è inserita nel tessuto sociale. agendo in numerose attività illecite, ma inquinando soprattutto i cosiddetti mercati legali. A destare maggiore allarme, in questo senso, è la loro presenza nelle gare d’appalto e la loro infiltrazione all’interno del mondo della politica, come dimostrano gli scioglimenti dei comuni di Rivarolo e Leinì. Preoccupa anche la presenza di gruppi criminali romeni. A loro viene attribuita la responsabilità per furti, e reati relativi alla clonazione di carte di credito. Quello dei nigeriani, invece, risulterebbe essere il gruppo criminale più attivo nello spaccio di sostanze, nella tratta di esseri umani e nello sfruttamento della prostituzione. Un’attività, lo sfruttamento della prostituzione, che ha visto crescere la presenza sul territorio di bande organizzate di origine cinese. In questo caso è in espansione il coinvolgimento di cittadini cinesi verso lo sfruttamento della prostituzione esercitata in case d’appuntamento, spesso mascherate da centri estetici e di massaggi. I gruppi cinesi sono coinvolti, inoltre, nella contraffazione e nei reati contro la persona: spesso rivolti all’interno della loro stessa comunità. Lo spaccio di hashish, invece, è appannaggio dei gruppi di origine marocchina. Le piazze più attive, in questo senso, sarebbero le zone di zone di Porta Palazzo, San Salvario, Piazza Vittorio e Murazzi. Della presenza della mafia in Piemonte ne abbiamo parlato con Rocco Sciarrone, docente di sociologia dell’Università di Torino.

Il Piemonte riscopre la mafia: dopo Minotauro sono iniziati i lavori della commissione consiliare antimafia.

Non solo tra Sila e Aspromonte, la ‘ndrangheta alloggia anche ai piedi delle Alpi. Ci sono volute le operazioni Minoatauro e Albachiara per risvegliare il Piemonte dal torpore e scoprire la criminalità organizzata sull’uscio di casa. Le inchieste hanno portato a centinaia di arresti e allo scioglimento di due comuni del torinese, scoperchiando l’intreccio tra mafie, imprenditoria e mondo della politica. Dopo le inchieste giudiziarie la società civile ha chiesto alla città di reagire, partendo dal presupposto che la mafia non si combatte solamente a colpi di magistratura, ma è necessaria una risposta politica. In questo contesto a Torino è nata la commissione consiliare antimafia, cui primo lavoro è stata la redazione di un report: una mappatura dei gruppi criminali in Piemonte. La ‘ndrangheta risulta essere il gruppo più pervasivo e radicato sul territorio, seguita dalle famiglie siciliane. Ma il report ha evidenziato anche la presenza di numerose comunità criminali di origine straniera, sebbene la loro attività sembrerebbe essere confinata all’interno della delinquenza comune. Mafie vecchie e mafie nuove si incontrano, ma per il Piemonte non è un fenomeno nuovo. Basta pensare all’omicidio del procuratore Bruno Caccia, l’operazione Cartagine e il commissariamento del Comune di Bardonecchia. E lo sa bene Rocco Sciarrone, docente di sociologia, che rappresenta l’Università di Torino all’interno della commissione e che da oltre 15 anni svolge attività di ricerca sul tema.

Il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa in Piemonte non è una novità. Come mai è passato così tanto tempo prima di vedere una reazione?

È uno dei nodi cruciali che toccano la questione delle mafie al Nord. Sull’argomento ci sono sempre state resistenze, sottovalutazioni e negazioni, provocando un ritardo nel prendere consapevolezza. Ogni reazione, inoltre, è sempre stata ispirata dell’emergenza e in questo Torino non fa eccezione. Bisogna sottolineare, però, che la creazione di una commissione consiliare sul fenomeno mafioso in una città come Torino, se pure in ritardo, è un atto considerevole. Significa che l’amministrazione pubblica di una delle città più importanti d’Italia ha deciso di riconoscere il problema. Potrebbe sembrare una cosa da poco, ma a livello politico è molto importante. Uno degli obiettivi che deve avere la commissione è proprio superare l’ottica dell’emergenza. Il contrasto alle mafie deve essere costante e strutturale. Insomma, andare al cuore della questione: intervenire nella testa delle persone, sul territorio e nel tessuto economico della società. E poi c’è l’aspetto della regolamentazione, che è il campo di lavoro proprio della politica. Il contrasto alla mafia non deve essere orientato solamente al fenomeno criminale, ma deve colpire anche i fattori che possono favorirne la riproduzione. In sostanza, è necessario contrastare i fenomeni culturali, sociali ed economici dell’attività mafiosa. Bisogna scardinare il modello vincente che la mafia rappresenta.

Il ritardo delle istituzioni nelle reazioni, però, è uno dei maggiori punti di forza della criminalità organizzata

Certamente. Ed è anche uno dei punti di debolezza dell’antimafia. Mafia e antimafia vanno osservati insieme. Per capire la forza di una, bisogna guardare le debolezze dell’atra. Sono due facce della stessa medaglia: si configurano a vicenda. Gran parte dell’azione antimafia nel nostro Paese è stata sempre fatta in ritardo e confinata al piano repressivo. Il lavoro delle magistrature è fondamentale, ma ha anche tutti i limiti di qualsiasi azione di tipo giudiziario e penale. Manca, in questo senso, un’azione preventiva che può avere effetti strutturali di lunga durata e mancano dei meccanismi di controllo extrapenali. È da qui che deve partire la commissione.

Qual è la differenza tra le mafie tradizionali e quelle di nuovo insediamento?

Molti studiosi parlano di clonazione. Io sarei più cauto: preferisco il termine riproduzione. Le cosche che si insediano al Nord hanno forti elementi di somiglianza con quelle tradizionali, ma hanno anche delle specificità. Sono capaci di operare in modo autonomo, pur mantenendo stretti legami con le cosche nelle regioni d’origine. Per quanto riguarda il Piemonte, ad esempio, la mafia più pervasiva è la ‘ndrangheta, la quale ha forti connessioni con le famiglie di riferimento in Calabria. Esistono, però, anche dei forti elementi di discontinuità. Le differenze maggiori si trovano nelle attività di questi gruppi, diverse rispetto agli anni passati. Si riscontra, in questo senso, un cambiamento dovuto al mutamento del contesto in cui operano. Oggi sembra meno rilevante la presenza mafiosa nei traffici illeciti, ma più significativa nell’economia pulita. Sono cambiati i mercati illegali, i quali hanno subìto gli effetti della globalizzazione: sono molto più strutturati e rischiosi, l’azione repressiva è più efficace ed è aumentata la concorrenza. Oggi è importante concentrare l’attenzione sull’infiltrazione nei mercati legali.

Stiamo parlando soprattutto di appalti?

Stiamo parlando di edilizia in generale. Edilizia pubblica e grandi appalti, ma anche edilizia privata. Sembra un campo meno visibile, ma non deve essere sottovalutato. Non significa che gli uomini di mafia abbiano spiccate qualità imprenditoriali. Il loro punto di forza è riuscire a infiltrarsi all’interno dei contesti economici grazie ad altre competenze. Sono specialisti nell’uso della violenza e nell’uso di capitale sociale. Sono in grado di tessere fitte reti di relazioni e riescono ad adattarsi molto bene al contesto in cui vivono. Combinando questi fattori, le cosche possono trarre vantaggi dal mondo pulito dell’imprenditoria e della politica: vantaggi che possono essere reciproci. Una delle grandi novità delle mafie di nuovo insediamento, infatti, è la formazione di zone grigie di collusione e complicità: mafia, politica e imprenditoria attuano uno scambio reciprocamente vantaggioso. La metafora della mafia come virus che contagia la società è superata. La presenza mafiosa è diventata molto più affaristica e può trovare una sponda favorevole in alcuni comitati d’affari che non sono di per sé criminali, ma che prolificano sulla base di scambi occulti e dinamiche di corruzione. I confini sono molto labili: gli affaristi si muovono al limite delle regole di mercato e la ricerca del consenso politico è al limite della legalità. La difficoltà è tutta qui: distinguere l’impresa buona da quella cattiva e il politico buono da quello cattivo.

Parlando di appalti ed edilizia in una città come Torino non si può fare a meno di pensare alle Olimpiadi del 2006. Le mafie hanno messo le mani anche nelle grandi opere olimpiche?

È difficile dare una risposta. A livello giudiziario non sono ancora emersi casi di appalti controllati in modo sistematico da gruppi criminali. Sono però emerse situazioni di confine. Una zona grigia in cui legalità e illegalità sono difficili da mettere a fuoco. Sebbene non si possa parlare di un controllo a monte degli appalti, si può affermare che ci sono state infiltrazioni a valle. Si tratta di interventi nei segmenti più bassi: movimento terra, trasporti, contratti e subappalti. Non dobbiamo immaginare che la mafia controlli tutto. La sua presenza è più sottile e pervasiva, come ha dimostrato la Minotauro. Questo non vuol dire che è meno pericolosa. Significa semplicemente che si vede meno. I gruppi criminali mettono in atto una strategia di sommersione, in cui anche l’uso della violenza è ridotto ai minimi termini.

Il rapporto ha evidenziato la presenza sul territorio di una rete criminale di origine straniera. L’attività di questi gruppi sembra concentrata prevalentemente sulla criminalità diffusa, come lo spaccio e lo sfruttamento della prostituzione. Che tipo di rapporto c’è con la mafia tradizionale?

Sebbene ci siano forme di criminalità straniere che possono costituire un pericolo, non sono minimente paragonabili alle mafie tradizionali. I gruppi stranieri sono inseriti in alcuni traffici illeciti anche in forme strutturate, ma non raggiungono forme forti di radicamento territoriale. Anche l’azione di contrasto è molto diversa, in quanto sembra essere molto più complicato combattere le mafie tradizionali. Siamo di fronte a una divisione del lavoro criminale di tipo complementare, senza conflittualità. A differenza di quanto si pensa, le mafie hanno sempre tollerato la delinquenza comune. Questo avviene perché c’è una reciproca convenienza. E i mafiosi massimizzano i loro vantaggi collocandosi all’interno delle reti criminali in posizioni che offrono maggiori profitti e bassi rischi. Per quanto riguarda il mercato della droga, ad esempio, oggi i gruppi mafiosi tradizionali preferiscono porsi nel ruolo di finanziatori. Non sentono più la necessità di gestire direttamente il traffico. In un mercato rischioso ed esposto ad azioni di contrasto, come il narcotraffico, le mafie tradizionali sono presenti in modo diverso rispetto al passato. È finito il tempo del monopolio.

Si è tornato a parlare anche di gioco d’azzardo. Il controllo di questo mercato sembrava ormai un appannaggio del passato. Quale ruolo giocano le mafie?

C’è una continuità con il passato. Torino è sempre stato un territorio privilegiato in questo settore. Già negli anni ’80 i clan dei catanesi e dei calabresi controllavano le bische clandestine e il gioco illegale. Si può quindi dire che a Torino esiste una tradizione criminale del gioco. Il settore ha avuto una nuova espansione con la crescita del gioco legalizzato. Si sono venute a creare delle convenienze e delle commistioni tra legale e illegale. Il gioco legalizzato offre alle mafie nuove opportunità di investimento. Le scommesse e i videopoker offrono grandi guadagni con minimi sforzi tecnici, organizzativi e finanziari. E poi c’è l’usura. Le mafie si inseriscono nel mercato del gioco, non solo investendo, ma intervenendo anche in un secondo momento, con il prestito a strozzo. Ancora una volta, dunque, le cosche mafiose riescono ad approfittare del contesto sociale. La loro capacità di adattamento è facilmente osservabile in una condizione di crisi come quello attuale. In un periodo in cui diventa difficile accedere al credito legale, è quasi normale che gruppi criminali che si specializzano in questo servizio trovino nuovi spazi.

'Ndrangheta in Piemonte. IL sindaco del comune sciolto: “Qui la mafia non c’è”. Nevio Coral, storico primo cittadino di Leinì, depone al processo "Minotauro", dove è imputato per concorso esterno. "Nessuna infiltrazione", assicura. E sulla cena con esponenti della criminalità calabrese spiega: "Un imprenditore non chiude mai la porta". Ma secondo l’accusa faceva affari con i boss, scrive Elena Ciccarello su “Il Fatto Quotidiano”. “Se c’è un paese che non ha infiltrazioni mafiose né mafiosi è Leinì”. Lo ha dichiarato oggi ai magistrati di Torino Nevio Coral, ex sindaco di Leinì, durante il maxiprocesso “Minotauro” contro la ‘ndrangheta che lo vede imputato per concorso esterno in associazione mafiosa. Il Comune alle porte del capoluogo piemontese di cui è stato dominus incontrastato per più di un decennio, prima come sindaco poi passando lo scettro al figlio Ivano, è stato sciolto per mafia dal governo Monti nel marzo 2012. Secondo la procura Coral, arrestato nel giugno 2011 e oggi ai domiciliari, è stato una macchina da soldi per la ‘ndrangheta, che ha potuto così spartirsi appalti e subappalti nel Canavese e nei cantieri del suo gruppo industriale in cambio di pacchetti di voti. Un “biglietto da visita” da usare in banca per ricevere credito. Nell’aula bunker delle Vallette, l’imprenditore e politico di successo, noto anche come suocero e sponsor elettorale di Caterina Ferrero, ex assessore alla Sanità della giunta di Roberto Cota coinvolta in un’inchiesta su favori, mazzette e appalti, ha ripercorso con voce rotta la sua storia di self-made man, arrivato in Piemonte dal Veneto. “Ho la terza media, ho iniziato giovanissimo, ho vissuto in una baracca di legno”. Per lui, uomo di destra con una “particolarissima simpatia per Craxi”, l’avventura politica è iniziata quasi per caso, nel 1994, quando Forza Italia lo ha presentato come uomo nuovo dopo due anni di commissariamento del Comune, sciolto una prima volta nel 1992 per una mini tangentopoli che aveva portato in carcere alcuni assessori e il vice sindaco. “Ero il Grillo di tanto tempo fa, ma con i piedi per terra” racconta lui. È orgoglioso, Coral, di quanto è riuscito a costruire a Leinì, che nei 10 anni della sua amministrazione è passato da 11mila a 15mila abitanti, con una crescita di circa 2-3 mila unità abitative. Ed è riuscito a fondare un’Università su cui la Presidente della corte Paola Trovati gli ha chiesto chiarimenti: “Vede che lei non sa che c’è l’università? Vede che quando noi di destra facciamo qualcosa, voi magistrati..”, le ha risposto Coral. Gran parte dei lavori fatti a Leinì sono passati dalla Provana Spa, il “capolavoro” di Coral, una società “in house” che secondo la relazione d’accesso prefettizia ha rappresentato “il mezzo di cui quest’ultimo si è servito per concludere gli affari illeciti con i boss” e grazie al quale “è riuscito a pilotare (e sperperare) una mole impressionante di denaro pubblico derivante sia dalle casse del municipio che da sovvenzionamenti europei aggiudicati tramite l’Ente Regione Piemonte”. Coral si è sempre mosso con disinvoltura nel mondo delle costruzioni. “Facendo il Sindaco ho cercato di far vedere che noi imprenditori, credo che qui siamo tutti imprenditori ognuno nella sua misura, non è vero che siamo dei disonesti, abbiamo solo bisogno di lavorare ..” ha detto durante una cena elettorale ai suoi invitati. Esponenti della ‘ndrangheta e pregiudicati, chiamati a sostenere la candidatura del figlio Ivano, suo erede nel ruolo di sindaco a Leinì, nel 2009 in corsa per una poltrona alla provincia. Coral ha detto di non sospettare nulla della loro identità né della presenza della ‘ndrangheta sul territorio di cui è stato sindaco. “Nel 2003 è morto un mafioso nel quartiere Tedeschi, poi non ne abbiamo avuti altri”, ha detto. Di quanto fossero importanti certe relazioni era invece ben consapevole, perché “la comunità calabrese è la nostra ricchezza” aveva ammesso alla cena. Un appuntamento rivelatosi imbarazzante, che Coral giustifica con queste parole: “Proporre la cena è il modo di fare dell’imprenditore, che non chiude mai la porta”. È il suo stile, dice. Secondo la magistratura Nevio Coral dopo quella cena ha pagato 24mila euro per la campagna elettorale a favore del figlio Ivano presso le “famiglie” calabresi. Ma le cifre dei suoi accordi, secondo le ricostruzioni, sembrerebbero essere state ben altre. Si parla di centinaia di migliaia di euro, che lui nega risolutamente. “Perché noi non siamo una famiglia che ha bisogno di comprare i voti”, dice, e lui sa fare bene il suo mestiere.

SPRECOPOLI. MORALITA’ A GO GO.

C'è chi ha fatto acquisti da Cartier e chi si è pagato la massaggiatrice, chi la seduta al solarium e chi ci ha comprato i libri di scuola per i figli, scrive il TGcom. E c'è anche chi, con i soldi pubblici del Consiglio regionale piemontese, si è procurato un giogo per i buoi. Così dalla Procura di Torino sono partiti 52 inviti a comparire, per chiarire come e perché per queste spese non esattamente "politiche" siano stati usati i fondi dei gruppi consiliari. L'elenco degli indagati comprende quasi tutti i consiglieri, 52 su 60: per qualcuno le spese contestate sono pochi spiccioli, per altri si cresce fino a raggiungere una somma complessiva di oltre un milione di euro. Non si salva nemmeno il Movimento 5 Stelle: ci sono buoni benzina, ristoranti e biglietti del treno (anche per raggiungere i luoghi delle manifestazioni No Tav, dicono gli inquirenti). Il capogruppo, Davide Bono, risponde di 619 euro per spese legate alla propria attività e 3.905 euro per i collaboratori. Il suo ex compagno di banco Fabrizio Biolè, ora nel Gruppo Misto, ne ha per settemila euro: "E' stato un errore contabile. Quando me ne sono accorto ho restituito la somma al gruppo", spiega lui. Nella lista compaiono i nomi dell'attuale presidente della giunta, il leghista Roberto Cota, indagato per peculato, e del suo predecessore di centrosinistra, Mercedes Bresso, ora consigliere, per la quale si ipotizza il finanziamento illecito ai partiti: due fatture per materiali che secondo la Procura è servito per la campagna elettorale. "No, erano per la pre-campagna - puntualizza la Bresso - e dopo le elezioni li abbiamo acquisiti per il gruppo e riutilizzati". "Mi sono già recato spontaneamente dai magistrati - sottolinea Cota dal canto suo - e ho chiarito la mia posizione. Non un euro è finito nel mio conto corrente". Spulciando ricevute e scontrini dei vari gruppi, però, i finanzieri hanno trovato spese quanto meno bizzarre: oltre al giogo da bue (comprato da un leghista), ci sono il catering per un battesimo, il cambio di un set di pneumatici, un frigorifero, calze di lusso, borse di Vuitton ed Hermes, panettoni, spumanti. Il "recordman" è un consigliere che da solo raggiunge quota centomila euro. Cifre certo lontane da quelle emerse in altre regioni italiane, ma comunque sufficienti per spingere Roberto Placido (Pd), vicepresidente del consiglio, uno dei pochi non raggiunti dall'avviso di garanzia, a invocare nuove elezioni subito: "E' una giornata triste, terribile e infausta per il Piemonte", dice. ma Aldo Reschigna, capogruppo del Pd, spiega come "a nessuno di noi è contestato l'uso di fondi a scopi personali: si tratta di spese per le missioni. A me sono addebitati 2.400 euro, più circa settemila per il gruppo di cui sono responsabile".

Vestiti acquistati da Olimpic, il negozio delle grandi griffe di Torino, scrive Elisa Sola su “Il Corriere della Sera”. Un «massaggio particolare» da tremila euro effettuato da una ragazza non italiana. Gioielli di Cartier. Abbonamenti al solarium, sedute ai centri benessere. Litri di champagne e vini pregiati. Moltissimi elettrodomestici, soprattutto frigoriferi e televisioni. E ancora mobili e un intero trasloco pagato. Libri scolastici e filetti del macellaio. Un ciondolino per un battesimo. Tutto pagato con i soldi della Regione Piemonte, per un ammontare di oltre un milione e trecentomila euro, dal 2010 al 2012 compreso. La guardia di finanza di Torino ha consegnato avvisi di garanzia a 52 consiglieri regionali, compreso il governatore Roberto Cota e il presidente Valerio Cattaneo, entrambi leghisti. Sono quasi tutti accusati di peculato. Avrebbero usato in modo irregolare - spesso per scopi personali – con i finanziamenti erogati dalla Regione per i rimborsi spese dell'attività politica dei gruppi consiliari. Ad alcuni viene contestato anche il finanziamento illecito e a un solo consigliere la truffa, per una fattura falsa. Sono i primi risultati dell'inchiesta ribattezzata «Sprecopoli». I primi quattro indagati erano stati iscritti sul registro in autunno. Ad oggi, sono solo otto i consiglieri che si salvano, ma tre non contano perché sono appena entrati in consiglio e la loro condotta non è stata esaminata. È bufera nella politica piemontese. Il capogruppo del Pd Aldo Reschigna ha annunciato le dimissioni in tarda mattinata. Giorgio Merlo, suo compagno di partito parlamentare, ha chiesto che venga sciolta la giunta e che si vada al voto. Cota si dichiara innocente e intende restare al suo posto: «Sono già stato interrogato e ho chiarito, non un euro è finito sul mio conto». «Ci sono differenze rilevanti tra le varie posizioni» sottolinea il procuratore capo Gian Carlo Caselli. Gli indagati si dividono in due gruppi: coloro che sono stati spudoratamente «disinvolti» nell'usare le risorse pubbliche e quelli dei casi dubbi. Il partito più nei guai è il Pdl. Sono tutti indagati, dal capogruppo Luca Pedrale al vicepresidente Angiolino Mastrullo, a Michele Formagnana. Tutti e tre sono nelle prime posizioni della classifica di chi ha speso di più. Il più spendaccione ha superato i 100mila euro. Si concentrano quasi tutte nel fascicolo dei pidiellini le spese che nella relazione della finanza stanno sotto le voci «abbigliamento», «gioiellerie», «cosmesi e solarium». A cui si aggiungono i vini, i pernottamenti in hotel e i ristoranti. Alla Lega Nord va la spesa più curiosa, un giogo da bue. Lo ha acquistato uno dei più anziani, Gianfranco Novero. A tutti i membri del Carroccio è contestata la spesa del regalo di nozze per l'assessoreregionale alla Cultura Michele Coppola del Pdl, che non è indagato: un cucchiaio d'argento da 395 euro. Cota aveva voluto fargli un regalo da solo. La procura sta verificando con quali soldi. Nel Pd e Sel invece, sono state fatte spese minori, spiegano gli inquirenti, quasi tutte per ristoranti o viaggi. Sarà compito del sostituto procuratore Enrica Gabetta, affiancata recentemente dal pm Giancarlo Avenati Bassi – entrambi coordinati dall'aggiunto Andrea Beconi scoprire, anche dopo gli interrogatori, se si è trattato di «grandi abbuffate» o di pasti relativi «all'attività istituzionale svolta». Anche i consiglieri di Idv e dell'Udc hanno consumato pietanze per migliaia di euro. E anche da loro sarebbero stati acquistati elettrodomestici. L'ex governatore del Piemonte Mercedes Bresso, sempre del Pd, non è accusata di peculato ma di finanziamento illecito. Avrebbe pagato un collaboratore della sua campagna elettorale del 2010 in ritardo, e la fattura sarebbe finita tra quelle del gruppo. La sua contabilità però, spiega un inquirente, è l'unica «scritta bene». Anche gli esponenti del Movimento 5 stelle non possono dichiararsi innocenti, secondo la procura. L'ipotesi è quella di aver fatto pagare alla Regione benzina e viaggi in treno per missioni non propriamente istituzionali, come le marce No Tav. «Ho già restituito circa 7mila euro al Movimento – spiega Fabrizio Biolè, passato al gruppo misto dopo l'espulsione da parte di Beppe Grillo lo scorso autunno – mi ero accorto di aver inserito per errore spese di viaggio e ho rimediato subito con un bonifico».

MAI DIRE INTERDIZIONE ED INABILITAZIONE: “MESSI A TACERE PERCHE’ RICERCAVAMO LA VERITA’….”

