Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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ANNO 2023

LA CULTURA

ED I MEDIA

OTTAVA PARTE

 


DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Covid: sembrava scienza, invece era un…calesse.

L’Umanità.

I Benefattori dell’Umanità.

Le Invenzioni.

La Matematica.

L’Intelligenza Artificiale.

La Digitalizzazione.

Il PC.

I Robot.

I Chip.

La telefonia.

Le Mail.

I crimini sul web.

Al di là della Terra.

Gli Ufo.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Da Freud all’MKUltra.

I Geni.

I Neuroni.

La Forza della Mente.

Le Fobie.

L’Inconscio.

Le Coincidenze.

La Solitudine.

Il Blocco Psicologico.

La Malattia.

La Depressione.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scrittura.

La Meritocrazia.

Le Scuole al Sud.

Le Scuole Private.

Il Privatista.

Ignoranti e Disoccupati.

Ignoranti e Laureati.

Decenza e Decoro a Scuola.

L’aggiotaggio scolastico.

La Scuola Alternativa.

La scuola comunista.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’onestà e l’onore.  

Il Galateo.

Il Destino.

La Tenacia.

La Fragilità.

Body positivity. Essere o apparire?

Il Progresso.

Le Generazioni.

I Baby Boomer.

Gioventù del cazzo.

Il Linguaggio.

I Bugiardi.

L’Ipocrisia.

I Social.

Influencer.

Le Classifiche.

L’Amicizia.

Il fastidio.

L’Invidia.

L’Odio.

Il Mostro.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Moda.

Le Auto.

I Fumetti.

I Giochi da Tavolo.

L’Architettura e l’Ingegneria.

Il Restauro.

Il Podcast.

L’Artista.

La Poesia.

La Letteratura.

Il Teatro.

Le Autobiografie.

L’Ortografia.

Intrecci artistici.

La Fotografia.

Il Collezionismo.

I Francobolli.

La Pittura.

I Tatuaggi.

Le Caricature.

I Writer.

La Musica.

La Radio.

Le Scoperte.

Markalada, l'America prima di Colombo.

La Storia.

La P2 culturale.

Ladri di cultura.

I vandali dell'arte.

Il Kitsch.

Gli Intellettuali.

La sindrome di Stendhal.

Gli Snob.

I radical chic.

La Pubblicità.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Alberto Asor Rosa.

Alberto Moravia.

Aldo Nove.

Alessandro Manzoni.

Alessia Lanza.

Aleksandr Isaevic Solzhenicyn.

Andy Warhol.

Andrea Camilleri.

Andrea Pazienza.

Anna Premoli.

Annie Duchesne Ernaux.

Anselm Kiefer.

Antonio Delfini.

Antonio Riello.

Artemisia Gentileschi.

Benedetta Cappa.

Barbara Alberti.

Beethoven.

Banksy.

Camillo Langone.

Caravaggio.

Carlo Emilio Gadda.

Chiara Gamberale.

Cristina Campo.

Curzio Malaparte.

Dacia Maraini.

Dante Alighieri.

Dante Ferretti.

Dario Fo.

Dino Buzzati.

Domenico "Ico" Parisi.

Eduardo De Filippo.

Elena Ferrante.

Eleonora Duse.

Emanuel Carnevali.

Emmanuel Carrère.

Émile Zola.

Emilio Isgrò.

Ennio Morricone.

Enrico "Erri" De Luca.

Erin Doom.

Eugenio Montale.

Eve Babitz.

Ezra Pound.

Fabio Volo.

Federico Fellini.

Federico Palmaroli: Osho.

Friedrich Nietzsche.

Filippo Tommaso Marinetti.

Francesco Alberoni.

Francesco Piranesi jr.

Franco Cordelli.

Franco Ferrarotti.

Franz Kafka.

Fulvio Abbate.

Gabriele D'Annunzio.

Gaetano Bonoris.

Gaetano Salvemini.

George Orwell.

Georges Simenon.

Giacomo Leopardi.

Giacomo Puccini.

Giampiero Mughini.

Gianfranco Salis.

Gianni Vattimo.

Gianrico Carofiglio.

Gioachino Rossini.

Giordano Bruno Guerri. 

Giorgio Manganelli.

Giovanni Testori.

Giovanni Verga.

Giovannino Guareschi.

Giuseppe Prezzolini.

Giuseppe Verdi.

Hanif Kureishi.

Italo Calvino.

Jago sta per Jacopo Cardillo.

Jacques Maritain.

Jean Cocteau.

Jean-Jacques Rousseau.

John Ronald Reuel Tolkien.

Johann Wolfgang von Goethe.

J. K. Rowling.

Jorge Luis Borges.

Julius Evola.

Lara Cardella.

Laura Ingalls Wilder.

Lee Miller.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lina Sotis.

Luigi Illica.

Luigi Vanvitelli.

Luis Sepúlveda.

Louis-Ferdinand Céline.

Ludovica Ripa di Meana.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Marcello Marchesi.

Marcello Veneziani.

Marina Cvetaeva.

Mario Vargas Llosa.

Mark Twain.

Martin Scorsese. 

Massimo Rao.

Matilde Serao.

Maurizio Cattelan.

Mauro Corona.

Michel Houellebecq.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarroti.

Michelangelo Pistoletto.

Michele Mirabella.

Michele Rech: Zerocalcare.

Milo Manara.

Oliviero Toscani.

Oriana Fallaci.

Pablo Neruda.

Pablo Picasso.

Paul Verlaine.

Pier Paolo Pasolini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Pietro Cavallini.

Pietro Citati.

Primo Levi.

Robert Capa.

Roberto Ruffilli.

Roberto Saviano.

Salman Rushdie.

Sergio Leone.

Sergio Pautasso.

Sibilla Aleramo.

Stefania Auci.

Susan Sontag.

Suzanne Valadon.

Sveva Casati Modignani.

Tim Page.

Truman Capote.

Tullio Pericoli.

Umberto Eco.

Umberto Pizzi.

Wolfang Amadeus Mozart.

Vasco Pratolini.

Veronica Tomassini.

Virginia Woolf.

Vitaliano Trevisan.

Vittorio ed Elisabetta Sgarbi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

Controinformazione e contraddittorio.

Lo ha detto la Televisione…

L’Opinionismo.

L’Infocrazia.

Rai: Il pizzo e l’educatrice di Stato.

Mediaset: la manipolazione commerciale.

Sky Italia.

La 7.

Sportitalia.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le fake news.

I Censori.

Il Diritto d’Autore e le furbizie di Amazon.

La Privacy.

L’Oblio.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

Wikipedia, l’enciclopedia censoria.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Se questi son giornalisti!

Gli Uffici Stampa.

Il Corriere della Sera.

Avanti!

La Gedi.

Il Fatto Quotidiano.

L’Espresso.

Il Domani.

Il Giornale.

Panorama.

La Verità.

L’Indipendente.

L’Unità.

Il Manifesto.

Il Riformista.

I più noti.

Alberto Dandolo.

Alberto Matano.

Alda D’Eusanio.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Amedeo Goria.

Andrea Scanzi.

Angela Buttiglione.

Angelo Guglielmi.

Annalisa Chirico.

Antonello Piroso.

Antonio Caprarica.

Antonio Di Bella.

Augusto Minzolini.

Attilio Bolzoni.

Barbara Costa.

Barbara Palombelli.

Bruno Vespa.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carmen Lasorella.

Cesara Bonamici.

Claudio Sabelli Fioretti.

Clemente Mimun.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Corrado Formigli.

Cristina Parodi.

David Parenzo.

Donatella Raffai.

Enrico Mentana.

Enrico Varriale.

Enzo Magistà.

Fabio Fazio.

Federica Sciarelli.

Ferruccio Sansa.

Filippo Facci.

Flavia Perina.

Franca Leosini.

Francesca Barra.

Francesca Fagnani.

Francesco Borgonovo.

Francesco Repice.

Furio Focolari.

Gennaro Sangiuliano.

Gian Antonio Stella.

Gian Marco Chiocci.

Gianni Riotta.

Gigi Marzullo.

Giovanni Minoli.

Hoara Borselli.

Indro Montanelli.

Ivan Zazzaroni.

Jas Gawronski.

Laura Tecce.

Lirio Abbate.

Lucia Annunziata.

Luisella Costamagna.

Malcom Pagani.

Manuela Moreno.

Marco Travaglio.

Mario Sechi.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Massimo Gramellini.

Maurizio Mannoni.

Mia Ceran.

Michele Cucuzza.

Michele Santoro.

Milena Gabanelli.

Myrta Merlino.

Natalia Aspesi.

Nicola Porro.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Flores d'Arcais.

Riccardo Iacona.

Roberto D’Agostino.

Roberto Poletti.

Romana Liuzzo.

Rula Jebreal.

Salvo Sottile.

Selvaggia Lucarelli.

Serena Bortone.

Sigrido Ranucci.

Tancredi Palmeri.

Tiberio Timperi.

Tiziano Crudeli.

Tommaso Cerno.

Valentina Tomirotti.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.


 


 

LA CULTURA ED I MEDIA

OTTAVA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Sosia.

Riconoscerle.

Le fake news dell’ultimo anno.

Frasi mai dette.

Film mai girati.

Menzogne Ideologiche.

Menzogne politiche.

Creatività e fake news.

I Sosia.

I sosia, quella strana tribù che vive le vite degli altri. Tra l’espressionistico e il grottesco, come una categoria dell’estetica, riproducono altre persone. Facendo della somiglianza un’arte. Folle e kitsch. Ginevra Leganza su L'Espresso il 29 Settembre 2023  

Si’ fosse sosia, farei fesso il mondo. Potrebbe essere questo il mantra dei replicanti. A partire dai replicanti vipponi: i sosia di Bruno Barbieri, J-Ax, Bono Vox... Per non parlare dei sosia di Michael Jackson o di Little Tony. Mattocchi e impresari di sé dove l’io è rimbaudiano, cioè pazzo, dove l’identità è stregata e pure tragicomica. A metà fra il grottesco e l’espressionista, fra l’assurdo e il pensiero magico. 

Al livello sociale, i sosia ci attirano ancora – forse non hanno mai smesso – perché attizzano lo sciamano che è in noi. Ravvivano quell’incanto anti-illuminista e per l’appunto fatato che i pazzologi – da Freud in poi – chiamano “perturbante”. 

Eppure noi crediamo – e sia detto senz’offesa per lor signori – che i sosia siano interessanti anzitutto per il loro esser kitsch. E cioè per l’appartenenza a una delle più stupende categorie dell’estetica contemporanea. 

Pensateci. La copia del piccolo cuoco o quella delle pop-star feticizzano un’altra vita esattamente come gli oggetti kitsch feticizzano gli oggetti d’uso comune. I gemelli s’appropriano di un altro “io”, l’aspirano via dal seeuo contesto originale… Come Duchamp e Warhol con gli oggetti riproducibili dalla tecnica, i sosia riproducono lo star-system e lo ricoprono di occultismo pop. E c’è di certo della follia nel farsi sosia. Ma è una follia metodica, codificata. A suo modo ben impostata. 

Ed ecco Antonello Rossi, che non solo assomiglia a Bruno Barbieri, ma imposta la sua vita – i suoi gusti, le sue manie – su quelli del suo prototipo. Ecco Antonello che della somiglianza fa un mestiere e centra l’impresa: la televisione dedica a lui e ai sosia degli altri il docufilm di Bruno Barbieri e Salvo Spoto. Tracciando peraltro un’insospettabile continuità fra il nostro cuoco e la commedia antica, fra Antonello Rossi alter ego di Barbieri e Mercurio trasfigurato nel servo Sosia (era l’Anfitrione di Plauto e anche lì l’uomo-sosia aveva già i due volti che gli son propri: il raggiro del dio scaltro e il servilismo del maggiordomo). Un po’ com’è nella cultura giapponese con la figura del Kagerusha (Akira Kurosawa ci fece un film nel 1980). Kagerusha ovvero uomo-ombra, antesignano del sosia per mestiere: un soldato particolarmente somigliante al capo, incaricato di controfigurare all’occasione, di partecipare alle cerimonie pubbliche e – come nel film di Kurosawa – d’interpretare il capo morto affinché i soldati non perdessero coraggio. (Dettaglio: kagerusha è sempre un samurai e mai un ronin, è sempre un servitore e mai un guerriero libero da vincoli. È perciò una figura affascinante nel suo essere ridicola: uomo forte in pubblico, maggiordomo in privato). Parassitario eppure al servizio di una vita ulteriore, Kagerusha è il papà nobile dei nostri Little Tony e Michael Jackson in serie: piazzisti di sé stessi ovvero assoldati da agenzie specializzate in reclutamento-sosia. 

«Un lavoro leggero e divertente», scrive uno dei siti appositi, «e che fa guadagnare bene». Bene ossia un centinaio d’euro l’ora. 

E il sosia – visto così – è davvero nel kitsch. Giusto a metà fra il ridicolo e il sublime. Hai voglia quindi con Freud, il perturbante, il Doppelgänger... Il sosia di J-Ax con tatuaggi bandane e inflessione rauca-meneghina è il nostro kitsch vivant quanto il replicante di Bono Vox con lo Stetson. Ma questo è quel che vedono nel sosia i maliziosi: feticismo, servilismo spregiudicato, spirito d’impresa… Perché il sosia, s’è detto, campa finché affattura. Finché fa pensare d’essere magico, non kitsch. Finché fa credere che niente accade per caso. Neppure per coincidenze biologiche. Tutto accade perché c’è un disegno – come un filo – che unisce due (o forse sette?) individui nel mondo. Individui che mettono in crisi il DNA, il sistema razionale, religioso, scientifico dell’individuo “unico e irripetibile”. In qualche modo il sosia è un regresso dagli stadi scientifici e religiosi a quelli primitivi del pensiero magico. 

Il replicante ha successo perché rianima un certo sciamanesimo che in fondo non ci ha mai abbandonato, ma che anzi, fra intelligenze artificiali e deep fake, sta tornando eccome, in grande sintonia con l’eterna passione per gli oroscopi che resistono a tutto – altro che ateismo (se Dio è morto, Paolo Fox è vivo, non è mai stato meglio). Insomma, la gloria del sosia è legata a questo: al nostro amore per il mistero.

E davvero i somiglianti ingaggiati da Barbieri, come dalle agenzie, sono degni dei meccanismi sciamanici spiegati da James Frazer. Sono a metà tra magico e kitsch, tra folle e canaglia. L’antropologo però lo diceva: meglio un fattucchiere furfante di uno che crede ai propri incantesimi, meglio dunque “i farabutti intelligenti dei cretini onesti”. Ed ecco che questa sintesi, che ben s’abbina ai politici d’oggi (meglio gli intelligenti degli onesti: annotino gli amabili resti grillini, figli di uno sciamano anche loro, e anche loro vittoriosi, al tempo, per via d’un diffuso pensiero magico), ecco che questa sintesi, dicevamo, riassume la vita d’un sosia: pazzo-convinto oppure scaltro-piazzista di sé. Il sosia o è magico o è kitsch. E come per i fattucchieri, lo stesso vale per lui: meglio canaglia. Ché quando il sosia è onesto – come il mago, come il politico – è in fondo un cretino. E quando è intelligente – e mattocchio ci si finge – sfrutta la situazione nella piena coscienza di sé. Nella piena coscienza del kitsch. Nel cattivo gusto iperrealista che ammalia più della magia.

Riconoscerle.

Estratto dell’articolo di Francesco Specchia per “Libero Quotidiano” domenica 27 agosto 2023.

Così vale tutto. La prossima volta lo candideremo all’Oscar, allo Strega, al Pallone d’oro. Per un arabesco del destino, è stato proprio mio figlio dodicenne Gregorio Indro (proprio come Montanelli, padre fondatore, con Biagi e Bocca, dello storico riconoscimento del nostro settore) ad avvertire una nota stonata, un’increspatura nell’assegnazione del premio è Giornalismo al Papa. [...] 

Il Pontefice riceveva nel palazzo Apostolico vaticano la delegazione del Premio inventato da quel geniaccio di Giancarlo Aneri; e spiegava che la responsabilità del giornalista verso la veridicità delle notizie è la stessa della macina da mulino «mossa dall’acqua, non può essere fermata.

Chi è incaricato del mulino ha la possibilità di decidere se macinarvi grano o zizzania. La mente dell’uomo è sempre in azione e non può cessare di macinare». E continuava Bergoglio che «la disinformazione è il primo dei peccati del giornalismo», auspicando che «si torni a coltivare sempre più il principio di realtà: la realtà dei fatti, il dinamismo dei fatti che mai sono immobili e sempre si evolvono, verso il bene o verso il male, per non correre il rischio che la società dell’informazione si trasformi nella società della disinformazione». 

I reportage delle principali agenzie dal web ieri erano illuminanti. Ecco la delegazione e la giuria del premio – presenti i vecchi volponi Anselmi, Riotta e Stella- nella photo opportunity, petto gonfio d’orgoglio per (ammettiamolo) il colpaccio mediatico.

Ed ecco il Papa che, con affaticato sorriso, fingeva d’inchinarsi ai maestri cronisti; e lanciava moniti come saette all’informazione perfetta. Alché, ecco che mio figlio interrompeva la liturgia: «Ma, Papà, scusa, se non è giornalista, non scrive sui giornali, non ha programmi televisivi, perché cacchio gli hanno dato un premio di giornalismo?». E lì, pietrificato, non sono riuscito a rispondergli. Già, che c’azzecca il successore di Pietro col nostro mestieraccio? 

A dire il vero, gli ho blandamente opposto la motivazione ufficiale. Tirando fuori la «scelta inedita del Premio che si inquadra perfettamente in quello che era l’obiettivo che si erano posti Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca e Giancarlo Aneri, quando fondarono il Premio nel 1995: aiutare il giornalismo ad essere più consapevole del suo ruolo di libera espressione e di contributo alla costruzione della giustizia attraverso il servizio alla verità».

L’erede mi guardava con compatimento: «Papà, dai...». L’imbarazzo si tagliava. Greg, hanno dato il premio al Pontefice perché «Papa Francesco interpreta il coraggio di usare il dialogo per dire parola di pace». «Pa’, ma allora vuol dire che non ci sono giornalisti che parlano di pace?...». Be’, dio, no, che c’entra. «Cioè, papà vuol dire che se il Papa commenta le partite del Boca Juniors, gli danno il Pallone d’oro? O se fa un film gli danno l’Oscar?...». In quel mentre io, paonazzo, balbettavo qualcosa e gli ricordavo che l’anno scorso è Giornalismo era andato a Fiorello («Peggio ancora...», la sua risposta). 

Mi tornava in mente quel che Ennio Flaiano pensava della fragilità dei premi di lunga gittata. E, con la scusa di andare in cantina a stappare un Prosecco Aneri, be’, riflettevo sulla grandezza di Francesco, in grado di sfruttare tutti i mezzi, anche un premio del genere per diffondere la missione pastorale. Epperò, oggi mi pongo due domande. Anzi tre. La prima. 

Possibile che non ci fossero in giro ottimi cronisti da premiare, davvero abbiamo finito i giornalisti bravi? La seconda. Dopo avere premiato il Papa, dove si porterà l’asticella del marketing: ai Premi Nobel, ai capi di Stato, ai fisici quantistici che hanno scritto almeno un pezzullo nella vita purché famosi? La terza domanda è la più ficcante: quando Gregorio Indro la smetterà di prendere così sul serio il suo nome, per buttarsi, finalmente, sulla Playstation?

Papa Francesco Bergoglio attacca la disinformazione: “il primo peccato del giornalismo”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Agosto 2023 

Il Papa ha chiesto un aiuto al mondo del giornalismo in vista del Sinodo dei Vescovi che si svolgerà nel prossimo ottobre a Roma : " oso chiedere aiuto a voi, maestri di giornalismo: aiutatemi a raccontare questo processo per ciò che realmente è, uscendo dalla logica degli slogan e di racconti preconfezionati. No, la realtà”.

Il Papa evidenzia e contesta i danni della disinformazione. “E’ uno dei peccati del giornalismo, che sono quattro: la disinformazione, quando un giornalismo non informa o informa male; la calunnia (a volte si usa questo); la diffamazione, che è diversa dalla calunnia ma distrugge; e il quarto è la coprofilia, cioè l’amore per lo scandalo, per le sporcizie, lo scandalo vende. La disinformazione è il primo dei peccati, degli sbagli – diciamo così – del giornalismo”, ha detto il Santo Padre accogliendo in udienza la delegazione che gli ha conferito il Premio “è Giornalismo”.

”Dovete sapere che io, ancora prima di diventare Vescovo di Roma, ero solito declinare l’offerta di premi. Mai ne ho ricevuti, non volevo. E ho continuato a fare così anche da Papa. C’è però un motivo che mi ha spinto ad accettare il vostro, – ha spiegato Bergoglio – ed è l’urgenza di una comunicazione costruttiva, che favorisca la cultura dell’incontro e non dello scontro; la cultura della pace e non della guerra; la cultura dell’apertura verso l’altro e non del pregiudizio. Voi siete tutti illustri esponenti del giornalismo italiano. Permettetemi, allora, di confidarvi una speranza e anche di rivolgervi con tutta franchezza una richiesta di aiuto. Ma non vi chiedo soldi, state tranquilli! La speranza è questa: che oggi, in un tempo in cui tutti sembrano commentare tutto, anche a prescindere dai fatti e spesso ancora prima di essersi informati, si riscopra e si torni a coltivare sempre più il principio di realtà – la realtà è superiore all’idea, sempre –: la realtà dei fatti, il dinamismo dei fatti; che mai sono immobili e sempre si evolvono, verso il bene o verso il male, per non correre il rischio che la società dell’informazione si trasformi nella società della disinformazione“.

Papa Francesco, ripreso dall’ da Adnkronos, indica la strada: “Per far questo, c’è bisogno di diffondere una cultura dell’incontro, una cultura del dialogo, una cultura dell’ascolto dell’altro e delle sue ragioni. La cultura digitale ci ha portato tante nuove possibilità di scambio, ma rischia anche di trasformare la comunicazione in slogan. No, la comunicazione è sempre andata e ritorno. Io dico, ascolto e rispondo, ma sempre dialogo. Non è uno slogan”.

Il Papa ha chiesto un aiuto al mondo del giornalismo in vista del Sinodo dei Vescovi che si svolgerà nel prossimo ottobre a Roma : “Vogliamo contribuire insieme a costruire la Chiesa dove tutti si sentano a casa, dove nessuno sia escluso. Quella parola del Vangelo che è tanto importante: tutti. Tutti, tutti: non ci sono cattolici di prima, di seconda e di terza classe, no. Tutti insieme. Tutti. È l’invito del Signore. Per questo oso chiedere aiuto a voi, maestri di giornalismo: aiutatemi a raccontare questo processo per ciò che realmente è, uscendo dalla logica degli slogan e di racconti preconfezionati. No, la realtà”. 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO IN OCCASIONE DEL CONFERIMENTO DEL PREMIO “È GIORNALISMO”

Sabato, 26 agosto 2023

Cari amici, benvenuti!

Vi saluto e vi ringrazio per questo incontro e per il conferimento del Premio “è Giornalismo”. Dovete sapere che io, ancora prima di diventare Vescovo di Roma, ero solito declinare l’offerta di premi. Mai ne ho ricevuti, non volevo. E ho continuato a fare così anche da Papa. C’è però un motivo che mi ha spinto ad accettare il vostro, ed è l’urgenza di una comunicazione costruttiva, che favorisca la cultura dell’incontro e non dello scontro; la cultura della pace e non della guerra; la cultura dell’apertura verso l’altro e non del pregiudizio. Voi siete tutti illustri esponenti del giornalismo italiano. Permettetemi, allora, di confidarvi una speranza e anche di rivolgervi con tutta franchezza una richiesta di aiuto. Ma non vi chiedo soldi, state tranquilli!

La speranza è questa: che oggi, in un tempo in cui tutti sembrano commentare tutto, anche a prescindere dai fatti e spesso ancora prima di essersi informati, si riscopra e si torni a coltivare sempre più il principio di realtà – la realtà è superiore all’idea, sempre –: la realtà dei fatti, il dinamismo dei fatti; che mai sono immobili e sempre si evolvono, verso il bene o verso il male, per non correre il rischio che la società dell’informazione si trasformi nella società della disinformazione. La disinformazione è uno dei peccati del giornalismo, che sono quattro: la disinformazione, quando un giornalismo non informa o informa male; la calunnia (a volte si usa questo); la diffamazione, che è diversa dalla calunnia ma distrugge; e il quarto è la coprofilia, cioè l’amore per lo scandalo, per le sporcizie, lo scandalo vende. La disinformazione è il primo dei peccati, degli sbagli – diciamo così – del giornalismo.

Per far questo, però, c’è bisogno di diffondere una cultura dell’incontro, una cultura del dialogo, una cultura dell’ascolto dell’altro e delle sue ragioni. La cultura digitale ci ha portato tante nuove possibilità di scambio, ma rischia anche di trasformare la comunicazione in slogan. No, la comunicazione è sempre andata e ritorno. Io dico, ascolto e rispondo, ma sempre dialogo. Non è uno slogan. Mi preoccupano ad esempio le manipolazioni di chi propaga interessatamente fake news per orientare l’opinione pubblica. Per favore, non cediamo alla logica della contrapposizione, non lasciamoci condizionare dai linguaggi di odio. Nel drammatico frangente che l’Europa sta vivendo, con il protrarsi della guerra in Ucraina, siamo chiamati a un sussulto di responsabilità. La mia speranza è che si dia spazio alle voci di pace, a chi si impegna per porre fine a questo come a tanti altri conflitti, a chi non si arrende alla logica “cainista” della guerra ma continua a credere, nonostante tutto, alla logica della pace, alla logica del dialogo, alla logica della diplomazia.

E ora vengo alla richiesta di aiuto. Proprio in questo tempo, in cui si parla molto e si ascolta poco, e in cui rischia di indebolirsi il senso del bene comune, la Chiesa intera ha intrapreso un cammino per riscoprire la parola insieme. Dobbiamo riscoprire la parola insieme. Camminare insieme. Interrogarsi insieme. Farsi carico insieme di un discernimento comunitario, che per noi è preghiera, come fecero i primi Apostoli: è la sinodalità, che vorremmo far diventare abitudine quotidiana in ogni sua espressione. Proprio a questo scopo, fra poco più di un mese, vescovi e laici di tutto il mondo si riuniranno qui a Roma per un Sinodo sulla sinodalità: ascoltarsi insieme, discernere insieme, pregare insieme. La parola insieme è molto importante. Siamo in una cultura dell’esclusione, che è una specie di capitalismo della comunicazione. Forse la preghiera abituale di questa esclusione è: “Ti ringrazio, Signore, perché non sono come quello, non sono come quello, non sono…”: si escludono. Dobbiamo ringraziare il Signore per tante cose belle!

Capisco benissimo che parlare di “Sinodo sulla sinodalità” può sembrare qualcosa di astruso, autoreferenziale, eccessivamente tecnico, poco interessante per il grande pubblico. Ma ciò che è accaduto nell’anno appena passato, che proseguirà con il momento assembleare del prossimo ottobre e poi con la seconda tappa del Sinodo 2024, è qualcosa di veramente importante per la Chiesa. È un cammino che ha incominciato San Paolo VI, alla fine del Concilio, quando ha creato il Segretariato del Sinodo dei Vescovi, perché si era accorto che nella Chiesa occidentale la sinodalità era venuta meno, invece nella Chiesa orientale hanno questa dimensione. E questo cammino così, di tanti anni – 60 anni – sta dando un frutto grande. Per favore, abituarci ad ascoltarsi, a parlare, a non tagliarsi la testa per una parola. Ascoltare, discutere in modo maturo. Questa è una grazia di cui abbiamo bisogno tutti noi per andare avanti. Ed è qualcosa che la Chiesa oggi offre al mondo, un mondo tante volte così incapace di prendere decisioni, anche quando in gioco è la nostra stessa sopravvivenza. Stiamo cercando di imparare un modo nuovo di vivere le relazioni, ascoltandoci gli uni gli altri per ascoltare e seguire la voce dello Spirito. Abbiamo aperto le nostre porte, abbiamo offerto a tutti la possibilità di partecipare, abbiamo tenuto conto delle esigenze e dei suggerimenti di tutti. Vogliamo contribuire insieme a costruire la Chiesa dove tutti si sentano a casa, dove nessuno sia escluso. Quella parola del Vangelo che è tanto importante: tutti. Tutti, tutti: non ci sono cattolici di prima, di seconda e di terza classe, no. Tutti insieme. Tutti. È l’invito del Signore.

Per questo oso chiedere aiuto a voi, maestri di giornalismo: aiutatemi a raccontare questo processo per ciò che realmente è, uscendo dalla logica degli slogan e di racconti preconfezionati. No, la realtà. Qualcuno diceva: “L’unica verità è la realtà”. Sì, la realtà. Ne trarremo tutti vantaggio e, ne sono certo, anche questo “è giornalismo”!

Cari amici, di nuovo vi dico il mio grazie per questo incontro, per quello che significa in riferimento al nostro comune impegno per la verità e per la pace. Affido tutti voi all’intercessione di Maria e vi raccomando: non dimenticatevi di pregare per me! Redazione CdG 1947

Fake news: per 3 italiani su 4 sono difficili da scoprire? Ecco come fare. Gloria Ferrari su L'Indipendente mercoledì 16 agosto 2023.

Se fino a qualche anno fa la maggior parte degli italiani si diceva certa di saper distinguere notizie vere da quelle false, oggi, vi è una crescente porzione di cittadini che ammette senza remore di faticare a distinguere una fake news. I dati dell’ultimo rapporto Censis dicono che circa il 76% dei cittadini ritiene che le fake news siano sempre più “ben fatte” e quindi complicate da scoprire, il 20% crede di non avere le competenze necessarie per riconoscerle – quota che sale circa al 39% tra gli over sessantaquattrenni e al 51% tra chi ha bassi titoli di studio – e il 61% pensa di averne ma non a sufficienza. Solo una piccola parte degli italiani (il 19%) crede di essere in grado di smascherare immediatamente una bufala. Ma tutelarsi è possibile, con alcuni accorgimenti.

Un quadro confusionario, frutto di una comunicazione eccessiva, poco chiara, e poco approfondita, che si è già mostrato durante la pandemia – quando i mass media hanno generato e veicolato una cascata di informazioni cui l’opinione pubblica è stata sottoposta costantemente, non di rado poi rivelatesi false – e che ora si sta riproponendo in maniera analoga con la questione climatica. In una dinamica dove i media principali si occupano di orientare l’opinione pubblica più che di informarla, finendo spesso a rilanciare notizie che poi non di rado si rivelano false o comunque mal contestualizzate. Un panorama in cui alla cattiva informazione del mainstream fanno da contraltare una miriade di siti, giornali e pagine social di cosiddetta “contro-informazione”, spesso tutt’altro che responsabili e rigorosi nella verifica delle fonti.

Venendo al concreto, i risultati della ricerca dicono che il 35% degli italiani è convinto che ci sia un allarmismo eccessivo sul cambiamento climatico – e che le alluvioni delle ultime settimane bastino a frenare la desertificazione – mentre la quota di chi nega del tutto l’esistenza del problema climatico supera il 16% della popolazione. In generale, quello che emerge è “un bisogno di rassicurazione sulla fondatezza e la qualità delle notizie che circolano, e la possibilità di affidarsi a professionisti che si impegnano ad arginare la disinformazione”.

Più facile a dirsi che a farsi. Considerando che ad oggi circa 47 milioni di italiani si informano abitualmente attraverso una delle fonti disponibili (l’83,5% sul web e il 74% sui media tradizionali) e che sono pochi quelli che lo fanno raramente o non lo fanno affatto, è importante che chi legge sappia che tipo di notizia ha davanti, riconoscendo più o meno in fretta anche quelle che non sono vere. Ma come si smaschera un’informazione falsa, soprattutto quando questa viaggia in maniera così rapida?

Regola uno: cercare sui motori di ricerca

Come ha spiegato Melissa Zimdars, professoressa di Comunicazione e Media al Merrimack College in Massachusetts, da tutto questo ci si può difendere tenendo a mente alcune pratiche.

Il primo consiglio è quello di approcciarsi alla notizia in maniera diffidente, in particolare se questa presenta un articolo capace di stupire o allarmare in maniera “esagerata”. Non di rado vi sono notizie che – anche se non classificabili come vere e proprie bufale – gonfiano la realtà con titoli strillati con l’obiettivo di invogliare i lettori a cliccare e leggere. Una tecnica che si chiama clickbait e che su L’Indipendente abbiamo scelto di non utilizzare, giudicandola dannosa per i lettori.

Se si nutrono dubbi sull’attendibilità della notizia può essere certamente utile cercare conferma per parole chiave sui motori di ricerca. Se, ad esempio, avete letto su un sito che il governo ha deciso di regalare diecimila euro a tutti i cittadini può bastare cercare sul motore di ricerca “Governo regala diecimila euro”. Se una notizia tanto importante viene riportata da pochissime fonti su internet possiamo essere ragionevolmente certi che le cose non stiano in questo modo.

Attenzione però, non è un criterio sempre valido. La maggior parte dei giornali mainstream adotta oggi due principi contrari alla puntualità dell’informazione: la fretta di pubblicare e il ricorso al copia-incolla. La frenesia di pubblicare una notizia e la voglia di arrivarci prima degli altri induce spesso nell’errore, tant’è che alcune testate si limitano a copiare rapidamente i comunicati emessi dalle agenzie – che a loro volta puntano su velocità e quantità – senza neppure verificarli. Significa, in pratica, che spesso si possono trovare notizie false riportate da decine di media che non hanno verificato la notizia prima di riportarla.

Regola 2: guardare chi ha scritto la notizia

Quando ci si informa online, meglio evitare estensioni ‘strane’, come tutti quei siti che terminano con ‘lo’, o con ‘. com.co’. Di solito sono la imitazioni false di testate più autorevoli. Se non siete certi, potete consultare la sezione “su di noi” della presunta testata.

Ma se da una parte il testo è un buon metro valutativo, lo è anche sapere chi lo ha scritto. Cercare online il nome dell’autore – capire per chi lavora e se magari su di lui esistono già altre ‘segnalazioni’ – può aiutare a smascherare notizie non vere. Inoltre alcuni giornali permettono ai blogger di pubblicare commenti sul proprio sito. È chiaro, però, che chi tenta di sponsorizzare qualcosa potrebbe non riportare un’informazione del tutto obiettiva e veritiera.

E, per un’ulteriore scrematura, meglio dare sempre un’occhiata alla data – e alle immagini che si utilizzano. A volte notizie vecchie vengono spacciate per nuove e inserite in un contesto che non c’entra niente con quello di partenza – così da snaturare l’informazione, che assume un altro significato.

Regola 3, la più importante: pretendere la fonte originale

Tuttavia, la regola più importante è cercare nel testo della notizia se è presente il link alla fonte primaria della stessa. Se un articolo parla di una importante scoperta scientifica deve contenere al suo interno la possibilità per il lettore di arrivare facilmente alla versione originale di quella stessa ricerca per poterla verificare. Questo concede al lettore la possibilità di verificare facilmente se la notizia è effettivamente reale e se è stata riportata in modo corretto dal media.

Si tratta di una regola che su L’Indipendente applichiamo rigorosamente e il modo in cui – ogni giorno – cerchiamo di fornire ai lettori informazioni sicure, verificate e verificabili. Mentre, d’altra parte, ci impegniamo a smascherare quante più bufale possibili nella sezione del nostro giornale intitolata “antifakenews“, attingendo da fonti sicure per verificare molte notizie riportate da mezzi d’informazione – spesso importanti e generalmente ritenuti attendibili – che non fanno bene il loro mestiere. [di Gloria Ferrari]

Le fake news dell’ultimo anno.

In lode delle fake news. Domenico Giordano su Panorama il 29 Settembre 2023

Secondo l'ultimo report della Commissione Europea l'Italia ha il maggior numero di notizie pubblicate sui social cancellate perché accusate di fare disinformazione Chi di noi, diciamolo senza timore, non ha avvertito, solo anche per pochi secondi, un senso di incredulità, una vaga percezione di straniamento che ci ha colti nel leggere i risultati dell’ultimo rapporto della Commissione Europea sulle attività semestrali delle Big Tech, impegnate a ridurre la disinformazione sulle loro piattaforme. Per molti è stato sorprendente sapere che Italia abbiamo il record negativo delle fake news in circolazione in rete. Solo nel primo semestre dell’anno, infatti, Meta ha cancellato in totale di 140.000 contenuti relativi ai 27 Stati membri da Facebook e altri 6.900 da Instagram che per ragioni diverse violano le norme sulla disinformazione. Di questi, circa 45.000 solo in Italia. Un numero abbastanza corposo, poco meno di un terzo, e comunque ben distante da quelli pubblicati e rimossi in Germania, circa 22.000, e in Spagna dove i contenuti cancellati sono stati, appena, 16.000.

È questa stessa sensazione la riproviamo ogni volta che leggiamo un post, un articolo o quanto in televisione seguiamo un dibattito sul tema con i relatori pronti a censurare fermamente lo tsunami delle fake news, con annesso il suo catalogo dei pericoli per le democrazie o per la salute delle persone. Così, tutte le volte, ecco ripresentarsi quella medesima sensazione di totale estraneità che ci porta a credere che in rete, nascoste nelle profondità del dark web, ci siano cellule di troll e di hacker-untori pronte a rilasciare nelle nostre camere dell’eco ogni genere di post-verità. Flussi inesauribili di informazioni non verificate che alimentano discussioni estenuanti e che ci rendono più deboli e fragili, che ci inducono ad arruolarci volontari nelle truppe del complottismo e dell’odio che cresce e divide le tribù cognitive che popolano la geografia della rete. Volendo parafrasare Francesco Cossiga, che amava sottolineare come “gli italiani sono sempre gli altri” per biasimarne la diffusa tendenza alla deresponsabilizzazione, potremmo dire adesso che le fake news sono sempre e solo quelle degli altri e mai le nostre. Invece, è arrivato il momento di acquisire coscienza che ciascuno di noi è un portatore sano di disinformazione, molte delle nostre interazioni digitali, delle nostre condivisioni dettate dalle emozioni visive, sono le cellule vitali della disinformazione. Justin Cheng, assieme ai suoi colleghi della Stanford University, ci ricorda che Anyone could become a troll, ovvero che ciascuno di noi in rete può tirare fuori il peggio di sé, anche se è per tutti la persona più tranquilla, moderata e cauta che ci sia. La rete e le piattaforme ci hanno donato un sovraccarico informativo che siamo portati a ridurre applicando due filtri principali: da un lato il pregiudizio di conferma, che ci spinge a selezionare solo le informazioni che confermano le nostre convinzioni di partenza, dall’altro c’è la profilazione dell’algoritmo, che sceglie in base alle nostre impronte digitali precedenti. È chiaro che in questo eco-sistema mediatico ognuno di noi è, volente o nolente, uno scafista della disinformazione, ogni giorno trasportiamo da una sponda all’altra della rete centinaia di fake news. Una migrazione inarrestabile che possiamo provare a combattere non più puntando il dito contro la Spectre della disinformazione, l’entità misteriosa, ma semplicemente iniziando a vivere con maggior lentezza il rapporto con il singolo contenuto digitale, passando da un approccio quantitativo a uno qualitativo, misurando la notizia con il metro della ragione e non solo con quello dell’emozione. È arrivato il momento di scontrarci con una verità funzionale: le fake news non esistono, se non nella nostra ingordigia di informazioni, nella bulimia emotiva che ci tiene legati in uno binomio incestuoso alla rete.

Il triste primato. Italia patria delle fake news: record di contenuti rimossi per disinformazione legata alla salute o ai temi politici. Alessio De Giorgi su Il Riformista il 29 Settembre 2023 

Nei giorni scorsi è circolato il report del primo semestre 2023 prodotto da Meta, la bigtech statunitense proprietaria di Facebook, Instagram e Whatsapp, e pubblicato sul sito disinfocode.eu, un progetto della Commissione Europa volto a contrastare fake news, disinformazione e ingerenze straniere sui social media e in generale nel mondo digitale. Si tratta di una importante iniziativa di co-regolazione tra Istituzioni europee e società bigtech che risale al 2018 con un primo codice di autoregolamentazione dei principali attori del settore, che è arrivato alla firma definitiva nel giugno 2022 e che è diventato effettivamente operativo da qualche mese. Il progetto peraltro precede il Digital Service Act, approvato dall’Unione Europea nell’aprile 2022, che finalmente proprio in questi mesi sta entrando in vigore e che costringerà tutte le grandi piattaforme digitali a tutta una serie di misure sulla carta efficaci di trasparenza e di contrasto alla disinformazione.

I dati hanno fatto discutere ma non hanno sorpreso gli addetti ai lavori: l’Italia è ai primi posti della disinformazione, almeno per quanto riguarda quella individuata e contrastata da Meta su Facebook ed Instagram. Se nell’attività di monitoraggio di fact-checker indipendenti è la Francia ad avere il primato con 7,4 milioni di contenuti identificati come “fake-news” nel primo semestre dell’anno contro i 7 dell’Italia, i 6,8 milioni della Germania ed i 6,1 della Spagna, è il nostro Paese ad avere il triste record di contenuti rimossi per disinformazione legata alla salute o ai temi politici: 45000 sono i contenuti rimossi in Italia, 22000 in Germania, 16000 in Spagna e 12000 in Francia. Complessivamente, nel primo trimestre del 2023 Facebook a livello mondiale ha bloccato 426 milioni di account identificati come fake, bot o comunque come divulgatori sistematici di fake-news, dato che nel secondo trimestre è cresciuto a 676 milioni di account, a dimostrazione dello sforzo che la bigtech guidata da Mark Zuckerberg sta oggettivamente facendo a livello globale per bloccare la disinformazione e le ingerenze straniere ed anche per allineare le proprie politiche interne alle norme europee recentemente entrate in vigore con l’approvazione del Digital Services Act.

I report di Meta toccano anche il delicatissimo tema della pubblicità online, su cui – peraltro – va ricordato che è in dirittura di arrivo un regolamento specifico da parte dell’Unione Europea di cui è relatore l’europarlamentare Sandro Gozi.

Se Meta quindi prova a dare il suo contributo, anche gli altri attori via via si stanno allineando, sebbene a velocità diverse. L’altro gigante bigtech Google, pur con tutte le sue particolarità di non essere un social media vero e proprio, ha pubblicato i suoi dati che dimostrano anche in questo caso un tentativo di contrastare la disinformazione su Google Search e su YouTube. In affanno invece le altre aziende: TikTok ha pubblicato il report, ma i dati che sono stati forniti sono decisamente inferiori a quelli dei propri concorrenti, segno di una minore attività di contrasto al fenomeno, mentre X-Twitter, il gigante acquistato e pesantemente rinnovato da Elon Musk, non ha ancora pubblicato i dati, ennesimo segno di un loro sostanziale disinteresse al tema.

Quello cui stiamo assistendo è sostanzialmente un riflusso dei social network. Dopo la “sbornia” da deregulation dei social network dello scorso decennio, culminata con lo scandalo di Cambridge Analytica e con le campagne elettorali di Donald Trump, della Brexit e – in Italia va sempre ricordato – del referendum costituzionale del 2016, va riconosciuto lo sforzo di alcune bigtech, Meta e Google in particolare, di provare a cambiare la situazione. A partire dal 2018, ad esempio, è stata per prima Meta a costringere chiunque voglia fare pubblicità politica ed elettorale a registrarsi su una piattaforma costruita ad hoc ed a fornire i dati di chi finanzia le attività, pubblicando poi tutti i dati, aggregati e disaggregati, su un sito dedicato proprio alla trasparenza. Google ha seguito a ruota, con normative di autoregolamentazione altrettanto stringenti. Meta ha poi negli anni successivi rimosso alcuni target politici specifici, ad esempio impedendo di fare pubblicità su utenti che l’algoritmo considerava come conservatori o come progressisti, mettendo i bastoni tra le ruote a molti attori della disinformazione politica. Il combinato disposto dei due interventi ha probabilmente ridotto gli introiti che Meta ha ricavato dalla pubblicità politica, ma ha anche diminuito fortemente la pressione della politica e dell’opinione pubblica dopo gli scandali della metà degli anni ’10 e fatto dormire sonni più tranquilli ai suoi dirigenti.

Tutto questo lavoro è sufficiente? Probabilmente no, ma sicuramente la strada è segnata ed è quella giusta. Rimangono molte zone d’ombra, ad esempio quelle relative alle attività di ingerenza di alcuni Stati esteri, la cui identificazione in questi report è sicuramente ancora sottostimata. Rimangono problemi con alcuni attori, primi tra tutti X-Twitter – il cui nuovo proprietario, Elon Musk, ha più volte detto che la libertà di informazione (ma aggiungiamo noi, anche quella di disinformazione) è intoccabile, tanto da aver agevolato il ritorno sulla propria piattaforma dell’ex Presidente USA Donald Trump, bannato dalla precedente gestione aziendale – e TikTok, la grande azienda cinese, che dà sicuramente segnali di disponibilità ma su cui rimangono enormi incognite rispetto alla gestione dei dati ed alla trasparenza.

Non è un caso che tutti questi sforzi di Bruxelles si concentrino in questi mesi. Le elezioni europee sono alle porte e con gli scenari internazionali di tensioni e forti cambiamenti – specie dopo l’invasione russa in Ucraina – la paura di ingerenze straniere nei processi di scelta politica è fortissima, tanto da aver indotto la Commissione europea, nelle scorse settimane, ad intervenire sulle bigtech a proposito delle attività di disinformazione registrate nella campagna elettorale della Slovacchia, che va alle urne nella giornata di domani.

L’entrata in vigore del DSA, da alcuni visto come un attacco alla libertà di pensiero ma in realtà agile e misurato strumento contro la disinformazione, è positiva: l’Europa ci prova, ora sta anche agli Stati membri fare il proprio lavoro nel contrasto delle fake news. E l’Italia, su questo, è però drammaticamente ferma, mentre altri Paesi europei istituiscono authority ad hoc.

Alessio De Giorgi. Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva

Le cinque fake-news del 2022: dai negazionisti del clima al Genitore 1 e Genitore 2. Simone Alliva su L’Espresso il 26 Dicembre 2022.

Narrazioni politiche, propaganda e complotti: ecco le bufale dell'anno passato e (forse) dell'anno che verrà

L’analisi dell’anno 2022 – non fanno eccezione i precedenti - ci regala un formidabile breviario sulla fortuna e sui limiti della spregiudicatezza di alcuni politici. Un Bignami sulle fake news, la propaganda basata sulla denigrazione e sulla menzogna utile. Questioni che hanno tenuto banco per mesi, ispirato dibattiti e spesso proposte di legge. Narrazioni politiche che finiscono per travolgere moltissime persone convinte di essere depositarie della verità nascosta da chi complotta per tenerci tutti all'oscuro di come va il mondo.

In buona fede o pessima fede, alimentate da politici e giornalisti, ecco cinque delle più dibattute fake-news dell’anno trascorso.

1) No, la polizia morale dell’Iran non è stata abolita

L’Iran torna sotto gli occhi dell'Occidente. E la sua rivoluzione sociale e culturale esplosa dopo la morte di Mahsa Amini, la giovane curda di 22 anni - morta per mano di chi l'ha arrestata- ha portato da noi anche ogni tipo di bufala e propaganda. Quella dell’abolizione della polizia morale è stata la più dibattuta e recente, circolata su buona parte dei giornali italiani e internazionali, sordi alla richiesta di prudenza da parte di esperti di Iran e attivisti. Un inganno che nasce da alcune dichiarazioni di Mohammad Jafar Montazeri, procuratore generale della repubblica islamica e importante esponente del regime, che dichiara all’agenzia stampa iraniana Isna, domenica 4 dicembre: il governo ha smantellato la polizia religiosa e lavora per modificare la legge che obbliga le donne iraniane a indossare il velo islamico, cioè l’hijab. Le parole di Montazeri, però, non sono state poi confermate da nessun altro membro del regime iraniano. L’eliminazione della polizia morale è fin dall’inizio uno degli obiettivi delle proteste. Nel corso dei mesi, tuttavia, i manifestanti avevano molto ampliato le loro richieste, iniziando a chiedere la fine del regime e l’instaurazione di un sistema democratico. Per capire che si trattava di un fake news sono servite le analisi di Borzou Daragahi, corrispondente per il Medio Oriente dell’Independent, le televisioni di stato iraniano hanno rigettato ogni ipotesi di un possibile smantellamento della polizia religiosa, sostenendo al contrario che il corpo non sarà assolutamente toccato e manterrà tutte le sue funzioni. A confermare la poca credibilità della notizia sono anche gli stessi manifestanti che hanno continuato le loro proteste.

2) No, l'Italia non è l'unico paese dove si fanno i Rave

La lotta ai rave party ha dato la battuta d’inizio a questo governo. Si è conclusa con un decreto che è diventato il cavallo di Troia per un liberi tutti: dai no-vax ai corrotti. Spesso le polemiche riguardavano l’eccessiva severità delle pene se confrontate con quelle in vigore in altri Paesi europei. Dall’altra parte della barricata il Governo affermava che bisognava introdurre maggiori restrizioni contro i rave party, sostenendo che questo tipo di feste si tenesse soprattutto in Italia. È stato il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, il 3 novembre, in un’intervista a La Stampa a definire «giusto» il provvedimento del Governo perché «l’Italia non può essere il Bengodi dove vengono a fare i rave da tutta Europa». Sui rave (essendo fenomeni illegali) non esistono statistiche ufficiali a livello europeo che possano dirci dove siano più frequenti e partecipati. Sappiamo, tuttavia, che non è vero che questo tipo di eventi si tengano solo in Italia. Spagna, Francia e Germania, il fenomeno è diffuso in tutta Europa. Il primo gennaio 2022, a Rijswijk, in Olanda, la polizia olandese ha bloccato un rave party organizzato per celebrare l’inizio del nuovo anno, a cui hanno preso parte centinaia di persone. Risale a giugno, in Repubblica Ceca, l’Anniversary rave, un grande rave party organizzato anche grazie alla creazione di un apposito gruppo su Facebook, con i partecipanti provenienti da diverse nazioni di tutta Europa.

3) No, le navi ONG non attirano i migranti

«Le navi umanitarie sono un fattore di attrazione per i migranti» così il 26 ottobre, intervistato da La Stampa, il nuovo ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha sfoderato una teoria cara ai partiti di destra e non solo. Si chiama “pull factor” (“fattore di attrazione”): i migranti sarebbero spinti a partire dalle coste del Nord Africa sapendo che ci sono navi pronte a salvarli e a portarli in Italia. Ad agosto 2017, in un’intervista con il Corriere della Sera, era stato Luigi Di Maio, non ancora capo politico del Movimento 5 stelle, a definire le navi Ong «taxi del mare». Una teoria che si trascina ad oggi e che promette di entrare anche nell’anno che verrà. Il problema di questa ipotesi è semplice: non ci sono dati che la sostengono. Anzi, quelli a disposizione dicono il contrario. A settembre 2020 è stata pubblicata una ricerca realizzata da Eugenio Cusumano, ricercatore in Relazioni internazionali dell’Università di Leiden, nei Paesi Bassi, e da Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). Gli unici fattori che hanno impatto nell’aumento del numero delle partenze sono le condizioni meteo (quelle favorevoli incentivano le traversate in mare) e il livello di instabilità politica.

4) No, i cambiamenti climatici non ci sono da sempre

Dal crollo di una parte del ghiacciaio della Marmolada, che il 3 luglio ha causato la morte di almeno undici persone, fino all’abbassamento del livello dei fiumi in Italia. Minimizzare è la risposta di una parte politica che preferisce non approfondire un fenomeno che riguarda la sopravvivenza del pianeta. Ne sa qualcosa Lucio Malan, senatore di Fratelli d’Italia, che il 4 luglio ha rilanciato sui suoi profili social la sua teoria sulla crisi climatica: «I negazionisti del cambiamento climatico siete voi gretini. Chi ha studiato sa che i cambiamenti ci sono da sempre».

Sì, il clima terrestre è cambiato molte volte nel corso della storia ma i cambiamenti climatici registrati negli ultimi 150 anni, cioè dall’inizio della rivoluzione industriale, segnano un’eccezione per il nostro pianeta, in termini di velocità e portata. Unanime su questo tutta la comunità scientifica internazionale che non ha dubbi sulla principale causa principale del fenomeno: le attività degli esseri umani e nello specifico la produzione di CO2. Non è un caso che gli attivisti per il clima indichino come deadline il 2030. Per contenere l’aumento delle temperature entro la fine del secolo intorno agli 1,5°C rispetto all’epoca pre-industriale, le emissioni a livello mondiale dovranno ridursi almeno della metà entro 7 anni. E bisognerà raggiungere la neutralità climatica (ossia ciò che è emesso deve essere riassorbito dal pianeta) entro il 2050.

5) No, la dicitura genitore 1 e genitore 2 non è mai esistita.

Il discorso di Giorgia Meloni il 19 Ottobre 2019 durante una manifestazione a Roma in piazza San Giovanni è diventato una canzone virale sui social. Per Matteo Salvini la battaglia contro “Genitore 1 e Genitore 2”, resta così identitaria da averla inserita nel programma elettorale della Lega. Per tutto il 2022 politici, commentatori e giornalisti, anche dei quotidiani più progressisti, hanno annunciato eventuali ritorni e cancellazioni dai documenti.

Eppure la dicitura “Genitore 1, genitore 2” non esiste. Non è mai esistita.

Una fiaba piccolissima che inizia nel 2013 nel Comune di Venezia e diventa, è il caso di dirlo, una balla spaziale. È Camilla Seibezzi, 52 anni e una figlia avuta con un’altra donna dentro una relazione durata 13 anni, a proporre la dicitura «genitore 1 – genitore 2» per la modulistica scolastica del Comune di Venezia, di cui era consigliera delegata a diritti civili e politiche anti-discriminazione. La richiesta puntava a modificare i moduli per l’iscrizione agli asili nido e alle scuole dell’infanzia che riportavano la dicitura “padre”, “madre”. La proposta intendeva inserire semplicemente la dicitura primo genitore e secondo genitore (cioè il primo che firma e il secondo che firma). Lesa maestà, minaccia alla famiglia tradizionale, gender: il tono propagandistico delle associazioni anti-lgbt droga così tanto il dibattito da dare alla proposta un rilievo nazionale. Arriva il 2015: il Governo Renzi introduce la carta d’identità elettronica, e per quanto riguarda i minori, nelle leggi e sui documenti compare il termine “genitori”, (attenzione: non “genitore 1” e “genitore 2”). Nel 2019 al Viminale, Salvini decide di sostituire “genitori” con “padre e madre”. Modifica che causa problemi non indifferenti ai bambini con un solo padre o una sola madre. Lo segnala anche il Garante della Privacy, sottolineando gli «effetti discriminatori», per esempio su quei minori che non avevano una figura paterna o materna, e i problemi nella raccolta dei dati e nel rispetto delle normative europee. Si arriva così ad oggi: il Tribunale civile di Roma, il 16 novembre con un'ordinanza in relazione al ricorso presentato dalle due madri della piccola (legale e adottiva) contro un decreto del 31 gennaio del 2019, dall'allora ministro dell'Interno, Matteo Salvini, impone una dicitura neutra “genitore”, non “padre” “madre”.

Fedez, Mentana, Blasi e gli altri: le 6 gaffe tv più imbarazzanti di quest'anno. Ecco le figuracce più imbarazzanti che conduttori, ospiti e personaggi famosi hanno fatto in questo anno sul piccolo schermo. Novella Toloni il 27 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Scivoloni, figuracce, attimi di défaillance. Chiamatele come preferite ma le gaffe rimangono uno dei momenti cult della televisione e dimenticarle, a volte, risulta impossibile. A ricordarcele ci sono il web e i social network che le ripropongono come emblema di quanto possa essere facile scivolare sulla più classica buccia di banana. E non si può certo dire che questo 2022 non ci abbia regalato "perle" da inserire negli annali delle gaffe più imbarazzanti della storia del piccolo schermo.

Andando in ordine cronologico, il personaggio ad avere inanellato una serie di gaffe l'una dietro l'altra (e tutte nella solita trasmissione) è stata la chiacchieratissima Ilary Blasi. Prima di finire al centro del gossip per la crisi con il Pupone, la presentatrice romana ha avuto più di un problema con la lingua italiana nel corso dell'ultima stagione dell'Isola dei famosi. Prima ha scambiato la "palapa", dove si riunivano i concorrenti con la "patata", poi ha coniato un nuovo (imbarazzante) verbo: "scoreggiare" invece di "scoraggiare". E Striscia la notizia non poteva che omaggiarla con un tapiro d'Oro.

Poche settimane dopo è toccato a Mahmood rendersi protagonista di una figuraccia durante la conferenza stampa di presentazione degli Eurovision song contest. In questo caso la gaffe non è stata linguistica, ma decisamente acustica. Il cantante stava rispondendo alle domande dei giornalisti e tra una parola e l'altra si è lasciato sfuggire un rutto, che il microfono ha riproposto in versione amplificata alla platea di ospiti internazionali. Vano il tentativo di Mahmood di tapparsi la bocca con la mano e il traduttore non è stato necessario.

Decisamente imbarazzante anche la gaffe commessa da Enrico Mentana durante l'ultima maratona elettorale. Il giornalista stava conducendo uno speciale dedicato al voto su La7 e nel concludere l'intervista con il presidente della regione Sicilia, Renato Schifani, è scivolato sul doppio senso. "Direttore, il presidente ci deve lasciare, fanno pressioni da dietro", ha spiegato l'inviato di La7 e Mentana ha chiuso così: "Eh no, le pressioni da dietro sono sempre pericolose". Risate in studio e break pubblicitario per superare l'impaccio.

Non è scivolata sul doppio senso, invece, Amanda Lear che, ospite di Domenica In lo scorso ottobre, si è resa protagonista di una gaffe quasi da censura. In studio Mara Venier stava parlando dell'uscita del film sulla vita di Salvador Dalì, nel quale si parla anche di lei e della loro relazione e nel visionare in anteprima il trailer, la Lear ha potuto vedere in azione l'attrice che l'ha interpretata e è scappata la battuta infelice: "Sembra una mignotta ucraina". Altro che imbarazzo.

Come dimenticare poi la défaillance di Sonia Bruganelli a Tv Talk. A inizio novembre l'opinionista è stata ospite della trasmissione di Rai3 per parlare di libri e autori e ha avuto più di un battibecco con il giornalista Riccardo Bocca. Presa dalla foga del dibattito la moglie di Bonolis ha punzecchiato l'opinionista, che aveva appena citato lo scrittore austriaco Thomas Bernhard: "Lei è andato a cena con Bernhard?". E Bocca l'ha gelata: "Essendo morto è difficile". Impossibile recuperare la figuraccia.

La carrellata delle gaffe più imbarazzanti del 2022 non poteva che concludersi con chi di figurette se ne intende. Durante una puntata del suo podcast Muschio Selvaggio, Fedez si è fatto cogliere impreparato dall'ospite di turno, Gerry Scotti. "Chi ca... è Strehler, raga?", ha detto il rapper commentando le parole di Scotti, che aveva ricordato la figura di Giorgio Strehler, uno dei più celebri attori e registi italiani del Novecento. E la sua caduta "artistica" ha fatto letteralmente il giro del web.

Dietro il giornalismo. Fedez, Di Caprio, Raiola: Leggo chiede scusa ai lettori per gli errori 2022. Da professionereporter.eu il 23 Dicembre 2022

Fedez che fa il baby sitter. Di Caprio che dona milioni di dollari all’Ucraina. Il procuratore di calcio Raiola che muore in anticipo. Sono alcune delle notizie sbagliate che ha dato nell’anno 2022 Leggo, il quotidiano gratuito del gruppo Caltagirone. 

La notizia non sono queste notizie, ma che Leggo ormai da quattro anni, a questo punto dell’anno, dichiara i suoi errori, su una pagina intera. In Italia, a quanto risulta, non lo fa nessun altro in modo così evidente. “Siamo convinti che sia inutile far finta di niente e sia controproducente nasconderlo. E allora abbiamo messo in fila i nostri sbagli, uno dopo l’altro. E, come avevamo promesso gli anni passati, siamo riusciti a farne di meno (soprattutto sul nostro sito internet), a farne di meno gravi… Chiedere scusa, scriverlo nero su bianco in prima pagina, crediamo sia doveroso. È il nostro modo per dimostrare affidabilità”, ha scritto il Direttore di Leggo, Davide Desario, nel suo fondo di giovedì 22 dicembre. 

FERRAGNI SI ARRABBIA

Ed ecco gli errori 2022. “Chiediamo ancora scusa agli interessati e ai lettori tutti”, inizia l’articolo che li elenca, firmato da Claudio Fabretti. 

Innanzitutto, la pandemia da Covid-19: “Il 10 gennaio abbiamo scritto che la conduttrice Francesca Barra era risultata positiva facendoci confondere dal fatto che non stesse bene la bambina. Lei ci ha subito segnalato l’errore e noi lo abbiamo corretto”. Fedez baby-sitter: “Lo scorso 21 febbraio abbiamo pubblicato sul web un articolo in cui veniva definito ‘baby-sitter’ Fedez, che rimaneva a casa con i bambini, mentre Chiara Ferragni era a New York vestita (come ha scritto lei) da Catwoman. Una definizione non felice che abbiamo corretto. Ma a diffondere ancor di più la cosa è stata proprio la Ferragni che ha deciso di dare in pasto ai suoi milioni follower uno screenshot con la definizione di baby sitter, quando era stata cambiata da molte ore. Per noi una shitstorm con accuse di maschilismo poco pertinenti, viste anche diverse scelte editoriali compiute dal nostro giornale. Per la Ferragni un autogol: ha contribuito a diffondere la definizione che voleva contrastare”. Di Caprio e l’Ucraina: “Anche il nostro giornale è caduto nell’errore di riportare la notizia secondo cui Leonardo Di Caprio aveva la nonna di Odessa e aveva perciò donato 10 milioni di dollari all’Ucraina. Una fake news”. Università errata: “In un incidente stradale a Ostia, è morta la studentessa americana Anne Katrin Butrel di 23 anni. Riportando la notizia, il 18 ottobre, abbiamo erroneamente ricordato che la ragazza frequentava la John Cabot University a Roma, informazione poi smentita”. Caso Raiola: “Il 29 aprile insieme a molte altre testate, per la verità, abbiamo anticipato di 24 ore la morte di Mino Raiola, il re dei procuratori del calcio”. Sindacalista in pensione: “Il 31 gennaio nell’articolo in cronaca milanese dal titolo ‘Milano, boom di botte e insulti ai dipendenti Atm: mandibole rotte e pistole puntate’, era stato interpellato Mauro Baroni attribuendogli il ruolo di coordinatore Filt Cgil gruppo Atm. Ma il sindacalista era ormai in pensione”. 

NERO SU BIANCO

Cercare ogni giorno di fare meglio. Imparando dai nostri errori -ha scritto Desario- Non ci stancheremo mai di provarci. Così anche alla fine del 2022, per il quarto anno consecutivo, abbiamo deciso di dedicare una pagina alle nostre imprecisioni degli ultimi dodici mesi: affermazioni sbagliate, fake news, valutazioni errate. Alcune sono finite su internet, altre sono andate in stampa. Insomma quello che non dovrebbe capitare a chi fa il nostro lavoro ma che, ahinoi, è capitato. Siamo, però, convinti che sia inutile far finta di niente e sia controproducente nasconderlo. E allora abbiamo messo in fila i nostri sbagli, uno dopo l’altro. E, come avevamo promesso gli anni passati, siamo riusciti a farne di meno (soprattutto sul nostro sito internet), a farne di meno gravi. Tutti assolutamente in buona fede. Non è una cosa da poco, credetemi. Ancor di più in un periodo complesso e di grandi cambiamenti come questo. Chiedere scusa, scriverlo nero su bianco in prima pagina, crediamo sia doveroso. È il nostro modo per dimostrare affidabilità. Perché noi ce la mettiamo tutta ma, se sbagliamo, state sicuri che ve lo diciamo. I lettori sono molto più acuti di quanto si voglia far credere. E in tanti, infatti, hanno apprezzato la nostra iniziativa. E questo ci ha dato la conferma che siamo sulla buona strada. Avanti. Insieme. Senza paura di chiedere scusa”.

Venerdì 23 Fiorello a “Viva Rai2!” ha raccontato l’iniziativa di Leggo sulle notizie sbagliate e ha proposto al Pd: “Prendete lui, Davide Desario, il Direttore di Leggo”.

Da Fedez "baby sitter" alle donazioni di Leonardo DiCaprio. Ecco i nostri errori dell'anno che sta per finire. Come ogni anno, non dimentichiamo l'appuntamento con i lettori per riconoscere gli errori commessi. Claudio Fabretti su Leggo il 22 Dicembre 2022.

Come ogni anno, non dimentichiamo l'appuntamento con i lettori per riconoscere gli errori commessi. Anche quest'anno ne abbiamo trovati, anche se - si spera - meno numerosi di altre occasioni. Chiediamo ancora scusa agli interessati e ai lettori tutti. Con una certezza: ogni giorno iniziamo a lavorare pensando a come avremmo potuto fare meglio il giorno prima. E non smetteremo mai di farlo anche nel 2023.

NIENTE COVID

La pandemia da Covid-19 è stata un terreno insidioso per le notizie. Nel nostro caso, ad esempio, il 10 gennaio, abbiamo scritto che la conduttrice Francesca Barra era risultata positiva facendoci confondere dal fatto che non stesse bene la bambina. Lei ci ha subito segnalato l'errore e noi lo abbiamo corretto.

FEDEZ BABY-SITTER

Lo scorso 21 febbraio abbiamo pubblicato sul web un articolo in cui veniva definito «baby-sitter» Fedez, che rimaneva a casa con i bambini mentre Chiara Ferragni era a New York vestita (come ha scritto lei) da Catwoman. Una definizione non felice che abbiamo corretto. Ma a diffondere ancor di più la cosa è stata proprio la Ferragni che ha deciso di dare in pasto ai suoi milioni follower uno screenshot con la definizione baby sitter quando era stata cambiata da molte ore. Per noi una shitstorm con accuse di maschilismo poco pertinenti, viste anche diverse scelte editoriali compiute dal nostro giornale. Per la Ferragni un autogol: ha contribuito a diffondere la definizione che voleva contrastare 

DICAPRIO E L'UCRAINA

Anche il nostro giornale è caduto nell'errore di riportare la notizia secondo cui Leonardo DiCaprio aveva la nonna di Odessa e aveva perciò donato 10 milioni di dollari all'Ucraina. Una fake news che in tempo di guerra è stato molto più difficile evitare.

UNIVERSITÀ ERRATA

In un incidente stradale a Ostia, è morta la studentessa americana Anne Katrin Butrel di 23 anni. Riportando la notizia, il 18 ottobre, abbiamo erroneamente ricordato che la ragazza frequentava la John Cabot University a Roma, informazione poi smentita.

CASO RAIOLA

Il 29 aprile insieme a molte altre testate, per la verità, abbiamo anticipato di 24 ore la morte di Mino Raiola, il re dei procuratori del calcio. Inizialmente smentita, la notizia del suo decesso è arrivata un giorno dopo.

SINDACALISTA

Il 31 gennaio nell'articolo in cronaca milanese dal titolo Milano, boom di botte e insulti ai dipendenti Atm: mandibole rotte e pistole puntate... era stato interpellato Mauro Baroni attribuendogli il ruolo di coordinatore Filt Cgil gruppo Atm. Ma il sindacalista era ormai in pensione. Un errore chiamarlo in causa non certo l'allarme che ha lanciato.

Paolo Travisi per leggo.it il 23 Dicembre 2022.

Leggo applaudito da Fiorello durante la diretta di Viva Rai2 per l'articolo in prima pagina, «Le nostre notizie sbagliate 2022», pezzo firmato da Claudio Fabretti, che raccoglie gli errori commessi in buona fede dalla redazione e l'editoriale del direttore Davide Desario. In buona fede, perché chiunque, svolgendo il proprio mestiere può sbagliare, è fisiologico nella natura umana, ma riconoscerlo e sbatterlo in prima pagina, usando un termine del gergo giornalistico, è un caso unico. 

E lo riconosce lo stesso Fiorello: «Certe cose bisogna evidenziarle», dice seriamente Fiorello, nella diretta del 22 dicembre, «hanno pubblicato tutti i loro errori, e chiedono scusa», dice con una certa meraviglia il conduttore, che da quando ha iniziato il suo programma nella fascia oraria delle 7.15 del mattino sta facendo il pieno di ascolti, con un effetto positivo sull'audience di Rai2. Il riconoscimento a Leggo, nell'ultima puntata del 2022 di Viva Rai2, che ritornerà con l'anno nuovo, il 16 gennaio 2023.

Il gancio al Pd

E poi il plauso al direttore di Leggo, Davide Desario, che dal 2019 ha dato inizio alla pagina annuale sulle notizie sbagliate. «Facciamo un bel primo piano al direttore Davide Desario. Pd prendete lui», dice ancora Fiorello, che poi vira sull'autoironia: «Fiorello è bravissimo e bellissimo, questa non è sbagliata direttore, era giusto. Questo teniamolo da parte», chiude lo showman tra gli applausi del suo fedelissimo pubblico.

Le nostre notizie sbagliate 2021, riconoscere gli errori e scusarsi per essere ancora più credibili. Davide Desario su Leggo il 21 Dicembre 2021.

Non c'è due senza tre. E quindi anche quest'anno, dopo il 2019 e il 2020, abbiamo deciso di dedicare una pagina ai nostri errori degli ultimi dodici mesi: numeri inesatti, dichiarazioni sbagliate, valutazioni errate. Quello che non dovrebbe capitare a chi fa il nostro lavoro ma che ogni tanto, ahinoi, capita. Ed è inutile far finta di niente, è controproducente nasconderlo.

Sbagliare non piace a nessuno e quasi a nessuno piace ammetterlo. Ma chiedere scusa, scriverlo nero su bianco in prima pagina, crediamo sia giusto. È il nostro modo per dimostrare affidabilità: insomma, noi ce la mettiamo tutta ma, se sbagliamo, state sicuri che ve lo diciamo.

Così abbiamo messo in fila i nostri sbagli, uno dopo l'altro. E, come avevamo promesso gli anni passati, siamo riusciti a farne di meno, meno gravi e soprattutto sempre in buona fede. Non è una cosa da poco, credetemi. Ancor di più in un periodo storico come questo.

Ci scusiamo, dunque, con i diretti interessati e con tutti i lettori. Insieme possiamo contrastare chi ci ha fatto minacce più o meno velate e chi ha utilizzato l'arma dei social network sperando di zittirci.

Tutti i nostri errori del 2021: dai virologi a Mourinho, dai numeri a Inzaghi. Redazione di Leggo

Anche quest’anno siamo andati alla ricerca degli errori commessi nel corso di questi dodici mesi di lavoro. Qualcuno l’abbiamo trovato, ma il trend ci dice che stiamo migliorando. Chiediamo ancora scusa agli interessati e a tutti i nostri lettori. Con una rinnovata certezza: ogni giorno iniziamo a lavorare pensando a come avremmo potuto fare meglio il giorno prima. E non smetteremo mai di farlo.

Le nostre notizie sbagliate 2021, riconoscere gli errori e scusarsi per essere ancora più credibili il 23 Dicembre 2021.

In tempo di pandemia, numerosi sono stati gli articoli e le interviste che coinvolgevano gli esperti. Così è capitato che il 2 marzo, nelle pagine della cronaca di Milano, il professor Massimo Galli (foto, sotto) nel catenaccio del nostro articolo sia stato definito virologo, invece è infettivologo. L’8 novembre, invece, nella notizia sulla vaccinazione influenzale è stato scritto che riguardava tre milioni di persone, invece erano circa 300mila.

Qualche scivolone anche nelle pagine sportive. Ad esempio, abbiamo compiuto un errore di valutazione, annunciando la firma del rinnovo di Simone Inzaghi con la Lazio a maggio (come anche altri giornali, per la verità), quando invece non solo la firma non ci sarebbe mai stata, ma un giorno dopo lo stesso Inzaghi avrebbe firmato per l’Inter. Il mercato estivo - si sa - trae spesso in inganno. Così sul fronte-Roma Leggo per molte settimane ha tirato la volata ad allenatori come Sarri e Allegri, destinati a prendere il posto di Fonseca, ignorando completamente che fosse invece quasi fatta per Mourinho (foto, sotto). Invece… E non è una consolazione che anche gli altri giornali non ne fossero a conoscenza e abbiano sbagliato.

PAGELLE CONFUSE

Nel pagellone degli Europei abbiamo scritto che Bastoni, Sirigu e Meret non hanno mai giocato nell’Italia vincente di Mancini. Ma non è così, perché sia Bastoni, da titolare, sia Sirigu avevano giocato eccome. Pochi giorni fa, infine, l’ultima inesattezza: la Juve ha fatto esordire Koni De Winter, un talentuoso difensore belga e noi abbiamo scritto che era olandese. Ce ne scusiamo, anche perché siamo convinti che De Winter diventerà un grande giocatore.

DICHIARAZIONI FRAINTESE

Qualche inevitabile sbaglio anche sul nostro sito internet. Il primo è avvenuto durante gli Europei di calcio: al collega Alessandro Antinelli della Rai abbiamo attribuito un virgolettato errato riguardo il suo incontro con un giocatore inglese (Phil Foden) definito «ubriaco», termine invece mai utilizzato dal giornalista nel suo racconto su Twitter. Ce ne siamo scusati direttamente con Antinelli. Il secondo risale al 23 novembre scorso: abbiamo scritto che Linda Batista (foto, sotto) - ospite di “Storie Italiane” - aveva affermato di essere dipendente del padiglione italiano di Expo di Dubai, cosa che si è verificata inesatta.

Frasi mai dette.

Les jeux sont faits. No, Giulio Cesare non ha detto: «Il dado è tratto» (e non usato neanche il latino)

Secondo Svetonio, il grande condottiero romano avrebbe pronunciato in greco la frase “anerríphtho kýbos” che è un imperativo, e si riferiva al gioco d’azzardo in generale. Maurizio Assalto su L’Inkiesta il 27 febbraio 2023.

«Il dado è tratto» è la celeberrima sentenza proferita da Cesare il 10 gennaio del 49 a.C., di ritorno dalle Gallie alla testa delle sue legioni vittoriose, al momento di varcare il Rubicone tra Rimini e Cesena per dare inizio alla guerra civile contro l’ex alleato Pompeo. O almeno, così la frase è riferita da Svetonio, che ovviamente la riporta in latino, iacta est alea (come compare nel cartiglio sotto lo stemma del comune di Rimini, con la variante grafica di origine medievale dalla j al posto della i), poi divenuta alea iacta est (così, sempre con la j, nello stemma della provincia di Forlì-Cesena). Anche se, stando al suo (di Svetonio) coevo Plutarco, la frase fu in realtà pronunciata in greco, la lingua colta dell’epoca, e aveva una forma leggermente diversa, anerríphtho kýbos (citazione, pare, da una commedia di Menandro), che è un imperativo, “sia gettato il dado” (e a questa lezione si attenne Erasmo da Rotterdam per sostenere che l’espressione tramandata in latino sarebbe un errore di trascrizione che ha trasformato l’imperativo futuro esto nell’indicativo presente est).

In ogni caso, rimane la perplessità sulla traduzione-tradizione italiana che ha introdotto quell’astruso “tratto” in luogo dei più perspicui “lanciato, gettato, scagliato”, che peraltro sarebbero il senso proprio di iactum, participio passato del verbo iacĕre (all’origine di una numerosa famiglia lessicale: proiettare, proiettile, reietto, deiezione…).  “Tratto” è invece in italiano il participio passato di trarre, che il vocabolario Treccani registra come “sinonimo antiquato o letterario di tirare, col significato di scagliare, gettare lontano”, ma che come significati principali ha quelli coerenti con il verbo latino da cui deriva, trahĕre, ossia tirare nel senso di trascinare, “muovere cosa o persona esercitando su di essa una forza di trazione” (Treccani). (In altri termini, l’agente del verbo trahĕre esercita una forza che perdura per tutto il tempo dell’azione e mantiene sempre un legame fisico con l’oggetto, mentre nel caso di iacĕre l’azione è istantanea e la forza si esaurisce nel momento in cui l’oggetto si distacca dall’agente: nella lingua italiana entrambe queste azioni possono essere rese con il verbo tirare, ma il latino è più preciso e conserva la distinzione).

Il problema vero, però, nasce con il sostantivo alea. Che non è esattamente il dado (espresso in latino con i vocaboli talus o anche tessera), ma il gioco dei dadi, e genericamente il gioco d’azzardo (consentito a Roma durante i Saturnali, dal 17 al 23 dicembre). Cesare sapeva di giocare d’azzardo quando, ignorando l’altolà del senato, varcava il fiumiciattolo più famoso della storia, che segnava il confine tra l’Italia e la Gallia Cisalpina. Affrontava il rischio. Alea iacta est significa che il gioco è iniziato, e non si può fermare. È come se avesse detto “Les jeux sont faits”, l’annuncio del croupier quando la pallina gira, chi ha puntato ha puntato, nulla si può più cambiare, è solo questione di vedere dove la sorte farà cadere questa pallina. Di qui il senso di irreversibilità, di scelta senza possibilità di ritorno, intrinseco alla locuzione latina come al suo corrispettivo nell’italiano d’oggi, che ha dato altresì origine allo spin off “Varcare il Rubicone”, nel senso di rompere gli indugi e prendere una decisione definitiva.

Nel 49 a.C. la pallina cadde sul numero puntato da Cesare, che in pochi mesi sarebbe diventato il padrone dell’Urbe, “dittatore democratico” secondo la ormai classica caratterizzazione di Luciano Canfora. È la fortuna che arride agli audaci, nonché, in questo caso, al leader più abile militarmente e politicamente. Ma mentre la pallina stava girando tutto era ancora possibile, era il momento dell’imprevedibilità che per definizione accompagna l’azzardo. Di qui il senso di incertezza che si lega all’irrevocabilità mescolandosi nei sottintesi dell’espressione usata da Cesare.

Azzardo, rischio, incertezza sono i valori semantici, connessi al vocabolo alea, anche depositati nella corrispondente locuzione italiana e trasfusi nell’alea accolta nel nostro vocabolario (“correre l’alea” = tentare la sorte), nonché nelle parole che ne derivano, aleatorio e aleatorietà. Prendiamo il caso di un “contratto aleatorio”, per esempio un’assicurazione sugli infortuni: è un “contratto in cui il valore della prestazione o controprestazione dipende da un fattore d’incertezza, che si può risolvere a vantaggio dell’una o dell’altra parte, caratterizzato pertanto dall’assunzione del rischio come elemento determinatore dell’oggetto” (Treccani). Spesso però, ecco il punctum dolens, il concetto di aleatorietà è chiamato in causa a sproposito.

Se l’esito di una puntata alla roulette si può a buon diritto definire aleatorio, nel senso che è totalmente affidato alla fortuna e quindi incerto, e se le proiezioni elettorali basate sui primi seggi scrutinati sono aleatorie non perché dipendano dalla dea bendata (dipendono dalle scelte degli elettori, a volte anch’essi bendati) ma perché un campione troppo esiguo non garantisce alcuna certezza, rientrando quindi nell’accezione più estesa del termine, altrettanto non si può dire dei casi – e sono i più – in cui aleatorio e aleatorietà sono usati senza alcun nesso con la loro pregnanza.

Il caso più ricorrente è probabilmente quello del “discorso aleatorio”. Che cosa vuol dire “discorso aleatorio”? Che è un discorso azzardato, rischioso, affidato alla fortuna? Che è un discorso incerto? Sì, magari incerto nel suo procedere, concettualmente zoppicante, ma questa incertezza non dipende dalla buona o malasorte, non è riferibile a fattori esterni, bensì è interna al discorso stesso e a chi lo sviluppa. Non è l’incertezza dell’azzardo. Va bene estendere la portata semantica delle parole, ma a forza di estenderle si perde il rapporto con il senso.

Un esempio, dall’intervista data da un manager a una rivista di settore: «Abbiamo bisogno di promuovere il made in Italy, ma attualmente rischia di essere un discorso aleatorio perché non si vedono risvolti pratici e concreti». Aleatorio? Verosimilmente questo signore intendeva che è un discorso campato in aria, e viene il sospetto che nella scelta lessicale agisca la suggestione di una blanda forma di paronomasia, laddove aleatorio, senza alcun nesso con l’etimo, può richiamare alla mente qualche cosa di alato e materializzare l’immagine di un oggetto volteggiante qua e là nel cielo come un aquilone senza meta.

Volteggiando nel linguaggio corrente, il termine aleatorio, da “azzardato-rischioso-incerto”, diventa così (improprio) sinonimo di “vago, volubile, indefinito, inconsistente, instabile, infondato, improbabile, inattendibile”. Ma allora perché non usare questi aggettivi? Vabbè, si dirà, è l’uso: l’uso modifica le parole, le stravolge, impone nuovi significati. Maestro di precisione, fautore dello stile analogista e quindi devoto al principio della ratio, in opposizione agli anomalisti che prediligevano la consuetudo, lo scrittore Giulio Cesare disapproverebbe. E forse si preparerebbe a lanciare un altro dado.

Da corriere.it il 15 Gennaio 2023.

Ci sono delle frasi che ci entrano in testa e che non se ne vanno più. Le usiamo nelle nostre conversazioni, le ricordiamo con nostalgia, pensando alla nostra infanzia o adolescenza. Frasi iconiche di film o cartoni animati che possiamo quasi recitare a memoria. Inevitabile dunque il trauma quando scopriamo che le abbiamo sempre dette in modo sbagliato. Sono piccole sviste, parole storpiate o abbreviazioni poi ripetute così tante volte da entrare nel frasario popolare. Ma in realtà non sono quelle corrette. Parliamo ovviamente di errori che vengono fatti sul doppiaggio di questi lungometraggio, quindi sulla versione italiana.

BIANCANEVE

L’esempio principe riguarda una frase che dice la matrigna di Biancaneve. Per tanti - forse la maggior parte - dei piccoli grandi spettatori dice: «Specchio specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?». Purtroppo no, la citazione corretta — attenzione al trauma per chi ancora non lo sa — è «Specchio SERVO delle mie brame, chi è la più bella del reame?».

THE MASK

«Spuuumeggiante!» dice The Mask nel flm omonimo del 1994. Ma il personaggio interpretato da Jim Carrey che si trasforma quando mette la maschera verde purtroppo esclama un’altra cosa. Lo ha rivelato Netflix  su Twitter per annunciare l’arrivo del film sulla piattaforma: «Sappiamo che non è facile realizzare solo ora che in realtà si dice “Sfumeggiante”». Non vi preoccupate, siamo rimasti sconvolti anche noi.

GUERRE STELLARI

Nell’ultimo capitolo della prima trilogia — in ordine cronologico — di Guerre Stellari viene pronunciata una delle frase più iconiche della saga. Siamo alla fine de «L’impero colpisce ancora» e un Darth Vader morente dice a Luke Skywalker: «Luke, io sono tuo padre». Sbagliato: in realtà la frase corretta è «No, io sono tuo padre».

BLADE RUNNER

Siamo nel futuro distopico di Blade Runner, ideato nel 1982. Il replicante Roy Batty dice al protagonista Rick Deckard: «Io ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare». Una frase che avremo ripetuto un milione di volte in svariate occasioni, ma in realtà quella corretta è «Io ne ho... viste, cose.. che voi umani non potreste immaginarvi». Simile, ma non uguale.

ALIENS

Una delle frasi più iconiche del film Aliens, del 1986, è quella che esclama un Bill Paxton in preda al panico. «Escono dalle fottute pareti!» siamo stati abituati a ricordare. E invece no: la frase corretta è: «Vengono fuori dalle pareti, vengono fuori dalle fottute pareti!»

ECCE BOMBO

Torniamo in Italia, per una frase che, almeno una volta, abbiamo detto tutti. «Faccio cose, vedo gente», racconta un po’ annoiata la misteriosa ragazza che dialoga con Michele, alter ego del regista Nanni Moretti nel film Ecce Bombo, del 1978. In realtà, dice: «Mah, te l’ho detto: giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose…»

PER UN PUGNO DI DOLLARI

Rimanendo nel settore “capolavori cinematografici” come non citare il film di Sergio Leone, Per un pugno di dollari, dove Clint Eastwood ripete nel finale il famosissimo proverbio messicano: «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l’uomo con la pistola è morto». In realtà la frase corretta è leggermente diversa: «Quando un uomo incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto».

THE KARATE KID

E infine sbarchiamo nel mondo di Karate Kid. Nel film del 1984 viene detto dal Maestro Miyagi «Metti la cera, togli la cera». Ecco, per essere precisi, la frase è «Dai la cera, togli la cera».

Film mai girati.

Fulvia Caprara per “La Stampa” il 9 gennaio 2023.

Film mai girati, successi mai esistiti, storie mai raccontate. Se la realtà fosse una sola, l'argomento non avrebbe alcun motivo di interesse. Succede, invece, che ne acquisti moltissimo perché il web ci ha da tempo abituato alla coesistenza di diversi mondi paralleli, di vero e di falso, di ipotetico e di concreto, di presente e di futuro.

 Nel mondo del cinema il fenomeno ha acquistato dimensioni stupefacenti, l'universo dei fake movies è in continua espansione, i titoli improbabili si moltiplicano e, con essi, il merchandising, i poster pubblicitari, le recensioni impossibili, i commenti, precisi e documentati, sul nulla.

 La galleria degli esempi è ampia e variegata, coinvolge tutti i generi cinematografici, stravolge i classici del grande schermo, rimastica B movies e capolavori intoccabili per poi sputarli in rete nella versione ritoccata, in attesa di un pubblico che faccia finta di abboccare.

 Si va da Inglorious Basterds (invece di «bastards») firmato da Quentin Tarantino al Buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone re-inventato con nuovo cast, Farah Fawcett, Caroline Munro, Bea Arthur. Da Spider-Man Far from home al posto di Spider-Man No way home a Gotham by night interpretato da una coppia fantomatica, formata da Robert De Niro e Ernest Borgnine. Dalla saga di The dark tower, talmente applaudita da essere giunta nientedimeno che al capitolo numero sette, forte di un cast pirotecnico di cui fanno parte Clint Eastwood, Jack Nicholson, Pam Grier, Lee Van Cleef a The pain and the yearning (Il dolore e il desiderio) attribuito a Mike Leigh con Judi Dench mattatrice.

Al primo accenno, al primo lancio di manifesto ben confezionato, corrispondono, immediati, fiumi di commenti, valutazioni, battute. C'è chi giura aver deciso di vedere l'opera, chi spiega di non aver letto il libro, ma di avere intenzione di valutarne la trasposizione cinematografica, chi prende subito le distanze, chi loda il cast e giudica performance. Il segreto è saper danzare sul vuoto dell'inesistente.

 I precedenti letterari non mancano, basta pensare a Jorge Luis Borges, all'arte della pseudoepigrafia e alla dichiarazione dello scrittore, nell'introduzione al racconto intitolato Il giardino dei sentieri che si biforcano: «Scrivere lunghi libri è una laboriosa, inaridente stravaganza... Un modo migliore di procedere è fingere che questi libri già esistano e proporne un riassunto, un commento».

 L'identico procedimento è adattabile ai film, la rete ha provveduto, e i risultati dilagano, in lungo e in largo per il metaverso di Internet. Lo sa bene Domenico Procacci, il primo, e finora unico, produttore italiano coinvolto nel grande gioco grazie a Goncharov, lanciato con una frase guida che scherza con l'inganno «il più grande film di mafia di tutti i tempi, quello che non avete mai visto» e che non vedrete mai, perché non esiste: «Non ne sapevo nulla - racconta il fondatore di Fandango - fino al giorno in cui amici che vivono all'estero mi hanno detto che sul "New York Times" si parlava di me.

 Mi sono informato, ho scoperto l'esistenza di "Goncharov", il film sarebbe datato '73, epoca in cui io avevo più o meno 13 anni, la cosa mi ha molto divertito e ho subito deciso di partecipare allo scherzo».

Una burla che, nel tempo, si è gonfiata, guadagnando complici importanti come Martin Scorsese, coinvolto con la formula «Martin Scorsese presents», la stessa che, a suo tempo, era stata usata, quella volta sul serio, per il lancio Usa di Gomorrah: «Avevamo fatto la proiezione a New York, il film era piaciuto molto a Scorsese, che aveva deciso di sostenerlo, così sul manifesto americano era stata scritta quella frase. Stavolta il nome di Scorsese rafforza l'invenzione».

 Il regista di Goncharov, protagonisti Robert De Niro e Al Pacino, insieme a Cybill Shepherd, Harvey Keitel, Gene Hackman, risponde al nome di Matteo Jwhj0715, ma nessuno s' impunta sulla stranezza di questo cognome, quello che conta è andare avanti, fornendo nuovi elementi di credibilità che vanno dalla creazione della colonna sonora e del trailer alla diffusione di magliette con il poster (acquistabili online e talmente carine da essere spesso indossate da Kasja Smutniak, moglie del fortunato produttore), alle citazioni rilanciate da attori famosi (come Ryan Reynolds che ha indicato la sua frase preferita) e, naturalmente, alle recensioni, ampiamente riportate su Tumblr, il sito cui si deve il primo spunto dell'avventura:

 «Ormai - commenta Procacci - il web vive di vita propria, rispondendo a logiche difficili da prevedere. Di tutto questo la cosa che più mi piace è l'uso di una creatività giocosa, senza un fine preciso. In un mondo come quello in cui viviamo dove tutto si fa per ottenere un risultato, è bello assistere a un caso basato solo sul puro divertimento».

Per nutrire la creatura Goncharov Domenico Procacci ha twittato una confessione autobiografica: «È il film da me prodotto di cui sono più orgoglioso. Avevo 13 anni quando l'ho realizzato, ero un ragazzo sveglio». Della trama, una saga di Cosa Nostra alla stregua del Padrino, si sa tutto. Al centro della scena c'è un protagonista adepto della mafia russa che ha deciso di chiudere con il malaffare, scegliendo di stabilirsi a Napoli insieme alla moglie, lontano dalle tentazioni criminali.

 Ma il passato ritorna e la vita di Goncharov sarà di nuovo sconvolta da nemici e pericoli mortali. La svolta, che fa immaginare ulteriori sviluppi della vicenda, l'ha fornita, via social, Francesca Scorsese, figlia 23enne dell'autore, che ha raccontato di aver messo il padre al corrente della fake- storia inviandogli un articolo del New York Times.

 Il regista non si è tirato indietro, anzi, ha avvalorato il tutto dicendo di aver realizzato Goncharov tanti anni fa. D'altra parte perché negare? Analisi filologiche e saggi accademici sono già stati stilati, mentre, su Wikipedia, in molti hanno tentato di aggiungere il titolo alla filmografia di Scorsese. Un bel gioco può durare molto, l'informazione ingannevole galoppa e, quando resta nell'ambito del cinema, potrebbe anche essere anche un modo per ravvivare idee, sfide, progetti.

Da professionereporter.eu il 30 dicembre 2022.

In un articolo sulla Stampa del 29 dicembre, Flavia Perina ricorda Giorgio Almirante, segretario del Movimento Sociale ai funerali del leader comunista, “da solo senza preavviso, né scorta”. E poi: “Era il 13 giugno 1976, davanti a Botteghe Oscure c’erano un milione di persone a pugno chiuso, con la prima pagina dell’Unità in mano e quell’enorme ‘Addio’ tinto di rosso”. 

No, nel 1976 doveva ancora essere rapito Moro, Berlinguer avrebbe preparato con il leader Dc il  governo delle larghe intese e poi, dopo la morte di Moro, avrebbe cancellato la strategia del compromesso storico e avrebbe consumato lo “strappo” con l’Urss. La morte avviene l’11 giugno 1984, a seguito di un malore durante un comizio a Padova, cinque giorni prima.

L’articolo di Flavia Perina era uno dei quattro dedicati alle polemiche sul presidente del Senato Ignazio La Russa, che ha celebrato il settantaseiesimo anniversario della nascita del Msi. 

Perina è stata nel Fronte della Gioventù, deputata di Alleanza nazionale, del Popolo della Libertà e di Futuro e Libertà con Gianfranco Fini. Nel 2013 ha abbandonato Futuro e libertà, ormai alla fine. Dal 2000 al 2011 ha diretto il Secolo d’Italia. Nel 2016 Roberto Giachetti, candidato sindaco di Roma, disse che -se fosse stato eletto- avrebbe nominato Perina capo della comunicazione. Fu eletta Virginia Raggi, Movimento 5 Stelle.

Su Berlinguer c’era stato un altro infortuno giornalistico, esattamente due anni fa. Il 2 gennaio 2021 su Repubblica il direttore Maurizio Molinari intervistava il fondatore Eugenio Scalfari. Verso la fine, Molinari domanda: “Che cosa ricordi del rapimento in via Fani?”. Risposta di Scalfari: “Poco prima del giorno in cui fu rapito, Moro mi aveva invitato nel suo studio spiegandomi il programma del nuovo governo che stava per nascere con il voto anche della sinistra: ‘Fra 15 giorni vado in Parlamento e propongo un’alleanza con il Pci’, mi disse. ‘Per due legislature’, aggiunse. Berlinguer era morto e Moro al momento non voleva il Pci al governo ma nella maggioranza parlamentare”.

Il rapimento avviene il 16 marzo 1978. Il segretario del Pci sarebbe morto (come ricordato decine di righe prima, nella stessa intervista) nel giugno 1984. 

Sia nel caso Perina sia nel caso Molinari, va sottolineato che quando ancora esistevano i correttori di bozze forse si sarebbero accorti degli errori, erano lì per quello. In ogni caso, anche oggi pezzi così importanti andrebbero “passati” con maggiore attenzione e cautela.

Menzogne Ideologiche.

Antonio Giangrande: La sinistra ha abbandonato I Diritti Sociali dei tanti (Il popolo dei ceti medio e bassi) poco rappresentati in Parlamento in favore de I Diritti Civili dei pochi (Immigrati, mussulmani, LGBTQIA+, ecc.) sovra-rappresentati in Parlamento rispetto al numero reale nella società italiana.

Cronaca vera. Il falso appello alla Scuola Holden e le inutili smentite nell’era della postverosimiglianza. Guia Soncini su L'Inkiesta il 30 Novembre 2023

Un cretino anonimo ha scritto un testo sgrammaticato per invitare a boicottare i docenti israeliani e sionisti, attribuendolo a sei ignari insegnanti. E ne è seguita una vicenda, scusate i termini, orwelliana e kafkiana

Non so come, fino a due mesi fa, rispondessi ai messaggi che contenevano link a notizie assurde, messaggi che come tutti voi ricevo a decine ogni settimana, essendo ormai il numero di notizie che ci paiono folli o paradossali o insensate parecchio superiore alla capienza della nostra attenzione.

Da due mesi, uso sempre una vignetta disegnata da Evan Lian e pubblicata a settembre sul New Yorker. C’è un ring di boxe, i due pugili negli angoli, e in mezzo l’annunciatore che dice: «In questo angolo, un tizio che descrive tutto come “orwelliano”, e in quest’altro angolo uno cui piace molto dire “kafkiano”».

La storia di oggi è orwelliana, è kafkiana, ma soprattutto è la storia che mi ha fatto capire che la postverità è un falso problema: il guaio è che viviamo nell’era della postverosimiglianza.

Un po’ gli strumenti non incentivano la riflessione – mica mi starete dicendo che, in quei venticinque secondi in cui, al cesso, spollicio il cellulare, devo mettermi a vagliare ciò che cuoricino o condivido – e un po’ la deriva irrazionale del mondo rende tutto verosimile, e questo da ben prima dei social: se ai nostri nonni cinquant’anni fa avessero detto che mangiare la mortadella era una forma di militanza adottata da un parlamentare, avrebbero chiesto il ricovero in manicomio di chi lo ipotizzava; poi quindici anni fa è diventato vero, senza prendersi il disturbo di passare per la verosimiglianza.

Quindi, nel regno dell’inverosimiglianza, qualche giorno fa inizia a girare una lettera con sei firme. Il testo è di facile socializzazione, essendo breve e avendo gli abitanti di questo secolo la soglia d’attenzione dei moscerini.

«Lettera aperta alla direzione didattica della Scuola Holden – I sottoscritti docenti chiedono che davanti all’opera di genocidio perpetrata dallo Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese il consiglio della didattica esprima una posizione certa e non derogabile a pareri personali dei singoli docenti su quanto sta avvenendo in questi giorni. I nostri studenti senza esitazione ci hanno dimostrato di voler essere protagonisti di un cambiamento culturale contro il patriarcato e il colonialismo, una modalità didattica che trova pieno svolgimento nella nostra opera quotidiana ma che viene stravolta da alcuni docenti e responsabili di sedi esterne creando problemi di identità alla nostra missione educativa. Chiediamo quindi alle direzione di didattiche di esprimersi senza paura su questi comportamenti singoli, giustificazionisti dei massacratori israeliani, che portano in dote fake news e notizie non verificabili per sbilanciare il piano comunicativo. Essere oggi accanto al popolo palestinese contro l’aggressione sionista israeliana vale di più di ogni sforzo didattico o fondo privato che sostiene la nostra scuola».

Prima di proseguire con la cronaca, è il caso di soffermarci sul crollo delle istituzioni, una delle questioni che più hanno contribuito a portarci nell’era della postverosimiglianza. Una volta esisteva un portato culturale delle classi sociali – i milionari non postavano didascalie sgrammaticate su Instagram – ma soprattutto un portato culturale delle istituzioni culturali.

Leggevamo che una certezza veniva da uno studio realizzato a Harvard, e ci illudevamo di poterci fidare. Poi sono arrivati i social, e qualunque imbecille scriva una cosa che se la dicesse nostro cognato al pranzo di Natale ci sotterreremmo dalla vergogna, su quel qualunque imbecille ci clicchi e ci trovi una cattedra, un dottorato, una sfilza di Ivy League. Almeno nostro cognato fa l’elettrauto.

Qualche tempo fa mi hanno raccontato che un docente della Holden ha fatto vedere alcune puntate di “The Office” agli allievi, agli allievi iscritti a una scuola per diventare creativi, autori, intellettuali, e che gli allievi si sono offesi per la cattiveria delle battute e delle situazioni e hanno protestato con la direzione.

Come tutti noi per cui la verità non è un criterio, non ho verificato se la storia fosse vera, ma non ho esitato a crederci. Era verosimile che alla più prestigiosa scuola di scrittura d’Italia fosse iscritta gente che non ha mai guardato Ricky Gervais, e che se lo guarda si offende; era verosimile che persone totalmente inadeguate accedessero a istituzioni che un tempo sarebbero state garanzia di qualcosa.

E quindi io li capisco quelli che hanno letto quelle righe in cui si chiedeva l’allontanamento dei docenti israeliani – pochi giorni fa, alla Holden aveva tenuto una lezione Ilan Pappé, storico israeliano che insegna in Inghilterra – e non si sono posti il problema della verosimiglianza delle firme.

Del fatto che a chiedere che agli israeliani non fosse permesso parlare fossero Loredana Lipperini, Elena Varvello, Matteo Nucci: non influencer che scrivono Palestina coi numeretti convinti che l’algoritmo li discrimini, ma intellettuali che una volta avremmo dato per scontato non sottoscrivessero appelli da assemblea d’istituto.

Oggi non lo diamo per scontato, ma più ancora non ci poniamo il problema. E fa tenerezza guardare le foto della questura di Torino postate da Loredana Lipperini, così novecentesca da credere nella tutela della reputazione, che è andata a denunciare ignoti per essersi appropriati del suo nome.

Ha fatto bene, lo dico senza alcuna ironia, ma – poiché conosco le regole della postverosimiglianza e ve ne farò dono – so che ora succederanno due cose. La prima è che inevitabilmente ci sarà gente che vedrà la lettera e non le smentite, e quindi resterà convinta che lei e gli altri abbiano firmato quel verbale da assemblea d’istituto contro il patriarcato e il colonialismo. Andreotti aveva torto: una smentita non è una notizia data due volte, una smentita è una goccia perduta nell’algoritmo.

L’altra cosa che accadrà è che qualcuno se ne dovrà occupare, di questo cretino, o cretina, o gruppo di cretini che ha messo sotto un testo dei nomi di intellettuali che quel testo non l’avevano mai visto, di questo nostalgico degli appelli contro Calabresi che voleva fare un po’ di casino, di questo Jannacci in sessantaquattresimo che voleva stare a vedere l’effetto che fa.

E, tecnicamente, chi se ne deve occupare è la Digos, cioè quelli che investigano sulle attività terroristiche. E quindi, come ogni volta che qualcuno sui social annuncia denuncia contro qualcun altro che gli ha detto «ma sei scemo?» o simili, io penso: ma con le mie tasse? Ma veramente vogliamo intasare i tribunali con queste stronzate?

L’avrei denunciato anch’io, uno che avesse firmato col mio nome una cosa non scritta da me, figuriamoci: ho pensato per anni di denunciare mia madre che quando morì mio padre pubblicò un necrologio scritto nel di lei italiano ma firmato da me, sembrandole più grave che non ci fosse un mio necrologio che non che qualcuno potesse pensare che mi esprimessi per frasi fatte (il mio vicino di casa mi disse «ho visto il tuo necrologio»: avrei dovuto capirlo quel giorno, che eravamo nell’era della postverosimiglianza).

L’avrei denunciato epperò vorrei una riforma del codice penale in cui il cretino del caso viene condannato a studiare di cosa si dovrebbe occupare, la Digos, invece che delle sue puttanate. E, già che ci siamo, anche ad apprendere un uso parco ma corretto di «orwelliano» e «kafkiano»: in questo caso, vanno bene entrambi.

Una formidabile rassegna di bufale raccontate da Gian Antonio Stella oggi all’ex colonia Vena d’Oro alla festa di Insieme si può. Scritto da redazione bellunopress.it l'1 Ottobre 2023

Gian Antonio Stella, giornalista, scrittore

Belluno, 1° ottobre 2023 – Parte dalle fake news attuali che quotidianamente vengono propalate dai social per istigare all’odio, Gian Antonio Stella, celebre firma del Corriere della Sera, inviato, editorialista, e scrittore, ospite oggi per i 40 anni della fondazione del primo gruppo dell’Associazione “Insieme si può” che si è tenuta nell’ex colonia della Vena d’Oro in località Levego (Belluno). Dopo aver demolito Facebook, consigliando siti ritenuti più affidabili come Open di Mentana. Benché, siano poche le fonti di informazioni totalmente immuni da bufale, soprattutto “in guerra la verità è la prima vittima” (Eschilo). Stella ha raccontato attraverso una ricca carrellata di aneddoti le più grandi bufale di tutti i tempi. Probabilmente la frase attribuita a Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena «Se non hanno più pane, che mangino brioche» che avrebbe detto riferendosi al popolo affamato è la bufala più conosciuta. In realtà – precisa Stella – la frase secondo Jean-Jacques Roussos (Confessioni), sarebbe stata ascoltata da una “grande principessa “ nel salotto di Madame de Mably nel 1741, ossia 14 anni prima della nascita di Maria Antonietta. Ma sono molti i falsi del passato svelati da Stella. Prima di Hitler qualcun altro si occupò di sterminare gli ebrei servendosi della false lettere del Re di Tunisi “intercettate e tradotte” dal medico Pierre de Aura, dove si legge “Badate a avvelenare nel più breve tempo possibile i cristiani senza badare a spese. Vi farò avere oro e argento per le spese. Come sapete l’accordo tra noi, gli ebrei e i malati, ha avuto luogo poco tempo fa”. Seguirà l’editto di Filippo V di Francia “il Lungo” (Vincennes, 17 novembre 1293 – Parigi, 3 gennaio 1322) contro i lebbrosi. “Ho fatto catturare tutti gli ebrei del nostro regno per cospirazione… per porre veleni mortali nei pozzi e nelle fontane per far morire il popolo e i sudditi del nostro regno”. (Massacro degli ebrei a Verdun sur Garonne). E ancora “La storia della colonna infame” del Manzoni, appendice dei Promessi Sposi, nella Milano del 1630, afflitta dalla peste con la condanna a morte di diverse persone accusate d’essere gli «untori», ossia i responsabili della diffusione della pestilenza. La prima bufala a scopo economico fu quella fatta circolare da Thomas Cochrane ammiraglio e politico britannico, arrestato sotto l’accusa di aggiotaggio, per essersi arricchito con speculazioni in borsa a seguito della notizia falsa “Napoleone ucciso dai cosacchi” il 21 febbraio 1814. Questo e altro ancora nella cronistoria di bufale proposte da Gian Antonio Stella.

Ma per tornare al presente, aggiungiamo noi, diventa sempre più difficile riconoscere la bufala, soprattutto quando si tratta di “bufala di Stato”. Ricordate la II^ Guerra del Golfo scatenata nel 2003 il governo di George W. Bush quando invase l’Iraq accusando Saddam Hussein di avere armi di distruzione di massa? Nessuno ci avvisò che non era vero, né Mentana né i Tg. Le armi di distruzione di massa erano una grande bufala costata mezzo milione di morti. Più recentemente abbiamo visto nel Tg 2 Rai del febbraio 2022 una pioggia di missili cadere in Ucraina. Peccato che fosse un filmato del videogame War Thunder”. Anche Mentana direttore de La 7 scivola mandando in onda la scena di un film ‘Project X’ che scambia per l’assalto al Congresso Usa il 6 gennaio 2021. Il compianto Purgatori sul programma televisivo Atlantide in onda l’8 gennaio 2020 su La7 descrive il video del drone che ha ucciso il generale Soleimani, ma è un videogioco già usato dai russi nel 2017. Insomma, chi è senza peccato scagli la prima pietra. (rdn)

Video falsi e altre menzogne, le guerre parallele online. Gian Antonio Stellasu Il Corriere della Sera il 7 novembre 2023.

Propaganda: i morti reali in Israele e a Gaza e poi immagini manipolate, che cercano di cambiare il senso di quel che accade

«Ormai Internet è divenuto territorio anarchico dove si può dire di tutto senza poter essere smentiti. Però, se è difficile stabilire se una notizia su Internet sia vera, è più prudente supporre sia falsa», ammoniva Umberto Eco. Parole d’oro. La guerra sui social parallela a quella che sta dilaniando israeliani e palestinesi e il mondo intorno mostra quanto mai prima come la propaganda sia diventata centrale e come troppi se ne infischino, dall’una e dall’altra parte, della «verità». Impazzita come nell’urlo di Zavattini: «La veritàaaa».

Dalla parte dei filoisraeliani spunta un video: «Ecco i terroristi di Hamas cosa fanno ai Palestinesi che tentano di lasciare Gaza. Peggio dei Nazisti». Rovine di un magazzino, macerie sparse, polvere, una fossa piena

di pneumatici, due uomini in mimetica che spintonano un poveretto legato,

lo scaraventano nella fossa e gli sparano. Poi un altro e un altro ancora e un altro ancora. Spaventoso. Altro video su Gaza, messo online da un complottista filopalestinese australiano. Stesse rovine, stesse macerie, stessi assassini, stesse vittime: The true face of Israel, la vera faccia di Israele. Ma non è Gaza, non è oggi. È un video del 2013. Alla periferia di Damasco, guerra civile siriana. Che importa? Conta solo seminare odio.

Si sa tutto, grazie all’inchiesta di due studiosi, su quel video messo online da New Lines Magazine già un anno e mezzo fa. Si sa che fu una mattanza di 288 civili, tra cui donne e bambini accusati di opporsi a Bashar al-Assad, si sa che avvenne nel quartiere Tadamon, si sanno perfino i nomi dei due boia. Eppure c’è chi dall’una e dall’altra parte, in perfetta malafede, ha costruito una narrazione su misura del proprio fiele.

Direte: ma se sono così scafati da saper manipolare una foto, un audio, un video, sapranno bene che c’è anche chi potrà smascherarli! Sicuro. Ma avverrà sempre «dopo»: dopo che la loro fake avrà colpito il bersaglio raggiungendo di clic in clic più persone possibili buttando lì una «verità» alternativa. Letale. Spiega Michelangelo Coltelli, il fondatore di butac.it, (Bufale Un Tanto Al Chilo), che ha smascherato la doppia falsificazione sul video siriano: «Siamo davanti ad avvelenatori di pozzi. In un’epoca in cui l’informazione viaggia alla velocità della luce, la responsabilità di condividere un post con accuratezza e responsabilità è più cruciale che mai». Ma quanti la avvertono?

C’è di tutto, online. Ecco una foto di israeliani in festa col titolo sovrimpresso: «Gaza, Gaza, Gaza is a cemetery». Commento: «Fanatici di dx israeliani celebrano la carneficina a Gaza, esultano per l’uccisione di 4 mila bambini palestinesi, cantano: Gaza è un cimitero. Non ci saranno più scuole per bambini perché non ci sono più bambini...». La foto è il fermo immagine di un documentario girato otto anni fa, non c’entra con Gaza e la stessa autrice denuncia scandalizzata online il furto e la fake? Troppo tardi...

Un giornalista indiano posta un video: «Una donna incinta nel sud di Israele è stata trovata dai terroristi di Hamas. Hanno sezionato il suo corpo. Le hanno aperto lo stomaco e hanno estratto il feto...». Un’avvocata americana dei diritti civili rilancia: «Attenzione: questo è il peggiore che abbia mai visto in vita mia. Ecco ciò che i nazisti palestinesi fanno a una donna incinta». Le immagini, parzialmente oscurate, sono agghiaccianti sul serio. Ma «ripulite» ribaltano la storia: la vittima non è una donna ebrea ma un giovane spacciatore messicano sventrato davanti alla cinepresa dai rivali di un altro cartello della droga nel gennaio 2018 a Isidoro Montes de Oca, a nordovest di Acapulco.

«Attenzione immagini forti!». Nei social arabi gira un video di atrocità veramente estrema. Si dice che si tratta di «una ragazza israeliana presa in ostaggio dai palestinesi e bruciata viva oggi in risposta ai bombardamenti di Israele contro le zone residenziali di Gaza», strilla un reel su Facebook. Segnala solo che «l’autenticità del filmato dovrebbe essere ancora confermata». Cautela, per una volta, benedetta: il video, come spiega su open.online.it un altro grande cacciatore di bufale, Davide Puente, mostra davvero una ragazza sedicenne massacrata e bruciata, ma il video originale non è in arabo ma in spagnolo e il fatto è accaduto nel 2015 in Guatemala dove «la folla inferocita bruciò viva una 16enne accusata di omicidio».

E via così. Falsa l’enorme bandiera palestinese appiccicata col Photoshop sugli spalti dello stadio dell’Atletico Madrid con la didascalia «Tutto il mondo si sta rivoltando contro le follie di Netanyahu… In Israele stesso sono migliaia le persone che stanno manifestando a favore della Palestina». Falsa la foto di un palestinese dentro un sacco bianco «beccato mentre usa il cellulare in attesa di fingersi morto dopo un bombardamento israeliano»: è una foto di Halloween scattata nel 2022 in Thailandia. Falsa l’immagine di centinaia di persone festanti che traboccano dai balconi sventolando la bandiera con la Stella di David «al passaggio dei soldati israeliani in marcia verso Gaza». Lo confessa all’agenzia Reuters e a Usa Today lo stesso autore: ha usato un programma di intelligenza artificiale. Forse lo stesso usato sul fronte opposto, secondo boomlive.in/fact-check, da chi avrebbe confezionato la foto di un padre palestinese che tra le macerie tiene per mano un bimbo e ne regge altri quattro appollaiati un po’ qua un po’ là sulla schiena. Una fake, se davvero è una fake, particolarmente stolta e feroce. Un’immane tragedia come quella che sta accadendo sotto i nostri occhi non ha proprio bisogno di altri stregoni eccitatori di odio.

Bugie sistematiche. La retorica anti-propagandista si abbevera delle fake news dei regimi autoritari. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 9 Novembre 2023

La guerra in Ucraina e il conflitto israelo-palestinese ci insegnano che le false notizie nelle società democratiche sono sempre esposte a critica e controllo, mentre nelle autocrazie delinquenziali, la menzogna e la distorsione della verità sono continue e impunite

Non è un’osservazione di strabiliante originalità, ma ha ragione Gian Antonio Stella quando osserva (sul Corriere della Sera di ieri) che il gran mercato dell’informazione, specie nei reparti online e social, è pieno di notizie false e contraffatte.

È poi vero che il fenomeno non riguarda mai soltanto uno schieramento, ma tutti, ed è vero che la cosa è tanto più grave quando non si tratta di un rigore sbagliato o della polemica sulle buche di Roma, ma di gente sgozzata e dei crateri in una scena di guerra.

Fare però gli esempi delle rispettive falsità, come se l’una valesse l’altra, rischia di generare un fenomeno disinformativo anche più grave, tipo che è tutto un magna magna, che li politisci so’ tutti ladri e che signora mia i torti non stanno da una sola parte.

È infatti un’altra specie di propaganda l’anti-propaganda secondo cui, quando arriva dall’Ucraina la notizia dei bambini stuprati, bisogna andarci cauti perché si sa che anche gli ucraini scrivono balle. È un altro tipo di propaganda l’anti-propaganda che mette sullo stesso piano lo sgozzamento trasfigurato in decapitazione e la sistematica fabbrica di menzogne e falsità che alimenta non solo il postribolo social e il Porcaio Unico Televisivo, ma anche tanta tradizionale stampa sussiegosa.

Perché c’è una differenza, una differenza abissale e sostanziale, tra una realtà civile, democratica e informativa da cui promana una falsità, da un lato, e una realtà autoritaria e delinquenziale che dall’altro lato fa della menzogna e della sistematica e impunita alterazione della verità il proprio modo di essere e di operare.

C’è una differenza di premesse e di conseguenze tra la fake news che fiorisce in un sistema che la espone a critica, a controllo, un sistema in cui quella presunta verità è correggibile ed emendabile, e la panzana promanante e divulgata da professionisti della menzogna che per accreditarla si affidano all’ignoranza e alla malafede altrui. 

Ed è esattamente ciò che succede non più nel campo dell’informazione, ma sullo stesso terreno delle azioni criminali. Perché anche qui c’è una differenza, una differenza irriducibile, tra una democrazia che commette un crimine – il che può ben succedere, e succede – e un sistema intrinsecamente e deliberatamente criminale che fa del crimine lo strumento esclusivo della propria affermazione.

Qualcuno ha anche un solo dubbio sul fatto che in mesi e mesi di guerra all’Ucraina quest’ultima, l’Ucraina, abbia qualche volta fatto passare notizie false o non verificate? Non può esserci nessun dubbio. Ma l’esercito di troll – ben ascoltato anche qui da noi da certi osceni figuri che pure se la tiravano da commendatori del reportage comme il faut – quel branco di magliari che s’era messo a confezionare fotografie e video contraffatti con i cadaveri di Bucha che muovevano le braccia e facevano l’occhiolino alla telecamera, ecco, quello rappresentava un’altra cosa: non rappresentava il fungibile ed equiparabile ricorso a un’informazione così così, ma appunto la scientifica, per quanto grossolana, opera di sbianchettatura stalinista sulla scena di un massacro.

E vale per il conflitto scatenato dal pogrom del 7 ottobre. Qualcuno ha dubbi sul fatto che qualche disinvolto supporter possa aver divulgato notizie inveritiere poste ad aggravare (ma diciamo che deve essersi impegnato parecchio) quanto successo il 7 ottobre o ad attenuare gli effetti della reazione israeliana? Anche qui, nessun dubbio. 

Ma qualcuno vorrà ammettere che si tratterebbe di ben altra cosa rispetto alla fogna di volgari mistificazioni cui si abbevera senza perplessità certo nostro giornalismo, che ha pure l’impudenza di spiegare che mica si può dar credito solo agli israeliani: ovviamente col corollario che siccome non si può dar credito solo a quelli, allora si dà credito solo all’Ordine dei giornalisti di Settembre nero. C’è una retorica anti-propagandista più contraffattoria della propaganda.

La sinistra aveva i voti degli operai, non dei poveri. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera mercoledì 27 settembre 2023.

Caro Aldo, lei ha scritto che non erano i poveri a votare a sinistra, ma gli operai. Che differenza c’è? Franco Lepori Roma

Caro Franco, Dov’è la maggioranza dei poveri in Italia? Al Sud. Dove prendeva i voti il partito comunista? Al Nord. A Napoli votavano Pci gli operai dell’Italsider di Bagnoli e dell’Alfasud di Pomigliano d’Arco, non il popolo dei bassi, che votava Democrazia cristiana con uno spirito non molto diverso da quello con cui oggi vota Cinque Stelle: per avere i soldi dello Stato. Fuori dalle regioni rosse, i comunisti erano forti nei grandi agglomerati industriali del Nord: Torino, Genova, Marghera, la cintura settentrionale di Milano. Negli Anni 70 si iscriveva alla Cgil e votava Pci l’operaio massa: stessa mansione, stesso stipendio (non lauto ma comunque più di chi aveva lavori precari o non aveva lavoro), stessa classe sociale, stesso sistema di valori. Dice: il Pci doveva prendere le distanze da Mosca. Certo. Ma se dopo il crollo del Muro e la fine dell’Unione sovietica nacque un partito della Rifondazione comunista che prese più dell’8%, figurarsi cosa sarebbe accaduto se il tentativo di andare oltre il comunismo fosse stato fatto prima. Ovviamente la prevalenza del Pci fu un grosso problema per la sinistra italiana. Mentre i laburisti inglesi, i socialdemocratici tedeschi, i socialisti francesi e spagnoli andavano al governo, la sinistra italiana si divideva e in buona parte restava all’opposizione. Oggi gli operai non ci sono quasi più. E le classi popolari votano a destra, perché percepiscono il Pd come il partito della gente che sta bene. Non che i ricchi votino a sinistra; i veri ricchi votano a destra in tutto il mondo. A sinistra vota la borghesia intellettuale, il ceto medio dipendente; cui i capi della sinistra vogliono aumentare le tasse. Chi la pagherebbe la patrimoniale vagheggiata da Schlein e Fratoianni? I grandi capitali, già al sicuro nei paradisi fiscali?

Quel “falso storico” sulla Resistenza che insistiamo a celebrare. Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 29 Settembre 2023

Il Tg3 di mercoledì scorso ha dato molto risalto alle celebrazioni dell’ottantesimo anniversario delle cosiddette “quattro giornate di Napoli”. Sottolineando la presenza del Capo dello Stato, il quale ha deposto una corona di fiori davanti al monumento dello Scugnizzo, il servizio si conclude sostenendo che la metropoli partenopea “fu la prima città italiana liberata, grazie ad una grande azione di tutto il popolo.”

In realtà, spiace doverlo dire, si tratta di un colossale falso storico, dal momento che le truppe tedesche stanziate nella zona di Napoli avevano già iniziato un ordinato ripiegamento strategico per rallentare l’avanzata degli Alleati, attestandosi sulla linea del Volturno. Molto istruttivo, a questo proposito, il libro di Ezio Erra, politico e intellettuale napoletano scomparso nel 2011, Napoli 1943 – le quattro giornate che non ci furono, edito da Longanesi.

È sufficiente leggerne la presentazione per farsene già una prima, significativa idea: “Davvero Napoli insorse contro i nazisti nel 1943? Davvero ci furono le quattro giornate raccontate dalla storia resistenziale ed esaltate dal cinema? Facendo appello ai ricordi personali e comparando testimonianze dirette e indirette, documenti inediti e analisi obiettive, Erra rievoca le tre settimane dell’occupazione tedesca, concluse con una ritirata della potente e militarmente preparatissima divisione Goering. Una ‘fuga’ turbata da scontri disordinati con gruppuscoli partigiani, passati alla storia come le “quattro giornate di Napoli”. Sulla verità dei fatti si stende un’altra ombra: a liberazione avvenuta 7mila napoletani presentarono domanda al Ministero degli Interni per ottenere la qualifica di “patriota” e quindi le sovvenzioni previste…”

D’altro canto, onde dimostrare in modo indiretto quanto la propaganda abbia ingigantito oltre ogni misura ragionevole i fatti in questione, occorre fare qualche passo indietro, ricordando ciò che avvenne a Roma e dintorni nei giorni immediatamente successivi al fatidico 8 settembre. Come raccontato con dovizia di particolari dall’illustre Liddell Hart, storico militare di fama mondiale, nonostante le netta superiorità delle truppe italiane stanziate intorno alla Capitale, le due deboli divisioni di paracadutisti comandate dal generale Student, contro le stesse previsioni dell’alto comando germanico, riuscirono in breve tempo a disarmare le nostre truppe.

Quindi noi dovremmo credere che dove fallì l’esercito italiano, che comprendeva la divisione corazzata Ariete, la divisione motorizzata Piave, la divisione di fanteria dei Granatieri di Sardegna, più altre truppe sparse qua e là, riuscirono i volenterosi napoletani armati alla bell’e meglio? Io direi che dopo ottant’anni, con molta acqua passata sotto i ponti, potremmo anche permetterci di uscire dalla stucchevole e trita retorica resistenziale, almeno in questa occasione. Claudio Romiti, 29 settembre 2023

Il Bestiario, il Giornaligno. Il Giornaligno è un animale leggendario che davanti all’evidenza dell’emergenza, racconta che i migranti organizzano concerti. Giovanni Zola il 22 Settembre 2023 su Il Giornale.

Il Giornaligno è un animale leggendario che davanti all’evidenza dell’emergenza, racconta che i migranti organizzano concerti.

Il Giornaligno è un essere mitologico che di fronte alla situazione drammatica e troppo spesso tragica dei migranti, tra cui molti bambini, stipati in centri in sovrannumero dove si litiga per il cibo e l’acqua e non si smaltisce la spazzatura, stravolge la notizia sfidando l’intelligenza della gente comune. Così il Giornaligno scrive su pagine importanti una versione dei fatti tanto fantastica quanto ridicola: “Niente turisti in fuga, né manifestazioni indignate. Dopo aver aperto le braccia e le case ai naufraghi che a Lampedusa sciamavano dall’hotspot in cerca di cibo e acqua, l’isola ci si è anche divertita insieme. E la paventata ‘invasione’ è solo quella di una pista da ballo. Sul corso principale del paese, cuore della movida, ragazzi arrivati dopo la traversata, turisti, residenti, mediatori e operatori ong si sono ritrovati insieme a ballare sulle note di tormentoni estivi più o meno attuali. (…) Nessuno si è infastidito, nessuno si è allontanato. Fino a tarda ora, il corso è stato pieno di gente che senza troppi patemi ha condiviso spazi e risate”.

Insomma ci siamo sbagliati, non si tratta di migrazione, ma di un tour estivo di grande successo che richiama i fan che giungono con barchini addirittura dall’Africa. Il Giornaligno ha il potere di manipolare la realtà trasformandola in favola ideologica. I fatti non esistono, esiste la notizia. La figura del giornalista è stata sostituita dal Giornaligno, una sorta di autore di fiction che testimonia eventi che non esistono o che se esistono sono narrati fuori contesto per confondere le menti. Il Giornaligno, a seconda di come più gli conviene, accresce la paura o sdrammatizzare situazioni emergenziali a seconda del proprio torna conto ideologico. Una sorta di bambinello capriccioso che cambia le regole della partitella perché il pallone è il suo.

Il Giornaligno, in questo caso specifico, ha un motivo per inventarsi storielle felici a riguardo dell’invasione dei disperati. Parlare di “emergenza migrazione”, come i fatti attestano, vuol dire che il governo, come presto farà, ricorrerà a drastiche decisioni per fermare la tragedia umanitaria, e questo spaventa coloro che inneggiano all’immigrazione senza preoccuparsi del futuro di queste persone. D’altra parte l’ideologia è ancora più profonda e neanche tanto celata: l’invasione incontrollata vuol dire annacquare le origini culturali di un Paese ancora (per poco) cristiano con tutto quello che ne consegue, cioè l’ultimo argine alla follia del pensiero dominante. L’ideale del Giornaligno è che tutti possano essere ciò che desiderano a patto che pensino tutti allo stesso modo.

Il Giornaligno ci costringe a una reazione faticosa. Se la notizia è declinata sulla propaganda occorre moltiplicare la capacità della nostra intelligenza, già provata gravemente dal vuoto culturale dilagante, per discernere il vero dal falso e il bene dal male. Siamo costretti a non essere mai tranquilli se vogliamo continuare ad essere uomini veramente liberi. Giovanni Zola

Rai, vietato criticare i magistrati: il giornalista massacrato dalla sinistra. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 13 luglio 2023

Colpire la Rai, «la nuova Rai delle destre» strillano le opposizioni, per indebolire il governo. Va vivisezionato tutto in Viale Mazzini: giornalisti, servizi, ospiti - questo l’ordine dei generali dalle stelle di latta della sinistra - e chissenefrega se nella stessa Rai ci sono trasmissioni come Report di Sigfrido Ranucci che della sinistra sono da sempre il braccio armato e continuano a esserlo, indisturbate e libere di cannoneggiare e oltre, come nel caso del ministro Santanchè. 

Bisogna attaccare «i giornalisti di destra», questo il diktat, anche quelli che di destra non sono, vedi il collega di Libero Filippo Facci, ma che sono «amici della Meloni». D’altronde Pd e 5Stelle scarseggiano di argomenti, e quando pensano di averli trovati le sparano grosse, ad esempio contro le politiche del lavoro mentre in Italia ci sono mezzo milione di occupati in più rispetto all’anno scorso. Dunque la prima disposizione è stata di accanirsi su Facci per l’articolo sul figlio di La Russa (Facci dovrebbe condurre una programma in Rai da settembre, e vedremo se glielo permetteranno), e adesso nel mirino è finito il direttore di Rainews, Paolo Petrecca, accusato di censura. 

LA DENUNCIA

«Gli chiediamo di fare chiarezza e motivare alcuni episodi», hanno tuonato i rappresentanti dei 5Stelle in Commissione Vigilanza Rai. «Sabato scorso un giornalista si è così pronunciato: “È bastato che il Guardasigilli Nordio annunciasse i capisaldi della riforma che sono scoppiate delle nuove vicende: quella di Delmastro e quella Santanchè”». Una presa di posizione, una battuta, un fatto mal spiegato? Non importa: per la sinistra il collega va messo al muro. 

«Sarebbe questa», prosegue la nota, «un’allusione al fatto che la magistratura avrebbe aperto quelle inchieste per dare un messaggio al governo?». Si può anzi si deve sparare sui «fascisti», ma se critichi Saviano, Fazio, Annunziata e compagni vari sei intolleante e contro il pluralismo dell’informazione. I grillini non mollano: «Ci giunge voce che un pezzo di Rainews sul figlio di La Russa sarebbe stato tagliato nella parte in cui riportava le polemiche legate ai commenti di Facci. La giornalista che aveva realizzato il pezzo avrebbe tolto la sua firma al servizio». 

I 5Stelle sono stati imbeccati dagli stessi rappresentanti del Comitato di Redazione di RaiNews i quali ancor prima che Petrecca si insediasse avevano già provato a impallinarlo sempre per questioni politiche. Il Cdr denuncia che «una collega ha ritirato la firma sul pezzo perché il testo è stato stravolto. Le modifiche sarebbero state richieste dal direttore con la motivazione che non si trattava “di una notizia”». 

Il Cdr inoltre punta il dito contro «la rassegna stampa in cui il conduttore ha preso posizione sullo scontro governo-giudici». In serata è intervenuto Petrecca: «Respingo speculazioni e commenti da ballatoio». E poi: «Sono polemiche strumentali di qualche pennivendolo, non parlo dei colleghi di redazione, ma di alcuni articoli usciti su Il Foglio e sul Fatto Quotidiano. È probabile che vada per vie legali». Il Pd insiste: «Le notizie su Petrecca preoccupano». 

PREDICANO BENE...

E però «la componente sindacale Usigrai-Fnsi Pluralismo si dissocia categoricamente dagli attacchi del M5s che riprende in modo strumentale l’attacco del Cdr». Si tratta, ha spiegato il sindacato, «solo dell’ultimo di una serie di interventi del Cdr che risponde più a logiche di contrapposizione politica che di rivendicazioni sindacali. 

Non entriamo nel merito della vicenda, ci limitiamo a ricordare che dello stesso Cdr fa parte chi in passato si è distinto per prese di posizione politiche accompagnate da volgari insulti contro rappresentanti delle istituzioni, alla faccia della sbandierata necessità di imparzialità di chi si autoproclama custode e garante esclusivo dei valori del Servizio Pubblico, al punto da mettere sotto accusa un collega per aver dato voce a un’interpretazione dei titoli di alcune testate sul tema giustizia». Ma Repubblica scrive: «I giornalisti di Rainews sono esasperati». È il nuovo inferno creato dalle destre. Vanno condannate. Se invece critichi i compagni hai la camicia nera.

Estratto dell’articolo di Linda Varlese per huffingtonpost.it il 12 luglio 2023.

Gli ultimi episodi, in ordine di tempo, sono quelli che vedono protagonisti Beatrice Venezi e Filippo Facci, apostrofati come "fascisti": la prima per aver espresso a più riprese la sua vicinanza al governo Meloni e per questo motivo dichiarata persona non gradita dai Comitati e dalle Associazioni di Nizza dove […] dovrebbe esibirsi al Concerto di Capodanno. 

Il giornalista, invece, da giorni al centro delle polemiche per una frase infelice riportata in un suo articolo su Libero sul caso La Russa Junior, potrebbe essere "epurato" dalla Rai che aveva previsto per lui la conduzione di un day time.

Della facilità con cui si usi l'epiteto fascista e sul reale significato che oggi assume la parola abbiamo parlato con Mirella Serri, scrittrice e giornalista, e autrice tra gli altri di molti libri al tema dedicati […]. Ci ha spiegato che sebbene non sia "lecito dare del fascista a tutti", utilizzando la parola come "una qualsiasi espressione ingiuriosa", è innegabile che oggi "rispuntano dei modi di pensiero che appartengono al mondo fascista che è come un fenomeno carsico: è latente e riemerge quando trova terreno fertile". 

Partiamo dagli ultimi episodi

Intanto dobbiamo distinguere tra Venezi e Facci. Sono due situazioni diverse. Escludere la Venezi dal ruolo di Direttrice d'Orchestra per le sue dichiarazioni di vicinanza al centrodestra italiano, mi sembra assurdo: sarebbe un comportamento illiberale. E' un'artista e può avere le convinzioni che vuole e deve essere giudicata per quello che fa, non per quello che pensa. […] Per Facci la situazione è diversa.

Perché?

[...] In questo caso direi che viene usata la parola fascista come un insulto […]. Secondo me in questo caso l'epiteto è pertinente: viene usato per ascriverlo a un certo tipo di pensiero che è erede di una tradizione che appartiene al fascismo. 

Il fascismo ha creato quello che possiamo chiamare un virilsmo o un sessismo di massa. Non che prima non esistesse l'antifemminismo o il sessismo, esisteva eccome: solo che Mussolini attraverso i suoi strumenti politici ha istituzionalizzato il maschilismo di massa. 

Questo fa la differenza fra Crispi e Giolitti che sicuramente non erano femministi e le squadracce nere, per intenderci, che dicevano "cara voglio passare tutta la notte con te con il manganello in mano".

Mussolini poi attraverso una serie di provvedimenti ha cacciato le donne dai luoghi di lavoro: questo tipo di mentalità si è radicata e non ne è stata erede soltanto la destra, ma in parte anche il maschilismo di sinistra nel dopoguerra.  Un senso comune antifemminista ha condizionato la mentalità degli italiani anche alla fine del fascismo. 

Si è trattato di un senso comune che le donne degli anni '70 attraverso le lotte femministe hanno molto smantellato ma non radicalmente, e ad esempio si affaccia ed emerge nei periodi in cui può emergere: periodi in cui la cultura dominante come quella dell’ attuale destra di Governo gli permette di emergere. 

Facci si è giustificato dicendo che la sua frase "non è nemmeno il mio stile, non so cosa mi è preso. Ma comunque non chiederei scusa di nulla, non è stata capita la frase, è stata usata come pretesto"

Non è mal interpretata, perché lui dice testualmente: "Risulterà che una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa". Cosa vuol dire? Che la ragazza ha dimostrato di essere una che se l'è andata a cercare. Facci alludeva a questo.

Il nostro direttore oggi nel suo Buongiorno sulla Stampa scrive che "conosce Facci da quasi 30 anni" e, tra le altre, se c'è una cosa che sa di lui è che "i fascisti gli piacciono poco"

Facci non è per nulla un fascista, anzi è sempre stato un radicale e una personalità di sinistra. Ma questa frase lo descrive come debitore del sessismo di massa che in realtà è ampiamente condiviso. […] ha aderito, anche a sua insaputa, a un modo comune di pensare che ancora oggi è debitore del fascismo. 

Perciò un conto è parlare di espressione erede di un tipo di pensiero e un conto è dare del fascista a chicchessia

Non è lecito dare del fascista a tutti. Se invece mi chiede se sia giusto definire l'atteggiamento utilizzato da Facci in questa sua valutazione come aderente a un comportamento fascista, io direi di sì. Usare la parola fascista in generale è svalutarla, privarla del suo significato. […] Bisogna usarla quando è opportuno. E’ una parola che è molto importante avere a cuore perché i fascisti soprattutto […] ci sono veramente e hanno rialzato la testa: ci sono molti nostalgici o molte persone che utilizzano un certo tipo di mentalità fascista anche se nel loro complesso hanno anche altri atteggiamenti. 

Cosa vuol dire essere fascisti oggi?

Vuol dire, ad esempio, essere nostalgici di un certo tipo di autoritarismo appunto nei confronti del mondo femminile. Tutti gli autocrati che ci sono oggi, dall'atteggiamento nei confronti della giustizia di Orban, del premier polacco, del premier turco, sono neofascisti. Oppure l'estrema destra in Germania o il movimento Vox in Spagna. 

E in Italia?

La nostra premier sta facendo grandi passi nei confronti dell'Europa e della difesa dell’ Ucraina contro l’invasione di Putin però è circondata da persone che ogni tanto usano una lente che appartiene a un mondo che non c'è più, per decifrare tutta una serie di situazioni: il mondo degli immigrati, il mondo dell'omosessualità, il mondo della comunità lgbtq+. Usano questi che io chiamo pregiudizi, ma che per loro sono convinzioni, per demolire un certo stato di diritto [...]

Quando offendi i diritti degli altri non si chiama libertà di pensiero. Se offendi i diritti degli immigrati, delle donne e delle minoranze e cerchi di escluderli dal dibattito sociale e civile non è libertà di pensiero. Questo Governo indubbiamente sta facendo dei passi indietro. [...] 

[…]Oggi esiste e si è riaffermata una  mentalità fascista che permea a volte persino anche la cultura di persone, che magari non sono fasciste per niente, ma che la condividono sia per averla introiettata sia perché la considerano una mentalità attualmente vincente.

Firenze, figura barbina della sinistra: chi c'è dietro allo "sfregio fascista". Christian Campigli su Il Tempo il 05 luglio 2023

Una svista Potente. Un'ossessione. Profonda, che annebbia la vista e condiziona la capacità di giudizio. Una sorta di strabismo che, a volte, porta a situazioni grottesche. Come quella occorsa a Firenze ieri. Poco prima di pranzo, giunge in città una notizia che crea infinite polemiche. Durante la notte, la targa dedicata ad Aligi Barducci è stata vandalizzata e distrutta. Morto durante la liberazione di Firenze, Barducci era il partigiano col nome di battaglia "Potente", insignito della medaglia d'oro al valor militare. In pochi attimi, pur senza mezza conferma, i progressisti sparano a zero: "sono stati i fascisti". Lungo l'elenco degli interventi. Si va dal sindaco Dario Nardella, che, con doverosa prudenza, si è sbilanciato solo in un laconico "chi è stato si vergogni", ad un più ardito Mirco Rufilli, presidente della Commissione Toponomastica. "Non ho parole  per esprimere il dolore che provo per questo atto vandalico commesso da persone ignoranti e vigliacche".

I più espliciti e fermi nella condanna sono stati l'assessore alla cultura della memoria e della legalità Maria Federica Giuliani ("I richiami al Ventennio manifestati da una certa politica incoraggiano i gruppi neofascisti") e il capogruppo del Pd a Palazzo Vecchio, Nicola Armentano. "È mancanza di rispetto verso una storia, la nostra storia, e verso valori che fanno parte del nostro dna e che non permetteremo a nessuno di scalfire e mettere in discussione. Atti come questo destano allarme ma noi dal canto nostro non arretreremo di un centimetro nel tentare di arginarli, difendendo la storia e la memoria di chi ha lottato per la libertà e la democrazia".

Fiumi di parole, direbbero i mai dimenticati Jalisse. Poi, inesorabile, arriva la realtà. Semplice, a volte banale. Nessun atto vandalico. Solo un camion che ha preso male le misure e ha urtato la targa, senza segnalare l'accaduto. Ma il destino è burlesco e derisorio. Il mezzo a quattro ruote appartiene, ironia della sorte, ad una ditta incaricata dalla Fiom di  smontare tavolini e palco per la festa,  appena conclusa, del sindacato. "Ma quale fascismo, si è trattato di un furgone - ha ricordato il capogruppo a Palazzo Vecchio, Alessandro Draghi - A volte sarebbe utile contare fino a dieci, prima di aprire la bocca e parlare". Insomma, un comune errore di manovra, un piccolo incidente (stradale) trasformato in un gigantesco incidente (istituzionale). Ah, questi fascisti.

Alle origini della disinformazione su Facebook, sistemica e mai casuale. GIAMPIERO MUGHINI il 10 giugno 2023 su Il Foglio 

Max Fisher e la macchina dei like. "La macchina del caos" è il volumone di un team di ricercatori sul mondo dei social media che nel 2019 sono stati finalisti al Premio Pulitzer. Un libro spaventoso nel dirci in quali dannate mani siamo noi cittadini del terzo millennio 

Dato che di come funzionano i social e come interagiscono i loro utenti e come ne vengano ammaliati so solo che è il comparto della vita il più rilevante del presente – quando un americano medio controlla il proprio smartphone qualcosa come 150 volte al giorno e il più delle volte “aprendo” un social –, mi ci sono buttato a pesce sul libro appena edito da Linkiesta Books, La macchina del caos di Max Fisher, un reporter del New York Times che fa parte di un team di ricercatori sul mondo dei social media che nel 2019 sono stati finalisti al Premio Pulitzer. L’ho fatto venendo meno a uno dei miei princìpi, quello di scansare i volumi fin troppo massicci, e questo è un minaccioso tomone da 438 pagine. Solo che è un libro portentoso, dove tutto è informazione intelligenza sostanza. “Portentoso e spaventoso”, mi ha replicato via mail il mio vecchio amico Christian Rocca, il duca dell’attrezzata macchina informativa che ha nome Linkiesta. Sì, spaventoso nel dirci in quali dannate mani siamo noi cittadini del terzo millennio. Siamo l’ultima generazione a ricordarsi com’era il mondo prima dello strapotere dei social, ha detto tempo fa un ex ingegnere informatico appena fuoruscito da Facebook. Una rivoluzione, quella informatica, che a molti apparve come il naturale prosieguo della cultura la più innovante e libertaria dei Settanta. “Noi rifiutiamo: re, presidenti e voto. Noi crediamo in: consenso e codici”, aveva detto nel 1992 uno dei creatori del web. Nientemeno.

Ve la faccio breve. Nel 2006, quando il Facebook creato dall’allora ventiduenne Mark Zuckerberg era ancora giovane giovane, il colosso di Internet Yahoo gli offrì un miliardo di dollari per comprarlo. Era un’offerta allettante. Zuckerberg ci pensò a lungo e disse di no. Ma lasciamo la parola a Fisher: “Nel 2006, l’11 per cento degli americani era sui social. Tra il 2 e il 4 per cento di loro usava Facebook. Meno di dieci anni più tardi, nel 2014, quasi due terzi degli americani usavano i social network, tra cui Facebook, YouTube e Twitter. Quell’anno, a metà del secondo mandato di Barack Obama […], i 200 milioni di americani con un profilo Facebook attivo trascorrevano, in media, più tempo sulla piattaforma che a socializzare di persona (quaranta minuti al giorno contro trentotto). Appena due anni più tardi, nel 2016, quasi il 70 per cento degli americani usava piattaforme di proprietà di Facebook, passandoci in media cinquanta minuti al giorno”. Mai una dittatura politica del Novecento ha avuto una tale presa sul tempo e sulle anime della popolazione che la subiva. Non Benito Mussolini in Italia, non Adolf Hitler in Germania, non Francisco Franco in Spagna, e tanto per fare dei riferimenti. E quanto al suo valore in dollari, quello dell’azienda di Zuckerberg già nel 2017 superava il valore di banche e aziende leggendarie della storia statunitense, altro che il miliardo di dollari offerto da Yahoo.