In questo campo, io Antonio Giangrande, mi sono imbattuto quando svolgevo l’attività forense. Professione che fatta da me in modo etico, ha portato gli operatori della giustizia ad adottare atti di ritorsione, che mi impediscono di proseguirla. La mia testimonianza sui casi di malagiustizia da me affrontati, o di cui sono venuto a conoscenza, hanno indotto i magistrati a far chiudere i miei siti web e di processarmi per diffamazione a mezzo stampa. Ad oggi, nonostante che a giudicarmi siano gli stessi magistrati criticati, nessuna sentenza di condanna ha sporcato la mi onorabilità. E quantunque fosse stato il contrario, sarebbe comunque salva la mia dignità. Il tutto ben illustrato nel dossier ingiustizia a parte. Perché il potere ti dice: subisci e taci. La Mafia ti distrugge la vita, lo Stato di uccide la speranza. In Avetrana, una mia cliente, alla morte del padre, quale unica erede, riceve centinaia di milioni di lire. Il fratellastro, che da tempo non aveva rapporti con loro, al fine di impossessarsi dell’eredità, promuove il procedimento d’interdizione per dichiarare incapace d’intendere e volere la stessa sorella. Contestualmente, presenta esposto penale, ritenendola vittima di circonvenzione d’incapace a seguito di condotta di un’altra parente. Il sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, non nuovo ad abusi giudiziari, in violazione degli artt.257 e 322 c.p.p., sequestra tutti i beni, compresi quelli di sostentamento, senza notifica del decreto per poter opporre richiesta di riesame. Inoltre attiva, d’ufficio, altro procedimento d’interdizione. Nei tre procedimenti, 1 penale e 2 civili d’interdizione, per anni si impedisce il diritto di difesa all'interdicenda, perché non gli viene nominato un difensore d’ufficio, né gli viene nominato il curatore-tutore provvisorio per la nomina del difensore di fiducia. Si abbandona l’interdicenda e la si sente dopo anni, anziché dopo giorni, in procedimento d’interdizione, in udienza pubblica, alla presenza di decine di spettatori divertiti. Il sottoscritto, suo difensore, pur con regolare abilitazione al patrocinio legale, operando nell’interesse dell’assistita nei molteplici mandati extragiudiziari, sol perché è Praticante Avvocato con patrocinio legale, viene indagato per esercizio abusivo della professione e per gli effetti anche di circonvenzione d’incapace, nonostante non fossi io il denunciato dal fratellastro, e lo viene a sapere dal fascicolo del P.M., segretato per le indagini in corso, ma alla mercé pubblica del procedimento d’interdizione. Tutti gli atti richiesti al sottoscritto sono stati consegnati senza sapere di essere indagato e senza la presenza del difensore. Non si indaga in suo favore, per accertare la regolare abilitazione con il patrocinio legale, né viene sentito su fatti e circostanze. Al sottoscritto gli viene impedito di nominare un difensore, in quanto gli si impedisce l’accesso al gratuito patrocinio, perché gli viene comunicato il limite di reddito di lire 11.260.000, anziché lire 18 milioni. Così come fanno altre Procure per altri accusati. Inoltre per 3 rituali richieste di accesso al gratuito patrocinio non viene dato riscontro, nemmeno per il diniego. Il PM, ricevendo la prima richiesta, invia al GIP parere negativo, che diniega, ma non comunica. Il PM, ricevendo la seconda richiesta, inviata al GIP tramite carabinieri, la fa sparire. Il giudice del Tribunale di Manduria, nell’udienza del 4 novembre 2003, rigettando la terza richiesta impone la nomina illegale preventiva dell’avvocato, nominandolo ella stessa, in violazione della legge, che stabilisce la scelta dell’avvocato, da parte dell’imputato, solo ad ammissione avvenuta al gratuito patrocinio. Il giudice viene sostituito per altri motivi ed il successore, nonostante le illegalità e gli abusi, rigetta l’istanza di annullamento e rinvio al GIP degli atti processuali. Insomma, dopo anni è stata impedita la difesa, per una condanna scontata. Al sottoscritto indagato non gli si impedisce di reiterare il presunto reato, perché continua a lavorare per la persona offesa dallo stesso reato, abbandonata da tutti, e continua a lavorare per altri. In violazione dell’art.50 c.p.p. non si indaga sui veri responsabili, oggetto di denuncia. Inoltre, in udienza di interdizione, il Giudice, alla richiesta del sottoscritto di attivarsi, affinché l’interdicenda potesse esercitare il suo diritto di difesa, lo sbatté fuori fisicamente a spintoni, sbattendogli dietro la porta, sfiorandoli la spalla. Questo nonostante fosse stato il Giangrande stesso a portare la donna in udienza, cosa che avrebbe dovuto fare, invece, il fratello o l'autorità giudiziaria. Ad istigare il Giudice era il legale del fratellastro, che nella stessa udienza, derideva il sottoscritto, sua controparte, per essere praticante, fino a farlo cacciare dall’aula, affermando, che i Praticanti possono solo esercitare presso i Giudici di Pace. In sede di udienza preliminare, il GUP, anziché effettuare reale udienza preliminare con contraddittorio delle parti, si limita a ratificare tout cour la richiesta di rinvio a giudizio, senza dare modo di interloquire. In tale sede, pur denunciando la nullità degli atti di indagine, le cause di non procedibilità, ovvero le cause di giustificazione, il GUP, non sente ragioni. L’avvocato nominato d’ufficio per il sottoscritto, non si presenta nemmeno. L’avvocato nominato in udienza in sua sostituzione, non se ne frega niente del suo assistito. Egli è silente e inattivo. L’interdicenda, addirittura, in udienza era assente e non rappresentata per la mancanza di nomina del difensore o del curatore-tutore giudiziale provvisorio. Con questo stato di cose si è impediti, inoltre, ad essere interrogati, a conoscere gli atti del P.M. e a costituirsi nei termini, decadendo dal diritto di chiamare testi e produrre prove a discarico. La stessa cosa è nel proseguo presso il Tribunale di Manduria, dove è disattesa l’ennesima istanza di accesso al Gratuito Patrocinio e dove è impedita la nomina dell’avvocato di fiducia. Lo stesso Presidente della Camera Penale, iscritto nell’elenco degli avvocati del gratuito patrocinio, rifiuta il mandato. L’interdicenda abbandonata da parenti ed Istituzioni, impedito l’aiuto del sottoscritto e ritenuta capace da tutti, improvvisamente, viene allontanata dalla sua casa e ricoverata coattivamente presso un ospedale, presumibilmente, psichiatrico. All’uscita essa entra in uno stato di depressione senza soluzione di continuità. Non si poteva non presentare alla procura di Potenza le denunce penali contro i magistrati. Invece la Procura di Taranto dichiara in udienza che non esistono denuncie presentate presso di loro, né presso altre Procure. Dichiarazioni mendaci confermate dalla Procura di Potenza. La Procura di Potenza si affretta ad archiviare la denuncia del 02/09/03. Lo stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, denunciato, per ritorsione alle battaglie di legalità, impedisce l’accesso al gratuito patrocinio al Giangrande per due procedimenti civili. Nel primo procedimento civile era controparte lo stesso Consiglio dell’Ordine, dichiarato contumace, e l’INPS; nel secondo procedimento civile era controparte l’INPS. La seconda causa è stata tenuta da un avvocato, che per 10 anni non ha svolto fedele patrocinio, chiedendo ed ottenendo, sistematicamente, il mero rinvio, rasentando la soccombenza e decadendo dal diritto di chiamare i terzi garanti in causa, i quali erano titolari della esattoria comunale e per questo delegati dall’INPS ad incassare le somme richieste per i contributi previdenziali. Esattori che, sembra, non hanno versato al delegante le somme percepite. In seguito alla doverosa e necessaria estromissione dell’avvocato, avendone le qualità, si è attuata la difesa personale da parte dell’istante, ex art.86 c.p.c., così come è stato fatto per l’altro procedimento, fino a che non è scaduto il patrocinio legale, con conseguente indigenza e mancanza di difesa. COMUNQUE IN DATA 14 LUGLIO 2009 SI E’ PRONUNCIATO IN APPELLO IL NON LUOGO A PROCEDERE PER ANTONIO GIANGRANDE E LA CONDANNA DI CIRCONVENZIONE D’INCAPACE ED ESERCIZIO ABUSIVO DELLA PROFESSIONE E’ DECADUTA.

Questo a Taranto, nel Sud dell’Italia. Ed al Nord?

Che fine ha fatto la professoressa Borgna? Questo si chiede Alessandro Barbaglia della “Tribuna Novarese”. Tutto comincia così con una domanda che la testata torinese “Cronaca Qui” nel gennaio 2009 fa risuonare dalle proprie colonne. Che fine ha fatto? Rapita? Confinata all’ospizio? Fatta interdire da avidi parenti con l’intenzione di spartirsene l’eredità? O forse semplicemente ricoverata in una struttura adatta ad accogliere le esigenze di un’anziana 83enne resa sorda dagli anni o dai ricordi di una vita difficile, molto difficile? Le ipotesi in quel gennaio freddo sulla stampa si fanno roventi. Anche fantasiose. Salta fuori pure una lettera (autentica) firmata dai vicini di casa della professoressa che racconta quanto sia stato anomalo quel ricovero forzato eseguito per far sparire la vecchia professoressa di latino e greco definita “donna lucida e sempre presente e sé stessa, eppure è stata caricata a forza su un’ambulanza, legata e portata via: era evidente che c’era qualcosa di poco chiaro”. Ma chi è la signora Borgna? E perché ricordare oggi questa vicenda torinese e passata? Perché quella domanda, quella che poneva ai lettori “Cronaca Qui”, ha aperto un vortice di strane vicende fatte anche di minacce ed intimidazioni che ha allargato le proprie spire fino a coinvolgere un’assistente sociale novarese che si è interessata del caso, ha proposto una chiave di lettura della vicenda drammaticamente differente da quella che i giudizi ed i tutori legali stavano seguendo ed è stata radiata dall’ordine professionale con gravi accuse: aver rivelato a terzi informazioni sul conto della propria cliente; aver contattato la persona interdetta senza autorizzazione; aver effettuato attività professionale senza aver ricevuto compenso ed incarico. Radiata perché ha fatto il suo lavoro. Inoltre questa storia vede imputata un’altra donna finita in questo ciclone: la badante della professoressa Borgna accusata di circonvenzione d’incapace. Ma cosa è successo? Che storia e cosa si nasconde dietro il mistero della scomparsa professoressa Borgna e della radiazione dell’assistente sociale novarese? Proviamo a ricapitolare la vicenda, proprio con lei, l’assistente sociale Luigia Padalino, specializzata tra l’altro, in psichiatria forense. «Inizia quasi tutto per caso – spiega – Una mattina di oltre un anno fa quando mi sono imbattuta nella lettura di alcuni articoli del giornale “Cronaca Qui”. Si raccontava della sparizione, o del ricovero forzato, di un’anziana professoressa, la signora Borgna e delle accuse rivolte alla badante della donna: circonvenzione d’incapace. In quegli articoli c’era qualcosa che non mi convinceva, le modalità con cui la donna era stata prelevata dalla sua abitazione sembrava una deportazione: polizia, finanzieri ed infermieri che l’hanno addirittura legata. Tutto ciò per una pacifica donna di 82 anni.» in realtà, secondo gli atti, la donna era stata interdetta un anno prima e affidata ad un tutore. «Già, anche questo era un elemento anomalo: il nuovo tutore legale era l’avvocato che accusava la badante di circonvenzione d’incapace: mentre sulle capacità mentali della donna ci sono lettere lucidissime inviate poco prima del sequestro ad un amico di vecchia data. Una persona interdetta non potrebbe scrivere lettere tanto precise». Insomma la questione la incuriosisce e cosa fa? «Mi occupo di malagiustizia e malasanità, anche in forma privata e gratuita: quando ho letto la storia della professoressa ho inviato una mail al procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli chiedendogli di non sottovalutare il caso, presentava anomalie, mi ricordava altre vicende simili e drammatiche in cui donne anziane, e molto ricche come la Borgna, erano state fatte internare dai parenti per potersi spartire l’eredità». E lei a Caselli fa presente questa ipotesi? «No, assolutamente no, chiedo solo di prestare attenzione al caso perché poteva presentare anomalie». La mail parte ad inizio gennaio, due giorni dopo l’assistente novarese viene convocata in procura. A Torino. «Mi sono stupita molto, nemmeno credevo l’avrebbero letta quella mail, e invece nel giro di pochi giorni mi convocano, mi interrogano e mi chiedono cosa sapessi di quella storia. Il bello è che io non sapevo nulla, richiamavo l’attenzione della Procura al caso. È a quel punto che ho la conferma che tutta quella situazione è anomala: perché la procura di Torino ha voluto sentirmi? Cosa supponeva potessi sapere? Perché è scattata sull’attenti appena ho nominato il caso della ricca professoressa fatta interdire e poi ricoverare con la forza? Qui inizi il gorgo del mistero. L’assistente sociale incontra la badante della professoressa Borgna, accusata di circonvenzione di incapace ai danni della Borgna, e la versione dei fatti che la donna fornirà sarà sconcertante. «La badante era accusata in sede penale sulla base di un’unica prova: nel suo appartamento era stato ritrovato un testamento a firma della Borgna a lei favorevole. L’avvocato dell’accusa, nonché tutore della Borgna, non ha dubbi: la badante è colpevole. Senza averla mai ascoltata, altrimenti avrebbe appreso dell’altro, di un complotto ordito da persone vicine alla Borgna nei confronti della professoressa: in una lettera scritta dalla Borgna ai carabinieri, la donna racconta di persone che le si aggiravano in casa e le sottraevano mobili, oggetti preziosi e documenti … E’ per quello che la Borgna aveva chiesto alla badante di conservare il testamento: per evitare che sparisse! La Borgna collezionava mobili antichi, oggi in casa sua non ce ne è più nemmeno uno. Dove sono finiti?» questa è una sua tesi? «Questo è quanto si evince dal racconto della badante e dalla lettura della lettera scritta dalla Borgna ai carabinieri di Torino e mai considerata quel che succede poi è un “giallo”. Con regolare assunzione d’incarico svolgo tre indagini sociali per conto della badante sollevando interrogativi inquietanti corredandole di documenti e testi che nessuno aveva considerato arrivando però alla sbrigativa conclusione che la badante fosse responsabile di qualcosa. Tre indagini sociali che finiscono negli atti processuali contro la badante, privati degli allegati dei documenti dei testi». E il processo ha preso in considerazione le sue indagini? «Il processo non è ancora iniziato (la prima udienza è fissata per oggi ) ma l’accusa invia le perizie, prive degli allegati fondamentali, all’ordine degli assistenti sociali che mi ha sospeso per un anno sostenendo che, per stenderle, avevo agito in maniera deontologicamente scorretta. Un bavaglio che ha messo a tacere me e tutti quelli che, anche con intimidazioni, come dimostrato dalle mie indagini sociali, tentavano di presentare la vicenda sotto altre vesti, cercavano di sollevare dubbi sulle monolitiche verità che erano state assunte: la colpevolezza della badante, il corretto internamento della Borgna, l’affidamento del suo patrimonio ad altri. Ho cercato di fare il mio lavoro, di cercare la verità, forse ho toccato tasti o interessi che non andavano nemmeno sfiorati…». Mentre il processo sulla colpevolezza della badante è ancora tutto da dibattere, l’assistente sociale, Luigia Padalino, scusate il giro di parole, paladina della giustizia: è radiata dall’Ordine. “NESSUN COMMENTO, MA LA SANZIONE POGGIA SU MOTIVAZIONI SERIE”. La storia di Luigia Padalino è complessa e scivola in temi per cui le colonne del giornale rischiano di essere strette. Dall’ordine degli assistenti sociali di Torino, organo da cui è partita al sospensione annuale nei confronti dell’operatrice novarese, sulla questione c’è un riserbo totale. «E’ impensabile- ci spiega Povero Graziella, segretaria dell’ordine- che si possano fare commenti ad una sospensione che è un atto ufficiale e notificato su cui incide il segreto professionale e la tutela della privacy». Quindi per capire cosa ha spinto l’ordine ad assumere il provvedimento disciplinare contro Padalino, che bisogna fare? «Chiederlo a lei e attenersi agli atti. È chiaro però che se l’ordine ha deciso per la sospensione, non ha agito in maniera sconsiderata: è in possesso di atti e ragioni che lo giustificano e lo motivano chiaramente. Tutti atti e ragioni di cui non si può sapere nulla. All’interessata tutto è stato spiegato e tutte le carte che la riguardano le sono state consegnate. Se la signora dovesse avere qualcosa da ridire è libera di impugnare il provvedimento davanti al consiglio nazionale, ma noi non siamo tenuti a dare ulteriori spiegazioni».

Già! Peccato che il potere non può tacitare una verità inconfessabile e censurata dai media.

Sane di mente o psichicamente disturbate? Lucide testimoni di gravissimi atti criminali o instabili mitomani da manicomio? Pezzi di giustizia asserviti a potenti poteri criminali o casuali coincidenze? A proporre il dubbio due storie. Protagoniste due donne. Di età, città, vissuti diversi, ma con un unico filo conduttore: due cause di "interdizione," che si inseriscono in vicende per nulla chiare. Secondo il codice civile si può richiedere l'interdizione quando una persona maggiorenne si trova in situazione di abituale infermità di mente. Si applica dunque in casi di incapacità legale a compiere atti giuridici. Piera Crosignani è la prima vittima di una delle due storie ai limiti di ordinaria follia. La vicenda è clamorosa, non fosse altro per i 150 miliardi di lire che fanno da sfondo o, più propriamente, da protagonisti. L'incubo di cui parla inizia il 9 giugno 1999, quando, con una sentenza del tribunale di Milano (pubblico Ministero Ada Rizzi, giudice tutelare Ines Marini – nomi da tenere presente, perché torneranno nella seconda storia), viene stabilita l'interdizione della Crosignani su richiesta dell'ex marito, un diplomatico di nazionalità austriaca. La Crosignani, da ricchissima che era, rimane senza nulla. Si trasferisce nella provincia lucchese dove amici l'accolgono e la sostengono. La paranoica Piera, maturità classica, quattro lingue parlate correntemente, studi alla Sorbona e a Cambridge, legge Sofocle e Ibsen quando incontra lo psichiatra Gian Luca Biagini all'Asl 2 di Lucca. E Biagini contesta da subito la perizia ammessa dal tribunale di Milano. E lo psichiatra di Lucca va oltre: spedisce un esposto al Ministero della Giustizia e al Consiglio Superiore della Magistratura oltre che segnalare all'Ordine dei medici di Milano il comportamento del perito del tribunale e la validità della perizia a suo dire inspiegabile. Silenzio e ancora silenzio. Si susseguiranno perizie su perizie, finchè la Crosignani, matta per legge da anni, viene riabilitata da una revoca della sentenza di interdizione accolta nel giugno 2005. Il giudice tutelare del tribunale di Lucca impedisce alla signora di ritornare in possesso delle sue proprietà. Sana sì, ma che non tocchi il suo patrimonio (per quello ci sono i tutori, sempre). Delle due l'una: se la Crosignani proprio non è matta, allora il suo delirio paranoico diagnosticato può anche essere, al contrario, una lucida consapevolezza di essere divenuta vittima di una organizzazione truffaldina. Ancora anni fa raccontava a Il Giornale del 17 settembre 2000 le parole di un magistrato milanese «su piani orditi per impossessarsi dei beni di anziani soli e abbienti, di notai manigoldi, di avvocati conniventi». A non avere dubbio alcuno sull'esistenza di un vero racket delle interdizioni e a denunciarlo pubblicamente e in ogni sede è Claudia Mariani, un'altra vittima di quel meccanismo perverso e criminale che ha rovinato l'esistenza di Piera Crosignani e di chissà quanti come loro. Laureata in filosofia con orientamento psicologico, lucidissima e agguerrita, pronta a ripercorrere ancora una volta quei dodici anni che iniziano con la denuncia di un traffico illecito, passano per processi, minacce di morte, divorzio, lutti familiari e, non una, ma ben quattro procedimenti di interdizione. Il caso fu oggetto anche di 2 interrogazioni parlamentari. Claudia non vuol rendersi indirettamente complice degli illeciti del marito e informa Autorità pubbliche e magistratura di quanto scoperto, continuando, su loro indicazione, a raccogliere informazioni utili. E le informazioni documentali Claudia le porta copiose alla competente Procura di Tortona; ma l'inchiesta non prosegue, rallenta, si insabbia, e si ferma. Di più: il procuratore capo Aldo Cuva, che da lì a pochi mesi verrà radiato dalla magistratura per essere accusato di aver manomesso i verbali d'interrogatorio nell'inchiesta sui drammatici fatti dei sassi dal cavalcavia di Tortona, «cercò – dirà la Mariani – di farmi passare per pazza e colpevole, impedendo in tutti i modi il proseguimento delle indagini». Emblematico a questo proposito un documento, di cui siamo in possesso, redatto a mano dal dottor Cuva su carta intestata della Procura indirizzato al comandante della Guardia di Finanza di Tortona con il quale si suggerisce di «farsi carico… di elementi di giudizio utili, eventualmente, sotto il profilo della calunnia». Sembrano ora trovare conferma, nei fatti, le tante minacce rivolte dal marito e rintracciabili nelle numerose denunce depositate dalla Mariani negli anni: «Non immagini neppure chi sta dietro a sto giro!!! Abbiamo amici magistrati, finanzieri, poliziotti che lavorano per noi. Ti distruggiamo fino a farti interdire e internare in un manicomio. E quando sei lì dentro ti distruggiamo fisicamente e cerebralmente». Trasferitasi a Milano si fa pressante la condizione della madre, l'allora ottantenne Cesarina Fumagalli già affetta da patologie psichiche che peggiorano di giorno in giorno. Si rivolge dunque alle strutture sanitarie per chiedere il Trattamento Sanitario Obbligatorio e al Tribunale di Milano l'interdizione della madre. E qui i fatti si susseguiranno con una sequenza travolgente che ha dell'incredibile: il Tso viene revocato e la Mariani si ritrova una imputazione per sequestro di persona da parte del PM Ada Rizzi (la ricordate? La stessa della storia Crosignani). Ma non basta: ora il caso Mariani si riannoda indissolubilmente con il caso Crosignani. Perché manca ancora il colpo di scena: non solo la domanda di interdizione per la madre è stata rigettata ma è ora la stessa Mariani che si dovrà difendere da una richiesta di interdizione. Ad avallare la causa c'è ancora lei, il PM Ada Rizzi. E a proporla, assistita dall'avvocato Calogero Lanzafame, la stessa Fumagalli. Nel 1997 la dottoressa Mariani, sollecitata anche dai giudici tutelari della madre, denuncia Lanzafame per circonvenzione e reati connessi e presenta un ricorso urgente per la limitazione della capacità di agire della madre. Ma denuncia e ricorso, assegnate come sempre alla Rizzi, vengono naturalmente respinte. Seguono negli anni: denunce e controdenunce; perizie e controperizie (saranno addirittura 12); istanze e controistanze; citazioni in giudizio, richieste di avocazioni, richieste di sequestri cautelari, archiviazioni in un via vai di fascicoli che appaiono e scompaiono interessando tutti i piani di Procura, Tribunale e Corte d'Appello di Milano. Siamo nel 2000 quando il sostituto procuratore Gherardo Colombo, consultata la memoria presentata dalla Mariani, inoltra con urgenza per competenza alla Procura di Brescia i procedimenti aperti. Mentre quella Claudia Mariani che chiede l'interdizione della madre malata, presenta alla procura di Brescia, su suggerimento del presidente di corte d'Appello Seriani e del sostituto Colombo, una denuncia per abuso d'ufficio contro il PM Rizzi. Di rimando, la Rizzi cita in giudizio la denunciante Mariani per richiederne l'interdizione, in quanto affetta principalmente da «querulomania». Il 4 aprile 2007 presso il Tribunale di Milano all'udienza in appello per il giudizio di interdizione intentato contro la dottoressa Claudia Mariani dal pm Ada Rizzi, la corte ha preso atto della perizia del tutto favorevole redatta dal Consulente tecnico d'ufficio dottor Vittorio Boni. Claudia Mariani è ufficialmente sana di mente. Come lo è la Crosignani. Questa inchiesta sulla Crosignani e sulla Mariani è stata pubblicata sul mensile Casablanca, che rischia di chiudere per "dimenticanze" dello Stato, e perchè forse l'antimafia è concepita solo se si parla di coppole e lupara.

PADANIA: PO' LENTONIA? BARBARIA? NO, LADRONIA!

“TERRONI FUORI DAI MARONI”

Sembra l’inno di vittoria di Roberto Maroni a discapito di Bossi e del suo entourage. Per il potere si passa sui corpi di figli ed amici: uguale come sempre; uguale come tutti. Italiani……Lo scorso Natale 2011, quando il cerchio magico picchiava duro contro Roberto Maroni accusandolo di volersi prendere la Lega, l'ex ministro dell'Interno chiese un incontro alla moglie di Umberto Bossi. Lei, la signora Manuela Marrone, è indicata come fulcro del clan di Gemonio nonché vera leader del Carroccio. Alla fine, il faccia a faccia non si fece. La Manuela snobbò la richiesta di Bobo. I rapporti tra i due sono gelidi da tempo. L'ultima volta che si videro fu nel 2010, a casa Bossi, quando Maroni si presentò per portare il regalo di Natale a Umberto. Poi, il nulla. Solo frasi riportate e tanto veleno, con la signora pronta a ripetere al marito: attento a Roberto, vuole prendere i soldi della Lega e farsi un altro movimento. Gli stessi concetti venivano ripetuti al leader da Rosi Mauro e dagli altri esponenti del cerchio magico. Anche per questo Bobo ha deciso di non forzare la mano diventando capogruppo alla Camera al posto di Marco Reguzzoni. Per dimostrare di essere disinteressato ai quattrini (a Montecitorio il gruppo padano può gestire alcuni milioni di euro) lasciò campo libero al trevigiano Gianpaolo Dozzo, "accontentandosi" della testa del rivale Reguzzoni. In più, nonostante il passo indietro di Umberto e del Trota, pare che la famiglia del fondatore non voglia mollare. Tanto che all'inizio ha giustificato a Bossi senior lo scandalo dei rimborsi elettorali come una vendetta di Bobo, forte degli agganci con la magistratura e i servizi segreti che ha coltivato da responsabile del Viminale. E la base lo sa. La polemica è nata dalla contestazione di alcuni militanti in via Bellerio. "Traditore, traditore". Così i militanti hanno urlato a un'auto con i vetri oscurati che usciva dalla sede della Lega. I manifestanti pensavano che a bordo di quella macchina ci fosse Roberto Maroni. L'ex ministro dell'Interno, in lizza per la leadership del Carroccio e da tempo rincorso dalle voci sulla sua presunta volontà di voler scalzare Bossi, non si trovava però a bordo di quell'automobile. Il volantino - I militanti della Lega Nord, presenti fin dalla mattina di giovedì 5 aprile 2012 davanti a Via Bellerio per manifestare il loro sostegno a Umberto Bossi, hanno anche poi distribuito dei volantini sui quali era riportato un brano del Vangelo di Matteo e sul quale vi erano le foto del Senatùr e di Maroni, accostate a quelle di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Ossia una doppia versione del Gesù (Bossi e Berlusconi) e del Giuda (Maroni e Fini). Chiarissimo il testo che accompagna l'immagine: "Il traditore aveva dato loro un segno dicendo: 'quello che bacerò è lui, arrestatelo'. Subito si avvicinò a Gesù e disse: 'Salve rabbi'. E lo baciò".

Invece l’epilogo: vergogna padana, anziché orgoglio padano. Ma è proprio per la ricorrenza dell’orgoglio padano a Bergamo del 10 aprile 2012, armati di scope e ramazze, le camicie verdi chiedono di fare pulizia. "Sono giorni di passione, di dolore. Ma anche di rabbia e di onta perché trattati da partito di corrotti". Con queste parole Roberto Maroni sintetizza il clima che si respira nella Lega, sottolineando "l'orrore per le accuse di collusione con la 'ndrangheta e con la mafia". Il ritornello è uno solo: "Bisogna fare pulizia, chi sbaglia paga e chi ha preso i soldi li dovrà restituire". E così l'ex ministro, chiedendo di anticipare il congresso federale a giugno, snocciola uno ad uno i passi indietro, prima quello di Umberto Bossi e poi quello di Renzo Bossi. E tra la folla che fischia i nomi del figlio del Senatùr, quello di Francesco Belsito e quello di Rosi Mauro, Maroni annuncia: "Giovedì l'ex tesoriere sarà espulso e ci penserà la Lega a dimettere il presidente del sindacato padano che finalmente sarà guidato da un padano vero". Ed ecco dove si voleva arrivare: fuori i terroni dalla lega. Ed ai terroni ben gli sta di rinnegare le loro origini e di calpestare la dignità ed onore loro e della loro terra. Non solo loro rubano e la colpa la danno a “Roma Ladrona”. Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ospite di Ballarò su RAI 3 sbotta: ma questi padani alla fonte del Po cosa bevono: acqua o grappa?? Esce il vero volto dei “duri e puri” polentoni: come se fosse cosa di cui vantarsi. Maroni gioca in casa a Bergamo, con la platea piena dei suoi sostenitori. Gli altri: epurati. "Da oggi si cambia", dice Maroni elencando le sue regole per una nuova Lega Nord: "Uno: i soldi alle sezioni e ai suoi militanti. Seconda regola: meritocrazia. Terza regola: largo ai giovani. Quarto: fuori chi viola il codice padano". Ma soprattutto - il più amato dei triumviri lo ricorda spesso - "la Lega non è morta e riparte da qui. Basta con la caccia alle streghe, con i complotti, con le scomuniche, con le fatwe e con i cerchi, ora è importante l'unità del movimento". E il Senatùr rincara la dose: "Vogliono dividerci per colpirci. Bisogna smettere di dividersi: crea varchi per il nemico, che è il centralismo romano". Bossi arriva a chiedere persino un giuramento "su chi deve dirigere la Lega, perchè non ci siano più discussioni nè divisioni". Poi aggiunge: "Il cerchio magico non esiste. Ora dobbiamo essere tutti uniti: noi non scompariremo, basta fare il gioco degli altri". Per quanto riguarda l'inchiesta, il leader della Lega è convinto che "le cose sono organizzate: è una specie di complotto. Quello che è avvenuto è il tentativo di distruggere la Lega. Non possono farla sparire per decreto e fanno il ragionamento: se togliamo i soldi del finanziamento...". E, dopo aver ricordato come Belsito è arrivato al Carroccio, Bossi commosso si è scusato con il popolo padano: "A me spiace non solo per la Lega ma anche per i miei figli. Chiedo scusa perché i danni sono stati fatti da chi porta il mio cognome". Si passa sui corpi di figli ed amici. Bah!