Ne sta parlando uno che ha sì una carta d’identità ma non un account social, il vero marchio di quel che sei oggi al mondo; e mi stupisco che quando arrivo in un albergo, sapendo con chi hanno a che fare, mi chiedano la prima e non il secondo. Fisher racconta che in America c’era chi si presentava all’allora ventiquattrenne primo presidente di Facebook e si vantava di non stare sui social, al che quello gli ribatteva: “Vedrai che ti raggiungeremo”. E in effetti ne raggiungevano – ossia ne acciuffavano a farli diventare degli utenti – sempre e sempre di più, adoperando ad esempio quella sorta di “dopamina” che sono i like che si affollano a commentare una tua eventuale panzana su Facebook. Personalmente non essendo un tossicodipendente dei like, me ne sto via mail ai giudizi che ci scambiamo  con i dieci/quindici lettori dei miei articoli. E del resto sono talmente pochi gli argomenti su cui ho qualcosa da dire. Qualcosa che non sia uno schiamazzo “divisivo”, una frase ingiuriosa volta ad accendere un litigio, una qualche banalità appartenente alla gamma infinita del politically correct. E qui siamo al cuore della faccenda perché, come documenta a puntino il buon Fisher, proprio i commenti più “divisivi”, quelli che inducono gli utenti a bisticci ripetuti e furiosi, quelli che li sollecitano a intervenire a tutti i costi e pronunziare alta e forte la loro opinione sono i più graditi agli algoritmi che fanno muovere Facebook. Purché sempre più utenti per quanto sgangherati accorrano sulle piattaforme da utenti attivi o passivi e ci restino sempre più a lungo, questa è la filosofia guida di chi governa i social. Molto semplice. E difatti ai tempi più acri della pandemia da Covid, i commenti e i siti animati dai No vax avevano sui social una rappresentanza ben superiore al numero dei cittadini effettivamente paladini di quell’opzione. Con il risultato che negli istituti scolastici americani era andato abbassandosi il numero degli studenti che davvero si vaccinavano contro il morbillo o contro la pertosse, un numero talvolta inferiore al 30 per cento degli studenti totali. Potenza del web.

Fisher s’è confrontato a lungo con Renée DiResta, una donna americana laureata in Scienze informatiche e che di mestiere cerca occasioni di investimento nel web da suggerire ai suoi clienti. Nel girovagare su Google si era accorta di quanto forte fosse la presenza dei No vax sui social e più particolarmente come lei fosse continuamente indirizzata dagli algoritmi verso gruppi di disinformazione sanitaria tipo quelli convinti che lo Zika, un virus che andava diffondendosi negli Stati Uniti, fosse stato creato in laboratorio. Gente che definiva lo Zika “un complotto degli ebrei, un progetto per controllare la popolazione”. Gente il cui estremismo sembrava bene accetto dal web e da chi ne fissava le regole. Direte che è solo un caso. Non tanto, perché nel libro di Fisher di esempi consimili ne troverete caterve.

Salvini e Metropol, l'ultima delle bufale Espresso: ricordate la Capua? Corrado Ocone su L'Espresso il 05 giugno 2023

 La narrazione costruita a sinistra, e che trova ampi riscontri nelle tante storie del giornalismo italiane ideologicamente orientate, fa de L’Espresso, il settimanale fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari, il baluardo dei diritti civili conquistati a fatica da un Paese “retrogrado” come il nostro. C’è però un’altra storia, una costante zona d’ombra, che nessuno ha avuto mai il coraggio di narrare: il periodico è stato anche un costruttore seriale di fake news, bene impacchettate e offerte al pubblico. Bufale che si sono scoperte essere tali solo anni dopo, quando i loro effetti avevano già distrutto reputazioni e carriere politiche. Ed è forse proprio nella consapevolezza di questa performatività, come direbbero i filosofi, cioè nella capacità di incidere con la menzogna nella politica e nella sensibilità nazionali, che va ricercata la ragione ultima di un giornalismo che, pur presentandosi come imparziale e anglosassone, ha dimostrato di essere fazioso e ideologico quanto altri mai.

Il caso dei presunti rubli dati al Carroccio è solo l’ultimo dei tanti casi costruiti a tavolino con lo scopo di delegittimare e mettere fuori gioco un avversario politico. Proviamo a ricordarne qualcuno, cominciando dal cosiddetto Piano Solo, cioè un presunto colpo di Stato che sarebbe stato ordito da un ex presidente della Repubblica, Antonio Segni, e dal comandante generale dei carabinieri, Giovanni de Lorenzo.

FANTASIA

L’articolo, firmato nel maggio 1967 da Scalfari e Lino Jannuzzi, frutto di fantasiose e assurde ricostruzioni che non ressero alla prova di un esame critico, aveva lo scopo ben preciso di gettare fango su un politico antifascista che era ostile all’avvicinamento dei comunisti nell’area di governo e che perciò era dipinto come un golpista e un sodale dei fascisti. Un ancora più sofisticato character assassination, per dirla in questo caso con gli americani, vide coinvolto nel 1976 un altro Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, questa volta in carica e costretto alle dimissioni dopo una violenta campagna mediatica che partì proprio con gli articoli scritti su L’Espresso da Camilla Cederna e Gianluigi Melega. In essi, il colto giurista napoletano, sulla base di pettegolezzi e “prove” tanto inverosimili quanto surreali, veniva indicato come Antelope Cobbler, cioè il referente ultimo del colosso americano degli aerei Lockeed che aveva messo in atto una capillare opera di corruzione nel nostro Paese. La stessa Camilla Cederna aveva qualche anno prima ispirato, con i suoi articoli sul caso Pinelli, l’anarchico precipitato da una finestra della questura di Milano, la lettera appello a L’Espresso con la quale, il 13 giugno 1971, il fior fiore dell’intellettualità italiana di sinistra indicava come responsabile della morte il commissario Luigi Calabresi, poi barbaramente assassinato dai terroristi rossi un anno dopo.

IL CASO CROCETTA

E che dire, venendo a tempi più recenti, della presunta e mai esibita intercettazione con cui il governatore della Regione Sicilia Rosario Crocetta si sarebbe confidato con un amico dicendogli che l’ex assessore alla Sanità, Lucia Borsellino, «andava fatta fuori come suo padre»? Anche la virologa Ilaria Capua, prima di diventare una star mediatica al tempo del Covid, cadde sotto la scure delle bufale del settimanale: accusata nel 2014, con tanto di strillo in copertina, di lucrare sui vaccini, dovette emigrare in America prima di essere prosciolta dalla magistratura. Quelli qui ricordati sono solo alcuni, forse i più eclatanti, dei tanti casi che hanno visto coinvolto quello che è stato a tutti gli effetti un giornale-partito. Il giornalismo d’inchiesta si è quasi sempre trasformato, sulle sue pagine, in un giornalismo d’assalto e scandalistico, il cui fine politico era fin troppo evidente. Che il dibattito pubblico ne sia risultato inquinato è evidente. Così come lo è il fatto che è qui, in questa sinistra intellettuale e mediatica, che bisogna scavare per trovare la genesi della “guerra civile culturale” che rende ancora oggi impossibile in Italia una “operazione verità” sugli anni passati. 

Saluto romano alla parata del 2 giugno, il ministro Crosetto contro Murgia. Il tempo il 03 giugno 2023

Polemica sul saluto romano alla parata del 2 giugno. Michela Murgia scatena la bufera e il ministro Crosetto la smonta su tutta la linea. «Chi polemizza per i presunti saluti "fascisti" alla parata del 2 giugno ignora cos’è un normale "attenti a sinist" (per salutare le autorità a ogni parata, come lo scorso anno). Chi infanga i #Comsubin con assurdi paragoni con la Rsi disprezza il valore e il lavoro delle Forze speciali». Lo afferma, in un tweet, il ministro della Difesa Guido Crosetto sulla polemica sulla parata del 2 giugno.

Tutto è partito dal post Instagram di Michela Murgia. «Ieri alla parata militare del 2 giugno, sotto gli occhi impassibili del presidente Mattarella, è successo anche questo. Tutto normale, perché sono anni che va avanti il processo di normalizzazione. Se il senso del video non fosse chiaro, cercate "X flottiglia MAS" su Wikipedia. Vi sarà subito chiaro perché La Russa sorrida tanto e faccia il segno della vittoria. (Ma che serve ancora per capire cosa sta accadendo?)». È la denuncia su Instagram della scrittrice Michela Murgia, che pubblica sui social un video della sfilata - con la scritta in sovraimpressione «entra in parata col saluto romano» - degli incursori del Comsubin della Marina, che urlano «Decima» davanti al palco delle autorità. 

Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, non replica direttamente ma rilancia un tweet del giornalista Massimiliano Coccia, che scrive: «C’è un’assurda accusa che gira in queste ore sui social ovvero che un reparto della Marina avrebbe fatto il saluto romano rivolto alla tribuna autorità. Una falsità per molti motivi: innanzitutto non esiste nessuna X Mas in servizio presso la Marina Militare, quella della RSI è morta e sepolta dal 1945; la provocazione lanciata da qualche fascio che ha evocato sui social la flottiglia fascista sottolineando il saluto militare in questione; il saluto che vedete non è un saluto romano è un saluto militare di marcia, che consiste nell’alzare il braccio destro in modo perpendicolare (in onore al tricolore) per poi farlo scendere sulla tempia per il saluto; non è un saluto solo di una truppa della Marina ma di molti corpo di armata; da antifascista credo che sia molto importante non evocare spettri inesistenti e, inoltre, vorrei ricordare che il Capo Supremo delle Forze Armate è Sergio Mattarella; questi post nascono da una grossolana ignoranza intorno alle questioni militari, strategiche e di difesa. Ignoranza che non possiamo permetterci più; negli scatti (facilmente reperibili su YouTube) si mettono a confronto altre parate dei decenni scorsi in cui gli stessi saluti sono eseguiti nella stessa modalità. Se tutto è fascismo niente è fascismo».

Prodi e Papa Francesco? Ecco il loro saluto romano: sinistra beffata. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 07 giugno 2023

Moriranno pazzi. A sinistra sognano la sostituzione della mano nell’uomo: o entrambe sinistre, oppure tutti monchi. Perché non appena ti azzardi a levare all’insù quella destra si scatenano: immancabile Michela Murgia, irrefrenabile Roberto Saviano, indomabile Corrado Formigli, illeggibile Massimo Giannini, indigeribile Maurizio Molinari.

È parte della compagnia di giro che sguinzaglia cronisti a caccia di alalà. E quando non ne trova li inventa. È capitato persino al povero rieletto sindaco di Anagni, in Ciociaria – chissà se travolto dalla memoria del conterraneo Rodolfo Graziani – messo in croce proprio da Formigli. A Daniele Natalia lo hanno immortalato con una Var de’ noantri per “dimostrare” il fascistissimo saluto romano. Che invece era un abbraccio alla piazza nell’ultimo comizio elettorale (coinciso con la vittoria del sindaco). La sua città ha risposto me ne frego a Formigli.

Tralasciandole braccia alzate in maniera sospettosa che emergono da immagini di Nicola Zingaretti ed Elly Schlein, per anni un saluto quasi perfetto dal punto di vista storico ha rappresentato croce e delizia per Renata Polverini, governatrice del Lazio dal 2010 al 2013, epperò antifascista conclamata. Il più furbo di tutti è stato Ignazio La Russa, abilissimo nel sostituirlo con la V di vittoria al passaggio della parata del 2 giugno. Ma ha scandalizzato l’universo rosso l’associazione di quel gesto al “Decima!” urlato dai militari che sfilavano come succede da tantissimi anni. Ma governava la sinistra e in tribuna autorità magari si poltriva.

FINI A MOSCA...

Fioccano le immagini di saluti romani a qualche funerale: un atto di omaggio spacciato per adunata di nostalgici, persino nel momento del trapasso. Eppure, c’è chi ha dimenticato i pugni chiusi in morte del brigatista Prospero Gallinari con tanto di canto dell’Internazionale o più semplicemente le mani in tasca del presidente della Camera Roberto Fico durante l’Inno di Mameli in omaggio a Giovanni Falcone, a Palermo. Quando i giornaloni rossi sono a corto di notizie ordinano ai loro inviati di cercare i gruppi più inclini al gesto tanto inviso. E le fotografie certo non mancano per far contenti direttori ed editori.

Ci hanno montato su persino una campagna elettorale per demonizzare la destra: è finita col trionfo della Meloni, la principale accusata. Insomma, al popolo italiano davvero questa storiella non possono raccontarla più. Il fascismo non è alle porte, né fuori della finestra. Mi disse un importantissimo personaggio delle istituzioni, che non voglio citare per evitargli un ulteriore linciaggio: «Io il saluto romano non lo vieterei affatto», e sono sicuro «che smetterebbero di farlo». Perché i divieti si violano più volentieri, insomma. Una volta beccai Gianfranco Fini a fare il pugno chiuso, invece. Eravamo con le rispettive famiglie a due passi dalla Piazza Rossa di Mosca, in vacanza agostana. Ci imbattemmo in un gazebo – allora si chiamavano giornali parlati – di nostalgici del comunismo staliniano. Non eravamo graditi non perché riconosciuti, ma perché vestiti all’occidentale, in bermuda. Al loro capo, all’orecchio confidai che eravamo comunisti italiani e ne fu felice, e ci “consentì” la fotografia, il selfie dei tempi andati, Fini mostrò il pugno chiuso: ma era solo uno sfottò. Non se ne sarebbero mai accorti e chissà che fine ha fatto quella foto... 

Estratto dalla rubrica delle lettere de “la Repubblica” il 6 giugno 2023. 

Caro Merlo, è vero che Michela Murgia ha scambiato un normale saluto militare per il saluto romano e che gli incursori del Comsubin non sono la X Flottiglia Mas, ma è inutile negarlo: La Russa si è eccitato per il braccio alzato, il saluto degli incursori, tutte le uniformi, i pennacchi e le fanfare. Dunque: se non era fascismo era voglia di fascismo.

Gianluigi Perricone – Palermo 

Risposta di Francesco Merlo

Lei è un simpatico sofista, ma alla parata del 2 giugno nessuno si sarebbe mai permesso di esibire, davanti al Capo dello Stato o al suo fianco, né braccia fasciste né voglie di fascismo. E a proposito di eccitati e di eccitanti, […] dobbiamo tutti liberarci dei fantasmi, soprattutto in un momento come questo, con i postfascisti al governo.

I militari in democrazia non sono “vogliamo i colonnelli”, ma “arrivano i nostri”: […] che siano impegnati nelle zone di guerra o sulle strade, le divise italiane rassicurano e proteggono. E vale anche per i carabinieri e per la polizia. Quando ci capita, purtroppo, di doverli giudicare male, non è certo perché somigliano alle divise che indossano ma, al contrario, perché le offendono.

Il saluto (romano) di Saviano alla realtà. Lo scrittore napoletano, dopo la Murgia, scambia il gesto di un militare alla parata del 2 giugno per un omaggio al fascismo. Sbertucciato da tutti, invece di fare un passo indietro si getta nel dirupo del ridicolo: «Era una interpretazione semantica». Francesco Specchia il 9 Giugno 2023 su Libero Quotidiano

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

C’è un’innaturale abilità nell’offrire fake news al mondo e trasformarle, senza sforzo apparente, in strabilianti minchiate autolesionistiche, come fa Roberto Saviano.

La penultima fake è stata vedere nella parata del 2 giugno saluti fascisti sotto il naso del noto camerata Sergio Mattarella che presiedeva in fez e orbace; e, nel contempo, osservare un’esaltazione filonazista nello storico motto del Goi, il Gruppo Operativo in cursori. Il tutto con coté di sputtanamento democratico che è promanato verso Saviano dall’intero arco costituzionale attraverso politici, editori, storici e intellettuali d’ogni colore. Tutti concordi sul fatto che lo stesso Saviano (e Michela Murgia) avessero esagerato con le “notizie” tarocche.

NESSUNA SCUSA L’ultima fake, invece, Saviano l’ha esalata l'altro giorno. Quando, con slancio masochistico, incrostato di melma, non pago d’aver incassato sberle da tutti mentre i suoi lo imploravano: «Roberto, ti prego, fermati, fermati...», be’ Roberto andava eroicamente avanti.

E non solo non si scusava, ma s’arrampicava sugli specchi, nell’inesausta ricerca di un “fascismo moderno” inesistente. E ripeteva, tra sé e sé, «Michela Murgia e io non abbiamo fatto altro che il nostro lavoro: dare un’interpretazione semantica ben precisa di ciò che è accaduto il 2 giugno scorso: la celebrazione della Decima Mas e il segno di vittoria di #LaRussa.

Quel segno disambigua e ci fa accorgere ora, solo ora, di quanto pericoloso sia quell’omaggio e ancor più pericolosa la giustificazione: “Mannò, è la Decima MAS fino al ‘43, sono quelli buoni”. Quelli buoni che parteciparono alla guerra fascista, all’attacco di Creta e di Alessandria d’Egitto». In realtà, si trattava della Compagna Mariassalto, non fedele al Duce, bensì al Re. Ed ecco, dunque vibrare un’altra mazzolata da parte di storici, politici, giornalisti armati di spietati sfottò da Peter Gomez a Tommaso Cerno, perfino ai colleghi di Repubblica. Il tutto alla faccia dell’ «interpretazione semantica» di un’allucinazione littoria.

Da qui è «semanticamente» interessante osservare l’approccio alle fake dello scrittore. La prima volta è disattenzione, la seconda ignoranza, la terza ossessione. Ma se arrivi alla quarta volta, be’, lì diventa dolo e lotta politica.

Anche perché, con Saviano siamo ben oltre la quarta volta. Vado random nella cronologia delle affermazioni stroboscopiche del buon Roberto. Il 4 maggio 2023, in un’intervista alla Stampa attacca il governo che a suo dire comprime la libertà (la prova è che è stato querelato da Meloni...). Ma contro le sue sparate insorge Mattia Feltri, firma dello stesso giornale. «Alla domanda se l’andazzo non fosse cominciato con la causa intentata da Massimo D’Alema a Giorgio Forattini, Saviano ha risposto di no, perché D’Alema quando andò al governo la ritirò. Non è proprio così. D’Alema era presidente del Consiglio quando, nel novembre del '99, chiamò Forattini in giudizio civile. Per una vignetta, gli chiese un risarcimento di tre miliardi di lire. Tre miliardi. Per una vignetta. Mica male come intimidazione da parte del potere», ricorda Feltri. Ma è solo la punta dell’iceberg. Il 25 ottobre 2022, illivorito, Saviano attacca il ministro della Cultura Sangiuliano ma lo scambia per quello del Merito Valditara. Il 16 aprile 2022 Saviano inserisce a corredo di un suo post sull’Ucraina, la foto di un bambino mutilato a Kiev, fottendosene non solo della privacy, ma pure della sensibilità del piccolo che si rivelerà un sopravvissuto del Kossovo nel 2015. Il 27 giugno 2018 nel programma Il supplente di Raidue, nei panni di un professore, Saviano sposta il caso Dreyfus dalla fine 800 alla Prima Guerra Mondiale. Il 13 giugno 2013, Saviano cita un inesistente rapporto del Congresso americano contro gli emigranti italiani, con tanto di smentita da Washington. Il 16 luglio 2021 Saviano twitta la foto di una signora a Cuba «manifestante» contro la dittatura», la quale s’incazza molto perché in realtà era una felice militante castristra.

TROPPE GAFFE Per non dire della volta che il nostro attribuisce alla Meloni la bassa posizione nella classifica di Rsf della libertà di stampa dell’Italia «in buona quota alle pene detentive previste dalla diffamazione, caso pressoché unico nell’occidente liberaldemocratico, e dall’abnorme quantità di querele mosse a scopo intimidatorio», ma i dati citati non sono corretti, e la situazione dei media era di decenni precedente all’attuale esecutivo, e Saviano non s’era accorto. O se n’era accorto troppo.

In realtà, non ci troviamo di fronte a una semplice sequela di teorie disarticolate. Qua la continua manipolazione della realtà di Saviano evoca le caratteristiche tipiche dei totalitarismi: la maskirovka arte dell’inganno dei russi oggi usata in guerra; il realismo “magico” del Minculpop fascista; la propaganda goebbelsiana. Si tratta d’imporre con prepotenza le proprie ossessioni sfruttando un indubbio (e sopravvalutato) diritto di tribuna. Il fatto che un Saviano così gonfio di ideologia degenerativa scriva per il Corriere della sera spaventa molto... 

Non siamo ancora usciti dal tormentone "Attenti al fascismo!" - qualsiasi cosa con Giorgia Meloni al Governo è fascismo. Luigi Mascheroni il 7 Giugno 2023 su Il Giornale.

Non siamo ancora usciti dal tormentone «Attenti al fascismo!» - qualsiasi cosa con Giorgia Meloni al Governo è fascismo: una mano destra che si alza di scatto, pronunciare la parola «Patria», indossare una divisa, criticare Paolo Berizzi, avere dubbi sulla pratica di affittare uteri... - che già ce n'è cascato addosso un altro. La nuova ossessione del progressismo militante, l'abracadabra che spalanca le porte dell'inferno al moralmente scorretto, oggi, è: «egemonia culturale». Da Gramsci a Mussolini andata senza ritorno.

Nomini un nuovo Presidente di destra in un museo diretto per dieci anni da una direttrice di sinistra? «Sei egemone!». Un giornalista se ne va dalla Rai per guadagnare di più su un'altra rete? Sei tu che sei «egemone!!». Una ministra di centrodestra pretende di parlare - invitata - al Salone del Libro di Torino? «Siete egemoni e dovete tacere!». Ieri Massimo Gramellini, sul Corriere della sera, e davvero ci è sfuggito il nesso, ha collegato una battuta del sindaco di Trieste sul costo eccessivo, quasi 10 euro, di una fetta di Sacher nella pasticceria omonima («Se hai soldi ci vai, sennò guardi»), alla «nuova egemonia culturale»... Facendo finta di non sapere che la torta probabilmente con la vecchia egemonia culturale ne costerebbe 15...

Come nel caso del «Dàgli al fascista» si confonde un governo legittimamente eletto con una dittatura. La maggioranza relativa diventa tout court egemone. La libera scelta degli italiani è all'improvviso uno slittamento totalitario. Ed è curioso perché nessuno sotto i governi Draghi - Conte - Gentiloni - Renzi - Letta - Monti - Amato - D'Alema - Prodi - Dini - ad libitum - si è mai preoccupato di qualcosa del genere... E comunque la matematica, cioè il numero di seggi in Parlamento assegnati a una forza politica in proporzione ai voti presi nelle urne, al limite può generare un sano spoils system; non un dispotismo.

Una sinistra che denuncia un attacco alla democrazia qualsiasi cosa succeda - basta che non le piaccia - alla lunga rischia il ridicolo. E una sinistra che sceglie come frontman e frontwoman della controffensiva intellettuale - qualsiasi sia la battaglia - fanatici come Roberto Saviano e Michela Murgia perde autorevolezza. Ma attenzione. Anche una destra che si fa spaventare da un bau bau e da un Berizzi alla fine è poco credibile.

Dalla Decima a Eia Eia Alalà quanta ignoranza. Alberto Ciapparoni su Culturaidentita.it il 5 Giugno 2023

Quel grido, Decima, urlato nella parata militare del 2 giugno e vituperato e attaccato in queste ore sui social dai vari Saviano, Murgia e diversi altri compagni, è il nostro grido. Il grido dell’Italia orgogliosa delle sue eccellenze, memore dei sacrifici fatti per il Paese, grata a chi ha reso possibile (e grande) la storia italiana, rispettosa delle tradizioni, che ama la propria Nazione.

Decima è il motto del GOI, il Gruppo Operativo Incursori Raggruppamento Teseo Tesei (COMSUBIN) e non c’entra con la X Mas della Repubblica Sociale, al comando del capitano Junio Valerio Borghese, ma è la Decima della Marina militare del Regno, che ha operato fino al 1943 e che è il precursore degli incursori di Marina.

Il GOI è intitolato a Teseo Tesei, morto eroicamente nel fallito assalto del 26 luglio 1941 al porto inglese di Malta. Lo stesso vicegovernatore di Malta, sir Edward Jackson, ricordando l’episodio il 4/10/1941 scrisse: “…nel luglio scorso gli italiani hanno condotto un attacco con grande decisione per penetrare nel porto, impiegando MAS (motoscafi armati siluranti) e “siluri umani” armati da “squadre suicide…”.

Oggi i subacquei incursori del GOI sono soldati super-addestrati chiamati alle missioni più delicate (come la risposta alle azioni terroristiche). Sono una delle punte di diamante delle Forze Armate della Repubblica, non della RSI. Per fare polemica bisogna essere ignoranti, cioè aver trascurato la conoscenza di determinate cose che si potrebbero o dovrebbero sapere, o in malafede.

Come per il saluto, sempre alla parata del 2 giugno, di cui si sta parlando tantissimo. Che non è un saluto romano, ma è un saluto militare di marcia, che consiste nell’alzare il braccio destro in modo perpendicolare (in onore al tricolore) per poi farlo scendere sulla tempia per il saluto. E non è un saluto esclusivamente di una truppa della Marina ma di molti corpi di armata. Ignoranza o malafede, oppure sia ignoranza sia malafede.

Come per eia eia alalà. Perché prima di prospettare un grido, oltre che di incitamento, fascista e squadrista, e scandalizzarsi, occorre ricordarsi di Gabriele d’Annunzio: pronunciò eia eia alalà la prima volta nel 1917, al ritorno dal bombardamento di Pola durante la Grande Guerra, l’8 agosto. Si inventò questa formula di esultanza guerriera accorpando due incitamenti di due tragici greci come Eschilo e Pindaro che li avevano usati nella “Fedra” e nella “Nave”. Così quel grido divenne il rituale gioioso di tutti gli aviatori italiani che tornavano da una missione di guerra. E che Mussolini copierà, o meglio, ruberà a d’Annunzio. “Eia, eia alalà” e “Decima” sono la nostra storia, le nostre grida, la nostra Italia. Eia eia alalà, Decima.

Le allucinazioni della Murgia: alla parata del 2 giugno vede saluti romani e principi neri. Matteo Carnieletto il 3 Giugno 2023 su Il Giornale.

La scrittrice sarda vede il fascismo anche là dove non c'è. E, soprattutto, dimostra di non conoscere la storia delle nostre Forze armate

Vorrei, solo per un giorno, vivere nel mondo di Michela Murgia. Un mondo in cui la realtà non esiste e l'unica cosa che conta è gridare al vento parole sull'allarme fascismo o a favore dei diritti Lgbt (e mi fermo alle prime quattro lettere di questa sigla perché impararla a memoria e restare aggiornati sulle nuove pulsioni sessuali del genere umano è pressoché impossibile).

L'ultima impresa della Murgia riguarda la parata del 2 giugno, un evento in cui "la retorica patriottarda è fumo" (copyright della scrittrice sarda). Un evento ormai passato e che richiama, come ci ricordano ogni anno i soloni della sinistra, la guerra. Una cosa tremenda che vorremmo tenere sempre lontana dal nostro Paese ma che, come abbiamo visto il 24 febbraio del 2022 con l'invasione dell'Ucraina, ci viene a cercare e ci bussa alle porte di casa. Ed è anche a questo che servono i militari: a proteggerci (perfino la Murgia) nel caso in cui un evento simile dovesse capitare. Dicevamo però dell'impresa della Nostra che, su Instagram, ha pubblicato un video in cui si vedono gli incursori di Marina alzare il braccio prima di appoggiarlo sulla tempia per rendere omaggio al tricolore. Ovviamente, la Murgia e tutte le Murgia che ci sono in giro hanno visto in questo gesto un saluto romano simulato, quando in realtà si tratta solamente di un gesto militare comune compiuto anche negli anni scorsi e davanti a tutti i presidenti del Consiglio.

Ma non solo. La Murgia si è inorridita per l'urlo degli incursori ("Decima!") e ha chiesto ai suoi follower di andarsi a leggere su Wikipedia la storia dei nostri reparti d'assalto. Facciamolo (anche se, all'enciclopedia online preferiamo il libro di Sergio Nesi Decima flottiglia nostra...i mezzi d'assalto della Marina italiana al sud e al nord dopo l'armistizio): "Nata nel 1939 come Iª Flottiglia M.A.S., era una delle tre flottiglie MAS della Regia Marina allo scoppio della Seconda guerra mondiale. L'unità mutò ufficialmente la propria denominazione in '10ª Flottiglia M.A.S.' il 14 marzo 1941". Perbacco! Allora Junio Valerio Borghese (il Principe nero, ma anche medaglia d'oro al valor militare) c'entra relativamente poco con l'urlo degli incursori. Anche perché, a ben vedere, gli incursori hanno tutto il diritto (e il dovere) di farlo. Se si studia la storia della Decima, infatti, si scopre che furono proprio i suoi soldati a realizzare le imprese di Suda ed Alessandria d'Egitto, solo per citare due casi.

Contattato dal Giornale.it, il generale Marco Bertolini mette a tacere le polemiche: "Non ho nulla da osservare sulla sfilata. Sottolineo però che le tradizioni gloriose del Comsubin derivano da quelle altrettanto gloriose della Decima flottiglia, unità che non è nata nel settembre 1943, ma che era preesistente all’armistizio e a quello che ne conseguì. Un reparto leggendario che ha meritato le più alte decorazioni al Valor Militare e che è apprezzato unanimemente in tutto il globo". Polemica chiusa. Almeno fino alle prossime allucinazioni di Murgia & Co.

La polemica smontata da social e fonti militari. “Il saluto romano” che vede Murgia e le smentite di Crosetto e militari: “Ha confuso X flottiglia Mas”. Redazione su Il Riformista il 3 Giugno 2023 

Un post diventato virale in poche ore, le accuse al governo “fascista” e al Capo dello Stato Mattarella e il chiarimento che arriva da fonti militari e dagli stessi utenti della rete che spiegano alla diretta interessata, Michela Murgia, che si è trattato di un equivoco, a partire dalla “X flottiglia Mas” chiamata in questione dalla scrittrice confusa con il Goi (il Gruppo operativo incursori del Comsubin), il reparto d’assalto della Marina militare.

“Ieri alla parata militare del 2 giugno, sotto gli occhi impassibili del Presidente Mattarella, è successo anche questo. Tutto normale – scrive Murgia che posta su Instagram anche il video in questione – perché sono anni che va avanti il processo di normalizzazione. Se il senso del video non fosse chiaro, cercate “X flottiglia MAS” su Wikipedia. Vi sarà subito chiaro perché La Russa sorrida tanto e faccia il segno della vittoria. (Ma che serve ancora per capire cosa sta accadendo?)”.

Apriti cielo. In poche ore centinaia di commenti, media che rilanciano la notizia e indignazione dilagante. Poi fonti militari smentiscono l’interpretazione della scrittrice: non c’è stato alcun saluto fascista né apologia della flottiglia del comandante Junio Valerio Borghese che col motto dannunziano ‘Memento audere semper’ (ricordati di osare sempre) è uno dei riferimenti dell’estrema destra.

E il ministro della Difesa Guido Crosetto inizialmente non replica ma ritwitta un post che definisce “assurde” le accuse. Poi successivamente commenta: “Chi polemizza per i presunti saluti “fascisti” alla parata del 2 giugno ignora cos’è un normale “attenti a sinist” (per salutare le autorità a ogni parata, come lo scorso anno). Chi infanga i Comsubin con assurdi paragoni con la Rsi  (Regia Marina Italiana, ndr) disprezza il valore e il lavoro delle Forze speciali”. 

Murgia pubblica un breve filmato con la scritta in sovrimpressione “Entra in parata col saluto romano” dove si vede il passaggio, durante la parata militare, degli incursori del Comsubin della Marina: gli specialisti – tuta e berretto verdi, volti travisati da un fazzoletto beige – urlano ‘Decima’ quando sfilano sotto il palco delle autorità. Il riferimento è alla Decima Mas, reparto d’assalto della Regia Marina, autore di celebri imprese durante la prima guerra mondiale.

Nel video viene inquadrato il presidente del Senato Ignazio La Russa che sorride, applaude e fa il segno di vittoria con le dita allo sfilamento della compagnia. Il militare in testa alza il braccio in alto prima di portarlo alla fronte per il saluto. Fonti militari, interpellate dall’ANSA, smontano la versione di Michela Murgia. Il braccio alzato del militare inquadrato, viene sottolineato, è per ‘l’attenti a sinist’, che è il saluto alla tribuna autorità che fanno tutti i reparti che sfilano. E il grido ‘Decima’ è poi il motto del Goi (il Gruppo operativo incursori del Comsubin) e “non c’entra con la ‘X Mas’ della Repubblica sociale ma è la Decima della Marina Militare del Regno che ha operato fino al 1943 e che è il precursore degli incursori di Marina”.

Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, la X Flottiglia Mas, subì una scissione: gli elementi rimasti al Sud ribattezzarono l’unità “Mariassalto”, di base a Taranto, e ripresero a combattere agli ordini degli Alleati. Il grosso della Decima aderì comando di Junio Valerio Borghese (futuro presidente del Msi) e si riorganizzò in corpo autonomo, entrando a far parte della Marina Nazionale Repubblicana e combattendo al fianco del Terzo Reich.

DAGOSPIA il 16 maggio 2023. FLASH – A CIASCUNO LA SUA REALTA': "REPUBBLICA" E "CORRIERE" RIESCONO A DARE DUE LETTURE OPPOSTE SULL'ESITO DELLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE - PER IL QUOTIDIANO DIRETTO DA MOLINARI "L'ONDA DI DESTRA SI E' FERMATA", PER IL GIORNALE DI URBANETTO CAIRO "IL CENTRODESTRA E' AVANTI NELLE CITTA'". COSA DEVE FARE UN POVERO LETTORE PER CAPIRE COME E' ANDATA?

Il falso scoop di Repubblica sulle torture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.  Stefano Baudino su L'Indipendente il 17 Maggio 2023 

“La rivelazione arriva proprio durante le battute finali dell’udienza. I referti dei detenuti picchiati sono spariti. I carabinieri non li hanno trovati. Ed è un giallo, l’ennesimo, in una vicenda terribile e non ancora del tutto chiarita: il pestaggio dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere“. È questo l’incipit dell’articolo, uscito il 10 maggio su La Repubblica a firma Raffaele Sardo, riferito al processo che si sta tenendo davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere – in cui figurano 105 imputati tra agenti, funzionari del Dap e medici dell’Asl – sui gravissimi fatti avvenuti il 6 aprile 2020 all’interno della casa circondariale campana. In realtà, ciò che viene venduto come uno scoop sensazionale è una non-notizia.

Il giornalista prosegue infatti citando tra virgolette quello che sarebbe il contenuto di uno scambio avvenuto in aula tra il pm Daniela Pannone, il vicebrigadiere Vincenzo Medici e il Presidente della Corte d’Assise Roberto Donatiello: “«Avete sequestrato i referti medici per i detenuti feriti e portato in infermeria?», chiede il pubblico ministero Pannone al brigadiere dei carabiniere Medici. «Non li abbiamo trovati», è la risposta che gela l’aula, del sottufficiale dell’Arma. Il presidente del collegio della Corte di assise, Roberto Donatiello, interviene, vuole approfondire, sembra sorpreso. «Mi faccia capire – dice il presidente del collegio di Corte d’Assise Roberto Donatiello – non c’erano i referti medici dei detenuti assistiti il 6 aprile?». È il giorno della ‘mattanza’. Come è possibile che quelle carte non ci siano più?. «Abbiamo trovato quelli degli agenti, non quelli dei detenuti», ripete il brigadiere dei carabinieri Medici […]”. Leggendo questo passaggio, il lettore potrebbe essere fisiologicamente portato a ipotizzare un qualche ruolo dei carabinieri nella copertura degli agenti sotto indagine e, soprattutto, a chiedersi per quale motivo il pm e il Presidente del collegio della Corte d’Assise abbiano fatto passare in sordina una questione così scottante. Insomma, lo spaccato sembra quello di un “giallo” dai contorni torbidi.

La verità è che il cronista ha completamente travisato il contenuto di quello scambio, che riportiamo qui di seguito nella sua interezza dopo aver ascoltato attentamente l’audio ufficiale dell’udienza. “P.M.: «Nel corso dell’attività d’indagine avete acquisito documentazione medica, referti medici riportanti lesioni di detenuti per gli eventi del 6?». Vicebrigadiere: «No, dei detenuti no. Non in riferimento al 6 aprile». P.M.: «Sono stati rinvenuti altri referti?». Vicebrigadiere: «I referti medici degli agenti, attestanti le lesioni degli agenti». Presidente Corte d’Assise: «Il passaggio in infermeria delle persone…». Vicebrigadiere: «Non sono state refertate, presidente». Presidente Corte d’Assise: «E come l’avete accertato?». Vicebrigadiere: «Perché abbiamo le dichiarazioni dei detenuti che sono stati portati in infermeria…». Presidente Corte d’Assise: «… che sono andati, a cui non hanno rilasciato referto. Va bene»”. Assolutamente nulla di nuovo sotto al sole, come dimostra la chiosa “consapevole” del presidente Donatiello. Tanto è vero che, tra i soggetti alla sbarra, ci sono anche alcuni medici, cui è notorio sia stato imputato proprio di non aver refertato le violenze subite dai detenuti per “coprire” i responsabili.

No, non è una notizia che “i referti dei detenuti picchiati sono spariti“: semplicemente (potremmo affermarlo in maniera ufficiale ove le accuse nei confronti dei medici siano infine confermate) quei documenti non sono probabilmente mai stati prodotti. Proprio per questo motivo, non è affatto vero che il Presidente della Corte d’Assise si è mostrato “sorpreso” rispetto a quanto ricordato dal vicebrigadiere Vincenzo Medici, né che tale dichiarazione abbia “gelato l’aula“. Il giornalista scrive peraltro che tale “rivelazione” sarebbe arrivata “proprio durante le battute finali dell’udienza”: altro dato assolutamente non corretto, poiché il rapido confronto verbale oggetto dell’articolo ha luogo dopo 2 ore e 55, nella cornice di un’udienza che si è protratta per oltre 6 ore.

Mentre da un lato giornali mainstream additano le nuove realtà dell’informazione come troppo poco autorevoli o acchiappa-click, dall’altro si dimostrano ogni giorno pronti a riportare i fatti in maniera non fedele.

Evidentemente, proprio per ottenere in fretta e furia qualche click in più. Piuttosto che prediligere il fattore quantitativo, noi preferiamo invece puntare sulla qualità delle notizie pubblicate, prenderci il tempo che ci serve a scandagliare i fatti al fine di offrirvi un’informazione approfondita, seria e fedele alla realtà. [di Stefano Baudino]

Siamo così ammalati di menzogna che ChatGpt ci sembra il vero progresso. RICK DUFER su Il Domani il 07 aprile 2023

Il fascino per la macchina deriva da un istinto culturale umano. Ormai le bugie sono diventate un’abitudine e ci siamo abituati anche ad auto-ingannarci. Ecco perché l’intelligenza artificiale ci sembra un sinonimo del progresso

L’avanzamento dei cosiddetti deepfake, ovvero video artefatti in cui si riesce ad avere la perfetta riproduzione di qualsiasi individuo per fargli dire qualsiasi cosa, è infinitamente più conveniente rispetto alla creazione di software che riescano a smascherare tali finzioni.

Il motivo per cui le tecnologie dell’inganno come i deepfake sono economicamente profittevoli, ma le contromisure no, è che siamo psicologicamente arresi al potere devastante della menzogna.

Da estimatore del progresso tecnologico mi trovo perciò preoccupato, prima filosoficamente che tecnologicamente: siamo ammalati di menzogna e Gpt-4, con tutto il suo incentivo economico e culturale ad ingannarci, rischia di rovesciare del tutto la nostra capacità di discernere il vero dal falso.

Da dove proviene l’intelligenza artificiale? Di fronte a questa domanda possiamo scegliere di essere molto superficiali e rispondere: «Ovvio, dall’avanzamento dei microprocessori, dall’affinamento degli algoritmi complessi, dal progresso nel machine e deep learning!». Ma a questa risposta può fermarsi solo un ingegnere informatico, un tecnico del settore, oppure uno sguardo molto superficiale.

La domanda iniziale infatti ci impone di adottare anche una prospettiva filosofica e psicologica, che ci permetta di scandagliare le radici concettuali, culturali e addirittura inconsce che hanno spinto l’essere umano del tardo XX secolo a tuffarsi nella creazione di entità virtuali i cui effetti possono essere devastanti e il cui funzionamento ci resta in buona parte misterioso.

Solo in questa prospettiva possiamo comprendere il (forse esagerato) grido d’allarme di Elon Musk e altri intellettuali sui pericoli dello sviluppo irrefrenabile di Gpt-4 e i suoi derivati, così come l’inquietudine che soggiace nel nostro animo ad ogni interazione con Chat Gpt: di fronte ad essa ci sentiamo incerti, traballanti, insicuri di quel che stiamo facendo, inconsapevoli degli effetti della relazione che intratteniamo con essa, sentendoci meravigliati ma anche piccoli e ignoranti, forse sminuiti a causa delle capacità che questo strumento dimostra di avere.

Perciò, proviamo ad essere meno superficiali nel tentativo di rispondere alla domanda: da dove proviene l’intelligenza artificiale?

L’INCENTIVO A MENTIRE

La lettera di Musk & co. esprime la necessità di sospendere temporaneamente lo sviluppo di Gpt-4 e le sue derivate per permettere alla società di sviluppare le giuste “contromisure”. Il fatto che si ripropone continuamente sotto i nostri occhi è il seguente: le tecnologie di falsificazione della realtà sono economicamente più incentivanti rispetto ai possibili antidoti.

L’avanzamento dei cosiddetti deepfake, ovvero video artefatti in cui si riesce ad avere la perfetta riproduzione di qualsiasi individuo per fargli dire qualsiasi cosa, è infinitamente più conveniente rispetto alla creazione di software che riescano a smascherare tali finzioni; la produzione di un testo narrativo che venga spacciato per una pagina di Jorge Luis Borges, quando invece è la creazione di Gpt-4, è molto più profittevole rispetto allo sviluppo di tecnologie che possano prevenire la diffusione di tali inganni.

Di fronte a tutto questo, appare evidente che l’intelligenza artificiale trova il suo terreno fertile proprio nell’incentivo culturale a mentire, ingannare e raggirare l’essere umano. In fin dei conti, il concetto di I.A. nasce proprio da una prospettiva di manifesta menzogna.

DISTINGUERE IL VERO DAL FALSO

Lo stesso test di Alan Turing, il padre dell’artificial intelligence, descrive la prospettiva dell’inganno: «Un computer meriterà di essere chiamato intelligente quando riuscirà a ingannare un essere umano facendogli credere di essere umano». E sarebbe poco saggio non vedere un fil rouge concettuale tra tutte le tecnologie sviluppate negli ultimi settant’anni, il cui legame psicologico è proprio quello dell’inganno.

Attualmente, l’intelligenza artificiale è l’ultimo ritrovato in fatto di menzogna e l’obiettivo dichiarato degli sviluppatori è proprio quello di rendere indistinguibile l’interazione tra umano-umano e tra umano-Ia. Cos’altro è questo, se non un raggiro che l’essere umano sta imponendo a sé stesso?

Perciò, mi appare evidente che la radice filosofica più profonda della nostra relazione con l’intelligenza artificiale è morale ed etica: siamo talmente abituati ad accompagnarci all’inganno e alla menzogna, abbiamo così profondamente metabolizzato l’idea della bugia come alleata di vita, da non avere nessun tipo di problema nell’accettare la valanga tecnologica avanzante in cui rischiamo di perdere inesorabilmente la capacità di distinguere il vero dal falso.

ARRENDERSI ALLA MENZOGNA

Il motivo per cui le tecnologie dell’inganno come i deepfake sono economicamente profittevoli, ma le contromisure no, è che siamo psicologicamente arresi al potere devastante della menzogna e l’unica cosa che possiamo sperare è far sì che dopo la bugia largamente diffusa esista una smentita mediamente efficace (insomma, ci siamo abituati all’idea di non poter far prevalere la verità, ma di poter solo “limitare i danni” delle finzioni).

La ragione per cui investiamo così tanti soldi nell’hacking dei sistemi informatici ma così poche risorse nella cybersicurezza è che non crediamo davvero di poter smascherare le bugie perché esse sono ormai dominanti e indistinguibili dalla verità.

Le radici della nostra acritica adozione di ChatGpt stanno proprio nel fatto che abbiamo espulso il concetto di “verità” dalla prospettiva etica di cui siamo il prodotto, convincendoci che possiamo solo sperare in “menzogne migliori” e “inganni meno dannosi”, concedendo alla bugia un ruolo di primissimo piano nelle nostre esistenze.

LA RESA ALLA MENZOGNA

L’effetto sociale di tutto ciò è evidente: non educhiamo più i nostri figli a cercare e dire la verità, li educhiamo ad essere persuasivi, a mentire con nobili fini; nel giornalismo spesso derubrichiamo l’onestà intellettuale ad un optional e preferiamo raccontare le cose nel modo più conveniente ed efficace; la popolarità e il consenso, nuove forme della menzogna collettiva, hanno preso il sopravvento a discapito dell’autenticità e della veridicità. Chat GPT è solo l’ultimo ritrovato in fatto di menzogna.

Andare a scandagliare le motivazioni culturali che hanno portato a un tale dominio della menzogna è un lavoro che sarebbe forse improbo per un breve scritto come questo e saremmo costretti a chiamare in causa Nietzsche, la “morte di dio” e il post-modernismo.

Non tenterò di cimentarmi in questa impresa, rischiando di risultare verboso oppure troppo superficiale. Ma mi sembra importante rendersi conto di come, alla base dell’uso che stiamo facendo delle intelligenze artificiali, sta proprio la nostra resa incondizionata alla menzogna e all’auto-inganno intesi come unica via percorribile.

DISTINGUERE LA VERITÀ

Il vero pericolo rappresentato dall’Ia non è quello che essa diventi più intelligente di noi: questo è impossibile, dal momento che queste tecnologie possono essere solo il risultato della rielaborazione (per quanto complessa e abnorme) di quello che già siamo e conosciamo. Il reale pericolo è che l’adozione acritica di tali strumenti ci renda più stupidi (cosa che già sta accadendo da tempo), ma soprattutto meno propensi a dire la verità.

Quando si parla di “dire la verità” ovviamente si apre il vaso di Pandora e tutti si accavallano urlando: «Ma chi sei tu per decidere cosa è vero e cosa non lo è?» – la risposta è che nessuno lo decide, ma ognuno di noi lo sente.

Considerandoci come entità in possesso di un certo grado di intelligenza e autocoscienza, tutti noi sappiamo perfettamente quando e perché stiamo dicendo la verità oppure stiamo mentendo ad un nostro amico, al nostro partner, in un video di YouTube, dentro un messaggio pubblicitario.

UTILITARISMO

Il rapporto tra verità e menzogna, come ben ci ha insegnato Nietzsche, è impossibile da esprimere con un discorso scientifico e oggettivo: solo io, nella solitudine del mio animo, so che sto mentendo o che sto dicendo il vero (questo è il motivo per cui, in ambito giuridico, si distingue tra “verità” e “verità processuale”: la prima è inaccessibile e solo l’imputato sa se ha compiuto o meno il fatto di cui è accusato; la seconda è provabile, ma sarà sempre fallibile).

Il problema è che, in un mondo dominato dalla ricerca dell’oggettività, quel rapporto soggettivo ha perso di significato e invece di spingerci ad essere creature tendenti alla verità, ci ha convinti dell’inconsistenza della verità: essa ha poca importanza perché la mia soggettività è poco importante.

In questo frangente, la prospettiva etica più diffusa è quella dell’utilitarismo: il bene non è dire la verità, ma dire ciò che diffonde un utile. La verità soggettiva spesso non è poi così utile, anzi: rischia di essere economicamente poco profittevole rispetto ad una menzogna ben impostata. Perciò, così come il fine giustifica i mezzi, l’utile dà significato alla bugia.

E sappiamo bene che dall’utilitarismo di Bentham, questa prospettiva ha fatto molta strada e molti danni, arrivando a Sam Bankman-Fried e all’effective altruism (secondo cui il bene non è dire la verità oppure comportarsi moralmente, ma agire in modo da diffondere il massimo utile per il massimo numero di persone possibile, e se questo nobile fine lo devi perseguire rubando miliardi di dollari ai risparmiatori, beh, sei giustificato fintantoché non vieni scoperto, ovviamente!). La menzogna ha trovato il suo dominio quando abbiamo smesso di prenderci il rischio soggettivo della verità, perché in fin dei conti convenivano le bugie nobilitate da fini utilitaristici.

LA NOSTRA MALATTIA

Nel suo L’avversario, Emmanuel Carrère descrive i crimini del protagonista dicendo: “Jean-Claude Romand si era ammalato di menzogna.” Credo che questa frase sia perfettamente applicabile alla nostra società e alla relazione che stiamo intrattenendo con le tecnologie dell’auto-inganno.

Siamo ammalati di una menzogna che ci ha persuasi di essere l’unica strada percorribile verso la felicità e il progresso. Ci siamo circondati di bugie tecnologiche in conseguenza della perdita della nostra verità soggettiva.

E così, spaventati come siamo dalla solitudine e dalla poca convenienza di dire e cercare la verità, ci troviamo impantanati nel pericolo di perdere del tutto e per sempre la capacità di dire e riconoscere la verità.

AUTO-INGANNI

Questo essere ammalati di menzogna è perfettamente rappresentato dal caso del presidente del Gabon che nel 2018, dopo essere sparito dai radar pubblici per qualche settimana, si è mostrato in un video dopo quella che era stata descritta come una breve malattia.

La popolazione e i vertici militari, convinti che quel video fosse un deepfake, hanno rischiato di portare ad un colpo di stato, con catastrofiche conseguenze per tutti. Questo episodio descrive la parabola infernale della menzogna intesa come valore etico: quando l’essere umano si convince di poter mentire “per nobili fini”, accumulando piccole bugie volte alla diffusione di un utile, alla fine dei conti si ammala e rischia di collassare sotto il peso di tutti quegli auto-inganni.

IL COSTO DELLA VERITÀ

Da estimatore del progresso tecnologico mi trovo perciò preoccupato, prima filosoficamente che tecnologicamente: siamo ammalati di menzogna e Gpt-4, con tutto il suo incentivo economico e culturale ad ingannarci, rischia di rovesciare del tutto la nostra capacità di discernere il vero dal falso.

E dal momento che la scienza e la democrazia si basano sulla nostra capacità di non confondere quelle due dimensioni, la posta in palio è altissima. Perciò, la domanda che dobbiamo porci a questo punto è la seguente: esiste la possibilità di costruire una società dove l’incentivo economico a dire la verità prima della menzogna sia premiante, in cui la capacità di essere intellettualmente onesti sia desiderabile tanto quanto l’essere persuasivi?

La storia della filosofia ci dice di no: la verità sarà sempre più costosa della menzogna e noi cadremo inevitabilmente in quest’ultima, sperando di riuscire poi a raccogliere i cocci di quanto mandato in frantumi.

TECNOLOGIE DELL’AUTO-INGANNO

Ma allora, possiamo almeno smettere di raccontare a noi stessi e ai nostri figli che la bugia è l’unica forma di relazione possibile con la realtà circostante? Possiamo tornare a dire: è sempre meglio dire la verità rispetto a raccontare una balla, anche se mi pare economicamente meno conveniente? Possiamo affermare, senza sentirci gli ingenui del villaggio, che un computer il cui obiettivo è ingannarmi per sembrare umano forse non è un computer che possa fare del bene alla mia ricerca della felicità?

Magari, ponendoci queste questioni, Gpt-4 e le tecnologie dell’auto-inganno potrebbero tornare ad essere nostre alleate e non bastoni tra le ruote di questa strana cosa che è l’esistenza umana, che è vera, concreta, tangibile, e merita di essere raccontata con l’onestà che ChatGpt non potrà mai restituirmi.

RICK DUFER. Alias Riccardo Dal Ferro, è filosofo, scrittore ed esperto di comunicazione e divulgazione. Porta avanti un progetto di divulgazione letteraria e filosofica attraverso ilsuo canale YouTube e il podcast Daily Cogito. È autore e interprete di monologhi teatrali a sfondoletterario,filosoficoe satirico. È direttore della rivista Endoxa.

Elogio del “divo” Giulio, del Parlamento e dei giornalisti liberi. Massimo Fini ha scritto sul Fatto che Andreotti «in qualsiasi altro Paese sarebbe stato un grande statista». Francesco Damato su Il Dubbio il 15 gennaio 2023

Massimo Fini, un giornalista e scrittore fra i più urticanti, della cui pur scomodissima collaborazione ho avuto il privilegio di godere negli ormai lontani anni della direzione del Giorno, è ciò che soleva dire il compianto Giovanni Malagodi, che ne produceva nei tempi liberi dalla politica: i buoni vini migliorano invecchiando.

Sulla strada ormai degli 80 anni è capitato a Massimo di condividere una fila postale con Stefano Andreotti, il secondogenito del “divo Giulio” nato esattamente 104 anni fa e morto quasi da dieci, dopo essere stato sette volte presidente del Consiglio, non ricordo più quante volte ministro, una volta capogruppo della Dc alla Camera, e un’altra volta quasi candidato al Quirinale, nel 1992, mai segretario del suo partito, non si è mai capito bene se per scelta o per mancanza d’occasione. E infine imputato eccellente di associazione mafiosa e di omicidio, assolto per l’una e per l’altro. Pazienza se an- cora oggi l’accusatore ormai pensionato Gian Carlo Caselli sostiene, ogni volta che qualcuno gliene dà il motivo scrivendo appunto delle assoluzioni, che quella per mafia vale poco o niente per via della prescrizione che avrebbe risparmiato al senatore a vita - altra carica collezionata da Andreotti - la condanna per fatti, conoscenze e quant’altro risalenti a prima del 1981.

La casuale condivisione di quella banale fila postale col figlio, che neppure conosceva ma di cui ha scoperto il nome sentendolo pronunciare dall’impiegato allo sportello, ha felicemente rinverdito nella memoria di Massimo Fini il ricordo del padre. Nel quale egli si era imbattuto giovanissimo in un ippodromo romano facendogli cadere gli occhiali e aveva poi avuto modo anche di intervistare da giornalista cominciando ad apprezzarne acume, gentilezza, puntualità, cultura, ironia e altro ancora. Tanto da fargli scrivere, a conclusione di un articolo pubblicato il 12 gennaio sull’insospettabile o sorprendente, come preferite, Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio che Andreotti «in qualsiasi altro Paese d’Europa sarebbe stato un grande statista. Da noi è stato uno strano ircocervo: mezzo statista e, forse, mezzo delinquente». Un enigma, avrebbe detto Winston Churchill.

Non poteva scrivere meglio il buon Massimo, e fare uscire sul suo giornale il pur meno buono Marco per quella mania che ha, fra l’altro, di storpiare nomi e storie di persone non gradite pensando di fare solo dell’ironia.

C’è tuttavia qualcosa dell’articolo di Massimo Fini che al pur compiaciuto - per il resto - Mattia Feltri non è piaciuto scrivendone nella sua brillantissima rubrica quotidiana sulla prima pagina della Stampa. È il sollievo espresso da Massimo di non essergli mai capitato di seguire la politica frequentando le Camere nelle fila, diciamo così, della stampa parlamentare. Dove io e altri abbiamo evidentemente sprecato sessant’anni della nostra via professionale.

Lo spazio percorso da noi poveri sfortunati, a dir poco, è stato definito da Mattia, che lo bazzica senza le lenti del qualunquismo, «il chilometro quadrato più onesto d’Italia», essendo il Parlamento «popolato da gente con un senso dello Stato e delle istituzioni e con un rispetto delle leggi e del ruolo disastrosamente bassi, ma molto più alti che nel resto del Paese». Egli ha citato a testimonianza delle sue convinzioni le consolanti sorprese confidategli da alcuni grillini arrivati a Montecitorio e a Palazzo Madama con la convinzione di dovere risanare chissà quali fogne, cominciando col ridurre i seggi parlamentari per velocizzare pulizie e quant’altro. Ah, il qualunquismo, malattia infantile o senile, come preferite, del moralismo sparso fra piazze, scuole, associazioni più o meno culturali, redazioni di giornali e tribunali, in un miscuglio di ipocrisia e infamia.

È inutile poi stupirsi dell’assenteismo elettorale, dei giornali che vendono sempre meno copie, per quanto infarciti di antipolitica, e di edicole che chiudono, tanto poco ormai si ha voglia in Italia di essere informati. Gli stessi strumenti elettronici vengono compulsati spesso, o maniacalmente, da ragazzi, giovani e anziani più per giocare che per sapere o conoscere.

Tecnopinioni. Anche Report era una bolla, e i social l’hanno fatta scoppiare. Marco Viviani su L’Inkiesta il 19 Aprile 2017.

Ho smesso di seguire diligentemente Report, pochi anni fa, dopo alcuni servizi su una materia che conoscevo molto bene (era la questione multinazionali / fisco / webtax; poi parlarono anche di soci...

Ho smesso di seguire diligentemente Report, pochi anni fa, dopo alcuni servizi su una materia che conoscevo molto bene (era la questione multinazionali / fisco / webtax; poi parlarono anche di social network) perché fecero in questi casi un lavoro estremamente superficiale. Talvolta completamente fuorviante, persino scorretto. Col tempo mi sono reso conto, empiricamente, che le trasmissioni di inchiesta televisiva mi facevano impressione soltanto quando affrontavano un tema che non conoscevo per nulla, mentre ogni volta che toccavano un tema che studio per lavoro mi risultavano intollerabili per quanto erano banali oppure, peggio, deformanti. Così ho pensato: “Quante probabilità esistono che siano scarsi soltanto in quei temi che conosco e bravissimi in tutti gli altri?”.

IL POST DEL PROFESSOR BURIONI – Si è molto discusso del pessimo servizio fatto dalla trasmissione di Rai3 a proposito del vaccino anti Papilloma virus, e ciò che mi ha colpito sono le centinaia di commenti al post del professor Burioni (noto virologo, una persona seria, pacata) che riportano con precisione assoluta la mia stessa esperienza, cioè la discrasia tra quel che pensi di questi servizi televisivi quando parlano di ciò che non conosci e la sensazione che ti danno invece quando parlano di un argomento che conosci molto bene per ragioni professionali. Credevo, onestamente, fosse un mio pensiero, invece a quanto pare l’abbiamo scoperto tutti, lo pensavamo tutti, o comunque in tanti. Andate a vederli: chilometri di commenti di professionisti di aeronautica, ambiente, alimentazione, ingegneria, che all’unisono denunciano “finché non hanno parlato del tema che conosco bene mi piacevano, poi quella volta che hanno parlato del mio ambito è stato un disastro”. Tutti così.

E SE FOSSERO TUTTE BOLLE? – Questo mi fa pensare con orrore a un’ipotesi: e se le trasmissioni d’inchiesta televisiva fossero tutte bolle? Vuoi vedere che i social, coi loro difetti per carità, stanno facendo scoppiare delle bolle invece di crearne soltanto di nuove? Abbiamo creduto a un giornalismo corretto, coraggioso, di sinistra, dalla parte dei deboli, e invece hanno sempre sparato fregnacce? Oppure sono peggiorati col tempo? E per quali fattori? Se fosse così – va studiato, non intendo farmi trascinare – per me, questa intuizione sul rapporto social/informazione cambia tutto. Pensateci: vi è capitato di vedere un servizio di Report o altre trasmissioni di inchiesta giornalistica che riguardava un tema che conoscete a menadito e averlo trovato tremendamente superficiale, finendo col sospettare che allora in tutti gli altri casi eravate semplicemente ignoranti? Attenzione, non parlo di limitazione del formato: è ovvio che in venti minuti un giornalista non potrà mai racchiudere il sapere di uno specialista. No, io parlo di strafalcioni, dubbi montati ad arte, quell’orribile stile fatto di insinuazioni, una costruzione argomentativa basata su una tesi precostituita che sembra essere la colonna vertebrale dell’inchiesta all’italiana e che sarebbe capace di trasformare anche un santo in un serial killer. Puro esercizio narrativo.

PERFORMANCE EMOZIONALE – Questo modo di fare inchiesta mi sembra manchi sempre della smoking gun, a volte persino si vende come inchiesta ma è una collazione di lavori altrui più una singola intervista che contribuisce a nulla (come nel primo famoso episodio ENI-Report), ma soprattutto sia perlopiù una performance emozionale montata sempre nella stessa maniera: introduzione contestuale con musichetta allegra; montaggio dichiarazioni personaggi influenti; scesa in campo del dubbio, la musica cambia, montaggio articoli di giornale che raccontano episodi variamente contestabili; speaking modalità “mhhh, ho una brutta sensazione”; elencazione di varie documentazioni (molto spesso incomplete oppure omissive) che attesterebbero un certo tipo di “interesse”; intervista al soggetto accusato di avere un interesse; insinuazione del dubbio tramite testimonianza di qualcuno che nella metà dei casi non è riconoscibile oppure ha plateali ragioni per vendicarsi; conclusione “aperta” del servizio. In questo modo hai sempre la sensazione che ci sia del marcio, per forza. Ma l’inchiesta è un’altra cosa. L’inchiesta porta documentazione che altri non hanno, non mette assieme figurine di personaggi che hanno “interessi”. Dimostrare che qualcuno guadagna da qualcosa che ci dice di questa cosa? Nulla. È una specie di moralismo calvinista applicato al giornalismo.

In Italia pubblichiamo precocemente, ci interessa la performance e non il diritto del lettore a essere correttamente informato. Quel servizio sul vaccino era al massimo una bozza, magari anche promettente, ma senza nulla di concreto da portare al pubblico. L’unica notizia possibile è dire se un vaccino fa male, in caso contrario un vago richiamo alla trasparenza, peraltro pure lacunoso e scentrato, va catalogato in altro mestiere: revisori dei conti; burocrati di qualche ente di controllo parastatale. Non certo nella gloriosa definizione di inchiesta giornalistica. Un giornalismo sano avrebbe lasciato quel materiale in “cucina”, non l’avrebbe trasmesso. Certo, le redazioni si raccontano che seguiranno la vicenda a puntate, poi però metà delle cose le perdi per strada (tu lettore o le redazioni stesse) e resta roba fatta male. Ma tanto che importa? Quasi nessuno ne sa più di loro, giusto? Eh, no, sbagliato. Ora la gente si parla, condivide conoscenze in Rete. E forse la bolla è scoppiata. Sotto il post di un bravo scienziato.

Menzogne politiche.

La foto fake, poi il pastrocchio: figuraccia di Repubblica su Meloni. La figuraccia di Rep: pubblica una foto di Giorgia Meloni del 2020 spacciandola come attuale. Poi corre ai ripari, ma…Matteo Milanesi su Nicolaporro.it il 4 Luglio 2023

Ebbene sì, sono loro i professionisti dell’informazione, quelli che combattono da sempre le tanto conclamate fake news, rigorosamente circolanti solo sui social e sui siti online, mai sul cartaceo. Sono loro i professionisti delle notizie, quelli della vittoria già scritta di Hilary Clinton, oppure quelli che paragonavano il contagiato al malato durante il periodo pandemico. E ancora, quelli che oggi tentano di tutto pur di “sputtanare” (nel vero senso letterale della parola) il Presidente del Consiglio in carica, Giorgia Meloni.

Figuraccia Repubblica

Questa volta è La Repubblica a deliziarci con una fake news a dir poco incredibile. Nel quotidiano di oggi infatti, a pagina 8, appare un articolo di Antonio Fraschilla relativamente ai presunti voli di Stato della numero uno di Palazzo Chigi. La polemica la avrete già compresa: Rep ci spiega che dal 22 febbraio Palazzo Chigi non comunica più gli spostamenti di Giorgia Meloni, lamentando una spesa di 193mila euro per undici viaggi nei primi 3 mesi di governo.

Insomma, è la solita polemica alla Movimento 5 Stelle, contro la tanto conclamata casta da abbattere, i privilegi della politica, i voli di Stato e chi ne ha di più ne metta. Peccato, però, che questa volta il quotidiano di Molinari raffigura una foto di Giorgia Meloni al mare, mentre sorseggia un drink. Sotto la seguente formula: “La Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si rilassa sorseggiando un cocktail sulla spiaggia di Cala Masciola, vicino a Borgo Egnazia in Puglia, dove è arrivata con un volo di Stato di ritorno dal consiglio europeo di Bruxelles e ha trascorso qualche giorno di vacanza”.

Peccato però che la foto sia di tre anni fa, esattamente del 23 agosto 2020, ed è la stessa pagina social di Fratelli d’Italia a scagliarsi contro il quotidiano progressista: “Certi giornali, pur di attaccare Giorgia Meloni ed il suo governo, sono disposti a diffondere notizie false e pretestuose”. Per di più, visto che il post è ancora presente sul profilo Instagram del premier, il luogo in cui è stata scattata è Ostia, non la Puglia come invece riportato dal quotidiano.

La pezza peggio del buco

Ma il danno non finisce qui. Nel tentativo di mettere una pezza, la redazione di Rep è riuscita a fare addirittura peggio del buco. Per la versione online del giornale di oggi, infatti, la foto fake è stata sostituita con un’altra, rappresentante Giorgia Meloni intenta ad utilizzare il cellulare da un balcone. Insomma, hanno appiccicato un’immagine in extremis in sostituzione di quella contestata.

Una figura di palta (Emilio Fede avrebbe offerto un’espressione più colorita), che rappresenta per di più quel tratto ideologico, quasi da militante, che caratterizza una parte del mondo delle comunicazione progressista. Ed oggi ne è stata data l’ennesima dimostrazione. Che brutta figura.

Matteo Milanesi, 4 luglio 2023

Infotainment e democrazia. TikTok, le fake news e gli ostacoli al diritto di voto. Farah Nayeri su L’Inkiesta il 7 Gennaio 2023.

Le bugie sono antiche come la politica ma non sono mai state così sofisticate, verosimili e facili da diffondere. E per molti americani sta diventando difficile ottenere la scheda elettorale

Questo è un articolo del numero di Linkiesta Magazine + New York Times World Review 2022.

Sono troppo vecchio per TikTok?». Rodolfo Hernández, candidato settantasettenne alle elezioni presidenziali colombiane dello scorso giugno, ha preso un tale slancio grazie ai suoi video sui social media da arrivare a un soffio dall’ottenere la carica più importante del Paese. In questi video Hernández scherzava davanti alla telecamera sulla sua età e si metteva in posa con folle di giovani sostenitori, trasmettendo messaggi populisti contro la corruzione e ottenendo milioni di like dagli ammiratori.

Alla fine, Hernández ha perso al ballottaggio con Gustavo Petro, l’ex ribelle che è diventato il primo presidente di sinistra del Paese. Ma è comunque riuscito a ottenere il 47,35 per cento dei voti a fronte del 50,42 per cento del vincitore.

Noto come il Donald Trump della Colombia, l’ex sindaco è stato un candidato anticorruzione che era stato precedentemente incriminato per accuse di corruzione, un sostenitore dell’austerità le cui politiche avevano condotto a uno sciopero della fame i dipendenti dell’amministrazione pubblica della sua città e un magnate delle costruzioni che non aveva mai mantenuto la sua promessa di costruire ventimila abitazioni per i poveri.

La sua campagna elettorale su TikTok è uno degli esempi più impressionanti tra quelli che sono stati discussi in un panel sull’informazione, la disinformazione e il futuro del giornalismo che si è tenuto durante la decima edizione dell’Athens Democracy Forum, che è stato organizzato nel settembre scorso, nella capitale greca, dalla Democracy & Culture Foundation in associazione con il New York Times.

Stephen King, chief executive di Luminate (una fondazione filantropica che si occupa dell’empowerment dei cittadini e del diritto all’informazione), ha utilizzato proprio l’esempio colombiano per mostrare come le piattaforme dei social media si siano trasformate in canali per la propaganda politica durante la campagna elettorale e addirittura in nuove fonti di informazione. Un recente sondaggio in quattro Paesi latinoamericani, ha raccontato King, mostra come le generazioni più giovani cerchino le notizie «in luoghi profondamente diversi» da quelli frequentati dalle generazioni precedenti

«Le notizie, la politica e l’entertainment si stanno mescolando tra loro e questo è un cambiamento guidato dalle aziende che gestiscono i social network», ha detto King. «Queste aziende stanno iniziando a dettare il modo in cui le persone consumano le informazioni».

La confusione tra fatti reali, divertimento e fiction è motivo di crescente preoccupazione nelle redazioni – e non solo. Nello scorso dicembre il presidente americano Joe Biden ha annunciato che l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale avrebbe onato 30 milioni di dollari al neonato Fund for Public Interest Media (Fondo internazionale per i media di interesse pubblico), la cui missione è sostenere il giornalismo indipendente in tutto il mondo. Biden ha definito la stampa libera come il «fondamento della democrazia» e ha detto che essa e «minacciata» in tutto il mondo.

Nell’Athens Democracy Forum di quest’anno la disinformazione e la manipolazione delle notizie sono state identificate come potenziali minacce alla democrazia. Un’altra minaccia – in particolare negli Stati Uniti – è il tentativo di rendere più complicato l’esercizio del diritto di voto.

Nel corso della discussione, la sudafricana Khadija Patel, che è head of programming del nuovo Fund for Public Interest Media, ha ricordato la sua precedente esperienza come direttrice del Mail & Guardian, che è uno dei principali quotidiani del suo Paese e ha una storia di inchieste che hanno portato alla luce vicende di corruzione e altri crimini. Patel ha detto di essersi ritrovata a gestire «un licenziamento dopo l’altro», dal momento che «non c’era più un modello di business capace di sostenere un giornale».

Un altro degli intervenuti al Forum, Donald Martin (che ha lavorato all’Herald, che è uno dei principali giornali scozzesi), si è detto d’accordo sul fatto che l’ultimo decennio sia stato dominato da un ridimensionamento delle redazioni e da una nefasta crescita dei social network. E ha ricordato un’occasione in cui un articolo di prima pagina, che era basato su un solido lavoro giornalistico, è stato attaccato dalla persona che era oggetto di questo articolo. I tweet denigratori di questa persona sono stati così ampiamente retwittati da finire per danneggiare l’immagine del giornale.

«Le fake news non sono una novità. La novità è la dimensione del fenomeno», ha detto Martin. «Sono migliaia di anni che si raccontano bugie, ma non penso che le bugie siano mai state così sofisticate, così verosimili e così facili da diffondere».

Oggi, non appena compare online una falsa informazione «devi smascherarla entro trenta minuti prima che prenda slancio», ha spiegato Martin. Altrimenti si diffonde grazie agli algoritmi e «a un pubblico acritico composto da persone che sembrano felici di rimanere intrappolate nelle proprie camere dell’eco». Per preparare la via verso un futuro migliore le scuole hanno il dovere di «insegnare le trappole e i benefici dei social media» e di «ricostruire la fiducia verso la stampa libera», ha aggiunto Martin.

La giornalista ucraina Anna Romandash, che, a partire dallo scorso febbraio, mese in cui è iniziata l’invasione del suo Paese da parte della Russia, ha documentato i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani, ha detto che Mosca ha raggiunto un nuovo stadio nell’informazione sulla guerra.

Mentre in precedenza c’erano due realtà – da una parte le fake news e dall’altra le notizie verificate da parte degli organi di informazione tradizionali – ora esiste, ad esempio in Russia, anche «un sacco di propaganda promossa dallo Stato, che non punta necessariamente a creare notizie false, quanto piuttosto a gettare discredito sulla verità», ha detto Romandash.

Il risultato è che nella Russia di oggi «non c’è niente che possa essere definito come una realtà oggettiva. Ci sono versioni diverse di storie diverse», ha spiegato. E questo ha reso «molto pericolosi» i social network, perché alcune persone, e soprattutto «quelle che non hanno una solida “alfabetizzazione digitale”», potrebbero non riuscire a distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è».

L’espressione “fake news”, naturalmente, non è mai stata tanto usata come durante la presidenza di Donald Trump, che ha accusato i principali mezzi di informazione mainstream di diffondere disinformazione. Di contro, i mezzi di informazione hanno documentato tutte le occasioni nelle quali il presidente ha comunicato notizie false. Ma, anche ora che Trump non è più in carica, negli Stati Uniti il giornalismo è ancora sottoposto a minaccia. Ed è sotto attacco anche il diritto di voto dei cittadini, come è risultato chiaro da un altro panel del Forum, che si è occupato sullo stato della democrazia americana.

Carol Anderson – professoressa di Studi afroamericani alla Emory University della Georgia e autrice del documentario I, Too, che è stato proiettato durante l’Athens Democracy Forum – ha dato inizio al dibattito chiedendo che si agisca urgentemente per rendere meno complicati i meccanismi di registrazione degli elettori negli Stati Uniti. «Una delle prime cose che dobbiamo riconoscere, nel contesto degli Stati Uniti, è che assistiamo all’aumento di quelle che definiamo come “leggi per la soppressione del diritto di voto”», ha spiegato Anderson. «Queste leggi hanno come obiettivo alcuni determinati segmenti della popolazione E hanno il preciso intento di far sì che i cittadini che fanno parte di questi segmenti debbano superare molti ostacoli per riuscire» a votare.

Questi stessi gruppi di cittadini sono poi criticati perché non votano quando, di fatto, affrontano, e continuano ad affrontare, «degli ostacoli che apparentemente non hanno alcuna relazione con la razza, ma che in realtà sono costruiti proprio su base razziale. Quello che dobbiamo fare è smantellare questi ostacoli al diritto di voto».

In un’intervista successiva al suo intervento, Anderson ha elencato alcuni di questi ostacoli. In Texas per poter votare si richiede un documento di identità con fotografia rilasciato dal governo: ma se un tesserino universitario non è ritenuto valido, si può invece votare con il porto d’armi.

L’Alabama richiede un documento di identità rilasciato dal governo e quindi un tesserino di residente nelle case popolari non è sufficiente. Ma il 71 per cento dei residenti nelle case popolari in Alabama è composto da afroamericani. E molti di loro non hanno altri documenti di riconoscimento provvisti di foto al di là del tesserino di residente nelle case popolari.

Lisa Witter – un’altra delle partecipanti al panel, che è cofondatrice di Apolitical, un’impresa for-profit che si occupa di aiutare i governi e gli amministratori a fornire servizi migliori e a ottenere migliori risultati – ha spiegato che anche i nativi americani incontrano ostacoli analoghi. Ad esempio, ha spiegato Witter, per votare serve avere un indirizzo postale e i nativi americani che vivono nelle riserve non ce l’hanno.

Secondo Witter, negli Stati Uniti ci sono, in totale, 560.000 cariche elettive. Se i nativi americani fossero equamente rappresentati, in base alla loro percentuale sulla popolazione complessiva dovrebbero ricoprire circa 17.000 cariche in tutto il Paese. E invece i nativi americani che ricoprono cariche elettive negli Stati Uniti sono in tutto duecento. «Tutto ciò sembra sbagliato, ma è anche un’opportunità », ha detto Witter, che ha sottolineato come attualmente ci sia negli Stati Uniti «una tendenza all’imprenditoria politica», nel cui ambito degli imprenditori con mezzi consistenti stanno difendendo in ogni modo possibile la democrazia.

Anche un’altra dei partecipanti al panel, Dawn Nakagawa (che è executive vice president del Berggruen Institute, la cui missione è aiutare a dare forma a istituzioni democratiche per il xxi secolo), è apparsa altrettanto ottimista. Nakagawa si è detta «molto preoccupata e molto pessimista», a breve termine, sullo stato della democrazia americana, ma ha spiegato che gli americani stanno «reinventando che cosa debba essere una democrazia fatta dalle e per le persone, e stanno ricostruendo istituzioni che saranno qualcosa di molto diverso da semplici organi elettivi».

«È una discussione davvero coraggiosa, che cinque anni fa proprio non esisteva», ha detto Nakagawa. «Credo che, sul lungo termine, avremo una straordinaria democrazia reinventata, e credo che tutto ciò avverrà negli Stati Uniti, visto il punto di crisi al quale siamo arrivati». E, se la democrazia sarà reinventata negli Stati Uniti, essa «si diffonderà più rapidamente ».

Anche Anderson, la docente della Emory University, ha individuato ragioni per essere speranzosi, perché, in quanto storica, osserva il presente in una prospettiva di lungo periodo. «Ogni volta che la democrazia è stata sfidata da qualcuno che voleva opprimerla, la democrazia ha poi vinto», ha detto. «La richiesta, la sete di democrazia è così reale ed è così intensa che le persone saranno disponibili a combattere per difenderla».

Linkiesta Magazine + New York Times World Review 2022

Make America wise again. La post-verità ti fa male lo so (se poi ti multo). Stefano Pistolini su L’Inkiesta il 30 Dicembre 2022

Svalvolati e falsari parlino pure a ruota libera (la libertà di espressione è sacra), ma se i tribunali americani cominciano a condannarli per diffamazione, com’è successo ad Alex Jones, chissà che non torni in auge la prudenza

Il 2023 è l’anno in cui Donald Trump promette di tornare a far suonare le sue campane. O perlomeno sarà l’anno in cui i suoi epigoni si ricorderanno di come il Grande Maestro conquistò la fiducia degli americani: in linea di massima, raccontando balle. Ventimila e più balle certificate dal Washington Post Fact Center nei quattro anni di mandato presidenziale. Un martellamento di falsità che, oltre a confondere in modo devastante la psiche dei connazionali, ha provocato la legittimazione di un principio assurdo nella sua assolutezza: il falso può valere quanto il vero.

C’è stato un tempo in cui i grandi network e le principali testate giornalistiche erano gli arbitri della verità, che apparentemente amministravano con equilibrio e giustizia. Il pubblico si fidava di loro. Quando Walter Cronkite apparve piangendo in tv per dire agli americani che John F. Kennedy era stato ucciso a Dallas, il pubblico non si chiese che cosa fosse davvero successo. Più di sessant’anni dopo la netta maggioranza degli americani è convinta che quel giorno l’assassinio di JFK fu il prodotto di un complotto ancora misterioso.

I primi gap in questa percezione delle notizie intese come dubitabili verità arrivano con l’avvento delle televisioni all news, sovente politicamente orientate. Per coprire le giornate di programmazione, queste emittenti hanno cominciato ad aggiungere alle notizie un pericoloso fattore innovativo: i commenti e le interpretazioni, non sempre esposti a un valido contraddittorio. Poi è arrivato internet. Nel cyberspazio la contesa è diventata la ricerca d’attenzione e di rilevanza. E nella rete qualunque cosa il pubblico volesse credere, era disponibile e consumabile. Qui nasce l’America della post-verità.

Poco più tardi i social media hanno polarizzato lo scenario, intrappolando gli utenti in bolle di disinformazione all’interno delle quali è naturale smarrire il contatto con la verità e produrre piuttosto nuove forme d’isterismo: il disprezzo per realtà evidenti come forma di protesta e di non-adesione al dettato della ragione, sempre rifacendosi al principio ordinatore del progetto americano, secondo il quale ciascuno può pensare ciò che vuole, con gli stessi diritti degli altri, anche nel caso che siano una schiacciante maggioranza. Anzi. Se adesso, ad esempio, la maggior parte dei media sostiene il deciso consenso della scienza verso i benefici dei vaccini, gli stessi media baderanno a bilanciare la questione dando spazio all’attivismo no-vax, per evitare accuse di pregiudizio e producendo la di Stefano Pistolini ← Curva Sud Sostenitori dell’ex presidente americano Donald Trump a un comizio del suo tour Save America a Prescott, nello Stato meridionale dell’Arizona, il 22 luglio scorso. Svalvolati e falsari parlino pure a ruota libera (la libertà di espressione è sacra). Ma se i tribunali americani cominciano a condannarli per diffamazione, com’è successo ad Alex Jones, chissà che non torni in auge la prudenza IL 9 0 IDE E Il debunking era sembrato essere la soluzione. Ma mai una guerra è stata perduta in modo così rovinoso: le fake news volano come un’epidemia, mentre quelli che le verificano arrancano falsa impressione che esista un dibattito dove in effetti non c’è. L’informazione in sostanza favorisce la disinformazione.

Grazie al boom dei social, ognuno oggi dispone della sua verità e può tranquillamente vivere al suo interno. Se l’idea che un uomo politico sia bugiardo è un cliché risaputo, è perlomeno bizzarro il numero di persone che, a dispetto di un’infinità di prove contrarie, credono che Trump non menta. Ma l’ex presidente è solo il sintomo di un problema più vasto, ovvero il successo di media partigiani che mandano in orbita notizie dubbie o del tutto false, a cui si aggiungono emanazioni governative che diffondono propaganda sotto forma di fake news e social media che amplificano tutta una gamma di teorie del complotto, seminando disordine sociale.

La vita civile, a cominciare da quella della società americana, soffre enormemente queste forze maligne per le quali la sopraffazione conta più della comprensione, instaurando una relazione sempre più tenue col concetto di realtà.

Del resto, l’America rispetta la molteplicità di opinione al di sopra di ogni altra cosa e la tradizione dell’individualismo liberale si radica nella convinzione che tutti i punti vista siano rispettabili. Quindi non deve sorprendere che oggi così tanti americani si sentano in diritto di elaborare la propria verità. Dal momento che competenza e autorità sono viste con scetticismo, è legittimo credere che i socialisti esistano soltanto per fare a pezzi l’american way of life. O che il governo sia segretamente intenzionato a sequestrare tutte le armi nelle mani dei cittadini. O che i gay cancelleranno la sacra istituzione del matrimonio. O che quelli di Black Lives Matter incendieranno il tuo quartiere.

Quando Sean Hannity spara fake a raffica – il furto elettorale! – minaccia la capacità di analisi e il pensiero critico di chi guarda. E prende in giro tutti. Finché si scatena l’inferno: il 6 gennaio 2021, ad esempio, davanti al Campidoglio. Questa è la sorgente della post-verità. Il fondamentalismo che prevale sulla riflessione.

A metà anni Dieci pareva trovata la soluzione: il debunking, la sistematica attività di verifica condotta da specialisti e destinata a smentire qualsiasi notizia o teoria falsa. Beato ottimismo! Mai una guerra è stata perduta in modo altrettanto rovinoso. Il debunking arranca dietro a complotti che volano come epidemie, le smentite restano indietro, affannate, inascoltate, reperto di un passato fatto di logica. Quando una balla spaziale fa presa sul pubblico, il gusto di affondarci le mani e di diventarne diffusori è più potente del bisogno di smontarla. Per cambiare le cose e guarire dalla malattia, vanno cercate altre strade. È qui che entrano in gioco Alex Jones e la vicenda della sua apparente rovina. Che ruota attorno a un antico interrogativo: bisogna porgere l’altra guancia?

Ci sono inconfutabili prove che uno squilibrato abbia ucciso venti bambini e sei adulti alla scuola elementare Sandy Hook di Newtown, Connecticut, il 14 dicembre 2012. Sono fatti inoppugnabili. Eppure ricevuti, a vari livelli, con scetticismo, da ampie fasce del pubblico americano. Il principale teorico della cospirazione riguardo alla tragedia di Sandy Hook si chiama Alex Jones, 48 anni, ultraconservatore trumpiano di Austin, Texas, già noto per altre teorie del complotto, strombazzate nei suoi popolarissimi radioshow e, dal 1999, sul suo sito web InfoWars, centrale online delle notizie false il cui slogan recita “È in atto una guerra per la tua mente!” – ma all’interno del quale poi vengono spudoratamente venduti anche integratori alimentari e kit di sopravvivenza.

Nel 2018, YouTube, Facebook, Spotify e Twitter hanno bandito Jones dalle loro piattaforme, per violazione delle regole e diffusione di contenuti offensivi e lesivi. Resta il fatto che quel maledetto giorno di dieci anni fa il giovane Adam Lanza massacrò 26 persone, anche se subito dopo Jones cominciò a gridare al complotto, secondo lui ideato dal movimento contro la circolazione delle armi (Barack Obama in testa), arrivando a definire “attori” i genitori delle vittime e sostenendo che la sparatoria fosse fasulla come una banconota da tre dollari: «Pensano che siamo così stupidi», urlava nel microfono.

Adesso i tribunali del Texas e del Connecticut hanno giudicato Jones responsabile di gravi diffamazioni. Durante i processi, i familiari delle vittime hanno raccontato le minacce di morte, le molestie e i commenti offensivi sui social di cui sono stati fatti oggetto a causa della campagna lanciata da Jones e da InfoWars. Jones è stato condannato a pagare circa un miliardo di dollari di risarcimento per aver affermato che quel massacro fosse una bufala e in aula ha riconosciuto che la sparatoria era «reale al 100 per cento», esprimendo rammarico per le proprie dichiarazioni. Intanto, però, al pubblico dei suoi programmi continuava a ripetere: «Davvero io non so cosa sia successo là». E riguardo alla condanna: «Ho già detto che mi dispiace centinaia di volte, e adesso ho finito di dire che mi dispiace».

Già nel 2017 Jones aveva fatto ammenda, dopo aver promosso il fake “Pizzagate” secondo cui un ristorante di Washington era la centrale di un giro di abusi sessuali su minori gestito da Hillary Clinton e dal presidente della sua campagna elettorale, John Podesta. Poi nel 2018 era stato denunciato per aver sostenuto che l’investimento automobilistico che uccise la manifestante antirazzista Heather Heyer al raduno di Charlottesville fosse stato organizzato dalla Cia per indebolire Trump. Nell’occasione il presidente si era mobilitato: «Sei un uomo incredibile. Non ti deluderò».

Adesso questo parassita delle menti americane incassa un colpo che lo spedisce al tappeto. Ma all’inizio dell’anno la società madre di InfoWars – la Free Speech Systems – ha dichiarato bancarotta in vista della sentenza su Sandy Hook, nel tentativo di prolungare il contenzioso civile. E Jones va dicendo di essere povero in canna e di non avere di che risarcire per i danni provocati. Il punto davvero interessante riguarda però la chiamata a rispondere in solido delle affermazioni fatte pubblicamente, offensive e pericolose come quelle pronunciate da Jones. In giro ci sono migliaia di troll di maggiore o minor peso, che ora rifletteranno un po’ di più prima di lanciare l’ennesima crociata diffamatoria o prima di sparare la nuova teoria del complotto.

Trump-il-bugiardo non pagava prezzi, nemmeno politici, per le sue falsità e coagulava persone pronte a credergli. Ora Alex Jones continuerà a godere di ampia protezione della sua libertà di parola ai sensi della Costituzione, perché questa è l’America. E potrà sempre parlare di ciò che vuole. Ma lui e quelli come lui potrebbero imparare che, anche in regime di post-verità, le parole continuano ad avere peso. Economico, se non altro. Che l’immunità non è garantita. Che le sentenze caleranno come ghigliottine sui loro business. Che essere individuati come untori delle falsità, può costare carissimo. C’è da scommettere che, se la cosa prende piede, si assisterà a un inconsueto ritorno in scena di un atteggiamento dimenticato: la prudenza.

Creatività e fake news.

Ultima pagina. Il problema di affidabilità del giornalismo italiano. Francesco Petronella su L'Inkiesta il 3 Novembre 2023

Come spiega Francesco Petronella in “Atlante delle bugie” (Paesi edizioni), tutti i giornali possono commettere degli errori, ma bisogna distinguere tra le fonti attendibili che talvolta commettono qualche svista, i media chiaramente parziali e quelli di propaganda

Il Reuters Institute for the Study of Journalism elabora a cadenza regolare un rapporto in cui analizza l’affidabilità e la diffusione dei media online, denominato Digital News Report. Tra i parametri misurati c’è la fiducia del pubblico, misurata tramite interviste a campione e altri metodi statistici, verso questo o quel canale informativo. Per quello che concerne il contesto italiano, il quotidiano più apprezzato a livello di brand è Il Sole 24 Ore, Ansa come agenzia stampa e SkyTg24 come emittente televisiva. 

Sebbene le percentuali premino questo o quell’organo di stampa, però, gli stessi ricercatori del Reuters Institute sottolineano che in linea generale la fiducia per i media in Italia è particolarmente bassa. «Questa tendenza di lunga data – spiegano – è dovuta principalmente alla natura faziosa del giornalismo italiano e alla forte influenza degli interessi politici e commerciali sulle organizzazioni giornalistiche. I marchi che godono di maggiore fiducia sono generalmente quelli noti per i livelli più bassi di partigianeria politica». In altri termini, la certezza di affidabilità non è mai possibile al cento per cento.

Si può affermare che la categoria fake news rischia di diventare eccessivamente ampia, arrivando a comprendere notizie «semplicemente» distorte, imprecise, deboli. Può accadere, ad esempio, che un organo di stampa prestigioso e accreditato dia una notizia utilizzando una fonte coperta ritenuta solitamente attendibile, una di quelle «gole profonde» che danno informazioni in forma anonima, ma che la news in questione risulti imprecisa o debole. 

Può succedere, in altre circostanze, che un organo di stampa pubblichi semplicemente un comunicato rilasciato da un’istituzione, un partito, una realtà qualsiasi. Se il testo contiene qualche stortura, la colpa è del media che ha passato il comunicato, o di chi ha fatto circolare quel comunicato?

Insomma, gli errori capitano. Chi scrive è convinto che avesse ragione Carmelo Bene quando, in una storica puntata del Maurizio Costanzo Show, parafrasò il filosofo francese Jacques Derrida dicendo che «il giornalismo non informa sui fatti o dei fatti, ma informa i fatti». 

La notizia, in questo senso, non è solo frutto di una scelta, di una prospettiva di interpretazione, ma anche di una vera e propria creazione in cui l’intenzione di chi scrive, il fatto scritto e la visione di chi legge non combaciano quasi mai. E nel processo creativo, questo è evidente, gli inghippi inevitabilmente capitano. Ciononostante, in linea con il proposito di questo libro, non è del tutto impossibile distinguere le fonti affidabili – che talvolta commettono qualche svista – dalle fonti chiaramente parziali e da quelle di propaganda vera e propria. 

Il tutto, specie per quello che riguarda l’informazione sugli Esteri, si basa sul binomio media-argomento: se l’organo di stampa in questione è legato ad attori che godono di determinati interessi in un dossier, le informazioni che propone andranno vagliate con una certa attenzione. Questo vale soprattutto per i media di parte, perché quelli di propaganda osservano un’adesione totale all’agenda politica da cui nascono.

Da “Atlante delle bugie – Come gestire le fonti estere e distinguere una notizia vera da una fake news” di Francesco Petronella, Paesi Edizioni, 144 pagine, 13 euro

Brutte notizie: le fake news si diffondono più velocemente delle informazioni vere. Alla domanda di novità qualcuno risponde creando notizie false. Riccardo Puglisi su Il Riformista il 2 Agosto 2023

 Quanto ci dobbiamo preoccupare delle fake news? Se le persone con una qualche probabilità non sanno distinguere una notizia vera da una notizia falsa, allora è molto importante verificare la capacità delle une e delle altre di diffondersi sui social network. Un articolo di Vosoughi e coautori pubblicato sulla piuttosto prestigiosa rivista Science nel 2018 potrebbe spingerci ad aumentare il nostro grado di preoccupazione. Gli autori si focalizzano su ben 126.000 notizie che sono state menzionate da circa 3 milioni di utenti 4,5 milioni volte, nel periodo che va dal 2006 al 2017. Sfruttando il responso dato da sei siti specializzati nell’attività di fact checking gli autori sono in grado di distinguere le notizie vere da quelle false. E come misurare la diffusione? Una notizia si diffonde con una profondità di “2” se il tweet iniziale viene ritwittato da un altro utente, il cui retweet viene a sua volta ritwittato da un altro utente, e così via.

Non solo: si può anche misurare in maniera semplice l’ampiezza della “cascata informativa”, intesa come il numero totale di utenti coinvolti nella stessa. In questo caso bisogna andare a contare tutti gli utenti coinvolti nei vari rami della cascata, perché il singolo tweet iniziale può essere ritwittato da più di un utente (come è naturale per tweet di successo) e per ognuno di questi retweet bisogna andare a vedere cosa succede con i retweet successivi. Sia la profondità che l’ampiezza tendono a crescere nel tempo, ed è dunque interessante studiarne la dinamica, ad esempio quanto in fretta si arriva al massimo di profondità e ampiezza. E

potrebbero succedere cose molto diverse: una diceria con cascata ampia raggiunta in fretta (un best seller) oppure una diceria con una cascata molto più ampia che impiega più tempo per dispiegarsi (un “grande classico” lento in partenza).

Un terzo concetto è quello della viralità: un contenuto si diffonde in maniera virale se avviene una specie di contagio da un utente all’altro, in modo capillare. Il singolo utente che è venuto in contatto con una certa notizia induce altri suoi contatti a condividere questo contenuto, e via viralizzando. Il modello contrario è quello dei mass media tradizionali (il “broadcasting”), cioè tutti gli utenti coinvolti nella diffusione prendono la notizia dalla fonte iniziale senza passaggi ulteriori: come gli spettatori di un TG che si sintonizzano contemporaneamente e scoprono l’ultima notizia-bomba.

Ed ecco le cattive notizie: le fake news si diffondono più velocemente, più profondamente e in maniera più virale delle notizie vere. Ad esempio, una percentuale molto più ampia di cascate che partono da notizie false si diffonde con una profondità maggiore di 10, rispetto alla percentuale di notizie vere che raggiungono la stessa profondità. E come spiegare questa differenza di comportamento? Qui siamo ai limiti del post-moderno: gli autori mostrano come le notizie fake sono sistematicamente giudicate come “più nuove” dagli utenti rispetto alle notizie vere, e destano con maggiore probabilità un senso di sorpresa. Alla domanda di novità qualcuno risponde creando fake news…Riccardo Puglisi

Estratto dell’articolo di Michele Di Branco per “il Messaggero” giovedì 27 luglio 2023.

Un Paese che non rinuncia ad informarsi, che legge, ascolta e che cerca di farsi un'opinione. Ma piuttosto confuso sulla veridicità di quanto gli viene raccontato dai canali di informazione. Tanto che tre italiani su quattro confessano di non avere gli strumenti necessari per distinguere una notizia vera da una fake news. 

Per non parlare di quel vasto esercito di scettici (quasi un cittadino su tre) che non crede affatto al "mainstream" e che ritiene sia in azione chissà quale complotto ordito per nascondere verità scomode spacciando le notizie vere per fake news. 

[…] una indagine Ital Communications-Censis: "Disinformazione e fake news in Italia. Il sistema dell'informazione alla prova dell'Intelligenza Artificiale", presentato al Senato.

Lo studio afferma che la maggior parte degli italiani si informa regolarmente, ma aumentano paure e timori di non essere in grado di riconoscere le falsificazioni. Addirittura il 76,5% ritiene che le notizie false siano sempre più sofisticate e difficili da scoprire, il 20,2% crede di non avere le competenze per riconoscerle e il 61,1% di averle solo in parte. 

Ma, appunto, c'è anche un 29,7% che nega l'esistenza delle bufale e pensa non si debba parlare di fake news, ma di notizie vere che vengono deliberatamente censurate dai palinsesti che poi le fanno passare come false.

«Chi fa informazione si scontra con le fake news e il buco nero della cultura orale, quell'insieme consolidato e irrazionale di convinzioni ed elementi senza basi che le persone si passano tra loro e, contro queste, non si possono che rafforzare i presidi autorevoli dell'informazione», spiega Giuseppe De Rita, presidente del Censis. 

«Tra i negazionisti delle fake news - aggiunge Anna Italia, ricercatrice del Censis - ci sono in particolare i più anziani e, chi ha un basso livello di scolarizzazione […]». 

D'altronde gli italiani che si mantengono informati sono la stragrande maggioranza: circa 47 milioni di italiani, il 93,3% del totale, si informa abitualmente (con una frequenza come minimo settimanale) almeno su una delle fonti disponibili: l'83,5% usa anche il web e il 74,1% i media tradizionali. Il 64,3% utilizza un mix di fonti informative, tradizionali e online, il 9,9% si affida solo ai media tradizionali e il 19,2% (circa 10 milioni di italiani in valore assoluto) alle fonti online.

Social media, blog, forum, messaggistica istantanea sono espansioni del nostro io e del modo di vedere il mondo: è il fenomeno delle echo chambers, cui sono esposti tutti quelli che frequentano il web e soprattutto i più giovani, tra i quali il 69,1% utilizza la messaggistica istantanea e il 76,6% i social media per informarsi.

Il 56,7% degli italiani è convinto che sia legittimo rivolgersi alle fonti informali di cui ci si fida di più. Sul versante opposto, sono circa 3 milioni e 300mila (il 6,7% del totale) gli individui che hanno rinunciato ad avere un'informazione puntuale su ciò che accade, mentre 700 mila italiani non si informano affatto. […]

"Ugo Tognazzi è il capo delle Br": storia di una presa in giro nazionale. Il giornale satirico, "Il Male", titola a tutta pagina "Ugo Tognazzi è il capo delle Br". Uno scherzo su scala nazionale, una trappola ben riuscita. Tommaso Giacomelli il 16 Aprile 2023 su Il Giornale

Tabella dei contenuti

 La notizia scuote l'Italia per ore

 L'opera del Male

 Tognazzi "il brigatista"

È l'aprile del 1979. In Italia tira brutta aria già da tempo, il terrorismo ha fatto sprofondare lo Stivale in un perenne stato di allerta. Sono gli anni di piombo, di attentati violenti, di rappresaglie con scie di sangue che macchiano la stabilità dell'intera nazione. Pochi mesi prima un gruppo di intellettuali, legati all’Autonomia operaia, viene imprigionato con l’accusa di essere i capi delle Brigate Rosse, la massima organizzazione terroristica italiana di estrema sinistra. Il tema è caldo, discusso. Un groviglio di capi di imputazione porta in prigione Toni Negri e i suoi uomini. All'improvviso, una nuova scossa scuote il Paese. In un'anonima mattina primaverile compaiono tra i tavolini dei bar, sulle panchine dei treni, sui sedili dei tram, delle inquietanti copie di quotidiani nazionali che in prima pagina titolano: "Ugo Tognazzi è il capo delle Br"; "Arrestato Ugo Tognazzi". A corredo ci sono delle nitide foto, in cui il celebre attore e regista viene scortato in manette dai Carabinieri.

La notizia scuote l'Italia per ore

Le testate che si fregiano di questo scoop sono di grido: "Paese Sera", "La Stampa" e "Il Giorno". A riportare la sconvolgente scoperta ci sono anche quotidiani regionali, come il "Giornale di Sicilia". Nell'Italia devastata dalla paura e dalla violenza dei gruppi sovversivi si diffonde, rapida, la notizia che Ugo Tognazzi per anni abbia tessuto i fili del terrorismo rosso. Com'è possibile che quella figura così amichevole, gioviale e divertente, entrata nelle case degli italiani con stima e affetto, sia in realtà una mente criminale?

L'opera del Male

E, infatti, la notizia non è vera. Il Paese per qualche ora finisce sotto scacco di un settimanale satirico: "Il Male". Il giornale più sequestrato del periodo riesce ad architettare una burla mediatica dirompente e tracimante, in grado di mettere in crisi le certezze degli italiani. Spinti dal desiderio di instillare il dubbio sull'assoluta autorevolezza della stampa nazionale, quelli de "Il Male" inscenano un finto arresto con la complicità dello stesso Tognazzi, lettore e ammiratore della rivista. L'inventore della "Supercazzola" è stimolato dall'idea di finire in prima pagina, prendendo in giro tutti quanti. Dunque, con la grande professionalità che lo ha sempre contraddistinto, si fa ritrarre con sguardo torvo e bocca obliqua, mentre incredulo si fa ammanettare dall'Arma dentro alla sua villa di Velletri.

Tognazzi "il brigatista"

Quelle copie false furono un trabocchetto astuto, in grado di far cadere nella rete anche gente scafata e del mestiere. Pare che alcuni direttori dei giornali che riportavano la notizia a caratteri cubitali, si infuriarono per non essere stati avvertiti di ciò che era stato posto sulla (finta) prima pagina del loro quotidiano. Il Male raggiunse il suo scopo, grazie a quello scoop riuscì a fare numeri da capogiro, ma lo pagò a caro prezzo. Il direttore responsabile venne denunciato e il numero sequestrato. Lo stesso Ugo Tognazzi ebbe delle ritorsioni, tanto che la Rai lo ostracizzò per anni dai suoi schermi. In ogni caso, quella beffa clamorosa in anni di sangue riuscì a strappare un sorriso.

Dall’arte ai media ecco le immagini che nascono dal nulla. Programmi accessibili consentono di generare video rappresentando realtà inesistenti. Bastano poche istruzioni e il computer genera volti e situazioni. Una frontiera non esente da rischi di manipolazione. Alessandro Longo su L’Espresso il 12 Dicembre 2022.

Si entra in una stanza ed è come entrare in un sogno. Un pavimento di specchi le dà i tratti di un limbo, un “non luogo” avvolgente. Si sente la voce di un bambino che parla con la madre e immagini si materializzano sulle pareti. Un’automobile, un lampo di luci, poi pezzi di lamiere che volano. Insieme a loro, una fanciulla. Tutto alla fine rimane immobile, fino a cancellarsi. Appare così un’installazione (Distrust Everything) esposta in molti musei nel mondo (tra cui la Biennale di Venezia, Ars Electronica di Linz e la Triennale di Milano).

«Dialoghi, immagini e sceneggiatura sono state create con l’intelligenza artificiale», come spiega l’autore Francesco D’Abbraccio. Lui la chiama «arte generativa» e ne riconosce il valore di supporto al gesto artistico, creativo.

L’intelligenza artificiale che crea immagini, persino video in base alle indicazioni date dai suoi utilizzatori è un fenomeno esploso quest’anno. Perché questi strumenti solo ora sono usciti dai laboratori di ricerca per entrare nelle nostre case e uffici. Adesso chiunque può usarli, anche gratis, per creare immagini originali su piattaforme come Dall-E 2 di OpenAi (Microsoft il principale investitore), MidJourney, StableDiffusion. Meta (l’azienda che possiede Facebook, Instagram, Whatsapp) da poco ha mostrato il primo sistema per creare anche video con intelligenza artificiale.

La tecnologia è simile a quella che già da qualche anno è usata per il supporto alla creazione di testi o musica, con algoritmi; ma per le caratteristiche dei contenuti visivi generati può avere effetti ancora più dirompenti. Sul modo in cui si fa arte, certo; ma anche sul mercato del design, della pubblicità e sul sistema dell’informazione.

Con un impatto sul mercato del lavoro, per prima cosa, perché «sembra inevitabile che l’automazione, con strumenti sempre più semplici da usare, sostituirà il lavoro di basso livello, industriale e commerciale, di quelli che ora sono musicisti, artisti visivi e pubblicitari», dice Luciano Floridi, filosofo tra più autorevoli nel settore digitale (insegna all’università di Oxford e come ordinario a Bologna).

Molti esperti evidenziano inoltre il rischio di una disinformazione di massa se chiunque può creare immagini realistiche con contenuti di fantasia, mostrando ad esempio attacchi terroristici mai avvenuti. Un problema trattato soprattutto dai ricercatori del Mit di Boston e, da noi, indagato da sociologi come Davide Bennato (università di Catania), Mario Morcellini (Sapienza di Roma, ex consigliere dell’Autorità garante delle comunicazioni dove ha affrontato il problema delle fake news) e Nicola Strizzolo (università di Teramo).

A rischio, notano, è la fiducia in una narrazione comune, base di qualunque progetto sociale, se diventa così facile creare immagini false, poi diffuse su media e da politici per affermare tesi e lanciare allarmi. Si arriva a smettere di credere a qualsiasi evidenza, insomma; come già adesso molti elettori americani credono che il voto presidenziale del 2020 sia stato rubato.

Ed è davvero facile creare immagini originali in questo modo, da quando – a settembre 2022 – OpenAi ha reso il sistema aperto a tutti, con 15 utilizzi gratuiti ogni mese (si paga per quantità maggiori e usi più sofisticati).

Basta scrivere in inglese una frase descrittiva a piacere e il sistema la “traduce” in alcune immagini generate in automatico (e, volendo, si può anche usare un altro sistema di intelligenza artificiale, come Deepl.com, per avere una traduzione automatica dall’italiano). Abbiamo provato con «un politico italiano che grida sulla minaccia di una invasione di immigrati dall’Africa tramite navi di Ong». Ci sono apparsi uomini e donne in giacca, con il megafono; visi a volte italiani a volte – curiosa coincidenza – con tratti nord-africani. Quasi sempre un mare sullo sfondo e abbozzi di navi.

Attenzione: si potrebbe pensare che sono immagini create mescolando foto trovate su Internet. No: il sistema genera davvero immagini inedite. I volti non appartengono a nessuna persona reale. Come ha fatto l’intelligenza artificiale a capire che aspetto avrebbero un politico italiano e una nave? I programmatori hanno addestrato il sistema con centinaia di milioni di foto dotate di didascalie scritte a mano da un esercito di lavoratori (spesso in Paesi poveri, per meno di due dollari l’ora). L’intelligenza artificiale le decostruisce con un processo matematico e così poi aggrega un ammasso di pixel che, sulla base di quanto ha appreso, ha una probabilità abbastanza alta di assomigliare a ciò che l’utente le ha richiesto.

Gli artisti, com’è capitato spesso nella storia, si sono seduti in prima fila a sperimentare le potenzialità dei nuovi sistemi, «un po’ com’è capitato con l’arrivo della pittura a olio. Una trasformazione tecnologica che ha impattato su stili e gusto artistico», dice Floridi. Per fare Distrust Everything, l’intelligenza artificiale è stata addestrata dagli autori con vent’anni di descrizioni testuali dei sogni di Jack Hardiker, collaboratore di D’Abbraccio. Ha perso la madre da bambino, in un incidente d’auto. Altri sistemi artificiali sono serviti per realizzare le sceneggiature e i dialoghi, in base alle indicazioni dell’artista, che comunque ha compiuto selezioni di quanto prodotto e scelte di regia.

«I sistemi generativi fanno emergere elementi inaspettati e causano meraviglia nello stesso artista, costringendolo a un cambiamento del proprio punto di vista», dice D’Abbraccio. «Qualunque tecnologia si inserisce in modo forte nella costruzione di ogni opera; il medium entra nel messaggio», aggiunge.

D’Abbraccio è uno dei maggiori esponenti di questa nuova tendenza artistica, secondo Giulio Lughi, professore di Teorie e tecniche dei nuovi media all’università di Torino, il quale cita anche “Emissaries”, di Ian Cheng, esposto tra l’altro al MoMa di New York. «Un video dove elementi di flora e fauna generati graficamente al computer interagiscono tra loro, si modificano e ricombinano in un flusso narrativo senza fine, guidati da sistemi logici complessi e modelli multipli interconnessi di intelligenza artificiale». Oppure «il progetto Kórsafn della cantante Björk, in collaborazione con Microsoft: un algoritmo registra tutte le variazioni nel cielo di New York associando in tempo reale alle variazioni atmosferiche il mix degli arrangiamenti corali di Björk. Genera così una ininterrotta e sempre diversa colonna sonora del panorama atmosferico newyorkese».

Ma, a un livello più commerciale, l’intelligenza artificiale è sempre più usata anche da designer e da agenzie pubblicitarie, adesso perlopiù per avere idee e spunti creativi; ma, per lavori di più basso livello, c’è già qualche imprenditore che preferisce risparmiare rivolgendosi a Dall-E 2 invece di assumere un grafico, come nota un’indagine recente del New York Times. Qualche settimana fa ha espresso preoccupazione anche un noto illustratore fantasy come Rj Palmer, quando ha visto le immagini generate, in questo modo, proprio per riprodurre il suo stile.

Sì, i risultati sono ancora piuttosto imprecisi, soprattutto con questi sistemi pre-addestrati e pronti all’uso, disponibili a tutti. I volti e le mani hanno spesso deformazioni che ne denunciano la falsità. Allo stesso modo, anche a occhio nudo risultava falso il video con Zelensky che chiedeva di deporre le armi. Generato probabilmente dai russi, con intelligenza artificiale, qualche mese fa e circolato sui social a scopo di disinformazione. Sembra inevitabile però che «la tecnologia continuerà a migliorare, ponendo sfide importanti alla società contemporanea», dice Bennato. OpenAi ora ha filtri contro la possibilità di creare immagini dannose, ma altri sistemi (come StableDiffusion) sono configurabili senza limiti. Tra l’altro, dovrà riposizionarsi il mestiere del creativo (visivo, musicale, testuale, qui compresi i giornalisti). «Le conseguenze vanno da un’esplosione creativa collettiva, favorita da questi strumenti, al rischio di un certo appiattimento culturale. Ma al momento ancora troppo presto per dirlo».

Dalle inchieste ai podcast: i “giornalisti robot” e i rischi dietro all’Intelligenza artificiale. Martina Piumatti il 16 Agosto 2023 su Inside Over. 

Alba di un futuro distopico in cui i robot rimpiazzeranno i giornalisti o svolta epocale contro la fine, da anni data per certa, del giornalismo? Nessuno dei due. L’intelligenza artificiale non è una novità e no, non sarà la panacea di tutti i mali del mondo dell’informazione. “È, sì, un significativo cambio di passo nella tecnologia, – sottolinea Charlie Beckett, professore di Media e Comunicazione della LSE, fondatore di JournalismAI, un portale nato per formare i media all’uso responsabile dell’intelligenza artificiale – ma non è certo un miracolo”. 

Un po’ come la digitalizzazione forzata prima e i social network dopo, anche l’IA è qui per restare nelle nostre vite lavorative, e non solo. Quindi, tanto vale imparare a usarla. Le applicazioni sono parecchie, molte delle quali già in uso da anni. Sia nella vecchia versione, che nella nuova veste “generativa” su modello di DALL-E2 e del noto ChatGPT, il “trasformatore generativo pre-addestrato” capace di estrarre, elaborare e produrre informazioni. 

Gli esperimenti dei big media

Vera pioniera dell’IA applicata ai media, l’Associated Press, partita nel 2014 automatizzando gli articoli sugli utili societari, oggi si affida all’algoritmo per raccolta, produzione e distribuzione delle notizie. Era il 2016, durante le Olimpiadi di Rio, quando The Washington Post ha testato per la prima volta Heliograf, il bot-reporter che si “smazza”, automaticamente, la cronaca spicciola, come risultati sportivi o elettorali, lasciando i giornalisti “veri” liberi di dedicarsi all’approfondimento. Nel 2021, in piena era podcast, ha introdotto Amazon Polly, che trasforma il testo in parlato realistico.

News Tracer di Reuters consente di individuare, tracciare e verificare le notizie che girano sui social media. Mentre James, in dotazione a Times e Sunday Times, si comporta come un “maggiordomo digitale” che propone agli abbonati, via newsletter e con la frequenza più adatta, contenuti selezionati in base alle abitudini di lettura. Poi, c’è Project Feels del New York Times che genera in automatico riassunti di articoli per prevederne l’impatto emotivo e costruire strategie di annunci calibrate su target e contesto.

Oltre ai prodotti pensati per facilitare il lavoro dei big dell’informazione, iniziano a circolare tools sviluppati da varie startup accessibili anche a redazioni più piccole. Come Azimov, il “super smart editor” creato da Asc27, che monitora il web per capire in anticipo le tendenze e generare testi, “bruciando” Google Trend di 6-12 ore. O come GoCharlie.ia, “il primo e unico motore di intelligenza artificiale multimodale al mondo”, che trasforma i formati dei contenuti, convertendo video in immagini o articoli.

In Italia, nonostante il ritardo fisiologico, qualcosa si muove nell’inevitabile convivenza tra esseri umani e algoritmi. Anche nelle redazioni. L’Ansa nel 2020, durante la pandemia, ha automatizzato la produzione di notizie sulla base dei dati forniti dalla Protezione civile. Mentre un sistema sviluppato da Mediaset suggerisce i trend, aiuta a definire il palinsesto e a calcolare l’audience in tempo reale.

L’IA, però, oltre a sobbarcarsi il lavoro sporco e noioso (come DeepL o Otter per la traduzione e Grammarly per l’editing in lingua inglese, ndr), può diventare uno strumento prezioso anche per il giornalista investigativo.

L’AI e il giornalismo investigativo

“Tecnologie come GPT-4, ChatGPT e LLaMA, grazie a un’interfaccia interattiva basata sulla chat che non era disponibile prima, – ci dice Brandon Roberts, data journalist tra i massimi esperti di IA applicata all’inchiesta – agevolano la traduzione, le migliorie stilistico/grammaticali, l’identificazione dei “pregiudizi”, l’esplorazione e l’estrapolazione di informazioni utili da grandi database”.

Nel 2013 Roberts stava facendo delle ricerche sull’attività illecita di alcuni politici locali per The Austin Bulldog, un’ong con sede ad Austin, in Texas. Avendo bisogno di incrociare nomi e indirizzi, mise a punto dei tool per automatizzare l’identificazione tra database diversi. Quella è stata la prima volta che ha usato l’intelligenza artificiale per fare un’inchiesta, rintracciando storie di evasione fiscale e consentendo il recupero di centinaia di migliaia di dollari di imposte arretrate. Da allora, la capacità di estrarre informazioni si è evoluta in modo esponenziale. “ChatGPT – avverte Roberts – rappresenta un enorme balzo in avanti per i progetti investigativi, ma ha anche la capacità di sparare sciocchezze solo in apparenza plausibili”.

È quello che è successo con il “disastro giornalistico” di CNET, un sito di informazione tecnologica che ha testato la pubblicazione di articoli scritti interamente dall’intelligenza artificiale. Un azzardo finito male, visto che i pezzi erano infarciti di errori grossolani. Oltre che una prova della superiorità dei giornalisti in carne e ossa sui loro concorrenti artificiali, “incapaci di interpretare i fatti e distinguere la verità”. Insomma: “L’IA – ci assicura Roberts – è qui per aiutare i giornalisti, non per sostituirli”. Almeno per ora.

La trappola dell’AI generativa

Per scongiurare una propagazione incontrollata di fake news, quindi, basterebbe affidarsi al check umano. Il rischio, però, che il “giocattolino” ci sfugga di mano come nei peggiori incubi fantascientifici è già realtà. Basta citare The Joe Rogan AI Experience, un podcast prodotto interamente dall’intelligenza artificiale copiando il format scritto dal commentatore statunitense Joe Rogan. Come nella versione “umana”, si tratta di lunghe interviste fatte dal conduttore a un ospite. Del progetto lanciato da Hugo su YouTube lo scorso febbraio (raccogliendo quasi un milione e quattrocentomila visualizzazioni in cinque mesi), impressiona la clamorosa verosimiglianza. Ma come per le immagini generate dall’IA, c’è sempre quel dettaglio, quella banalità sfuggita che smaschera il fake.

Se il dubbio resta, ci si può affidare a una serie di strumenti (basati, ironia della sorte, sull’IA) progettati per intercettare i contenuti prodotti dai bot. Sempre che qualcuno non li abbia “umanizzati” con Undetectable IA, un programma che promette di trasformare i contenuti, inizialmente rilevati come scritti al 100% dall’IA, in un testo capace di ottenere un punteggio come umano al 99% in tutti i rilevatori di contenuti IA. 

In pratica, un bot progettato per ingannare i bot in una guerra tra algoritmi, dove l’umano pare relegato sempre più al ruolo di spettatore passivo. Ora che il “dannato futuro” è già qui, anche per i media, resta da capire che fine faranno i giornalisti, quelli veri. Sapranno sfruttare l’IA facendo ancora la differenza o verranno surclassati dai loro competitor sempre più umani? Una cosa è certa: “Se è così facile farti rimpiazzare – ci tranquillizza, si fa per dire, Beckett – probabilmente non dovresti fare il giornalista”.

L’Economia.

L’Ideologia.

Le Querele temerarie.

Politicamente corretto.

Il Potere.

L’Economia.

Estratto dell’articolo di Massimo Basile per repubblica.it il 28 aprile 2023.

Dall’1 giugno “Time” renderà gratuiti tutti i suoi contenuti digitali su Time.com e l’accesso allo storico archivio che raccoglie cento anni di articoli. L’annuncio è stato dato dalla Ceo Jessica Sibley. «La nostra missione – ha spiegato – è fornire storie di qualità e affidabili sulle persone e sulle idee che modellano il nostro mondo, e assicurare che l’informazione sia accessibile al maggior numero di persone, a prescindere dalla collocazione geografica o dallo status socioeconomico». 

I 250 mila abbonati alla versione digitale hanno già ricevuto, o riceveranno presto, la notifica che la loro sottoscrizione scadrà tra poco più di un mese. Sul web vengono ancora proposte tre offerte che appaiono superate, almeno la prima: due mesi gratis per il digitale, 19 dollari per la versione cartacea più digitale per un anno, 34 per due anni.

«Noi – ha aggiunto la Ceo – fondamentalmente crediamo che l’informazione credibile sia un imperativo globale e dovrebbe essere disponibile per tutta l’umanità». Time.com ha raggiunto il suo record di lettori, pari a 105 milioni, e 1,3 milioni di abbonati all’edizione cartacea. L’anno scorso la compagnia ha registrato ricavi per 200 milioni di dollari. 

Fondato a New York nel 1923, sede ancora a Manhattan, Time è stato il primo news magazine d’America. Il messaggio che arriva da uno dei totem dell’informazione mondiale potrebbe segnare una svolta impensabile fino a pochi anni fa: tutti gli analisti erano concordi nel prevedere che tutti i contenuti online di giornali e riviste sarebbero stati a pagamento. […] 

La domanda che molti si fanno è: hanno visto qualcosa che altri ancora non vedono? Tutti cercano il modello vincente. Time ha lanciato prima la formula a pagamento integrale, poi l’ha attenuata, ora l’ha tolta. Il magazine economico digitale Quartz ha cancellato l’anno scorso l’accesso a pagamento. Spotify lo sta facendo per alcuni podcast. Netflix, Disney+ e altre giganti dell’intrattenimento via streaming offrono abbonamenti a prezzi ridotti. […]

L’Ideologia.

Antonio Giangrande: I giornalisti in ogni dove, ormai, esprimono opinioni partigiane del cazzo. Alcuni di loro dicono che il movimento 5 stelle ha sfondato al sud con i voti dei nullafacenti per il reddito di cittadinanza: ossia la perpetuazione dell’assistenzialismo. Allora dovrebbe essere vero, anche, che al nord ha stravinto il razzismo della Lega di Salvini, il cui motto era: "Neghèr föra da i ball", ossia immigrati (che hanno preso il posto dei meridionali) tornino a casa loro. La verità è che l’opinione dei giornalisti vale quella degli avventori al bar; con la differenza che i primi sono pagati per dire stronzate, i secondi pagano loro la consumazione durante le loro discussioni ignoranti.

Estratto dell’articolo di Dino Messina per il “Corriere della Sera” giovedì 17 agosto 2023.

Indro Montanelli diceva spesso che l’Italia è un Paese senza memoria. E aggiungeva che dopo la sua morte nessuno avrebbe più ricordato il suo nome. Mai profezia si rivelò più errata se a 22 anni dalla scomparsa del maggiore giornalista italiano del Novecento si continuano a stampare (e a vendere) i suoi scritti. Come la raccolta, a cura di Guendalina Sertorio e con introduzione di Marcello Veneziani, Contro ogni censura (Rizzoli, pagine 224, e 18). 

La nemesi che ha colpito l’arcinoto Montanelli non è stata l’oblio, semmai il tentativo di censura da parte delle sentinelle del politicamente corretto. Non passa anno che la statua ai giardini pubblici di Milano non venga dipinta per ricordare l’episodio della sposa bambina Destà [...]

I censori, scriveva Indro, sono spesso ignoranti, essendo essi allevati in «quel sudario di conformismo, intessuto di abitudini, di pigrizia (…) e vaghe superstizioni». Bene ha fatto dunque Guendalina Sertorio, dopo aver curato l’anno scorso il volume Se non mi capite l’imbecille sono io, a raccogliere gli scritti montanelliani sulla censura. 

Uno dei cavalli di battaglia del giornalista di Fucecchio, come dimostra un articolo sul «Tempo illustrato» del 1943 in cui con lo pseudonimo di Calandrino viene presentata ai lettori italiani la figura di Joseph I. Breen, il censore della celluloide americana stipendiato dalle majors che stabiliva come far rispettare il comune senso del pudore. 

Montanelli riteneva la censura talvolta un male necessario, quando si trattava di difendere obiettivi militari dall’occhio del nemico. Ma per il resto il giudizio e il controllo non spettava alla politica né a un anonimo burocrate. Sia che si trattasse di opere d’arte sia di opere commerciali. Perché l’arte, se è davvero tale, sublima ogni volgarità. E la pornografia può essere combattuta soltanto dallo spettatore o dal lettore.

In alcune pagine acute Montanelli dice che la bava alla bocca del regista che vuol far cassetta è la stessa del censore e dello spettatore che cerca le ambiguità e il cochon . Montanelli ha dato il meglio negli articoli in difesa della Dolce vita di Federico Fellini, il cui genio viene paragonato a quello del grande Francisco Goya. Non si può condannare Fellini perché ha descritto magistralmente i vizi della società romana: sarebbe come censurare Tacito perché condannò la decadenza dell’Urbe ed elogiò le virtù dei barbari.

Il giornalista difese in egual misura Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, anche se non ne condivideva spesso le scelte artistiche, o lo spettacolo teatrale L’Arialda , tratto dal testo di Giovanni Testori. Attaccava i vari ministri e sottosegretari, Giulio Andreotti («i panni sporchi si lavano in casa») o Umberto Tupini, che leggeva in Parlamento brani di sceneggiature discusse, e nello stesso tempo puntava il dito contro un sistema che permetteva la censura anche quando gli organi di controllo romani davano il visto. […]

Cervinia "fascista", il Pd le cambia nome per decreto: ira di residenti e FdI. Libero Quotidiano il 29 novembre 2023

Cervinia addio. La celebre località turistica, frazione del Comune di Valtournenche, cambia nome. Cervinia, denominazione di epoca fascista, viene sostituita dal nome originale Le Breuil, di origine francese. La decisione è stata presa nell'aprile scorso dalla giunta comunale che ha approvato il dossier sulla ridenominazione di villaggi, frazione e località sul suo territorio del presidente della Regione Valle d’Aosta, Renzo Testolin (di Union Valdôtaine e sostenuto dal Partito Democratico e da altri piccoli partiti locali). La giunta regionale ha poi preso atto della decisione il 12 settembre scorso e pochi giorni dopo è stato firmato il decreto. Con il cambio di nome sarà modificata anche la cartellonistica del paese, oltre ai documenti degli abitanti.

"Netto dissenso" da parte di Fratelli d'Italia che in una nota ha scritto: "Esprimiamo vivo stupore e sgomento poiché il brand Cervinia è noto in Italia e nel mondo e un così drastico cambiamento, frutto evidente di un'ideologia fuori tempo, spazio e luogo non può che nuocere al settore turistico alberghiero e all'immagine di tutta la Valle d'Aosta", hanno dichiarato Alberto Zucchi, coordinatore regionale per la Valle d'Aosta di Fratelli d'Italia e il deputato Matteo Rosso.

Cervinia, infatti, comprensorio fondato nel 1934 dalla Società Anonima Cervino che nel 1936 fece anche realizzare l’impianto che collega Cervinia a Plain Maison con le piste svizzere di Zermatt, 150 chilometri di salite e discese tra Monte Rosa e Monte Cervino, è diventata famosa proprio per le sue piste e gli impianti da sci. E i residenti non solo temono gravi perdite economiche ma sono anche irritati perché dovranno rifare tutti i documenti che attualmente riportano entrambi i nomi della frazione di Valtournenche. 

Estratto da ilgiornaleditalia.it il 30 novembre 2023.

Il direttore editoriale di Libero Vittorio Feltri è stato intervistato dal Giornale d'Italia riguardo il caso Cervinia. Una frazione del comune di Valtournenchein in Valle d'Aosta che potrebbe cambiare nome in Le Breuil.  […] il direttore non si fa problemi a ricordare che "il fascismo è stato un periodo della nostra vita, inutile rinnegarlo". 

[…] Cervinia cambia nome in Le Breuil perché è "nome fascista"? Ecco cosa ne pensa Vittorio Feltri: "Mi sembra una sciocchezza. Se è fascista chi se ne frega. Il fascismo è stato un periodo della nostra vita, inutile rinnegarlo. Almeno sul piano lessicale, perché la lingua si evolve con la società e rifiutare il linguaggio secondo me è un'impresa velleitaria.  È come il politicamente corretto che vuole fare la guerra al dizionario italiano. […] A me sembra tutto ridicolo", sostiene.

E poi: "Non capisco qual è l'esigenza che induce a cambiare nome, sarebbe come chiamare Bergamo Orobia. Bergamo non mi sembra brutto, deriva dal tedesco Berg Heim, ai piedi del mondo. Non si può cambiare tradizioni così. La trovo un'operazione stupida. […] Il revisionismo storico è surreale, non ha un senso. Qual è lo scopo e l'obiettivo? Io ho sempre sentito dire andiamo a Cervinia...". 

Estratto da rainews.it il 30 novembre 2023.

"Sono state avviate le procedure per ripristinare il nome di Breuil-Cervinia", ha detto all'ANSA la sindaca di Valtournenche, Elisa Cicco, al termine di una riunione con il presidente della Regione Valle d'Aosta, Renzo Testolin, convocata per risolvere il problema della nuova denominazione, "Le Breuil", della celebre località turistica. 

"L'iter riguarda la modifica dell'attuale toponimo. Invieremo alla Regione la richiesta per il cambio del nome" ha aggiunto la sindaca. Il nome Cervinia è considerato un toponimo autarchico risalente all'epoca fascista, quando molti nomi venivano italianizzati. 

Mentre sul Cervino nevica a dirotto e gli impianti sciistici sono ripartiti, la ministra del Turismo Daniela Santanché sbotta sui social: “Cervinia cambia nome e io non ne capisco il motivo. La nota località sciistica è riconosciuta in Italia e nel mondo come tale e un così drastico cambiamento non può che nuocere al settore turistico alberghiero e all’immagine di tutta la Valle D’Aosta. Ripensateci!”. [...]

Thomas, 16 anni, francese, ucciso perché bianco e nascosto dalla stampa. Andrea Soglio su Panorama il 22 Novembre 2023

Thomas, 16 anni, francese, ucciso perché bianco e nascosto dalla stampa È durata poche ore la vicenda del giovane vittima dell'assalto razzista di un gruppo di nordafricani a Crépol. Ed anche sull'ultimo tentato stupro a Milano si tace sulla provenienza dell'aggressore 14 ore. È quanto è durata sui siti di informazione italiani la vicenda di Crépol, piccolo villaggio francese dove due sere fa una banda di ragazzi ha organizzato quella che (lo hanno gridato loro stessi) è stata una vera e propria «caccia al bianco». Gli aggressori identificati sono tutti nordafricani di origine e provenienti da quelle che ormai abbiamo imparato anche noi a conoscere con il termine francese di «banlieu», quei quartieri ghetto di periferia trasformati dagli immigrati in continuazione dei loro paesi di origine. Con tanti saluti all’idea di integrazione. L’aggressione a colpi di coltello e machete è costata la vita ad un ragazzo, bianco, di 16 anni; si chiamava Thomas, amava il rugby e stava partecipando con altri ragazzi ad una festa di paese. Ma il colore della sua pelle ne he fatto un bersaglio per chi cercava il sangue della sua razza. Il Ministro dell’Interno francese, Darmanin, quello che diverse volte ci ha fatto la morale sull’accoglienza dei migranti, dicendo che il governo di destra di Giorgia Meloni era tendenzialmente razzista ed incapace di gestire la situazione, ieri ha commentato l’aggressione razzista ed omicida di Crépol ammettendo che «È il fallimento generale della nostra società». Ripetiamo: fallimento generale della nostra società. Certo, non è accaduto in Italia, anche se Crépol dista un’ora di macchina dal confine con il Piemonte, ma davanti ad un’aggressione così violenta, razzista e crudele ci saremmo aspettati dalla stampa nostrana e dagli opinionisti un po’ più di attenzione. Invece nulla. Dopo i primi lanci, qualche taglio alto sugli online dalla tarda mattinata di oggi la notizia dall’ora di pranzo è sparita dai radar. È invece ben visibile la news della violenza sessuale subita da una ragazza in pieno centro a Milano, nella centralissima Piazza della Scala. Vi invitiamo a leggerla un po’ dappertutto. Troverete la dinamica raccontata in 20 o 30 righe. Si parla tanto del fatto che a salvarla sia stato il famoso gesto delle mani con cui in codice si chiede aiuto in caso di stupro. In tutti gli articoli della vittima ci dicono subito essere una «bergamasca»; l’autore, poi arrestato, dell’aggressione viene invece presentato come «giovane», poi «ragazzo», ma anche «l’arrestato», e persino la «persona». Poi, solo nell’ultimo capoverso alcuni, non tutti, aggiungono che si tratta di un nordafricano, senza documenti. Insomma, un clandestino extracomunitario. Crépol non c’entra nulla con Milan ad eccezione del fatto che i responsabili di un omicidio e di un tentato stupro (dopo le molestie che, quelle si, la ragazza le ha subite prima di riuscire a chiedere ed avere aiuto) sono extracomunitari e che la cosa viene o fatta sparire in fretta o tenuta nascosta. Certo, perché non bisogna soffiare sulla brace dei razzisti, sempre pronta a riaccendersi. Non bisogna raccontare cose che confermino le loro preoccupazioni. Bisogna quindi nascondere o cancellare. Ma se fosse stato il contrario? Mettiamo il caso che a Crépol ad armarsi, colpire ed uccidere fossero stati dei francesi «bianchi» al grido di «a morte i neri»… cosa sarebbe successo? La notizia sarebbe scomparsa dai radar in poche ore? No, proprio no. Avremmo visto il via alla solita litania del «clima d’odio causato dalla destra», della «cultura salviniana razzista» etc etc etc. D’altronde Lilli Gruber ci ha raccontato due giorni fa che tutto è colpa del governo Meloni e della destra, persino il femminicidio di Giulia. La morte, la violenza non fanno distinguo. Thomas merita la stessa attenzione di Giulia Cecchettin. Per la giovane da 72 ore il paese si sta interrogando, discutendo, dividendo sulle ragioni sociali e culturali di questo femminicidio. Forse dovremmo trovare modo di ragionare senza vergogna su quello che non molto lontano da noi è il «fallimento generale della nostra società (dell’accoglienza e dell’inclusione indiscriminata, aggiungiamo noi). Invece no. Si nascondono le cose, certe cose, sotto la sabbia, senza vergogna.

La vignetta rimossa dal Washington Post: l’autocensura sull’Islam dell’America vittima delle ideologie. Federico Rampini su Il Corriere della Sera sabato 11 novembre 2023.

Una parte dei giornalisti americani abbandona i principi della deontologia, vuole prendere una posizione dividendo il mondo tra buoni e cattivi

L’America ha la massima tutela della libertà di espressione, il Primo emendamento. La sua protezione si ferma davanti a Hamas ? Il Quarto potere esercitò un compito di vigilanza sui leader. Il Washington Post ebbe un ruolo nella caduta del presidente Nixon per lo scandalo Watergate. Oggi il Post batte in ritirata quando si tratta di fustigare il terrorismo islamico?

I dubbi nascono dalla vignetta che il quotidiano — di proprietà di Jeff Bezos (Amazon) — ha deciso di non pubblicare, dove un terrorista di Hamas si è legato al corpo donne e bambini, scudi umani. Si può discutere sulla qualità del disegno, sui tratti del jihadista. Ma questa discussione non è avvenuta.

La redazione del Post è insorta, soprattutto i giovani, e i vertici hanno fatto marcia indietro, spaventati dalla rivolta interna. Il Post è un giornale progressista, ha fatto battaglie contro Trump. Sul Medio Oriente cerca un delicato equilibrio: difende il diritto all’esistenza di Israele; condanna l’antisemitismo; dà massima visibilità alle vittime civili fra i palestinesi e sostiene il loro diritto ad avere uno Stato. Tutto ciò non basta per una parte della redazione.

Quando Trump era presidente il Post si lanciò nel «giornalismo resistenziale»: addio alle sfumature. Ora una parte di giornalisti americani abbandona i principi antichi della deontologia, vogliono che i media prendano posizione, che dipingano un mondo diviso tra buoni e cattivi. Israele e l’Occidente sono l’impero del male; gli altri sono vittime. La vicenda della vignetta si situa in questo contesto, le redazioni sono soggette ai diktat della parte militante. È il parallelo con quel che accade nelle università.

L’autocensura sui crimini compiuti in nome dell’Islam (che si estende alla cultura e allo spettacolo) è frutto di uno slittamento percepibile da tempo. Qualche aneddoto «leggero» per ricostruirlo. Per molti anni a Broadway ha fatto il tutto esaurito il musical «The Book of Mormon», satira beffarda dei mormoni, che hanno accettato di esserne lo zimbello. Nessuno ha mai osato proporre a Broadway una satira sul fondamentalismo islamico. Lì il Primo emendamento non vale.

Barack Obama durante la sua ultima campagna elettorale, in una cena per la raccolta di fondi con alcuni miliardari di San Francisco, ebbe parole sprezzanti verso gli elettori della destra: «Questi bianchi pieni di amarezza e risentimento si aggrappano alle loro birre, ai loro fucili, alla loro Bibbia». Non si è autocensurato nel dileggiare dei bianchi cristiani. Mai avrebbe osato pronunciare parole simili su chi «si aggrappa al Corano». È questo il clima da anni, i giovani redattori del Post sono cresciuti in questa America ideologizzata.

A rendere ossessiva la difesa dei musulmani, è intervenuta la saldatura tra gli estremisti afroamericani e i filo-palestinesi. Per il movimento ultrà Black Lives Matter, neri e palestinesi sono vittime della stessa oppressione dell’uomo bianco. L’America rivive gli anni Sessanta, che nel mondo giovanile furono segnati da un’egemonia dell’estremismo. Allora però le redazioni dei giornali rappresentavano l’establishment moderato-conservatore, ancorché illuminato e attento verso la contestazione.

Mezzo secolo dopo il cerchio si è chiuso: l’establishment dei miliardari digitali come Jeff Bezos, Larry Page (Google) e Mark Zuckerberg (Meta-Facebook) sostiene il politicamente corretto; l’accademia è in mano a un corpo docente molto schierato oppure impaurito dalla pressione degli studenti; nelle redazioni sono avvenute purghe di moderati. La censura di una vignetta è troppo normale per fare scandalo.

La "sinistra cancella il Natale", caso a Verona: il sindaco Tommasi nella bufera. Luca De Lellis su Il Tempo l'11 novembre 2023

In nome del politicamente corretto anche un simbolo del Natale può venire meno. È quanto sta accadendo a Verona con la giunta del Partito Democratico, guidata dal sindaco Damiano Tommasi, che sta per sacrificare la stella cometa di Natale piantata da quasi 40 anni in piazza Bra in favore dell’installazione di lucette laser ormai un po’ convenzionali e prive di valore tradizionale. Lo riporta l’indiscrezione di Libero, secondo la quale “la trattativa con la ditta che fornirà le luci” sarebbe nella sua “fase conclusiva”, anche perché ormai non manca molto al periodo delle feste natalizie. La giustificazione del sindaco? “E’ rotta, e non c’era il tempo né la possibilità di ripararla”. In effetti nel gennaio scorso si era sgretolato il sostegno che la teneva sorretta, ma a settembre la cometa a due passi dall’Arena era stata liberata dal sequestro e sembrava potesse tornare alla normalità.

Invece non sarà così. Anzi, l’ex calciatore della Roma, ora nelle vesti di primo cittadino, sta già “pensando alle alternative” per sostituire uno degli emblemi della tradizione a cui i cittadini veronesi erano tanto affezionati. La grande stella cometa non solo rappresentava un punto turistico, ma anche un luogo di aggregazione tra diverse generazioni. E, secondo il retroscena del quotidiano, poteva essere salvata, con la ditta di presagomatura e posa dell’acciaio Iron Beton che si era offerta per sistemare tutto, sostenendo la fattibilità temporale del progetto di riparazione “del basamento che poggia sui gradoni dell’Arena, anche in collaborazione con qualche ingegnere o architetto specializzato in sicurezza, per riprogettare le fasi di montaggio e smontaggio con un protocollo più moderno e condiviso”.

La questione sembra non esser andata giù a molti cittadini, inclusi quelli appartenenti alla maggioranza che nel giugno 2022 aveva eletto Tommasi nuovo sindaco di Verona. In fin dei conti, è passata come una presa di posizione non necessaria l’eliminazione di un simbolo risalente al 1984 nella piazza più importante della provincia veneta. Intanto sono arrivate anche le critiche della giunta di centrodestra, secondo la quale sono state accampate solo delle scuse per togliere un elemento appartenente alla tradizione cristiana. E, unito ad altre politiche rivedibili attuate durante l’ultimo anno e mezzo di amministrazione, i Dem rischiano di veder vacillare il proprio consenso in una delle poche conquiste delle ultime elezioni amministrative.

La politica insorge contro i negazionisti del Natale. L'ira del centrodestra contro l'istituto. La Lega: "Dittatura delle minoranze". E il rettore fa un parziale dietrofront. Pier Francesco Borgia il 26 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Parziale retromarcia da parte del rettore dell'Istituto universitario europeo di Fiesole. Uno scarno comunicato arriva a parziale rettifica: «Nessuna intenzione di abolire le feste religiose di fine anno». Comunicato che però sottolinea come l'istituto accogliendo «un numero crescente di studenti del mondo intero», necessiti «di una politica di inclusione delle diverse culture». Ecco quindi il perché dell'adozione di un «Piano per la parità etnica e razziale».

L'idea degli amministratori dell'istituto universitario (tra l'altro ospitato nella badia di San Domenico) di sostituire il Natale con una generica «festa d'inverno» non è piaciuta a gran parte del mondo politico. «Altro che inclusione! - afferma l'europarlamentare della Lega Susanna Ceccardi (foto) - Questa è la dittatura delle minoranze!» La Ceccardi oltre a ricordare che i finanziamenti dell'istituto arrivano da Bruxelles lamenta che si sta diffondendo, anche grazie a Bruxelles, una «propaganda negazionista e falsificazionista, negli istituti scolastici di ogni ordine e grado, La deputata di Azione, Daniela Ruffino, accusa direttamente il rettore Renaud Dehousse di «intolleranza poco laica», mentre il vicepremier Antonio Tajani «sorpreso» dalla decisione del rettore dell'Istituto. «Siamo fieri del rispetto delle nostre radici cristiane - sottolinea il ministro degli Esteri -, l'Europa è basata su questo. Non è un caso che l'Italia abbia scelto la Badia fiesolana come sede dell'Istituto». Ora la Lega, per voce del consigliere regionale Giovanni Galli, minaccia di togliere i contributi regionali allo Iue, mentre il deputato di Fratelli d'Italia Antonio Baldelli annuncia la presentazione di un'interrogazione parlamentare: «Non si possono pestare sotto i piedi del politicamente corretto - dice - secoli e secoli di tradizione nazionale».

Stare dalla parte di terroristi e dittatori che uccidono i bambini nel segno dell'ideologia.

Quando la linea editoriale si nasconde dietro la libertà d'opinione e il pluralismo.

Perché Prado non collabora più con l’Unità: la libertà d’opinione e il pluralismo. Il pluralismo è una merce molto poco apprezzata in questi tempi… Piero Sansonetti su L'Unità il 24 Ottobre 2023

Iuri Maria Prado ha annunciato – con un tweet e con un whatsapp – che non collaborerà più all’Unità. Mi dispiace e lo ringrazio per il contributo che ci ha dato in questi anni. Prado mi ha detto che il motivo della rottura è un articolo di Mario Capanna, uscito sull’edizione di domenica dell’Unità, aspramente critico verso il governo israeliano. Naturalmente Mario Capanna collabora con questo giornale in piena libertà. Come tutti.

Non mi permetterei mai di censurarlo o di chiedergli di cambiare qualcosa nei suoi articoli. Come mai, in questi cinque anni, ho fatto con Prado, che ha potuto scrivere tutto ciò che voleva, senza il minimo condizionamento, e che avrebbe potuto continuare a scrivere quel che voleva in futuro. Ha avuto piena pienissima libertà. Naturalmente non la libertà di scegliere lui gli altri collaboratori del giornale, perché quello è un compito che – dove c’è libertà di stampa – spetta solo al direttore. Che cerca di esercitare questo compito garantendo il pluralismo. (Ma il pluralismo è una merce molto poco apprezzata in questi tempi…) Piero Sansonetti 24 Ottobre 2023

Il delirio di Israele e dell’Occidente. Con i palestinesi di Gaza, Israele “gioca” come il gatto con il topo. Loro non possono fuggire da nessuna parte, mentre si stringe, a proprio piacimento, la morsa di uno degli eserciti più potenti. Mario Capanna su L'Unità il 22 Ottobre 2023

Possano almeno le nostre menti resistere ai deliri. (E. Morin)

Oggi Israele, gli Usa, l’Occidente sono la realtà più odiata al mondo. Imponenti manifestazioni di condanna si susseguono ovunque, da Washington alle città europee, all’Indonesia. La reazione di Israele, dopo la carneficina perpetrata da Hamas, va ben al di là del biblico “occhio per occhio, dente per dente”. È un crimine di Stato contro civili, imprigionati dentro un fazzoletto di terra, e ridotti allo stremo, con i bombardamenti praticamente a tappeto, e dopo il taglio di acqua, cibo, elettricità, medicine. Con i palestinesi di Gaza, Israele “gioca” come il gatto con il topo. Loro non possono fuggire da nessuna parte, mentre si stringe, a proprio piacimento, la morsa di uno degli eserciti più potenti.

La visita di Biden a Netanyahu è stata penosa, e complice. Ha, di fatto, incoraggiato il massacro di palestinesi – non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania – e ha vittoriosamente… ottenuto l’ingresso, attraverso il valico egiziano di Rafah, di ben… 20 camion di generi di prima necessità per gli assediati. Venti camion, per milioni di persone ridotte a pezzi! Esilarante, se la cosa non fosse tragica. In cambio, uno stratosferico finanziamento a Israele. Il padrone è generoso con il suo cane da guardia contro i popoli e gli Stati arabi. La controprova è data dal veto americano, che all’Onu ha bocciato ogni risoluzione per il cessate il fuoco. A Washington, come a Gerusalemme, si vuole il massacro.