E insomma pare che Maroni si sia preso la rivincita di quando nel 1994, a un passo dall’espulsione, fu costretto ad un umiliante autodafe’, tanto da far dire alla Pivetti, allora ancora in auge, che sembrava un “rieducato di Pol Pot”. L’esibizione del feticcio Bossi sul palco di Bergamo costringendolo a umilianti pubbliche scuse è però al tempo stesso un segnale di forza e di debolezza. Il segnale di forza consiste appunto nell’esibizione del feticcio, a mo’ di burattino. Il segnale di debolezza risiede nel fatto che Maroni, per aspirare al comando, deve esibire il feticcio, per ottenerne, anzi estorcerne, l’investitura di fronte ai militanti. Insomma Maroni ammette implicitamente che non ha la forza, o la voglia, prendere il partito manu militari dimostrando, alla fin fine, di non aver capito la genesi dei problemi della Lega che risiedono, tra le altre cose, nel personalismo del partito, la cui transizione passa per investitura dall’altro, come in una monarchia, e non in una elezione dal basso. Il “cerchio magico” quale espressione della corte del principe ne è la conseguenza diretta, e il sostituire il despota rincoglionito con un sovrano sognante, non cambia i termini della questione, perché il sovrano necessita comunque di una corte e al “cerchio magico“ ben presto si sostituirà una “confraternita maronita“. Inoltre la questione è anche pericolosa per lo stesso Maroni. Basta guardare il povero Alfano, che dopo essere stato nominato, ha scoperto che gli manca quel quid per diventare effettivamente il leader del partito, nonostante gli innumerevoli guai del suo predecessore. Purtroppo per Maroni questa concezione è insita nella Lega fin dalle sue origini. Il “padroni a casa nostra” sottintende che il problema non e’ l’organizzazione della casa, ma il suo padrone, nella visione leghista. E così anche il loro tanto gabellato federalismo non è altro che una somma di centralismi regionali, che non intaccano i problemi della cosa pubblica della sua organizzazione, gestione ed efficienza, e infatti appena si sono assisi sulle cadreghe locali hanno cominciato a comportarsi come tutti gli altri.

Umberto Bossi e Roberto Maroni sono saliti insieme sul palco a Bergamo per la serata dell'orgoglio leghista e sono stati accolti dal coro "Lega" scandito dalla base. Insieme a loro, anche Roberto Calderoli e Manuela Dal Lago, oltre al segretario provinciale di Bergamo, Cristian Invernizzi e il presidente della Provincia, Ettore Pirovano. I giovani padani si sono presentati con simboliche scope di colore verde, simbolo della pulizia che vogliono fare dentro al partito. "Sono giorni di passione - ha detto Maroni - di dolore ma anche di rabbia per l'onta che abbia subito per essere considerati un partito di corrotti, per Umberto Bossi che non si merita quello che è successo. Ho provato anche orrore per le accuse di collusione con la 'ndrangheta e la mafia. Da stasera noi ripartiamo con le nostre straordinarie battaglie. La Lega non è morta e non morirà mai. La Lega è potentissima, non ci sono cerchi che tengano". Il partito, ha aggiunto, dimetterà Rosy Mauro e venerdì espellerà Francesco Belsito. «Mi spiace che Rosi Mauro non abbia accolto la richiesta del nostro presidente, ma se non si è dimessa ci penserà la Lega a dimetterla - ha annunciato l'ex ministro dell'Interno - Così finalmente - precisa - forse potremo avere un vero sindacato padano, guidato da un padano vero». Maroni ha parlato poi del leader storico: "Umberto Bossi non si merita quello che è successo. Conosco Umberto da 40 anni e non c'entra niente". "Dobbiamo anticipare entro giugno il congresso federale per dare una guida salda alla Lega", ha proseguito. Poi è intervenuto Umberto Bossi che ha detto: "Siamo capaci di ripartire e siamo stati vittima di un complotto", ha detto l'ex segretario. "Penso che quando ci presenteremo davanti al Padreterno - ha insistito - ci chiederà quanto volte siamo stati capaci di ripartire. Questo vuol dire Pasqua: ripartenza. Siamo vittime di una specie di complotto, come è possibile che nessuno si è accorto che l'amministratore, come dicono ora alcuni, era vicino a famiglie mafiose". "'Non e' vero che Maroni sia un traditore, bisogna che si smetta di divedere la Lega: questo crea varchi per il nemico che è il centralismo romano. La cosa principale che dobbiamo decidere questa sera è un giuramento su chi deve dirigere la Lega, perché non ci siano più discussioni né divisioni", ha detto ancora. Ma un'ammissione importante il leader leghista l'ha fatta, scusandosi per il figlio Renzo: "Chiedo scusa perché danni sono stati fatti da chi porta il mio nome".

Intanto, dopo voci di imminenti dimissioni di Rosi Mauro da vicepresidente del Senato, è stata la stessa esponente leghista a smentire nella serata del 10 aprile 2012 a “Porta a Porta” di Bruno Vespa questa possibilità. «Perché dovrei? - ha detto nel corso della registrazione di 'Porta a Porta' - Innanzitutto voglio spiegare come stanno le cose e dire la verità, e poi vedremo -ha aggiunto - In questi giorni - ha proseguito - mi sono accorta del potere che ha l'informazione e ho il diritto di difendermi. Lo farò parlando in Aula in Senato. Non ho nulla da nascondere e ho tutte le prove per rispondere alle accuse». Rispondendo poi a una delle principali contestazioni ha sostenuto: «La Lega Nord non ha mai dato un euro a Rosy Mauro, ha fatto donazioni solo a Rosy Mauro in qualità di segretaria del Sindacato Padano. La direzione del partito era informata». Quanto all'accusa di essersi comprata una laurea in Svizzera con i soldi della Lega, la senatrice ha spiegato: «Non mi ha mai sfiorato l'idea». Mauro ha poi smentito che Pierangelo Moscagiuro sia il suo compagno. «Questa - ha risposto - è un'altra nefandezza, qui mi hanno colpito anche nella vita privata. E' assurdo ed è inconcepibile». Allo stesso modo ha negato di essere identificabile con "la Nera" delle intercettazioni telefoniche. «Altro non è che l'infermiera svizzera che segue Umberto Bossi da quando è stato male" e i "29 mila euro di cui si parla saranno i mesi che dovevano pagarle». Cosi Mauro smentisce tutto: la relazione con Pier Mosca, la laurea comprata in Svizzera, il nomignolo che le hanno dato. "Pierangelo Moscagiuro è il mio caposcorta, non è il mio compagno. Questa è un’altra nefandezza. Tutti questo è assurdo e inconcepibile. Questo lo vedremo in altre sedi". Così la vicepresidente del Senato, a Porta a Porta. "Questa vicenda ha fatto male a molte persone. Uno stillicidio e mi ha fatto male", ha aggiunto l'esponente leghista. Rosi Mauro ha ribadito che Moscagiuro "è il mio caposcorta, non è in aspettativa e non è stato assunto dal Senato". L'Italia ha scoperto dell'esistenza di Pier Moscagiuro, l'ex poliziotto diventato cantante (dal singolo Kooly Noody con Enzo Iachetti fino alle esibizioni sul palco in stile Elvis Presley) e soprattutto finito a libro paga della vicepresidenza del Senato. E Franco Bechis, in un articolo su Libero, ricordava anche i pettegolezzi che hanno coinvolto i due amanti: "E' sulla bocca di tutti il racconto di un giorno in cui i due, chissà come, fecero scattare l'impianto anti-incendio dalla stanza della vicepresidenza mettendo a soqquadro l'intero Senato". La hit di Pier Mosca è diventata un tormentone. Kooly Noody è cantata in duetto con Enzo Iachetti e fa parte dell'album "Tra dire e tradire". Il testo vorrebbe essere una sorta di denuncia sociale. Ma Pier Mosca risulta soprattutto uno dei beneficiari dei compensi girati del tesoriere Belsito. Nell'interrogatorio di Nadia Dagrada, segretaria amministrativa della Lega, viene fuori che al poliziotto sarebbero arrivati circo 60 mila euro per pagarsi diploma e laurea in Svizzera. Sempre la Dagrada lo definisce "amante" della Mauro. Poi la Mauro risponde sulla laurea farlocca: «Io ero asina a scuola. Mai sfiorata dall’idea di prendermi la laurea in Svizzera. Mai avuto contatti con la Svizzera». E anche sui presunti pagamenti a suo favore: «Mai avuto spese mediche pagate. Assolutamente no, è ridicolo». L'esponente leghista, poi, spiega che il nomignolo "La Nera" sarebbe un enorme malinteso: "Non sono io, sarà facile verificare che si tratta dell’infermiera svizzera che ha in cura Bossi da quando è stato male. Infermiera che si chiama Nera. E credo che quei 29mila euro siano la somma che dovevano da mesi a quell'infermiera". Insomma un nome proprio scambiato per un soprannome. "Da giovedì scorso ad oggi mi sono sentita messa in croce. Io non ho fatto niente, non ho niente da nascondere", ha concluso la Mauro.

Ed hanno ancora il coraggio e la faccia tosta di parlare, anziché coprirsi il viso dalla vergogna.

Alla manifestazione della Lega a Pontida erano presenti moltissimi cosiddetti padani, come se la Padania fosse uno stato e Ponte di Legno la capitale. Ciò nonostante la propaganda leghista si diverte a celebrare rituali e ad invocare la secessione. Lungi da noi l’idea di crederci, rimane comunque il fatto che tale invocazione, è musica per il popolo padano. Ma è veramente padano questo popolo o è invece per lo più, il popolo dei figli dei meridionali cresciuti in Padania?

Paradossalmente, non sono pochi i leghisti di origine meridionale (come lasciano intuire i loro cognomi) che, dopo aver vissuto il razzismo sulla loro pelle, a loro volta discriminano i nuovi arrivati.

Aljarida (in arabo “il giornale”) è un interessante periodico mensile free press, realizzato a Milano e giunto al suo secondo anno di pubblicazione. Interessante per varie ragioni: ricco di notizie sul territorio e le dinamiche dell’immigrazione (ma sempre senza retoriche ideologiche), informato sul dialogo culturale che intercorre fra le due sponde del Mediterraneo, e opportunamente scritto in due lingue: italiano e arabo. Ma la ragione per cui vi parlo di Al Jarida è anche un’altra: un articolo intitolato “Tutto il mondo è Paese”. Nell’articolo, che si può leggere sul numero di giugno 2010 della rivista, si spiega l’origine – araba in certi casi , “meridionale” in altri – dei cognomi di alcuni deputati leghisti. In sostanza, spiega l’articolo, quando nel 1492 i Mori vennero cacciati dalla Spagna (Al Andalus, l’Andalusia) alcuni fuggirono nella Repubblica di Venezia e in particolare in una città che faceva parte del suo territorio, Brescia. Così, i cognomi di molti bresciani hanno origini arabe. Per esempio quello dell’on. Gibelli, deputato della Lega Nord e Vice Governatore della Regione Lombardia non ha origini celtiche bensì arabe: molti Mori fuggiti dalla Spagna si rifugiarono infatti sulle montagne del bresciano e Gibelli deriva dalla parola araba giabali che significa appunto “montanaro”. L’articolo su Aljarida contiene anche altre stimolanti informazioni, fra cui una riguardante il nuovo Presidente della Regione Piemonte, il leghista Roberto Cota: il suo cognome sembra derivare dall’arcaico albanese kota,  termine diventato un cognome molto diffuso nel meridione d’Italia e sopratutto in Puglia e che – particolare curioso – in albanese significava “inutile, cosa da poco”. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Per noi è veritiera quest’ultima tesi, e molti dirigenti leghisti ne sono una prova. Il governatore del Piemonte Cota ne è una dimostrazione vivente, lui figlio di un avvocato di San Severo di Puglia, così come l’europarlamentare Speroni, pugliese anche lui e che dire della signora Bossi cofondatrice della Lega ma siciliana doc. Per non parlare poi dei diversi amministratori leghisti nei comuni, nelle province e nelle regioni, che sono nati o hanno genitori meridionali.

Diteci voi quindi se questo non è altro che razzismo dei razziati, che vi ha indotto a diventare meridionali leghisti, per una storia sottaciuta ai più e falsata nei giudizi della gente comune. Dalla rabbia verso un sud che non vi ha garantito benessere e occupazione, ai pregiudizi della gente del Nord, verso questo meridione inetto, assistenzialista, lamentoso e scarsamente produttivo. Dallo sfruttamento delle vostre braccia da parte degli industrialotti del nord, alle scritte sui ponti padani inneggianti all’eruzione dell’Etna. Capiamo che per sopravvivere a tale barbarie, non vi restava altro che emulare lo stile padano, al fine di non rimanere vittime di voi stessi, per il resto dei vostri giorni. E da qui, che le generazioni figli dei meridionali, hanno assunto verso il loro sud uno spirito ostile, credendo fino in fondo ai pregiudizi e a quel disprezzo leghista verso il povero meridione. Siete diventati i più spietati nemici del sud, ignorando però le ragioni storiche, sociali, culturali ed economiche che hanno reso il sud perdente verso il nord. Cari figli nostri del sud se solo conosceste la vera storia meridionale, il leghismo diventerebbe una barzelletta da raccontare in una serata goliardica con gli amici. Ma non preoccupatevi, se non l’hanno fatto i libri di storia, lo faremo noi il vero racconto del sud e dell’unità d’Italia armata. Vi racconteremo a puntate dai mille in poi. Per adesso cari Cota e c. cercate di liberarvi del razzismo dei razziati…..al resto ci pensiamo noi.

Tratto dal libro di Pino Aprile, Terroni, che vi invito a leggere: “Una mia cugina, dopo sei mesi al Nord, tornò per le ferie estive. Era cambiata: vestiva in modo più appariscente, esibiva un accento non suo, roteava stizzosamente le spalle, il mento puntuto e alto. Parlava malissimo dei meridionali, con astio rovente e ridicolo. «Ma cosa fanno di così terribile?» le chiese mia madre, incuriosita. Lei tacque per lo stupore, si guardò intorno, come a cercare una risposta. Era sorpresa, o ci parve, dalla stupidità della domanda: c’era bisogno di una ragione per parlar male dei meridionali? Così, poverina, se ne uscì con una frase, lei settentrionale da sei mesi, che la bollò per sempre, in famiglia: «Sporcano i monumenti». Cosa le fosse accaduto, lo capii molto più tardi. Quella mia cugina è leghista.”

E voi? quante “cugine leghiste” avete conosciuto? Io purtroppo un bel po', rinnegati/e che dopo una settimana che sono al nord parlano con accenti ridicoli ed usano i loro intercalari. Ebbene, mi chiedo se hanno il coraggio di dire ai loro genitori che si vergognano delle loro origini e della loro famiglia. E' vero, sarà perchè una volta non si "affittava casa ai terroni" e oggi "non si affitta casa agli stranieri", ma questa Lega, ha uno strano rapporto con quelli che chiamano con orgoglio 'terroni'. Prima li insulta in campagna elettorale, ma poi li sposa (vedi a casa Bossi), gli mette i soldi del partito in mano (vedi Belsito, nato a Genova, ma calabrese di origine) e ci fa affari e magari cerca anche qualche voto o accetta di 'mettersi a disposizione' (vedi mister 19mila voti Angelo Ciocca, eletto in regione Lombardia, non indagato dall'antimafia ma pizzicato in compagnia a Pavia di tale Pino Neri, oggi a processo a Milano per associazione a delinquere di stampo mafioso). Vedi magari anche quel "gamma" di Lecco, primo leghista eletto in un consiglio comunale nei primi anni '90 che, secondo le parole di un collaboratore di giustizia, spesso si incontrava col boss Franco Coco Trovato. Lo chiamiamo "gamma" perchè su di lui c'è aperta una indagine dell'antimafia di Roma, anche se l'ex ministro della Giustizia Roberto Castelli ha candidamente ammesso di rispecchiarsi in quel personaggio tratteggiato nel libro "Metastasi" di Gianluigi Nuzzi. Sui terroni ci faranno le campagne elettorali insultandoli, ma poi li frequentano. E qualcuno frequenta pure quelli sbagliati... Ma secondo loro è un complotto dei poteri forti perchè si sono messi all'opposizione, e non una indagine partita dalle denunce di un militante indispettito dall'uso fatto dei soldi arrivati al partito dopo i rimborsi. Saperlo... che uno degli indagati della vicenda Belsito, avrebbe tra l'altro, stando alle indagini, favorito il clan calabrese della 'ndrangheta dei De Stefano...Fortuna che ci sono meridionali onesti, ma quelli evidentemente sono quelli di cui la Lega Nord non tiene conto.

Rosy Mauro, la leghista terrona che rinnega le origini meridionali. Rosy Mauro nata il 21 luglio 1962 a San Pietro Vernotico, in provincia di Brindisi, cresciuta nella provincia di Lecce a Squinzano e diplomata in ragioneria, nel 1980 si è trasferita a Milano per lavoro; ha iniziato l'attività sindacale in azienda nelle file della UIL a 21 anni. Nel 1990 è stata eletta segretario organizzativo del Sindacato Autonomista Lombardo. L'11 novembre 1999 è nominata Segretario Generale del Sindacato Padano. La prima uscita, nel ' 90: "Vedete? Sono pugliese e leghista. Il Carroccio non ce l' ha con i meridionali". L' ultima uscita: "Mi iscrivo alla Guardia nazionale di Erminio Boso. Il Nord se ne va: diventa indipendente". Rosy Mauro fa la sindacalista ma soprattutto la leghista. La chiamano "la pasionaria del Carroccio": perchè corre, scrive, parla, si agita, si indigna, si arrabbia. Sempre in nome di Bossi. "Rosy è un vulcano", dicono gli amici. "Rosy è un vulcano", confermano i nemici. Per svegliare dal letargo la Lega milanese, Bossi l'ha appena nominata segretario cittadino. E così lei si ritrova con il triplo incarico: leader locale del movimento, consigliere comunale, attivista del Sal (il sindacato filo Lega). Schizza da una sede all'altra. Con un pensiero fisso: "Rilanciamo il "porta a porta" come facevamo una volta". Ma ora è proprio lei, la pasionaria, che fa tremare il Carroccio.

Per una strana storia di amicizie e di rifiuti. Rosy Mauro viene da Squinzano, nel Leccese: il padre lavorava in campagna e la madre alla Manifattura tabacchi. Arriva a Milano, entra in un'azienda metalmeccanica, si iscrive alla Uil. Ma il vero amore arriva nel' 90: si chiama Bossi. Prima si avvicina "in modo carbonaro", poi fa il grande passo: "Lasciai la Uil, delusa da Benvenuto, e abbracciai la Lega. Il primo obiettivo? Fare un sindacato regionale. Autonomista. Senza ordini da Roma". Guida le varie campagne leghiste, è dappertutto. Eccola, anni fa, ripresa dalle telecamere mentre fischia e urla contro il sindaco di Bologna Walter Vitali al congresso della Lega. Un putiferio. Tanto che lo stesso Bossi perde la pazienza: "Stavolta abbiamo esagerato". Nel febbraio del' 94 si fanno le liste per la Camera: Rosy Mauro, a sorpresa, non c' e' . Deve accontentarsi del consiglio comunale. E sempre con Bossi. Anche al processo Cusani. Anche in vacanza: la foto in piscina con il senatur, a Ponte di Legno, fa il giro dei settimanali. Si incatena davanti a Montecitorio per tre giorni e tre notti "per ricordare che il referendum sulle trattenute sindacali è stato calpestato". Passano quindici giorni e ricompare a Pontida: si iscrive alla Combat guardia nazionale. Diventa "legionaria" del senatur: "Saremo pronti a difendere la libertà del Nord. Ma anche a proteggere Bossi, perchè è il bersaglio numero uno: meglio vigilare prima che piangere dopo". l ritratto che i maligni fanno del Senatur Umberto Bossi, in questi mesi di crisi leghista culminati nell'indagine sui fondi "distratti" dal tesoriere Belsito dai rimborsi elettorali del partito, è quello di un uomo "stritolato" tra due donne di ferro: la moglie Manuela Marrone e quella che, sempre i "maligni", chiamano la "badante" del leader leghista. Due padane (la firma della Marrone compare sull'atto fondativo della Lega nel 1984, mentre la Mauro vanta un lunga militanza politica culminata nella vicepresidenza del Senato), ma anche due donne del sud: la Marrone per il padre siciliano e la Mauro per essere brindisina, di San Pietro Vernotico. Strano destino, quello del leader padano circondato da donne meridionali.

La moglie - Descritta come schiva ma decisa, raramente ha rilasciato interviste o fatto dichiarazioni. A qualche congresso è salita sul palco, ma sono stati episodi sporadici. Il suo impegno è tutto per la scuola Bosina di Varese, che, spiega il sito dell’istituto, lei «maestra di scuola elementare di lunga esperienza» ha fondato nel 1998. Sulla scuola nel 2010 ci sono state alcune polemiche per un finanziamento di 800 mila euro dal Governo. Di lei s'è parlato anche quando Gianfranco Fini, in rottura con Berlusconi e i suoi alleati, la definì una "baby-pensionata", in quanto destinataria di un assegno dal 1992. Sarebbe lei a indossare i pantaloni in casa Bossi, sopratutto da quando il Senatur è stato colpito dall'ictus dell'11 marzo 2004. E, secondo i ben informati, ci sarebbe lei dietro la nascita del cosiddetto "cerchio magico", ossia quel gruppo di fedelissimi che da qualche anno circonda Umberto Bossi e della quale Rosy Mauro è primo esponente. Come sarebbe stata lei a premere per l'avvio della carriera politica del primogenito Renzo Bossi, "Il Trota", approdato nel 2010 al Consiglio regionale della Lombardia.

La "badante" - Nel 1980 si trasferisce a Milano per lavoro e inizia l'attività sindacale nelle file della UIL. Dieci anni dopo viene eletta segretario organizzativo del Sindacato Autonomista Lombardo. L'11 novembre 1999 è nominata Segretario Generale del Sindacato Padano. Consigliere comunale a Milano, dove è eletta nel 1993 col sindaco lumbard Marco Formentini, nell'aprile 2005 entra nel Consiglio regionale della Lombardia attraverso il listino (cioè senza prendere voti di preferenza) del Presidente Roberto Formigoni. Nel 2008 il grande salto a Roma, dove è eletta al Senato nella circoscrizione Lombardia e viene addirittura nominata vicepresidente dell'aula di Palazzo Madama. Epico l'episodio del dicembre 2010 quando, irritata per le richieste dell'opposizione utilizzare il voto elettronico per ogni emendamento al ddl gelmini, ha disposto votazioni a raffica, suscitando le proteste dei senatori del centrodestra e perdendo il controllo dell'aula. Dopo il via libera a quattro emendamenti del centrosinistra, la seduta veniva sospesa e le votazioni riprendevano più tardi con presidente Renato Schifani a tenere le redini dell'aula di Palazzo Madama. Negli ultimi anni è stata una presenza costante in tutte, o quasi, le foto del Senatur.

Leghisti terroni. In Svizzera vincono gli slogan anti italiani. Forse questo signore non lo conoscete ancora. Ve lo presento. Si chiama Giuliano Bignasca. A dispetto del nome italianissimo, italiano non è. E' svizzero. E non è uno scherzo. Anzi. Contro gl'italiani ce l'ha assai. E su slogan fortissimamente anti-italiani ha fondato la sua campagna elettorale nel Canton Ticino. E già. Perché il Giuliano è il dux della Lega Ticinese. Che, udite udite, ha appena ottenuto un trionfo alle elezioni cantonali. Il successo è fondato su slogan e parole d'ordine che noi italiani conosciamo bene. Perché son gli stessi sui quali i primitivi lumbard hanno fondato la loro politica razzista, egoista e localista. Anti-italiana. Insomma. A farla breve. Il Giuliano sta alla Svizzera come l'Umbèrt sta all'Italia. Così si comprendono perfettamente valori e spessori della creatura in questione. C'è però una cosa che, nello squallore generale, mi fa davvero morir dal ridere. Che quando gli sfascioleghisti longobardi se la prendono coi terùn se la prendono, ovviamente, con noialtri. Ma quando il Giuliano se la prende coi suoi, di terùn, se la prende coi longobardi nostrani. In una parola. Coi leghisti. Buffo, eh? Molto, ma molto prima di quanto si potesse immaginare, la storia sta dimostrando definitivamente che il mondo è una gran palla. Nel senso che è rotondo. E così non è poi tanto facile individuare esattamente se noi stiamo a nord. A sud. O magari al centro. Perché la verità è che stiamo tutti a nord di qualche sud. E, naturalmente, stiamo tutti a sud di qualche nord. Da questa verità elementare dovrebbe discenderne un'altra, che purtroppo tanto elementare probabilmente non dev'essere, se così tante creature, in ogni parte del mondo, non riescono a comprenderla. Ossia che, in realtà, in quella gran clessidra che è il tempo umano siamo tutti, ma proprio tutti, piccolissimi granelli di sabbia che si ritrovano mischiati. Sballottolati diqquà e dillà. Disù e digiù. Che importanza può avere il vicino che il destino mi mette accanto, a condividere un pezzo di strada? Anzi. Siamo talmente tanto mischiati ed appiccicati. Le cose del mondo son così tanto interconnesse tra di loro. Che solo chi non ha capito proprio niente può essere convinto che sia possibile distinguere, con una linea. Una frontiera. Magari un dialetto. Il destino di coloro che, nella storia, camminano gomito a gomito. Davvero può essere ragionevole pensare che il destino del granello di sabbia che mi sta accanto non c'entra nulla con me. Davvero può essere ragionevole pensare che la sua sofferenza, come la sua felicità, siano qualcosa di staccato. Di avulso. Di indipendente? Ecco. Il Giuliano è l'esempio vivente di quanto il mondo sia rotondo. E di quanto giri, giri, giri senza posa. Da oggi, se vorrete, all'ennesimo imbecille insulto che faranno alla nostra meridionalità potrete rispondere con un altrettanto «terùn sarai tu». Tanto potete stare tranquilli. Un altro nord si trova sempre. Per tutti.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche.Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio. Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. 

Conformità per conformità, l'omologazione appare su "Il Giornale". Allora, Salvini, le è piaciuto Benvenuti al sud? «Francamente mi aspettavo di più. Soprattutto di ridere e sorridere di più. Invece molte gag e alcuni passaggi mi sono sembrati un po’ scontati. Comunque, complessivamente è un film gradevole». Non sarà Renzo Bossi, il figlio di Umberto detto il Trota, con il quale il regista napoletano Luca Miniero avrebbe voluto assistere alla proiezione del suo film campionissimo d’incassi (vicino a 16 milioni e lanciato verso i 20) ma, quanto a uscite hard e sbandate antimeridionaliste anche Matteo Salvini non scherza. Trentasettenne, europarlamentare nonché capogruppo leghista in consiglio comunale a Milano durante un raduno a Pontida venne colto a cantare «Senti che puzza, scappano anche i cani. Sono arrivati i napoletani…». «Un coro da stadio dopo una birra di troppo», minimizzò lui. Che però, pur smentendo qualsiasi relazione tra i due fatti, qualche giorno dopo si dimise da deputato e optò per il seggio di europarlamentare a Bruxelles. Al primo spettacolo del pomeriggio la sala non è pienissima. Ma a sentire le risate, il pubblico sembra divertirsi. Anche Salvini si lascia andare a qualche risolino. Nella parte iniziale del film, Alberto (Claudio Bisio), direttore dell’ufficio postale del paesino brianzolo, è intriso di pregiudizi e cultura leghista. La moglie Silvia (Angela Finocchiaro) fa parte della squadra di Rondinelle, le ronde al femminile, che perlustra quartieri immacolati. «Ma sì, ci può stare un po’ di presa in giro – accetta Salvini – anche se certi passaggi sono un po’ troppo caricaturali. I brianzoli vengono dipinti come gente che pensa al gorgonzola e all’aiuola di casa. Forse si poteva pensare a qualcosa di più elaborato. Ecco: diciamo che la storia è tagliata giù con il falciot». Però il giubbetto antiproiettile che Bisio indossa nel viaggio verso il Cilento ci può stare… «Diciamo che i numeri dimostrano che quando si va a Napoli e dintorni non si vive proprio in perfetta tranquillità», ammicca Salvini. «Detto questo, purtroppo la cronaca ci dice che i pirla e i delinquenti abbondano anche a Milano. Il giubbetto antiproiettile potrebbe essere dato in dotazione in tanti posti». Il Bisio cripto-razzista non scandalizza Salvini. Anzi, in alcune gag l’europarlamentare ha ritrovato un pezzetto della sua esperienza di deputato. Soprattutto quando arriva al sud e non capisce una parola… «Ricordo la difficoltà dei miei primi tempi a Roma, nei negozi, al ristorante. Restavo sbigottito». Quindi, nel film non c’è nulla che l’abbia particolarmente irritato. «Guardi, ho visto anche Cado dalle nubi di Checco Zalone, dove in un certo senso c’è il procedimento inverso, un pugliese che emigra a Milano e s’imbatte in alcuni ambienti leghisti, dipinti in modo un po’ gretto. Quello che conta è ridere da tutte e due le parti, anche dei propri difetti». Però. «Però, non c’è bisogno di andare a Napoli per trovare un po’ di sole. Da milanese, se vado a Recco trovo il sole, il mare. E anche la focaccia». Non dirà che non è mai andato in vacanza al sud: «Quando avevo quattro o cinque anni sono stato in Calabria e in Sicilia. Adesso alcuni amici mi hanno decantato e invitato in Salento. Non escludo di andare a verificare di persona. Una città che invece non è tra le mie priorità turistiche è proprio Napoli». Già, i napoletani puzzano. «Quello era e rimane un coro da stadio. Noi abbiamo la nebbia. Se dovessi scegliere le mie mete meridionali punterei sempre sulla Sicilia e la Puglia». Il regista Luca Miniero ha detto che «quelli del Nord sono bravi a fare i razzisti solo da lontano». «Grammaticalmente, razzismo significa sentirsi superiori agli altri. Penso che non ci sia nessuno così stupido da ritenersi superiore. Ma quelli che vengono considerati luoghi comuni spesso sono fatti facilmente riscontrabili». Per esempio? «Beh, s’infervora Salvini: «Il numero dei falsi invalidi nelle province della Campania, l’assenteismo per malattia, il numero esorbitante di dipendenti pubblici: tutti fatti comprovati. Qui il razzismo non c’entra. E poi solo a Napoli esiste un movimento che si chiama Disoccupati organizzati». Meglio organizzati che sbandati. Comunque, a proposito di pregiudizi, pensa che anche a lei qualche volta potrà capitare di ricredersi? «Ho sbagliato tante cose e altre ne sbaglierò ancora», concede Salvini. «Per esempio, a Milano molti dei migliori militanti leghisti, vengono dalla Puglia o dalla Calabria. Ciò che fa la differenza non è il luogo di nascita di una persona, ma il modo di ragionare che non dipende solo dalla latitudine. Detto questo, non cambierei Milano, la sua cultura e la sua filosofia del vivere per niente al mondo». Qualcuno dei militanti leghisti di origine meridionale potrebbe venir buono per il seguito, Benvenuti al nord. Salvini teme che vengano rispolverati i soliti luoghi comuni dei «nordisti razzisti e un po’ polentoni». Ma lui un’idea ce l’ha: «Lo ambienterei a Chiavenna in Valtellina. Ma va bene anche a Bergamo o a Varese, dove la Lega ha il 40 per cento». A proposito di Benvenuti al nord, il sindaco di Treviso Gian Paolo Gobbo ha respinto il set di una commedia in cui Abatantuono è un imprenditore ostile agli extracomunitari. Ma dopo che una tromba d’aria allontana tutti gli immigrati della zona e l’economia locale entra in crisi perché i pomodori marciscono nei campi e le fabbriche rallentano la produzione, la faccenda si complica. Il film si girerà a Bassano del Grappa, ma a Treviso c’è chi si lamenta per i mancati introiti. «Non so bene quali siano i veri motivi della decisione del sindaco di Treviso», premette Salvini. «Certamente, respingere la produzione di un film importante può penalizzare l’economia locale. Ma credo che, ormai, città come Treviso o come Verona, sempre dipinte come culle di razzismo, siano stanche di essere usate per alimentare questa fama». Già, i razzisti stanno tutti al nord. Tornando a Bisio, come si spiega il successone di Benvenuti al sud? «È una parodia, una favola che può mettere di buonumore. Però non mi sembra un capolavoro. Ecco, diciamo che Amici miei è un’altra cosa».

CHI DI SPADA FERISCE, DI SPADA PERISCE. I Media: Lega Nord Padania Ladrona. Giornali e tv ne parlano: Non solo Roma ladrona, ma anche Padania ladrona.

IL CASO. Bufera sulla Lega, il tesoriere va via. "Denaro pubblico alla famiglia Bossi". Le accuse dei magistrati: truffa ai danni dello Stato e finanziamento illecito ai partiti. "Elementi di opacità nella tesoreria del Carroccio fin dal 2004". Al lavoro le Procure di Milano, Napoli e Reggio Calabria. Contatti con la 'ndrangheta. Maroni: "Adesso facciamo pulizia nel partito". Il resoconto di Emilio Randacio su “La Repubblica”. Soldi pubblici gestiti "nella più completa opacità" da almeno otto anni, tanto da far sorgere il sospetto che siano andati a coprire le spese personali, cene, alberghi e viaggi dei figli di Umberto Bossi - tra cui Renzo, 'il Trota', sovvenzionato anche per la campagna elettorale - e della senatrice Rosy Mauro, ma anche la ristrutturazione della villa di Gemonio del leader del Carroccio. Fondi che sarebbero stati "sottratti" alla casse della Lega pure per prendere il volo verso la Tanzania e Cipro con investimenti su cui ora la magistratura vuole vederci chiaro. Così come vuole analizzare a fondo quei rendiconti elettorali, pare truccati, che hanno tratto in inganno i presidenti di Camera e Senato, cioè coloro che li hanno certificati dando il via libera a finanziamenti, come l'ultimo da circa "18 milioni di euro", irregolari. Dopo le presunte tangenti del caso Boni (Davide, il presidente leghista del consiglio regionale lombardo), arriva un'altra batosta che colpisce al cuore il Carroccio. Questa volta a finire nelle maglie della giustizia è Francesco Belsito, diventato non solo sottosegretario nell'ultimo governo di Silvio Berlusconi, ma tesoriere della Lega. Belsito si è visto piombare negli uffici milanesi di via Bellerio - crocevia di tre inchieste: una di Milano, una di Napoli e una di Reggio Calabria - la guardia di finanza e i carabinieri del Noe. Nell'indagine coordinata dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dai pm Roberto Pellicano e Paolo Filippini, è accusato, assieme agli imprenditori Stefano Bonet (già in affari con l'ex ministro Aldo Brancher) e Paolo Scala, di appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato. Belsito è arrivato in serata nella sede della Lega in via Bellerio a Milano e ha presentato le dimissioni. Il passo indietro era stato auspicato da diversi esponenti del partito, dopo le perquisizioni e la notizia delle indagini, a cominciare dall'ex ministro Roberto Maroni. Che commenta: "E' una buona notizia, adesso bisogna andare fino in fondo e fare pulizia dentro il partito, cominciando dalla nomina di un nuovo amministratore capace di aprire tutti i cassetti". Dopo le dimissioni non sono state avanzate, per ora, ipotesi riguardo a una sostituzione o alla nomina di un commissario: sarà il consiglio federale a deliberare sulla questione. "Visto che è stato tirato in ballo il nome di Umberto Bossi mi sento di escludere in maniera assoluta ogni suo coinvolgimento", è stato invece il commento del governatore lombardo Roberto Formigoni. Sulla stessa lunghezza d'onda l'ex premier Silvio Berlusconi: "Chiunque conosca Umberto Bossi e la sua vita personale e politica, non può essere neanche lontanamente sfiorato dal sospetto che abbia commesso alcunchè di illecito. E in particolare per quanto riguarda il denaro della Lega, del movimento al quale ha dato tutto se stesso. Perciò esprimo a Umberto Bossi la mia più affettuosa vicinanza". "Altro che Roma ladrona. Alla fine i nodi vengono sempre al pettine - ha invece commentato Felice Belisario, presidente dei Senatori dell'Italia dei valori - La Lega, che si è sempre messa sul piedistallo dell'integrità morale, adesso si ritrova nei guai fino al collo". Due i filoni su cui i pm del capoluogo lombardo da tempo, anche in seguito alla denuncia di un militante della base leghista, hanno acceso i riflettori: il primo riguarda i fiumi di denaro finiti nelle casse del partito fondato da Bossi presentando rendiconti, questa l'ipotesi, "irregolari"; il secondo la "distrazione" di parte di quei fondi, alla fine dello scorso dicembre, da parte del tesoriere, non si sa in base a quali poteri statutari, per acquisire tramite la Banca Aletti (dove la Lega ha un conto corrente) quote in un fondo Krispa a Cipro e quote in un fondo in Tanzania per circa "6 milioni". Operazioni, queste, avvenute per gli inquirenti con la complicità dei due imprenditori. E proprio uno dei due imprenditori è anche complice di Belsito nella vicenda, autonoma rispetto a quella sull'andirivieni dei finanziamenti pubblici alla Lega, che riguarda la Siram, multinazionale che si occupa di energie rinnovabili e servizi ambientali, anch'essa perquisita dalla guardia di finanza. Dai primi accertamenti, fra il 2010 e l'anno scorso, i due avrebbero architettato una maxi truffa che, grazie a un giro di fatture false, avrebbe consentito al colosso di usufruire in modo indebito di un credito di imposta pari al 40 per cento dei costi sostenuti per l'attività di ricerca e sviluppo. E Belsito in questo caso si sarebbe speso come "procacciatore d'affari" in virtù delle sue relazioni politiche, perché anche sottosegretario. Ma il capitolo che ha provocato un terremoto in via Bellerio, dove i militari hanno sequestrato carte e pc in vari uffici - compresi quelli di Daniela Cantamessa, una delle segretarie di Umberto Bossi, e di Nadia Dagrada, dirigente amministrativo e responsabile del settore gadget, acquisendo anche documentazione sul Sindacato padano, fondato da Rosy Mauro - è quello, come si legge nel decreto di perquisizione, che riguarda la gestione della tesoreria del partito "avvenuta nella più completa opacità fin dal 2004". Una "gestione in nero (sia in entrata sia in uscita) di parte delle risorse affluite alla cassa del partito", soldi pubblici provenienti dal 4 per mille dell'Irpef o sotto forma di rimborsi elettorali, che, come emerge da una serie di intercettazioni riportate in un'informativa del Noe (a coordinare le indagini è il 'capitano Ultimo', lo stesso che catturò Totò Riina), Belsito avrebbe anche usato per contribuire alle spese per gli svaghi dei figli del Senatur, ma anche in parte per la moglie di Bossi e per Rosy Mauro (non sono indagati): cene, alberghi e viaggi. E la ristrutturazione della villa di famiglia a Gemonio: in un'intercettazione si sente dire che quelle spese vanno a finanziare "i costi della famiglia". In sostanza ci sarebbe stata una sorta di viavai di denaro e il tesoriere, che è stato anche nel consiglio di amministrazione di Fincantieri, avrebbe a volte anche versato sui conti della Lega soldi "in misura superiore ai redditi da lui percepiti" - altro punto di indagine su possibili fondi neri - o prelevato in banca somme in contanti, come i 95mila euro del dicembre 2010 con giustificazione "alimentare la cassa del partito". E poi ancora quei 6 milioni sottratti per essere dirottati negli investimenti in Tanzania e a Cipro e che Belsito dice di aver restituito alla Lega ma su cui gli inquirenti, che hanno sentito numerosi testimoni, tra cui pare anche la stessa segretaria di Bossi, vogliono far luce. Così come vogliono fare chiarezza sui rendiconti per le spese elettorali finiti alla presidenza di Camera e Senato per il via libera ai rimborsi. Sull'ultimo, quello alla base dei 18 milioni erogati ad agosto, ci sono seri dubbi: si riferisce al 2010 e - scrivono i pm negli atti - "vi è la prova della falsità".

L'INCHIESTA. Triangolazioni sospette per milioni. E con Belsito spunta la 'ndrangheta. E' a Reggio Calabria uno dei tre filoni dell'inchiesta sul tesoriere leghista. Giri di fatture e compravendite sospette con società in tutta Italia e un faccendiere in rapporti con il potente caln dei De Stefano. Il reportage di Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica. Il terremoto giudiziario nella Lega arrivato con l'avviso al tesoriere Belsito e il blitz nella storica sede milanese di via Bellerio, è partito seguendo un sospetto personaggio calabrese. Su Belsito sono ben tre le inchieste aperte: Milano, Napoli, Reggio Calabria. A lui la Dda di Reggio è arrivata seguendo gli affari di Romolo Girardelli, un procacciatore di business in odore di 'ndrangheta. Girardelli, o meglio "l'ammiraglio", come lo chiamavano nell'ambiente, nel 2002 era stato indagato per associazione di stampo mafioso. Gli investigatori lo ritengono vicino ai vertici del clan "De Stefano", famiglia potentissima della città dello Stretto con interessi in Liguria e Francia. Il faccendiere fin dal 2002 è legato a Paolo Martino e Antonio Vittorio Canale, braccia economiche della cosca. Il Pm reggino Giuseppe Lombardo e gli specialisti della Dia gli stavano dietro da tempo, nella speranza di mettere le mani sul tesoro della "famiglia". Una pista buona, che ha poi portato a scoprire anche i rapporti tra la presunta testa economica dei De Stefano e il tesoriere della Lega. Girardelli, secondo l'inchiesta, di affari ne aveva procacciati anche a Belsito, all'imprenditore Stefano Bonet e all'avvocato Bruno Mafrici. "L'ammiraglio", oltre che broker era socio di fatto di Belsito in una immobiliare con sede a Genova. Ma non è tutto, perché gli inquirenti hanno ricostruito una serie di passaggi milionari tra grandi società che si occupavano di consulenza e ricerca. Affari per diversi milioni di euro che consentivano utili sotto forma di crediti d'imposta. Giri di soldi e di "regali" che coinvolgono direttamente il tesoriere della Lega e alcuni altri manager di grandi aziende. C'è ad esempio il caso della Siram che "acquista" servizi per circa 8 milioni dalla Polare del gruppo Bonet (di cui Giradelli è responsabile della sede genovese). La Polare poi è in affari con la Marco Polo da cui compra consulenze per 7 milioni. Ed è attraverso quest'ultima che la stessa cifra torna nuovamente a Siram. Un triangolo strano per i magistrati reggini, che ritengono che nei diversi passaggi alcune centinaia di migliaia di euro restino impigliate in diverse mani. Tra queste quelle di Belsito. L'inchiesta accerta che gli vengono liquidate circa 250 mila euro in due trance. Un caso analogo è quello che coinvolge Siran, Polare e Fin.tecno. Sono 8 gli indagati dell'inchiesta che si muove su tre diversi filoni. Quello reggino che riguarda gli interessi della 'ndrangheta, quello milanese legato a Belsito al riciclaggio e all'appropriazione indebita e quello napoletano dove ha sede una delle società coinvolte nel giro. Le ipotesi di reato sarebbe la truffa allo Stato per i falsi crediti d'imposta e il finanziamento illecito dei partiti oltre che riciclaggio di denaro su conti esteri.

Tre procure contro Belsito: "Soldi pubblici ai Bossi". I pm di Milano, Napoli e Reggio Calabria accusano il tesoriere Belsito di aver truccato i bilanci. Viaggi per i figli e Rosi Mauro, fondi per il Trota e per la casa di Gemonio. Il resoconto di Luca Fazzo ed Enrico Lagattola su “Il Giornale”. Spericolati investimenti, false fatturazioni, denaro che viaggia estero su estero, bilanci truccati, fondi neri destinati al vertice del partito, pericolosi (e per nulla padani) legami con la ’ndrangheta. È un uragano giudiziario quello che ieri si abbatte sulla Lega Nord. Il Carroccio finisce nel fuoco incrociato di tre Procure: Milano, Napoli e Reggio Calabria. La sede del partito, in via Bellerio, viene perquisita dalla Guardia di finanza (che porta via documenti del Sinpa, il sindacato di cui è segretaria Rosi Mauro), così pure la segretaria personale di Umberto Bossi, Daniela Cantamessa. Undici gli indagati, dalla Lombardia alla Campania, dal Veneto alla Calabria. E su tutti spicca il nome di Francesco Belsito, il tesoriere del partito, che si è dimesso ieri sera. Il cassiere del Carroccio è sotto inchiesta per appropriazione indebita, truffa, riciclaggio e finanziamento illecito. È lui, secondo i magistrati, ad aver «gestito nella più completa opacità la tesoreria della Lega fin dal 2004». È ancora lui, spiegano i pm, ad alterare la contabilità del partito. Ed è sempre Belsito a impiegare i soldi pubblici sfilati alle casse del Carroccio «per le esigenze personali dei familiari del leader della Lega Nord». Umberto Bossi non è indagato. Ma l’ultimo siluro è per il Senatùr. L’inchiesta della Procura di Milano - coordinata dai pm Alfredo Robledo, Paolo Filippini e Roberto Pellicano e condotta dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria- parte da alcune operazioni sospette che riguardano gli investimenti di Belsito, denunciate da un militante leghista il 23 gennaio scorso, e prende di mira proprio gli investimenti del Carroccio in Tanzania e a Cipro. Denaro che, secondo gli inquirenti, non si sarebbe in realtà fermato nel continente africano né nell’isola del Mediterraneo, ma avrebbe preso la strada di ritorno per tornare nella disponibilità del tesoriere. L’indagine milanese si incrocia con quelle dei carabinieri del Noe, coordinata dalla Procura di Napoli, e della Dia di Reggio Calabria. Dal Noe negli uffici milanesi arriva un documento che «fornisce elementi inequivocabili sul fatto che la gestione della tesoreria della Lega Nord è avvenuto nella più completa opacità fin dal 2004 e comunque, per ciò che riguarda Belsito, fin da questi ha cominciato a ricoprire l’incarico di tesoriere». «Egli - si legge negli atti - ha alimentato la cassa con denaro non contabilizzato e ha effettuato pagamenti e impieghi anch’essi non contabilizzati o contabilizzati in modo inveritiero». Quali? Nelle intercettazioni telefoniche, viene fatto riferimento ai «costi della famiglia». La famiglia di Umberto Bossi. «Tali esborsi- insistono i pm- vengono effettuati per esigenze familiari del leader della Lega Nord», in «contanti o assegni o contratti simulati». Cene, alberghi, viaggi per la moglie e i figli del Senatùr, per Rosi Mauro, e per la campagna elettorale di Renzo Bossi (consigliere regionale in Lombardia dal 2010), per ristrutturare la villa di Gemonio. La truffa allo Stato viene contestata perché «il rendiconto della Lega è inveritiero, non dà conto della reale natura delle uscite, né della gestione in nero (sia in entrata sia in uscita) di parte delle risorse affluite alla cassa del partito». E non è un dettaglio da poco. Perché i rimborsi elettorali vengono calcolati in base alla validazione del rendiconto da parte degli organi di revisione del Parlamento. E per il bilancio 2010 (ritenuto truccato dai pm) lo scorso anno al Carroccio sono stati riconosciuti rimborsi per 18 milioni di euro. Da Pontida a Dodoma (capitale della Tanzania), esisterebbe un link. Ed è qui che entra in scena un secondo indagato: Stefano Bonet. Di chi si tratta? Bonet è un commercialista tuttofare, sotto inchiesta oltre che a Milano anche a Napoli ( pm John Woodcock e Vincenzo Piscitelli) e Reggio Calabria (pm Giuseppe Lombardo). È Bonet a intrattenere i rapporti con la Siram spa, colosso dei servizi energetici con sede nel capoluogo lombardo, controllata dai francesi di Veolia e Edf, che nell’inchiesta svolge un ruolo chiave. Dai fondi neri creati da Siram attraverso Bonet, e in parte ceduti allo stesso Bonet, provengono probabilmente i fondi occulti della Lega. Nell’inchiesta la Siram viene definita «la lobby di Giovanni Pontrelli»,il suo direttore generale, che avrebbe versato a Belsito 250mila euro. Tra gennaio e febbraio 2010, le società Polare e Marco Polo Tecnhology- di cui Bonet era amministratore - realizzano «movimenti circolari di denaro fittiziamente giustificati con fatture relative a costi per investimenti in ricerca e sviluppo ». Più precisamente, «la Siram aveva versato alla Polare una somma di 5 milioni di euro dei quali era rientrata in possesso attraverso pagamenti effettuati ad altre società, tutte legate al “gruppo Bonet”». Quei soldi, per il commercialista, sarebbero arrivati grazie al «patrocinio politico» di Belsito, sponsor di un fantomatico «progetto Sirio ». In cambio il tesoriere della Lega ottiene che l’investimento a Cipro venga effettuato tramite Bonet su un conto gestito da Paolo Scala (indagato), che a Larnaka fonda la Krispa Enterprises. Tra il 27 e il 28 dicembre 2011, da uno studio milanese, Belsito fa partire i soldi destinazione Cipro: ma invece del milione e duecentomila euro concordati ne spedisce il quadruplo, quattro milioni e otto. «Devono essere semplicemente parcheggiati, poi andranno dove devono andare », si legge in una intercettazione. Scala e Bonet ne parlano allarmati qualche giorno dopo. E Bonet rivela che i soldi sono del «gruppo», cioè della Lega. Scala: «Non so cosa sia, lui (Belsito, ndr ) mi ha detto che escono da lui». Bonet: «Devono essere del gruppo quelli».«Dobbiamo andare a fare un po’ di giri per andare a creare quelle strutture necessarie per andare a segregare questi importi e per pilotare gli investimenti. Non è che domattina viene fuoriuna fogna e andiamo a finire tutti... ». Infatti.

Secondo di Matteo Pandini  su “Libero Quotidiano” qualcuno dice che la Lega è cambiata nel 2000, quando decise di riappacificarsi col Cavaliere. Di sicuro è mutata dall’11 marzo 2004 in poi, quando Umberto Bossi rischiò di morire. È da quella mattina che sulla scena piomba la famiglia del Senatur. Gli inquirenti che ieri hanno perquisito la sede di via Bellerio parlano di «gestione opaca» proprio a partire da lì. Dal 2004 è salita sul ponte di comando Manuela Marrone. È la maestra di origini siciliane che ha sposato il capo lumbard il 12 gennaio 1995 a Palazzo Marino, con la benedizione di un commosso Marco Formentini. Con l’ex ministro in ospedale, parecchi scommettevano sullo sgretolamento del movimento. È andata diversamente. Il fortino di via Bellerio ha retto perché il potere non è scivolato lontano da Gemonio. “La Manuela” ha tutelato il marito tagliando i contatti col mondo, a eccezione di pochi privilegiati. È in quelle fasi drammatiche che nasce il cosiddetto cerchio magico, ovvero il gruppo di fedelissimi in stretto contatto con il leader e i suoi familiari. All’inizio ne fa parte pure Giancarlo Giorgetti, il segretario della Lega Lombarda con cui i rapporti si sono poi raffreddati. Stesso discorso per Roberto Cota. Marco Reguzzoni, allora presidente della Provincia di Varese, era uno dei pupilli della signora Bossi e lo è tuttora. Rosi Mauro, l’anima del sindacato padano (Sinpa), è nelle grazie di Manuela e scala in un amen le gerarchie del partito, fino a quando – con Umberto che torna sulla scena – gli s’appiccica nelle uscite pubbliche. Nel 2007 acquista casa davanti alla villa del Senatur a Gemonio. Bossi sta male a marzo, dicevamo. A novembre dello stesso anno il Parlamento europeo assume come assistenti di Francesco Enrico Speroni e Matteo Salvini il fratello del capo padano, Franco, e il figlio primogenito di Bossi, Riccardo (il pilota di rally avuto con Gigliola Guidali). Nella Lega spunta per la prima volta un’accusa sanguinosa e collegata al suo capo: nepotismo. Nulla, in confronto ai veleni delle ultime ore. Nell’informativa del Noe si parla di denaro che sarebbe stato utilizzato dai familiari del leader e dai suoi strettissimi collaboratori (tra cui la Mauro) per alberghi, cene, viaggi. C’è la ristrutturazione della villa di Gemonio e la campagna elettorale del Trota. Una storiaccia. E che - se confermata - sarebbe ben più grave dell’affaire Montecarlo che investì Gianfranco Fini. Pochi anni fa erano state le disavventure scolastiche di Renzo a riempire i giornali. Prima viene bocciato a 15 anni. Poi rifà due volte la maturità. Nell’ultimo caso decide di presentare ricorso. È il leader ad annunciare in un comizio: «Renzo ce l’ha fatta». Non si sa dove. In Italia o all’estero? «Quando stava male mio padre, avevo i giornalisti che mi aspettavano fuori da scuola. Da lì decisi di non dare più certe informazioni» spiegò il Trota a Libero nell’ottobre 2010. Il mistero rimane, anche perché il diploma non s’è mai visto. Nel 2005, ancora ragazzino, aveva fatto la prima apparizione pubblica con papà. Si affacciò dalla casa di Carlo Cattaneo, in Svizzera, per urlare alla piazza: «Padania libera!». Da lì iniziò a essere sempre più presente. Non solo nei comizi. Pure a Roma. Nei vertici di governo. A casa Berlusconi. Quando il Corriere gli dedica una paginata, la madre s’inalbera perché non lo vuole così esposto. Bossi smorza: «Lui mio delfino? Al massimo è una trota». Nasce il nomignolo. Nel 2010, però, Renzo finisce al Pirellone incassando quasi 13mila preferenze. Nel frattempo il cerchio magico cambia ma prospera. Vi fanno parte anche il capogruppo a Palazzo Madama Federico Bricolo e, naturalmente, il tesoriere Francesco Belsito. I rapporti nel movimento si fanno sempre più tesi. È gelo soprattutto con Roberto Maroni. La famiglia lo accusa di volersi prendere la Lega sfilandola a Umberto. Renzo nega l’esistenza del cerchio: «Qualche giornalista ha la sindrome Tolkien» dice a fine 2010. Nel novembre 2011 cambia idea: «Non esistono più né cerchisti né maroniani, è tutto a posto». Nel frattempo, alcuni vecchi amici di Umberto faticano addirittura a parlargli, tanto è impenetrabile il cordone di sicurezza che lo circonda. Per esempio, si raffreddano i rapporti con Bruno Caparini, il padre del deputato Davide e che ospita il segretario a Ponte di Legno. Il Trota, approdato al Pirellone, è sempre più al centro della scena. I militanti s’arrovellano: era giusto candidarlo? Di sicuro sono fioccati veleni, con l’assessore lombardo Monica Rizzi accusata di aver fatto confezionare dossier per attaccare altri padani e favorire l’ascesa del rampollo. Il Trota gira con un suv Bmw (intestato a lui) e su un’Audi A5 che risulta di una concessionaria comasca. Vive tra Gemonio e Milano. Spesso si fa vedere a Brescia e sul lago di Garda. Ha frequentato anche alcune vippine da tv. È amicone di Valerio Merola. All’ultimo congresso di Varese l’hanno fatto risultare militante anche se non lo era. Condizione che ne avrebbe dovuto impedire la candidatura alle regionali. Il fratello Roberto Libertà, studente d’Agraria, vive a Gemonio e spesso bazzica una cascina ristrutturata a Brenta, Varese. Eridano Sirio, il più piccolo, è ancora lontano dai riflettori. C’è curiosità per i legami tra Belsito, il tesoriere che ha lasciato l’incarico ieri sera, e la famiglia. Gli inquirenti hanno dato un occhio pure alla Pontida Fin, cioè lo scrigno della Lega. Contiene gli immobili del partito. Tempo fa, all’amministratore unico Ugo Zanello arrivò la richiesta di trasferire le proprietà a una fondazione. Nel luglio 2010, con la Lega al governo, spuntano 800mila euro di finanziamento per la scuola Bosina di Varese, quella della signora Marrone. È lei che, col passare del tempo, è sempre più indigesta alla base. Soprattutto, non la sopportano i militanti che guardano a Maroni. Però, quando a settembre il berlusconiano Panorama spara un articolo che descrive i malumori nei confronti della signora (definita «terrona», mentre la Mauro è «la badante»), tutta la Lega s’inalbera. Ieri sono stati perquisiti anche gli uffici del sindacato padano, che in serata ha parlato di «fraintendimento». Si fa un gran chiacchierare di una sede in Sardegna: sarà vero? Dal canto suo, la Marrone incassa ma resta nell’ombra. In pubblico non parla mai. Neanche con i media di partito. Quelli che, nel febbraio 2011, erano stati affidati alla supervisione di Renzo Bossi. Papà ne fu felice. I professionisti che ci lavorano e i militanti, un filo meno.