Senza uno Stato palestinese, che coesista in pace con quello di Israele, la guerra in Medioriente è destinata a continuare all’infinito. Dare vita allo Stato palestinese, con Gerusalemme Est come capitale, significa, a questo punto, smantellare le centinaia di illegali colonie israeliane nei territori occupati, il che richiede una volontà di ferro, superiore a quella che ebbero Arafat e Rabin negli accordi di Oslo. Questa volontà non esiste, come non c’è stata negli ultimi decenni.

Eppure tutti sappiamo che quella è l’unica strada di giustizia, anche perché la storia, fortunatamente, ha dimostrato che nessuno dei due popoli è in grado di eliminare l’altro, quali che siano le atrocità che vengono perpetrate. Nella tragica miopia della prepotenza occidentale, non si vuole che quella strada sia per davvero aperta. Non lo vuole Biden, non lo vuole il corrotto Netanyahu, non lo vuole l’Europa con i suoi miserabili balbettii a rimorchio degli Usa.

Questo giornale, l’altro giorno, titolava in prima pagina: “Riuscirà Biden a fermare i falchi di Netanyahu?” Domanda retorica: non intende minimamente farlo. Altrimenti imporrebbe un cessate il fuoco immediato. Tutti sanno che, se gli Usa interrompessero di colpo il loro sostegno economico, finanziario, militare ecc., Israele non reggerebbe più di sei mesi. Il problema, dunque, non è il popolo palestinese, nonostante Hamas. E’ il delirio di Israele e dell’Occidente, che ha generato e genera mostri. Mario Capanna 22 Ottobre 2023

Israeliani e palestinesi, giornalismo italiano a senso unico: come sempre la prima vittima della guerra è la verità. Cari colleghi, non lo capite che rappresentate una esigua minoranza? Mario Capanna su L'Unità il 15 Ottobre 2023

La professione del giornalista dovrebbe consistere nel dire alle persone ciò che devono sapere, non ciò che vogliono sapere. (W. Cronkite)

È proprio vero: la prima vittima della guerra è la verità. In questo, per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese, l’italico giornalismo è all’avanguardia. Prendiamo, per esempio, i talk show televisivi: ormai sono i giornalisti che intervistano altri giornalisti. Nessuno di loro, al contrario di me, ha mai messo piede a Gaza o in Cisgiordania. Il risultato è uno stucchevole chiacchiericcio, per lo più a favore di Israele.

Ci sono, poi, autentici casi di faziosità. Enrico Mentana, nel Tg della 7, dando notizia del massacro di Hamas nei kibbutz, ha parlato di bambini decapitati, aggiungendo: non mostriamo le immagini perché sono scioccanti. Frase atta a rafforzare l’orrore. In realtà le foto non le aveva, ma la faccia tosta sì. Paolo Mieli ha scritto sul Corriere della Sera contro “cantanti o rettori d’università” (chiara allusione a Tomaso Montanari), che difendono i legittimi diritti dei palestinesi. Il suo “mielitarismo” è indefesso.

Nicola Porro, su Rete 4, è apparso inviperito mostrando immagini di studenti che in una università sventolavano la bandiera palestinese. Sarebbe stramazzato al suolo, immagino, se avesse notato il video della imponente manifestazione pro Palestina, svoltasi a Chicago (Chicago, dico, che notoriamente non è una città araba…). Sono ben due giornaloni a scagliarsi contro l’ex ambasciatrice Elena Basile, rea di mostrare, con argomenti condivisibili o meno che siano, le responsabilità sioniste. Stefano Cappellini, su Repubblica, dopo avere additato al ludibrio “la famigerata (?) ex ambasciatrice”, la bersaglia di nuovo, il 13 ottobre, con un’intera pagina.

Non è da meno Massimo Gramellini che, in prima pagina sul Corriere della Sera, anche lui il 13 ottobre (ma che: i due si sono passati parola?) titola: “Ostaggi di Basile”. E che dire di Massimo Giannini che, in prima pagina su Repubblica, ha scritto: “Siamo tutti israeliani”. Incapace di fare un passo in più e scrivere “siamo tutti israeliani e palestinesi”. Non avete, cari colleghi “embedded” (“incistati” con l’elmetto nell’esercito di occupazione) nemmeno un briciolo della serietà e del coraggio dei giornalisti israeliani. Haaretz, ad esempio, usa parole di fuoco contro il corrotto Netanyahu e l’involuzione autoritaria-fascista del governo di Israele.

Quasi nessuno dei grandi media dà conto delle mille manifestazioni pro Palestina, che si svolgono in Italia e nel mondo. Cari colleghi, non lo capite che rappresentate una esigua minoranza? E che la grande maggioranza delle opinioni pubbliche è d’accordo con me – a difesa dei diritti palestinesi e, dunque, di quelli israeliani – e non con voi? La presidente Meloni proietta la bandiera israeliana su Palazzo Chigi, schierando l’Italia istituzionale con uno dei belligeranti. Bene: insieme a certi italici scribi, corre il rischio – lei, unitamente al governo – di incappare nel reato di tentato omicidio colposo plurimo: per aver fatto quasi morire dal ridere mezzo mondo. Mario Capanna 15 Ottobre 2023

Lettera a Sansonetti. Su Israele non è questione di libertà d’opinione, ma di giornali che non dicono la verità. Iuri Maria Prado su L'Inkista il 26 Ottobre 2023

Iuri Maria Prado ha scritto al direttore dell’Unità per spiegare perché non se la sente più di scrivere per il suo quotidiano

Caro Piero Sansonetti,

L’altro giorno ti ho inviato una lettera. Siccome hai ritenuto di non pubblicarla, te la invio nuovamente da qui.

Ho letto ciò che hai scritto a proposito della mia collaborazione con l’Unità e a proposito dei presunti motivi che mi avrebbero indotto a comunicare prima a te, e poi pubblicamente, che non riuscivo a proseguirla.

Ho sentito di non poter più scrivere per l’Unità – che ringrazio molto, moltissimo, come ringrazio te, moltissimo, per avermi fatto scrivere ciò che volevo – per motivi ben diversi rispetto a quelli che hai riferito: e tu hai riferito – in un articolino intitolato “Prado, Capanna, e la libertà d’opinione” – che io avrei provato disappunto per un pezzo “critico” con Israele, e che avrei la pretesa di “scegliere” i collaboratori.

Ora, con Israele sono stato duramente critico anche io, come sai, proprio su l’Unità: ma se pure non fosse stato così non mi sarei permesso di pronunciare nemmeno una sillaba sulle critiche che altri avesse mosso a Israele (e diciamo che qualche volta è capitato di leggere qualche critica a Israele, su l’Unità). Quanto poi alla mia ambizione di mettere becco nella scelta delle collaborazioni, diciamo invece questo: che sono scemo, d’accordo, ma fino a questo punto proprio no.

Ho sentito di non poter più scrivere sul giornale che dirigi perché il giornale che dirigi ha pubblicato notizie false o non verificate, reiteratamente, senza riconoscere di averlo fatto e anzi insistendo nell’accreditare le notizie non verificate e censurando le altre, ogni giorno più gravemente: il tutto, in relazione a fatti che, comprenderai, hanno una portata così epocale, così densa di tragedia, così implicante, da rendere a mio giudizio necessaria non già l’opinione uniformata, per carità, ma il rispetto minimo ed elementare della verità.

Il giorno successivo al pogrom del 7 ottobre, l’Unità esce con il pogrom affogato in divagazioni sulla terribilità della guerra. E va bene: è un’impostazione a mio parere discutibile, ma finisce lì. Né mai io mi sono sognato di dirne nulla, né avrei avuto alcun titolo per farlo.

Si salta al 10 ottobre (il 9, lunedì, l’Unità non esce), e l’Unità spara in prima pagina che “l’antiterrorismo”, cioè la reazione israeliana, è praticamente uguale al terrorismo (cioè quello del pogrom del 7 ottobre, su cui non era necessario indugiare troppo). E va bene un’altra volta: è un’opinione, perfettamente legittima. È perfettamente legittimo, cioè, ritenere e scrivere che la distruzione di una base terroristica in un’azione militare che fa vittime civili – non volute, sia pur messe nel conto – sia la stessa cosa che scannare i bambini ebrei nelle culle, violentare le ragazze ebree prima di assassinarle, o giocare a hockey con la testa di un ebreo con un palo di ferro infilato negli occhi, la banderilla della libertà del popolo oppresso che perlustra il cervello del padre fucilato davanti ai suoi figli, poi bruciati vivi.

Va benissimo anche questo (si fa per dire): sono opinioni, che i tuoi lettori possono condividere oppure no.

Proseguiamo. Nel frattempo, dalla memoria dei lettori de l’Unità inopinatamente veniva il ricordo del pogrom del 7 ottobre, salvo che per gli articoli di un collaboratore (sono io) cui tu, con grande tuo coraggio e mia infinita riconoscenza, consentivi di scriverne, per quanto in collocazione diversa rispetto a quella eminente che concedevi a quel collaboratore se trattava di altri argomenti. Ancora benissimo.

Ma poi arriva il botto all’ospedale di Gaza, e l’Unità esce con questo titolo: “Israele rade al suolo un ospedale: centinaia di morti”. Il titolo guarnisce una fotografia di non si sa che cosa (edifici distrutti, scena diurna). Il fatto, come tutti sanno, era della sera prima, poco dopo le 19.30 (buio pesto). Le agenzie del terrorismo denunciavano, a pochi minuti dall’esplosione, opportunamente ripresa da una telecamera casualmente nei pressi, che si era trattato di un raid aereo israeliano e che c’erano cinquecento morti (contati uno per uno nel giro di circa quattro minuti e mezzo, evidentemente).

Quel titolo era confezionato a sua volta in quello stretto minutaggio, ma non ripeteva, come invece tu mi dicevi, quelli di “tutti” gli altri giornali del mondo, giacché molti (New York Times, Le Monde, Financial Times, Washington Post, Welt, Jerusalem Post, solo per prenderne alcuni) si occupavano bensì della notizia: ma presentandola ben diversamente, e cioè sottolineando che erano le fonti palestinesi, anzi proprio Hamas, a dire che si era trattato di un missile israeliano e che c’erano cinquecento morti. Né poi aveva senso giustificare quel titolo – come tu hai fatto rispondendo al commento di un lettore, Yasha Reibman – richiamando il post su X (già Twitter) con cui «un portavoce dell’esercito israeliano» diceva che era stato Israele a lanciare il missile: se non per altro, perché non era per nulla un portavoce dell’esercito israeliano ma un semplice influencer.

Nel maturare degli eventi, e mentre la “notizia” del raid israeliano e dei certificatissimi cinquecento morti causava l’assalto alle ambasciate e ai consolati israeliani e un certo numero di attentati antioccidentali e antisemiti, si insinuava la propaganda dell’entità sionista secondo cui si sarebbe invece trattato di un ordigno palestinese che, per intenzione di chi lo ha lanciato o per malfunzionamento, era piombato sull’ospedale. Naturalmente questa maliziosa rappresentazione, diversamente rispetto a quella di “Radio Hamas”, non era abbastanza affidabile per essere considerata da l’Unità.

Il giorno dopo, e cioè il 19 ottobre, l’Unità esce con quest’altro titolo: “Israele o Hamas: chi ha tirato il missile? Di sicuro c’è solo che sono morti 500 palestinesi”. Dunque tu il giorno prima scrivi che “Israele rade al suolo un ospedale” e il giorno dopo ti siedi su quel titolo, senza riconoscerne la colpevole avventatezza e dicendo che non si sa chi ha tirato il missile. E perché, il giorno prima si sapeva? Lo sapeva l’Unità, evidentemente. E pace se il giorno dopo l’Unità viene a sapere, ma non lo scrive, che il giorno prima non si sapeva manco per niente. Pace se «di sicuro» non ci sono nemmeno quei cinquecento morti. Pace se associare il titolo sul missile che non si sa di chi sia all’intervista al generale che dice che è sicuramente di Israele rivela – come dire? – un certo orientamento pregiudiziale. Tu pensa che perfino il New York Times si è scusato per essere stato frettoloso e inadeguato: il New York Times – attenzione – che si è reso responsabile di ben più tenue frettolosità e inadeguatezza, visto che nel dare la notizia e nel titolarla già sottolineava, subito, che il raid israeliano e le centinaia di morti non stavano nella realtà accertata, ma nella tesi dei palestinesi («Palestinians say…»).

È finita? Non è finita. Mentre montano le notizie e gli indizi, se non le prove, che non si trattava di un raid israeliano né di cinquecento morti, l’Unità continua a scrivere che «non si sa» (ma come non si sa? Non aveva scritto che Israele aveva raso al suolo l’ospedale?), aggiungendo tuttavia che credere agli israeliani è quanto meno azzardato: soprattutto alla luce di una dichiarazione proveniente da fonte non trascurabile (Hezbollah…), secondo cui l’ospedale sarebbe stato distrutto da una bomba termobarica, il che spiega perché non c’è un grande cratere. La bomba termobarica! La bomba termobarica di Israele! Perché lo dice Hezbollah!

Basta? No che non basta. Perché il 21 ottobre l’Unità titola così: “Israele attacca chiesa ortodossa: è carneficina”. Che è a metà tra un altro falso bello e buono e una sonora contraffazione: perché è vero che c’è stata una carneficina, ma Israele non ha attaccato quella chiesa (integra, by the way). Ha bombardato un sito lì vicino: sbagliando gravemente, a mio giudizio, e appunto facendo colpevolmente tante vittime innocenti. Ma ritengo che si possa – anzi si debba – condannare un bombardamento, pur senza appello, senza tuttavia attribuirlo alla deliberazione israeliana, inventata di sana pianta, di incenerire una chiesa.

E sai perché, Piero? Perché se Israele bombarda deliberatamente le chiese (cosa non vera) poi c’è qualcuno che attacca le sinagoghe, cosa che succede senza che la notizia sia meritevole di prima pagina e neppure di trafiletto. Se Israele è uno Stato terrorista, poi c’è caso che nella tua città, Roma, a pochi passi e a pochi giorni dall’insopportabile retorica sul rastrellamento nel Ghetto, una graziosa fanciulla, tra ali di “pacifisti” che chiedono l’apertura di Gaza per uccidere gli ebrei, strilli «Fuori i sionisti da Roma»: ancora una volta senza che la notizia meriti neppure un francobollo di attenzione.

Questi sono i motivi per cui, con un dispiacere enorme, ho sentito e ti ho comunicato di non riuscire più a scrivere per l’Unità. Un articolo, di Capanna o di chiunque altro, che definisce Israele «il cane da guardia» che gli americani usano «contro i popoli e gli Stati arabi» non mi fa né caldo né freddo e non c’entra proprio nulla. C’entra il fatto che la somma di pubblicazioni inveritiere de l’Unità, che ho messo in parziale rassegna (proprio parziale, ti assicuro), e quegli espedienti di sistematica sfigurazione della realtà, non hanno niente a che fare con le “opinioni” e rappresentano un pericolo: producono danno e, certo oltre l’intenzione, anzi contro l’intenzione, producono violenza. Producono morte. Producono morti.

Infine, e per intendersi (faccio un esempio eccessivo, appunto per capirsi bene): mi va benissimo, si fa sempre per dire, l’opinione secondo cui era giusto sterminare gli ebrei; non mi va bene la propaganda neonazista secondo cui la Shoah è un’invenzione degli ebrei. Ti ringrazio per l’attenzione, se vorrai averne, e in ogni caso ti saluto con stima e amicizia. Iuri Maria Prado

L'amore della sinistra per la causa palestinese? Viene dalle lezioni di Arafat con Vietcong e Ceausescu. Storia di Fiamma Nirenstein su Il Giornale lunedì 23 ottobre 2023.

Comincia più di cinquant'anni fa la storia del coinvolgimento attivo della sinistra in difesa della causa palestinese, la sua decisione del tutto arbitraria che essa sia parte della «lotta degli oppressi, dello scontro antimperialista, anticolonialista, per la pace, per l'autodeterminazione, per l'eguaglianza dei diritti», e persino un grande protagonista, il cemento di molte le battaglie «intersezionali», come si dice oggi, che portano folle di giovani, donne, neri, lgbtq, e vecchi partigiani e di sinistra in piazza a sostenere, dopo le barbarie di Hamas, la suddetta «causa» accusando Israele e prendendosela con tutti gli ebrei. Bisogna, perché si presenti nei termini attuali, tornare agli anni '60, con le visite di Yasser Arafat a Hanoi, una meta per lui familiare in quegli anni, e con la frequentazione della Romania di Ceausescu. Dal generale Vo Nguyen Giap, capo militare della resistenza antimperialista vietnamita, Arafat si abbevera: il leader dei Vietcong gli spiega che per vincere deve fare uscire la sua battaglia dallo scontro regionale, e renderlo una battaglia morale antimperialista, come quella dei vietcong, capace di incantare, mobilitare, unificare le masse antiamericane in tutto il mondo. Ceausescu gli insegna in un famoso dialogo, cosa sia il marxismo, gli fa lezione di egemonia, gli spiega come la guerra terrorista, peraltro indispensabile, deve accompagnarsi con la pretesa ripetuta fino allo sfinimento di volere una soluzione pacifica.

Negli anni '80 e '90, con la disintegrazione dell'Urss suo maggiore partner e finanziatore, e anche con la fine di Ceausescu, il suo istruttore politico, quando l'esilio di Tunisi lo umilia e lo tiene lontano dalla politica, l'offerta di Israele di tornare a Ramallah con gli accordi di Oslo, gli fornisce una magnifica occasione per usare un nuovo cavallo di troia molto popolare: la pace, cuore della propaganda a sinistra! Arafat non ha nessuna intenzione di riconoscere Israele o di rinunciare al terrorismo, ma la sinistra mondiale lo segue: i palestinesi compiono l'innesto fra la causa palestinese col suo messaggio terzomondista e l'antisemitismo che fiorisce nel campo comunista sin dal tempo di Stalin.

Accantoniamo il solido odio per gli ebrei di Proudhon e Marx. Dopo un breve periodo di sostegno alla nascita di Israele data la sua ispirazione socialista, l'ideologia sovietica torna all'antisemitismo originario. Stalin dispone in Lazar Moseeivic Kaganovic di un suo Eichmann che organizza treni per la Siberia, fa fucilare uno a uno tutti gli ebrei che sono parte del gruppo dirigente; Grigorij Zinov'ev griderà la preghiera «shema Israel» mentre lo uccidono, e Stalin ride fragorosamente; l'assassinio di Lev Trotzkij è un'epitome di tutti complotti di cui gli ebrei furono accusati. Dal settembre '39 al luglio '40 passarono in mani russe 3 milioni di ebrei polacchi, bessarabici, buchovini, le scuole in yddish e del Bund furono chiuse, cominciò una mattanza di funzionari, medici, intellettuali mentre un ordine di silenzio sulla Shoah metteva a tacere Ilja Ehrenburg, Sergey Eisenstein, Vasilij Grossman. Il numero uno della cultura ebraica Solomon Mikhoels veniva giustiziato nel 48 mentre tutti i poeti e gli scrittori si accorgevano di quanto il partito fosse una condanna a morte. È famoso un dialogo con Roosevelt in cui Stalin dopo la guerra gli dice che gli ebrei sono «profittatori e parassiti». La morte di Stalin nel 53 blocca un enorme piano di deportazioni.

Dal dopoguerra si complicherà sempre di più, anche in Italia, il rapporto fra sinistra e ebrei. Gli ebrei dopo la Shoah guardano a un futuro che cerca casa nei valori liberali e di sinistra e molti sionisti sono - a partire dai capi come Ben Gurion - di sinistra: ma presto il sionismo viene criminalizzato in quanto ideologia nazionalista, separatista, e sull'onda di una spinta filoaraba opportunista lo si combatte e diffama: imperialista, colonialista, persino razzista. Si arriva così alla risoluzione Onu del '73 «sionismo uguale razzismo», una bestemmia rimasta in auge presso le folle antisemite e filopalestinesi, specie quelle jihadiste odierne. La sinistra, dato che all'Onu vince la maggioranza automatica, compatta il voto terzomondista anti-americano. È la nuova animatissima trincea della «causa palestinese», paradossale quanto efficace: tutte le organizzazioni per i diritti umani sputano a velocità supersonica risoluzioni anti-israeliane mentre ignorano l'Iran, la Cina, ecc. 

La sinistra italiana non fa eccezione: la svolta si vede soprattutto dopo la guerra del 67. Nasce il tema degli insediamenti, ovvero dei territori della Giudea e della Samaria fino a quel momento occupati dalla Giordania. Secondo la sinistra Israele occupa terra palestinese e l'Olp lotta contro lo stato ebraico colonialista. Sostiene questo atteggiamento un gruppo potentissimo di leader, da Olof Palme a Willy Brandt a Bruno Kreisky: condurranno tutta la sinistra europea a fare della questione palestinese la cartina al tornasole del rapporto con Israele. Ideologia, interessi (c'è l'embargo del petrolio) pressione sovietica coprono gli attentati terroristi, la «battaglia per la pace», la pretesa israelofobica che vede Israele come invasore occidentale e nega il ritorno degli ebrei alla loro terra d'origine. Nascono allora anche molti gruppi ebraici di sinistra come Pace Adesso. L'Olp, la causa palestinese diventano una vacca sacra che impedisce di notare il rifiuto della soluzione territoriale, l'assedio armato a Israele. L'uso di formule come «stato di apartheid» segnano la delegittimazione di Israele e il tentativo di bloccarne il diritto all'autodifesa. Le folle antisemite odierne che urlano «morte agli ebrei» e dicono «dal fiume al mare la Palestina sarà libera» altro non chiedono che la distruzione di Israele. Anche in Italia, dal tempo di D'Alema, la sinistra ha devastato la verità sul rifiuto palestinese, sulla sua ferocia: Hamas usa senza remore la sua gente come scudi umani e Di Battista e Fratoianni non trovano oggi di meglio che attaccarsi alle bugie sul missile della Jihad Islamica ricaduto sulla Striscia. Il Pd più cauto, impetra la pace, e che altro? Intanto per le strade anche da noi si sventolano bandiere palestinesi, e si canta Bella ciao, insieme. E la sinistra, zitta.

La nazificazione di Israele e degli ebrei è un virus, anche in Italia. La pericolosa ombra lunga dell’antisemitismo in Europa: si diffonde a macchia d’olio nel Paesi d’occidente. Andrea Venanzoni su Il Riformista il 24 Ottobre 2023

Robert Redeker, filosofo francese che gli islamisti hanno pensato bene di condannare a morte dopo il suo commento alla lectio magistralis che Papa Benedetto XVI tenne a Ratisbona nel 2006, dichiarava alcuni anni fa che l’antisemitismo è la distruzione dell’Occidente e che l’antisemitismo islamico, sempre più spesso fuso con il terzomondismo della sinistra radicale, avrebbe incrinato in maniera irreversibile il modo stesso di stare al mondo di noi occidentali. Facile profeta, verrebbe da dire, considerando che nel 2019, un altro filosofo francese, di origini ebraiche, Alain Finkielkraut venne, letteralmente, accerchiato per strada da un nugolo di gilet gialli, esagitati islamisti da banlieue e apostrofato con epiteti antisemiti. L’anno prima, secondo fonti del Ministero dell’interno, la Francia aveva subito un drastico aumento di episodi antisemiti, ben 541, il 74% in più dell’anno precedente. Non può quindi stupire, con questo retroterra inquietante, l’onda lunga e putrida del nuovo antisemitismo islamo-gauchista, a volte mascherato timidamente dietro l’etichetta di antisionismo, in altri casi antisemitismo in purezza, che ha fatto seguito al massacro perpetrato da Hamas in Israele e alla reazione israeliana.

Le manifestazioni di piazza, gli slogan truci, le porte delle abitazioni di ebrei marchiate o addirittura incendiate, come avvenuto a Parigi; ad oggi si sono registrati, secondo il quotidiano Figaro, un centinaio di casi in pochi giorni. E i numeri vanno crescendo, per citare il Ministro Darmanin. La Francia sembra rappresentare un laboratorio incandescente di fusione tra l’antisemitismo islamista e quello dell’estrema sinistra. La rendita di posizione anticoloniale e marxista di una vasta parte del ceto intellettuale francese ha portato per lungo tempo a una sottovalutazione sbilenca del fenomeno antisemita sviluppato a sinistra, focalizzandosi quasi esclusivamente su quello praticato dai gruppi di estrema destra. Eppure a sinistra arde un fuoco antisemita che va sposandosi in uno slancio pericoloso alle parole d’ordine degli islamisti che dalle periferie dimenticate iniziano a passare dalle parole e dai motti all’azione violenta. Per quanto possa essere difficile da accettare per la sinistra, va sempre ricordato come sia stata la Francia ad aver ospitato le prime tesi negazioniste dell’Olocausto, con case editrici di estrema sinistra, come la Vieille Taupe, e autori, da Rassinier a Garaudy, che dalla sinistra venivano organicamente. E queste parole d’ordine, riadattate e rimodulate, ai fini di una qualche presentabilità, si sono trasformate da negazione della Shoah in negazione del diritto di esistere di Israele, con una ‘nazificazione’ retorica dello Stato di Israele a cui assistiamo in questi giorni.

Ma se la Francia presenta questi tratti oggettivamente preoccupanti, in quanto culturalmente e storicamente risalenti e in certa misura perverso nutrimento di quella ‘sottomissione’ che Houellebecq aveva denunciato, un antisemitismo virulento, caotico, magmatico, va diffondendosi a macchia d’olio in tutti gli altri Paesi d’occidente, dall’Europa agli Stati Uniti. L’osceno spettacolo di attivisti liberal che strappano dai lampioni e dai pali i ritratti degli israeliani rapiti da Hamas, spesso neonati o ragazzine giovanissime, di feroci canti di guerra intonati sulle scalinate di Stanford e di Harvard, dove gli studenti si indebitano fino al collo per essere indottrinati come nemmeno in una madrasa coranica, di oceaniche masse pro-Hamas di Londra e del Canada dove sventolano addirittura le bandiere dei Talebani e si invoca la distruzione di Israele, ci accompagna ormai su base giornaliera. In Svezia gli ebrei vengono presi di mira da giovani islamisti da ben prima dell’assalto di Hamas. ‘La Svezia ha un problema con gli ebrei’, titolava Il Foglio nell’ormai lontano 2017 e il Centro Wiesenthal già a maggio 2010 pubblicava un avviso ai turisti di origini ebraiche sulle zone del Paese scandinavo ritenute a rischio. D’altronde a maggio scorso in Svezia si è tenuto un forum pubblico pro-palestinese cui hanno preso parte esponenti di Hamas. In Polonia una giovane studentessa di medicina di origini norvegesi ha esibito un cartello che invitava a gettare Israele nel cestino della spazzatura della storia. In Germania la polizia ha dovuto addirittura proteggere i monumenti in ricordo della Shoah.

Non meglio va in Italia, dove tra Roma, Bologna e Milano è andato in scena il carnevale dell’odio antisemita, tra cori, slogan e cartelli che invitavano a ‘uccidere gli ebrei’, a ‘distruggere Israele’, dando piena legittimazione alle atroci azioni di Hamas; si urlava ‘fuori i sionisti da Roma’, laddove verrebbe da chiedere cosa si intenda per ‘sionisti’ perché assai spesso è solo un ipocrita mascheramento per ‘ebrei’ tout court. A Bologna una ragazza velata di nero ha pensato bene di esporre un cartello con su scritto ‘Rivedrete Hitler all’inferno’. E anche in Italia, come in Francia, la ‘nazificazione’ di Israele e degli ebrei, degli ebrei non di un generico ‘sionismo’, è un virus diffuso e che trova spesso cittadinanza nel ceto intellettuale, tra musicisti, letterati, attori e tra una certa parte politica che fino ad oggi è stata assai prodiga di puntuali attacchi a Israele, tacendo miserabilmente sui crimini di Hamas. Il punto è esattamente questo: per anni un frainteso senso di tolleranza ha permesso a questo antisemitismo che germinava a sinistra, e nei settori di una certa immigrazione, di diventare sempre più spavaldo e di fare un brutale salto di qualità.

È tragica realtà il fatto che sempre più comunità ebraiche, in Francia e in Italia, debbano consigliare prudenza e di non rendersi visibili ai loro correligionari. Scompaiono i simboli, le kippah, perché si ha paura, mentre là fuori scorrono fiumi di odio. Ma è un odio che non vincerà, perché come ha scritto Etty Hillesum, ‘si deve diventare un’altra volta così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere’. Andrea Venanzoni

Lezioni di apartheid: mostra sul colonialismo vietata ai bianchi. Storia di Gian Micalessin su Il Giornale sabato 9 settembre 2023.

A saperlo il generale Roberto Vannacci ne avrebbe fatto un’imperdibile capitolo del suo libro su Il mondo al contrario.

Ma purtroppo per il generale quest’ultima superlativa apoteosi del politicamente corretto ambientata in Germania non era ancora salita agli onori delle cronache. In mancanza di Vannacci ci ha pensato il Washington Post. Seppur con tutti i distinguo possibili il quotidiano, campione del liberal pensiero, racconta la clamorosa vicenda di un museo di Dortmund dove - in concomitanza con una mostra sul colonialismo - si sperimenta la segregazione razziale nei confronti del pubblico di pelle bianca.

Sì, non strabuzzate gli occhi, avete letto bene. È andata, anzi sta andando, proprio così. Ogni sabato la direzione del Museo industriale Zeche Zollern e gli organizzatori di Das ist kolonial (Questo è colonialismo) - una mostra allestita fin da marzo riservano uno spazio di quattro ore esclusivamente alle visite di neri, indigeni o «altra gente colorata» (si il Washington Post scrive proprio «people of color», ndr) di origine diversa da quella tedesca, bianca o europea. Ovviamente agli ideatori dell’iniziativa non è neanche passato per la testa che potesse trattarsi di una forma di razzismo, o di segregazione, opposta, ma esattamente equivalente a quella praticata dai famigerati colonizzatori del passato. «Dal nostro punto di vista è solo un modo per permettere di visitare la mostra senza affrontare un ulteriore (anche se magari inconsapevole) discriminazione» hanno spiegato i dirigenti del museo ai giornalisti del Washington Post pronti ad abbozzare la volgare supposizione. Senza rendersi conto che più si giustificavano più s’impelagavano. Anche perché identificare i visitatori tedeschi, bianchi, o semplicemente europei, come dei reprobi pronti a riversare occhiate di scherno o derisione sui visitatori di colore è, nei fatti, una forma, se non di razzismo, almeno di grave pregiudizio.

Così in loro soccorso è subito arrivato il direttore del museo Kirsten Baumann spiegando che lo scopo dello spazio riservato ai «non bianchi» «rappresenta una premura nei confronti di chi risente più di altri del tema del colonialismo». Senza rendersi conto che pronunciare una simile frase a oltre cinquant’anni dalla fine del colonialismo è, quello sì, autentico razzismo. Il pensiero debole del direttore Baumann finisce infatti con l’attribuire una scarsa capacità di concentrazione e di autonomia riflessiva a quelle persone di colore che lo «spazio sicuro» dovrebbe garantire.

Ma le considerazioni del direttore Baumann sono poca cosa rispetto ai contenuti del sito web del museo pronti a descrivere la mostra come un imperdibile laboratorio interattivo in cui apprendere la storia del colonialismo tedesco. «La tazza del caffè della mattina, il nome di una strada o certi pregiudizi - provano, secondo il sito - che la storia coloniale e ancora presente nella vita di tutti i giorni». Il caffè nel pensiero, se non malato perlomeno compulsivo, che alimenta i sentimenti anti-colonialista degli organizzatori sarebbe infatti una bevanda rubata alle popolazioni di colore, ottenuta grazie al loro lavoro ed esibita dall’Occidente come un simbolo della propria cultura. Insomma se non vogliamo essere razzisti o neo-colonialisti dovremmo innanzitutto rinunciare al caffè.

Peccato che anche questo sia un falso storico. I primi a esportare dall’Africa i preziosi chicchi, non sono stati gli europei, ma gli arabi che andavano prenderli nel reame etiopico di Kaffa. 

"Se fosse stato bianco...": bufera per l'arresto di un bimbo di 10. Storia di Massimo Balsamo su Il Giornale sabato 9 settembre 2023.

Altro presunto caso di razzismo negli Stati Uniti. Un bambino di 10 anni afroamericano è stato arrestato in Mississippi, portato alla stazione di polizia e messo in cella per almeno un'ora perché stava facendo pipì in un parcheggio. Ora la madre del piccolo, LaTonya Eason, invoca le scuse della polizia e il licenziamento degli agenti del dipartimento di Senatobia, sud Mississippi, a meno di 30 miglia a sud del confine di stato del Tennessee:“Avrebbero messo un bambino bianco in cella? Se fosse stato un bambino bianco non l'avrebbero neanche fermato”.

Come riportato dalla Cnn, il caso risale allo scorso 10 agosto. La donna aveva portato con sé il figlio a un appuntamento in un’azienda: a causa dell’assenza di bagni pubblici nelle vicinanze, il piccolo ha deciso di fare i suoi bisogni in un parcheggio – proprietà privata – vicino al suo veicolo. Un agente che passava da quelle parti ha notato l’episodio e c’è stato un confronto con la madre. Ma non è finita lì. Secondo quanto ricostruito dalla donna, sono sopraggiunti altri quattro agenti, compreso un tenente, che ha deciso di arrestare il bimbo di 10 anni.

Il piccolo è stato portato in una stazione di polizia, ma l’ufficiale Richard Chandler ha precisato che non sono state messe le manette. Ora la famiglia del piccolo minaccia di fare causa per violazione dei diritti civili se il dipartimento di polizia di Senatobia non licenzierà gli agenti che hanno condotto l'arresto e portato in centrale il piccolo. L’avvocato Carlos Moore ha spiegato ai microfoni dei giornali statunitensi: "Hanno messo questo bambino in gabbia perché ha fatto pipì, daremo alla polizia due settimane di tempo, altrimenti presenteremo una denuncia per violazione dei diritti umani e ci assicureremo che questa famiglia abbia giustizia".

Video correlato: Un tuffo nel passato: Mulino Bianco rilancia le Sorpresine in occasione del 40esimo anniversario (Adnkronos)

Il caso ha acceso il dibattito nell'opinione pubblica statunitense, complici i casi registrati nel corso degli ultimi mesi in tutto il Paese, il capo della polizia di Senatobia ha affermato in una nota: "è stato un errore di giudizio da parte nostra trasportare il bambino alla stazione di polizia […] L'incidente ha dato il via ad un'indagine interna e a seguito di questa indagine uno degli agenti coinvolti non sarà più impiegato e gli altri saranno sanzionati - ha aggiunto - Avremo anche una formazione giovanile obbligatoria in tutto il dipartimento, proprio come facciamo ogni anno”. Secondo quanto affermato dall’avvocato Moore, a quasi un mese dall’incidente il bimbo “è sconvolto e ora ha paura della polizia, e inizierà la terapia”.

Barbara Costa per Dagospia sabato 26 agosto 2023.

Al bando l’orgasmo! Il 29 agosto 1969 è data che fa la storia della morale, è data in cui l’Italia ha fatto figuraccia internazionale. È il 29 agosto 1969 quando in Italia sono sequestrate tutte le copie di "Je t’aime… moi non plus", la canzone di Serge Gainsbourg e Jane Birkin, tornata sui media, un mese fa, alla morte di Jane Birkin. La canzone di loro due che sc*pano. 

E sapete perché la giustizia italiana decreta di proibirla? Perché si "accorge" che Je t’aime non rispetta il “comune senso del pudore”, e poi perché… glielo fa notare la Chiesa! Pochi giorni prima del sequestro, esce sull’Osservatore Romano "Un atto onesto", articolo non firmato a condanna dell’immonda canzone famigerata, dove una donna ha l’ardire di dire a un uomo che la sta possedendo “ti amo, vieni” e ci gode, la scostumata, e si fa sentire da tutti, ed è una vergogna, non si fa, non si deve fare, né più ascoltare.

L’Osservatore plaude la RAI che il 15 agosto 1969 aveva ordinato a Lelio Luttazzi, il conduttore di "Hit Parade", su RAI Radio2, di non passare più Je t’aime. Je t’aime è fuori da mamma RAI perché è immorale, ed è pericolosa, per le orecchie delle creature, e più delle ascoltatrici, sia mai si mettano strane idee in testa e fuori dal matrimonio, e però, attenzione: che succede se sopprimi un prodotto dal circuito legale? 

Che non lo levi dal commercio, entra nel mercato nero e il disco in questione (che come lato B contiene "69 année érotique", inno alla posizione sessuale) viene venduto sottobanco non più a 750 lire, bensì a 3000, celato sotto custodie di altri dischi, e viene anche venduto ai minori. Senza restrizioni. Basta averci i soldi.

Nell’Italia del 1969 spiccano i juke-box, da cui i proprietari non tutti tolgono la canzone del peccato: la passano, a locale chiuso! E chissà che succedeva, a saracinesche abbassate… 

Il bigottismo italico è pruriginoso, e non riguarda soltanto la stampa cattolica. L’Europeo, bel settimanale che fu di rilievo, si inventa che Serge Gainsbourg e Jane Birkin hanno inciso Je t’aime dal vivo, con un rapporto sessuale in sala d’incisione, anzi no, hanno messo un registratore sotto il letto.

Panzane. Je t’aime è incisa a Londra, in cabine separate, e pure in tempi separati. Chiamato in causa, Gainsbourg precisa che sarebbe stato per lui impossibile incidere il brano dal vivo, facendo sesso: lui non è uomo da soli 4 minuti di prestazione! 

L’Europeo spedisce Lietta Tornabuoni, firma di punta, a intervistarlo. La signora pensa di farla giusta criticando Gainsbourg per aver realizzato un brano “di bassa qualità” (no, signora, l’audio fruscia apposta) e acidissima attacca Jane Birkin “fornita di un fortissimo accento inglese alla Stanlio e Ollio” (che pena, l’invidia femminile!). Gainsbourg non le manda a dire: “Il Papa è il nostro migliore addetto stampa”. 

A tutt’oggi c’è chi ripete che a causa di Je t’aime… moi non plus, il Vaticano abbia scomunicato Serge Gainsbourg e Jane Birkin: niente di più sbagliato! Un ebreo e una anglicana non si possono cattolicamente scomunicare! E poi, sentite questa: l’Osservatore Romano, nel linciare Je t’aime la pubblica in traduzione assurda!

All’Osservatore, da cattolici praticanti e ferventi, Je t’aime se la sono ascoltata bene (e chissà quante Ave Maria da scontare dopo confessione) e però, l’hanno tradotta a cavolo: secondo il giornale, Gainsbourg e Birkin andrebbero messi al rogo perché, da coppia artistica e sentimentalmente illecita (stanno insieme ma vivono insieme da non sposati più hanno due figlie, e la prima manco è figlia di Serge) ansimano “vado e mi trattengo”, e “tu sei la valva e io ci penetro”. 

Se la traduzione corretta del primo verso è “vado e vengo tra i tuoi fianchi”, nel secondo, la valva? ma che valva??? Il verso in francese è “tu es la vague, moi l’île nue”, “tu sei l’onda, io l’isola nuda”. E Gainsbourg “amore fisico che fa sudare” non l’ha mai scritto da nessuna parte, in nessuna lingua. 

Chissà come hanno reagito quest’alfieri della santa moralità alle successive bordate amorali di Birkin e Gainsbourg, ben peggiori. È vero che si sono amati, e non si sono mai sposati. Non è vero che il loro è stato un idillio. Pochi anni, e non ti desideri più. Hai quel corpo, "sei" Jane Birkin, e Serge si stufa: “Le donne vengono prese per quel che non sono, e lasciate per quel che sono”. 

Serge Gainsbourg era un demone, preda di demoni, incline a far dar di matto chiunque cadesse nella sua rete, e a letto, e fuori. Oltre le foto di nudo e di sadomaso, e oltre a mutare Je t’aime…moi non plus in un film a feticista regia di Gainsbourg con protagonista Jane Birkin accoppiata a un Joe Dalessandro divino che è e fa il gay (e che sotto la perversa regia di Serge sc*pa Jane da dietro), Serge e Jane hanno pubblicamente scherzato col fuoco recitando l’incesto.

Jane Birkin in "Kung-Fu Master", di Agnès Varda, nel ruolo di una 42enne che ama un 16enne, recitato dal vero figlio di Varda. In questo film c’è l’adolescente Charlotte, figlia di Jane e Serge, che sullo schermo interpreta la figlia di Jane. Peggio, è Serge Gainsbourg che dirige Charlotte e ci recita in "Charlotte For Ever", in un incesto giammai consumato tra un padre, Serge, e una figlia 15enne, Charlotte, che dormono assieme e "sentono" di amarsi benché consanguinei diretti, e lui la pure tradisce con le amiche di lei, minorenni.

E Gainsbourg aveva già chiamato la figlia con lui a duettare in "Lemon Incest", brano nel cui video padre Serge e figlia Charlotte stanno sdraiati a letto, lui in jeans semi sbottonati e petto nudo, lei in slip e camicia di lui. Ve l’ho detto: Gainsbourg è il demonio. Trovate i suoi film, vedeteveli, e non lo dite a nessuno!!! 

Serge Gainsbourg è morto 32 anni fa da culto nazionale di Francia quale è ora e per sempre, e moralisti, tranquilli, non vi preoccupate: artisti indemoniati e con dannato genio osante non ne fanno più. I social non lo permettono. 

P. S. Je t’aime… moi non plus significa Ti amo…nemmeno io, e sta a dire: mia cara, non siamo innamorati, l’amore non c’entra niente, è sesso, ti sto sc*pando, e per bene, zitta e contentati così. Intesi? Non credete ad altre spiegazioni. Parola di Gainsbourg. 

Giornali "fascisti"? Ecco la triste assemblea di Articolo 21. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 17 agosto 2023

Compagni, che ridere! Altro che mobilitazione anti-fascista: la proiezione della Corrazzata Potëmkin avrebbe riscosso maggior successo. Si sono collegati in sei, nel momento di picco, all’assemblea di “Articolo 21” convocata ieri mattina d’urgenza via Facebook per denunciare «l’internazionale nera»- gli organizzatori l’hanno definita così- di giornalisti e politici non allineati al pensiero “democratico”. Mattatori dell’assise, agonia cominciata alle 8.30 della vigilia di Ferragosto e terminata dopo un’ora di audio e video a singhiozzo, sono stati il coordinatore emiliano-romagnolo di “Articolo 21” Loris Mazzetti, il presidente dell’Associazione vittime della strage di Bologna Paolo Bolognesi, e il giornalista Giuseppe Giulietti, il quale nei giorni scorsi aveva invocato l’adunata al grido di «Fascisti erano, fascisti restano», «continueremo a contrastarli senza incertezza alcuna», «Prima Gasparri, poi la Lega, e oggi Storace carica a testa bassa», e Storace ha la colpa di aver riportato su Libero la richiesta di chiarezza del vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri il quale ha interrogato l’Usigrai su un presunto ammanco di 100mila euro dalle casse del sindacato dei giornalisti, oltre ad aver chiesto se è vero che un esponente sindacale ha svolto in redazione una serie di mansioni senza averne titolo.

Ma torniamo all’affollata assemblea ferragostana di “Articolo 21”. «Paginata becera di Libero!», hanno tuonato i relatori in apertura. L’articolo 21 che tutela la libertà d’informazione dipende dal colore politico. Libero è becero perché ha sottolineato che i giornalisti “democratici” si stanno mobilitando per dare la caccia ai colleghi di destra in Rai e altrove, e l’analisi è risultata sgradita. Attenzione, il numero di utenti collegati oscilla: dopo 10 minuti sono 3, al minuto 26 quattro, poi scendono a due, e considerando che ci siamo collegati anche noi, ad ascoltare le grida di battaglia c’era una sola anima, probabilmente Daniela Finocchio che scrive due commenti identici: “Michela Murgia”, con un cuore azzurro di fianco. Ecco, la Murgia.

Vietato anche criticare la performance di Roberto Saviano che neppure al funerale dell’amica è riuscito a non mettere nel mirino Libero e gli altri giornalacci di destra. «È stato un attacco pestilenziale!», esclama un’altra relatrice, ma non si riferiva agli attacchi di Saviano, bensì alla stampa non allineata, anche stavolta. I quotidiani che osano mettere in discussione il pensiero rosso vengono definiti «schifosi». A un certo punto non si sente più niente e invece di prendersela con chi ha allestito questa tragicomica riunione parte un’irresistibile battuta: «È la rete nera che si sta muovendo», ma per fermare i quattro amici al bar del 14 agosto non è che serva questo grande boicottaggio. Bordate a Gasparri. Bordate ad Alemanno. Bordate a Storace, dicevamo. «Erano, sono e resteranno fascisti», e si dibatte se sia giusto ospitarli nelle trasmissioni televisive. «In altri momenti», ipotizzano i paladini dell’“Articolo 21”, «non avrebbero avuto questo spazio». Vogliono zittire gli avversari politici e i giornalisti che non se la prendono ogni giorno con Giorgia Meloni. «Fammi ricordare a tutta la nostra comunità...», dice Giulietti, e se ne sentiva il bisogno dato l’affollamento in rete. Per me, la Corrazzata Potëmkin è una c... pazzesca! Fantozzi si guadagnò 90 minuti applausi. 

Spie e giornalismo: cosa succede quando sfuma il confine. Martina Piumatti il 2 Agosto 2023 su Inside Over.

Se tutti i giornalisti sono un po’ spie, non tutte le spie sono anche giornalisti. Qualcuno sì. La collaborazione tra giornalisti, scrittori e servizi ha radici antiche. Vite giocate sempre sul crinale del doppio, dove il confine tra realtà e finzione si confonde. A cominciare dall’inventore della spia più famosa di sempre. Ian Fleming, prima di diventare giornalista e poi dar vita a James Bond, lavorò per la Royal Navy’s Intelligence, il servizio segreto della marina. E non fu l’unico.

Prima di lui, durante la Grande Guerra, Somerset Maugham entrò nella British Intelligence. Reclutato da John Wallinger (il capospia “R” nei racconti di Maugham, poi interpretato da Charles Carson in Agente segreto di Hitchcock) faceva parte della rete di agenti britannici che operavano in Svizzera contro il Berlin Committee (il Comitato per l’indipendenza dell’India). Usò la sua esperienza di 007 per scrivere le avventure di Mister Ashenden, spia solitaria e tormentata che ispirò a Flaming la serie di Bond. 

Anche Graham Greene, venne ingaggiato dall’MI6 (l’agenzia britannica di spionaggio per l’estero) grazie alla sorella, Elisabeth, che già lavorava per l’organizzazione, e durante la Seconda guerra mondiale fu inviato in Sierra Leone. Posti visitati, avventure vissute, personaggi incontrati, confluirono nei suoi romanzi, da Un americano tranquillo a Il nostro agente all’Avana, a Il fattore umano.

Dall’altra sponda dell’Atlantico arriva “la più pericolosa spia degli alleati”. Spina nel fianco dei nazisti, Virginia Hall, corrispondente in Francia del New York Post, fu al soldo prima dei servizi segreti britannici, poi dell’Oss, l’Office of strategic services statunitense, (predecessore della Cia). La “dama zoppa”, come era nota tra i tedeschi per via della gamba amputata dopo un incidente durante una battuta di caccia a Smirne, si rivelò decisiva per il trionfo alleato in Normandia.

In tempi più recenti, è Mikhail Butkov a incarnare lo spregiudicato doppiogiochismo delle spie sovietiche. Entrato a far parte del Kgb nel 1984, si trasferì in Norvegia cinque anni dopo, operando under cover come corrispondente per Rabotsjaja Tribuna. Da Oslo passò al soldo dei servizi segreti norvegesi e britannici, servendosi della copertura per reclutare fonti, spiare cittadini di alto profilo e diffondere storie fuorvianti sui giornali locali.

I tentacoli dell’intelligence russa, però, non conoscono limiti geografici. Vicky Peláez è una giornalista peruviana, vive al “17 di Clifton Avenue a Yonkers dal 1985” e scrive, da New York, per The Moscow News e Sputnik. Ufficialmente. Quando nel giugno 2010, l’Fbi l’arresta, insieme al marito Mikhail Vasenkov e altri otto. L’accusa: essere una spia sul libro paga del Cremlino. Dichiaratasi colpevole viene deportata in Russia come parte di uno scambio di agenti. Ora, stando alle ultime notizie, sarebbe tornata in Perù.

Federico Umberto D’Amato è un caso a parte. L’uomo che sapeva tutto di tutti. E che tutti riusciva a far parlare. FUDA, o Umbertone, come lo chiamavano gli amici per la corporatura che tradiva la passione per il buon cibo, di vite ne ha vissute almeno due. La prima, da spia, iniziò quando, a soli venticinque anni, dopo l’8 settembre 1943, lavorò alle dipendenze di James Angleton, capo del servizio segreto Usa, l’Oss, finendo per diventare dal 1971 al 1974 direttore dell’Ufficio Affari Riservati (il servizio segreto politico di allora) del ministero dell’Interno.

Nell’altra, Zaff (così lo chiamavano in codice, come emerge dagli atti giudiziari, gli organizzatori della strage di Bologna, in quanto amante dello zafferano) è stato un raffinato giornalista enogastronomico, inventore, con lo pseudonimo di Federico Godio per il Gruppo L’Espresso, della Guida d’Italia. 1500 ristoranti e trattorie, 500 alberghi e pensioni, noti e meno noti. Il “Grande Fascicolatore”, che, tra una vodka (che beveva fin dal mattino) e una Philip Morris, non negava un dossier a nessuno, resta un mistero difficile da decifrare. Dalle segrete trame delle stragi di Stato alla disputa sull’abolizione della pastasciutta, trasversale e sotto traccia come solo lui riusciva ad esserlo. “Ogni buon agente segreto, – rivela FUDA in un’intervista riportata da RollingStone – insieme al cifrario o al mini-registratore, ha sempre un taccuino con i buoni indirizzi di forchette nel suo Paese e all’estero. Questi ristoranti sono convenzionalmente una specie di campo neutro, dove si parla liberamente, senza timore di registrazioni clandestine o di altri trucchi”. Perché una spia, in fondo, resta pur sempre una spia. Anche a tavola.

“Sono centinaia i giornalisti di tutti i Paesi europei che lavorano per i propri servizi segreti o per quelli statunitensi. Il loro compito è quello di obbedire e favorire Washington. Sanno benissimo che potrebbero perdere il loro lavoro nei media se non rispettassero l’agenda pro-occidentale”. A gettare la bomba è Udo Ulfkotte. Firma di punta della Frankfurter Allgemeine Zeitung, inviato di guerra e poi caporedattore di politica estera, nel 2014 pubblica il libro Giornalisti comprati, in cui denuncia di essere stato per ben 17 anni un agente per conto della Cia e di altre agenzie di servizi segreti (tra cui la Bnd, l’intelligence tedesca). “Non è giusto quello che ho fatto in passato, ho manipolato le persone – ammette Ulfkotte – e ho fatto propaganda contro la Russia. Sono stato corrotto da miliardari e dagli americani per non riferire la verità. Mi sono sentito manipolato, non mi hanno permesso di dire quello che sapevo”.

Il meccanismo è tanto semplice quanto subdolo. “I giornalisti – spiega – vengono spesso avvicinati di nascosto. Niente soldi. Usufruiscono di compensi sotto forma di regali, di viaggi gratuiti, opportunità di entrare in una rete di relazioni precostituite dalle varie agenzie di spionaggio, funzionali alla propria carriera e lavoro. Ti invitano a vedere gli Usa, pagano tutto, ti riempiono di benefit, ti corrompono. Ti danno la possibilità di intervistare politici americani, ti accosti sempre di più ai circoli del potere. E poi tu, che vuoi rimanere all’interno di questo cerchio d’élite, finirai a scrivere qualsiasi cosa per compiacerli. Se non lo fai, la tua carriera non andrà da nessuna parte. Ho molti contatti con i giornalisti britannici e francesi: hanno tutti fatto lo stesso percorso”.

Poco dopo aver deciso di svelare nuovi intrighi, il 13 gennaio del 2017 viene trovato morto nella sua abitazione. Il governo tedesco lo ha liquidato come infarto, facendolo cremare senza disporre l’autopsia e impedendo, così, per sempre di fare chiarezza. Una fine degna di una spia.

Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per “la Repubblica” venerdì 4 agosto 2023.

È una Repubblica fondata sul ricatto, a partire dal dopoguerra quando la corsa al vertice della Democrazia cristiana viene giocata dai protagonisti anche a colpi di falsi memoriali. Sullo sfondo, allora, c’era il caso Montesi, la giovane donna trovata morta sul litorale di Torvajanica. 

Nelle indagini sull’omicidio fu coinvolto anche Piero Piccioni, figlio di Attilio uno dei potenti della Dc. […] Negli anni Sessanta venne la stagione delle 150mila schedature del Sifar, il servizio segreto militare del generale Giovanni De Lorenzo, a carico di persone ritenute politicamente “pericolose”.

Uno di questi dossier era dedicato a Giuseppe Saragat, divenuto nel frattempo presidente della Repubblica. Quella era la stagione del “tintinnar di sciabole” e del “piano solo”, un colpo di Stato sventato. Fino ad arrivare ai lunghi dossier pubblicati dall’agenzia Op del giornalista Mino Pecorelli, informatissimo su ogni aspetto degli uomini delle istituzioni e di chi stava nell’ombra. Per il suo lavoro e per le informazioni che incamerava e spesso pubblicava, è stato ucciso, e il suo omicidio a Roma nel marzo del 1979 non ha ancora un colpevole.

[…] Gherardo Colombo […] disse che le riforme, anche quelle sulla giustizia, «sono ispirate dalla società del ricatto». […] «Nel metabolismo politico-sociale del paese ci sono ancora le tossine dei ricatti possibili e sono queste tossine che consigliano di realizzare le nuove regole della Repubblica non intorno al conflitto, ma intorno al compromesso». 

La tradizione italiana dello spionaggio e del dossieraggio illegale non si è fermata. Lo abbiamo visto attraverso centrali private d’intelligence, come quella gestita da Giuliano Tavaroli, all’epoca responsabile della sicurezza Telecom, accusato dalla procura di Milano di avere raccolto fino al 2005 migliaia di dossier illegali su uomini politici, imprenditori, banchieri, personaggi pubblici e privati cittadini. 

La struttura aveva stretto rapporti di collaborazione con uomini appartenenti a servizi segreti stranieri e italiani e si era strutturata come una multinazionale dello spionaggio privato che il giudice di Milano definì una «formidabile macchina per manovre e ricatti». 

Dossier illegali sono stati raccolti anche dentro i tradizionali apparati dello Stato. Nel 2006 emergono episodi d’accesso illegittimo nell’anagrafe tributaria realizzati da uomini della Guardia di finanza, per attingere informazioni poi utilizzate in una campagna di stampa contro Romano Prodi. 

Ma soprattutto viene scoperto un ufficio che collaborava con il Sismi, in via Nazionale nel centro di Roma, in cui venivano organizzate operazioni d’intossicazione informativa, anche attraverso il rapporto con giornalisti controllati, lusingati o tenuti a libro paga. In quell’ufficio, gestito da un funzionario di nome Pio Pompa, venivano conservati dossier su magistrati, politici, intellettuali, giornalisti, funzionari dello Stato: tutti catalogati come “nemici” dell’allora governo presieduto da Silvio Berlusconi per i quali veniva proposto di “neutralizzare” e “disarticolare”, anche con “eventi traumatici”, queste persone “nemiche”.

[…] In un Paese spiato da uomini infedeli alle sue istituzioni, ascoltato da centri illegali e privati di potentissime imprese, giocato da rivelazioni inventate […] appartenervi o esserne a capo significa disporre di […] potere […] […] A Roma è emerso alla fine degli anni Novanta un altro gruppo composto da ex agenti segreti, poliziotti e uomini vicini a Licio Gelli, il quale era riuscito a ottenere illegalmente piani di scorta di personalità, misure di protezione, mappe di località protette, piani di servizi di sicurezza, e poi truffe ed estorsioni ai danni di imprenditori, collegamenti con il mondo della finanza, in particolare quella francese e statunitense. La raccolta di notizie utilizzate per confezionare falsi dossier allo scopo di ricattare personalità come Luciano Violante.

E poi c’è l’intelligence deviata. A Napoli la Dia che si occupò di questa inchiesta la chiamò “operazione Nilo”. Venne arrestato un tenente colonnello dei carabinieri, un brigadiere dell’Arma, un maresciallo in servizio al Ros, un imprenditore, un funzionario del ministero del Tesoro. Erano accusati di aver dato vita ad una struttura di intelligence deviata, che serviva ad acquisire informazioni riservate da utilizzare per ricatti e pressioni […] Spaziavano dalle investigazioni illegali, comprese intercettazioni telefoniche, agli accertamenti bancari, all’accesso a fascicoli riservati, alla costruzione di falsi dossier ed all’inquinamento delle indagini. […]

E' necessaria la scienza e la coscienza del farmacista. Killeropoli, tre riflessioni per non finire all’inferno cadendo dal pero. Alessandro Butticé su Il Riformista il 4 Agosto 2023 

All’inizio del mese notoriamente con meno notizie, la stampa italiana, il 4 agosto, titola le prime pagine col solito clamore: “Macchina del Fango. La Repubblica dei dossieraggi” (Il Giornale), “La fabbrica dei ricatti” (La Repubblica), “Dossier riservati. Spiati oltre cento tra politici e VIP” (Corriere della Sera).

Non è mia abitudine commentare, da titoli e articoli stampa, indagini giudiziarie in corso. O che forse sono soltanto all’inizio. Se non per manifestare il mio rammarico per il continuo sbattere “il mostro” in prima pagina.

In questi giorni, “il mostro” sarebbe il luogotenente della Guardia di Finanza che avrebbe fatto diversi accessi alla banca dati delle Segnalazioni di operazioni sospette (Sos), il cui nome è stato già dato in pasto all’opinione pubblica. Contestualmente alla notizia della nuova sede ove è stato trasferito. Che io mi guardo bene dl ripetere. Perché è un “mostro” per il quale, assieme alla propria famiglia, vale la dovuta presunzione di non colpevolezza, che dovrebbe valere sempre per tutti. Anche nell’Italia giustizialista e del processo mediatico, che inizia sempre ben prima che un eventuale, e ipotetico, processo venga persino iniziato. In tale quadro, voglio quindi presumere, sino a prova contraria da dimostrare, che il sottufficiale non abbia fatto altro che il proprio dovere d’ufficio, quale ufficiale di Polizia giudiziaria a disposizione della DNA, la Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, organo giudiziario con giurisdizione nazionale.

Poiché non faccio parte, non solo degli sciacalli mediatici, ma neppure dei numerosi caduti dal pero, dopo ogni colpo di venticello mediatico, sento il dovere di ripetere alcune considerazioni che i miei lettori sanno aver fatto in diverse occasioni su Il Riformista (vedasi ad esempio: Carabinieri Piacenza: è davvero un bene che il comandante generale provenga solo dall’interno dell’Arma?, 31luglio 2020 e Carabinieri Piacenza: troppi censori cadono dal pero, 2 agosto 2020).

La prima, è che non c’è dubbio che l’Italia disponga di uno dei migliori sistemi investigativi contro la criminalità organizzata, ed in particolare economico-finanziaria, sia in Europa che nel mondo. Perché dotata di strumenti legali ed operativi, quali le nostre forze di polizia (Guardia di Finanza in testa), e giudiziari (come la DNA), di assoluto rilievo, e che sono invidiati dagli altri Paesi europei. I quali dovrebbero prendere molti dei nostri esempi positivi. Perché, come noto, la criminalità organizzata ed economico-finanziaria non conosce frontiere. Ed è sempre più pericolosa dove ci sono meno strumenti per combatterla, perché le permettono di agire discretamente e sottotraccia.

La seconda, è che le nostre forze di polizia, da anni, hanno vertici composti tutti da generazioni di generali e dirigenti cresciuti e educati alla cultura della legalità e della lealtà costituzionale. E questa è una garanzia importantissima per il nostro Paese. Perché, quando si dispone di armi nucleari (come i poteri di cui dispongono le nostre forze di polizia, in confronto alle fionde utilizzate in altri Paesi europei), per difendere libertà e democrazia del Paese bisogna avere la certezza assoluta che tali strumenti siano sempre nelle mani giuste. Cioè di generali e dirigenti la cui fedeltà e lealtà democratica ed istituzionale, oltre che la professionalità e l’equilibrio, siano sempre assoluti, ed al di fuori di ogni minimo dubbio.

La terza, è che, nell’assuefazione generale, dopo 30 anni di giustizialismo manettaro e guardone della privacy altrui, in Italia non ci si rende conto che, col pretesto della lotta alla corruzione, all’evasione fiscale, alle mafie ed al terrorismo, la china verso uno stato di polizia può diventare, improvvisamente, molto ripida. Dimenticando che le strade che portano all’inferno sono spesso lastricate di buone intenzioni. Comprese quelle della tolleranza zero verso corruzione, evasione fiscale e mafie varie. Se si dimentica che l’invasività dei nostri sistemi investigativi, utilissima per combattere fenomeni criminosi odiosi, non può mai essere al di fuori di ogni autentico, serio e costante controllo democratico, oltre che di legalità. Che non può cioè limitarsi a quello di una magistratura che, per quanto riguarda quella inquirente, svolge in Italia quello che in altri Paesi è svoltao dalla polizia, e dall’esecutivo.

E per evitare questa china, è necessaria la scienza e la coscienza del farmacista. Capace di usare quel bilancino che, universalmente, è anche simbolo della giustizia. Che deve potere e saper dosare, non solo le pene alle responsabilità, ma anche tenere nel giusto equilibrio due gruppi di interessi egualmente fondamentali per i cittadini, a volte contrapposti. Quelli della sicurezza e della legalità, da un lato. E quelli del rispetto dei loro diritti fondamentali e inviolabili, dall’altro. Compresi il rispetto della privacy, incluse la riservatezza della corrispondenza e delle conversazioni private.

Come è vero che una Tac total body, dopo un semplice starnuto, potrebbe fare diagnosticare un insospettato tumore all’alluce, è anche vero che intercettazioni telefoniche e accessi ai dati riservati a strascico qualche reato, sicuramente, potrebbero permettere di accertarlo.

Ma è pure vero che, così come il medico, prima di prescriverla, valuta sempre l’utilità ed il costo-beneficio della Tac, tenendo conto anche del costo e dei rischi da raggi assorbiti dal paziente, sarebbe anche ora che la Politica (quella con la P maiuscola, ovviamente, non quella di tangentopoli o delle battaglie giustizialiste) e la Giustizia (quella con la G maiuscola, non quella del ”sistema” raccontato da Luca Palamara) facciano le stesse valutazioni, in scienza e coscienza, prima di consentire, la prima, ed autorizzare, la seconda, accertamenti così altamente invasivi per le libertà individuali dei cittadini. Come l’accesso alle banche dati che custodiscono ogni dettaglio della loro vita.

Alessandro Butticé. Da sempre Patriota italiano ed europeo. Padre di quattro giovani e nonno di quattro giovanissimi europei. Continuo a battermi perché possano vivere nell’Europa unita dei padri fondatori. Giornalista in età giovanile, poi Ufficiale della Guardia di Finanza e dirigente della Commissione Europea, alternando periodicamente la comunicazione istituzionale all’attività operativa, mi trovo ora nel terzo tempo della mia vita. E voglio viverlo facendo tesoro del pensiero di Mário De Andrade in “Il tempo prezioso delle persone mature”. Soprattutto facendo, dicendo e scrivendo quello che mi piace e quando mi piace. In tutta indipendenza. Giornalismo, attività associative e volontariato sono le mie uniche attività. Almeno per il momento.

Il Domani tace, la Verità sposta il garantismo ultras. Killeropoli, la serie distopica italiana: la pesca a strascico e l’ombra di ricatti e trattative. Alessio De Giorgi su Il Riformista il 5 Agosto 2023 

Sembra una serie televisiva distopica, ma è l’Italia.

Ci sono una serie di banche dati delicatissime: i conti corrente, i bonifici in entrata e in uscita, le proprietà, la storia fiscale, tutto il passato con la giustizia, civile e penale. Tutto, o quasi tutto. Sono i tanto agognati dati che in una società digitale raccontano quasi tutto di ciascuno di noi e, se usati correttamente, permettono con efficacia di combattere una miriade di reati.

C’è un maresciallo della Guardia di Finanza che ne ha accesso in quella Direzione Nazionale Antimafia – la quale forse qualche domanda sulle sue procedure dovrebbe farsela – e che su quelle banche dati avrebbe fatto una pesca a strascico.

C’è una procura, quella romana, che indaga e che è costretta a passare la mano perché incappa in un suo magistrato sotto la cui responsabilità avrebbe operato il finanziere.

C’è un’altra procura, quella perugina, con un procuratore bravo e autonomo, che avoca l’inchiesta ma dalla quale esce tutto sui giornali, con il paradosso di una fuga di notizie su fughe di notizie.

C’è anche il principale partito di opposizione i cui esponenti – anche di minoranza – non sono riusciti in due giorni a proferire mezza parola su questa vicenda.

Ci sono due quotidiani nazionali che si sono distinti per pubblicare più volte questo genere di segnalazioni e che come il Domani in questi giorni con una punta d’imbarazzo parla d’altro o che come la Verità arriva al paradosso di sposare il garantismo ultras, difendendo il finanziere. Ci sono alcuni politici vittime tra cui il buon Crosetto che senza peli sulla lingua ieri si è domandato se esistano “pubblici ufficiali, pagati dai contribuenti, che diffondono indagini costruite ad arte, per infangare o procurare effetti e danni politici”.

E ci sono alcuni giornali, tra cui il nostro, che parlano anche di possibili ricatti o trattative. Perché è evidente che se le ricerche hanno riguardato oltre 100 nominativi, è anche possibile che in questi anni queste informazioni siano state utilizzate non solo come “killeropoli”, ma anche come motivo per avanzamenti o stop alle carriere fuori e dentro la magistratura. O come, per l’appunto, ricatti.

Insomma, l’Italia sta andando in ferie, ma questa serie tv distopica non ce la dimenticheremo nelle vacanze: aspetteremo con ansia la prossima puntata con l’assoluta certezza che sulle procedure per l’accesso ai dati serva far ordine. Da subito.

Alessio De Giorgi. Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva

L'inchiesta sul dossieraggio all'Antimafia. Killeropoli, Renzi: “Battaglia impopolare che conduco da anni. Autogrill, Open e Belloni, pagato prezzo personale altissimo”” Redazione su Il Riformista il 4 Agosto 2023 

“Spero che sia chiaro perché sto facendo da anni una battaglia su alcuni temi impopolari, rimettendoci tempo e denaro e pagando un prezzo personale altissimo”. Così Matteo Renzi, leader di Italia Viva e direttore editoriale del Riformista nella sua Enws in merito all’inchiesta, da noi denominata “Killeropoli“, della procura di Perugia sul presunto dossieraggio negli uffici della Direzione Nazionale Antimafia ai danni di politici, manager e personaggi noti.

“Chi ha letto “Il Mostro” non si stupisce più di nulla” osserva Renzi in riferimento al suo libro pubblicato nel 2022. “Non possiamo accettare che una valle delle nebbie condizioni la vita politica di questo Paese. E spero che sia chiaro perché in alcuni passaggi ho fatto scelte molto difficili” aggiunge.

Passaggi come “scrivere Il Mostro, in primis; denunciare alcune storture come sull’Autogrill e su Open; mettermi di traverso sull’elezione a Presidente della Repubblica della Direttrice dei servizi segreti”, ovvero Elisabetta Belloni, proposta nel gennaio del 2022 da Matteo Salvini e Giuseppe Conte.

“Quel gran genio di Leo Longanesi diceva: “Quando finalmente potremo dire la verità, non ce la ricorderemo”: vorrei evitare che ciò accada” osserva Renzi. Su Crosetto, la cui denuncia ha dato il là alle indagini, il leader di Italia Viva commenta: “La sua vicenda fa capire che ci sono strani intrecci tra mondi diversi: qualche redazione, qualche investigatore, qualche magistrato, qualche pezzo delle istituzioni pubbliche hanno lavorato insieme alla costruzione di dossier e soprattutto alla distruzione dell’immagine di qualche politico”.

Alberto Veronesi dirige bendato: "Licenziato perché anti-comunista". Alberto Veronesi su Libero Quotidiano il 18 luglio 2023

Di seguito, pubblichiamo un intervento del maestro Alberto Veronesi, dopo le polemiche nate dal suo gesto provocatorio di dirigere – nell’ambito del Festival dedicato a Giacomo Puccini di Torre del Lago (Lucca) - La Bohème con una benda sugli occhi, così da non vedere l’allestimento voluto dal regista francese Christophe Gayral, che ha ambientato l’opera nell’ambito del ’68 parigino, con tanto di pugni chiusi e Mimì in minigonna.

Il presidente del Festival Puccini, che ieri mi ha mandato una lettera di licenziamento (ufficialmente con la giustificazione ridicola che sarei arrivato in ritardo a una prova!!!!), ha gettato la maschera. Ha boicottato il concerto di inaugurazione dell’11 luglio, peraltro seguito da cinquemila persone, perché era prevista l’esecuzione dell’Inno a Roma, opera scritta da Puccini, mentre ha organizzato una Bohème dove i protagonisti fanno il pugno chiuso per tutta l’opera, questi non scritti da Puccini. E chi non si allinea, chi vuole proteggere Puccini, chi contesta le strumentalizzazioni come il sottoscritto, viene licenziato. Che cosa ne deduciamo? Che questo affezionato membro del Comitato Celebrazioni non intende celebrare Puccini, di cui probabilmente non frega nulla, ma celebrare la propria fede politica di sinistra. Ora, lo chiedo al ministero della Cultura: il finanziamento ai partiti è stato abolito, ma è giusto fare finanziamento all’arte che fa propaganda politica di partito? È giusto obbligare comparse e coristi ad alzare il pugno chiuso? Forse sì, ma allora devi organizzare anche una regia con idee opposte, perché se decidi di fare propaganda politica non puoi sottrarti alle leggi della par condicio. Il sottoscritto, che per manifestare il suo disappunto ha diretto l’opera ad occhi chiusi, come faceva Von Karajan peraltro, è stato dunque licenziato. Forse perché ha cercato di difendere Puccini e si è dissociato da una regia diversa da quella concordata? Il comunismo, sconfitto dalla storia e dalle elezioni, riemerge in forma coatta nella forma di una regia lirica. E con un presidente dittatore degno erede di Pol Pot.

(ANSA il 17 luglio 2023) "Mi presenterò al prossimo concerto, con il mio frac e la mia mascherina. Se non mi faranno dirigere chiederò i danni, anche quelli di immagine. Nel contratto non c'è la pregiudiziale di fiducia, non mi interessa avere la fiducia di questo presidente, il mio lavoro è dirigere e per farlo ho rinunciato a tante proposte in questi due mesi e mezzo, sollevarmi dall'incarico ora è un danno". 

Lo afferma Alberto Veronesi dopo che il Festival Pucciniano di Torre del Lago (Lucca) lo ha 'licenziato' come direttore delle prossime repliche della Boheme alla cui prima, venerdì scorso, si è esibito sul podio con gli occhi bendati per contestarne l'allestimento.

Fulvio Paloscia per “la Repubblica” il 18 luglio 2023.

Tre giorni fa, la lettera in cui la Fondazione Festival Pucciniano sfiduciava il direttore d’orchestra Alberto Veronesi dopo aver diretto la prima di Bohème, nel Gran Teatro di Torre del Lago, con gli occhi coperti da una benda. Un gesto di dissenso nei confronti del regista Christophe Gayral, che ha trasferito le avventure dei giovani e spiantati artisti nella Parigi del Sessantotto, del Maggio Francese. 

(...)

Per Veronesi, il “licenziamento” è «immorale», una «vendetta strumentalmente politica» nei confronti del suo repentino spostamento dal centrosinistra al centrodestra.

«Dietro, ci sono membri del cda che hanno perso le elezioni a Lucca, con la vittoria del centrodestra». dice. 

(...)

La Fondazione definisce «indecorosa » quella benda sugli occhi che ha provocato sonori dissensi da parte del pubblico. «Veronesi si è esibito in un pezzo di teatro comportamentale, in un’azione performativa che si è sovrapposta alla drammaturgia pucciniana, nuocendole davvero, al contrario della regia di Gayral » spiega il presidente, Luigi Ficacci. L’artista francese, già assistente di un regista star come Robert Carsen (che di opere attualizzate è un maestro) cosa dice a sua difesa? «Un allestimento tradizionale non parla più al pubblico che, dopo la pandemia, si è allontanato dalla lirica, e in Italia è necessario aggiungere le macerie culturali dopo 20 anni di Berlusconi. Dobbiamo fare dell’opera uno specchio in cui gli spettatori possano riflettersi».

Nel Sessantotto, aggiunge, «gli artisti sognavano di cambiare il mondo. Cosa ne è oggi di quella utopia»? Tranchant Veronesi. Che definisce la regia «comunista, contro il governo ». Ed in questa sua battaglia è supportato da Vittorio Sgarbi, che ha rivendicato come sua l’idea della “direzione bendata”: ieri il sottosegretario allo spettacolo è tornato a difendere il maestro invocando la Costituzione «che garantisce il dissenso ». Mentre giorni fa, nella conferenza stampa sul centenario pucciniano a Roma, sollecitato dal direttore d’orchestra (anche se La Bohème di Torre del Lago non fa parte degli eventi commemorativi) «e senza aver visto una prova dello spettacolo » aggiunge il regista, ha definito la lettura di Gayral «un bestemmia».

«Quella lamentela pubblica di Veronesi progettata ad arte per spingere Sgarbi alla polemica è uno dei motivi della rescissione del contratto e non il ritardo di 55 minuti alla prima prova d’insieme — spiega il presidente della Fondazione — indicato dal maestro come elemento scatenante. C’è stato un atteggiamento inquietante. Prima Veronesi ha chiesto di cambiare il cast ancora prima di iniziare le prove, poi l’ostilità alla regia il cui progetto era noto da febbraio, ci hanno spinto a chiedergli formalmente di tener al contratto.

Lui non ha mai risposto». E perché, se le idee di Gayral erano note sin da febbraio, Veronesi non ha dichiarato subito le sue perplessità? «Il regista ha disatteso gli accordi — risponde il maestro — Le sue indicazioni hanno preso una piega diversa nel corso delle prove, e troppo tardi per lasciare il podio. Il presidente di fronte alla mia richiesta di rispettare l’accordo su regia e scene, secondo cui non ci sarebbe stata nessun riferimento ideologico politico, mi ha risposto diffidandomi di parlare dello spettacolo». La benda sugli occhi? «Afferma la discriminazione dei teatri d’opera nei confronti dei direttori d’orchestra. Non si capisce perché si condannano con ammenda e detenzione quelli che imbrattano i monumenti, mentre sui registi che stuprano i capolavori della lirica tutti stanno zitti».

Quando «stecca» il direttore d’orchestra. Storia di Aldo Grasso su Il Corriere della Sera sabato 22 luglio 2023. 

«Non c’è alcuna espressione del potere più evidente dell’attività del direttore d’orchestra». In «Massa e potere», Elias Canetti dedica pagine memorabili ai compiti della direzione d’orchestra, come se ogni strumento rappresentasse un’idea che va armonizzata. Mi sono tornate in mente pensando alla risibile trovata di che ha diretto bendandosi gli occhi per non vedere una Bohème «sessantottina». O a che in Francia è stata stoltamente contestata «quale novella neofascista italiana» da, dice lei, «quattro gatti (e aggiungo miserabili) di sinistra» e ignorata dalle autorità per avere eseguito il pucciniano «Inno a Roma», caro al Duce. In «Prova d’orchestra» Federico Fellini si abbandona sconsolato all’allegoria: ogni orchestrale pensa a sé stesso, creando un frammentato e spesso interrotto aggregarsi di suoni, gesti, accordi, finché una enorme palla demolisce un muro della sala. Solo in una situazione d’emergenza, la prova d’orchestra cerca di ritrovare sinfonia nelle mani del direttore. Invano. Ci sono direttori carismatici che parlano poco ma sanno farsi ascoltare, altri invece strepitano e urlano per trovare un’unità organica. Per parafrasare Fellini, a volte l’orchestra è come un Consiglio dei Ministri inquieto e disarmonico in cui il direttore è condannato a ripetere: «Signori, da capo!».

Giuseppina Manin per corriere.it il 17 luglio 2023.  

Questo è un licenziamento ideologico. Non posso accettarlo. Mi presenterò a ogni recita. E se sul podio ci sarà un altro, chiederò i danni per lesa immagine”. La lettera con cui la Fondazione Puccini lo solleva dall’incarico di dirigere le prossime rappresentazioni di Bohème al Festival di Torre del Lago, non va giù a Alberto Veronesi, il direttore che il 14 luglio scorso, ha diretto La Bohème bendato, in segno di protesta contro le scenografie “sessantottine” scelte dal regista Christophe Gayral.

Le motivazioni del licenziamento?

Risibili. Sarei arrivato in ritardo a una prova. Non esiste che uno venga mandato via per questo”. 

Oltre al ritardo, ci sarebbero però altri cinque punti che le vengono contestati

Sciocchezze. Si dice che avrei fatto delle dichiarazioni prima dello spettacolo, e non è vero. Si parla di mancanza di fiducia. Che vuol dire?” 

Forse che dirigere con la benda sugli occhi per non vedere quel che succede in scena non è proprio regolamentare

Ma non è scritto da nessuna parte che presentarsi mascherati sia un crimine! L’ho fatto perché non volevo condividere lo sfregio di vedere il capolavoro di Puccini tra pugni chiusi e bandiere rosse”. 

(...)

La benda sugli occhi deve comunque aver creato non pochi problemi ai cantanti e agli orchestrali. Da qui l’accusa è di aver messo a repentaglio la serata

Anche Karajan dirigeva a occhi chiusi! E nessuno ha mai avuto niente da ridire”.

Paragone ardito

Perché? Non ho sbagliato una nota. Sfido a dire il contrario. La mia esecuzione può piacere o no ma è stata impeccabile. Le ragioni di tanto accanimento sono altre”.

Quali?

Ragioni politiche. In Toscana non hanno mandato giù che alle recenti elezioni di Lucca io abbia deciso all’ultimo di lasciare la lista Calenda per sostenere quella del sindaco di destra. Non me l’hanno perdonata, e adesso hanno preso la palla al balzo per farmi fuori”. 

Non solo la sinistra, anche Massimiliano Baldini, responsabile della Cultura della Lega in Toscana, la accusa di sceneggiata politica

Baldini ce l’ha con me da quando ci eravamo sfidati alle amministrative di Viareggio. Vecchi rancori”.

Certo che la sua posizione politica è quanto meno ondivaga, dal Pd al Terzo Polo, infine a Fratelli d’Italia

Eppure, da giovane sono stato un contestatore anch’io. Portavo i capelli lunghi e qualche pugno chiuso l’ho alzato come tutti. Non ho vissuto il ’68 per ragioni anagrafiche, ai tempi avevo 3 anni, ma poi ho militato nella sinistra. Sono stato anche espulso dal liceo per aver incitato a mettere una bomba sotto l’ufficio della preside”.

Filippo Facci, la Rai si arrende al soviet: cosa c'è dietro la decisione. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 18 luglio 2023

Dovevano essere I Facci Vostri ma rimarranno I Fatti Vostri, fino al Tg2 delle 13. I Fatti Vostri, storica trasmissione prima del telegiornale, verrà prolungata di un quarto d’ora per coprire il buco lasciato dai Facci Vostri, lo spazio quotidiano che da settembre avrebbe dovuto condurre il collega di Libero Filippo Facci ma che la Rai ieri con molto poco coraggio ha scelto di cancellare. La decisione, si legge nella nota di Viale Mazzini, è stata presa dall’amministratore delegato Roberto Sergio, «informata la presidente Marinella Soldi, d’intesa con il direttore dell’Approfondimento Paolo Corsini e, per i profili di sua competenza, il direttore generale Giampaolo Rossi». Secondo l’agenzia di stampa LaPresse la decisione era già stata presa l’8 luglio, il giorno in cui la sinistra si era scagliata contro Facci per l’articolo su Libero che parlava del caso del figlio minore di Ignazio La Russa, e della presunta vittima di violenza sessuale. Questa la frase incriminata: «Una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa».

VELENO DEM

Tra le prime a commentare, ieri, la dem Laura Boldrini: «L’unica cosa che doveva fare la Rai l’ha fatta. È stato assolutamente giusto. Più volte Facci si è esposto in maniera sessista e misogina. Chi offende le donne non può avere posto in Rai». Attacchi strumentali, spesso falsi come quello di un altro Dem, Sandro Ruotolo, come riportiamo nella pagina a fianco. Esulta anche la grillina Barbara Floridia, presidente della commissione di Vigilanza Rai: «Si tratta di un messaggio importante e positivo che l’azienda manda all’opinione pubblica anche visto l’impatto che la vicenda ha avuto e su cui io stessa ho ritenuto di prendere posizione nei giorni scorsi». Ognuno si appunta sul petto la medaglia, ma è una patacca di latta. Ancora, Floridia: «Il rispetto per le persone, la parità di genere e la lotta al sessismo sono princìpi che vengono prima di ogni altra cosa e su cui la Rai non poteva e non può derogare in nessun caso». Se ne esce così, il capogruppo al Senato di Verdi e Sinistra, Giuseppe De Cristofaro, che preside il gruppo (fritto) Misto, e pure lui fa parte della commissione di Vigilanza Rai: «Apprendiamo con soddisfazione la decisione di non mandare in onda la striscia quotidiana dell’editorialista di Libero Filippo Facci. I suoi commenti sul caso La Russa Junior erano incompatibili con il servizio pubblico radiotelevisivo». De Cristofaro rilancia: «Nel prossimo contratto di servizio come Alleanza Verdi e Sinistra proporremo emendamenti per una Rai inclusiva, attenta alle opportunità, alla lotta alla violenza di genere, al sessismo. Su Facci ha prevalso il buonsenso». E se lo dice Peppe De Cristofaro...

Intanto Facci risponde su Twitter ai follower: «Se avessi saputo come sarebbe andata, avresti scritto lo stesso articolo?». «Sì». Facci pubblica una foto di lui al mare. Tutti pensano che sia davvero in spiaggia (anche alcuni giornali), i gruppi di utenti armati e disarmanti della sinistra gli puntano il dito addosso (a luglio in effetti è una vergogna stare in spiaggia), ma in realtà la foto è del 2008. Gli odiatori lo provocano. Lui li sfotte. «Ora ti tocca vivere secondo i tuoi mezzi reali come tutti». «Coi miei mezzi tu campi trenta vite». Molti altri lo incoraggiano e criticano la Rai.

DIMENTICANZE

Irrompe il Codacons, l’associazione che difende i consumatori e che stavolta si spinge oltre: «Da subito abbiamo dimostrato la nostra contrarietà per la scelta della rete di affidare un programma a Facci, dopo le affermazioni pericolose e diseducative sul caso della presunta violenza ai danni di una ragazza. Frasi e comportamenti che sembrano rendere Facci incompatibile con gli obblighi e i doveri del servizio pubblico, e per tale motivo non possiamo che approvare la decisione della Rai di cancellare dal palinsesto la trasmissione che, lo ricordiamo, sarebbe stata finanziata dal canone». Andiamo avanti. La sinistra sbraita e finge di dimenticare gli insulti di Saviano alla Meloni, sempre sulla Rai. Saviano le ha dato della «bastarda». Nessuno a sinistra ha chiesto la testa di Saviano. Libero l’ha evidenziato subito. A sinistra nessuno ha risposto. Peccato, ci saremmo divertiti. Resta il fatto che la Rai è ancora roba di Pd e compagni vari. 

Così i profeti (a parole) della tolleranza zittiscono chi non la pensa come loro. Gli ultimi tentativi di censura contro Beatrice Venezi e il ministro Roccella. Francesco Maria Del Vigo l'11 luglio 2023 su Il Giornale. 

C'è un partito conservatore del quale non sentivamo alcun bisogno. Perché non vuole conservare valori, tradizioni o idee ma, molto più pedestremente, soltanto i propri privilegi. Attenzione a non cadere nell'errore di pensare che dietro questi fenomeni di isteria collettiva da collettivo rosso ci sia la difesa di un'ideologia: c'è soltanto la conservazione della propria personalissima casta creata molto probabilmente nel nome dell'anticasta, della propria piccola o grande rendita di posizione. L'interesse personale però, in questo caso, si salda indissolubilmente con la preservazione dello status quo, di quell'egemonia culturale e mediatica che da anni ammorba il dibattito nel nostro Paese.

Soltanto così si spiega l'attacco, violento e coordinato, nei confronti di Filippo Facci, colpevole - ufficialmente e quindi pretestuosamente - di aver scritto una frase opinabile e poco felice sull'affaire La Russa jr, ma soprattutto di non essere incasellabile a sinistra e, a dire il vero, nemmeno troppo a destra. Cosa che manda in tilt i gendarmi della dittatura del politicamente corretto e della monotonia che drammaticamente ne consegue. E quindi parte l'imboscata: Facci sessista, fascista, machista, troglodita (citazione del pacatissimo Calenda) e poi aggiungete a piacimento tutte le banalità fintamente buoniste che vi vengono in mente. Ma non era abbastanza, bisognava innalzare il livello dello sputtanamento. Così ieri pomeriggio, con sprezzo del ridicolo ma soprattutto dei propri lettori, Corriere.it e Repubblica.it hanno dedicato l'apertura delle proprie home page alla denuncia per stalking della ex del giornalista nei suoi confronti. Capiamo che è luglio, ci sono 35 gradi all'ombra e bisogna pur inventarsi qualcosa. Ma non è necessario avere la tessera da cronista professionista o avere frequentato le più illuminate scuole di giornalismo anglosassone per capire che si tratta di un agguato politico che non ha nulla a che fare con la notiziabilità dei fatti.

Ma l'ossessione dei mozzalingue progressisti non conosce confini e lo stesso metodo - cioè quello della censura fascista, come direbbero loro - si è abbattuto contro Beatrice Venezi, direttrice d'orchestra di fama internazionale e consigliera del ministero della Cultura. Il comune di Nizza le affida il concerto di Capodanno e dodici associazioni culturali (sic) scendono in piazza per impedire l'arrivo in Francia della «neofascista» (sic bis) Madame Venezi. E in Italia? Tutti zitti, non la difende nessuno a parte, ovviamente, gli esponenti della maggioranza. E le femministe che fine hanno fatto? Il loro «se non ora quando», caso strano, non arriva mai per le donne di destra. Così come non arriva la solidarietà del mondo dello spettacolo, della musica e della cultura in generale. La parola d'ordine è chiara: censurare tutto ciò che non appartiene alla sinistra, atteggiamento che si è disvelato in tutta la sua violenza anche due giorni fa a Polignano, con l'ennesimo tentativo di zittire la ministra Eugenia Roccella proprio sulla questione La Russa.

Perché bisogna serrare i ranghi, blindare il pensiero unico, sgambettare quello non conforme e conservare i privilegi racimolati negli anni. I profeti dell'accoglienza e della diversità sono i più allergici a chi è diverso da loro. Specialmente se è più bravo. 

La Rai cancella Saviano: il programma «Insider, faccia a faccia con il crimine» non andrà in onda. Antonella Baccaro su Il Corriere della sera il 26 Luglio 2023

Roberto Saviano è fuori dalla Rai: quattro puntate già registrate. La scelta motivata con il Codice etico. Via alle nomine di 30 vicedirettori 

Roberto Saviano è fuori dalla Rai. Il suo programma «Insider, faccia a faccia col crimine», quattro puntate, già registrate, previste da novembre su Raitre, non sarà mandato in onda. È quanto annuncerà oggi l’amministratore delegato dell’emittente pubblica, Roberto Sergio, dopo aver preso atto di alcune affermazioni rivolte, di recente, dallo scrittore al vicepremier Matteo Salvini, rispetto alle quali Forza Italia ha presentato un’interrogazione in commissione di Vigilanza Rai, chiedendo la sospensione del programma.

 Alla base della decisione assunta in viale Mazzini nelle ultimissime ore, ci sarebbe la considerazione che il linguaggio usato ripetutamente dal giornalista non sarebbe compatibile con il Codice etico cui s’ispira il servizio pubblico.

Così, dopo Filippo Facci, l’editorialista di Libero la cui striscia quotidiana, programmata per settembre, è saltata a causa di alcune espressioni inadeguate usate sul caso La Russa jr, ora tocca a Saviano. E se l’allontanamento del primo aveva fatto esultare l’opposizione, ora l’esclusione del secondo dovrebbe tacitare la maggioranza. Ma in Rai preferiscono non considerare la cancellazione dell’autore di Gomorra come un regolamento di conti, quanto piuttosto come l’applicazione di uno stesso principio. Un principio che Sergio intenderebbe continuare a applicare: di chiunque si tratti. Con la segreta speranza probabilmente che questo serva ad abbassare i toni e a sottrarre la Rai al ruolo di terreno di scontro politico quotidiano.

Un risultato davvero difficile da cogliere. Anche ieri è infuriata la battaglia intorno alla nomina dei 30 vicedirettori di Tg1, Tg2, Rai Parlamento, Giornale Radio, Rai Sport e RaiNews24, che sono stati presentati in consiglio di amministrazione e che hanno visto la promozione di 17 donne.

 Nella trattativa che ha preceduto la riunione, il centrodestra ha fatto intendere alle opposizioni che avrebbe rivendicato per sé la maggioranza dei posti disponibili, finora detenuta dagli avversari. Un rimescolamento che ha favorito i grillini, saliti, sulla spinta del duo Conte-Casalino, da due a cinque direzioni. Ma ha svantaggiato il Pd che ha dimezzato i propri numeri. Così adesso il partito di Elly Schlein lamenta che, avendo potuto indicare un solo nome al Tg1 (a parte Costanza Crescimbeni considerata però in quota Renzi) e avendo proposto quello di Elisa Anzaldo, si è visto cassare Maria Luisa Busi (che però, secondo gli accordi, sarà recuperata in un ruolo equivalente) e Gian Marco Trevisi (già portavoce di Enrico Letta), che pure sosteneva, alla Radio. 

Intanto la Lega piazza i suoi e al Gr1, guidato da Francesco Pionati, arrivano volti come Monica Setta, Roberto Poletti e l’ex presidente della Rai, Marcello Foa. Ma anche per Peter Gomez, in quota grillina, spunta un ruolo da analista.

In cda i neodirettori hanno illustrato il piano editoriale. Quello di Gian Marco Chiocci (Tg1), basato su una rivoluzione che metterebbe in soffitta i classici «pastoni politici» e «panini» e punterebbe sui social, ha riscosso il plauso anche del consigliere indipendente Riccardo Laganà. Questi ha contestato invece l’affidamento della prima serata del martedì, lasciata da Bianca Berlinguer, a Nunzia De Girolamo, perché la scelta «priverebbe la Rai di un talk politico presente su tutte le altre reti». Infine il direttore del Tg3, Mario Orfeo, sarebbe intenzionato ad affidare a Monica Giandotti la conduzione di Linea Notte, lasciata da Maurizio Mannoni.

Da lapresse.it mercoledì 26 luglio 2023.

“La mia epurazione come gli ‘editti bulgari’ del passato? Il dubbio viene“. Così a LaPresse Roberto Saviano, commentando la decisione della Rai di non trasmettere più il suo programma ‘Insider – Faccia a Faccia con il crimine’ che sarebbe dovuto andare in onda a novembre. In merito al fatto che alcuni rappresentanti del Centrodestra abbiano accolto con favore il taglio del suo programma, facendo un parallelo con il caso Facci, Saviano afferma: “Facci ha attaccato una persona inerme per difendere il potere. Io ho attaccato il potere. Non vedo molti punti di contatto”. Poi rimarca: “Prima ti massacrano di processi, poi ti impediscono di lavorare. Questa Italia fa paura”, aggiunge lo scrittore.

Saviano esclude che il suo programma possa essere trasmesso da un’altra rete che non sia Rai: “Non è possibile, è già stato registrato e appartiene alla Rai che ha deciso di censurare un programma antimafia lo stesso giorno in cui Salvini attacca don Ciotti, è evidente da che parte stia il governo, no?”, dice lo scrittore. Saviano poi conclude in latino: “‘Nihil humani a me alienum puto'”.

“In questa Rai resterà solo Peppa Pig…”, commenta ancora Saviano a LaPresse. “Suggerisco all’ad Roberto Sergio di prestare la dovuta attenzione alle gravi violazioni del codice etico di Bruno Vespa quando intervistò Lucia Panigalli, vittima di violenza. Di Barbareschi a proposito dei gay all’inaugurazione di una mostra a Sutri e di De Girolamo che disse che a Scampia le donne avrebbero smesso di spacciare droga e iniziato a spacciare l’utero. Mi fermo qui perché altrimenti in questa Rai resterà solo Peppa Pig. Allo stesso modo suggerisco a Montaruli di portare i casi di Vespa, De Girolamo e Barbareschi in Vigilanza Rai. Se costoro resteranno in palinsesto, come del resto mi auguro, vorrà dire che la decisione della mia epurazione non è aziendale ma politica”, aggiunge Saviano.

Macché censura, Saviano è vittima di sé stesso. Prima a sinistra andavano in cerca di fascisti e facevano cacciare i “nemici” Ora si stupiscono perché il codice etico viene fatto valere pure per loro. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 28 luglio 2023

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

C’è Roberto e Roberto. In Roberto Sergio, amministratore delegato della Rai, convivono: la corpulenza del servizio pubblico, l’astuzia della vecchia Dc e il rigore del manager che danza tra esigenze contrattuali e svolgimento di una funzione pubblica esercitata con «disciplina e onore»: roba forse polverosa, ma prevista dalla Costituzione all’articolo 54.

Sergio ha, di fatto, re-imposto alla tv di Stato un perduto «codice etico» a interpretare estensivamente i doveri dei dipendenti pubblici. Può piacere o non piacere, ma così è.

Sicché quando l’altro Roberto, il Saviano, scrittore ormai dedito all’affaticata caccia ai fascisti immaginari, ha continuato a ribadire e, soprattutto, a rivendicare gli insulti verso «Salvini ministro della mala vita»; be’, ovvio che, alla fine, pure il doroteo Roberto, il Sergio, si sia incazzato. Sollecitato da una levata di scudi del centrodestra (sollecitato a sua volta da Libero), l’ad della Rai ha dunque cancellato dal palinsesto di Raitre la trasmissione di Saviano, Insider, faccia a faccia col crimine. Il motivo è di una banalità tecnico-aziendale e «non politica» ha affermato Sergio al Messaggero, «abbiamo trovato un’azienda demoralizzata e preoccupata. Il rapporto con la politica? La Rai non può esimersi, è importante che la politica non la condizioni». Per Sergio la Rai non è un insieme di programmi, è una postura istituzionale. Sicché, dopo il precedente della soppressione del programma di Filippo Facci per un articolo su Libero considerato sessista attorno al caso LaRussa jr, l’ad della Rai non poteva evitare di far fuori Saviano. 

IL SOLITO EMBOLO Al quale Saviano è ovviamente partito il solito embolo.

E, con usuale propensione martirologica, lo scrittore ci ha dato dentro, elargendo espressioni del tipo: «Facci ha attaccato una persona inerme per difendere il potere. Io ho attaccato il potere. Non vedo molti punti di contatto» (e qui emerge un paradosso: se Facci difende il potere, perché allora l’hanno fatto fuori?); o «hanno elaborato un codice etico che risponde ai desiderata di Salvini» (quest’ossessione di Salvini non è più Freud, ma Lacan, bisognerebbe mettergli alle costole lo psicologo Massimo Recalcati); o «la decisione è politica». Ma la decisione non è affatto politica.

O meglio, è politica solo nella misura in cui la politica, nelle sue profonde contraddizioni, continui ad aleggiare attorno alle decisioni del settimo piano di Viale Mazzini. A cotè, il solito tappeto sgualcito di dichiarazioni- slogan dall’opposizione. La Schlein spara: «Il governo Meloni riesce ad attaccare Don Ciotti da sempre impegnato nel contrasto alla criminalità organizzata e cancellare quattro puntate di Insider (già registrate) contro le mafie di Roberto Saviano come vendetta perché è saltata la striscia di Facci», senza specificare che chi ha fatto saltare Facci è lo stesso ad che ha cancellato Saviano. L’ad che ha pure mantenuto in palinsesto tutti i programmi dei conduttori di sinistra assegnandone perfino qualcuna ai 5 Stelle.

Michela Murgia rincara la dose: «Nessuno era così ingenuo da pensare che avrebbero mai dato una trasmissione nuova a Saviano col nuovo corso fascista in Rai». Nicola Fratoianni ringhia: «È un continuo di decisioni che andranno ad affondare la maggiore industria culturale del Paese, ad insultare milioni di telespettatori del nostro Paese». Ma il sinistro Fratoianni non articola su quali siano le decisioni che precipiterebbero nell’apocalisse una Rai strappata per i capelli alla morte clinica di piani industriali inesistenti, palinsesti lasciati al destino, contratti di servizio mai confermati. Cioè: dall’opposizione prima sollecitano la cacciata di Facci per un «reato d’opinione». Poi, però, toccati i loro per lo stesso motivo, invocano l’epurazione e persino la volontà di «cancellare programmi sull’antimafia»; con l’ex magistrato grillo Cafiero de Raho, a chiedere l’intervento proprio della Commissione Antimafia. Cose così, di un surralismo spiazzante e, finanche, fascinoso.

DEGNITÀ DI STATO La vera verità è che questa Rai non riesce a produrre i bei martiri di una volta. Non si riescono più a creare i Luttazzi e i Santoro; gli editti bulgari appartengono alla storia. Lo stesso Facci non è felice della cacciata di Saviano perchè «sono due voci in meno». E qui due sono le scuole di pensiero. Per la prima ogni opinione, anche la più inopportuna, in Rai non dev’essere soggetta a regole. Perla seconda le regole sono la cifra di un modello culturale. Sergio ha scelto la seconda. La dignità e la degnità del servizio pubblico. Se ha fatto bene si vedrà, ma è una scelta da rispettare.

 “È neofascista”. A Nizza censurano la musicista Venezi. Associazioni e comitati di sinistra chiedono di annullare l’invito al direttore d’orchestra italiano. Max Del Papa su Nicolaporro.it il 10 Luglio 2023

Breve premessa minima. Il cronista, anche in tempi burrascosi, dovrebbe mantenere quel filo di distacco, magari ironico, britannico, dalle cose che racconta, se no lo fraintendono, lo iscrivono d’ufficio a questa e quella parte (anche se non frequenta nessuno e si fa i fatti suoi), lo chiamano esagerato. Così gli viene consigliato al cronista, da immemori dei grandi insofferenti del passato, come Giovannino Guareschi. Solo che questi non sono tempi burrascosi, sono tempi da ricovero coatto e, siccome anche il cronista è fatto di sangue, nervi e di quella faccenda che non si può afferrare ma c’è e si chiama “anima”, finisce che, davanti a certe bestialità monumentali, gli scappano i cavalli. Eccone una, ovviamente da Repubblica, what else? “Francia, ‘No alla neofascista Beatrice Venezi’. Comitato di Nizza chiede di annullare il concerto della direttrice d’orchestra”.

Bene. Ditemi voi come fa uno intellettualmente appena onesto a non dare di matto: un comitato di esagitati nizzardi vuol democraticamente vietare a un direttore d’orchestra di tenere il concerto di Capodanno, tra 5 mesi e mezzo, considerandola d’autorità una camicia nera con la bacchetta. Chi c’è al comitato di Nizza, l’Anpi? Ma andiamo avanti. “Dodici associazioni e comitati antifascisti e per la democrazia della città di Nizza chiedono al comune e al teatro dell’Opera della città francese che il concerto diretto da Beatrice Venezi, previsto per il prossimo Capodanno, venga annullato. La consigliera per la musica del governo Meloni guiderà l’Orchestra sinfonica nel concerto di Capodanno. “Separare musica da politica”, commenta l’Opéra della città francese. Ad aprile era stata contestata a Limoges”.

Perché al cronista scappano i cavalli, e anche qualche moccolo (niente paura: Casarini a forza di smadonar in Veneto è arrivato fino al Sinodo)? Perché, semplicemente, le cose storte non gli sono mai andate giù e qui più che storte sono schifose: c’è tutto che non va, c’è una malafede che è grande come la via Lattea; e c’è, volendo, la malafede spicciola, microbica di Repubblica che, quando le comoda, adotta l’aplomb dei nudi fatti, tanto parlano quelli e assecondano la sua visione, che è scorretta al limite del pusillanime. Impedire a un’artista di esibirsi nel nome della democrazia. Farla cacciare in quanto “neofascista” pontificando la separazione della musica dalla politica: che pena, davvero, davvero comunista. Davvero lingua di legno, degna delle peggiori infamie sovietiche.

Quella propensione a mentire, sempre, come si respira, e mandare a morte chi non si adegua. Quella smania di censura, di epurazione che nasconde squallidissime ragioni di bottega, vendette personali, volgarità morali da abisso. Tutto molto comunista, tutto molto disgustoso. Questa Beatrice Venezi è certamente una che si piace, che sa cavalcare la notorietà, che sa curare le pubbliche relazioni; qualcuno la considera più bella che adatta a dirigere un’orchestra, altri scommettono sulla sua preparazione (Morgan non fa testo, fa solo a testate con l’arte), ma il punto non è questo, anche se dovrebbe essere solo questo: uno, una, non la contesti su un palco se non per motivi squisitamente artistici: o è brava o non è in grado, fine della storia. Non la neofascista, aderente a un partito neofascista: che poi, udite udite, sarebbe Fratelli d’Italia, la cui leader in otto mesi ha confermato di essere meno a destra di tanti di sinistra.

Ovvio che tutta questa strampalata operazione sia un pretesto per creare fastidi e per rinfrescare quella expertise militante che ormai fa solo pena. La Venezi venne a tenzone con la Monica Cirinnà, ed è tutto dire, coi collettivi femministi, con le esagitate che le contestavano la percezione, “io non sono una direttora o direttrice, io sono un direttore d’orchestra”: “Ah!, avete visto, ce l’ha col gender, è transofoba, una donna che si sente una donna e si fa chiamare direttore, bisogna farla fuori!”. E dove va a suonare, immancabilmente l’accolgono con gli strepiti bavosi di Bella Ciao, Bandiera Rossa, l’Internazionale. Ecco, il livello è questo; è sempre questo. Allora, il cronista ce li ha o non ce li ha i suoi motivi per incazzarsi di conseguenza? A prescindere dalla politica che proprio non gli interessa?

Qui non è questione di ricamarci sopra col filo dell’ironia, non ce la si può sempre cavare così, ci sono cose naturalmente ridicole, che si prestano allo sberleffo, e ce ne sono altre che fanno semplicemente schifo e allora lo dici, non te lo tieni in gola questo schifo. Giorgia Meloni è piena di consiglieri e consigliori, tutti hanno qualcosa da proporle, spunti, bisbigli, suggerimenti, chi scrive non è della fitta schiera e non ha mai consigliato un potente in vita sua anche perché non ne ha mai frequentato mezzo, neanche per procura. Però una cosa alla leader, se mai ci leggerà, chi scrive si sente di rivolgerla. Noi vediamo che la nostra premier si spolmona a viaggiare per il mondo, cercando di tessere alleanze e magari anche per il sollievo di restare lontana da una compagine ministeriale che a volte, ipse dixit, a Sallusti, brilla per coglionaggine: sono scelte, coraggiose, discutibili, condivisibili, adattabili, ma, può crederci, se ne faccia una ragione: può anche fare il giro del mondo in 80 volte, non la accetterano mai e non perché neofascista, una menzogna cui non crede per primo chi la erutta. Ma perché la considerano una usurpatrice, il potere è loro e l’insegnamento leninista e staliniano li porta sempre ad agire nella più sporca malafede.

Con i nizzardi, i francesi, i tedeschi che fecero cascare Berlusconi via finanza e via Ue, con la stessa Unione, che sta sopra, sotto e dentro tutto questo sconcio, non si ragiona: loro odiano e giocano sporco e basta. E, se possono, prendono pure un direttore d’orchestra con la gonna per fare del male. Con la gonna che sia donna, questo dev’esser chiaro: si fosse trattato di una direttora con la gonna con sotto la bacchetta da 20 cm, allora tutto andava a posto e, dato il caso specifico, si poteva soprassedere, si poteva cercare altro. W la Venezi!

Max Del Papa, 10 luglio 2023

Nemmeno un box, un colonnino, una foto notizia. Perché Repubblica censura le motivazioni della condanna di Davigo: meglio non girare il coltello nella piaga. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 5 Luglio 2023

La notizia non c’è. Nemmeno un box, un colonnino, una foto notizia. Nulla.

In 40 pagine di giornale, ieri, Repubblica non ha trovato lo spazio per dare la notizia del deposito delle motivazioni della sentenza con cui il tribunale di Brescia ha condannato il mese scorso ad un anno e tre mesi di prigione per rivelazione del segreto d’ufficio Piercamillo Davigo.

Repubblica è lo stesso giornale che ultimamente, un giorno sì e l’altro pure, intervista magistrati di ogni ordine e grado, in servizio ed in pensione, per criticare la riforma della giustizia voluta da Carlo Nordio. Ed è anche il giornale che, a maggio del 2019, fece lo ‘scoop’ pubblicando, con le intercettazioni in atto, quelle dell’hotel Champagne, determinando poi, come hanno riportato nella sentenza i giudici bresciani, i contrasti fra lo stesso Davigo ed i componenti del suo gruppo, Autonomia&indipendenza, ad iniziare da Sebastiano Ardita, poi risarcito con 20mila euro.

Strano modo di concepire il giornalismo dalle parti di largo Fochetti: si pubblicano atti coperti dal segreto e non si pubblicano le sentenze emesse nel popolo italiano.

A parziale giustificazione, va ricordato che Davigo è stato spesso intervistato da Repubblica. Meglio, allora, non girare il coltello nella piaga. Paolo Pandolfini

La sentenza Davigo e i giornalisti d’inchiesta: una storia ridicola. Dimenticanze, documenti nascosti, secretati, desecretati, esposti, prestati, spariti... cellulari inumiditi. Dichiarazioni da commedia. Malafede o ignoranza? Iuri Maria Prado su L'Unità il 5 Luglio 2023 

Anche chi non sia del mestiere può leggere senza problemi le centoundici pagine della sentenza del tribunale di Brescia che motivano la condanna inflitta, per rivelazione di segreto d’ufficio, al dottor Piercamillo Davigo. È una lettura di interesse non tanto per il ragionamento che ha portato il collegio giudicante a ritenere il dottor Davigo responsabile di aver commesso quel delitto, ma per la rassegna di strepitose circostanze che contornavano il ciclone degli accadimenti. Viene in mente quella pagina delle Memorie di Adriano: “…baci furtivi sulle scale, sciarpe fluttuanti sui seni, commiati all’alba, e serti di fiori lasciati sulle soglie”.

Solo che qui si stava sulle scale, anzi “nella tromba delle scale”, e a rendere memorabili i giudiziosi accoppiamenti non c’erano gli ardori dell’amante “che stordivano come una melodia frigia”, ma gli occhioni celesti e il profilo post-vaffanculo del presidente della Commissione antimafia, senatore Nicola Morra, il quale riceveva le illecite confidenze del dottor Davigo per poi sentirsi dire in sentenza (era testimone) che “non ha brillato per capacità comunicativa”, povera stella, coi giudici impietosamente incattiviti sulla “sospetta insipienza” dimostrata dal teste nel non rispondere in modo chiaro alla domanda ovvia, e cioè se il conciliabolo con il dottor Davigo fosse avvenuto in via amicale o istituzionale. Ed evidentemente lo sventurato, rispondendo in quel modo, cioè non rispondendo, dimenticava ciò che aveva dichiarato in precedenza (“In quel momento non parlavo con lui – vale a dire con Davigo, n.d.r. – nella mia veste di Presidente della Commissione Nazionale Antimafia e il colloquio aveva carattere privato”).

Altro che sciarpe fluttuanti, qui frusciavano le veline dei verbali prima inguattate e poi disseminate in favore dei confidenti, quelle che si potevano rammostrare al Csm perché non c’era il segreto – questa la tesi della difesa – e quelle che invece si potevano ostentare al suddetto Morra perché, lui sì, era… “tenuto al segreto”. E qui in effetti il lettore comune perde il filo, perché non capisce più come funzioni questa storia del segreto: che non c’è quando si tratta di divulgarlo ad alcuni, ma che ricompare per trasferimento in tromba di scale per vincolare non già chi lo divulga, bensì chi lo riceve, vale a dire Morra: che però dice di sé stesso di non essere lì come presidente dell’Antimafia, cioè il soggetto pretesamente tenuto al segreto, ma in veste di non si sa cosa. E dice pure, Morra, che Davigo non gli aveva riferito che i verbali erano secretati. Doveva essere sottinteso, boh, vai a capire.

E sugli usci, poi, non serti di fiori, ma ancora quelle veline, finite in impreveduto svolazzo alle porte delle redazioni e delle residenze private del giornalismo d’inchiesta – scelto a caso, come vedremo tra poco – il quale però, per per una volta, non le pubblicava immediatamente (prima era meglio chiedere consiglio). C’è per esempio questo Antonio Massari, del Fatto Quotidiano, anche lui testimone. Il presidente del tribunale gli domanda se “i giornalisti avevano legami con personaggi che gravitavano intorno al Consiglio Superiore”, e quello risponde che “ha dei contatti, come è giusto che sia, però le fonti sono sempre state riservate”. Peccato non sapere se ci sono giornalisti che lavorano sulla scorta di contatti con personaggi gravitanti intorno al Csm. Mica è necessariamente illecito, figurarsi, ma il lettore (abbiamo il “dovere” di informarlo, giusto?) potrebbe essere interessato a sapere se il Consiglio Superiore della Magistratura è il centro di un sistema satellitare che organizza lo smistamento dei “plichi anonimi” di cui parla la sentenza. Macché.

Poi c’è quest’altra, Liana Milella, di Repubblica, testimone a sua volta e anch’ella destinataria di quei plichi, il cui invio era stato preannunziato da una telefonata anch’essa anonima: una voce di donna con accento settentrionale (impagabili le pagine della sentenza che indugiano sulle abilità della giornalista di “distinguere una voce del nord da una voce del centro e una voce del sud”). Milella riceve l’incartamento, cioè il pacco di veline, accompagnato da una lettera che sparla del procuratore della Repubblica di Milano e del procuratore generale della Cassazione: e che fa? Dice che si sente “prigioniera di un segreto”: e allora porta il plico alla Procura di Roma, conservando tuttavia “una copia degli atti”.

Poi evidentemente qualcosa o qualcuno sprigiona la giornalista dal segreto che ne raggelava gli intendimenti, e lei decide allora di passare le veline (così almeno dice la sentenza, pag. 53, riga 8 e seguenti) a uno notoriamente abituatissimo al riserbo assoluto e totalmente estraneo anche al sospetto di qualche eccentricità nell’interpretazione delle funzioni consiliari: tale Luca Palamara. E qui il solito lettore un po’ tardo capisce che il segreto che ti sconsiglia di pubblicare la notizia è lo stesso che ti induce a passarla a quello che i giornali, tra i quali il tuo, definiscono come il protagonista del più grande scandalo giudiziario della storia repubblicana.

Poi la sentenza si intrattiene sui fatti mirabili di cui già scrivemmo qui: le chat irrecuperabili perché il cellulare ha preso umidità e il dottor Davigo se lo fa cambiare dal concessionario Apple che esegue il backup di tutto, ma non di quei messaggi (porca vacca!); i file nelle chiavette Usb, che però “si perdono sempre”, ma attenzione: i documenti non ci sono nemmeno se le chiavette non si perdono, perché vengono cancellati “per fare spazio”; le email introvabili perché gli account vengono soppressi nella cessazione dei ruoli giudiziari e istituzionali dell’imputato.

È lo “sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici, pen drive ed indirizzi di posta elettronica” di cui parla la sentenza, la strana “morìa dei possibili elementi di riscontro” che il tribunale ritiene “ragionevolmente prossima” alla perquisizione subita dalla collaboratrice del dottor Davigo. Una vicenda, quest’ultima, che i giudici bresciani hanno ritenuto di non rimettere all’attenzione di “altre Autorità Giudiziarie” per gli accertamenti di ragione. E per noi bene così. Ma chissà per il giornalismo d’inchiesta.

Iuri Maria Prado 5 Luglio 2023

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 30 marzo 2023.

Fermi, è satira. Tanto lo sappiamo tutti che la satira non esiste più perché la realtà l’ha superata nei primi anni ’90, quando i titoli di Cuore e de l’Indipendente presero a equivalersi, lo sappiamo tutti che non esiste più una differenza sostanziale tra sàtiro e comico, tra cronaca e opinioni e tra informazione e intrattenimento: esiste solo una galassia generica chiamata «comunicazione» dove ciascuno traccia nuovi confini solo quando toccano i suoi amici.

Una cosa fa schifo o no indipendentemente dalla sua denominazione, e il discrimine è personale oppure (rieccoci) è operato da una giurisprudenza fatta di gomma.

 Se vi frega, il mio discrimine è questo: 1) I Vauro, i Mannelli – miglior disegnatore italiano, secondo me- e persino i Calderoli - che dicono «orango» a chicchessia- facciano come vogliono: la gente giudica, se ne fai un caso hanno vinto;

2) i Travaglio che scrivono editoriali dove offendono per dei difetti fisici (contro i Ferrara, i Brunetta, i Giordano ecc.) e poi in tribunale rivendicano il «diritto di satira», beh, fanno schifo sempre;

 3) Il genere tribunizio e requisitorio che però invoca immunità satirica e l’articolo 21 (stile Sabina Guzzanti o Luttazzi, decollati e declinati col grillismo) va trattato come ogni forma di comunicazione, in tribunale o fuori: perché è vero, la satira non si processa, ma che cosa sia o non sia, la satira, non può stabilirlo solo chi dice di farla.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 29 giugno 2023.

Chiuse le scuole dell’obbligo, aprono quelle facoltative. Almeno per noi del Fatto, che riceviamo ogni giorno autorevoli lezioni su come fare il giornale. Cioè possibilmente come gli altri: senza notizie né domande per non disturbare il manovratore. E niente vignette o battute, sennò il prof di turno non le capisce e bisogna spiegargliele con un disegnino (o con un’altra vignetta)..... 

Ieri al corpo insegnante s’è aggiunto un cattedratico di chiara fama: Paolo Mieli, figura mitologica che unisce il giornalista e lo storico, ma sempre per insufficienza di prove. Indovinate di che parlava su La7? Del Fatto. 

Speravamo che avesse finalmente le prove di ciò che disse tempo fa su La7 in nostra presenza: “Quando è arrivato Draghi, ha trovato che Conte e Arcuri avevano acquistato mascherine per 763 settimane, cioè per 14 anni e mezzo, da qui al 2035!...

Sarebbe legittimo qualche dubbio, ove mai fosse vero che Draghi e Figliuolo han trovato nei loro magazzini 14 anni e mezzo di mascherine? Un giorno faremo i conti”. Ma purtroppo quel giorno non arriva mai: neppure ieri Mieli ha voluto svelare dove siano stoccate tutte quelle mascherine, che dovrebbero occupare l’intero Molise. 

Il giornalista e storico ce l’aveva col Fatto perché si permette di scoprire notizie sulla ministra Santanchè (da lui morbidamente intervistata in una rassegna diuretica a Capri) e financo di pubblicarle in prima pagina: “Leggo i giornali stranieri. E siamo l’unico Paese al mondo in cui c’è un giornale, il Fatto, che invece di aprire con la Russia, apre con Santanchè. È bizzarro”.

Ma tu guarda: un giornale italiano, dopo aver aperto sul fallito golpe in Russia finché c’erano fatti degni di nota, si permette di dare notizie che tutti gli altri riprendono su una ministra del governo italiano. Notizie che, fra l’altro, sono pure vere. Dove andremo a finire.

L'arte soffocata. Storia della censura della Dc ai film: da Brando a Pasolini tra tagli, sequestri e repressione. Nella Penisola si è scatenata la polemica contro la fatwa scagliata da Putin su due opere Lgbt italiane. Ma nel cinquantennio dell’egemonia democristiana sono state mutilate decine di capolavori. Chiara Nicoletti su L'Unità il 2 Luglio 2023 

È difficile non ricordare la fine del film premio Oscar Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore e il suo protagonista, da solo nella sala cinematografica, a guardare il contenuto della bobina di pellicola che il suo amico Alfredo (Philippe Noiret), il proiezionista del paese dov’è nato, gli ha lasciato prima di morire: un montaggio di tutte quelle scene che erano state censurate dalle proiezioni del cinema di quartiere, per volere del parroco.

Baci su baci che emozionano, commuovono e ricordano la magia delle immagini in movimento. Il bianco e nero di quelle scene e l’ambientazione di quel film fanno pensare a qualcosa di lontano, un mondo antico le cui regole ferree, come quella della censura, erano retaggio di un’epoca o soltanto di un paesino chiuso e retrogrado. È invece notizia di pochi giorni fa, proprio a chiusura del mese del Pride che il garante delle comunicazioni della Russia di Putin ha ufficialmente attaccato e multato due prodotti italiani come la serie Made in Italy con Margherita Buy e il film campione di incassi di Paolo Genovese, Perfetti sconosciuti, perché violavano la “legge sulla propaganda Lgbt” che vieta di promuovere in pubblico “rapporti sessuali non tradizionali”.

Nel primo caso, la serie ambientata nella Milano della moda negli anni 70, mette in scena una relazione gay tra due personaggi, il grafico di una rivista (Maurizio Lastrico) e un modello (Saul Nanni). Nel secondo, come tutti ricordiamo, verso la fine della cena scopri-segreti, il personaggio di Giuseppe Battiston confessava finalmente la propria omosessualità agli amici di una vita. I distributori russi di entrambe le opere sono stati accusati di violazione delle norme sulla “tutela dei minori dalle informazioni dannose”. Duole constatare che tutto ciò sembrerà assurdo e inconcepibile soltanto a chi, in Italia, ignora o ha semplicemente dimenticato che la censura nei confronti dell’audiovisivo è cessata di esistere nel nostro paese nel vicinissimo 2021 per mano di un decreto firmato da Dario Franceschini e che i vari governi italiani, in primis quelli del cinquantennio 1944-1994 dominato dalla Democrazia Cristiana, hanno fatto spesso uso della cesoia per deturpare, modificare o impedire a grandi opere di raggiungere la sala oppure di accedervi integrali come erano state concepite.

Per tornare indietro con la memoria e ricordare che c’è stato un tempo molto vicino in cui in Italia accadevano cose persino peggiori della ghigliottina anti-lgtbq+ russa, racconteremo i casi più eloquenti ed eclatanti di censura cinematografica di casa nostra tra tagli e veri e propri sequestri di pellicole. Gli anni 70, come si può facilmente immaginare, sono stati i più caldi da questo punto di vista e un bel po’ di esempi emblematici vengono proprio da questa decade, a partire da uno dei più famosi e di certo chiacchierati, fino ad oggi: Ultimo Tango a Parigi, film del 1972 che ha consacrato Bernardo Bertolucci dopo Il Conformista e ha reso celebre l’attrice francese Maria Schneider in coppia con Marlon Brando. La mostra digitale permanente del Ministero Della Cultura, CineCensura.com, a cui attingiamo, che ripercorre la storia della censura cinematografica in Italia con un censimento, definisce questo titolo come “Film simbolo del conflitto tra censura e libertà di espressione artistica”. Di questo film si è scritto, detto tutto e ancor più di tutto.

Nonostante il successo incredibile nella sua prima di New York, elogiato dal New Yorker come “il più potente film erotico mai fatto che può rivelarsi il film più liberatorio mai realizzato”, a Ultimo tango a Parigi fu proibito, dalla Commissione censura, il nulla osta per la proiezione in pubblico poichè Bertolucci non aveva acconsentito a dei tagli. Una volta convintosi a tagliare, il regista riuscì a vedere il suo film uscire nelle sale per pochissimo tempo, per poi venir sequestrato per “esasperato pansessualismo fine a se stesso” e offesa al comune senso del pudore. Nel 1976 la Cassazione dispose addirittura la messa al rogo del film e dunque la distruzione del negativo. Dobbiamo rendere grazie alla copia conservata in Cineteca se oggi possiamo ancora vedere quest’opera. Si dovrà aspettare solo il 1987 e il cambiamento nelle norme a regola del “comune senso del pudore”, per il dissequestro definitivo. Solo nel maggio del 2018, grazie al restauro in 4K a cura della Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia, con la supervisione di Vittorio Storaro per l’immagine e di Federico Savina per il suono, il film ha ritrovato la sala cinematografica.

Ma i guai con questo film non sono finiti per Bertolucci, poiché qualche anno fa Maria Schneider svelò che la famosa scena del burro non era prevista in sceneggiatura, che fu un’idea di Brando con la complicità di Bertolucci e che pur essendo simulata, la fece sentire in estremo disagio psico-fisico. Dal 2013 in poi, questa controversia è tornata ogni tanto a galla, tra smentite, scuse del Maestro e varie versioni della storia. In due momenti poi la diatriba si è fatta particolarmente accesa, nel periodo post #Metoo e in seguito alla scomparsa del regista.

Tornando ai primi anni 70, mentre Bertolucci non se la passava bene, i film stranieri non subivano di certo un trattamento più blando. Clamoroso fu I Diavoli di Ken Russell, del 1971, film che entrò per la prima volta nell’intoccabile area della religione, osando mettere preti e suore in posizioni scomode, non guidati dalla vocazione ma da interessi e passioni personali, a partire da una Vanessa Redgrave madre superiora deforme e accecata dall’ossessione per un parroco.

I Diavoli sconvolse letteralmente la Mostra di Venezia di quell’anno, causando quasi il licenziamento del direttore artistico di allora, Gian Luigi Rondi. Uscito nelle sale cinematografiche il 9 settembre 1971, il film venne subito sequestrato poiché alcune sequenze erano “estremamente oscene, anzi di pura pornografia, non giustificate né dallo scorrere del racconto, né dall’assunto ideologico”. Dissequestrato, fu riproposto con il divieto ai minori di 18 anni. Ad oggi ancora censurato in vari paesi, secondo il critico Adam Scovell, è ancora impossibile vederne la versione originale voluta dal regista.

Pochi anni dopo, nel 1975, si verificò il caso, forse ricordato da tutti, di Salò o le 110 giornate di Sodoma, film postumo di Pierpaolo Pasolini, presentato al pubblico, ad un festival, poche settimane dopo il suo omicidio e che viene da molti considerato come una sorta di testamento del regista e scrittore italiano. Arrivato nelle sale italiane nel 1976, fu subito bandito dalla circolazione per quasi tre anni, per poi essere rimesso nel circuito distributivo nel 1978. Più di ogni altro film o opera del regista, vedi Accattone (1961) o Teorema (1968), Salò generò un’ondata di critiche che coinvolsero in pieno il suo produttore, Alberto Grimaldi, sotto processo per oscenità e corruzione di minori.

Ambientato alla fine della Seconda guerra mondiale e basandosi sul libro del Marchese de Sade, Le 120 giornate di Sodoma, contiene scene di sesso esplicito, coprofagia, stupro e sodomia, come vuole il titolo e rimane, fatta eccezione per alcuni titoli italiani di minore intensità, quasi un unicum nel panorama del cinema di casa nostra e difficilmente replicabile. Nel 2015, alla 72ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il lungometraggio fu presentato restaurato dalla Cineteca di Bologna e dal Centro sperimentale di cinematografia (come era stato per Ultimo Tango), in collaborazione con Alberto Grimaldi e ricevette il premio per il miglior film restaurato.

Arrivano gli anni 80 ma la commissione censura non si rilassa ed ecco che sotto la sua scure cade, nel 1980, l’opera prima di Renzo Arbore, Il pap’occhio, distribuito per sole tre settimane nei cinema italiani a settembre per poi essere attaccato dalla stampa cattolica e sequestrato “per vilipendio alla religione cattolica e alla persona di S.S. il Papa”. Decaduto il sequestro per un’amnistia e archiviata la denuncia nel 1982, il film è stato nuovamente distribuito nel 1998 seppur privo di un monologo, quello di Roberto Benigni sul Cristianesimo. Grande smacco alla censura e soddisfazione per Arbore, gli interpreti, tra cui anche Manfred Freyberger, Isabella Rossellini, Diego Abatantuono, Luciano De Crescenzo (anche autore della sceneggiatura), Mariangela Melato, ed i produttori: dato che gli incassi furono altissimi, nonostante la brevissima permanenza del film in sala, Il pap’occhio ottenne il Biglietto d’Oro, premio degli esercenti cinematografici.

Nel 1981, ci fu un altro episodio meno ricordato di censura tranchant, quello ai danni de Il Leone del deserto di Mustafa Akkad che non vide mai le sale e subì un procedimento penale poiché considerato “lesivo all’onore dell’esercito italiano” secondo il presidente del consiglio di allora, Giulio Andreotti. Fuori dal periodo di governo della Dc ma comunque caso da annotare, è quello di Totò che visse due volte, pellicola del 1998 scritta e diretta dal duo Ciprì e Maresco.

Come recita Cinecensura.com, la Commissione di revisione cinematografica espresse parere contrario al rilascio del nulla osta per il film in quanto “anti-religioso e offensivo del buon costume”. Il film fu giudicato “degradante per la dignità del popolo siciliano, del mondo italiano e dell’umanità”. In appello la pellicola verrà autorizzata con divieto di visione per i minori di anni 18.

I tagli

Ci sono i film sequestrati, come abbiamo appena letto, e poi ci sono quei titoli che in sala ci sono andati e hanno fatto tutto il percorso, ma tagliati, edulcorati, modificati nella loro interezza così come concepiti dai loro autori, proprio a causa della Commissione censura. È il compromesso che dovette accettare Goffredo Lombardo della Titanus, produttore di Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, che, a quanto pare, all’insaputa delle stesso regista, accettò di effettuare dei tagli per permettere l’uscita in sala del film.

La versione reintegrata è stata restaurata e presentata al Festival di Cannes nel 2015 e poi in Italia, nel luglio dello stesso anno, alla rassegna Il Cinema Ritrovato di Bologna. Nel 2013 intanto, i più cinefili e fan del cinema horror, si saranno ricordati di Ruggero Deodato e del caso del suo Cannibal Holocaust, grazie all’omaggio che Eli Roth gli fece in The Green inferno. Quando si parla di cannibalismo al cinema, infatti, non ci si può esimere dal fare riferimento al regista, maestro del genere a livello mondiale. Uscito con importanti tagli e un divieto ai minori di 18 anni, Cannibal Holocaust ha fatto guadagnare grande fama a Deodato che ha collezionato polemiche, cattivissime recensioni, denunce e persino un arresto.

La scena di una donna nuda impalata dai cannibali fu percepita come talmente vera che il regista fu incriminato per omicidio tanto che per scagionarsi, dovette dimostrare al giudice che i suoi attori erano vivi e che aveva utilizzato dei sofisticati effetti speciali per ricreare un effetto il più reale e documentaristico possibile. Tutti questi problemi non permisero al film di godersi il successo che meritava e al regista di far arrivare il vero messaggio: un atto d’accusa contro i mass media. Chiara Nicoletti 2 Luglio 2023

Estratto dell'articolo di Tommaso Rodano per “il Fatto quotidiano” il 28 marzo 2023.

Riccardo Mannelli, rieccoci. L’ultima volta, se ricordo bene, fu per “le cosce” di Maria Elena Boschi.

È la stessa storia. La reazione a questa vignetta è la solita, dalle cosce in giù: malafede, pregiudizi e conformismo”.

 Stavolta lei ha colpito una giornalista, Francesca Mannocchi.

Era tutto fuorché un attacco personale a Mannocchi. Il punto è quello che ha detto: scemenze, credo. Anzi, è un eufemismo. Atrocità”.

 Quali?

Più d’una, ma è gravissimo soprattutto il discorso sull’uranio impoverito. In Ucraina è quasi un anno e mezzo che si sparano addosso. Anzi molto di più, dal 2014. Queste armi sarebbero devastanti per i russi, ma pure per gli ucraini stessi. Come si fa a minimizzare?”.

Mannocchi non è una potente, in senso stretto. Perché fare satira su un’inviata di guerra?

Ne hanno fatto un santino. E questo mi dispiace per lei. I suoi servizi vengono sempre presentati come ‘bellissimi’” [...]

 Qualcuno l’ha anche accusata di aver deriso una persona con una malattia neurodegenerativa.

È davvero un’infamia bassissima, delirante. Non so nulla del suo stato di salute. È imbarazzante che si arrivi a questi livelli, dovrei essere un boia per fare una cosa del genere. Quante persone che ho disegnato avranno avuto problemi di salute o situazioni personali?” [...]

 Tra i tanti, Mentana in diretta tv ha detto che la sua vignetta “fa schifo” e “non fa ridere”.

E senza nemmeno nominarmi, come un reietto. Mi hanno sparato addosso senza dignità di replica. Per fortuna non coincidono con l’opinione pubblica, loro. Anzi, credo siano agli antipodi”.

 Loro chi?

Quella compagnia di giro che da decenni gironzola per le televisioni, sono sempre gli stessi. C’è una cosa che mi fa imbestialire nel merito. Anzi, due. E mi rimangio la parola “imbestialire”, perché a quanto pare la bestia sono io... La prima è l’ignoranza e la cialtroneria di chi dà per scontato che l’arte satirica debba coincidere con l’umorismo o la comicità. La seconda: almeno abbiate la bontà d’animo di dire “non mi fa ridere”. Parlate per voi. La risata è una delle espressioni più intime della persona umana. Anche più della commozione”.

 Ce l’hanno più con lei o con il giornale per cui lavora?

Credo entrambi. Mi trattano come un sicario del Fatto Quotidiano, come fossi il braccio armato di Travaglio o Padellaro. Ignorano la mia storia personale, credono di potermi umiliare e sputtanare, ma non mi offendo. Non sanno che sono stato inviato anche io in decine di guerre. E chissà dov’erano quando Scalfari mi cacciò da Repubblica nel 1989”.

Perché la mandò via?

Quello che davvero non sopportava Scalfari era non poter vedere i miei disegni: con la scusa di essere inviato, i miei lavori li facevo arrivare direttamente la notte in tipografia (ride). L’ultimo reportage per Satyricon di Repubblica fu sul Partito socialista e il congresso dell’Ansaldo, l’apoteosi del craxismo: prevedevo un finale, chiaramente uno sberleffo, in cui si preparavano i ganci come in Piazzale Loreto. Due anni dopo scoppiò Mani Pulite. La satira certe volte ha capacità visionarie”.

 Dove sono finiti i santini di Charlie Hebdo?

Si sono rimangiati tutto, ma ci sono abituati. [...] Ma ormai la storia personale di un autore non conta: ci sono solo i tifosi e gli schieramenti, gli amici e i nemici”

Estratto dell'articolo di Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 14 marzo 2023.

[…] Accade, infatti, che sul Fatto Quotidiano appaia una caricatura della segretaria del Pd: sorriso illividito da dentatura sporgente, fronte bassa, capello scarmigliato e oleoso; e, soprattutto, naso adunco nel solco dei grandi caricaturisti tedeschi a cominciare da quel Sebastian Kruger il quale, tra gli applausi illustrò per decenni le copertine del liberal L’Espresso.

 Subito dopo la pubblicazione del suddetto ritratto, a firma di Francesco Federighi in arte Frank, ecco un’insurrezione polifonica da parte di testate on line come Open e Vox, della sinistra a cominciare dal Pd riunito nel battesimo della nuova capa, del M5s e di parte del Terzo Polo.

 […] Seguono altri messaggi di condanna dell’antisemitismo dello stesso Fatto (il naso aquilino è senz’altro una viscida forma di razzismo...). Il tutto evocando la dida della Vignetta «Elly è figlia di Melvin Schlein, americano, ebreo ashkenazita».

Ecco, solidarietà. Anche noi vorremmo offrire la nostra solidarietà. Ma non a Schlein. Solidarietà a Frank e Marco Travaglio.

 […] Open, l’ottimo sito di Franco Bechis addirittura si avventura in una disamina storica sulla persecuzione degli israeliti ad opera degli antichi romani citando l’Osservatorio sull’Antisemitismo, neanche l’intera faccenda fosse la trama di Süss l'ebreo il film più antisemita del mondo diretto nel ’40 da nazista Veit Harlan.

 Ora, Open è una redazione fatta per lo più da giovani colleghi. I quali, per mere questioni anagrafiche, non hanno mai conosciuto la vera satira politica che campeggiava sulle testate cartacee dagli anni ’40 del Novecento ai 2000.

 A parte Kruger e discepoli che disegnavano Romano Prodi come una sorta di mortadella umana o Gianfranco Fini affogato nelle rughe con una dentatura nera, storta e feroce, i giornali hanno sempre usato la caricatura come gatto a nove code contro il potere. Più le vignette e le caricature erano cattive e paradossali, più la libertà d’espressione s’innalzava al cielo; e più il Premio Satira Politica Forte dei Marmi (una delle migliori manifestazioni di settore al mondo, organizzata da pericolosi comunisti) omaggiava la creatività dei satirici.

[…] Frank, tra l’altro, non è autore di primo pelo, è alla soglia della cinquantina. Nasce professionalmente proprio dalla scuola democratica dell’Espresso degli anni ’80/90 di Claudio Rinaldi, che aveva Kruger testa d’ariete e come talenti esplosivi di seconda fila, firme come Altan a Franco Bruna. Frank s’ispira agli espressionisti germanici, anche se e, ad intermittenza, ricorda l’americano Albert Hirschfeld (ebreo, guarda caso) e David Levin uno dei massimi esponenti dell’arte sequenziale espressa dalla New York Review of Boooks.

 […]  Frank, lucchese di nascita e di eversione, ha disegnato per tutti, perfino per Libero. Mi dice: «Sono apolitico, ho caricaturato tutti a tutti quelli che me lo commissionavano: ho disegnato Meloni a Letta, Salvini a Schlein». E aggiunge, provocatoriamente: «...Certo se il soggetto è brutto di suo, io faccio prima».

Giorni fa, sempre sul Fatto Quotidiano, Mario Natangelo, in una vignetta, s’immaginava preso dalla tentazione di disegnare il naso di Schlein: «Già lo sento, mi accuseranno di antisemitismo..». Puntualmente è accaduto al collega Frank. Alla facci dell’articolo 21 della Costituzione, siamo davvero alla frutta...

Estratto da professionereporter.it il 21 giugno 2023.

Archiviazione. Finisce così il caso Natangelo, la storia della vignetta su “casa Lollobrigida”, con una signora (evidentemente Arianna Meloni, la sorella della Presidente del Consiglio Giorgia, sposata con il ministro Francesco Lollobrigida) a letto con un uomo di colore. 

Pubblicata sul Fatto Quotidiano del 19 aprile. Titolo: “Obiettivo incentivare la natalità. Intanto in casa Lollobrigida…”. Lui: “E tuo marito?”. Lei: “Tranquillo, sta tutto il giorno fuori a combattere la sostituzione etnica”. 

Lollobrigida il giorno prima aveva detto al Congresso della Cisal: “Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro. Non è quella la strada”. 

Il Presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio, Guido D’Ubaldo, ha ritenuto opportuno sollecitare il Consiglio regionale di disciplina dell’Ordine, per verificare se c’erano, nella vignetta, violazioni del Testo unico dei doveri del giornalista. Suscitando molte polemiche, nel nome della libertà di satira.

Il Consiglio di disciplina -come dovuto- per due volte ha convocato Mario Natangelo, che per due volte non si è potuto presentare. Il suo avvocato, Cristina Malavenda, nota esperta di questioni editoriali, legale da anni anche del Corriere della Sera, ha mandato una memoria. Il 20 giugno il collegio designato dal Consiglio di disciplina ha deciso per l’archiviazione: nella sua vignetta, Natangelo non ha violato alcuna norma della deontologia professionale, ha stabilito. La decisione è stata comunicata all’interessato. […]

Il Fatto Quotidiano il 21 aprile aveva rilanciato, dedicando la sua prima pagina alla vicenda, con il titolo: “Il nuovo Minculpop ha il terrore delle vignette”. Il Minculpop era la sigla del Ministero della Cultura Popolare durante il fascismo. E aveva annunciato per il giorno dopo un inserto speciale: “Tutto Nat”. 

Al centro della prima pagina c’era, intanto, un’altra vignetta di Natangelo, “riparatoria”, secondo la didascalia. Di nuovo “casa Lollobrigida”, ma stavolta a letto c’è il ministro e non più l’uomo di colore. Lui: “Come dici cara?”. Lei: “Mah, preferivo la vignetta di prima… No, gnente, bonanotte, France'”. 

Natangelo è napoletano, ha 38 anni, collabora con il Fatto dalla fondazione (2009).

Estratto da “Libero quotidiano” il 14 marzo 2023.

La battuta da recitare a DiMartedì, il programma di Giovanni Floris su La7, era già scritta. Ma poi, visto che la vittima della frecciata era la segretaria del Pd Elly Schlein, il comico Luca Bizzarri si è autocensurato. «Mi faceva tanto ridere, solo che era greve», ha raccontato al Corriere della Sera.

 «Ho pensato: ma perché mi devo far rompere le scatole per una battuta? L’ho tolta, anche se con una certa disperazione. Senza dimenticare l’ipocrisia enorme che ci circonda: se la stessa battuta l’avessi fatta sulla Santanchè nessuno avrebbe detto nulla». Ecco, per una volta un comico ammette che scherzare sulla sinistra non è la stessa cosa che scherzare sul governo Meloni.

Estratto dell'articolo di Felice Manti per “il Giornale” il 28 marzo 2023.

Una comparsata è poca, due sono troppe. E a sinistra danno i numeri. L’altra sera il premier Giorgia Meloni si è infilata all’ultimo secondo allo spettacolo Amore+Iva di Checco Zalone al Teatro Brancaccio di Roma, accompagnata dal compagno Andrea Giambruno e dal sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi. A luci spente, seduta in mezzo agli altri, appena prima che si aprisse il sipario.

Se non lo avesse rivelato il comico pugliese («Non mi fate fare figure di m... che c’è la presidente del Consiglio qua che ha preferito il mio spettacolo al karaoke con Macron») forse non se ne sarebbe accorto nessuno, ma tant’è. C’è un filo logico che lega questo blitz alla tanto discussa comparsata da Fiorello? C’è una nuova strategia comunicativa o semplicemente la Meloni aveva bisogno di staccare il cervello con un po’ di sana comicità politicamente scorretta?

 (...)

Chissà adesso cosa si inventeranno i giornaloni sull’asse Meloni-Zalone, se sulla comparsata da Fiorello si è imbastito un processo mediatico. Vedi il veleno sul Fatto di Daniele Luttazzi, stupito del Fiorellowashing - ovvero «darsi una patina di simpatia andando ospite da Fiorello» - per l’assenza di domande su Cutro o sull’Ucraina durante la chiacchierata tra i due.

Come se per anni i politici di sinistra non avessero sguazzato nell’infotainment, l’ibrido tra information e entertainment, okkupando innocui salotti tv dove far passare messaggi «pesanti» con leggerezza, tipo Fabio Fazio. Che l’altra sera sembrava trasformato, nell’insolita veste di cane da guardia davanti al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Alla fine arriva Elly Schlein, fresca di una gigionesca comparsata glamour da Alessandro Cattelan, che si lamenta coi suoi: «Il governo sta cercando di mettere un po’ troppo le mani sulla Rai, vigileremo». Come dire, è cosa nostra. Archiviata per colpa del Covid e del governo no gender Mario Draghi, la satira politica ritorna d’incanto: ma a far ridere sono le vere priorità del Pd.

Colpevole di intervista: l'Ordine dei giornalisti processa Porro. Aperto un procedimento disciplinare ai danni di Nicola Porro. L'accusa: aver intervistato un viceministro ucraino senza "contraddittorio". Giuseppe De Lorenzo il 22 Maggio 2023 su Il Giornale.

Se non fosse vero, uno potrebbe pensare ad uno scherzo. Nel giro di una settimana Nicola Porro è passato dall'essere disegnato come un filoputiniano a cantore dell'Ucraina. Prima accusato erroneamente da Nino Cartabellotta di non aver stretto la mano a Volodymyr Zelensky a Porta a Porta. E poi incolpato di aver intervistato un viceministro ucraino senza portare in studio il contraddittorio. Sembra una barzelletta, ma non lo è.

In verità ci ritroviamo catapultati in una commedia grottesca, o forse in una tragedia. Fatto sta che il 4 luglio prossimo Porro dovrà presentarsi di fronte al Consiglio di disciplina dell'Ordine lombardo a causa del procedimento disciplinare aperto a suo carico. L'accusa? Aver intervisatato, il 22 maggio del 2022, la viceministra degli Esteri, Emine Dzhaparova, senza qualcuno che esponesse tesi contrapposte. Secondo il ricorrente che si è rivolto all'Ordine, il conduttore di Quarta Repubblica avrebbe invitato solo ospiti "allineati con l'intervistata" e avrebbe fatto cadere nel vuoto una domanda di Toni Capuozzo. Il tutto condito dal fatto che Dzhaparova avrebbe negato l'esistenza di una guerra civile in Donbass.