Eccola qui, la vera Lega di Daniele Sensi.

I figli degli immigrati? «Un bel lanciafiamme, e che si brucino queste merde». Il piano svuota carceri? «Lo facciamo noi con un mitragliatore dal balcone». Napolitano? «Un terrone del cazzo, gli ci vorrebbe un colpo in testa». E' il gruppo su Facebook 'Padani si nasce', a cui aderiscono anche i parlamentari Reguzzoni, Rondini, Fugatti, Mura, Pittoni e Stiffoni. Eros Domenico è un militante leghista. Il suo profilo Facebook è una profusione di foto di cene e di manifestazioni del Carroccio. Maglietta col Sole delle Alpi addosso, ama ritrarsi al fianco di Matteo Salvini o ai piedi di una qualche statua dell'Alberto da Giussano. Ha un'opinione su tutto: sul piano "svuota carceri" («mi trasformo in cecchino con un bel mitragliatore sul balcone e via con lo show»); sulle origini meridionali di Giorgio Napolitano («Napoli merda, Napoli colera») e sui due cittadini senegalesi uccisi martedì scorso a Firenze: «Meglio così, due in meno da mantenere». Sempre su Facebook, ha fondato "Padani si nasce, cuore leghista", gruppo - chiuso e riservato - dell'orgoglio padano. Ne fa parte anche Giovanna, bresciana, «casalinga, moglie e mamma», immagini di Topolino, Bambi e Winnie The Pooh sul proprio profilo pubblico. Sulla cittadinanza ai figli degli immigrati ha le idee chiare: «Un bel lanciafiamme, e che si brucino queste merde». Quanto ai loro genitori invece si chiede: «Perché, quando aprono la porta, c'è una puzza strana che fa schifo?». Opinione condivisa da Remo, un odontotecnico di Mantova: «Sapessi che odoraccio quando vengono da me, sono peggio della capre», mentre Anna Paola prova a rispondere: «Puzzano perché non si lavano dopo che fanno l'amore, per non parlare della loro puzza naturale, che è nauseabonda. Tempo fa ho sentito dire in televisione che il loro sesso ha un odore disgustoso, indelebile, che non va via neanche se lo lavi con un sapone speciale». Appartiene al gruppo anche "Maestra Marzia", insegnante di una scuola elementare che sul web amministra un blog di filastrocche, ninne nanne, esercizi di scrittura ed altro materiale didattico «utile agli alunni in caso di assenze prolungate per malattia». Una maestra modello, che sulla propria bacheca condivide foto di «pasticcetti in cucina» e di Topo Gigio, ma che nel gruppo "Padani si nasce", da quando il presidente Napolitano ha definito «una follia» negare la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori immigrati, non si dà pace: «Non si trovano 3000 miseri euro per un ingranditore utile ad un mio alunno ipovedente, mentre si pagano almeno tre volte tanto i facilitatori linguistici per gli alunni cinesi che si rifiutano di ripetere anche la più semplice parolina di italiano. Cosa mai potranno invece dare i cinesi che sia di utilità comune?». Con soluzioni agli sbarchi di "clandestini" che vanno dal «napalm» a «una bella bomba, così saltano in aria», "Padani si nasce" è qualcosa di più di un semplice gruppo leghista di area. O almeno è il solo che possa vantare tra i propri membri tanti nomi eccellenti. Tra gli altri: il presidente del gruppo parlamentare della Lega Nord alla Camera Marco Reguzzoni; i deputati Marco Rondini e Maurizio Fugatti; i senatori Roberto Mura, Mario Pittoni, Piergiorgio Stiffoni e Michelino Davico; gli assessori della Regione Lombardia Daniele Belotti e Monica Rizzi; l'assessore alle politiche agricole della Regione Veneto Franco Manzato; il vicepresidente della Regione Lombardia Andrea Gibelli; l'europarlamentare Claudio Morganti; il segretario provinciale della Lega Nord di Milano Igor Iezzi, più una sfilza di sindaci e amministratori locali. Tutti iscritti ad un gruppo che per mettere a tacere quel «vecchio di merda» e «terrone del cazzo» di Napolitano propone «un colpo in testa» e, per ritorsione, «un attentato alle Coop». Un gruppo esplicitamente razzista («mischiare le razze non ha mai portato bene») e omofobo («dovremmo equiparare i gay ai pedofili così Vendola la finisce di fare il ricchioncello per strada») che, a fronte dei reati commessi da cittadini stranieri, vorrebbe «dare una ripulita», «aprendo la caccia con i pallettoni per cinghiali, almeno li traforiamo per bene». Con un trattamento di riguardo per gli immigrati malati di TBC («con loro usiamo la fiamma ossidrica, così non ne rimane nemmeno una cellula»), e per i rom: «Mettiamoli nelle stufe a legna, in modo da farne carburante alternativo». Perchè «i rom», spiega Luca, bresciano, amorevoli foto dei suoi bambini in bacheca, «ladri, stupratori e assassini nascono, ladri, stupratori e assassini moriranno: personalmente adotterei per loro le stesse politiche usate dal Führer». «Anziché stanziare fondi per l'integrazione dei rom, L'Unione Europa dovrebbe finanziare l'apertura dei forni», rilancia Alessandro, consulente aziendale nel comasco. Mentre Giovanna – quella appassionata di Topolino, Bambi e Winni The Pooh - euforica applaude: «Evvai! Che bello vederli bruciare!». 

«Roma ladrona vuole i soldi dei lavoratori del Nord per tenere viva la vecchia pratica assistenzialista. Ad ogni giro ritornano, come nel gioco della roulette...», disse una sera all’Ansa Umberto Bossi, correva l’anno 2003. «Voglio essere cattivello... non tutti sanno che c'è una insegnante che è andata in pensione nel '92 a 39 anni: è la moglie dell'onorevole Bossi»: lo rivela Gianfranco Fini a Ballarò del 25 ottobre 2011.

La Lega Nord per l'Indipendenza della Padania, meglio nota come Lega Nord o più semplicemente Lega, è un partito politico nato come federazione di vari movimenti autonomisti regionali, tra i quali, in particolare, la Lega Lombarda e la Liga Veneta. I bersagli dei loro strali sono gli extracomunitari e i meridionali. Le accuse contro questi sono fondate su assiomi che delineano una mancanza di cultura o che sono frutto di una cultura distorta. Gente che si sente dura e pura e autoctona, ma, spesso, nelle sue fila vi è gente proprio di origine meridionale ed extracomunitaria. I loro territori non hanno radici storiche e culturali degne di nota, per cui l’odio verso gli altri è la loro linfa vitale e il programma politico si tramuta in calunnie e diffamazioni. Originariamente sostenitrice del federalismo, dal 1996 la Lega Nord ha proposto la secessione delle regioni settentrionali, indicate collettivamente come Padania. Successivamente ha riproposta il progetto di uno Stato federale, da realizzarsi attraverso il Federalismo fiscale e la devoluzione alle regioni di alcune funzioni esercitate dallo Stato. Propone altresì di aumentare il peso politico delle regioni del Nord Italia, ritenuto non adeguato al peso demografico ed economico delle stesse, nonché di promuovere e valorizzare le culture e le lingue regionali, per fare dell’Italia una “Babele”. La Lega è formata da più Leghe: ognuno con i propri campanili e le loro differenze, che alla minima occasione si fanno notare e che sono foriere di odio interno. A riguardo un articolo di Carlo Puca su “Panorama” del 18 gennaio 2011 rende bene l’idea. “Roberto Calderoli, dentista, già ministro per la Semplificazione e leader dei cosiddetti «bergamaschi» (che poi tutti bergamaschi non sono: per esempio Gianna Gancia, la sua compagna, è presidente della Provincia di Asti). È normale, dunque, che in una Lega divisa in correnti più di quanto si racconti i «varesotti» siano in stato d’allerta.  Il loro leader è il già ministro dell’Interno Roberto Maroni. Quando Bossi abbandonerà la vita politica, il Carroccio avrà un problema enorme: trovare il nuovo leader. Tenere assieme i bergamaschi con i varesotti, i piemontesi con i veneti, i lombardi con gli emiliani sarà assai complicato. E non soltanto per le diversità su base territoriale: i nordisti sono divisi tra loro pure all’interno delle singole zone d’influenza. In Emilia-Romagna, dove il partito è in forte crescita, una riunione di partito è addirittura finita in rissa. Erano in discussione le candidature al consiglio comunale. Figurarsi cosa mai accadrà nel prossimo giro per il Parlamento…Date le premesse, per sedare gli animi certo non basterà Renzo «Trota» Bossi, il figlio che il Senatùr vorrebbe (addirittura!) ministro. Men che mai basterà l’altro figlio di Bossi, Eridano Sirio Bossi. Insomma: non basterà il feticcio di un cognome, seppur pesante, a salvare la Lega da una prevedibile diaspora.”

CARROCIOPOLI: Bossi, un mare di bugie.

La presentazione e le recensioni di "Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere", saggio di Eleonora Bianchini edito da Newton Compton. Un'inchiesta appassionata che ridisegna il ventennio leghista dagli anni del "celodurismo" all'ossessione del federalismo fiscale. I lati oscuri di un partito pieno di contraddizioni: minacce di secessione che si alternano ad abili mosse politiche per acquisire un peso sempre maggiore nel governo del nostro Paese; vilipendi alla bandiera, diti medi alzati e pernacchie in TV che fanno da contrappunto a raffinate strategie orchestrate nei palazzi e nelle ville del potere. Ma come ha fatto questo movimento, da sempre spina nel fianco della democrazia italiana, a ottenere un simile consenso? Eleonora Bianchini, con una prosa secca e incisiva, mette al muro il partito del Carroccio, svelando i falsi moralismi di chi grida contro "Roma ladrona", ma chiude un occhio sugli scandali finanziari della "Padania ladrona". «Il nostro popolo», affermava Bossi, «è pronto ad attaccare. Si dice che il Paese stia andando a fondo, ma io conosco un solo Paese, che è la Padania. Dell'Italia non me ne frega niente». Ma una volta scoperti i verdi scheletri nell'armadio anche il leghista duro e puro potrebbe vacillare. Una giornalista ricostruisce la storia e le dinamiche del consenso del Carroccio. Rivelando come il partito di Bossi abbia due volti. Uno al nord, dove continua a far sognare un federalismo che non farà mai. E uno a Roma, dove pensa solo a divorare posti di potere. L'ultima, in ordine di tempo, è la proposta di un consigliere comunale di Padova di non finanziare la locale maratona perché "vincono sempre neri in mutande". Ma alle dichiarazioni shock, partite da esponenti di ben altro rilievo, la Lega Nord ha ormai abituato gli elettori: forse persino assuefatti, visto che se ne sentono quasi tutti i giorni.

Dagli anni delle minacce di secessione, della caccia ai terroni e dei riti celtici si è passati al federalismo fiscale e alla lotta all'islam e all'immigrazione (clandestina e non solo). E in un paese che non ha memoria e che dimentica troppo in fretta, il lavoro di Eleonora Bianchini ("Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere" - Newton Compton) prova a mettere in ordine gli eventi. Quasi un manuale per leggere la Lega Nord attraverso tutta la sua storia. "L'espresso" ha parlato con l'autrice, giornalista e blogger che lavora tra l'altro per il network Blogosfere.

Perché la Lega non dovrebbe far leggere il tuo libro, come recita il titolo?
"Il mio lavoro ricostruisce la storia del partito in questi anni: le origini, le parole d'ordine, gli slogan, le dichiarazioni, le promesse. Un elenco di fatti, niente invettive preconcette. E questo li ha fatti innervosire: il loro quotidiano, "la Padania", lo ha subito definito "un libro che esercita mistificazioni politiche", ma senza entrare mai nel merito dei fatti concreti che sono stati raccolti".

Iniziamo da Alberto Da Giussano e la Padania...
"Pochi ricordano che Alberto da Giussano è stato copiato dalla biciclette Legnano, perché a Bossi piaceva il logo. Quanto alla Padania, i suoi confini sono stati scelti a tavolino e nella storia della Lega sono anche risultati piuttosto "elastici" per non lasciare fuori nessun potenziale elettore. Adesso però la Padania esiste davvero nella mente dei sostenitori e, nei primi anni del movimento, queste immagini hanno aggregato molto i leghisti e contribuito a costruire un'aura intorno alla dirigenza".

Dal partito di lotta al governo. Come è cambiata la Lega Nord?
"Il cambiamento è stato enorme, da quando è iniziata la corsa al potere e alle poltrone: lo scandalo di Credieuronord, la conquista delle regioni per avere le banche, la parentopoli interna. L'approccio al potere è simile a quello di tutti gli altri partiti che la Lega critica e di cui ha invece preso i peggiori difetti. Anche in tv, c'è stata la lottizzazione della Rai in pieno stile Prima repubblica. Intanto sono cambiati anche i nemici: dalla guerra ai "terroni" si è passata a quella agli islamici".

Terroni, islamici, immigrati, rom. Le dichiarazioni shock e i suggerimenti a bruciare, impallinare o altro in questi anni non sono mancate. Qualcuno le definisce folklore.
"La Lega ci ha assuefatto. Ormai ci siamo abituati a fare spallucce su affermazioni aberranti, quando in altri paesi non avverrebbe lo stesso: alla Lega invece viene perdonato tutto. Sono le famose "sparate" che servono per coltivare il consenso "di pancia" al Nord mentre a Roma si pensa solo a lottizzare e a conquistare fette sempre maggiori di potere".

Passiamo dalla parole ai fatti. Come governa la Lega?
"A livello locale si devono riconoscere degli esempi dignitosi. A livello nazionale invece si usa lo specchietto per le allodole del federalismo per occupare posti di potere a Roma e nelle istituzioni centrali. Nessun leghista ha mai risposto, concretamente, ad alcune domande semplicissime su questo ipotetico federalismo: quanto costerebbe? Quali direttive avrebbe? Chi lo paga? Se fosse davvero il provvedimento che dice la Lega, in cui tutti guadagnano e nessuno paga, sarebbe un sogno. Invece serve solo a mantenere in vita un sogno in periferia per occupare poltrone al centro".

La Lega sembra essere il fenomeno editoriale di questo Natale. Tanti libri ne parlano e sono tutti testi molto critici.
"Il partito di lotta che diventa partito di governo fa emergere tutte le sue contraddizioni e con queste arriva il disincanto nei confronti del movimento. Ormai le due facce della Lega non si possono più coniugare tra loro: il partito non è né duro e puro né un alieno della politica i Palazzo, tutt'altro".

Però i consensi almeno fino a oggi, sembrano in crescita.
"Il mito del federalismo fiscale attrae voti perché promette di abbassare le tasse al nord. Finché il federalismo non viene attuato, resta un immaginario Sacro Graal di benessere. Infatti viene sempre rimandato".

Aveva negato di essere stato iscritto al Pci. Aveva escluso che il figlio prendesse soldi dalle Coop padane. Aveva smentito gli affari poco limpidi del partito. Un libro-inchiesta rivela: era tutto vero. Si intitola "Umberto Magno, l'imperatore della Padania" la biografia non autorizzata del leader della Lega Nord che è uscito in libreria il 2 dicembre 2010 per Aliberti (480 pagine). E' un'accurata inchiesta di Leonardo Facco, giornalista che ha conosciuto la Lega (e Bossi) da molto vicino, avendo tra l'altro lavorato per quattro anni al quotidiano "la Padania". L'autore parte dagli "albori della Lega", quando un giovanotto della provincia di Varese senza un lavoro riesce a coagulare attorno all'idea autonomista – non senza screzi e fatti poco chiari – prima alcune decine di amici, poi centinaia e infine migliaia di persone pronte a dare il loro consenso a un progetto politico sempre in bilico tra il federalismo e la secessione. Bossi è la Lega e la Lega è Bossi, secondo Facco, nonostante la malattia abbia ridotto il senatùr all'ombra di quel personaggio movimentista del passato recente. Per dimostrarlo, l'autore racconta fatti, episodi, ricordi personali, con tanto di documentazione (sono quasi 400 le note bibliografiche). «Bossi», sostiene l'autore, «è il responsabile principale della trasformazione della Lega in un soggetto politico partitocratico, dove agli scandali si uniscono le truffe perpetrate ai danni, in primis, dei militanti e simpatizzanti. I crac delle Cooperative Padane, del Villaggio in Croazia e della banca padana rappresentano l'epitome del modo di fare politica del "lumbard", circondato da sempre di yes-men (and women) in carriera». Nel libro ci sono diversi fatti inediti, mai conosciuti e-o raccontati: dalla strana busta paga del figlio primogenito a spese dei militanti ignari, fino alla famosa questione della militanza comunista del giovane Umberto: da lui sempre negata, ma ora provata da un documento scoperto in una vecchia sezione del Pci. E poi si va dai tempi in cui elogiava "Mani pulite" alla sequela di condanne penali incassate dai leghisti odierni. Un capitolo, infine, è dedicato alla vita privata di Bossi che «ama la famiglia tradizionale» ma, secondo l'inchiesta di Facco, non sembra negarsi svaghi al di fuori di essa. «E' un'inchiesta che dovevo a me stesso perché ho un passato da leghista, ho creduto in questo movimento e sono stato anche sul Po, alla metà degli anni '90», dice l'autore. «Era giusto scrivere questo libro adesso, in cui la Lega si sente particolarmente forte e pensa di fare il pieno di voti. Bisogna che tutti gli elettori sappiano chi è il padrone del partito che pensano di votare: un cialtrone, né più né meno».

Ma non è tutto. Due pentiti scrivono la storia di Carrocciopoli, così come ripreso da Alessandro Da Rod sul Riformista.

Due libri coinvolgono i due alti esponenti del partito. Il già titolare della Semplificazione è accusato di furto ai danni della Lega emiliana nel periodo caldo delle cooperative padane. Il già Ministro della Giustizia e viceministro delle Infrastrutture invece sarebbe il candidato “Gamma” favorito dalla malavita calabrese.

Due pentiti. Due libri. Un camion di letame sulla Lega Nord di Umberto Bossi. Non c’è dubbio che giovedì 2 dicembre del 2010 non passerà alla storia del Carroccio come una giornata qualunque. Perché presentare nello stesso giorno due libri come Umberto Magno, l’imperatore della Padania di Leonardo Facco e Metastasi di Gianluigi Nuzzi e Claudio Antonelli, significa scoperchiare l’intero vaso di Pandora di via Bellerio, svelando ciò che il Carroccio ha sempre cercato di nascondere: problemi interni, finanziamenti ai figli di Umberto Bossi, intercettazioni scomode e quant’altro. Il primo è il più pesante. Facco, leghista della prima ora, ex giornalista della Padania, ha riportato in 480 pagine tutta la vita del Senatùr, raccontandone misfatti, debolezze sessuali e di potere. Nel secondo i due cronisti di Libero, non hanno incentrato il loro libro sui rapporti tra la ’ndrangheta e la Lega Nord, ma hanno comunque inserito in un capitolo una storia scomoda per i leghisti. Quella di “Gamma”, leghista di Lecco che ha iniziato a fare carriera nel suo feudo grazie anche all’aiuto dei voti della malavita organizzata. Ex ministro della Giustizia, dirigente di una certa importanza, nessuno ha osato dire il suo nome, ma l’unico che ha alzato la voce per replicare alle illazioni è stato Roberto Castelli, viceministro alle Infrastrutture. Negli ambienti del Carroccio, si vocifera che ci sia una cosa che accomuna i due libri in uscita in questi giorni nelle librerie. Entrambi, in un modo o nell’altro, vanno a colpire, oltre al Senatùr, i due esponenti che in questi mesi hanno perso più posizioni di potere all’interno del partito. Da un lato Castelli, dall’altra Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione. È utile ricordare che il leghista lecchese fu l’unico questa estate a rilasciare un’intervista al Giornale in cui raccontava pubblicamente dei problemi interni al partito. Come allo stesso tempo accadde a Calderoli, finito sulla graticola per l’affare Brancher, il ministro breve del Federalismo, anche lui comparso su svariati quotidiani per difendersi dalle bordate che gli arrivavano dagli uffici di via Bellerio. Sarà un caso, ma in mesi così difficili per la Lega Nord, tra cerchi magici, colonnelli, varesini e veneti, nel libro di Facco ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa di più sul potente ministro dell’Interno Roberto Maroni. In realtà c’è ben poco, se non un richiamo al caso Antonveneta, passando per spedizione in Serbia e la storia dei finanziamenti alla sua portavoce Isabella Votino. Quisquilie se messe in relazione ai file alla Wikileaks che riguardano Castelli e Calderoli. Perché se il primo viene di fatto associato alla malavita organizzata dal pentito Giuseppe Di Bella, sul secondo vengono persino pubblicati i documenti che testimonierebbero un presunto furto ai danni della Lega emiliana nel periodo caldo delle cooperative padane. Partiamo dal ministro per la Semplificazione. A pagina 311 di Umberto Magno, Sacco racconta la storia delle “Coop made in Padania Scrl” creatura bossiana organizzata per finanziare il partito, finita in disgrazia quasi come Credieuronord. Presidente delle Coop in un primo momento era proprio Calderoli. E attraverso le parole di Mario Morelli, ex consigliere di amministrazione della catena di supermercati, Facco ripercorre tutti i disastri dei calderoliani, tra dentifrici in esubero, immobili pagati uno sproposito, flop economici e conti lasciati in sospeso. «Bossi, Calderoli e altri padani - si legge nel libro - pensavano che un pizzico di coraggio, un tantino d’inventiva, un po’ di voglia di fare mischiata all’improvvisazione fossero elementi sufficienti per il successo». In realtà la vicenda, oltre ad avere tratti grotteschi, tra cui quello di 24 milioni di buste di deodorante con il sole della alpi rimaste invendute, finì molto male. Morelli, infatti, a cui fu data la presidenza dopo l’addio di Calderoli nel 1999, si ritrovò di fronte in poco tempo un debito di circa un miliardo di lire e un’azienda sull’orlo del fallimento. «Una mattina - racconta Morelli - Calderoli mi convocò nel suo ufficio chiedendomi di sostituirlo in quell’incarico. Motivò la sua richiesta col fatto che questo incarico incideva negativamente sul rapporto politico che aveva con Bossi». Del resto, quando Morelli parlò della situazione al Senatùr, Bossi non la prese affatto bene. «Mi rispose con parole di fuoco - ricorda Morelli - indirizzate contro il mio predecessore Calderoli: tuoni, fulmini e saette». Non solo. Il caso scottante è che al fallimento delle Coop è conseguita la protesta di chi quei soldi li aveva versati nelle tasche di Calderoli. Emblematica la lettera di Genesio Ferrari, ex segretario della Lega emiliana che chiede indietro i dieci milioni di lire versati anche grazie all’aiuto dei militanti: «Il tutto si è risolto in una bolla di sapone». Quanto a Castelli, si è già scritto molto. Ma il dato è comunque pesante, perché nel ’90 ci fu il boom di voti per i leghisti. Il pentito Di Bella, vicino al boss della 'ndrangheta, Coco Trovato, racconta a Nuzzi e Antonelli che la parola d’ordine tra le ’ndrine di Lecco era votare “Lega”: Gamma era il loro uomo di riferimento.

LE GRANE GIUDIZIARIE DELLA LEGA. CANDIDATI AL PARLAMENTO: ELEZIONE 13 APRILE 2008. CONDANNATI, PRESCRITTI, INDAGATI, IMPUTATI E RINVIATI A GIUDIZIO.

Fonte “Se li conosci li eviti” di Marco Travaglio e Peter Gomez.

Lega Nord (8)

Bossi Umberto: Condannato in via definitiva a 8 mesi di reclusione per 200 milioni di finanziamento illecito dalla maxitangente Enimont; condannato in via definitiva per istigazione a delinquere e per oltraggio alla bandiera; indagato e imputato in altri procedimenti penali. Il 16 dicembre 1999 la Cassazione l’ha condannato a 1 anno per istigazione a delinquere, per aver incitato i suoi, in due comizi a Bergamo nel 1995, a «individuare i fascisti casa per casa per cacciarli dal Nord anche con la violenza». Tremaglia, suo futuro collega ministro, l’aveva denunciato. Altra condanna definitiva nel 2007 a 1 anno e 4 mesi (poi commutati in 3.000 euro di multa, interamente coperti da indulto) per vilipendio alla bandiera italiana, per aver dichiarato nel 1997: «Quando vedo il tricolore mi incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo». Niente sospensione condizionale della pena, che però è coperta da indulto (che cancella anche quelle pecunarie fino a 10 mila euro): insomma, Bossi non pagherà nemmeno un euro. Inoltre ha un altro processo in corso per lo stesso reato, per aver detto, sempre nel 1997, durante un comizio: «Il tricolore lo metta al cesso, signora... Ho ordinato un camion di carta igienica tricolore personalmente, visto che è un magistrato che dice che non posso avere la carta igienica tricolore». Nel 2002 la Camera ha negato ai giudici l’autorizzazione a procedere, ritenendo le espressioni rientranti nella libera attività parlamentare e dunque coperte da insindacabilità; ma nel 2006 la Consulta ha annullato la delibera di Montecitorio, disponendo che Bossi sia processato come un comune cittadino. Il Senatùr è invece uscito indenne dal lungo processo per resistenza a pubblico ufficiale, in seguito agli scontri con la polizia che perquisiva, il 18 settembre ’96, la sede leghista di via Bellerio a Milano: condannato a 7 mesi in primo grado e a 4 in appello, Bossi s’è visto annullare con rinvio la seconda condanna dalla Cassazione, che ha disposto un nuovo processo d’appello. E qui, nel 2007, è stato assolto. Ancora aperto, invece, il processo di Verona per le camicie verdi della cosiddetta Guardia nazionale padana costituita nel 1996: Bossi, con altri quarantaquattro dirigenti leghisti, deve rispondere in udienza preliminare di attentato alla Costituzione e all’unità dello Stato, nonché di aver costituito una struttura paramilitare fuorilegge. Ma, almeno in questo caso, rischia poco o nulla: allo scadere dell’ultima legislatura, la maggioranza di centrodestra ha riformato i primi due reati (punibili ora solo in presenza di atti violenti), in modo da assicurarne la decadenza al processo di Verona. L’ennesima legge ad personam. Una volta tanto non per il Cavaliere, ma per il Senatùr. Il procuratore di Verona Guido Papalia, però, tiene duro sull’accusa residua di associazione paramilitare. Allora, nel 2007 la Camera regala l’insindacabilità ai deputati imputati, tra i quali Bossi, Calderoli e Maroni, quasi che la Guardia Padana fosse un’«opinione». A quel punto Papalia ricorre nuovamente alla Consulta con un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, come ha già fatto contro un analogo provvedimento impunitario adottato dal Senato per salvare Gnutti e Speroni.