Ora, uno potrebbe riguardarsi la puntata e smentire quanto affermato dal ricorrente. Ma a che servirebbe? A nulla. Perché qui il problema non è discutere se l'intervista sia stata condotta correttamente o meno. Il dramma sta tutto nel fatto che si sia anche solo pensato di aprire un procedimento sul caso. "Mi sembra che abbiamo perso il senso della realtà", sottolinea Porro. Innanzitutto migliaia di politici in Italia e nel mondo vengono intervistati faccia a faccia senza contraddittorio (non lo aveva neppure Zelensky a Porta a Porta, ad essere puntuali). "Se la linea diventa questa - scrive il conduttore sul suo sito - io corro il rischio di dover passare tutte le settimane davanti alla commissione di disciplina per spiegare il modo in cui faccio le interviste. Ma non è una cosa mostruosa?". Forse addirittura "pericolosa".

Simili polemiche, il lettore ricorderà, esplosero anche quando Giuseppe Brindisi mise a segno il colpo giornalistico di intervistare il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. Anche in quel caso si trattava di una conversazione "one to one", senza nessun altro in studio. E giustamente l'Ordine difese Brindisi. Cosa è cambiato adesso? "Spero non mi vengano a dire che si tratta 'di un atto dovuto' - conclude Porro - L’atto dovuto è la foglia di fico dietro la quale si nasconde l’intimidazione".

Ho due cose da dire sull’Ordine dei giornalisti. Nicola Porro il 23 Maggio 2023

Come avrete letto ieri, l’ordine dei giornalisti mi ha convocato in un’udienza il 4 luglio perché quando ho invitato a Quarta Repubblica la vice ministra degli esteri ucraina, secondo questi geni della lampada, non ci sarebbe stato contraddittorio. Se questo è il ragionamento, allora chiunque inviti la Segre deve permettere la replica ad un ex gerarca nazista, se si invita un curdo si deve avere Erdogan in studio e, già che ci siamo, non si può permettere che Rita dalla Chiesa racconti le tragedie della sua famiglia senza che ci sia il contraddittorio di qualche terrorista. Questi sono pazzi. Hanno aperto un procedimento disciplinare nei miei confronti perché loro pensano che non ci sia stato un contraddittorio per un vice ministro ucraino che è sotto le bombe. By the way, in quella trasmissione c’erano anche Toni Capuozzo, Capezzone e Micalessin dal Donbass che non la pensavano sempre come la vice-ministra.

Porro processato dall’Ordine dei giornalisti? Caro Nicola, puoi fare due cose

L’Ordine dei giornalisti processa Porro: ha intervistato un viceministro ucraino

Ve lo dico francamente: se, oltre a non partecipare ai premi giornalistici, potessi non avere la tessera del giornalista sarei l’uomo più felice del mondo. Con questi non voglio avere niente a che fare. Ovviamente ci saranno dei giornalisti che diranno “no, ma come ti permetti?”. Non me ne fotte un cazzo! 25 anni di pensione giornalistica buttati, ma soprattuto un Ordine che non si ribella e non urla di fronte ad un giornalista che viene questionato perché avrebbe violato le regole deontologiche non predisponendo un contraddittorio per un’intervista al vice ministro degli esteri ucraino. Non ne faccio una questione personale, ma di principio.

Ma voi capite? Il 4 luglio mi devo presentare a Milano, magari per sentirmi spiegare da tre persone come, secondo loro, si dovesse fare quell’intervista.

Nicola Porro, 23 Maggio 2023

Nicola Porro processato: ecco l'ordine filo-Putin dei giornalisti. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 24 maggio 2023

Noi di Libero, pluri-processati dall’Ordine dei Giornalisti, alla cui scienza umilmente ci inchiniamo, avevamo sempre sospettato che qualcuno dei nostri giudici avesse fatto un corso d’aggiornamento alla Pravda, o comunque la leggesse avidamente. Forse da oggi la pensa così anche Nicola Porro, che ha fatto sapere che l’augusto consesso lo chiama alla sbarra perché colpevole di avere intervistato una viceministra ucraina senza contraddittorio. Insomma, avrebbe dovuto esserci collegato anche un viceministro di Putin. Il conduttore di Quarta Repubblica, nonché vicedirettore del Giornale, persona piuttosto spiritosa, potrebbe difendersi argomentando di essere lui la voce filorussa in campo, essendosi sempre distinto dal coro della stampa unica, per la quale esistono un solo martire, Zelensky, e un unico assassino, il popolo russo.

In effetti Porro ha sempre raccontato questa guerra con lo spirito dell’analista e del cronista, occidentale certo e giustamente, ma mai fazioso a prescindere. Stavolta però Nicola non l’ha buttata sul ridere, anche se la vicenda è comica. Si è limitato a ricordare che nel giro di una settimana è stato massacrato sui social per non aver stretto la mano al leader ucraino a Porta a Porta cosa falsa - e poi è stato convocato a giudizio perché farebbe programmi sbilanciati a favore di Kiev. Conosciamo le giustificazioni dell’Ordine: le persone segnalano, noi processiamo; e poi, diciamocelo, stavolta Porro andrà assolto, sarebbe scandaloso il contrario. Una condanna esporrebbe il Consiglio all’accusa di essere fascista, perché per tale passa il comunista Putin da che il Pd di Letta ha sancito che è un disgraziato. Però non è vero che i giornalisti sono obbligati a processare i colleghi sulla base delle segnalazioni: farlo o archiviare, è una scelta. E quella convocazione, anche se seguita da un’assoluzione, resta comunque un’intimidazione.

Chissà se Giuseppe Brindisi, conduttore di Zona Bianca, è stato processato quando ha realizzato il suo scoop, l’intervista, guarda caso senza contraddittorio, al ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. E chissà se è stato richiamato anche Massimo Giletti, allorché andò in trasferta al Cremlino e apparve sorridente a fianco del conduttore Vladimir Solovev, il megafono di Putin, uno che fa approfondimenti televisivi in cui chiede se è meglio squartare o impiccare i prigionieri e se è il caso di bombardare l’Italia perché dà supporto a Kiev. Noi riteniamo che, come con Porro, processare i due colleghi sarebbe stata un’aberrazione ma è evidente che, a questo punto, non averlo fatto significhi riconoscere più diritti ai russi che agli ucraini. La qual cosa rivela che Santoro non è isolato a fianco dello zar, ma nutre parecchi estimatori nella categoria. Oppure, più semplicemente, questa convocazione del Nicola nazionale è un indizio che la sinistra della Schlein non è quella di Letta e che perciò la guerra la fa dando un colpo al cerchio e uno alla botte, provando a far stare tutto insieme sotto la cappa del politicamente corretto, che è la sola strategia chiara che al momento la nuova segretaria sembra avere. 

Ma gli Ordini, si sa, sono così: bizzarri. L’Ordine dei Giornalisti e le critiche a Porro (silenzio su Ranucci): “Se intervisto Segre serve Priebke a fare contraddittorio?” Andrea Ruggieri su Il Riformista il 27 Maggio 2023 

Addio Maria Giovanna. Brillante, anticonformista, tagliente, conservatrice e gentile, anche se assai decisa. Ti conobbi ormai quasi vent’anni fa, e venni travolto dalla tua simpatia e dal tuo umorismo caustico. La tua risata, piena e travolgente, non solo mancherà a tutti i fan della tua vis polemica mai banale, ma avrebbe senz’altro sepolto l’iniziativa del consiglio dell’Ordine dei Giornalisti verso Nicola Porro, a cui si contesta di aver ospitato, a Quarta Repubblica, il viceministro degli Esteri ucraino, Emine Dzhaparova, ma senza contraddittorio.

Il corollario logico, tragicomico, lo spiega proprio Porro: “Quindi se intervisto Liliana Segre serve Priebke a fare contraddittorio…?”. Aggiungo io: possiamo ascoltare la vedova Borsellino, senza Brusca? O, l’11 settembre, qualche reduce delle Torri senza Mohammed Atta? Paradossi a parte, io credo che qui si stia esagerando fino a deflorare senso comune e decenza. E che a essere colpiti siano sempre e solo quelli che vengono reputati di una certa area culturale.

Gianmarco Chiocci, direttore di Adnkronos, viene lapidato da Repubblica per aver incontrato, davanti a degli avvocati in uno studio legale, Massimo Carminati, prima della sua condanna per il Mondo di Mezzo. Sigfridone Ranucci va a strafogarsi a cena con un pregiudicato come Lavitola e tutti zitti. Da sempre alfiere dell’opportunità (altrui), Sigfridone straccia la propria cenando con amichette, pregiudicati, e un monsignore (a proposito: che ci faceva? Li stava confessando…?) Nicola Porro, ci scommetto, non perderà il sonno per il ridicolo procedimento del Consiglio dell’Ordine. E mi immagino come risponderà, se convocato a dare spiegazioni (spero di poter in qualche modo assistere, perché già rido).

A Nicola, solo una preghiera: facci divertire! E un suggerimento: prendi ispirazione dal Marchese del Grillo che, convocato da Papa Pio VII per rispondere di uno scherzo (aveva organizzato la propria sostituzione con un suo sosia carbonaro alcolizzato, a dimostrare che la forma ipocrita prevaleva sulla sostanza), al Papa stesso che lo minacciava di tradurlo in ceppi a Castel Santangelo, ai tempi carcere del Vaticano, rispose: “Vado volentieri in carcere, Santità purché in compagnia di….”, e seguiva un elenco sterminato di complici e persone che avessero seguito analogo comportamento.

Perché ora attendiamo con ansia, per analogia, identico provvedimento dell’Ordine verso Ferruccio De Bortoli (Corriere della Sera), Enrico Mentana (direttore del Tg La 7), Maurizio Molinari (direttore di Repubblica), Giuseppe De Bellis (direttore di Skytg24), Fabrizio Tamburini (direttore del Sole 24 Ore), e Monica Maggioni (direttore del Tg1), tutti ospiti, e quindi complici, di Bruno Vespa, (a questo punto per forza capo dell’associazione a delinquere), per un’intervista a Zelensky, consumata sull’Altare della Patria (aggravante specifica) senza contraddittorio, cioè senza che fosse presente Putin. Scherzi a parte, io credo sia il caso di chiuderlo, l’Ordine. E non solo quello dei giornalisti, che procede su Porro per una cosa incredibile ma nulla dice a chi cena (avrà mica pagato la Rai, il conto?) con un estortore-truffatore.

Ma gli Ordini, si sa, sono così: bizzarri. A Torino, quello degli avvocati commina una sospensione di un anno e tre mesi all’avvocato Alessandra De Michelis: ha pubblicato alcune sue foto in costume, in spiaggia, ed è una bella donna. Manco i talebani in Afghanistan. Da Kabul è tutto, a voi la linea. P.S. Un dubbio: ora che ho citato i talebani, chi devo citare per par condicio ed evitare un procedimento disciplinare?

Andrea Ruggieri

L'endorsement accettato è solo quello a sinistra: così i rossi tentano il bavaglio. La deriva della sinistra italiana sembra senza fine: le uniche opinioni accettate sono solo quelle in favore dei "compagni". Le altre le metterebbero al bando. Francesca Galici il 27 Marzo 2023 su Il Giornale.

Che bel Paese è l'Italia, dove si può dire di preferire un esponente di sinistra ma non uno di destra, se non si vuol correre il rischio di essere linciati sulla piazza social. Lorella Cuccarini, che non ha mai nascosto le proprie simpatie per il centrodestra, le ha confermate dichiarando che tra Elly Schlein e Giorgia Meloni preferirebbe andare a cena con quest'ultima. Mai l'avesse fatto: se non viene accusata di lesa maestà poco ci manca. In passato aveva plaudito ai tentativi di blocco dei migranti e si era schierata su posizioni pro-vita, ricevendo anche in quell'occasione insulti vari.

In queste ore si parla addirittura di "autogol" in un momento professionale favorevole, di gesto incauto, di leggerezza da parte di una signora della televisione italiana, che ha semplicemente dichiarato implicitamente di apprezzare il presidente del Consiglio di questo Paese.

Siamo davvero arrivati a tanto? Perché sembra quasi che la Cuccarini dovesse censurarsi prima di esprimere la propria opinione, che a differenza di tante altre che si sono sentite nelle ultime settimane non è né offensiva e nemmeno eversiva. Eppure, nelle ultime ore è addirittura vittima di una incomprensibile "shitstorm" da parte di chi arriva ad accusarla di "leccare" le persone giuste perché, altrimenti, non sarebbe nessuno. Il delirio sinistro non conosce limiti, evidentemente, come dimostrano gli integralisti del sostegno a Schlein e, in generale, del Pd. "Senza la dichiarata simpatia sarebbe il nulla cosmico. Ormai l'abbiamo capito che l'arte e la maestria sono inutili doti", scrive uno. Ci piacerebbe pubblicare per intero il curriculum vitae di Lorella Cuccarini, per dimostrare che è vero il contrario, ma ci manca lo spazio.

A ben guardare il clima che si respira in Italia, dove la sinistra vorrebbe eliminare qualunque forma di dissenso per poter fare la sua propaganda senza contraddittorio, quanto accaduto alla Cuccarini non stupisce. Eppure, quando solo qualche settimana fa Lino Guanciale si è scoperto essere il portavoce del comitato marchigiano di Elly Schlein, non gli è stato dedicato lo stesso trattamento, non è stato inondato di insulti sulla sua persona e sulla sua professione. Ah già, l'attore sta dalla parte giusta, o meglio, dalla parte che i benpensanti di sinistra vogliono imporci come quella giusta. Perché c'è una bella differenza, sia pratica che concettuale.

Padova, il liceo "Tito Livio" censura il nipote di Cadorna (e noi gli diamo parola). Andrea Cionci il 18 Marzo 2023 su Libero Quotidiano

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Tornano alla grande tre estenuanti cliché nazionali: la rissa perpetua sull’antifascismo, la vulgata mistificatoria sul generale Cadorna e il solito “cuor di leone” dei dirigenti scolastici. Frullate tutto insieme e avrete l’episodio che, qualche giorno fa, ha visto protagonista il prestigioso liceo classico “Tito Livio” di Padova. Unica vittima, e illustre: la cultura. 

Stando al sito, il liceo “mira a dare agli studenti una preparazione articolata e approfondita sul piano culturale”, così avevano invitato il colonnello Carlo Cadorna, nipote del nostro Comandante Supremo durante la Grande Guerra, a partecipare a un incontro autogestito dagli studenti per discutere di storia.

Il colonnello, tra i massimi esperti mondiali di equitazione, già presidente dell’Associazione d’Arma di Cavalleria, è da anni in prima linea per difendere la memoria di suo nonno Luigi, tra le figure più travisate e meno conosciute del ‘900.

Era un’occasione d’oro, quella in programma al Tito Livio: superare l’ideologica sbobba emozional-antimilitarista del duo Lussu-Rosi e del seguito di compiacenti storici di sinistra, stimolando i ragazzi a ragionare sui documenti dell’epoca che il colonnello Carlo – figlio del generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà durante la Seconda Guerra mondiale - ha scrupolosamente riportato nella fortunata edizione del suo “libro "Caporetto? Risponde Cadorna", (Bastogi, 2020)”, già presentato al Senato.

Eppure, al primo baccagliare di qualche manifestazione tra gli “Antifascisti” e il “Blocco studentesco”, (nomi di organizzazioni giovanili di un anacronismo vecchiarino) il Consiglio dei Docenti ha cordialmente messo alla porta il colonnello “per evitare qualsiasi tipo di polemica”. Un’occasione persa per affermare il primato dello studio sul teppismo-bullismo.

A Padova, infatti, giorni fa, gli studenti avevano voluto imporre al “Tito Livio” l’adesione alla nota lettera-predicozzo antifascista della preside della scuola Leonardo da Vinci di Firenze; i ragazzi di destra si erano ribellati appendendo uno striscione con scritto “la scuola è libera”, ma avevano torto. La scuola non è libera: è – da sempre - ostaggio dei soliti noti che, per uno sbilenco sillogismo, siccome la Repubblica vieta la ricostituzione fisica del partito fascista, allora tutti devono ideologicamente proclamarsi antifascisti. In realtà la Costituzione, all’articolo 21, sancisce la libertà di pensiero e di espressione.

Ma qui si sarebbe parlato di Grande guerra– sbotta il colonnello Cadorna – avevo concordato con la scuola di fare una chiacchierata sulla strategia, questa grande sconosciuta, in Italia”.

Abbiamo così deciso di dare voce al colonnello, in una breve intervista.

D. Colonnello, spesso Lei ha fatto causa a storici e giornalisti che hanno denigrato il Generalissimo…

R. “I limiti del diritto di critica storica sono la continenza - cioè l'utilizzo di termini non ingiuriosi - e il rispetto della verità documentata: uno dei querelati è stato condannato a un risarcimento di 10 mila euro.

D. Ma qual è la più grande incomprensione su Suo nonno? 

R. “Sulla strategia, questa grande sconosciuta, almeno in Italia: la scienza che determina tutte le vittorie belliche. Cadorna è dovuto entrare in guerra per decisione politica con un esercito inesistente nella qualità e numericamente insufficiente per il fronte da difendere, troppo lungo e vantaggioso per gli austriaci che l'avevano oculatamente scelto nel 1866. I nostri Alleati, per alleggerire il fronte occidentale, ritenuto quello decisivo, ci assegnarono il compito di tenere impegnati - e logorare - gli austriaci da Sud. Cadorna sviluppò artiglierie, mitragliatrici ed aerei, fortificando la linea del Grappa e costruendo 2000 km di vie di comunicazione logistica. «Tolse» così dal fronte occidentale 16 divisioni tedesche”.

D. Entrata in guerra per ultima, con un ruolo laterale, l’Italia assestò, tuttavia, il colpo decisivo…

R. “Cadorna aveva sempre previsto ogni possibilità, compreso quello che successe a Caporetto, (per l’improvviso crollo della Russia), preparando e attuando la ritirata strategica sulla linea del Grappa, definita da Vittorio Emanuele Orlando «un miracolo». Grazie a questa linea abbiamo vinto perché eravamo finalmente in situazione di predominio di fuoco, logistico e di riserve, con un fronte ridotto di un terzo. Questo consentì a Diaz – che sostituì Cadorna dopo Caporetto - di migliorare le condizioni di vita dei soldati, anche perché il Governo, spaventatosi, finalmente aprì i cordoni della borsa. Gli austroungarici, penetrati troppo in profondità in territorio italiano, si arenarono sulla linea del Grappa, fino alla resa finale con Vittorio Veneto, il 4 novembre ‘18. La Germania del Kaiser si arrese una settimana dopo, temendo un’invasione italiana dalla Baviera. Così, la Grande guerra l’ha vinta la strategia di Cadorna (per tutta l’Intesa, facendola terminare un anno prima rispetto alle previsioni degli Alleati) tanto che Diaz non la cambiò di una virgola. Oggi viene ancora studiata nelle Scuole di Guerra americane”.

D. E la famosa questione delle fucilazioni? 

R. “Un uso comune a tutti gli eserciti belligeranti, e pochi sanno che, proporzionalmente, furono in numero maggiore sotto Diaz. Il Comandante Supremo doveva consentire agli ufficiali di mantenere la disciplina ad ogni costo. Quindi, soltanto in presenza di gravissimi reati che prevedessero la pena di morte, nell'impossibilità di riunire un tribunale e, talora, di identificare i colpevoli per l'omertà del reparto, con i poteri derivanti dall'art. 251 del codice vigente, Cadorna autorizzò i Comandanti a procedere per fucilazioni sommarie. Esse furono in totale 300 (su 5 milioni di uomini in armi): cose "orribilmente disgustose e ripugnanti", come scrisse lo stesso Cadorna, ma purtroppo necessarie e che servirono a dare un esempio indispensabile per il mantenimento della disciplina contribuendo alla vittoria finale”.

Parole interessanti, che riguardano la nostra storia, eppure oscurate dagli inutili berci su fascismo-antifascismo.

(ANSA il 12 marzo 2023) Il progetto prevede "un approccio apolitico, secondo una prospettiva didattica esclusivamente storica", ma la proposta presentata da due insegnanti che contempla lo studio di 'Faccetta nera' e 'Bella ciao' sta suscitando polemiche alla scuola primaria Bissolati di Cremona. In particolare, più che contro il canto simbolo della resistenza partigiana, i genitori protestano contro il brano diventato inno del regime fascista.

 "Una canzone ignobile che non andrebbe insegnata a bambini delle elementari. La storia non può essere spiegata con 'Faccetta nera'", dichiarano i rappresentanti dei genitori. La dirigente dell'istituto comprensivo, Daniela Marzani, sottolinea che "non si tratta di un progetto ufficiale perché non è inserito nel piano dell'offerta formativa". Una spiegazione che non spegne le polemiche e che potrebbe portare ad una richiesta ufficiale di chiarimenti nelle prossime ore da parte dei genitori.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 4 aprile 2023.

 […] Ps. A proposito: ma sull’Ingegnere che dà della “demente” a Giorgia Meloni (una donna!), il circoletto degli indignados non ha nulla da dire? O si occupa solo di vignette e caricature? O ha anticipato la gita di Pasquetta?

Estratto dell'articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 14 marzo 2023.

Mi chiamano per replicare a una polemica di quel circoletto di onanisti chiamato Twitter sulla caricatura di Elly Schlein firmata dal nostro Francesco Federighi. Qualche genio la chiama “fotografia”, qualche gigante del pensiero tira in ballo l’antisemitismo per via del nasone che la titolare, più spiritosa dei servi sciocchi, definisce “etrusco”.

Naturalmente non replico un bel nulla: sarebbe come spiegare una battuta o una barzelletta a chi non l’ha capita. “Mai discutere con un idiota: la gente potrebbe non notare la differenza” (Arthur Bloch).

 […] Sono i dittatori che ingaggiano pittori di corte per farsi il ritratto autorizzato. Dove la stampa è libera, i potenti vengono sbeffeggiati dalla satira e dalla sua forma più bonaria: la caricatura, “ritratto che, senza abolire la rassomiglianza con la persona, ne accentua in modo ridicolo o satirico i tratti caratteristici” (Treccani).

Federighi ha lavorato per varie testate, fra cui l’Espresso, caricaturando uomini, donne e Lgbtq di destra, centro e sinistra: il naso lungo di Conte, le orecchie a sventola della Raggi e del Papa, le occhiaie della Meloni, i dentoni di Renzi...

 […] Il Fatto, nato per dar voce a chi non ce l’ha, è impregnato di satira  in ogni pagina. E finisce spesso nel mirino dei censori. Nel 2016 per la vignetta di Mannelli sulla Boschi: “Riforme: lo stato delle cos(c)e”. Sessista, volgare! Le risate che ci facemmo con Dario Fo: “Disegnatela a mezzobusto come Vespa e ditelo ufficialmente: la Boschi non ha le cosce”. L’anno scorso per la vignetta di Vauro sul nasone di Zelensky: antisemiti, putiniani! Diciamolo ufficialmente: Zelensky ha un nasino alla francese. L’altroieri Salvini che tuona contro Mannelli per il Circo Meloni con animali.

[…] Intanto la Bbc è costretta a furor di popolo a reintegrare Gary Lineker dopo averlo sospeso per un feroce tweet contro il governo Sunak. Nei Paesi seri anche la censura è una cosa seria. Nel Paese di Pulcinella si strilla contro le caricature, anche perché un caso Lineker non ce lo possiamo permettere: qui uno come lui non verrebbe mai censurato, perché nessuno gli avrebbe dato un programma.

Interviene il Consiglio nazionale dell’ Ordine dei Giornalisti sul vergognoso giornalismo di “Piazza Pulita”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Marzo 2023.

Avrebbe turbato gli spettatori per stessa ammissione del conduttore del programma durante la lettura del suo editoriale, portata in studio dall’inviata sul luogo del dramma. Ma anche gli attacchi tutt’altro che velati e deontologicamente corretti rivolti alle istituzioni strumentalizzando una tragedia ancora tutta da accertare e metabolizzare.

Con una nota il Comitato esecutivo del Cnog ha reso noto che sono giunte numerose segnalazioni sulla “spettacolarizzazione” della trasmissione “Piazza pulita” in onda su La7 durante la quale sono state mostrate, in chiave di spettacolarizzazione,  le scarpette presumibilmente di uno dei bimbi coinvolti nel tragico naufragio sulle coste di Crotone. “Comportamenti poco deontologici che saranno valutati dai Consigli di disciplina competenti per territorio“.

Quell’insistere della telecamera sulla scarpetta di una delle piccole vittime del naufragio di Cutro, Avrebbe turbato gli spettatori per stessa ammissione del conduttore del programma durante la lettura del suo editoriale, portata in studio dall’inviata sul luogo del dramma. Ma anche gli attacchi tutt’altro che velati e deontologicamente corretti rivolti alle istituzioni strumentalizzando una tragedia ancora tutta da accertare e metabolizzare. 

Il diritto di cronaca è sacro” ricorda il Consiglio Nazionale “ma lo è altrettanto il rispetto della deontologia professionale che impone il corretto comportamento dei cronisti sui luoghi degli eventi e, anche in televisione, continenza e rispetto nel linguaggio, compreso quello non verbale”.

Il Comitato esecutivo  del Cnog pertanto ha deciso quindi di inviare una segnalazione ai Consigli di disciplina competenti per l’apertura di un procedimento sul caso. E forse era ora che qualcuno riportasse sui binari del corretto giornalismo il programma “Piazza Pulita”, visto l’editore de La7 pensa solo e soltanto all’ Auditel….Redazione CdG 1947

Pd, lo stupidario politico-lessicale sulla tragedia di Crotone: parole a caso. Francesco Carella su Libero Quotidiano il  05 marzo 2023

La sensazione che si ricava seguendo le polemiche di questi giorni dopo la tragedia di Crotone è che in Italia sia davvero impresa difficile riuscire a liberarsi dello stupidario politico-lessicale della sinistra di matrice sessantottina.

Ci si era illusi che alcuni strumenti della subcultura comunista fossero stati consegnati in via definitiva al magazzino di un robivecchi. La qual cosa non sembra essere avvenuta a giudicare dalle molte reazioni maturate nella cosiddetta area progressista. Infatti, i “funzionari della verità” - come in una sorta di riflesso pavloviano - invece di attendere il risultato delle indagini, per capire che cosa sia andato storto nella catena delle comunicazioni la notte del nubifragio, si sono affrettati, con la nota sicumera, a dare la “giusta versione” dei fatti: si è trattato di una strage di Stato. Il dizionario della politica italiana compie, in tal modo, un salto indietro di parecchi decenni. Il concetto, famigerato e fuorviante, guadagna un posto di rilievo nel nostro dibattito pubblico all’indomani della strage di piazza Fontana avvenuta il 12 dicembre 1969 a Milano, quando viene dato alle stampe un pamphlet - per l’appunto “La strage di Stato” - in cui attraverso una dubbia operazione condita di sospetti e coincidenze vengono additati quali responsabili della bomba alla Banca dell’Agricoltura - in disprezzo delle più elementari regole fattuali non solo singoli funzionari o parti di servizi deviati, ma addirittura le più importanti cariche istituzionali del Paese. Vengono fatti i nomi del ministro dell’Interno Franco Restivo, del presidente del Consiglio Mariano Rumor e - tanto per non tralasciare nulla- viene tirato in ballo finanche il capo dello Stato Giuseppe Saragat.

 Dietro quell’orribile atto terroristico si affermava nel libretto - non potevano non esserci personalità di così alto livello in ragione del fatto che essi non solo in quei mesi erano impegnati a contrastare le violenze di piazza commesse dai compagni, ma soprattutto risultavano amici degli Stati Uniti a cui veniva attribuita (manco a dirlo) la regia occulta della strage. Una tale vulgata diventa egemone presso l’establishment politico-culturale della sinistra a tal punto da guidare negli anni a venire l’interpretazione di tutti gli episodi cruenti che segnano la vita pubblica italiana nel secondo Novecento. Una forma mentis che informa di sé ricostruzioni storico-giornalistiche, atti parlamentari, requisitorie giudiziarie fino a ridurre in un unico quadro esplicativo l’intero capitolo dei misteri d’Italia. Tutto finisce nel medesimo calderone, dalle stragi impunite ai servizi segreti deviati, dalle Brigate rosse al terrorismo nero, da Gladio alla P2, dalla morte di Mattei al caso Moro e così per tante altre pagine della storia repubblicana. In tal senso, fare luce sui singoli accadimenti finisce con il risultare secondario rispetto all’opportunità di sfruttarli appieno per ragioni di opportunismo politico. Del resto, riportare ogni singolo atto dentro la logica della strage di Stato significa legittimare la validità del “verbo cominternista” che individua nello Stato democratico-liberale i presupposti di un perenne pericolo fascista al quale è necessario rispondere attraverso una continua mobilitazione popolare guidata dagli unici soggetti in possesso dei titoli giusti per farlo, ovvero i comunisti. Ci si era illusi che tutto ciò appartenesse al passato. Purtroppo, a giudicare dalle polemiche sul naufragio di Crotone sembra che poco sia cambiato. I fatti ancora una volta possono essere sacrificati in nome dell’ideologia.

I “giornaloni” sinistrorsi senza vergogna: ecco quali notizie censurano. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Marzo 2023.

I giornalisti italiani si collocano politicamente più a sinistra dei cittadini. Ne consegue una scarsa fiducia dei lettori nella carta stampata. I grandi – presunti tali – giornalisti di questo paese hanno scoperto di non contare "nulla" elettoralmente. Più si schierano a sinistra e più il popolo vota a destra.

di Francesco Storace

Se non canti “Bella ciao” non sei degno delle notizie di stampa. Se non urli a squarciagola che odi i tuoi coetanei di destra, scordati un titolo. È la stampa egemonizzata dalla sinistra che la fa da padrona ancora oggi. Pretendono di decidere che cosa si deve sapere e che cosa è bene ignorare: le notizie sgradite a sinistra non si danno, tanto per capirci. Nonostante un pensiero politico maggioritario a destra, i giornaloni se ne fottono dell’opinione pubblica. Si lamentano delle copie perdute – chissà perché ma continuano a raccontare l’Italia a modo loro. E quindi chi prende a botte ragazzi di destra se la cava: la reputazione resta intatta, se non negli atti giudiziari. E neppure quando fioccano le carte della magistratura riescono a sussurrare tra di loro “e adesso?”. No, bisogna nascondere tutto.

È una vergogna il silenzio dei giornaloni sulle indagini della magistratura sull’aggressione ai cinque studenti di Azione universitaria da parte dei collettivi “rossi” di Bologna. Ed è un’indecenza il silenzio della politica di sinistra: si sono precipitati a Firenze per una rissa, tacciono sul pestaggio vero nel capoluogo emiliano. I fatti sono di maggio 2022, gli atti di conclusione indagini di settembre dello stesso anno, ma le notifiche di otto persone indagate e appartenenti ai collettivi di sinistra arrivano solo ora. Ce ne sarebbe di materiale anche per chiedere conto di quanto tempi ci vuole per indagare da quella parte.

Ameno di non soffrire di cecità, è scandaloso il non visto sui media che fanno opinione. I fatti di Firenze hanno guadagnato le prime pagine; quelli di Bologna – arrivati addirittura a conclusione indagini, un passo prima del processo – vanno rimossi. Il Corriere della Sera dedica una colonnina in nazionale e poi un pezzo sull’edizione locale. La Repubblica confina tutto nelle cronache cittadine. La Stampa intona il me ne frego e non pubblica nulla. Se non ci fossero quattro quotidiani più attenti – Libero, Il Giornale, La Verità e Il Tempo – gli italiani non avrebbero diritto a saperne alcunché. Ovviamente, Il Fatto Quotidiano tace e incredibilmente pure Il Messaggero. Il Resto del Carlino ne parla. Sapete come? Anch’esso con una colonnina striminzita sotto al titolo “Malmenati a Bologna”, mica teppisti rossi indagati. Ieri mattina, mentre gli hater di piazza si scatenavano con i loro slogan a Firenze, a Milano mettevano a testa in giù manifesti con i volti di Giorgia Meloni e Giuseppe Valditara, la premier e il ministro dell’Istruzione. Ma in Italia, dicono, c’è il fascismo. 

In realtà, alberga frustrazione nei grandi giornaloni e nei sottomedia che li seguono scodinzolanti. Perché la sacralità della notizia è compromessa da una faziosità che ha superato ogni limite accettabile. Bologna, luogo delle botte ai giovani di destra, si è già distinta con l’ultrasinistra nelle scorse settimane, bruciando persino un manichino raffigurante la Meloni. Eppure, non leggiamo inviti alla moderazione, condanne degli estremisti e neppure la notizia dell’indagine aperta contro i collettivi rossi di Bologna. Come se fosse normale picchiare contro la destra, salvo frignare quando le prende la sinistra mentre impedisce un volantinaggio avversario. Temiamo che prima o poi, con il clima di odio che cresce e con le protezioni garantite ai gruppuscoli dei centri sociali di sinistra, qualcosa di grave potrebbe succedere. E tutto andrebbe messo a carico di una stampa che non vuole fare il suo dovere. Per non parlare di certe trasmissioni televisive, fra tutte “Piazza Pulita” di Corrado Formigli. 

Almeno, alla Rai il Tg2 ha mostrato la violenza rossa contro Azione universitaria: per il resto solo silenzio che sa tanto di complicità. Il motivo è probabilmente intuibile. I grandi – presunti tali – giornalisti di questo paese hanno scoperto di non contare “nulla” elettoralmente. Più si schierano a sinistra e più il popolo vota a destra. Ma si devono rendere conto che se prendere parte nel conflitto politico è legittimo, tacere sulla violenza di casa loro è davvero insolente. Perché non si informano i cittadini e si deforma l’informazione che si deve offrire a chi legge quei giornali. Redazione CdG 1947

Stampa e Repubblica senza vergogna: quale notizia censurano. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 05 marzo 2023

Se non canti “Bella ciao” non sei degno delle notizie di stampa. Se non urli a squarciagola che odi i tuoi coetanei di destra, scordati un titolo. È la stampa egemonizzata dalla sinistra che la fa da padrona ancora oggi. Pretendono di decidere che cosa si deve sapere e che cosa è bene ignorare: le notizie sgradite a sinistra non si danno, tanto per capirci. Nonostante un pensiero politico maggioritario a destra, i giornaloni se ne fottono dell’opinione pubblica. Si lamentano delle copie perdute - chissà perché ma continuano a raccontare l’Italia a modo loro. E quindi chi prende a botte ragazzi di destra se la cava: la reputazione resta intatta, se non negli atti giudiziari. E neppure quando fioccano le carte della magistratura riescono a sussurrare tra di loro “e adesso?”. No, bisogna nascondere tutto.

È una vergogna il silenzio dei giornaloni sulle indagini della magistratura sull’aggressione ai cinque studenti di Azione universitaria da parte dei collettivi rossi di Bologna. Ed è un’indecenza il silenzio della politica di sinistra: si sono precipitati a Firenze per una rissa, tacciono sul pestaggio vero nel capoluogo emiliano. I fatti sono di maggio 2022, gli atti di conclusione indagini di settembre dello stesso anno, ma le notifiche di otto persone indagate e appartenenti ai collettivi di sinistra arrivano solo ora. Ce ne sarebbe di materiale anche per chiedere conto di quanto tempi ci vuole per indagare da quella parte.

A meno di non soffrire di cecità, è scandaloso il non visto sui media che fanno opinione. I fatti di Firenze hanno guadagnato le prime pagine; quelli di Bologna - arrivati addirittura a conclusione indagini, un passo prima del processo - vanno rimossi. Il Corriere della Sera dedica una colonnina in nazionale e poi un pezzo sull’edizione locale. La Repubblica confina tutto nelle cronache cittadine. La Stampa intona il me ne frego e non pubblica nulla. Se non ci fossero quattro quotidiani più attenti – Libero, Il Giornale, La Verità e Il Tempo - gli italiani non avrebbero diritto a saperne alcunché. Ovviamente, Il Fatto tace e incredibilmente pure Il Messaggero. Il Resto del Carlino ne parla. Sapete come? Anch’esso con una colonnina striminzita sotto al titolo “Malmenati a Bologna”, mica teppisti rossi indagati. Ieri mattina, mentre gli hater di piazza si scatenavano con i loro slogan a Firenze, a Milano mettevano a testa in giù manifesti con i volti di Giorgia Meloni e Giuseppe Valditara, la premier e il ministro dell’Istruzione. Ma in Italia, dicono, c’è il fascismo. 

In realtà, alberga frustrazione nei grandi giornaloni e nei sottomedia che li seguono scodinzolanti. Perché la sacralità della notizia è compromessa da una faziosità che ha superato ogni limite accettabile. Bologna, luogo delle botte ai giovani di destra, si è già distinta con l’ultrasinistra nelle scorse settimane, bruciando persino un manichino raffigurante la Meloni. Eppure, non leggiamo inviti alla moderazione, condanne degli estremisti e neppure la notizia dell’indagine aperta contro i collettivi rossi di Bologna. Come se fosse normale picchiare contro la destra, salvo frignare quando le prende la sinistra mentre impedisce un volantinaggio avversario. Temiamo che prima o poi, con il clima di odio che cresce e con le protezioni garantite ai gruppuscoli dei centri sociali di sinistra, qualcosa di grave potrebbe succedere. E tutto andrebbe messo a carico di una stampa che non vuole fare il suo dovere. Per non parlare di certe trasmissioni televisive, fra tutte Piazza Pulita di Corrado Formigli. 

Almeno, alla Rai il Tg2 ha mostrato la violenza rossa contro Azione universitaria: per il resto solo silenzio che sa tanto di complicità. Il motivo è probabilmente intuibile. I grandi – presunti tali – giornalisti di questo paese hanno scoperto di non contare nulla elettoralmente. Più si schierano a sinistra e più il popolo vota a destra. Ma si devono rendere conto che se prendere parte nel conflitto politico è legittimo, tacere sulla violenza di casa loro è davvero insolente. Perché non si informano i cittadini e si deforma l’informazione che si deve offrire a chi legge quei giornali.

Le Querele temerarie.

Sulle querele bavaglio l’Italia ha il primato. E i governi stanno boicottando la legge Ue. FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 14 novembre 2023

Mentre il governo Meloni non esita a utilizzare le querele temerarie per silenziare i media liberi, intanto i dati attestano che l’Italia è il paese europeo nel quale ricorrono più slapp. Una nuova direttiva europea dovrebbe contrastare questa tendenza. Peccato che i governi la stiano boicottando...

Mentre uno studio dell’Europarlamento assegna all’Italia il primato in fatto di bavagli, intanto i governi europei provano ad annacquare la futura direttiva europea che dovrebbe appunto contrastarli. Parliamo di “slapp”, acronimo che suona non a caso come una “sberla” e che sta per “strategic lawsuit against public participation”.

COS’È UNA SLAPP

Si tratta insomma di querele temerarie: le slapp sono azioni legali vessatorie che hanno lo scopo di intimitire e zittire le voci critiche. Per dirla in una parola, sono intimidazioni. Per dirla citando lo studio assegnato dalla commissione Libertà civili dell’Europarlamento, «le slapp comportano l’utilizzo di procedure giudiziarie per fini che sono ben altri rispetto a quello di esercitare un diritto. Queste querele temerarie vogliono silenziare le comunicazioni su temi di pubblico interesse e producono un effetto inibitorio»; è l’effetto di autocensura, noto come “chilling effect”.

PERCHÉ CI RIGUARDA

«Il comportamento delle autorità italiane nei confronti di Domani è scioccante. Dimostra quanto sia urgente e necessaria la legge di Daphne, cioè la legge anti slapp». Così Corinne Vella, la sorella della cronista maltese assassinata, Daphne Caruana Galizia, aveva commentato gli attacchi del governo Meloni a Domani, alla stampa libera, a colpi di slapp appunto. Anche dopo aver assunto l’incarico di premier, Giorgia Meloni non ha rinunciato a portare avanti le azioni legali contro Roberto Saviano e contro il direttore di questa testata. Numerose anche le querele partite dal sottosegretario leghista Claudio Durigon, una delle quali era sfociata con l’arrivo dei carabinieri in redazione per sequestrare un articolo; il caso ha provocato uno scandalo su scala europea.

SUL PODIO PER I BAVAGLI

Lo studio commissionato dall’Europarlamento dà le dimensioni del fenomeno: in Unione europea sono i politici a ricorrere più di tutti alle slapp (quasi il 43 per cento di querele temerarie parte da esponenti politici). E fra tutti i paesi dell’Ue, proprio l’Italia è quella dove le slapp assumono le dimensioni più ingombranti: oltre un caso su quattro (il 25,5 per cento) si configura come querela bavaglio. Dopo Roma, vengono Madrid (17 per cento) e Atene (12,8).

LA DIRETTIVA EUROPEA

La Commissione europea ha proposto una direttiva anti slapp per cominciare a contrastare la tendenza con strumenti europei. Al momento la direttiva è in fase di trilogo: significa che sia l’Europarlamento che il Consiglio (ovvero i governi) hanno maturato la loro posizione sul tema, e adesso bisogna trovare una sintesi interistituzionale, d’accordo con la Commissione. Perciò i negoziati sono in corso. 

«Entro fine novembre ci si attende una stretta di mano, ma le notizie che abbiamo sui negoziati sono tutt’altro che positive», dice Camille Petit, che segue il dossier per la Federazione europea dei giornalisti (Efj). La European Federation of Journalists ha siglato assieme ad altre organizzazioni per la libertà di stampa e ad altre ong una lettera nella quale allerta l’Ue perché «rischia di perdere un’opportunità storica».

COME SVUOTARE UNA LEGGE

Mentre la posizione degli europarlamentari è la più avanzata, i governi – cioè il Consiglio – spingono invece nella direzione opposta, con il rischio sempre più concreto che la ventura direttiva sia del tutto annacquata. Per capire in che modo gli stati membri stanno svuotando la proposta di direttiva, basta citare il punto più importante: la definizione di «transfrontaliero». La direttiva infatti prevede un intervento europeo basandosi sul carattere transfrontaliero di una querela temeraria. Ma sulla base di cosa si decide se una slapp coinvolge più di uno stato membro? Un approccio ampio prevede ad esempio che transfrontaliero possa essere l’interesse pubblico.

Il Consiglio si sta muovendo invece perché siano considerati transfrontalieri sono i casi nei quali le parti coinvolte sono domiciliare in più di uno stato membro. 

SOLO UN CASO SU DIECI

«Ma ciò comporta che migliaia di potenziali slapp non rientreranno sotto l’ombrello delle misure protettive introdotte dalla direttiva europea», come segnala Efj nella sua lettera aperta.

Anche lo studio dell’Europarlamento è molto netto su questo punto: «Se davvero gli stati membri dovessero adottare l’approccio per cui l’elemento transfrontaliero esiste solo in caso di diverso domicilio, circa il 90 per cento dei casi che noi identifichiamo come casi con connessioni in più di uno stato membro verrebbero esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva».

FRANCESCA DE BENEDETTI.  Scrive di Europa ed Esteri a Domani, dove cura anche le partnership coi media internazionali, e ha cofondato il progetto European Focus, una coproduzione di contenuti su scala europea a cura di Domani e altri otto media europei tra i quali Libération e Gazeta Wyborcza. Europea per vocazione, in precedenza ha lavorato a Repubblica e a La7, ha scritto per The Independent, MicroMega e altre testate. Non perdiamoci di vista: questo è il mio account Twitter

Estratto dell’articolo di Marco Grasso per “il Fatto quotidiano” martedì 31 ottobre 2023.

“L’informazione è sotto attacco. Ci troviamo di fronte a una classe politica insofferente alle domande, che vorrebbe un giornalismo vetrina e non tollera quando invece diventa una finestra aperta sul potere, come diceva Kennedy. Un tempo ai giornalisti scomodi si sparava. Oggi si tenta di delegittimarli. Con il ricorso a querele, attaccando le loro fonti, preparando dossier”. 

Sigfrido Ranucci rimette in fila gli ultimi assalti subiti da Report: da Matteo Renzi che si scaglia contro le spese legali del programma pagate dai contribuenti alla vigilanza Rai che chiede conto della puntata sull’eredità di Silvio Berlusconi, passando alle varie azioni legali subite. 

[…]

Ranucci, a che casi si riferisce?

Posso parlare di quelli che conosco e cioè quelli subiti da Report. Dopo un servizio su Renzi si sono inventati che avevamo pagato una fonte in Lussemburgo con fondi neri della Rai. Tutto falso. L’ex sindaco di Flavio Tosi ci accusò di costruire falsi dossier su di lui, ma è stato condannato per diffamazione e un risarcimento di 15mila euro. 

[…]

Si attaccano i giornalisti per non rispondere?

Queste strategie sono armi di distrazioni di massa. Ma quando non si risponde a un giornalista, non si risponde a tutta l’opinione pubblica. Pochi giorni fa il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro si è rifiutato di rispondere a domande sulla strage di Mestre, sulla base del fatto che non voleva parlare con Report. 

In che stato di salute è l’informazione?

Non è un bel momento per la libertà di stampa in Italia. Ma non è un fenomeno cominciato con il governo Meloni, va avanti così da anni. Si è persa la figura dell’editore puro, gli imprenditori che possiedono testate spesso hanno saldi legami con la politica. La fragilità economica indebolisce i cronisti, li espone alla minaccia di azioni giudiziarie.

Nell’ultimo anno siamo stati denunciati da Giorgetti, da Fontana, da Urso, dai figli di La Russa. Non è così normale e non è rassicurante la solerzia con cui le Procure danno corso a questo tipo di querele, mentre sembrano paralizzate sul fronte del contrasto alla corruzione e ai reati contro la pubblica amministrazione. Ma c’è un altro grande fronte di questa offensiva... 

Quale?

L’attacco alle fonti e ai whistleblower. Report denunciò la truffa delle banche sui diamanti. Il risultato è stato che Bankitalia ha licenziato il funzionario che aveva denunciato anomalie, Carlo Bertini. Un altro caso è l’iniziativa giudiziaria di Matteo Renzi contro la professoressa che filmò l’incontro in autogrill con l’allora dirigente dell’intelligence Marco Mancini.

Matteo Renzi, poche ore prima che andasse in onda la vostra puntata in cui si parlava dei suoi rapporti con i sauditi, ha attaccato: “Fango da Report, peccato che la Rai paghi le spese legali a questi signori”.

Il senatore Renzi può dire quello che vuole, ma non che siamo inaffidabili. Dice di non essersi mai interessato della vendita della Fiorentina, ma il dg della Fiorentina Joe Barone conferma il messaggio che abbiamo rivelato. E se poi la preoccupazione di Renzi sono le nostre spese legali, sappia che non abbiamo mai perso una querela. 

Le azioni legali sono un’arma per silenziare i giornalisti?

Il tasso di querele a cui siamo abituati è un’anomalia tutta italiana. Andrebbe introdotta una legge in proposito. Chi presenta un’azione che viene giudicata temeraria dovrebbe poi pagare il 30% di quello che aveva richiesto. Sono sicuro che le querele crollerebbero. […]

Estratto dell’articolo di Martina Castigliani per ilfattoquotidiano.it lunedì 16 ottobre 2023.

Sono giorni cruciali per le trattative sulla prima legge Ue contro azioni e querele temerarie (le cosiddette SLAPP). Eppure nessuno ne parla. Il testo è stato concepito per tutelare la partecipazione pubblica di giornalisti, attivisti e difensori dei diritti umani. Ma gli Stati membri stanno tentando di indebolire il documento proposto dalla commissione Ue […] gli attori della società civile che sono parte della coalizione anti-SLAPP (CASE) si appellano ai ministri della Giustizia dei singoli Stati. Che però non stanno mostrando aperture. […] “I Paesi, nonostante le raccomandazioni della commissione, non hanno neanche iniziato a raccogliere i dati”, spiega a ilfattoquotidiano.it Sielke Kelner, ricercatrice di Osservatorio Balcani Caucaso e membro di CASE. […] 

A luglio avete scritto al ministro Nordio per chiedere aiuto. Avete avuto una risposta?

No, nessuna. Ora abbiamo chiesto un incontro. […] Il testo della Commissione e poi la proposta del Parlamento sono solidi, ma la proposta avanzata dal consiglio dell’Ue, espressione della volontà degli stati membri, ne ha ristretto il campo di azione, indebolendolo. […] 

È tutto in mano agli Stati?

Sono loro a essere riluttanti. […] se […] continuano a opporre la propria resistenza, qualcuno dovrà cedere. 

Doveva essere la legge per la libertà di stampa in onore di Daphne Caruana Galizia. Il risultato deluderà tutte le aspettative?

Tutti hanno l’interesse di presentare un risultato e chiamarlo successo a prescindere dal fatto che protegga o meno giornalisti e attivisti. […] 

Cosa chiedete?

Servono delle garanzie procedurali. La prima è la possibilità da parte del giudice di dichiarare inammissibili i casi manifestamente infondati o esagerati: gli Stati l’hanno ridotta ai casi con “una pretesa così palesemente infondata” senza “ogni ragionevole dubbio”. E questo ne riduce l’applicazione. 

Che fine ha fatto la possibilità che ci sia un risarcimento danni per chi subisce una querela temeraria?

Nel testo proposto dagli Stati membri è sparita. Questo sarebbe un forte deterrente: chi abusa dell’istituto della diffamazione ci penserebbe su due, tre volte prima di avviare un’azione legale se ci fosse la certezza di essere obbligato a pagare un risarcimento danni nel caso di abuso di processo. 

[…] Perché è importante e non solo per i giornalisti?

L’azione temeraria mira a limitare la libertà di espressione su questioni di pubblico interesse. Può riguardare la salute, la sicurezza pubblica, l’ambiente, i diritti. Ad esempio, se un’attivista o una giornalista viene colpita da una SLAPP perché ha protestato o scritto di vicende che riguardano territori nei quali siano stati riversati rifiuti tossici, questo deve interessare tutti noi, è una questione di interesse pubblico. Per capire il peso che hanno le SLAPP sulla società, possiamo chiederci quanti articoli non sono mai stati pubblicati perché il giornalista o l’editore non li hanno scritti per paura di incorrere in un’azione legale? Questo è il peso delle SLAPP. 

Tutela non solo i giornalisti quindi?

Ad esempio riguarda anche i whistleblower. Penso a Francesco Zambon, ex funzionario dell’OMS a cui è arrivata una richiesta di risarcimento danni da 2,5 milioni di euro da parte del direttore vicario dell’OMS dopo le sue denunce sulla gestione della pandemia. Oppure gli attivisti ambientalisti. Come Recommon, ong citata in giudizio per le azioni di campagna contro Eni sul cambiamento climatico. 

Negli anni le querele temerarie sono aumentate?

Difficile dirlo non avendo dati raccolti in maniera sistematica. 

[…] E in Italia?

In Italia c’è una tradizione di politici che querelano parecchio. E’ una caratteristica che ci pone più vicini ad alcuni Stati del Centro ed Est europeo, ad esempio la Serbia, la Polonia. Abbiamo tanti politici che ricorrono alle azioni temerarie per cercare di silenziare le critiche. E questo va contro tutta la giurisprudenza della Corte di Strasburgo secondo cui se sei una figura pubblica devi tollerare livelli di critica più alti. Un po’ perché è il tuo mestiere e un po’ perché se vuoi rispondere hai tutti i microfoni per farlo. 

Avremo mai una legge contro le querele temerarie?

Attualmente ci sono cinque disegni di legge in discussione alla commissione giustizia del Senato. Il loro impatto è molto marginale. Teoricamente rispondono a un invito della Corte Costituzionale al Parlamento per una riforma complessiva dell’istituto della diffamazione. 

Intervengono per togliere la pena detentiva, non basta?

La Consulta ha già dichiarato incostituzionale il carcere per diffamazione, tranne in casi di estrema gravità. Alcuni tratti dei disegni di legge sono veramente preoccupanti perché innalzano le sanzioni. Uno dei ddl introduce addirittura una pena accessoria diretta ad una temporanea interdizione dalla professione giornalistica. Sembra quasi che l’intento sia più tutelare chi querela che non il querelato, dando per scontata una sorta di malafede del giornalista. 

Siamo tra i peggiori su questo fronte?

Qualitativamente tra i peggiori. […] 

In Europa quanti sono i casi di presidenti del Consiglio che hanno querelato giornalisti?

Che noi sappiamo è successo a Malta e in Italia. Il primo ministro maltese era Joseph Muscat, che aveva querelato per diffamazione Daphne Caruana Galizia, […] Per questo sia Mapping Media Freedom sia CASE stanno monitorando i processi in corso che coinvolgono l’attuale premier italiana: oltre a quello che ha coinvolto Roberto Saviano, lo scorso novembre ha avviato una causa contro Domani. Mentre la sorella ha querelato Natangelo, vignettista del Fatto quotidiano. Prima delle cause di Meloni, limitandosi solo a esempi che hanno coinvolto le cariche più alte dello stato, ricordiamo le querele di De Mita a D’Alema (1988), D’Alema a Forattini (1999) e Berlusconi contro D’Avanzo (2009). […]

In Italia aumentano le minacce ai giornalisti, ma diminuiscono le denunce. Stefano Baudino su L'Indipendente il 3 Ottobre 2023 

In Italia, il numero delle minacce rivolte ai giornalisti è in crescita, mentre diminuisce progressivamente quello delle loro denunce. Lo rivela l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Ossigeno, che nei primi sei mesi del 2023 ha rilevato 83 episodi di intimidazione e minaccia a danno di 234 giornalisti. In media 1,3 vittime al giorno.

Le vicende legate a intimidazioni e minacce a danno di operatori dell’informazione, nello Stivale, sono più numerose di ogni altro Paese europeo. Lo scenario appare ancora più inquietante se si considera che solo il 22% delle vittime avrebbe denunciato alle autorità le violenze e gli abusi subiti. Un dato estremamente eloquente che dimostra come in Italia molti giornalisti abbiano meno fiducia di prima nella giustizia e nella capacità riparatoria dello Stato.

La situazione era risultata molto preoccupante anche nel 2022, in cui Ossigeno aveva contato 107 episodi e 359 giornalisti minacciati. I numeri, fa notare l’Osservatorio, risultano più alti di un terzo rispetto all’anno corrente solo perché vi è stata una “analoga diminuzione delle risorse impiegate” nel 2023 rispetto al precedente (il 35% in meno). Ossigeno sottolinea che “da dieci anni le intimidazioni sono molte più di quelle che l’Osservatorio è in grado di sottoporre alla verifica dei fatti a cui ogni episodio viene sottoposto prima di essere conteggiato, inserito nelle statistiche e segnalato pubblicamente” e che “di anno in anno varia il numero di episodi per i quali è minacciato un numero elevato di giornalisti”.

Il 16 agosto il Ministero dell’Interno ha reso note statistiche da cui si ricava che “le intimidazioni contro i giornalisti rilevate dalle denunce da loro presentate sono diminuite del 28,12%”. Infatti, “dalle 64 del 2022 si è passati alle 46 di quest’anno: di queste ultime, 4 hanno una matrice di criminalità organizzata, 21 sono riconducibili all’attività socio politica e 21 ad ‘altro‘”. La regione italiana che conta il maggior numero di intimidazioni a giornalisti è la Lombardia (11), a cui seguono Lazio (7), Campania (6), Puglia (4) e Sicilia (4).

Sulla base dei dati diramati da Ossigeno, nei primi sei mesi del 2023 si attesta che il 62% dei giornalisti aggrediti o minacciati ha deciso di non denunciare. Ad affidarsi alla giustizia è stato solo il 22%, mentre per il rimanente 16% l’Osservatorio non ha potuto sapere se siano state o meno avviate denunce.

Raddoppiano le intimidazioni ai danni dei giornalisti locali da parte degli amministratori pubblici, che passano dal 6% all’11%. Aumentano, poi, gli episodi che hanno origine dalle tifoserie calcistiche organizzate (se nei primi sei mesi del 2022 erano il 2% del totale, nello stesso periodo del 2023 rappresentano il 10%). Il 22% delle vittime registrate nei primi sei mesi del 2023 è rappresentato da donne (erano state il 25% del totale l’anno precedente). Il 15% di loro è stato vittima di attacchi discriminatori connessi al genere, con insulti e minacce di matrice sessista.

Nel lasso di tempo considerato, sono stati compiuti soprattutto avvertimenti attraverso lettere minatorie, striscioni offensivi, insulti pubblicati sui social media che hanno colpito 68 giornalisti (45%) e azioni legali pretestuose allo scopo di intimidire o mettere a tacere 54 operatori dell’informazione (35%). A seguire, ci sono le azioni violente, che hanno coinvolto 24 giornalisti (16%). Il 2% ha subito, invece, forme di ostacolato accesso all’informazione. Un altro 2% danneggiamenti all’attrezzatura di lavoro.

Il fatto che all’aumento delle intimidazioni ai danni dei giornalisti non consegua un incremento delle denunce, bensì una loro diminuzione, rappresenta un campanello d’allarme importante per la libertà di informazione, nonché per l’incolumità di chi – potendo spesso contare solo su stipendi risibili e poche garanzie sul versante legale – opera nel mondo dell’informazione. Un dato che va letto in combinato disposto con quanto attestato dalla Coalizione contro gli SLAPP in Europa, che ha recentemente attestato come le cause legali abusive intentate in Europa ai danni di giornalisti e media nel 2022 abbiano raggiunto il numero più alto mai registrato. [di Stefano Baudino] 

In Europa le azioni legali infondate minano il giornalismo libero. Stefano Baudino L'Indipendente giovedì 31 agosto 2023.

Le cause legali abusive intentate in Europa nell’arco del 2022 hanno raggiunto il numero più alto mai registrato, attestandosi a 161. Lo ha comunicato in un report, pubblicato la settimana scorsa, la Coalizione contro gli SLAPP in Europa. Il termine SLAPP, che in qualche modo rimanda anche allo “slap” – lo “schiaffo”, in lingua inglese – rappresenta l’acronimo di “Strategic lawsuit against public participation“, che in italiano si può tradurre con “azione legale strategica contro la partecipazione pubblica”. Così vengono inquadrate le azioni legali volte a bloccare la partecipazione alla vita pubblica, ovvero le cause strategiche avviate da entità o personaggi potenti all’indirizzo di giornalisti, media, organizzazioni e individui che hanno il solo obiettivo di ostacolare il loro lavoro ed evitare il controllo pubblico che ne deriva. Un comodo “scudo” per i centri di potere che ne fanno uso, un sistema ormai oliato che, non essendo arginato da leggi solide, in Europa rappresenta una grande problematica per la democrazia.

Il rapporto pubblicato da CASE, un’équipe formata da Ong ed esperti legali, che ha collaborato con la Fondazione Daphne Caruana Galizia, offre uno spaccato impietoso sull’inquietante crescita del numero degli SLAPP in territorio europeo. La lista delle cause legali abusive, ferma ad un totale di 570 dal 2010, è stata aggiornata e ora ne conta in tutto 820. Il 2022 ha rappresentato l’anno nero, con ben 161 SLAPP (nel 2021 sono stati 135). I redattori della ricerca evidenziano però che il numero effettivo degli SLAPP è estremamente più alto rispetto a quello registrato all’interno del report, in quanto il pubblico non può avere accesso a molte informazioni sulle cause legali e le vittime degli SLAPP decidono molto spesso di non denunciare quanto avviene con la paura di incorrere in ritorsioni ulteriori.

Dalla ricerca emerge come le vittime delle “cause temerarie” siano, il più delle volte, singoli individui. In cima alla classifica ci sono infatti i giornalisti (30% degli SLAPP), cui seguono i media (25%) e gli editori (12%). Fuori dal podio, ci sono attivisti (10%) e Ong (5%). I principali autori degli SLAPP sono imprese e affaristi, ma anche persone influenti, gruppi di lobby e organi statali. Oggetto del contendere sono, il più delle volte, questioni di corruzione, governative e ambientali: la base giuridica dominante resta la diffamazione. La più ingente richiesta di risarcimento del 2022 ammonta a 17,6 milioni di euro: l’ha avanzata la società energetica Iberdrola all’indirizzo del giornale spagnolo El Confidencial per presunti “danni alla reputazione”. L’8% di chi ha subito SLAPP, nel 2022, ha dovuto affrontare ripercussioni penali, tra cui anche la reclusione.

“I risultati dell’attuale rapporto CASE sottolineano l’importanza e l’urgenza delle misure di protezione anti-SLAPP, in particolare di una legislazione solida che fornisce un forte scudo di sicurezza sia a livello nazionale che, nel caso di SLAPP transfrontalieri, a livello internazionale”, viene scritto nel report. 1 su 10 delle cause legali identificate tra il 2010 e il 2022 erano transfrontaliere (cioè vedevano domiciliati in Paesi diversi l’attore e l’imputato). A questo proposito, l’anno scorso, la Commissione UE ha annunciato un pacchetto anti-SLAPP che comprende una proposta di Direttiva – un atto legislativo che stabilisce degli obiettivi vincolanti per gli Stati membri – e una Raccomandazione che va a suggerire linee di azione a livello nazionale. Gli SLAPP transfrontalieri rientreranno nell’ambito di applicazione della Direttiva, mentre i casi esclusivamente nazionali resteranno di competenza dei singoli Stati membri. [di Stefano Baudino]

Antonio Giangrande: Per dimostrare quello che non si osa dire:

1) La migliore giornalista italiana non è giornalista (Sic) giusto per dimostrare che nelle professioni spesso si abilita chi non lo merita.

2) Grillo vuol solo rottamare l’ordine dei giornalisti. Come tutti gli altri è prono alle lobbies.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Antonio Giangrande: TRIBUNALE DI POTENZA. SI DECIDE SUL DIRITTO DI CRITICA, MA ANCHE SUL DIRITTO DI INFORMARE.

Le maldicenze dicono che i giornalisti sono le veline dei magistrati. Allora, per una volta, facciamo parlare gli imputati.

Tribunale di Potenza. Ore 12 circa del 21 aprile 2016. All’udienza tenuta dal giudice Lucio Setola finalmente si arriva a sentenza. Si decide la sorte del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, conosciutissimo sul web. Ma noto, anche, agli ambienti giudiziari tarantini per le critiche mosse al Foro per i molti casi di ingiustizia trattati nei suoi saggi, anche con interrogazioni Parlamentari, tra cui il caso di Sarah Scazzi e del caso Sebai, e per le sue denunce contro l’abilitazione nazionale truccata all’avvocatura ed alla magistratura. Il tutto condito da notizie non iscritte nel registro dei reati o da grappoli di archiviazioni (anche da Potenza), spesso non notificate per impedirne l’opposizione. Fin anche un’autoarchiviazione, ossia l’archiviazione della denuncia presentata contro un magistrato. Lo stesso che, anziché inviarla a Potenza, l’ha archiviata. Biasimi espressi con perizia ed esperienza per aver esercitato la professione forense, fin che lo hanno permesso. Proprio per questo non visto di buon occhio dalle toghe tarantine pubbliche e private. Sempre a Potenza, in altro procedimento per tali critiche, un Pubblico Ministero già di Taranto, poi trasferito a Lecce, dopo 9 anni, ha rimesso la querela in modo incondizionato.

Processato a Potenza per diffamazione e calunnia per aver esercitato il suo diritto di difesa per impedire tre condanne ritenute scontate su reati riferiti ad opinioni attinenti le commistioni magistrati-avvocati in riferimento all’abilitazione truccata, ai sinistri truffa ed alle perizie giudiziarie false. Alcuni giudizi contestati, oltretutto, non espressi dall’imputato, ma a lui falsamente addebitate. Fatto che ha indotto il Giangrande per dipiù a presentare una istanza di rimessione del processo ad altro Foro per legittimo sospetto (di persecuzione) ed a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Rigettata dalla Corte di Cassazione e dalla Cedu, così come fan per tutti.

Per dire: una norma scomoda inapplicata.

Processato a Potenza, secondo l’atto d’accusa, per aver presentato una richiesta di ricusazione nei confronti del giudice di Taranto Rita Romano in tre distinti processi. Motivandola, allegando la denuncia penale già presentata contro lo stesso giudice anzi tempo. Denuncia sostenuta dalle prove della grave inimicizia, contenute nelle motivazioni delle sentenze emesse in diversi processi precedenti, in cui si riteneva Antonio Giangrande una persona inattendibile. Atto di Ricusazione che ha portato nel proseguo dei tre processi ricusati all’assoluzione con giudici diversi: il fatto non sussiste. Questione rinvenibile necessariamente durante le indagini preliminari, ma debitamente ignorata.

Ma tanto è bastato all’imputato, nell’esercitare il diritto di difesa ed a non rassegnarsi all’atroce destino del “subisci e taci”, per essere processato a Potenza. Un andirivieni continuo da Avetrana di ben oltre 400 chilometri. Ed è già una pena anticipata.

L’avvocato della difesa ha rilevato nell’atto di ricusazione la mancanza di lesione dell’onore e della reputazione del giudice Rita Romano ed ha sollevato la scriminante del diritto di critica e la convinzione della colpevolezza del giudice da parte dell’imputato di calunnia. La difesa, preliminarmente, ha evidenziato motivi di improcedibilità per decadenza e prescrizione. Questioni Pregiudiziali non accolte. L’accusa ha ravvisato la continuazione del reato, pur essendo sempre un unico ed identico atto: sia di ricusazione, sia di denuncia di vecchia data ad esso allegata.

Il giudice Rita Romano, costituita parte civile, chiede all’imputato decine di migliaia di euro di danno. Imputato già di per sé relegato all’indigenza per impedimento allo svolgimento della professione.

Staremo a vedere se vale la forza della legge o la legge del più forte, al quale non si possono muovere critiche. Che Potenza arrivi a quella condanna, dove Taranto dopo tanti tentativi non è riuscita?

Dicono su Avetrana accusata di omertà: “Chi sa parli!” Se poi da avetranese parli o scrivi, ti processano.

La Diffamazione. La crisi del sistema giustizia nelle diffamazioni. Se la certezza del diritto dipende da chi denuncia. Paolo Pandolfini su Il Riformista l'11 Agosto 2023 

Da tempo ormai le decisioni giudiziarie in tema di diffamazione stanno creano grande disorientamento. Se paragonare l’allora presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati ad Adolf Hitler non è ‘antigiuridico’, criticare in maniera ironica, come fece Maurizio Costanzo, il giudice che non aveva disposto una misura restrittiva per l’ex fidanzato di Jessica Notaro, poi sfregiata da costui con l’acido, ha determinato la condanna del conduttore televisivo oltre al pagamento di una maxi provvisionale di 40mila euro.

Si è creata, in altre parole, una giurisprudenza quanto mai imprevedibile che rende difficilissimo ricondurre ad un ordine sistematico tali decisioni giudiziarie. E non è certamente un bel segnale. La discrezionalità del giudicante in questo ambito è massima e ciò determina, inevitabilmente, la crisi del sistema giustizia. Solo al giudice, ed alla sua valutazione e sensibilità, compete infatti acclarare se una dichiarazione rientri nell’alveo della libertà di espressione, della critica o della satira, o invece è idonea a ledere i diritti della personalità altrui, come l’onore e la reputazione. I criteri per assicurare, almeno sulla carta, una certa uniformità negli importi risarcitori da liquidare al danneggiato comunque ci sarebbero.

Al primo posto, in ordine di importanza, vi è la natura del fatto falsamente attribuito alle parti lese. Segue quindi l’intensità dell’elemento psicologico dell’autore ed il mezzo di comunicazione utilizzato per commettere la diffamazione e la sua diffusività sul territorio. Infine, vi è il rilievo attribuito dai responsabili al pezzo contenente le notizie diffamatorie all’interno della pubblicazione in cui lo stesso è riportato e l’eventuale eco suscitata dalle notizie diffamatorie.

Una analisi di circa settecento sentenze depositate negli anni 2015/2020 presso il Tribunale di Roma è stata pubblicata su Diritto dell’informazione e dell’informatica, periodico edito da Giuffrè, da parte dei professori di diritto privato comparato Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich. I due docenti hanno acquisito, dopo essere state previamente anonimizzate nella identità delle persone fisiche attrici e convenute, queste pronunce dalla banca dati del Tribunale della Capitale. In taluni casi però la notorietà delle parti ha reso tale misura superflua. Sono invece rimaste identificate le persone giuridiche.

Il dato che balza subito all’occhio riguarda l’accoglimento: solo in tre casi su dieci. Delle oltre quattrocento sentenze di rigetto, poi, tutte decidono nel merito negando l’illecito. Vi sono poche decisioni su questioni preliminari, tipicamente per la competenza territoriale, ovvero di inammissibilità del giudizio oppure sulla sua estinzione.

Nel caso si tratti di magistrati, ed è questo l’aspetto che non può non suscitare sorpresa, la domanda viene accolta in ben sette casi su dieci. Esattamente il contrario, dunque tre accoglimenti su dieci, quando il denunciante appartiene ad una qualsiasi altra categoria professionale (giornalista, politico, professore, imprenditore, ecc.). Per quanto concerne invece gli importi, la media è di circa ventimila euro, esattamente il doppio per le toghe. Difficile non pensare, considerato il differente esito processuale, all’esistenza di una “giustizia domestica” fra i magistrati per questo genere di cause: il giudice che decide sulla denuncia per diffamazione del collega sa che quest’ultimo un domani potrà fare altrettanto. Un magistrato, ex Pm di Mani pulite, nel quinquennio in questione è riuscito ad imbastire oltre venti cause ottenendo un risarcimento complessivo di quasi seicentomila euro. Il convenuto è quasi sempre un mezzo di comunicazione di massa, quotidiano o programma televisivo, che poi corrisponde l’importo liquidato in quanto debitore di ultima istanza, anche rispetto ai propri giornalisti. 

La ricerca si è soffermata anche sulla presenza di non poche decisioni in cui la contesa ha riguardato persone fisiche, generate da offese diffuse attraverso i social media. Si tratta di un fenomeno in grande aumento nell’ultimo periodo. Tenendo conto delle regole sulla competenza territoriale, e quindi che i procedimenti analizzati hanno riguardato per la maggior parte vicende in cui l’editore aveva sede nella Capitale, i dati forniti da Sammarco e Zeno-Zencovich sono meramente indicativi in quanto non riportano gli importi liquidati da altri Tribunali, sede della persona giuridica convenuta, ovvero dove uno dei convenuti è residente, ovvero ancora del luogo di residenza dell’attore. Sarebbe interessante una analisi di queste decisioni sull’interno territorio nazionale. “In estrema sintesi si può affermare che tutto è rimesso all’apprezzamento discrezionale del giudice: è molto difficile, se non impossibile, stabilire in linea di massima come potrà concludersi una causa risarcitoria per diffamazione”, sottolinea sconsolato il professor Sammarco, ricordano che in molti casi scatta anche la condanna alle spese. Della serie, oltre il danno la beffa. Altro dunque che certezza del diritto: in questo caso siamo veramente nell’ambito della cabala. Paolo Pandolfini

Il caso del giornalista. “Torchiaro non commise alcun reato”, dopo 14 anni annullata la sentenza contro il giornalista del Riformista. Nelle motivazioni la Suprema Corte fa a pezzi il processo al giornalista del Riformista: “14 anni nel limbo per una fattura di 9mila euro”. Paolo Comi su L'Unità il 4 Luglio 2023

Il giornalista del Riformista Aldo Torchiaro fece semplicemente il lavoro per il quale era stato pagato. Sono state pubblicate la scorsa settimana le motivazioni con cui la Corte di Cassazione ha annullato ad aprile la condanna nei confronti di Torchiaro, accusato di aver percepito nel 2010 somme non dovute da parte del comune di Parma per una fittizia consulenza giornalistica.