Bragantini Matteo: Nel 2004 è stato condannato in primo grado a 6 mesi di carcere e a 3 anni d'interdizione dall'attività politica, per istigazione all’odio razziale e propaganda di idee razziste. Nell’agosto-settembre 2001 la Lega Nord di Verona aveva organizzato una campagna (“Firma anche tu per mandare via gli zingari dalla nostra città”) contro la comunità Sinta di Verona. Nelle motivazioni, i giudici di primo grado scrivono che Bragantini e i suoi 6 coimputati, fra i quali l’attuale sindaco leghista di Verona Flavio Tosi, hanno “diffuso idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale ed etnico e incitato i pubblici amministratori competenti a commettere atti di discriminazione per motivi razziali ed etnici e conseguentemente creato… un concreto turbamento alla coesistenza pacifica dei vari gruppi etnici nel contesto sociale al quale il messaggio era indirizzato”. Il 30 gennaio 2007, la Corte d’appello di Venezia riduce la pena da 6 a 2 mesi, assolvendo i leghisti dall'istigazione all'odio razziale, confermando la condanna per la propaganda razzista e i risarcimenti ai sette Sinti (2500 euro per ciascuno) e all’ente morale Opera Nomadi (8 mila euro), costituitisi parte civile. Bragantini è ricandidato alla Camera per la Lega Nord nel Veneto1.

Brigandì Matteo: Arrestato e condannato in primo grado il 24 novembre 2006 a 2 anni di reclusione dal Tribunale di Torino per truffa aggravata ai danni della Regione Piemonte (a cui dovrà risarcire 255 mila euro): avrebbe, in veste di assessore regionale al Legale, aver architettato un raggiro ai danni della Regione per regalare 6 miliardi di lire pubblici all’amico imprenditore Agostino Tocci, titolare di una concessionaria di auto di lusso, a titolo di “rimborso” per inesistenti danni subiti dalle alluvioni del 1994 e del 2000.

Calderoli Roberto: Indagato a Milano per ricettazione nell’inchiesta sulla Bpl di Giampiero Fiorani. Il quale sostiene di averlo foraggiato per garantirsi l’appoggio politico della Lega durante il suo tentativo di scalata alla Banca Antonveneta: con il suo sottosegretario Brancher, l’allora ministro delle Riforme si sarebbe spartito 200mila euro. Salvo per prescrizione nel processo per i tafferugli con la polizia nella sede leghista di via Bellerio a Milano (resistenza a pubblico ufficiale), Calderoli è scampato al processo in corso a Verona per le camicie verdi (attentato alla Costituzione e all’unità dello Stato, struttura paramilitare fuorilegge) grazie a una legge ad personam e all’insindacabilità regalatagli dal Senato (contro cui però la Procura ricorrerà alla Consulta).

Caparini Davide: Salvo per prescrizione nel processo per resistenza a pubblico ufficiale nel processo sui tafferugli con la polizia durante una perquisizione nella sede leghista di via Bellerio a Milano.

Castelli Roberto: Indagato per abuso d’ufficio patrimoniale per alcune consulenze facili al ministero della Giustizia durante il secondo governo Berlusconi, s’è salvato grazie al voto del Senato, che nel dicembre 2007 gli ha regalato l’immunità totale per i suoi presunti reati ministeriali, negando l’autorizzazione a procedere chiesta dal Tribunale dei ministri di Roma. Per gli stessi fatti la Corte dei Conti l’ha condannato a rimborsare un danno erariale di 98.876,96 euro e gliene ha contestato un altro di circa 400 mila euro.

Maroni Roberto: Condannato definitivamente a 4 mesi e 20 giorni di reclusione per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, in relazione ai tafferugli durante la perquisizione della sede leghista di via Bellerio a Milano. Maroni, prima di finire in ospedale con il naso rotto, avrebbe tentato di mordere la caviglia di un agente di polizia. Di qui la condanna a 8 mesi in primo grado, poi dimezzata in appello e in Cassazione. Maroni è anche imputato a Verona come ex capo delle camicie verdi, insieme a una quarantina di dirigenti leghisti, con le accuse di attentato contro la Costituzione e l’integrità dello Stato e creazione di struttura paramilitare fuorilegge. Ma i primi due reati sono stati ampiamente ridimensionati da una riforma legislativa ad hoc, varata dal centrodestra nel 2005, allo scadere della penultima legislatura. Resta in piedi solo il terzo.

Stefani Stefano: Indagato a Roma per concorso in truffa ai danni dello Stato e riciclaggio, ha ottenuto la richiesta d’archiviazione del procedimento perché la Procura non ha potuto usare le intercettazioni indirette che facevano sospettare qualcosa di poco chiaro nella vicenda dei finanziamenti pubblici al quotidiano «Il Giornale d’Italia». In pratica, come molti suoi colleghi parlamentari, anche Stefani è un miracolato dalla legge Boato che – prima della sentenza della Consulta del 2007 – rendeva inutilizzabili le intercettazioni in cui compariva la voce di un eletto dal popolo.

Scandalo Lega. Giulietto Chiesa  su “Il Fatto Quotidiano”: Come dicono gli oratori prolissi: sarò breve. Questa faccenda della Lega Nord mi fa venire in mente due o tre cose (tra le tante). La prima è che là dentro, nel Palazzo, il più sano ha la rogna. Voglio dire che l’intreccio delle complicità e dei ricatti reciproci fa sì che ci sia un dossier per ognuno. E che, all’occorrenza (se qualcuno rompe l’omertà) questo fascicolo vedrà la luce. Nel caso specifico la Lega, espulsa dal potere, rompeva le scatole al nuovo potere della troika. Così adesso sappiamo di quale tempra fosse forgiato quel cosiddetto “partito”. Lo sapevano tutti, lassù, nel Palazzo. Adesso è uscito il dossier. Ed è cominciata la caccia a quel serbatoio di voti che se ne va in libera uscita. Naturalmente bastava guardare quelle facce, quei gesti, quella volgarità becera, quell’ignoranza che trasudava da ogni gesto di quegli “eletti del popolo” che divennero perfino ministri del governo italiano, per capire dove eravamo arrivati. Ma ve li ricordate i giornalisti, e i politici, che nei talk show, s’inchinavano di fronte al ludibrio? Ve lo ricordate il Presidente della Repubblica che stringeva le mani a uno che si era appena pulito il culo con la bandiera tricolore, e che sputava sulla Costituzione Repubblicana?

La seconda cosa che mi viene in mente, appunto, è la straordinaria ipocrisia del sistema politico e informativo italiano. Che adesso, dopo avere espulso Bossi, gli tributa gli onori di grande leader rinnovatore. Perché lo fanno? Perché erano suoi complici nel degrado. Lo salutano rendendogli gli onori, come in un simbolico ammainabandiera. Pensano al loro tramonto, incerti se sarà nel silenzio o se dovranno scappare inseguiti dai forconi.

SCANDALO LEGA NORD: LA REAZIONE DEI LEGHISTI. Come fossi un appassionato di antropologia, analizzo la reazione allo scandalo dei leghisti (dirigenti, militanti, simpatizzanti e semplici elettori). Le risposte sono in continuo mutamento, anche in considerazione del procedere dello scandalo e del susseguirsi di notizie, ma si riescono comunque ad intravedere delle macro categorie . Ecco quelle che ho intravisto finora:

il complottista, per lui è tutto un complotto ordito dal potere imperante che, a pochi giorni dalle elezioni amministrative (ma guarda che caso!!!), tenta di colpire la lega in quanto unica opposizione. Non crede a quanto scritto dai magistrati, ma considera quest'ultimi "soldati" al servizio dei potenti. Bossi è solo un eroe sognatore e per questo viene colpito. E i poteri forti del complotto? Il governo Monti, il Sud, Roma, gli alieni, i puffi, cambia poco. Ogni complottista trova il giusto colpevole. La cosa importante è urlare a voce alta al complotto, cercando magari anche le prove per smascherare i complottisti;

l'incredulo, sono due giorni che, faccia sgomenta e smorfia di dolore scolpita sulla bocca, il nostro leghista continua a ripete: non ci credo, non è possibile. E' lì che turbina le mani dinanzi al viso, come a scacciare la dura verità. Ma è troppo difficile accettare questa verità. Troppo difficile. Per questo si rifugia in un limbo nel quale non deve porsi domande. Un limbo di incredulità nel quale non servono domande o risposte. Basta non credere alla cosa per non porsi il problema. Semplicemente non accetta la questione;

il camicio verde, è un pò che "il Bossi" lo contesta sottovoce (anche perchè in lega, almeno fino a ieri, chi contestava il "capo" a voce alta veniva accompagnato rapidamente alla porta). Almeno da quando ha smesso di parlare di fucili, secessioni, indipendenze ed altre amenità. Lui è un soldato. E un soldato è fedele alla bandiera, non al generale. Morto un generale se ne fa un altro. Fosse per lui, la secessione partirebbe domani mattina. Ma non spreca energie a dire "ve lo avevo detto che il Bossi si era rammollito". No. Risponde alla scandalo aizzando i suoi per partire alla guerra contro tutto e tutti;

il duro e puro, per lui, se qualcuno ha sbagliato, deve pagare. Fosse anche il Trota. Per lui la lega è una fede. E come per le religioni, o si crede o non si crede. Bossi deve mettersi "di fianco" (non da parte, si badi bene), ma la lotta continua. Difficile fargli notare che fino a ieri, quelli come lui dicevano che "Bossi è la lega e la lega è Bossi". E quindi, se cade il "capo", deve cadere pure la lega. Lui è duro e puro. Lui è un leghista col membro sempre in tiro. Scandalo o non scandalo, va dritto per la sua strada;

il caritatevole/compassionevole, per lui l'Umberto non è da mettere in discussione. E' la malattia che l'ha reso facile vittima del "cerchio magico". E' la malattia che non gli ha fatto capire quanto accadeva intorno a lui. E i veri delinquenti, quelli del cerchio magico, ne hanno approfittato. Inutile fargli notare che fino a ieri Bossi guidava la lega e, quella che oggi agli occhi dei caritatevoli è descritta come una malattia così invalidante per il suo intelletto, aveva già colpito il Senatur;

il barbaro sognante, finge di essere triste, ma è da un pezzo che sogna una lega guidata da Maroni. Ma bisogna essere cauti. Il rischio di prendersi del Giuda è altissimo. Ecco perchè reagisce in modo anonimo allo scandalo. Si, ogni tanto butta lì qualche frase del tipo : bisogna fare pulizia, ricominciare; ma lo fa cautamente. Tanto ormai, lo scettro della lega è in mano a chi ha gli occhiali rossi e i baffetti da impiegato del Catasto anni '50;

il veneto, lui è il più contento. Lui vuole solo la Serenissima e il Leone di San Marco e con i lombardi spocchiosi ha poco da spartire. Tosi o Zaia, basta che si torni in Veneto a sbraitare frasi sconnesse sull'indipendenza. Lo scandalo serve solo a rincarare la dose:basta con 'sti lombardi che se la tirano e ci considerano solo dei contadinotti ignoranti che spussano anca se coi sghei;

il lombardo, esattamente complementare al veneto, il lombardo però ha una carta in più. Finora la lega nord era "lombardocentrica" e questo scandalo può far perdere potere in lega alla Lombardia. Maroni non è che lo esalti (nonostante le apparenze, Bobo è troppo berluschino), ma almeno è varesotto. Bisogna serrare i ranghi intorno a Bobo. E i veneti fa mia i barlafus!

la pasionaria Giovanna "Brambilla" D'arco come la pulzella d'Orleans, anche la "sciura Maria" ha le visioni. E le sue visioni hanno il volto dell'Umberto di 20 anni fa, lontano anni luce da quello sofferente di oggi, con lo spadone dell'Alberto in mano, ad indicare la strada. Lo scandalo? Niente è più importante della missione dell'Umberto. Se davvero ha rubato, poco importa.Lui è la guida, il condottiero, il sogno di libertà. Lui può anche rubare. Lui ha quasi dato la vita per la Lega e niente e nessuno potrà metterlo in discussione. E poi c'è la battaglia di Lepanto da rievocare.....;

il "solato", sono 20 anni che si dedica anima e corpo al sogno leghista. Sono 20 anni che si beve tutte le promesse urlate dal palco di Pontida. Ha investito anche soldi nella lega. Ha creduto a tutto. Ora deve affrontare la dura realtà. L'hanno fottuto. L'hanno fregato. Gli hanno dato una "sola" colossale. Una "sola" lunga più di 20anni. E con chi se la deve prendere? Ma non è arrabbiato con Bossi. E con se stesso che se la prende. Si copre il viso. Non basta dire "per me la Lega non rappresenta più niente". Non basta strappare la tessera del partito. E' della sua vita che sta parlando. E lui alla Lega ci ha creduto davvero. Si è preso del razzista, dell'ignorante, del barbaro, dello xenofobo. Si è pure messo le corna celtiche sul prato di Pontida. Come può ora dimenticare tutto? Si odia;

il nostalgico depresso, che bei tempi quelli. Le lacrime gli solcano il viso, scivolando lentamente però. Non sono lacrime di disperazione. Sono lacrime di nostalgia. Più salate. Più lente. Più dolorose e profonde. Quante "polentate" a cantare contro "Roma Ladrona", quanto orgoglio addentando la salamella appena cruda o carbonizzata, mentre si cercava di ricordare quella canzone cantata dagli alpini. Quanta vita trascinata via dal tempo. Quanti sogni, quante speranze. Il futuro è cupo. Meglio allora prendere un bicchiere di rosso corposo, solo un pò legnoso, e tentare di fermare le lacrime asciugandole con i ricordi. Il futuro è nel passato. Un passato che non tornerà. Per questo si deprime. Quant' era verde (padano) la mia valle....Molte altre "figure" si stagliano nell'orizzonte dello scandalo, e molte altre reazioni si paleseranno.

Nessuno però ancora ha detto le paroline magiche che noi non leghisti vorremmo sentire:

I SOLDI CHE HAN RUBATO, SONO SOLDI ITALIANI E VANNO RESTITUITI.

PARLIAMO DI MASSONERIA

La Massoneria. Erede di misteriose società segrete avvolte nella leggenda, come il Priorato e i Rosacroce, è considerata un’organizzazione di sicura esistenza anche oggi. Non è ben chiaro, però, se questa società sia da vedersi come un’erede di quelle del passato, o piuttosto come un altro volto della medesima organizzazione, perseguente sempre gli stessi scopi, ma con rituali differenti. L’origine della Massoneria sembra da collocarsi in età moderna, quando, nel 1717, la Grande Loggia dei Massoni di Londra rese pubblica la sua esistenza. Ma ci sono diverse prove che la società esistesse già precedentemente: nel 1646 l’antiquario Elias Ashmole fu iniziato alla Massoneria, mentre una poesia di Henry Adamson del 1638 vi fa riferimento. Ma ci sono anche teorie che ne fanno risalire la fondazione all’epoca antica e che costituiscono la “Leggenda della libera Muratoria”. Essa si basa su documenti pubblicati nel 1800, che collegano la Massoneria alla costruzione del Tempio di Salomone, considerato il primo Gran Maestro. L’origine della società si fa anche ricondurre ai Templari, essendo stati ritrovati simboli massonici su pietre tombali in loro castelli. Quindi, ancora una volta, l’Ordine del Tempio, che dovrebbe essere stato il supremo difensore della fede, viene messo in relazione con un gruppo dalla religiosità discutibile. I massoni, infatti, credono in una suprema divinità, che però non si specifica chiaramente se sia un dio cristiano oppure no, visto che vengono accolte persone di tutte le religioni. Nel 1738, papa Clemente XII emanò una bolla in cui proibiva ai cattolici di aderire alla Massoneria, situazione che cambiò solo nel 1976.

La Massoneria prevede un rigido rituale, a cui deve attenersi chi vuole accedere ai diversi gradi, il cui simbolismo è riassunto in alcune Tavole illustrate, nelle quali sono sempre presenti i simboli fondamentali, riconducibili alla geometria e all’architettura: il Libro Sacro, la squadra, il compasso. L’aspirante al Primo Grado è detto Apprendista e deve essere bendato, indossare un abito di lino, con un cappuccio e un cordone intorno al collo (possiamo scorgere un’analogia con il cordone usato nella cerimonia d’iniziazione dei Templari). L’apprendista deve anche giurare di non rivelare mai i segreti che gli verranno svelati, altrimenti incorrerà in una terribile pena: aver la mia gola tagliata, la mia lingua strappata alla radice, e il mio corpo sepolto nelle ruvide sabbie del mare al limite della bassa marea. Sembra che questa minaccia non sia mai stata messa in atto, ma serve comunque a definire il sapere della Massoneria come esoterico.

La Tavola del Primo Grado comprende una rappresentazione del Sole e della Luna, a sottolineare l’importanza del concetto di dualismo che governa l’universo. Di rilievo sono le due colonne, corinzia e dorica, che rappresentano il passaggio dell’Apprendista verso un altro stato, e  che pare siano quelle del Tempio di Salomone, chiamate Jachim (lo spirito attivo e creativo, ed anche la conoscenza) e Boaz (lo spirito passivo e riflessivo, ed anche l’ignoranza), i due giganti che sorreggono le colonne d’Ercole.

Nella Tavole del Secondo Grado, a cui accede chi è diventato Compagno, le colonne sono cave e possono contenere documenti segreti (ci viene in mente l’abate Saunière che a Rennes-le-Château forse trovò delle pergamene in una colonna cava). Vi è, inoltre, la rappresentazione della scala di Giacobbe che sale verso il cielo (anche nella chiesa di Rennes troviamo un richiamo a Giacobbe tramite le parole sul timpano d’entrata Terribilis est locus iste).

Le Tavole del Terzo Grado, con cui si diventa Maestro, mostrano la simbologia che accompagna uno strano rituale: viene mimato l’assassinio da parte di tre cospiratori dell’architetto del Tempio, Hiram Abif, e l’iniziato riceve tre colpi, simbolici, sul capo. I simboli che si ritrovano sulle Tavole si addicono ad un fatto di sangue: una bara e il “Teschio” ossia un teschio su due femori incrociati.

Ci sono tantissimi luoghi nel mondo dove è possibile trovare nell’architettura simboli massonici. Ad esempio la cappella di Rosslyn in Scozia, già sito prediletto dai cercatori del Santo Graal: due colonne sembrano essere quelle del Primo Grado, un’immagine di una testa ferita ricorda l’uccisione di Hiram, una scultura sembra rappresentare un Templare che amministra riti massonici. Sembra che i massoni abbiano partecipato alla progettazione di intere città, come Washington D.C., progettata seguendo viali diagonali, che formano triangoli e che sono allineati secondo eventi astronomici. Il viale diagonale principale, infatti, è la Pennsylvania Avenue, che pare allineata secondo tale evento: la sera del 10 agosto il sole tramonta esattamente alla fine del viale, mentre mezz'ora più tardi nello stesso punto tramonta una costellazione che include quella della Vergine. Intorno a questa costellazione c'è un triangolo rettangolo formato dalle stelle Regolo, Arturo e Spica, che ricalca quello formato da Pennsylvania Avenue, il Mall (vasto viale diretto ovest verso il fiume) e una linea che passa lungo il Monumento a Washington. Innegabile è l'influenza della Massoneria nella storia degli Stati Uniti, essendo massoni gran parte dei firmatari della Dichiarazione d'Indipendenza ed essendo lo stesso Washington membro della Loggia Alexandria. Il monumento a Washington è costruito sul modello di un obelisco egiziano, simbolo molto usato dalla Massoneria; una statua dedicata al presidente Garfield mostra uno zodiaco; il Gran sigillo degli Stati Uniti (quello che si vede sul dollaro) raffigura una piramide sormontata dall'Occhio-che-Tutto-Vede. Anche molte associazioni universitarie utilizzano un simbolismo massonico: il più lampante esempio è la confraternita Teschio e Ossa di Yale, della quale fecero parte molti politici e personaggi in vista, tra i quali George H. W. Bush e George W. Bush. Esiste una città vicino a noi che sembra nascondere tra le sue vie ed i suoi monumenti chiari riferimenti massonici, Torino.

Il capoluogo torinese è notoriamente considerato un “città magica”, dove proliferano le sette e i sedicenti maghi. Torino sarebbe, infatti, un omphalos primordiale, un centro d’irradiazione di energia tellurica e spirituale, sorgendo su un nodo geomantico, cioè in un punto d’intersezione tra correnti enrgetiche dette leys (le stesse dove potrebbero essere sorti i luoghi di culto delle civiltà antiche, specialmente quelli dedicati alla Dea Madre). Torino farebbe, dunque, parte di un doppio triangolo magico, i cui vertici sarebbero altre città magiche del mondo: Lione, Praga, Londra e San Francisco. A Torino sono segnalati da chi si diletta di magia ed occultismo 33 punti magici, negativi e positivi. Il punto di maggiore positività si situa in piazza Castello, dove si trova la meridiana astrologica sulla prima colonna di destra del Duomo e la cancellata della Piazzetta Reale su cui sono rappresentati i Dioscuri, simboli dell’opposizione tra luce e tenebre, Sole e Luna, secondo un dualismo caro ai massoni. Il punto di maggiore negatività sarebbe Piazza Statuto, rivolta ad Ovest, dove si eseguivano le condanne capitali. Nella storia di Torino è anche rilevante il legame con l’Egitto, i cui simboli si ritrovano in alcuni rituali massonici: la città sembra, infatti, aver dato asilo al principe eretico Eridano, che avrebbe scelto questo sito per fondare una città nel XV secolo a. C., perché il Po gli ricordava il suo Nilo. Anche il nome stesso della città potrebbe essere di origine egizia, ricollegandosi al culto del Toro sacro di Menfi. La chiesa della Gran Madre di Dio (indicata come uno dei luoghi del Santo Graal) si dice sia stata costruita sulle rovine di un antico tempio di Iside. Vi è, inoltre, in Piazza Solferino, un’opera d’arte palesemente ispirata dal simbolismo massonico, la Fontana Angelica. Essa era stata progettata per essere collocata davanti al Duomo, mentre nella posizione attuale ha perduto parte del suo significato simbolico, non essendo rivolta ed est. Le statue rappresentano due figure maschili, l’Autunno e l’Inverno, che si possono identificare con Jaquim e Boaz. Essi versano l’acqua da due otri, uno a forma d’Ariete, l’altro d’Acquario. L’acqua rappresenta la conoscenza, mentre l’Ariete è il Vello d’Oro cercato dagli Argonauti, ma anche la trasformazione della materia verso la perfezione (la Massoneria è considerata depositaria di segreti alchemici); l’Acquario, invece, rappresenta l’Era dell’Acquario a cui deve tendere l’umanità. Le  due figure maschili, però, possono anche rappresentare la divinità egizia Osiride, e allora quelle femminili, la Primavera e l’Estate sarebbero la sua compagna Iside. Se poi ci si pone di fronte alla fontana si vedrà che tra l’Autunno e l’Inverno si apre un varco: quello che l’iniziato deve attraversare per giungere alla vera conoscenza. Ecco che una città dalle antiche tradizioni di magia è stata eletta da una società segreta come luogo privilegiato per esprimere i propri riti e forse svelare i propri segreti all’attento osservatore.

La Massoneria in Italia. Essa visse stentatamente fra le persecuzioni fino alla occupazione napoleonica. Si ha notizia dì qualche Loggia in Firenze, Napoli, Torino, Cremona e Milano. Il 5 marzo 1805 si costituì in Milano il primo Supremo Consiglio d'Italia, ad opera dei fratelli massoni Francesi di 33° Grado, appartenenti alla Armata Napoleonica, e furono eletti a Sovrano Gran Commendatore il Viceré d'Italia Principe Eugenio Beauharnais e Gran Cancelliere il Principe Gioacchino Murat. Nel 20 giugno dello stesso anno si formò il Grande Oriente d'Italia, pure in Milano col quale si fusero le Logge Francesi del Grande Oriente e della Divisione Militare del Regno d'Italia. Nel 1806 furono pubblicati gli Statuti della Franca Massoneria in Italia ed i Rituali dei primi tre Gradi; nel 1809 la Costituzione Generale del Grande Oriente in Italia; nel 1812 una nuova edizione degli Statuti, da cui derivano gli Statuti generali del Rito Scozzese Antico ed Accettato, stampati in Napoli; nel 1820 ed ancor oggi in uso.

Dal 1806 al 1808 si ebbero nell'Italia settentrionale più di 30 Logge, composte dai migliori elementi della società del tempo, tra i quali il filosofo RomagnosiVincenzo Monti, ed il musicista Paganini. Nei documenti ufficiali Napoleone era chiamato " Potentissimo Fratello Protettore dell'Ordine".Nel 1808 si costituì il Grande Oriente di Napoli con Gioacchino Murat Gran Maestro; l'anno successivo fu fondato il Grande e Supremo Consiglio per le due Sicilie dei Potentissimi Grandi Ispettori Generali, con sede in Napoli e Murat Sovrano Gran Commendatore. Il Colletta riferisce che nel 1813 la Massoneria meridionale contava 94 Logge. Caduto Napoleone, il Supremo Consiglio di Milano si sciolse, mentre continuò il fervido lavoro segreto delle Logge nell’Italia meridionale. Dopo il 1848 sembra che vi fosse in Torino uno Supremo Consiglio, che però non fu molto attivo fino al 1862; nel 16 dicembre di quell'anno si costituì in Torino un Concistoro del 32° Grado, che funzionò fino al 1866, anno in cui si ebbe un Supremo Consiglio per l'Italia, che continua il suo lavoro ancora nel 1883. Nel 1861 la Massoneria funzionava ancora in Napoli, ove la Loggia "Sebezia" assumeva il titolo di Gran Loggia Madre per affermare la sua diretta discendenza dal Supremo Consiglio di Napoli; a Palermo si creavano altre due Massoneria, una delle quali si fondeva con il Supremo Consiglio di Torino nel 1867, è l'altra nel 1862 eleggeva alla carica di Sovrano Gran Commendatore Giuseppe Garibaldi.Divenuta Firenze capitale del Regno, nel 1864 molti membri della Supremo Consiglio di Torino vi si trasferirono; ivi veniva fondato nel 1869 un nuovo Supremo Consiglio, che nel 1872 si trasferiva a Roma. In tale data veniva nominato Sovrano Grande Commendatore Giorgio Tamayo. Nel 1863 la situazione della Massoneria italiana era la seguente: un Supremo Consiglio a Torino con a capo il Generale Milbitz, un Supremo Consiglio a Firenze con a capo Francesco De Luca, un Grande Oriente a Napoli, un Supremo Consiglio a Palermo. Una ispezione del Potentissimo Fratello Albert G. Goodall del Supremo Consiglio di Boston dichiarava illegittimi i Supremi Consigli di Palermo e di Firenze, e regolare il solo Supremo Consiglio di Torino, cui spettò di partecipare al Congresso di Losanna del 1875. Circa nel 1869 il Grande Oriente di Napoli si fondeva con il Supremo Consiglio di Torino, nel 1875 auspice Giuseppe Garibaldi si fondevano i Supremi Consigli di Roma e di Torino, creandosi un nuovo Supremo Consiglio per l'Italia con sede a Roma, al quale aderiva nel 1876 il Supremo Consiglio di Palermo. Ma varie vicende, specie per il fatto di dover trasferire la sede a Roma, rompevano l'accordo; però nel 1879, per iniziativa di alcuni Supremi Consigli esteri tutti i fratelli italiani di 33 Grado, convocati a Roma, creavano il Supremo Consiglio per l'Italia ed il nuovo Sovrano Gran Commendatore nella persona di Giorgio Tamayo. Però la Massoneria piemontese si tenne ancora in disparte, cessando di essere regolare. La fusione completa avveniva poi nel 1887 per opera di Adriano Lemmi, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia in Roma: morti nel 1895 il Riboli di Torino è nel 1897 il Tamayo di Roma, veniva nominato Sovrano Gran Commendatore della Massoneria italiana il Lemmi, che tenne la carica fino alla sua morte, avvenuta nel 1906. Dopo il 1860, parallelamente al Rito Scozzese, e sul tipo della Massoneria francese, si era formata in Italia una Grande Loggia Simbolica, che non riconosceva Gradi superiori al 3°. Ne furono Grandi Maestri Costantino NigraGiuseppe GaribaldiFrancesco De Luca, e il Marchese CordovaAdriano Lemmi si adoperò perché il Rito Scozzese ed il Rito Simbolico si riunissero, delegando i due poteri ad un Grande Oriente d'Italia per la sovranità sulle Logge; il patto potè dirsi perfetto nel 1882 quando Adriano Lemmi, già Sovrano Gran Commendatore, fu eletto anche Gran Maestro del Grande Oriente. Morto Adriano Lemmi nel 1906, gli succedevano come Gran Maestro Ettore Ferrari e come Sovrano Gran Commendatore Achille Ballori, il quale aveva come Luogotenente Saverio Fera. Nel 1908 la Massoneria si divise in due a causa di un conflitto sorto, essendo un gruppo di Deputati al Parlamento stato minacciato di espulsione per non essersi schierato con sufficiente energia circa un progetto di Legge sulla laicità dell'insegnamento. In sostanza, si contestava la inopportunità dell'intervento ed il diritto del Gran Maestro E. Ferrari di imporsi sulla coscienza dei massoni Deputati in questioni politiche e religiose che non toccavano direttamente l'Ordine. Perciò il Supremo Consiglio, quale tutore della regolarità delle Rito Scozzese, minacciò di demolizione il Grande Oriente. Il Sovrano Gran Commendatore A. Ballori in un primo momento si schierò contro E. Ferrari, ed in secondo tempo si alleò a questi avendo contro di sé tutto il Supremo Consiglio, lasciò la carica al Luogotenente Saverio Fera. Questi creò allora secondo gli Statuti Scozzesi una Gran Loggia Nazionale d'Italia, di cui venne nominato Gran Maestro. Si ebbero così due Massonerie, che dalle rispettive sedi furono dette Piazza della Gesù (Fera) e di Palazzo Giustiniani (Ballori). Una ispezione allora a nome dei vari Supremi Consigli Esteri ed a mezzo del Potentissimo Fratello Belga De Paepe riconobbe regolare la prima, tale decisione venne confermata dalla Conferenza di Washington del 1912; così nel mentre la Massoneria regolare di Piazza del Gesù rimaneva federata con le 56 Potenze massoniche di Rito Scozzese, quella di Palazzo Giustiniani rimaneva collegata con alcuni Grandi Orienti irregolari, fra i quali il Grande Oriente di Francia e la Gran Loggia Simbolica di New York. Morto Saverio Fera, furono Gran Maestri della Massoneria Scozzese Italiana i Sovrani Gran Commendatori Leonardo RicciardiWilliam Burgess e Raoull Vittorio Palermi. La posizione delle due Massoneria venne definitivamente regolata dalla Conferenza di Losanna del 1922 il delegato di Palazzo Giustiniani non venne ricevuto, perché ritenuto irregolare, e Raoul Vittorio Palermi, delegato di Piazza delle Gesù, fu nominato Presidente della prima Sezione, ottenendo il riconoscimento da parte di tutti i Supremi Consigli rappresentati alla Conferenza, della sua regolarità. Tra il 1919 ed il 1922 le due Massoneria presero posizione contro i movimenti estremisti, che avevano fatto piombare il Paese nell'anarchia. Giunto al potere Benito Mussolini, con un programma costruttivo di disciplina nazionale, tanto il Palermi, che Domizio Torrigiani Gran Maestro di Palazzo Giustiniani, gli resero pubblico omaggio, e malgrado il divieto fatto ai fascisti di essere massoni, tutti gli uomini più eminenti delle fascismo erano iscritti a Logge dell’una o dell'altra parte. A causa del delitto Matteotti e del discorso del 3 gennaio 1925, la Massoneria assunse verso il regime un atteggiamento di aperta sfiducia: mentre però il Torrigiani si chiuse in una rigida opposizione, il Palermi cercò di salvare il salvabile; ma nulla potè conseguirne, infatti fu promulgata la legge 20 novembre 1925 contro le Società Segrete. Ma la Massoneria non era morta: gruppi di massoni si tenevano in contatto nelle varie città. Alla fine del conflitto bellico le Logge servirono a far divampare la Sacra fiamma massonica che, sopita ma non spenta, brilla di luce antichissima: essa potrà e dovrà di nuovo riverberarsi nella vita italiana, riportare il contributo dello splendore dello Scozzesismo alla ricostruzione della Patria ed al suo ritorno nel Consesso delle Nazioni.

Torino capitale, covo di massoni. La città incarna le ragioni del laicismo contro quelle della chiesa. Dopo la fine del sogno rivoluzionario quarantottino, a decine di migliaia gli esuli della libertà vanno a Torino, nuova e impensabile capitale italiana. Impensabile è la parola giusta: da sempre la classe dirigente torinese ha avuto il francese come eloquio privilegiato, esclusivo per le buone occasioni. Non è un caso che Cavour abbia fatto esercitazioni di italiano prima di affrontare i dibattiti in Parlamento. Torino diventa la capitale morale d’Italia facendo proprie le ragioni del mondo civile contro quelle della barbarie medioevale, incarnate dalla Chiesa cattolica. Non solo: Torino diventa Gerusalemme. Il Paragone non sembra ardito a Roberto Sacchetti: "Torino saliva allora al colmo del suo splendore. Era stata forte e diventava grande - bella, balda di una gioia viva e seria come una sposa a cui preparano le nozze. La Mecca d’Italia diventava la Gerusalemme". A Torino, nuova capitale morale e religiosa d’Italia, si trasferiscono, e non può che essere così, tutti i liberal-massoni (Free-Mason, Franc-Maçon, Libero-Muratore, liberalismo e Massoneria sono nell’Ottocento praticamente sinonimi) del resto d’Italia. I regnanti sardi offrono ai "fratelli" italiani un’accoglienza tanto calorosa da riservare loro (a tutto discapito dei locali) alcuni dei posti più prestigiosi nelle università, nei giornali, nella diplomazia, nello stesso Parlamento. Ecco come il siciliano Giuseppe La Farina, una delle più eminenti personalità massoniche emigrate a Torino, racconta l’accoglienza riservata agli esuli in una lettera alla "carissima amica" Ernesta Fumagalli Torti, spedita il 2 giugno 1848. "Arrivati appena a Torino - scrive - stavamo spogliandoci, quand’ecco il popolo preceduto da bandiere venire sotto le nostre finestre, e farci una dimostrazione veramente magnifica. Mi affacciai alla finestra, ringraziai; fui salutato con mille prove ed espressioni d’affetto. La mattina seguente, dopo essere stati da’ ministri, ritorniamo a casa; e dopo un momento, chi viene a visitarci? Tutta la Camera de’ Deputati col presidente. Onore insigne, che i parlamentari non sogliono concedere né anco ai propri re". L’accoglienza "regale" offerta alla generosa emigrazione italiana, permette ai Savoia di incassare un importante obiettivo politico: li rende preziosi e credibili alleati degli stati che contano. Offre garanzie ai liberali - protestanti e massoni di tutto il mondo - che sono intenzionati a fare sul serio. Che hanno davvero deciso di rompere con la tradizione cattolica del proprio stato e della nazione cui quello stato appartiene. I Savoia per amore di regno e quindi per furto - come scrive D’Azeglio nei suoi ricordi - diventano fautori dell’ideologia massonica e della religione protestante che apertamente combattono la cultura e la religione nazionali. Grazie a questa scelta strategica che rende il Piemonte docile feudo della cultura inglese, americana, tedesca, di parte del Belgio e dell’imperatore Napoleone III, i Savoia godono dell’appoggio incondizionato dell’una o l’altra di queste potenze e realizzano l’unità d’Italia sfruttando fino in fondo e con grande spregiudicatezza l’unico elemento in proprio favore: la radicale disomogeneità culturale e religiosa con il resto della penisola.

L’anima massonica del regno sardo, e in particolare del Parlamento subalpino, viene mai apertamente alla luce? No, perché l’associazione è pluri-scomunicata e perché il primo articolo dello Statuto vincola i parlamentari all’ossequio della fede cattolica definita religione di stato. L’11 novembre 1848, però, un brillante intervento del deputato Cavallera rende palpabile la "fraternità" quasi come l’aria che si respira. Si sta discutendo di sollevare le finanze dello stato, esauste per la campagna militare, ricorrendo all’esproprio e alla vendita dei beni delle corporazioni religiose. Contrario alla proposta Cavallera fa un discorso brevissimo, allusivo, singolare e sintomatico insieme, che dopo un primo momento di sconcerto suscita la generale ilarità. Ecco le poche battute del curioso intervento. Gli ordini religiosi - osserva il deputato - sono nati in Italia dove esistono da "più di dodici secoli". Bisogna dedurne che "necessariamente corrispondono ad un bisogno reale della società (rumori) [chiosa degli Atti del Parlamento subalpino]; e per conseguenza se si volessero abolire, altre se ne dovrebbero sostituire; infatti i moderni che vollero abolire i frati, vi sostituirono un’altra specie di frati: e cosa sono i circoli politici, se non vere fraterie? (Sorpresa e scoppio generale di risa prolungate). Perciò posto che non si sa stare senza frati, ai moderni preferisco gli antichi (Segue ilarità e mormorio di voci diverse)".

Da tanto alto lignaggio e nobiltà si arriva a delle bassezze assurde.

Si auto-annulla una multa,indagato viceprefetto. Secondo “Libero Quotidiano”, alla guida senza assicurazione e libretto di circolazione fa ricorso contro la contravvenzione. Poi firma di suo pugno l'archiviazione. Ha fatto tutto da solo il viceprefetto di Torino Roberto Dosio: ha preso una multa, ha fatto un ricorso e lo ha accolto cancellandosi la contravvenzione. Tutto nei suoi poteri. Ma per il pm di Torino, Andrea Paladino è abuso d'ufficio: non avrebbe dovuto giudicare se stesso. E così è stato denunciato. Secondo la ricostruzione degli inquirenti il 27 di maggio, durante un normale controllo, la Polizia stradale fa due   contravvenzioni al vice prefetto, trovato alla guida dell’auto del   padre senza tagliando dell’assicurazione e sprovvisto del libretto di   circolazione: 78 euro il totale da pagare. Lui però il 14 giugno   presenta ricorso eccependo "ragioni di sicurezza e emergenza, come   previsto dall’art. 4 della legge 689 del 1981". Ragioni alle quali a sua volta si oppone la Polstrada sostenendo che l'occasione non rientrava nell'applicazione di quella legge. Il 28 settembre però la sorpresa: il ricorso, accolto e archiviato, porta in calce proprio la firma del vice prefetto intestatario delle multe. Poco dopo scatta la denuncia della Polizia stradale. A quanto si apprende l'uomo si sarebbe giustificato dicendo di aver trattato il suo ricorso "con gli stessi criteri usati per gli altri cittadini".

Il viceprefetto: "Mi sono tolto la multa ma è stata una scelta trasparente". Dosio ha accolto il suo stesso ricorso, per due contravvenzioni al codice della strada: "Ero io che in quel momento avevo la delega e dovevo decidere. Potevo disturbare il mio superiore per una mia questione personale, ma non sarebbe stato corretto". Ha detto a Sarah Martinenghi di “La Repubblica”. Ora è indagato.

Viceprefetto Roberto Dosio, lei è indagato per abuso d'ufficio per una vicenda davvero insolita: dopo essersi preso due multe, ha fatto ricorso a se stesso. E da solo ha estinto le contravvenzioni. Non è un po' strano?
«Mi rendo conto, ma del resto ero io in quel momento che avevo la delega e doveva decidere sui ricorsi. Ho ritenuto che non ci fosse nulla da nascondere...»

Ma non poteva trovare un'altra soluzione?
«Io ho ritenuto che fosse giusto agire così. L'ho fatto proprio perché non c'era nulla da nascondere: è stata una scelta di stile e trasparenza».

Può spiegarsi meglio?
«Beh, avrei potuto far passare 210 giorni dalla presentazione del ricorso, avrei potuto attendere il periodo di ferie di un collega, o disturbare il mio superiore per una mia questione personale.. ma non sarebbe stato corretto. Non volevo ricorrere a sotterfugi. Ho seguito la procedura operando una scelta di trasparenza, coerenza e responsabilità».

Scusi, ma è legittimo archiviarsi una multa? Posto che il ricorso sia fondato, ovviamente...
«E' una cosa pienamente legittima perché il potere di archiviazione deriva dalla titolarità stessa dell'ufficio attribuita direttamente dal Prefetto. Io avevo il potere di firma».

Veniamo invece al merito del ricorso: perché erano ingiuste quelle multe?
«Io quel giorno ero a casa, ho ricevuto una telefonata e sono dovuto uscire per andare a firmare delle memorie davanti al giudice di pace. Ho preso l'auto di mio padre, non sapevo fosse priva di documenti».

Secondo la Polizia Stradale le ragioni di "emergenza e sicurezza" che lei ha addotto non contemplano il fatto di non aver avuto assicurazione e libretto.
«L'interpretazione della prefettura prevale su quella dell'organo accertatore: i fatti attestano che mi stavo spostando per necessità inerenti al servizio che vengono comunemente ritenuti sufficienti per invocare le esimenti dell'articolo 4. Non ritengo che ci siano estremi penali».

Però la procura l'ha indagata per abuso d'ufficio. Che idea si è fatto di questa vicenda?
«Credo che di fondo possa avere infastidito la linea garantistica che ho seguito nella direzione dell'ufficio, affinché le motivazioni dei cittadini potessero essere valutate in profondità e secondo legge. Nella realtà ho coniugato trasparenza e legalità individuando una linea di equilibrio rispetto ai Giudici di Pace, notoriamente meno restrittivi della Prefettura. E ho evitato di appiattirmi sulle interpretazioni notoriamente restrittive degli organi accertatori. Il cittadino deve potersi fidare della Prefettura e del fatto che le giuste motivazioni vengano accolte».

PARLIAMO DI MAGISTRATI.

INTERDIZIONE GIUDIZIARIA: INCAPACI O RICCHI DA SPOLPARE?!?

Luigia Padalino: «Messa a tacere perché ricercavo la verità».

Inchiesta in pdf: messa a tacere perché ricercavo la verità.

ITALIA MALATA - QUANDO I "BUONI" TRADISCONO.

Il procuratore chiedeva tangenti. Arrestato Marabotto: 30% su false consulenze.

Come racconta "La Stampa" Giuseppe Marabotto era scampato a un primo processo per un serio reato (aveva rivelato a un indagato che il suo telefono era sotto controllo). Chiacchierato da molti anni e divenuto procuratore di Pinerolo, ha costruito in una tranquilla periferia giudiziaria un regno personale e il malaffare perfetto per chi, come lui, si sentiva impunito stando dalla parte della legge: 11 milioni di euro sottratti allo Stato sotto forma di consulenze fiscali seriali ed inutili ai fini di azioni giudiziarie. Si sapeva dal 2005. Si sa anche che i commercialisti e consulenti della procura restituivano a un suo collettore il 30 per cento. «Ci sono spese da sostenere» veniva detto loro. In tre hanno confessato. Pesanti le accuse: corruzione, associazione per delinquere, truffa aggravata ai danni dello Stato.

Il magistrato, che in questi anni da indagato è riuscito prima a farsi trasferire alla Corte d’appello di Genova e ad andare poi in pensione, è stato arrestato e portato da Torino nel carcere di Pavia insieme al commercialista Ruggero Ragazzoni. Gli altri due ammanettati di giornata, il professionista Mario Emanuele Florio e il ginecologo, medico legale anche per pm torinesi e collettore delle tangenti, Dario Vizzotto, sono stati destinati al carcere di Opera. Ma il secondo a sera era ancora in procura, a Milano, interrogato su richiesta del suo legale (Mauro Anetrini). Tirava aria di confessione.

Le 106 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare del gip Stefania Donadeo danno conto della «palingenesi» del procuratore e del giro di commercialisti che aveva radunato: 27 sono indagati, tre notissimi a Torino (Alberto Ferrero, già candidato per Forza Italia alla presidenza della Provincia) e i due arrestati, Ragazzoni storicamente vicino alla sinistra, tutti e due ex revisori dei conti del Comune di Torino. Con la regia esterna di Vizzotto, Marabotto costruiva terne di consulenti per moltiplicare l’ammontare delle risibili consulenze contabili: migliaia fra il 2001 e il 2005. Solo in due anni intermedi fece controllare, si fa per dire, 375 società del Pinerolese. Lo Stato pagava (30 mila euro, più Iva, a botta) e il procuratore archiviava. L’importante è che girassero carte e soldi.

Questo scandalo è stato bloccato nel 2005 da alcuni pm torinesi: un’ispezione ministeriale aveva registrato l’«anomalia», sicché il procuratore fu costretto a iscrivere alcuni dirigenti di società nel registro degli indagati malgrado non avesse in mano niente e ad inviare gli atti, in alcuni casi, ad altri uffici giudiziari per competenza territoriale. A Torino si accorsero dell’«irritualità» di quei fascicoli e misero in moto la procura milanese. Un giudice e un pm di Pinerolo hanno messo a verbale i loro sospetti. Perquisizioni, avvisi di garanzia, e nient’altro. Sino al settembre scorso, quando, dopo una segnalazione dell’Agenzia delle Entrate alla procura torinese su uno studio di commercialisti che evadeva le imposte, emerse che quei professionisti avevano deciso di pagarle solo sul 70 per cento delle parcelle, quanto restava loro.

Marabotto a uno dei suoi: «Ho già preparato una lettera al Comando generale della Guardia di Finanza dicendo che è vergognoso che vadano a fare indagini che riguardano compensi, e che quindi chiamano in causa il modo di agire della Procura... che vengano affidate a persone talmente incompetenti... per cui lo stesso procuratore deve spiegare a un deficiente di maresciallo come stanno le cose». Le intercettazioni svelano il mondo particolare di Marabotto che faceva arrestare gente spessa - in questo caso dei marocchini con un negozio di abbigliamento a Pinerolo - e poi ne diventava amico. Tanto che questi gli propongono di comprare una collina in Marocco. Il denaro non gli mancava. E si sentiva al sicuro. Donatella Giovannini, fra i professionisti che hanno rivelato il sistema Marabotto, ha rivelato che il procuratore aveva detto a Vizzotto: «I soldi li ritiri tu, così in galera ci vai tu».

Arrestato per corruzione l'ex procuratore di Pinerolo Giuseppe Marabotto. Negli anni '80 era stato protagonista di diverse indagini sul mondo del calcio. Ospite fisso per stagioni al "Processo" di Biscardi, nel 1986, quando era sostituto procuratore a Torino, è stato titolare della seconda inchiesta calcistica su un giro di scommesse illegali che, sul piano sportivo, portò alle penalizzazioni dell'Udinese in serie A, di Perugia, Lazio e Vicenza in B nonché alla squalifica di 27 calciatori.

L'inchiesta della procura di Torino che ha portato al provvedimento per lui e altre tre persone è iniziata diversi mesi fa. Le Fiamme Gialle si erano concentrate su un giro di consulenze (pagate in tutto una dozzina di milioni di euro in tre anni) che Marabotto affidava a un gruppo di professionisti: gli accertamenti sulle aziende di Pinerolo venivano condotti "a modello 45", vale a dire senza notizia di reato. Quando trapelò la notizia dell'inchiesta, l'allora procuratore spiegò che il suo modo di procedere poteva permettere all'Erario di recuperare cospicue somme di denaro.

Nel 2006 il magistrato era finito nelle intercettazioni telefoniche disposte dai pm di Napoli per l'inchiesta su Calciopoli. Aveva - secondo l'accusa - chiesto aiuto al direttore generale della Juventus Luciano Moggi per il buon esito di un'ispezione negli uffici di Pinerolo, disposta dall'allora ministro della Giustizia Castelli. Una interpretazione che Marabotto aveva respinto con sdegno e stupore: "Macché imbonire - si era difeso -, la mia era una telefonata scherzosa con la quale presentavo Moggi a un ispettore ministeriale, sfegatato tifoso bianconero, un ispettore venuto a Pinerolo per controllare dati informatici, non certo per esaminare il mio operato".

Sul piano disciplinare il caso è stato archiviato dal plenum del Csm, ma Armando Carbone, l'uomo che nell'86 truccò gran parte delle partite allora sotto inchiesta, due anni fa davanti ai magistrati di Napoli ha messo a verbale: "Grazie all'inchiesta di Marabotto negli anni '80 è stato affossato il sistema di Italo Allodi per consentire a Luciano Moggi di diventare il nuovo burattinaio del calcio. Marabotto indagò a senso unico zittendomi ogni volta che parlavo della corruzione di Juventus e Torino. Insieme al sostituto Laudi, prestato all'ufficio inchieste della Federcalcio, Marabotto fu strumento di Moggi nello scandalo dell'86". Di tutto questo si parlerà nel processo in corso a Napoli, dove Carbone è teste per l'accusa.

Amore tra magistrati ed avvocati, vietato e punibile, ma solo se si viene a sapere e il CSM interviene.

L’imparzialità nei giudizi resi rende la credibilità dei magistrati granitica. Se poi si scopre che negli uffici giudiziari vi sono legami sentimentali risaputi tra avvocati e giudici, che influenzano o potrebbero influenzare le attività delle parti in causa e dei loro colleghi, la credibilità va a farsi benedire.

Sì, però, basta non farlo sapere in giro.

E' per incompatibilità ambientale nei confronti di due donne giudici di Torino la prima pratica aperta dal Csm di nuova nomina, il cui vicepresidente è, casualmente, un torinese, l'ex deputato udc Michele Vietti. Il procedimento riguarda le gip Fabrizia Pironti e Sandra Casacci, fidanzate ufficialmente, e da diversi anni, rispettivamente con gli avvocati del foro subalpino Fulvio Gianaria e Renzo Capelletto.

La normativa giudiziaria vigente prevede l'incompatibilità ambientale in casi di questo genere. La vicenda delle due donne magistrato impegnate sentimentalmente con legali torinesi, per la verità, non è affatto una novità sotto la Mole. Anzi, anche il precedente Csm, il cui vicepresidente era Nicola Mancino, aveva avviato nei loro confronti un procedimento per incompatibilità: la pratica, tuttavia, non si sa per quale motivo, era rimasta inevasa. Il nuovo Consiglio di Palazzo dei Marescialli, dunque, ha deciso di portare a termine quell'istruttoria e ha deciso di convocare il procuratore generale di Torino, Marcello Maddalena. E domanderanno pure anche perché il caso, essendo annoso, non sia stato risolto prima.

Un problema di incompatibilità è stato sollevato, ma ristretto nell'ambito degli uffici della giurisdizione torinese, nei confronti di un'altra giudice, la dottoressa Alessandra Vecchione, moglie dell'ex comandante del Reparto investigativo dei carabinieri, Nicola Fozzi. Era evidente, l'incompatibilità, in quel caso: il marito arrestava, la moglie avrebbe potuto trovarsi a giudicare quegli indagati. Questo intreccio investigativo-giudiziario-matrimoniale è stato risolto questa volta dall'Arma, che ha trasferito l'ufficiale al Reparto operativo, non più incompatibile con l'ufficio della moglie gip.

Il giudice torinese Sandra Casacci e l’avvocato Renzo Capelletto vivono la loro storia sentimentale da 31 anni. Una vita. L’hanno sempre fatto alla luce del sole. Il nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, targato Michele Vietti, che solo per un caso è torinese e avvocato anch’egli, ha appena aperto la sua prima pratica disciplinare. L’ha aperta nei confronti del giudice Casacci per incompatibilità ambientale. Il suo compagno, Capelletto, è amareggiato: «Mi spiace per Sandra - racconta - Stiamo insieme da tanto, non ci siamo mai nascosti. Sono stato anche presidente degli avvocati di Torino e nessuno ha mai potuto dire che ci siano stati contatti tra la mia attività di avvocato e la sua di giudice. Il vero problema è che Sandra, dopo una vita di lavoro, sta per diventare capo del suo ufficio e forse questo dà fastidio a qualcuno».

Il Csm ha aperto un’altra pratica contro un giudice torinese. Questa volta si tratta di Fabrizia Pironti, legata per anni sentimentalmente all’avvocato Fulvio Gianaria, uno dei legali più conosciuti e stimati del foro torinese. «Della mia vita privata preferirei non parlare - dice l’avvocato - ma una cosa la dico: in tutto questo tempo non ho mai partecipato a un processo che avesse come giudice la dottoressa Pironti. E così i miei colleghi di studio. È la differenza tra la sostanza e il formalismo».

La pratica aperta dal Csm mette il dito in una piaga. Nei tribunali italiani non ci sono solo coppie formate da giudici e avvocati, ma anche giudici e giudici sono incompatibili in certi ambiti. Oppure parenti, affini. La legge dice, fino al secondo grado. «Abbiamo aperto questa pratica perché ci è arrivata una segnalazione - si limita a dire il vicepresidente del Csm, Vietti - È una pratica nuova, verificheremo».

A Palazzo dei Marescialli è stato convocato il procuratore generale del Piemonte Marcello Maddalena che dovrà spiegare se esiste una situazione di incompatibilità dei suoi due giudici. E, nel caso esista da tempo, perché non è stata risolta prima. Dovrà spiegare, insomma, come mai l’amore ha trovato spazio tra le aule austere e i faldoni dei suoi uffici giudiziari.

ITALIA MALATA - QUANDO I "BUONI" TRADISCONO.

Scandalo riportato da tutti i giornali.

Pagati dai carrozzieri: in cambio davano le radio per arrivare prima sugli incidenti.

C’era da guadagnare per tutti. I vigili urbani incassavano tangenti tra i 300 e i 500 euro a settimana. Dipendenti e titolari dei carri attrezzi anche 2 mila al giorno. Uno di questi si è addirittura comprato un mezzo da 100 mila euro. Tutto grazie alle ricetrasmittenti portatili Tetra che 7 agenti della polizia municipale avevano ceduto a chi con l’autosoccorso aveva tutto l’interesse ad arrivare prima sul luogo dell’incidente stradale per accaparrarsi il lavoro.

Arresti domiciliari per 6 civich (mentre una vigilessa è stata graziata perché gravemente malata), mentre 16 persone, tra autisti, titolari e dipendenti di società che gestiscono il pronto intervento stradale, hanno l’obbligo di firma.

Da quanto tempo gli agenti mettevano in atto il reato di peculato e corruzione? Questa non è l’unica domanda aperta, parallelamente c’è un altro filone di indagini che riguarda la fuga di notizie. Prove schiaccianti invece - intercettazioni telefoniche e ambientali, pedinamenti, videoriprese - a conferma di un sistema a prova di bomba. Archiviati i vecchi apparecchi facilmente intercettabili con un comune scanner, le nuove radio Tetra funzionano solo se autorizzate da password in dotazione alla centrale della polizia municipale. Per essere informati in tempo reale su una collisione stradale è dunque indispensabile possedere una di queste radio. I vigili arrestati le avevano consegnate in cambio di mazzette che potevano fruttare anche 2 mila e 500 euro al mese. Una spesa più che tollerabile per quei privilegiati che potevano battere la concorrenza grazie alle indicazioni ricevute.

Ad insospettire la polizia municipale sulle irregolarità sono stati proprio gli oggetti del profitto facile. Le radio digitali Tetra. Dotate di Gps - meccanismo che consente l’individuazione via satellite - risultavano presente in aree dove non sarebbero dovuto essere. In zone, cioè, diverse da quelle dove lavoravano i civiche che le avevano in dotazione. Da verifiche e controlli incrociati gli inquirenti si sono accorti che le cose non quadravano.

Più che una “semplice” Tangentopoli, la vicenda degli arresti domiciliari ai vigili urbani per le mazzette sugli incidenti stradali è una “spy story”. Dove salta fuori di tutto: persino il sesso, il gioco d’azzardo, la cocaina. E, ovviamente, le “talpe”, le spie che con le loro informazioni cercano di proteggere i colleghi nei guai.

Sesso nel retro.
Il giorno dopo la bufera, il mondo dei carristi è in fibrillazione. Nelle carrozzerie e nei bar frequentati dagli autisti non si parla che dello scandalo. E in molti, a quanto pare, sanno più di quanto è contenuto nelle 85 pagine dell’ordinanza di custodia. «Uno di quei vigili lo conoscevo - racconta Pino (nome di fantasia) - e conoscevo il titolare della carrozzeria a cui prestava la radio. All’inizio, il patto tra i due era semplice: il civich, quando sapeva di un incidente, chiamava il carrista, e in cambio gli facevano usare il letto che di solito serviva agli autisti che facevano la notte. Il vigile aveva un’amante, e quando voleva appartarsi andava lì». Qui invece non si parla di sesso, ma di mazzette da 500 euro alla settimana. «Briciole, se si pensa che arrivando sempre per primo un autista poteva fare 2mila euro al mese più il fisso». E qualcuno, a quanto pare, di soldi aveva davvero bisogno. «Uno di quelli beccati (gli autisti conoscono i nomi di tutte le persone coinvolte pur non avendo letto l’ordinanza ndr) si è fatto dei debiti grandi così. Ha preso la piccola ditta del padre, ha incominciato a comprare carri, auto di grossa cilindrata e ha continuato a giocare d’azzardo. Per forza che non ce la faceva a pagare i creditori. E ha dovuto escogitare qualcosa». Di un altro, invece, uno degli indagati dice alla sorella, in una intercettazione del 20 maggio, «ha il vizio del gioco o c’ha un altro vizio perché con 2500/2600 euro lui e la mamma non riescono a vivere». E specifica, parlando con la moglie «se abbiamo capito questo qua tira di coca».

Stalking e vendetta.
Uno degli argomenti più dibattuti è quello relativo a Sabina Torrente, la vedova di Angelo Laurino, uno dei martiri Thyssen, finita suo malgrado nell’inchiesta. La Torrente, ex amante di Gaetano Spinapolice, un benzinaio indagato, nell’ordinanza è indicata come attuale compagna di Plinio Paduano, uno dei vigili agli arresti. Il 6 giugno, Spinapolice denuncia Paduano ad un vigile della quinta circoscrizione. E i giudici ritengono che il benzinaio sia mosso da «motivi legati a sentimenti di gelosia». «Ma quale gelosia - ribatte il benzinaio -. Per me se la può prendere e se la può sposare. L’ho fatto per difendere il mio lavoro. Io ho una mogie stupenda e con la Torrente c’è stata una piccola esperienza sentimentale finita dopo qualche mese. Se ho deciso di denunciare il vigile è perché lui non voleva smettere, nonostante glielo avessi chiesto in tutti i modi, di fare quel lavoro nella mia stazione di servizio. Quando ho visto che incominciava a incattivirsi e continuava a fare determinate cose, con la mia famiglia ho deciso di denunciarlo». Spinapolice, che dice di «non aver percepito una lira» nell’affare delle radio, è stato denunciato dalla donna per stalking. «Ha detto che le ho danneggiato la macchina e bruciato il campanello di casa - ricostruisce Spinapolice -. Ma per dire cose del genere ci vogliono le prove, e in tribunale vedremo se le ha. Io intanto l’ho querelata per calunnia e diffamazione». Le denunce per atti persecutori, spiega Spinapolice, sono arrivate «dopo che io ho denunciato il vigile». Un caso? «A me viene da pensare che la signora Torrente ha avuto una relazione con questo vigile qua, il vigile è venuto a sapere che io avevo preso una certa decisione e si sono messi d’accordo per farmi del male».

Caccia a “Orso Grigio”.
E d’altra parte è proprio nelle conversazioni tra lo Spinapolice e la Torrente che salta fuori la “talpa”. O la spia, se preferite: “Orso grigio”. Costui è stato identificato dagli investigatori come un ex sottufficiale della polizia municipale di nome A.M. ma non figura tra gli indagati. Fatto sta che, quando ci si rende conto che il terreno sotto i piedi comincia a scottare, Orso Grigio è colui che si attiva per capire se esista una inchiesta giudiziaria in corso. Addirittura, riferendosi al linguaggio criptato per cui la radiolina era definita «zia», spiega - scrive il gip nell’ordinanza - «che non avendo i due zie in comune, il ricorso al termine zia poteva essere pericoloso». Ecco la conversazione dell’8 maggio. Nino: «lo dico “orso grigio” non mi fai dire i cognomi, no». Sabina: «Orso grigio?». Nino: «Sìììì è quello che lavorava al comando...». Il 12 maggio, l’uomo risalta fuori, indicato con il cognome - che qui ci limitiamo a puntare ndr- in un’altra telefonata tra i due. Sabina: «...perché purtroppo sono colleghi e i colleghi il culo se lo riparano uno con l’altro... fai attenzione... perché M. non è un santo. M. lo avrà fatto prima di lui... attenzione eh...». Nino: «...no no, me lo ha detto anche mio cognato».

Complicità.
E a dire il vero il discorso del coprirsi le spalle a vicenda ingenera più di un dubbio negli inquirenti. E se le “mele marce” di Chiamparino fossero di più? Conversazione del 19 aprile tra i “carristi” P. e S. Dice S.: «Se ti fermano tranquillamente digli che te l’ha prestata un vigile e poi vengo io con lui, non è un problema. Hai capito?». P. assente. E S. ribadisce: «Perché mi ha avvisato lui di dire così». “Lui” è il vigile urbano che aveva ceduto la radiolina. Davvero era sicuro che, con questa scusa, i suoi colleghi, in caso di controllo, non avrebbero fatto storie? O ci sono altre possibilità.

Ma non è la sola inchiesta che mina la credibilità nelle istituzioni.

C’è il furto sensazionale, poi le incredibili trattative per rientrare in possesso della preziosa refurtiva. Il furto è quello messo a segno nella palazzina di caccia di Stupinigi, la notte tra il 18 e il 19 febbraio del 2004: spariscono nel nulla mobili di inestimabile valore storico-artistico. Le trattative, invece, sono quelle avviate da due uomini in divisa: il maresciallo dei carabinieri Riccardo Ravera, nome in codice “Arciere”, e il sovrintendente della polizia Riccardo Cavuoti. Per la Procura di Torino, durante la delicata fase di recupero della refurtiva i due uomini in divisa diventano complici degli autori del furto, una banda di nomadi sinti. Ecco perché, adesso, i sostituti procuratori Andrea Padalino ed Enrico Arnaldi di Balme inseriscono i nomi di Ravera e Cavuoti nell’avviso della conclusione delle indagini preliminari.

Sono accusati, Ravera e Cavuoti, di estorsione e falso in atto pubblico. Nei documenti in possesso della Procura si legge che «a seguito del furto dei preziosi beni contenuti nella palazzina di caccia di Stupinigi, avvenuto ad opera di Daniele Decolombi, Adriano Decolombi, Claudio Decolombi, Renato Di Maio e Carlo Cerutti, il maresciallo dei carabinieri Riccardo Ravera dapprima informava Adriano Decolombi e Daniele Decolombi dell’esistenza di una ricompensa per il recupero dei beni pari a 500mila euro e, successivamente, nel corso della trattativa instaurata con Adriano Decolombi, redigeva una annotazione di servizio in cui attestava falsamente che “fonte confidenziale ha riferito che per il ritrovamento della merce gli attuali possessori, che in ogni caso stanno organizzando la spedizione dei manufatti nei paesi arabi, hanno chiesto la somma di 500mila euro”».

Un’annotazione di servizio identica a quella contemporaneamente redatta dal sovrintendente della polizia stradale della sottosezione di Saluzzo, Giuseppe Cavouti. «Autonome e parallele annotazioni di servizio, destinate ai rispettivi superiori gerarchici», che avrebbero quindi costretto la Fondazione dell’Ordine Mauriziano e la società assicurativa Axa a consegnare agli autori del furto la somma di 250mila euro.

Insomma, Arciere e Cavuoti mettono in pratica un piano geniale, diabolico: contattano i sinti e li informano, falsamente, dell’esistenza di una ricompensa di 500mila euro per il recupero dei mobili; poi riferiscono alla Procura che gli autori del furto pretendono proprio la somma di 500mila per la restituzione dei preziosi beni. Ma perché l’avrebbero fatto? «Per ottenere plausi e riconoscimenti a ogni costo», aveva spiegato il giudice per le indagini preliminari Silvia Bersano Begey nell’ordinanza di misura cautelare emessa nei confronti dei due indagati nel marzo del 2008. Ma invece dei plausi e dei riconoscimenti è arrivata l’iscrizione nel registro degli indagati.

Arciere è accusato anche di truffa ai danni dello Stato per aver chiesto rimborsi spesa per missioni mai eseguite. Dichiarava, falsamente, di essere al lavoro. In realtà, se ne stava comodamente seduto in poltrona, nella sua abitazione di Piscina.

PARLIAMO DI CONCORSI UNIVERSITARI TRUCCATI

I giudici vogliono sapere se si tratta di malcostume o ci sono ipotesi di reato.

Concorsi universitari truccati? O viziati da favoritismi e raccomandazioni, e dunque esami finti, perché se ne conosce sempre in anticipo il vincitore? Dopo giorni di polemiche e j’accuse, si muove la Procura della Repubblica. Le dure prese di posizione di due professori universitari pubblicate sulle colonne de «La Stampa» hanno convinto il procuratore aggiunto Francesco Saluzzo, che coordina il pool di magistrati impegnati sui reati contro la pubblica amministrazione, ad aprire un fascicolo giudiziario. I due cattedratici sono Paolo Bertinetti, preside della facoltà di Lingue e letterature straniere, e Roberto Alonge, ex preside della facoltà di scienze della Formazione, ordinario di Storia del teatro. La prossima settimana saranno sentiti in procura come «persone informate sui fatti», ovvero testimoni della pubblica accusa. Tutto è cominciato nelle scorse settimane. La procura della Repubblica aveva aperto un fascicolo sulla base di un circostanziato esposto presentato su un concorso da ricercatore (nel settore dell’ingegneria aerospaziale) al Politecnico. L’ha firmato Luciano Demasi, «cervello migrato» all’università di Washington, a Seattle. Il pm Cesare Parodi ha aperto un fascicolo penale, su cui c’è il massimo riserbo: si sa soltanto che alcuni protagonisti della querelle sono stati sentiti a Palazzo di Giustizia. Di quel concorso s’è fatto al Politecnico un gran parlare.

E, al di là di quello specifico episodio, al Poli come all’Università s’è allargato lo sguardo alla situazione generale dei concorsi. Finché sono arrivati, da Palazzo Nuovo, i coraggiosi j’accuse di Alonge e Bertinetti. «In tanti anni di Università - ha detto il preside di Lingue a “La Stampa” - non ho mai visto nessuno vincere un concorso solo in base ai suoi meriti». Roberto Alonge ha firmato su «La Stampa» quasi un’invettiva: «Che i concorsi siano truccati, lo sanno tutti». «Un maestro sfrutta per anni un allievo: gli fa fare esami, gli fa seguire tesi di laurea, si fa sostituire da lui a lezione. Quando, dopo anni di sfruttamento, arriva un concorso, può il maestro non far vincere il proprio allievo, anche se al concorso s’è presentato un altro più bravo?» E Bertinetti: «I meriti possono essere tanti o pochi: ma senza un professore che lo porta, nessuno sale in cattedra». Hanno denunciato un malcostume che fa a pugni con l’etica, o sono anche a conoscenza di reati? Probabilmente i magistrati li hanno chiamati nei loro uffici per saperlo.

Non si sa se Saluzzo e Parodi già indaghino su altri concorsi, al di là di quello del Politecnico, ma probabilmente a Bertinetti e ad Alonge, che appartengono a un altro ateneo, chiederanno se intendono passare da generiche accuse al sistema al resoconto di specifici episodi. Per intanto, ieri Alonge ha ribadito «che il difetto sta nel manico: è la legge stessa a costituirsi a difesa dell’arbitrio, e ad essere costruita in modo tale da consentire la massima discrezionalità». E Bertinetti, sibillino: «Sarò ben lieto di illustrare anche negli uffici giudiziari quali sono i meccanismi concorsuali».

PARLIAMO DI MALASANITA'. MULTATI PERCHE’ TROPPO EFFICIENTI !!! IL PRIMARIO: IO FUORILEGGE E ME NE VANTO.

«Ora che l’Ispettorato del lavoro ha sanzionato le Molinette per eccesso di attività, mi aspetto che multi chi prende lo stipendio e non fa nulla». Il professor Mauro Salizzoni, primario del Centro trapianti di fegato finito nel mirino del ministero del Lavoro per la vicenda degli infermieri sfruttati, è caustico, come sempre.

Come giudica la sanzione alle Molinette?
«Non mi sono mai posto il problema di essere fuorilegge. Ogni giorno, qui, abbiamo a che fare con persone in condizioni gravi, e più di me il collega Rinaldi, primario in Cardio-rianimazione. Non trattiamo merci, curiamo esseri umani. Il nostro dovere è dare il massimo delle garanzie, il massimo dell’impegno. Se non abbiamo rispettato la legge, allora la legge va cambiata».

Anni fa, professore, lei sfilava in corteo teorizzando il «lavorare tutti per lavorare meno». Cosa è cambiato nelle sue convinzioni?
«Nulla. La regola è ancora valida: lavorare tutti».

Non è così, alle Molinette?
«Ci sono pochi che lavorano molto e molti che lavorano poco».

Troppo vago. A chi si riferisce?
«Se nei reparti come il mio sovente non c’è un attimo di tregua, ci sono ambulatori che chiudono alle 16, con gli infermieri che vanno a casa tutti i pomeriggi a quell’ora. Io dico: prendiamo un po’ di quegli infermieri e li trasferiamo nei reparti dove l’attività è più pesante, dove i turni sono massacranti, come dice il sindacato».

Anche gli infermieri non sono merce, professore. Se si oppongono un motivo ci sarà.
«E’ ovvio che questi infermieri devono essere incentivati a stare nei reparti più difficili. Innanzitutto economicamente. Lavorare in centri come il mio, o come la Cardiochirurgia, dà grandi soddisfazioni oltre a richiedere sacrifici».

Qual è l’ostacolo?
«Spesso lo stesso sindacato. Qui alle Molinette, in particolare, ci sono abitudini e convinzioni consolidate. Come sostenere che tutti gli infermieri sono uguali e tutti devono ricevere lo stesso in busta paga. Il che è sbagliato, e non va nell’interesse dei cittadini. La verità è che stiamo andando verso l’appiattimento di questo Paese, stiamo scadendo, ci serve una scossa. Se il messaggio che passa, anche attraverso le multe dell’Ispettorato, è “non si deve lavorare troppo”, povera Italia».

Nel frattempo?
«Nulla. Continuiamo a garantire gli interventi a tutti i pazienti che si rivolgono a noi. A dare le risposte che dobbiamo dare. Non siamo un centro estetico: qui, molto spesso, si vive o si muore».

Il ministero del Lavoro ha inflitto alle Molinette una condanna da 110 mila euro per troppo impegno. Il sindacato infermieri aveva denunciato il principale ospedale del Piemonte per i turni di riposo saltati e i troppi straordinari nelle sale operatorie del Centro trapianti di fegato e della Cardio-rianimazione: «Sfruttamento puro», ha accusato Nursing Up. L’Ispettorato ha compiuto una verifica accurata e ha dato ragione ai dipendenti, condannando il direttore generale dell’ospedale a pagare una cifra enorme per lo scandalo. Poco importa che il centro trapianti di fegato diretto dal professor Mauro Salizzoni sia al top in Italia per numero di interventi. Il primo ad aver raggiunto e superato, già nel 2002, i mille trapianti. Un fiore all’occhiello della Sanità pubblica. Poco importa che alcuni giorni fa otto persone siano state strappate alla morte grazie a una maratona di 15 ore in camera operatoria.

Il record qui diventa paradosso. Ma il direttore generale, Giuseppe Galanzino, non ci sta: «Il mio compito è far funzionare al meglio l’ospedale, garantire ai malati un centro di prim’ordine. Se mi chiedono di ridurre l’attività delle camere operatorie, firmo le dimissioni e me ne vado».

Il confronto è fra due diritti legittimi: quello degli infermieri al rispetto di un contratto, quello di un direttore generale (e di un primario) alla gestione di un reparto efficiente. Su un punto credo che entrambi concordino: a chi giova una maxi-multa al direttore generale?

PARLIAMO DI INGIUSTIZIA.

IL CASO STROPPIANA. Il delitto della logopedista Marina di Modica.

14 aprile 2011. Questo è il resoconto del Corriere della Sera.

"Nel suo ultimo giorno da uomo libero parla come un detenuto. «Quando esco, divento un vero pensionato. Mi sono fatto tutti i calcoli: ho 54 anni, ne ho versati 30 di contributi. Finalmente avrò una vita davanti, spero lunga: mio nonno è morto che ne aveva 88, mio papà ne festeggia novanta tra qualche giorno». La voce si rompe quando scivola su quel compleanno al quale non potrà assistere, ma è questione di un attimo. Paolo Stroppiana, il filatelico che ride, il von Bulow di Torino, cerca di riprendere i panni del personaggio enigmatico che ha portato come una corazza per quasi tre lustri. Solo che oggi è difficile. Oggi la sua storia, quella del delitto di cui è accusato, esce dalla dimensione romanzesca che tanto ha allietato le serate dei salotti cittadini orfani delle trame di Fruttero e Lucentini, e si fa vita vera. Presenta il conto, tutto in una volta. Dopo una assoluzione e tre sentenze di condanna, due volte riformate, la Corte di cassazione ha confermato l'ultimo verdetto che lo scorso gennaio gli aveva assegnato 14 anni di carcere per l'omicidio preterintenzionale di Marina Di Modica. Aveva 39 anni, quando scomparve la sera dell'8 maggio 1996. Era figlia di un professore universitario, cattedratico di Chimica e presidente dell'Accademia delle scienze, faceva la logopedista. «Ore 18.30. Cena Paolo per francobolli». Marina era una donna ordinata, segnava tutto su una agenda. Stroppiana all'inizio negò di essere lui, quel Paolo. Un filatelico ben conosciuto, figlio della borghesia torinese, che lo aveva ripreso con sé dopo gli anni dell'estremismo nero in Terza posizione. Poi cambiò versione, raccontando di avere disdetto all'ultimo l'incontro con la donna. Non c'è il corpo, non c'è l'arma, non c'è un movente. La storia è questa. Un canovaccio che ha diviso opinioni e anime, compattando una procura convinta di avere un colpevole e poche prove contro di lui. Stroppiana affronta il tempo sospeso che manca alla ratifica dell'ultima sentenza con una normalità ostentata. Alle 9 del mattino esce di casa, fresco di rasatura, e sale in macchina diretto nell'alto Novarese. Deve far vedere ad alcuni clienti le novità del catalogo Bolaffi, istituzione cittadina per la quale lavora dal 1990. Una tappa a Romagnano Sesia, un'altra a Omegna, infine il pranzo in una trattoria di Crodo. Insieme a lui c'è il figlio Federico, che ha 23 anni. La sua presenza è un segno di resa, per entrambi, perché hanno tante cose da dirsi, perché al ritorno a Torino sentono che dovranno salutarsi. Dietro di loro, due Volanti e altrettante moto della Polizia, una specie di corteo presidenziale che lo segue a distanza. «Non ho mai pensato di scappare, mai. E sinceramente, spero che la sentenza della Cassazione sia definitiva. Non ce la farei a ricominciare un altro processo. In questi anni passati a fingere una vita normale non ho mai potuto coniugare un verbo al futuro. Non ho comprato casa, non ho fatto un mutuo, non ho fatto un figlio con la mia nuova compagna. Avevo sempre la borsa con i vestiti nel bagagliaio, ogni momento era buono il carcere. Basta, adesso basta. Quando sarò fuori, potrò almeno vivere come un ragazzino, fare programmi, costruire qualcosa». Il verdetto della Cassazione sta per arrivare, manca poco. «Spero di diventare nonno in carcere, mio figlio mi ha promesso dei nipotini. Non si stupisca, la mia non è rassegnazione. Giusto o sbagliato non importa, ci sarà sempre un colpevole che la fa franca e un innocente condannato. È solo che sono stanco, molto stanco». Lo status di piccolo mistero cittadino aveva anche solleticato il suo ego. Ma lentamente, come una goccia cinese, era divenuto un peso insostenibile. «Quindici anni, con addosso il marchio di questa storia. Spero che una volta fuori mi lascino stare». Sul marciapiede trova il maresciallo che lo aspetta. Dottore, gli dice, è arrivato l'ordine di tradurla in questura. Stroppiana abbraccia il figlio. Un sorriso. «Andiamo». Certe volte anche la prigionia può essere una liberazione."

14 aprile 2011. Questo è il resoconto de La  Stampa.

"La Corte di Cassazione di Roma ha confermato la condanna della Corte d'Assise d'Appello di Torino, a 14 anni di carcere, per Paolo Stroppiana, il filatelico torinese accusato del delitto di Marina Di Modica. Per lui, in serata, si sono aperte le porte del carcere. Fra meno di un mese, l'8 maggio, saranno 15 anni che la logopedista torinese è scomparsa, lasciando dietro di sé lo scontrino di un paio di calze nuove e un'agenda piena di enigmi. Su quelle pagine gli inquirenti trovarono gli indizi per le loro indagini, in un mondo senza cellulari: un appuntamento per fare valutare dei francobolli. C'è finito così nell'inchiesta Paolo Stroppiana, 52 anni, filatelico alla Bolaffi. In mancanza di un cadavere, di un'arma e di un movente, c'è rimasto per le troppe bugie, per gli alibi che si sono rivelati falsi, per le contraddizioni sue e di fidanzate e amanti. Sullo sfondo, un chiacchierato un passato da neofascista, le pruriginose abitudini sessuali, la scomparsa, anni prima, di una collega, Camilla Bini. Ma soprattutto è rimasto inchiodato al processo grazie all'ostinazione dei famigliari della vittima, il padre Gaetano e la sua compagna, Marina Ferrero, il fratello Marco, assistiti dall'avvocato Gian Paolo Zancan, che hanno sollecitato la ripresa delle indagini che languivano, ma soprattutto si sono opposti nel 2004 all'archiviazione. E' cominciata la lista dei processi e delle sentenze: in primo grado 21 anni per omicidio volontario, nel gennaio del 2006, ridotti a 16 in secondo grado, a luglio 2008. Nel gennaio del 2010 la nuova sentenza della Corte d'Appello, dopo che la Cassazione aveva ordinato di ripetere il processo: 14 anni per omicidio preterintenzionale. Per l'accusa, sostenuta dal procuratore generale Vittorio Corsi, potrebbe essere stato fatale uno strangolamento durante un rapporto sessuale. “Una sentenza illogica e irragionevole” per gli avvocati difensori, Aldo Albanese e Mauro Ronco. Tutto si è giocato su un appuntamento segnato sull'agenda della vittima per quell'8 maggio 1996 “Cena Paolo x f.bolli”. Quei francobolli ritrovati in soffitta in una vecchia scatola di latta per biscotti, spariti anche loro con Marina. Paolo Stroppiana ha sempre sostenuto che l'appuntamento fosse stato annullato."

Giusta pena in giusto processo, ma dai resoconti giornalistici qualcosa non quadra. Nessuno osa criticare la sentenza. La Cassazione ha condannato per un delitto in cui si nota: niente arma, niente corpo, niente movente.

La Cassazione ha condannato un imputato per omicidio preterintenzionale che: o doveva essere assolto con formula piena; o doveva essere condannato per omicidio volontario e soppressione od occultamento di cadavere. Non esiste in diritto una via di mezzo !!!

IL CASO FRANZONI

«Io non ero stressata. Era come se questo giudice avesse vissuto con me, fosse stato lì quella mattina. Voleva farmi uscire pazza, così se ne lavavano le mani.

La realtà è un’altra. Pretendo giustizia. Loro non sanno che cos’è la giustizia!

Voi (giornalisti) mi avete triturato assieme agli altri. Vogliamo raccontare barzellette? Vogliamo raccontare favole? E quel bastardo dell’assassino dov’è?

Lotterò per avere giustizia perché lo faccio per il bambino, che è più importante di tutto il resto. Mi è stato tolto un figlio atrocemente e sono ormai 6 anni che vivo con questo dolore reso ancora più dilaniante da un’accusa ingiusta.

Il deposito delle motivazioni rinnova in me la profonda delusione per una giustizia che non ha il coraggio di dire: forse sto sbagliando.

L’atteggiamento della giustizia rende sempre più difficile la ricerca della verità. E’ giusto aver indagato in casa, nella nostra famiglia, ma purtroppo si è rimasti solo dentro questi ambiti, cosicché a oggi non sono ancora state approfondite altre piste. Quindi anche quelle del vero colpevole.

Continuerò per tutta la vita a chiedermi perché non ho il diritto di sapere chi ha ucciso il mio Samuele, nella speranza di trovare quanto prima un magistrato che mi ascolti.

Quello che mi fa arrabbiare di più è come si possa motivare la sentenza cercando di leggere, o di inventare addirittura, la figura di una donna stressata che ha perso il lume della ragione fino ad arrivare a commettere un omicidio tanto atroce. Questo non c’è nelle carte del processo».

I DUBBI:

Ritengo che le motivazioni della condanna di Annamaria Franzoni siano «al di qua di ogni ragionevole dubbio» e non «aldilà di ogni ragionevole dubbio», oltre che ispirate alla frase del Manzoni nella Storia della colonna infame: «Spegnere il lume è un mezzo opportunissimo per non vedere la cosa che non piace, ma non per vedere quella che si desidera». Difatti, con questa sentenza la giustizia e il diritto sono stati dimenticati. La sentenza commette una serie di sviste e di travisamenti, ne cito sette:

1. Contiene troppi «forse» e troppi verbi al condizionale, si riferisce a congetture prive di riscontri.

2. Ritiene che l'arma del delitto sia un mestolo o un pentolino, nonostante risulti evidente dalle ferite sulla testa di Samuele che la parte terminale dell'arma avesse tre canali e angoli vivi e rettilinei.

3. Ipotizza senza riscontri oggettivi quale sia stato il movente dell'omicidio, il modus operandi, le circostanze che hanno prodotto il crimine, come e dove sia stata nascosta l'arma del delitto.

4. Ipotizza che la Franzoni dopo l'omicidio abbia immediatamente «rimosso», ma che, prima della «rimozione», abbia avuto la lucidità, l'organizzazione mentale e le capacità cognitive e previsionali di ideare e coordinare i vari depistaggi.

5. Ha dimenticato che la Franzoni alle 8.20 era alla fermata dell'autobus distante 330 metri dall'uscio di casa e che, quindi, con certezza assoluta, doveva essere uscita entro le 8.16 e non alle 8.18 come invece ritiene: è il classico errore di forzatura.

6. Individua la prima telefonata d'allarme alle ore 8.28 mentre la telefonata è iniziata alle 8.26 e 30 secondi: classico errore di spostamento del tassello.

7. Si basa sulla perizia del tedesco Herman Schmitter, costata a noi italiani almeno 50mila euro, una perizia che reputo inadeguata: quella perizia che ha sentenziato che l'assassino indossava il pigiama mentre uccideva il bambino mentre, secondo le mie analisi, l'assassino non lo indossava assolutamente.

L'illogicità fondamentale della sentenza, ma nascosta e invisibile, è il presupporre che se l'assassino non fosse la Franzoni dovrebbe essere un soggetto introdottosi con la premeditazione di uccidere il bambino e non, invece, come le scienze dell'investigazione criminale e l'analisi della scena del crimine fanno ritenere: un assassino che si è introdotto in camera da letto per fare un'offesa ai Lorenzi approfittando dell'uscita della Franzoni, che poi ha perso il controllo perché si è visto riconosciuto da Samuele che non si aspettava di trovare sul letto matrimoniale.