Torchiaro venne coinvolto nella maxi inchiesta condotta dalla guardia di finanza che nel 2011 decapitò i vertici dell’amministrazione locale, ad iniziare dall’allora sindaco Pietro Vignali (FI). Secondo la pm parmigiana Paola Dal Monte, Torchiaro era stato assunto da una partecipata comunale quando invece curava la pagina social di Vignali. Senza alcun riscontro documentale, i finanzieri formularono la pesantissima accusa di peculato basandosi quasi esclusivamente sulle intercettazioni telefoniche. Le date dell’incarico vennero, però, clamorosamente sbagliate. La gestione della pagina, infatti, sarebbe avvenuta nel 2010, mentre l’incarico presso la partecipata nel 2009.

Una tempistica quanto mai inverosimile. “E anche a volerlo considerare come ‘anticipo’, e quindi nella prospettiva della futura gestione della pagina social, non c’è prova da nessuna parte di questo accordo”, scrivono i giudici di piazza Cavour nella sentenza. Torchiaro fin da subito, a dire il vero senza grande successo, aveva prodotto le prove che dimostravano la correttezza del suo operato. “Sono stato quattordici anni nel limbo della giustizia ingiusta. Tutto questo circo, costato allo Stato centinaia di migliaia di euro tra intercettazioni e personale delle Fiamme Gialle, cancellerie di tribunale e migliaia di pagine di faldoni è stato montato – con sprezzo del ridicolo – sull’episodio di una presunta irregolarità per una fattura da me emessa per 9mila euro nel 2009”, dichiara Torchiaro.

La Procura di Parma, allora guidata da Gerardo Laguardia che si candiderà poco dopo – senza successo – alle elezioni amministrative con una lista che era all’opposizione della giunta Vignali, ha commesso errori investigativi. Merita una menzione speciale il maresciallo Iodice (poi premiato con un encomio solenne per la brillante attività svolta, ndr)”, prosegue Torchiaro. I vari filoni contro l’amministrazione comunale di Parma di centrodestra si sono conclusi in questi anni, a parte qualche iniziale patteggiamento, con l’assoluzione di tutti gli indagati, molti dei quali già risarciti per l’ingiusta detenzione patita o per la violazione della legge Pinto per le abnormi tempistiche con cui si svolsero i procedimenti.

Per una combinazione di sottovalutazioni e distrazioni, nella provincia di Parma, in quel periodo, dilagava in modo pressoché indisturbato la ‘ndrangheta, ma la Procura di Parma indagava solo sul comune”, aggiunge Torchiaro. “Purtroppo, come ricorda sempre l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara che per anni è stato a capo del ‘Sistema’, esiste un meccanismo di attenzione selettiva che spinge alcune Procure, e nello specifico gli appartenenti ad alcune correnti della magistratura più forti in alcune Procure, a puntare i riflettori contro figure di pubblico interesse come i giornalisti e gli amministratori locali, allo scopo di ottenere la massima attenzione mediatica”, conclude quindi Torchiaro. “È una sentenza che soddisfa perchè a mio avviso pone la parola fine ad una vicenda giudiziaria che non doveva nemmeno iniziare”, ha dichiarato invece l’avvocato Gian Domenico Caiazza, difensore del giornalista.

Paolo Comi 4 Luglio 2023

Caso Sabella, il Csm respinge le accuse dei media: «Complotto? No, sono le regole». La partecipazione della pm alla Fiera del Libro torna in Commissione ma il plenum respinge le accuse: «Non ha voluto rinunciare al compenso, secondo le circolari non si può fare». Simona Musco su Il Dubbio il 27 aprile 2023.

«Complotto politico», «censura preventiva», «castigo». Il caso della magistrata Marzia Eugenia Sabella, procuratore aggiunto presso il Tribunale di Palermo che ha chiesto di essere autorizzata a partecipare a incontri con studenti nell'ambito del programma “Adotta uno scrittore” presso il Salone internazionale del libro, si è trasformato in uno show. Il tutto a causa degli articoli che hanno anticipato il voto del plenum del Csm della delibera con la quale si negava l’autorizzazione alla toga, diventata per la stampa militante il tentativo di bloccare la magistrata impegnata nel processo a carico di Matteo Salvini. Il retropensiero è chiaro: il Csm, per la prima volta in mano al centrodestra, cerca di punire la magistrata che vuole incastrare il leader della Lega.

Peccato però il problema fosse solo uno: i mille euro di compenso ai quali Sabella non avrebbe voluto rinunciare, secondo quanto evidenziato mercoledì in plenum. La versione della stampa è stata fortemente criticata dai consiglieri del Csm - senza distinzione di colore politico - che hanno sì deciso di rinviare la pratica in Prima Commissione per un supplemento di istruttoria, date le possibili contraddizioni interne delle circolare sulla cui base era stato deciso il niet, ma respingendo al mittente qualsiasi tipo di dietrologia. Anche perché il motivo del no è semplice: a sborsare quei soldi sarà una società privata, nonostante la circolare sugli incarichi extragiudiziari evidenzi la necessità di «evitare che il prestigio come pure i valori dell’indipendenza ed imparzialità siano oppure appaiano compromessi o anche soltanto esposti a rischio, per effetto di gratificazioni o compensi collegabili ad incarichi concessi o controllati da soggetti estranei all’amministrazione della giustizia».

«È inutile negare che l'attenzione che in parte dedichiamo a questa pratica nasce purtroppo dallo sproporzionato e scorretto clamore mediatico che ha avuto - ha sottolineato il togato di Area Marcello Basilico -. Tanti magistrati fanno attività di pubblicità della vita della Costituzione nella società, della legalità senza richiedere compensi quotidianamente. In questo caso nulla da censurare sulla istanza della collega ovviamente, ma è ovvio che qua c'è in gioco, come è stato detto, nulla di più che il compenso non certo la libertà di manifestazione del pensiero in un luogo prestigioso come il Salone del Libro».

La Prima Commissione aveva proposto il rigetto dell’istanza dopo «una accurata istruttoria», ha sottolineato il laico di Forza Italia Enrico Aimi, pur cercando di fare il possibile per «trovare una soluzione positiva alla richiesta». Ma senza successo, in quanto il soggetto conferente è una fondazione di partecipazione, «configurando un modello atipico di persona giuridica privata che non ha come oggetto sociale esclusivo o prevalente l'attività formativa o scientifica in ambito giuridico», mentre il compenso previsto «costituisce un gettone ulteriore rispetto alle spese di viaggio e di soggiorno che saranno sostenute direttamente dalla organizzazione». Non trattandosi di attività di pubblicistica o di produzione artistica, come precisato dalla stessa lettera di incarico, la Commissione ha ritenuto quindi che si trattasse di un'attività assimilabile a convegni, incontri o seminari, «liberamente espletabile solo se non retribuita», come previsto dall’articolo 1.1 della circolare in materia di incarichi extragiudiziari. 

In casi simili, l’autorizzazione è stata concessa a numerosi magistrati, ha evidenziato Aimi, «ma solo a seguito della rinuncia al compenso da parte dei richiedenti». A Sabella, ha dunque aggiunto il laico in quota FI, «non viene assolutamente impedita la partecipazione» all'evento, «come erroneamente è stato riportato anche da taluni mezzi di informazione»: la toga potrà partecipare, «ma a condizione di rinunciare al compenso ulteriore rispetto al rimborso delle spese di viaggio e di soggiorno». E ciò sulla base di una circolare, ha evidenziato il togato di Magistratura Indipendente Eligio Paolini, voluta non da questo Csm, ma da quello precedente. «Un articolo on-line faceva riferimento addirittura ad un complotto politico ordito da questo Consiglio che riflette una maggioranza parlamentare diversa rispetto all'attività svolta dalla collega, che svolge il ruolo di pm nei confronti di un senatore della Repubblica - ha sottolineato -. Questa circolare è stata approvata non da questo Consiglio ma dal Consiglio precedente, dove c'era una maggioranza del tutto diversa. Dopodiché questo consiglio è stato tacciato di essere burocratico. Se applicare la circolare e le norme a tutti - e sottolineo a tutti - vuol dire essere burocrati, sono orgoglioso di esserlo», ha concluso.

La discussione si è conclusa con l’accoglimento della proposta del procuratore generale Luigi Salvato, che pur sottolineando come «la delibera è ineccepibile perché effettivamente la partecipazione ai convegni e seminari previsto dalla circolare all'articolo 5 è esclusivamente quella focalizzata sulla materia giuridica, quindi evidentemente attività del genere non sembrerebbero autorizzabili», ha proposto un supplemento di istruttoria per una riflessione sul punto 4.2 della circolare, che prevede in termini più ampi la possibilità di svolgere attività a carico dei privati, subordinando l'autorizzazione ad un obbligo di motivazione rafforzata. Una discussione «ridicola», ha commentato fuori onda qualche toga, che però dà l’idea del livello di polemica cui sarà costretto a far fronte il Csm del dopo Palamara.

Trent’anni più uno. Le tristi celebrazioni per la strage di Capaci e l’illusione che la mafia sia cambiata. Giacomo Di Girolamo su L'Inkiesta il 2 Giugno 2023

Per l’anniversario della morte di Giovanni Falcone le cerimonie sono state più fiacche del solito, perché non faceva cifra tonda. Eppure era il primo anniversario successivo all’arresto di Messina Denaro, che mette la Sicilia di fronte alle sue responsabilità nella lotta alla criminalità organizzata

Ma sì, fatemi scrivere qualcosa sull’anniversario della strage di Capaci. Ma come, qualcuno obietterà, oggi? che è già giugno? Non ci potevi pensare una settimana prima, dieci giorni fa, che adesso noi si parla d’altro?

No, ci penso adesso che non ci pensa più nessuno, che sono terminate le celebrazioni, anche quest’anno, di quel 23 maggio dell’ora e sempre. Che poi sono state celebrazioni tristi, quelle per Giovanni Falcone e co., perché era il trentunesimo anniversario, e i numeri primi nella retorica delle commemorazioni non sono mai popolari. L’anno scorso sì che era bello: 1992-2022, l’ho letto dappertutto, insieme a «per sempre con noi», «per non dimenticare». Solo che il per sempre non esiste neanche in amore, pensa te nell’antimafia. E poi, abbiamo già dimenticato dove eravamo ieri, figurati il resto.

Sì, vorrei scrivere qualcosa su questo anniversario, sull’aria malinconica che c’era in queste manifestazioni in tono minore, con sindaci, politici, militanti, dirigenti, influencer e testimonial che si guardavano per dire, e adesso? Chi ci arriva al qurantennale? O magari, un po’ prima, al trentacinquesimo? E come ci arriviamo, soprattutto? Qui bisogna inventarsi qualcosa. E infatti a Palermo sono riusciti a trasformare il corteo in un pomeriggio ad alta tensione, con la polizia che ha caricato le persone che manifestavano. Le manganellate ai cortei antimafia. Ecco, questa mancava.

A proposito. Nella mia città, Marsala, al sindaco qualcuno avrà spiegato che c’è una sorta di tara che garantisce l’impunità ogni tot di manifestazioni antimafia che si organizzano. Solo così si giustifica la quantità di incontri con magistrati, giornalisti, scrittori, tutti rigorosamente antimafia, organizzati nel 2022. E le intitolazioni, soprattutto. Piazze, larghi, vie, rotonde, un intero quartiere popolare, il rione Sappusi, che è un grande luogo di spaccio a cielo aperto. Magari erano convinti che i nomi dei poliziotti della scorta di Falcone o di Borsellino aiutassero a reprimere il fenomeno. È finita con le targhette delle vie scollate dopo un po’, come fragili post-it, mentre il crack continua a girare bellamente.

E quindi, sì, mi fa tenerezza il mio Sindaco che ancora, nel 2023, organizza le manifestazioni per il «trentennale delle stragi», vorrebbe che non finissero mai, e l’altra volta sono entrato nella sua stanza e c’erano nello scaffale tutti i libri presentati quest’anno, le biografie, gli illustri saggi, sempre a tema mafia, antimafia e dintorni, ed erano messi con la copertina in evidenza, nel modo opposto, insomma, che tutti conosciamo su come si mettono i libri in una libreria, quasi a voler creare uno scudo. I libri a questo servono, ormai, non a essere letti, ma a essere esposti, come un altarino.

A Castelvetrano è stata esposta anche la teca che contiene i resti della Quarto Savona Quindici, l’auto di scorta del giudice Falcone. La vulcanica Tina Montinaro, vedova del caposcorta Antonino, gira l’Italia con questo cubo trasparente, portandola come testimonianza della violenza mafiosa.

La teca con i rottami dell’auto è stata collocata nella piazza centrale della città, che è la città dei Messina Denaro, per un paio di giorni, con le scuole in pellegrinaggio tipo La Mecca, e le autorità e loro accompagnamenti vari. Pure il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, è arrivato, la prima mattina, ma il fatto è che poi, verso le 13, è andato a pranzo, ed è rimasto in piazza tutto l’apparato di sicurezza, i carabinieri, i poliziotti, si sono fatti tutti un po’ più rilassati, come quando aspetti la campanella che svuota la classe, e allora hanno cominciato a farsi i selfie davanti la teca dell’auto, uno, due, tre foto ricordo e ho pensato a Padre Puglisi, anzi al Beato Padre Puglisi, che non ha pace neanche da morto, gli hanno tagliato dei pezzetti, e le teche con i «frammenti sacri» del suo corpo girano per la Sicilia, e la gente le bacia, le tocca con il fazzoletto bianco, chiede una grazia, la grazia dell’antimafia. Magari si fanno anche loro un selfie. E con questi selfie, come il mio sindaco, si fanno un altarino, da qualche parte.

Ma, dicevamo di Piantedosi, che è arrivato a Castelvetrano, poi a Palermo, per dire una cosa banale: «La mafia è cambiata». È il nuovo refrain, dato che non si può più dire: «Stiamo facendo terra bruciata intorno a Messina Denaro», ora che l’hai preso davvero. La mafia è cambiata. Ma quando mai. È sempre la stessa. È tornata quella di prima, semmai, ma da tempo, dopo l’ultima strage, roba di un’era mafiologica fa. Ed è sempre quella, la mafia, silenziosa, invisibile, borghese.

Forse è questa la condanna che dobbiamo scontare, mi dico:

Ogni anno ricordare Capaci.

Ogni anno sentire come una fitta nel cuore.

Ogni anno manifestare.

Ogni anno ascoltare ministri dire sempre le stesse cose.

Si è persa un’occasione, in questo anniversario del trentunesimo. Perché bastava un po’ di impegno per accorgersi che era in realtà il trentesimo più uno, che si celebrava. Perché è il primo anno che ricordiamo la strage di Capaci, ma con Messina Denaro dentro, il più pericoloso dei latitanti, l’ultimo dei Corleonesi, e questo ci dovrebbe spingere a cambiare tutto, anche il nostro modo di ricordare e commemorare, ed invece sembra quasi a volte – perdonatemi – che ci manca più Messina Denaro che Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, a noi altri, perché fin quando il boss era libero e fuori, noi si aveva l’alibi per parlare del grande cattivo che muove i fili, del male che si aggira per la Sicilia e l’Italia, per toccare i tasti facili della caccia all’uomo. E adesso che il grande cattivo è dentro, nemici non ce ne sono più, e siamo orfani. Ci resta solo la memoria, che è una brutta bestia quando è lasciata solo alla nostra responsabilità, quando non abbiamo più qualcuno con cui prendercela.

Si poteva dire: sono i 30 anni+1 dalla strage di Capaci, con l’arresto di Messina Denaro siamo all’anno zero. Aboliamo allora la parola antimafia, cominciamo a parlare di responsabilità. Aboliamo le manifestazioni con le scuole intruppate e torniamo a farli studiare, questi giovani, che non sanno nulla, perché nulla gli insegniamo. Seppelliamo i resti dei nostri morti. Torniamo a considerare la memoria come qualcosa in movimento perenne, di vivo, una specie di pianta che va nutrita, e non un fossile da museo, un ritratto da appendere alle pareti, un oggetto di modernariato per fare bella figura nei nostri salotti.

Invece siamo tornati nel loop, nella comfort zone, solo che adesso è più triste. Ci vuole un pensiero sovversivo, per cambiare la lotta alla mafia, oggi, un atteggiamento diverso, radicalmente opposto, un ribaltamento del tavolo. Abbandonare soprattutto la retorica della speranza, della terra che cambia. Ecco, l’ho detto. «Lasciate ogni speranza o voi che è entrate» è l’iscrizione che Dante Alighieri trova all’ingresso dell’Inferno, nella sua Commedia. Mi ricordo che nel mio manuale di letteratura, al liceo, la nota di testo parlava di una «terrificante scritta».

Non so, ma a me, nell’anno 30+1, questa frase non mette paura. Mette pace. «Lasciate ogni speranza o voi che entrate» la vorrei vedere scritta all’ingresso del Paradiso. Perché la speranza è un inganno, in nome della speranza di una Sicilia libera dalla mafia in questi anni sono stati compiuti anche i più gravi misfatti. E allora mi piacerebbe che un giorno quest’isola mia fosse un paradiso, cioè un luogo dove non c’è bisogno di speranza, la puoi lasciare all’ingresso, perché già c’è tutto: le strade che non crollano, il lavoro, le scuole con le mense, persino i treni (in quel caso l’unica speranza sarebbe quella che arrivino in orario, anziché, come ora, che magari intanto arrivino).

«Lasciate ogni speranza o voi che entrate», non pensate che sarebbe un bel manifesto per una nuova antimafia? Lasciate ogni speranza, le ideologie, gli slogan. State semplicemente nelle cose, vivete il quotidiano, senza fretta. Siate oggi, qui, attenti, sereni, responsabili, per il trentunesimo anniversario, come per il trentaduesimo, per il 23 maggio, come per il 24, e il 19 e il 20 e il 21 luglio, e anche il 30 febbraio se dovesse esistere, un giorno, lasciate anche lì che non entri con voi la speranza.

Ma poi speranza di che? Che arrivino i giudici, i buoni, la cavalleria, i martiri, l’esercito, gli eroi, le vittime, i sacrificati, i «fautori della svolta», i preti-coraggio, i giornalisti scortati, le reliquie, le teche, i ministri? Costruitelo voi, questo benedetto cambiamento che volete vedere nel mondo.

Di Pietro racconta ‘Tangentopoli’. “Quando Borsellino mi disse: Tonì facciamo presto, ci resta poco”. Da CARMEN SEPEDE su isnews.it il 17 Dicembre 2018

Il racconto di una delle pagine più importanti della storia italiana, in una lezione-intervista che l’ex magistrato del Pool di ‘Mani pulite’ ha fatto nel ‘Caffè letterario’ dell’Istituto ‘Pilla’ di Campobasso. Il terrorismo e gli attentati di mafia, la delegittimazione e l’ingresso in politica, l’Italia oggi e il rapporto con il suo Molise, in una ricostruzione che ha lasciato gli studenti a bocca aperta

Antonio Di Pietro doveva morire. Lo aveva deciso la mafia, che lo aveva messo al terzo posto della lista dei nemici da abbattere. Dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo ha raccontato l’ex magistrato del Pool ‘Mani pulite’, oggi a Campobasso, nel ‘Caffè letterario’ dell’Istituto ‘Pilla’ di Campobasso, intervistato dal giornalista Giovanni Minicozzi davanti agli studenti della scuola, rimasti a bocca aperta nel sentire, dal vivo, il racconto di una delle pagine più importanti della storia del nostro Paese. ‘Tangentopoli’ e i rapporti tra Stato e mafia. 

“Ero ai funerali di Giovanni Falcione – ha ricordato Di Pietro – Borsellino mi si avvicinò e mi disse. “Tonì, facciamo presto, abbiamo poco tempo”. Il tempo che gli era rimasto lo conoscete tutti. A me è andata meglio, a Milano ero più protetto, abitavo in una casetta di campagna, sorvegliato notte e giorno con quattro telecamere collegate alla questura. Dopo gli attentati mandai però la mia famiglia in America, in Costa Rica e in Ohio, con un falso passaporto e protetti dallo Stato. Io invece decisi di restare. Quando morì anche Borsellino – ha aggiunto – tornai a casa a Montenero di Bisaccia. Non avevo più i genitori e mi rivolsi a mia sorella. “Concettì, che devo fare?” le chiesi. E lei, “fai il tuo dovere e pagane le conseguenze”.

Al suo fianco c’erano gli altri magistrati del Pool di Milano, Gerardo D’Ambrosio, Francesco Saverio Borrelli, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Tra il 1992 e il 1993, nel cuore di ‘Tangentopoli’, Antonio Di Pietro era diventato uno degli uomini più potenti d’Italia, sulle copertine di tutti i quotidiani del mondo. Dal lanciare il suo nome come possibile Presidente della Repubblica, com’è pure avvenuto, alla macchina del fango e “allo sputo in faccia”, come ha ricordato, ne è passato poco.

“Dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino – le sue parole – lo Stato ha rialzato la testa nei confronti della mafia, come aveva fatto con il terrorismo dopo l’omicidio Moro. Allora, visto che non si è potuto più uccidere, è stata utilizzare un’altra strategia. Quando vuoi fermare una persona puoi utilizzare due metodi: o ammazzarlo, o delegittimarlo, che è la morte civile. Ed è quello che hanno tentato di fare con me. Perciò ‘Mani pulite’ è riuscita solo per metà”. 

Dopo la caduta della Prima Repubblica, “che in tanti hanno attribuito a me”, Di Pietro ricevette una telefonata. “Arrivava dall’ufficio della Presidenza della Repubblica. Proposero a me di fare il ministro dell’Interno e a Davigo il Ministro della Giustizia. Io ho rifiutato, perché se avessi accettato sarei stato un ‘padreterno’, ma corrotto”.

L’impegno in politica, con la fondazione dell’Italia dei Valori e la nomina a ministro dei Lavori pubblici del Governo Prodi, arriva dopo le sue dimissioni da magistrato. “Non mi sono certo dimesso per fare politica – ha voluto precisare – ma per difendermi, sono stato processato 267 volte e sempre assolto. A un certo punto hanno anche detto che ero un agente della Cia. Ma che ci azzecco io con la Cia – ha detto utilizzando il ‘dipietrese doc’ – che non so una parola di inglese”. 

Se ‘Mani pulite è finita, “è stato un periodo irripetibile”, la corruzione esiste ancora. “Non è però la stessa cosa – Di Pietro ha voluto precisare – oggi se ne parla così tanto perché c’è più lotta alla corruzione. C’è però stata una sbiancatura del reato. Io all’epoca di Tangentopoli ho trovato un pouf pieno d’oro, valanghe di soldi nascosti in uno scarico del bagno. Oggi ci si vende per il viaggio, il regalo, un vantaggio per sé e i propri familiari. Ora come allora la corruzione è però una continua lotta tra guardia e ladri. Quando le guardie scoprono il metodo per incastrare i ladri questi lo cambiano”.

Una lezione di cultura della legalità, voluta dalla dirigente del ‘Pilla’ Rossella Gianfagna, con un monito rivolto agli studenti, “non aspettate che siano gli altri a denunciare, fatelo voi stessi, quando ci sono le circostanze”, come ha detto l’ex ministro. Che ha espresso preoccupazione per il suo Paese, “perché come negli anni Trenta e Quaranta qualcuno parla alla pancia degli italiani”.

Non è mancata una riflessione sulla sua terra d’origine. “Io sono innamorato del mio Molise – ha precisato Di Pietro – e nel corso degli anni credo anche di averlo fatto conoscere. Ma sono convinto che anche in Italia sia necessaria una revisione del sistema delle autonomie. Non credo ci debbano essere più le regioni a statuto speciale e tante regioni piccole, ma servono strutture più ampie con più autonomie, che abbiano più voce in capitolo. Il mio Molise – ha concluso – è troppo piccolo e porta pochi voti. Quindi è poco ascoltato”.

Lettera di Paolo Cirino Pomicino a Dagospia il 28 maggio 2023.

Siamo ormai un paese piombato in un clima surreale. Ieri cercavamo esecutori e mandanti delle bombe del 1993 messe a Milano, Firenze e a Roma e che procurarono morti e feriti. Oggi che abbiamo arrestato l’ultimo dei mandanti (Messina Denaro) un bravo pubblico ministero, Luca Tescaroli, autore della requisitoria nel processo per la strage di Capaci svoltosi a Caltanissetta, si domanda come mai le bombe sono improvvisamente finite ed i mafiologi di professione gli fanno eco.  

Domande surreali per chi conosce i fatti anche se legittime per chi vive nella nuvola dei mandanti occulti, una sorta di “entità centrale” come irresponsabilmente ha detto Pietro Grasso senatore della Repubblica. Vorremmo aiutare Tescaroli a dipanare quella matassa che incatena la sua tradizionale lucidità e bacchettando anche quelli che attaccano lo Stato senza fare nomi e cognomi.

Dopo la strage di Capaci e prima di quella di via d’Amelio fu inviato a tutte le autorità un anonimo in cui si diceva quel che sarebbe accaduto nei mesi successivi. Dobbiamo alla intelligenza politica del senatore comunista Lucio Libertini se abbiamo ancora quell’anonimo scritto sottomano perché venne trasformato per intero in una interrogazione parlamentare. In quello scritto si diceva che dopo altri omicidi e confusione l’offensiva della mafia si sarebbe fatta più forte sino ad ottenere alcuni risultati. E così avvenne. Nel novembre del1993, dopo le bombe di Milano, Firenze e Roma, il ministro della Giustizia del governo Ciampi, Giovanni Conso, liberò dal carcere duro ( il famoso 41 bis ) trecento mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti e da quel momento il ministero dell’interno,  grazie ad una gestione lassista dei programmi di protezione da parte di una commissione di cui ancora oggi non si conoscono i nomi, liberò sino al 2005 ben 10 mila mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti come ci venne comunicato dal ministro Mastella rispondendo ad una nostra interrogazione parlamentare.

Quella gestione lassista fu tale innanzitutto negli anni novanta quando il parlamento, inorridito da quel che si vedeva e si sentiva, nel 1999 approvò una modifica per cui i pentiti avrebbero dovuto comunque scontare un terzo della pena prima di avere i benefici della normativa premiale. Nel frattempo però gli assassini di Falcone, eccezion fatta di Giovanni Brusca, erano già usciti dal carcere. Senza dilungarci vorremmo suggerire a Luca Tescaroli qualche considerazione. L’uscita di 300 mafiosi dal 41 bis e, da quella data, il via libera della commissione ministeriale ad una gestione molto permissiva dei programmi di protezione con i risultati ricordati non sono motivi sufficienti a mettere fine alle bombe?

Che altro potevano aspettarsi i mafiosi da una folle politica stragista che certo non poteva continuare all’infinito? Lo stesso mancato scoppio della bomba messa all’Olimpico a nostro giudizio non fu un errore ma un messaggio preciso di come quelle scelte fatte dal governo aveva evitato un’altra strage. Forse bisognerebbe capire più a fondo chi durante il governo Ciampi, e poi successivamente, mosse i fili perché a quelle bombe si rispondesse liberando migliaia di pentiti e togliendo 300 irriducibili dal carcere duro. Ma questo forse è più compito degli storici che di un pubblico ministero ancorché bravo come Luca Tescaroli. Ma dopo trent’anni non sarebbe utile  e saggio smettere di alludere permanentemente a contiguità criminali di tutto ciò che è alternativo alla sinistra? 

E non forse sarebbe altrettanto utile e saggio denunciare l’ignobile costume di quanti affermano la collusione dello Stato con pezzi della criminalità senza mai fare nomi e cognomi? La politica recuperi visioni e qualità di comportamenti se vuole riprendere quel primato da tempo smarrito. Il paese ne ha veramente bisogno.

Dossier Mafia-Appalti. Non sapremo mai come andò. Un mese è già trascorso dall’archiviazione di tutti gli imputati del processo Trattativa Stato-mafia. Eppure, dalle parti del Fatto Quotidiano non mollano di un millimetro. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 30 Maggio 2023

Non deve essere per nulla facile, dopo averla cavalcata per anni, vedere l’inchiesta che ti ha portato successo e visibilità sciogliersi come neve al sole. A distanza di un mese dall’archiviazione di tutti gli imputati del processo Trattativa Stato-mafia, dalle parti del Fatto Quotidiano non mollano un millimetro e continuano imperterriti nella tesi dei “mandanti occulti” dietro le stragi del 1992-93. Chi contraddice questa narrazione, finalizzata a metter in “ombra le dichiarazione di Giuseppe Graviano sulle presunte responsabilità stragiste di Silvio Berlusconi” lo farebbe utilizzando come “arma di distrazione di massa” l’inchiesta mafia appalti, archiviata il 13 luglio 1992 da Roberto Scarpinato, ora senatore del M5s e all’epoca Pm del processo Trattativa.

Per “mafia e appalti” si intende il rapporto giudiziario che venne depositato dai carabinieri del Ros alla Procura di Palermo il 20 febbraio 1991 sulla “mafia imprenditrice” la quale, invece di imporre il pagamento di tangenti estorsive agli imprenditori, era diventata essa stessa imprenditrice con società riferibili ad appartenenti a Cosa nostra. Nel rapporto del Ros si affrontava soltanto la prima fase, quella della aggiudicazione delle commesse pubbliche, attorno ad un tavolo denominato “tavolo di Siino”, da Angelo Siino, poi diventato collaboratore di giustizia e definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra ma, più precisamente, dei corleonesi.

Roberto Scarpinato, che firmò l’archiviazione di questo fascicolo, a cui teneva molto Paolo Borsellino, affermò che le indagini erano state fatte “in parte con le intercettazioni dell’Alto commissariato, in parte con intercettazioni che erano state fatte dall’ufficio istruzione”. Entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale tutti i filoni confluirono in unico procedimento.

Nel febbraio del 1991, il Ros depositò allora un’informativa, circa 900 pagine con intercettazioni, riepilogativa delle indagini che erano state fatte.

Scarpinato disse che le intercettazioni “erano state autorizzate in altri procedimenti per il reato di cui all’articolo 416 bis codice penale. Quindi per la normativa del tempo non potevano essere utilizzati in altri procedimenti se non a carico di soggetti indagati per il reato di cui all’articolo 416 bis secondo comma promotori organizzatori non per i semplici partecipi”.

Ferma restando l’inutilizzabilità, ai fini di prova, delle intercettazioni effettuate dall’Alto commissariato, le intercettazioni autorizzate con il vecchio codice (quindi prima del 24 ottobre 1989) dal giudice istruttore avrebbero potuto essere utilizzate anche nei procedimenti disciplinati da quello nuovo. L’articolo 242 delle norme transitorie aveva infatti precisato che si dovesse continuare ad applicare il vecchio codice nei casi tassativi ivi previsti.

Alla pagina 5 della richiesta di archiviazione del 13 luglio 1992, firmata da Scarpinato, si legge che “non si erano, prima del 24 ottobre 1989 realizzate le condizioni prescritte dall’art. 242 delle norme di attuazione del c.p.p. per il proseguimento dell’istruttoria con il rito abrogato. Di conseguenza, gli atti dianzi indicati e le relative intercettazioni confluivano nel procedimento 2789/90 N.C. già instaurato secondo le regole del nuovo rito”. Dalla medesima richiesta di archiviazione (pagina 2) risulta che le intercettazioni “confluite” nel procedimento nuovo rito 2789/90 erano diverse, come ad esempio quelle effettuate nel procedimento 2811/89 (vecchio rito) relative alla vicenda Baucina/Giaccone, quelle nel procedimento 1020/88 (vecchio rito) relative alla vicenda SIRAP e al ruolo di Angelo Siino, o quelle effettuate nel procedimento 2811/89 (vecchio rito) pendente davanti al giudice istruttore contro Giuseppe Giaccone per la vicenda Baucina.

Dalla pagina 6 della richiesta di archiviazione risulta altresì che al procedimento 2789/90 venivano acquisiti copia degli atti dei fascicoli più importanti, come le audizioni della Commissione regionale antimafia dedicata alla situazione dei Comuni delle Madonie.

Pertanto, tutte le intercettazioni effettuate nella vigenza del vecchio rito, fatte tutte “confluire” nel procedimento 2789/90 nuovo rito, erano senz’altro utilizzabili per come scritto da Scarpinato nella richiesta di archiviazione. Paolo Pandolfini 

La giustizia che funziona. Magistrati alla ricerca della verità e non accecati dall’ideologia: la storia dei pm fiorentini. Matteo Renzi su Il Riformista il 30 Maggio 2023 

Ricordare il trentennale della strage dei Georgofili è stato per i fiorentini come me un tuffo al cuore. La camminata notturna tra Palazzo Vecchio e il luogo della strage ha visto la partecipazione di tanta gente, soprattutto giovani. E la cerimonia è stata impreziosita dalla presenza di Tina Montinaro, vedova di Antonio, caposcorta di Falcone, che ha trasmesso la sua grandezza d’animo a noi e ai ragazzi persino davanti alla Quarto Savona 15, l’auto su cui viaggiava il marito, totalmente distrutta dal tritolo di Giovanni Brusca, auto che la Polizia di Stato ha voluto esporre quest’anno sotto la Galleria degli Uffizi.

Il giorno dopo presso il Palazzo di Giustizia è arrivato il Presidente Mattarella. Dal palco si sono alternati il Presidente della Corte d’Appello, Nencini – cui va dato merito dell’ottima iniziativa – il procuratore nazionale antimafia Melillo, il professor Palazzo, la Prima Presidente della Cassazione Cassano, il Vice presidente Csm Pinelli, la Presidente della Corte di Cassazione Sciarra. Un parterre de roi che ha saputo riflettere e far riflettere in modo eccellente. E il ricordo sullo sfondo dei grandi Pm fiorentini. Mentre ascoltavo gli interventi pensavo a come Firenze abbia avuto una straordinaria storia di Pm credibili, integerrimi, capaci.

E molti erano presenti in sala: Crini, Nicolosi, Quattrocchi, la stessa Cassano. Qualcuno invece ci ha lasciato troppo presto a cominciare dai due magistrati che con coraggio indicarono la strada: Piero Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi. Se la strage dei Georgofili non è rimasta impunita è perché allora a Firenze ci furono Pm straordinari, magistrati capaci alla ricerca della verità e non accecati dall’ideologia. La verità giudiziaria sui Georgofili è stata scritta perché c’erano loro. Persone serie che rendevano gli uffici giudiziari di Firenze un’eccellenza.

A questo serve una giustizia che funziona: a renderci orgogliosi di essere italiani. A prendere i veri colpevoli. A non confondere la verità giudiziaria con le proprie idee personali. Spesso le cattive abitudini di pochi di loro oscurano il lavoro dei tanti. E allora – nel ricordo dei Vigna, dei Chelazzi, dei bravi investigatori – si renda onore a quei Pm che fanno

bene il loro dovere, anche oggi. Che i ragazzi delle scuole della magistratura possano conoscere la loro storia, la loro grandezza, la loro nobiltà.

Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista 

I "torbidi retroscena”. L’ultima trovata dei Pm fiorentini contro Berlusconi e Dell’Utri: “Denegata strage” Tiziana Maiolo su L'Unità il 30 Maggio 2023 

Siamo arrivati a contestare il reato di “denegata strage”, alla procura di Firenze. Perché ormai, dopo quattro archiviazioni, essendo ormai impossibile dimostrare il fatto che le bombe del 1993-94 hanno avuto come mandanti Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, si indaga per sapere come mai nel gennaio 1994, proprio alla vigilia delle elezioni vinte da Forza Italia, Cosa Nostra abbia abbassato le armi. Che cosa c’è dietro questa ”denegata strage”? Una risposta arriva dalla saggezza di un illustre pensionato.

Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia e già presidente del Senato, lo ha detto chiaro, domenica scorsa da Lucia Annunziata. L’ho chiesto io a Gaspare Spatuzza, dopo che lui aveva iniziato a collaborare con la magistratura. Come mai, gli ho domandato, come mai dopo che era fallito l’attentato allo stadio Olimpico di Roma del 23 gennaio 1994, non ci avete riprovato? Perché, dopo quel giorno, sono cessate le bombe di Cosa Nostra? La sua risposta fu semplice: io prendevo ordini da Giuseppe Graviano, e quattro giorni dopo lui fu arrestato a Milano.

Erano stati i carabinieri, arrivati da Palermo al comando del capitano Marco Minicucci, a mettere le manette ai polsi del boss di Cosa Nostra e del fratello, mentre i due erano con le fidanzate al ristorante “Gigi il cacciatore”. Un’operazione pianificata e solo casualmente portata a termine nel capoluogo lombardo. Solo per quel motivo quindi, e perché i boss dei corleonesi uno dopo l’altro stavano entrando all’Ucciardone e nelle altre carceri a loro destinate, direttive per nuove stragi non ne arrivarono più. Lo Stato aveva vinto. Pure, di anniversario in anniversario, di comitato parenti vittime in comitato parenti vittime (due giorni fa si ricordava la data della strage di Brescia, 28 maggio 1974), non si placa l’ossessione di chi non si arrende alla realtà della sconfitta di Cosa Nostra a opera dello Stato.

Quella parte della storia non c’è più, fatevene una ragione. E spiace aver visto lo stesso Presidente Sergio Mattarella, nella stessa giornata in cui aveva impartito una bella lezione su don Milani e reso giustizia alla ministra Roccella dopo il silenzio della sinistra sull’assalto al suo libro, seduto ad applaudire ogni sciocchezza più o meno togata sulla strage dei Georgofili. Lì avrebbe avuto occasione, il Capo dello Stato, anche nella sua veste di numero uno del Csm, per menar vanto, per mostrare l’orgoglio di uno Stato più forte delle mafie e di una magistratura che sappia separare il grano dal loglio, i fatti dalle opinioni. I fatti sono che da tempo ogni bomba, ogni strage, ogni omicidio di mafia degli anni novanta ha avuto processi e condanne. Ogni tassello è andato al proprio posto.

Ma nel frattempo sui “torbidi retroscena” che aprono “inquietanti interrogativi”, refrain banale di chi “dà buoni consigli non potendo dare cattivo esempio”, si sono costruite carriere. Sciascia li chiamava professionisti dell’antimafia, noi li abbiamo soprannominati “fantasmi”, perché gli anni passati sono ormai trenta. Del resto non viviamo nel Paese che si sta ancora baloccando, questa volta insieme alla giustizia dello Stato Vaticano, sulla scomparsa di una povera bambina nel 1983? Per lo meno, in questo caso antico, il mistero esiste davvero, al contrario di quanto accaduto nei processi di mafia, dove i “pentiti” abbondano per numero e per loquela.

Prendiamo Gaspare Spatuzza, per esempio. Il collaboratore è considerato uno dei più attendibili, soprattutto dopo che, addossandosi la responsabilità di uno dei più gravi e simbolici delitti dei corleonesi, l’omicidio del giudice Paolo Borsellino, ha svelato il più grave complotto di Stato. Quello di chi, forze dell’ordine, magistrati e giornalisti, aveva voluto pervicacemente credere alla parola fasulla di Enzo Scarantino pur di offrire all’opinione pubblica una qualsiasi “verità” su quel delitto. Una comoda verità. Che ha però coinvolto persone innocenti e le ha tenute nelle carceri speciali per quindici anni. Più che “professionisti”, gli inquirenti del tempo sono stati degli incapaci. A voler essere generosi. A non voler applicare nei confronti di tutto il gruppo dei promotori ed estimatori del “processo trattativa” gli stessi metodi complottistici che loro hanno usato, e continuano a usare nei confronti degli altri.

Prendiamo il procuratore Tescaroli. Era giovane al tempo delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ventisette anni, ma aveva votato presto la sua attività, professionale e pubblicistica, a inseguire la dimostrazione del teorema che vuole i capitali delle società di Silvio Berlusconi inquinati dalla mafia. Un’intera carriera, partita da Caltanissetta per approdare a Firenze passando per Roma, che pare destinata solo agli insuccessi, se si eccettua una modesta vittoria su una causa di diffamazione. Addirittura, in questo gioco di specchi di fascicoli aperti e chiusi, lo stesso pm ha più di una volta chiesto l’archiviazione. E né Berlusconi né Marcello Dell’Utri sono mai arrivati a ricoprire l’habitus di imputati di stragi.

Perché è difficile dimostrare l’indimostrabile con la tessitura di un patchwork, fin dai tempi dell’operazione “Oceano”, messa in piedi da alcuni uomini della Direzione Nazionale Antimafia, l’organismo che ha onorato della sua attenzione il leader di Forza Italia non molto tempo dopo la propria nascita nel 1991. Ed è ancora la Dia un anno fa, a “rinverdire” le stanche indagini del dottor Tescaroli con un’informativa che, se gli efficienti uomini dell’antimafia lo consentono, fa un po’ ridere. Attraverso un confronto (cercato ossessivamente) tra le celle telefoniche e i cellulari, tentano di dimostrare che se in un certo periodo dell’estate Giuseppe Graviano era in Sardegna, sicuramente era vicino a Berlusconi. E che se il boss, o suoi parenti, erano in Toscana, magari da quelle parti c’era anche Dell’Utri o un suo congiunto.

Tutto fa brodo, perché chiuso un fascicolo se ne può aprire un altro. E si può sostenere senza pudore che, se ci fossero stati gli (indimostrabili) incontri, la coincidenza chiuderebbe il cerchio, perché proprio in quel periodo Berlusconi preparava la propria entrata in politica. Il regalino ai Due Luca procuratori, Turco e Tescaroli, porta la firma del primo dirigente della polizia di stato Francesco Nannucci. Il quale sarà deluso dal fatto che in un anno nulla sia stato dimostrato a supporto della sua non originale tesi. Anche perché nel frattempo hanno pensato bene a entrare in concorrenza con le spifferazioni di Stato sia Giuseppe Graviano dal palcoscenico del processo di Reggio Calabria “’Ndrangheta stragista” che Salvatore Baiardo in esibizione tv da Giletti e Ranucci, con le successive smentite su Tik Tok.

Esilarante prima e dopo. Così i pm specializzati in patchwork possono continuare a cucire i pezzetti scombinati dell’inchiesta eterna. Il procuratore aggiunto Tescaroli lamenta da sempre di non riuscire a far carriera perché è un inquisitore “scomodo”. Tanto da essersi fatto raccomandare, per arrivare alla posizione che occupa oggi, dall’ex magistrato Palamara (il terzo Luca della storia), come confermato dallo stesso, che fu il potente capo del sindacato delle toghe e membro del Csm, in una dichiarazione a Paolo Ferrari su Libero.

E non viene il dubbio, al procuratore aggiunto di Firenze, del fatto che forse un magistrato che non riesce a portare a termine le proprie indagini ma è costretto ad aprire e chiudere continuamente con archiviazioni sempre la stessa vicenda da trent’anni, non sia affatto “scomodo”, ma forse da biasimare? E non teme il ridicolo, essendo ormai ridotto a contestare il reato di “denegata strage”, per lasciare agli storici la propria verità? Tiziana Maiolo

Vuoi vedere che ora il povero Cairo finisce nei guai per aver sospeso la trasmissione di Giletti?  Il patron di La7, che paga la vecchia conoscenza con il compianto Cavaliere Silvio Berlusconi, è stato sentito dai pubblici ministeri di Firenze. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 17 agosto 2023

Adesso salta fuori anche, dalle inesauribili migliaia di carte dei “Due Luca” di Firenze, i pm Turco e Tescaroli, che Silvio Berlusconi avrebbe voluto tanto incontrare il presentatore tv Massimo Giletti, ma lui aveva fatto lo sdegnoso e aveva detto di no al messaggero della richiesta. Il quale nega di aver mai fatto quel genere di avance, ma i magistrati non gli credono. È lecito intuire, a questo punto, che qualcuno stia cercando di incastrare Urbano Cairo, editore del Corriere della sera e di La7. È piuttosto evidente, dal momento che gli stanno con il fiato sul collo i pubblici ministeri di Firenze, Luca Turco e Luca Testaroli, che lo hanno sentito come persona informata sui fatti nell’inchiesta sulle bombe del 1993. Ed è già singolare che, a trent’anni da quelle stragi e dopo innumerevoli archiviazioni, ci siano ancora fascicoli aperti.

Ma ancora più paradossale è che, tra la ricerca su una bomba e l’altra, ci sia tempo per chiedere a un editore perché, dopo sei anni di costi altissimi ( saldo negativo di 3- 4 milioni annui) e notevole calo di ascolti, una certa trasmissione della rete La7 sia stata sospesa. E la libera impresa? Perché l’editore dovrebbe render conto delle proprie scelte economiche a magistrati che indagano sui reati di strage? Ma il senso vero di questi interrogatori e di conseguenti articoli di giornale, sempre le solite firme sulle solite testate, è che Urbano Cairo porta addosso le stimmate per aver lavorato in passato al fianco di Silvio Berlusconi, e questo è imperdonabile.

Se lui dice una cosa e uno qualunque come il conduttore di “Non è l’arena”, la trasmissione ormai morta e defunta, dice il contrario, ha ragione il secondo. Anche perché, e soprattutto perché, prima di andare per l’ennesima volta dal magistrato, costui ha consultato un vero oracolo, quel pm Nino Di Matteo, appena reduce dalla sconfitta nell’inchiesta più fallimentare della storia politico- giudiziaria italiana, il famoso processo sull’inesistente “Trattativa” tra lo Stato e la mafia negli anni novanta.

Tutta questa tarantella di notizie e lapidarie certezze emerge dalla consueta valanga di carte che, da trent’anni a questa parte, migrano da un ufficio all’altro, da Palermo a Caltanissetta e poi a Firenze, che è diventata il crocevia di tutto questo smistamento di fascicoli che “odorano” di bombe, anzi di “mandanti”, dal momento che gli autori delle stragi di mafia sono già stati tutti processati e condannati. Ma non finisce mai. Avete presente il movimento che fa la fisarmonica, da un lato all’altro, con una sensazione di avanti e indietro necessaria per produrre suoni musicali? Ecco, queste indagini che riguardano Silvio Berlusconi ( la preda grossa che non viene mollata neppure post mortem) e Marcello Dell’Utri stanno continuando a fare il movimento delle fisarmonica, nell’attesa che qualcosa si spezzi. Che magari il nuovo procuratore capo di Firenze, Filippo Spiezia, possa dare un’occhiata all’attività dei suoi due aggiunti. E magari anche, perché no, che l’ispezione ministeriale che ha già riguardato il pm Luca Turco per la vicenda di Open e di Matteo Renzi e che si è conclusa con una richiesta di azione disciplinare, possa allargarsi fino all’attività apri- e- chiudi del fascicolo sulle stragi. Silvio Berlusconi è stato preso di mira fin dai tempi del suo primo governo del 1994 con la misteriosa “Operazione Oceano”, con cui lo hanno messo sotto controllo gli uomini della Dia. Cui ne seguirono un altro paio. Siamo ancora in terra di Sicilia, quando arriviamo all’archiviazione del 1997 a Palermo. E poi almeno altre tre volte a Caltanissetta e a Firenze, quasi sempre con la richiesta degli stessi pubblici ministeri.

Poi, proprio nel calderone del fallimentare processo “Trattativa”, nel 2019, si scopre che in realtà l’ex presidente del Consiglio è di nuovo indagato, sempre per lo stesso reato e con il sospetto che abbia favorito la mafia, da almeno due anni, in seguito all’intercettazione di vanterie del boss Giuseppe Graviano in carcere. E così continua la fisarmonica, ormai in sede stanziale a Firenze, dove da tempo si è insediato in procura anche il siciliano pm “antimafia” Tescaroli. Ma l’inchiesta langue, e alla fine del 2022 si dovrebbe chiudere con l’ennesima archiviazione. Ma ecco spuntare all’orizzonte il prode gelataio imbonitore Salvatore Baiardo. Plana direttamente, come ospite retribuito, nella trasmissione “Non è l’arena” su La7, la rete di Urbano Cairo.

Il gelataio giocoliere dice di avere una foto di Berlusconi con il generale Francesco Delfino (ormai defunto) e con Giuseppe Graviano. Fa anche intravedere un’immagine sfuocata e al buio in cui Giletti riconosce solo un Silvio Berlusconi giovane, poi, qualche giorno dopo va su Tik Tok e smentisce tutto. Ma gli astuti pm lo hanno intercettato mentre parla al telefono della foto con il conduttore tv e lo accusano di calunnia per la smentita. Con una strana triangolazione procedurale sostengono che è come se avesse imputato a Giletti di aver reso false dichiarazioni ai pm. Ma non basta. I Due Luca vogliono arrestare il gelataio anche per calunnia nei confronti di Gaspare Spatuzza e per favoreggiamento nei confronti di Berlusconi e Dell’Utri. Tutta la storia della foto avrebbe avuto lo scopo di aiutare i due. I magistrati cercano anche di interrogare, dopo aver perquisito la sua casa e il suo studio, l’ex presidente di Publitalia, ma lui si sottrae. Intanto la fisarmonica si allarga.

La fine di questo pezzetto di storia è che la gip di Firenze, Antonella Zatini, respinge la richiesta di arresto nei confronti di Baiardo, ma i pm ricorrono al tribunale del riesame, i cui giudici rinviano la decisione dal 14 luglio al 6 settembre. E depositano tutti gli atti. Nei quali pare, a leggere le solite firme dei soliti quotidiani La Repubblica e Il Fatto, che l’unica notizia interessante, cui Travaglio dedica un’intera pagina, sia una presunta richiesta di Silvio Berlusconi di incontrare Massimo Giletti. Urbano Cairo, che dovrebbe essere il messaggero portatore dell’invito, lo smentisce. Giletti insiste e i Due Luca sono sospettosi. C’è un faro acceso su Urbano Cairo ora, e non è una buona notizia per l’editore. Procuratore Spiezia e ministro Nordio, a voi tutto ciò pare normale, nell’amministrazione della giustizia nel nostro Paese?

Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per la Repubblica martedì 15 agosto 2023.

Nel periodo in cui Massimo Giletti raccontava nella sua trasmissione di mafia e politica, puntando l’attenzione su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, l’editore de La7, Urbano Cairo, avrebbe chiesto al giornalista di incontrare l’ex presidente del Consiglio perché doveva parlargli. Giletti si è rifiutato, e per coincidenza, dopo due puntate l’editore ha staccato improvvisamente la spina cancellando il programma dal palinsesto. 

Tutto ciò emerge da una valanga di documenti e verbali di testimoni, compreso quello di Cairo, che lo scorso mese i magistrati della procura di Firenze hanno depositato nell’inchiesta in cui è indagato Salvatore Baiardo, il portavoce e favoreggiatore del boss Giuseppe Graviano, accusato di calunnia nei confronti di Giletti e di favoreggiamento di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. I pm vogliono accertare cosa ha spinto Cairo a chiedere a Giletti di incontrare il Cavaliere, di cui l’editore in passato era il segretario particolare, e il motivo che lo ha portato a spegnere il programma televisivo che si stava occupando di mafia e politica.

Dalle testimonianze raccolte dalla procura fiorentina, Cairo avrebbe incontrato Giletti a Roma il 20 marzo. «Cairo mi ha detto: “guarda, forse è meglio che lo incontri, che ti vuole vedere perché qualcuno magari dice che tu ce l’hai contro...”», spiega Giletti ai pm, e aggiunge: «Ho detto: “Presidente (Cairo, ndr)... non voglio mettermi in una condizione psicologica di... preferisco non incontrarlo ». E secondo Giletti l’editore avrebbe risposto: «Fai bene, glielo dirò, se ritieni così». 

Cairo, sentito su questo punto, nega. Ricorda solo che a gennaio sarebbe stato Giletti a chiedergli di parlare con Berlusconi per convincerlo ad andare ospite in una delle sue trasmissioni. Dell’incontro a Roma a marzo e della richiesta di cui parla Giletti, Cairo mette a verbale: «Lo escludo, nel modo più assoluto, non ho chiesto nulla a Giletti ». Per i pm ci sono contraddizioni in quello che ha detto a verbale Cairo, su cui sono in corso accertamenti.

Dopo le affermazioni dell’editore, i procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli riconvocano Giletti a luglio e il giornalista risponde: «Confermo ciò che ho detto in precedenza. Colloco l’intervento di Cairo intorno al 20 di marzo, dopo la metà del mese. Si potrebbe chiedere alla mia scorta, perché ricordo che in quell’occasione dopo l’incontro con Cairo lo accompagnai con la mia scorta alla stazione, perché era in ritardo». Giletti chiarisce che le affermazioni di Cairo riguardano «fatti diversi». «A gennaio, ma anche in precedenza, mi è capitato di chiedere a Cairo di contattare Berlusconi per farlo partecipare a una mia trasmissione » si legge nel verbale del giornalista: «Sarebbe stata un’occasione per lo share della trasmissione, perché la figura di Berlusconi è di grande interesse mediatico, e io glielo dissi, visti i rapporti stretti che c’erano fra loro. Ma la vicenda che ho riferito, collocandola nel marzo del 2023, è vicenda diversa. 

(...)

I pm hanno sentito un carabiniere della scorta di Giletti ed ha confermato di aver assistito all’incontro con Cairo. E l’autrice del programma, Emanuela Imparato, dice: «Ricordo nitidamente che Massimo si sedette in una sedia spalle al muro e mi disse: mi ha chiamato Cairo e mi ha detto se vado a un incontro con Berlusconi. L’ho guardato e gli ho chiesto cosa intendesse fare. Mi rispose che non aveva voglia di andarci. Replicai dicendo: fai quello che senti». «Erano i giorni in cui Berlusconi cominciava a non stare bene, se mal non ricordo era già stato ricoverato. Naturalmente, mi chiesi il perché in quel momento giungesse tale richiesta, dopo che avevamo ospitato Baiardo in trasmissione ed era uscito il discorso su Paolo Berlusconi », chiarisce Imparato.

L’editore, rispondendo alle domande dei pm, afferma che la chiusura del programma l’ha decisa in base a “costi e perdite”. Per Cairo è solo una questione di soldi.  

La decisione, resa nota ufficialmente il 13 aprile, coglie di sorpresa Mazzi, il quale fino a poco tempo prima aveva incontrato Cairo per un rinnovo del contratto e ai pm spiega che Giletti non aveva all’epoca alcuna proposta di lavoro in Rai e sarebbe quindi rimasto a La7. 

Baiardo, ospite retribuito dalla trasmissione, racconta di un incontro con il fratello del Cavaliere. È un episodio accertato dai magistrati di Firenze in cui il favoreggiatore della mafia era stato ricevuto nell’ufficio di Paolo Berlusconi. Quest’ultimo, dopo il loro incontro, si sarebbe sfogato con un poliziotto che lo tutelava per dire che «quella persona», indicando Baiardo, «è venuta a dire cose che riguardano mio fratello per screditarlo». 

Dopo questo episodio riportato in tv, Giletti svela ai pm che «proprio Paolo Berlusconi avrebbe chiamato Cairo, seccato per la messa in onda del programma. Mi sembra che fosse la metà di febbraio 2023. Paolo Berlusconi per quello che mi disse Cairo era molto seccato, perché veniva trattato ancora una volta, a distanza di anni, dell’episodio dell’incontro fra Baiardo e Paolo Berlusconi, e si lamentava del fatto che questa notizia riemergeva in un momento molto delicato, senza però specificare cosa intendesse con questo». Il giornalista precisa che Cairo sapeva chi fosse Baiardo già nel 2021 perché «sono stato io a spiegargli chi era, e che parlava di Berlusconi».

Estratto dell’articolo di Massimo Malpica per “il Giornale” sabato 5 agosto 2023.

Le Polaroid «fantasma» trentennali che proverebbero l'ipotetico incontro in un bar sul lago d'Orta tra il Cav, il boss Giuseppe Graviano e il generale dell'Arma Francesco Delfino […]. Non è l'Arena sospeso […]. 

Giletti che […] conferma […] di aver visto quello scatto, mostratogli fugacemente da Salvatore Baiardo, e di aver riconosciuto nella foto Berlusconi e il generale, ma di non saper dire con certezza chi fosse il terzo uomo […]. Il pentito e «fotografo per caso», Baiardo […] che invece smentisce […] , rompe col conduttore e annuncia su tik-tok di voler scrivere libri-verità per raccontare la sua versione. 

Lo stesso Baiardo che poi, però, pensa bene di confermare l'esistenza di quegli scatti rubati, mentre viene filmato a sua volta di nascosto dalle telecamere di Report. La procura di Firenze che dopo Giletti interroga anche Urbano Cairo, perquisisce Baiardo senza trovare le foto, e infine vuole arrestare l'ex gelataio […]

Già così di materiale nella vicenda ce n'era a sufficienza. Ma ora, sul casino royale della storia Giletti-Baiardo, come se mancassero colpi di scena, piomba pure la querela di Giuseppe Graviano. 

Che, dal carcere di Terni dove è rinchiuso, accusa il giornalista - come pure l'opinionista fissa di Non è l'Arena, Sandra Amurri - di diffamazione aggravata. Diffamazione, presumibilmente, che sarebbe sempre e comunque collegata alla vicenda delle fotografie «rubate» di quell'incontro che sarebbe avvenuto nel 1992, in Piemonte, sul lago d'Orta, o al balletto di dichiarazioni e ricostruzioni e ipotesi che ne sono seguite.

Il condizionale è d'obbligo, visto che la procura di Terni […] avrebbe segretato il fascicolo, tanto da negarne l'accesso anche ai legali dei due giornalisti indagati. Di certo, come detto, c'è che il boss di Cosa Nostra, che sta scontando nella città umbra sei ergastoli per mafia, condannato per le stragi del 1992 e del 1993, e alla cui latitanza collaborò attivamente proprio Baiardo, ha deciso ora di querelare Giletti. Che ha preso la notizia con filosofia. 

«Ho sempre fiducia nella giustizia, certo alle volte penso che viviamo in un Paese all’incontrario, ma ormai non mi stupisco più di nulla», spiega il giornalista alle agenzie di stampa, raccontando di aver ricevuto la notifica della querela già all'inizio di questa settimana.

Ovviamente non è escluso che, conclusi gli opportuni accertamenti investigativi, l’indagine possa essere archiviata, anche se il blog Etrurianews.it, primo a dare la notizia della querela, rimarca come sia «paradossale» trovare «elementi di diffamazione a carico di uno stragista di mafia». E al giornalista è arrivata la solidarietà del vicepremier Matteo Salvini che sui social definisce Giletti «uomo e giornalista libero». 

Va peraltro ricordato che nel 2020 Massimo Giletti era finito sotto scorta proprio per le parole di un altro Graviano, Filippo, fratello di Giuseppe, ascoltato mentre parlava in carcere a proposito della campagna portata avanti da Non è l'Arena contro la scarcerazione dei boss in conseguenza dell'emergenza Coronavirus. «Il ministro fa il lavoro suo - disse Graviano riferendosi a Bonafede - e loro (Giletti e il pm antimafia Nino Di Matteo) rompono il caz**». Ora, dopo le minacce di Filippo, nel braccio di ferro tra i Graviano e Giletti è il turno della querela di Giuseppe.

Da agi.it venerdì 4 agosto 2023.

"Ho sempre fiducia nella giustizia, certo alle volte penso che viviamo in un Paese all'incontrario, ma ormai non mi stupisco più di nulla". Massimo Giletti è attonito al telefono con l'AGI. Ha ricevuto, un paio di giorni fa, dai carabinieri la notifica dell'atto che lo vede indagato, insieme alla giornalista Sandra Amurri, per diffamazione dalla procura di Terni. 

Un reato al quale, alle volte, vanno incontro i giornalisti. Ma che, almeno in questa occasione, lascia abbastanza interdetti. A querelare Giletti, infatti, non sarebbe stato uno qualunque, ma Giuseppe Graviano, detenuto nel carcere umbro dove sta scontando diversi ergastoli per Mafia. Il fascicolo sarebbe poi stato secretato.  

La notizia del procedimento è stata anticipata da EtruriaNews. Non è escluso che, dopo gli opportuni accertamenti investigativi, l'indagine possa essere archiviata.

Nel corso della trasmissione 'Non è L'Arena' in onda su La 7 Giletti aveva intervistato Salvatore Baiardo, considerato uomo dei Graviano, che 'annunciò' l’arresto di Matteo Messina Denaro. 

Chi è Giuseppe Graviano 

Giuseppe Graviano, nato a Palermo 59 anni fa, ha avuto - secondo i magistrati che lo hanno condannato all'ergastolo - un ruolo centrale nell’organizzazione delle stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano e nell’omicidio di don Pino Puglisi.

Graviano è stato arrestato dai carabinieri di Palermo, il 27 gennaio del 1994, a Milano. Nel 1997 la Corte d’Assise di Caltanissetta lo condanna all’ergastolo per la strage di Capaci, insieme, fra gli altri, a Totò Riina, Bernardo Brusca, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano.

Due anni più tardi, nel 1999, Graviano è ergastolano per la strage di via D’Amelio: secondo vari pentiti, sarebbe stato lui ad azionare il telecomando dell’autobomba che ha ucciso il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta.

Nello stesso anno arriva una nuova condanna: insieme al fratello Filippo è accusato di essere il mandante dell’omicidio del prete anti-mafia don Pino Puglisi. Un nuovo ergastolo arriva nel 2000, per gli attentati dinamitardi del 1993 a Firenze, Milano e Roma.

Massimo Giletti e Sandra Amurri, indagati dalla procura di Terni: avrebbero diffamato il mafioso Graviano. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Agosto 2023 

Ci lascia esterefatti vedere una Procura dar credito ad un "personaggio" mafioso" di questo calibro, condannato in via definitiva a “fine pena mai” per le stragi del ’93 e fratello di Filippo autore delle riscontrate minacce di morte fatte proprio a Massimo Giletti.

“Ho sempre fiducia nella giustizia, certo alle volte penso che viviamo in un Paese all’incontrario, ma ormai non mi stupisco più di nulla“. Massimo Giletti dichiara attonito al telefono con l’AGI. Ha ricevuto, un paio di giorni fa, dai Carabinieri la notifica dell’atto di iscrizione nel registro degli indagati della procura di Terni, per il reato diffamazione insieme alla giornalista Sandra Amurri. Il fascicolo attualmente secretato è in carico del capo della procura di Terni Alberto Liguori e del suo sostituto Giorgio Panucci il quale sta di fatto svolgendo le indagini.

Un reato al quale, alle volte, veniamo spesso denunciati noi giornalisti, che ancora una volta, ci lascia abbastanza interdetti. A querelare Giletti e la Amurri , infatti, non sarebbe stato uno qualunque, ma bensì il pregiudicato ergastolano Giuseppe Graviano, che compirà 60 anni alla fine di settembre, sta scontando nel carcere umbro 6 ergastoli per reati di mafia. Si trova detenuto in una cella in regime di 41 Bis (carcere duro) dal gennaio del ’94 e cioè dal giorno in cui i carabinieri lo catturarono in un noto ristorante milanese.   

Chi è Giuseppe Graviano 

Giuseppe Graviano, nato a Palermo 59 anni fa, ha avuto – secondo i magistrati che lo hanno condannato all’ergastolo – un ruolo centrale nell’organizzazione delle stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano e nell’omicidio di don Pino Puglisi. Nel 1997 la Corte d’Assise di Caltanissetta lo ha condannato all’ergastolo per la strage di Capaci, insieme, fra gli altri, a Totò Riina, Bernardo Brusca, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano.

Due anni dopo nel 1999, Graviano è stato condannato nuovamente all’ ergastolo per la strage di via D’Amelio: secondo vari pentiti, sarebbe stato lui ad azionare il telecomando dell’autobomba che ha ucciso il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. Nello stesso anno arriva una nuova condanna: insieme al fratello Filippo è accusato di essere il mandante dell’omicidio del prete anti-mafia don Pino Puglisi eseguito materialmente da Gaspare Spatuzza che, una volta pentito, raccontò i retroscena sui mandanti. Un nuovo ergastolo arriva nel 2000, per gli attentati dinamitardi del 1993 a Firenze, Milano e Roma. 

Nel corso della trasmissione ‘Non è L’Arena’ in onda su La 7 il giornalista-conduttore Massimo Giletti aveva intervistato Salvatore Baiardo, considerato uomo dei Graviano, che ‘annunciò’ l’arresto di Matteo Messina Denaro.  La notizia del procedimento a carico di Giletti e la Amurri è stata anticipata da EtruriaNews. Non è escluso che, dopo gli opportuni accertamenti investigativi, l’indagine possa essere archiviata dai magistrati titolari del fascicolo d’ indagine.

“È una cosa molto grave – commente Giletti all’ANSA – Anche un ergastolano può fare una querela, però quello che faccio fatica ad accettare è perché a noi sia stato vietato l’accesso agli atti. Vorrei capire quale è la motivazione della querela. Aspetterò e verrà il momento, sempre con fiducia nella giustizia, ma con tutto quello che ho passato e sapendo che Giuseppe Graviano è il fratello di chi mi vuole morto faccio davvero fatica a capire”. “Con l’anno che ho vissuto non mi stupisco più di niente – prosegue -. Come diceva Rodari è un paese all’incontrario, mi sembra sempre più evidente“.

Ci lascia esterefatti vedere una Procura dar credito ad un “personaggio”mafioso” di questo calibro, condannato in via definitiva a “fine pena mai” per le stragi del ’93 e fratello di Filippo autore delle riscontrate minacce di morte fatte proprio a Massimo Giletti. Ipotizzare possibile elementi di diffamazione a carico di un mafioso come Graviano è allucinante. Pensare che un mafioso possa aver subito un danno di immagine fa sorridere ma nello stesso tempo ci preoccupa apprendere che qualche magistrato possa dargli credito. Ma forse qualcuno voleva vedere pubblicato il proprio nome sui giornali. Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di G. SAL. per “La Stampa” il 17 luglio 2023.

Nell'autunno 2022 fu Nino Di Matteo […] a convincere […] Massimo Giletti a rivolgersi alla Procura di Firenze per raccontare che Salvatore Baiardo gli aveva mostrato una vecchia foto a suo dire di Silvio Berlusconi con il boss mafioso Giuseppe Graviano. 

Giletti si era recato al Csm e Di Matteo […] lo aveva avvertito […] della necessità di portarla a conoscenza della Procura che indaga sulle stragi del 1993.  Lo stesso Di Matteo mise immediatamente a conoscenza il procuratore di Firenze dell'accaduto.

È stato lo stesso Giletti a ricostruire la vicenda negli interrogatori resi a Firenze. In quello del 21 aprile, appena successivo alla chiusura della trasmissione «Non è l'arena» su La7 mentre preparava una puntata su Dell'Utri, Giletti non riesce a trattenere l'emozione π…]. 

La Procura di Firenze ha perquisito invano la casa di Baiardo […] alla ricerca della foto. Poi ne chiesto l'arresto con due accuse: favoreggiamento in favore di Berlusconi e Dell'Utri, indagati per aver istigato le stragi, e calunnia ai danni di Giletti. Il gip ha negato l'arresto. La Procura ha fatto ricorso. Il tribunale del riesame ha rinviato a settembre la decisione.

I soliti deliri del pm anti Cav nell'anniversario della strage. Tescaroli in un libro per i 30 anni dell’attentato agli Uffizi di Firenze: "Bombe finite quando vinse lui". Felice Manti su Il Giornale il 27 Maggio 2023

L'anniversario di una strage diventa il pretesto per paventare un «nesso eziologico», un rapporto causa-effetto, tra la fine della strategia stragista della mafia e la vittoria di Silvio Berlusconi. Una pista investigativa battuta a vuoto resuscita, non con prove certe e verificate ma nella prefazione scritta dal pm Luca Tescaroli del libro Georgofili: le voci, i volti, il dolore a trent'anni dalla strage sulla bomba che esattamente 30 anni fa all'1:04 del 27 maggio 1993 sventrò via dei Georgofili nel cuore di Firenze. Con il sostituto procuratore Luca Turco, il pm indaga sui presunti «mandanti esterni» che pianificarono l'esplosione di un Fiorino imbottito con oltre 300 chili di tritolo a due passi da piazza della Signoria. Che sfregiò la Galleria degli Uffizi. Morirono Dario Capolicchio, Angela Fiume, Fabrizio e le figlie Nadia e Caterina, di soli 50 giorni. Per Cosa nostra furono condannati Totò Riina, Leoluca Bagarella, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. Da anni si sostiene che ci sia un'unica regia dietro la stagione stragista iniziata per cancellare carcere duro e benefici ai pentiti. La morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, gli attentati di Roma a Maurizio Costanzo e alle basilica di San Giorgio al Velabro e San Giovanni, le bombe in via Palestro a Milano e appunto Firenze sarebbero legate anche al fallito attentato, il 23 gennaio 1994, allo stadio Olimpico. «Perché non venne più riproposto? - si chiede Tescaroli - Il 27 e il 28 marzo di quell'anno si tennero le elezioni politiche, mutò il quadro politico istituzionale e lo stragismo si arenò». Come se la presunta trattativa tra lo Stato e i boss (smontata da sentenze recentissime) «fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali». Come a dire che quella vittoria non solo appagò i boss, ma fu favorita dalle bombe. Cosa aggiunge Tescaroli, che di recente ha nuovamente indagato Berlusconi e Marcello Dell'Utri? Che occorre continuare a indagare «per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso», plasticamente rappresentata dalla famigerata polaroid fantasma scattata nell'estate del 1992 che sarebbe in mano al manutengolo dei Graviano, Salvatore Baiardo. E che ritrarrebbe assieme Berlusconi, Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Baiardo è un propalatore di fesserie che va seminando a pagamento bugie e calunnie a Report e La7», dice il senatore azzurro Maurizio Gasparri. E se questa vicenda fosse una bufala, che ne sarebbe della residua reputazione di chi gli ha dato credito, sui giornali, in tv e in Procura? Possibile che già nel '92 i boss trattassero con un Berlusconi imprenditore, disinteressato alla politica? È corretto che un magistrato riproponga su un libro uno scenario ampiamente smentito da indagini e sentenze? Ci sono segreti investigativi incautamente rivelati? Esiste un profilo di inopportunità, financo meritevole di un'indagine disciplinare? A Via Arenula e al Csm l'ardua sentenza. Altri pm come Antonino Di Matteo hanno passato dei guai per intemerate televisive più innocue. E dire che Tescaroli (penna del Fatto quotidiano) prese un clamoroso abbaglio - come Di Matteo - sul finto pentito Vincenzo Scarantino che lo depistò su Borsellino quando era a Caltanissetta («Nonostante questa sentenza noi gli crediamo ancora», disse il pm dopo l'ennesima assoluzione) e si impuntò sul ruolo di Bruno Contrada, prosciolto dalle accuse sul suo ruolo nelle stragi. A seguire ipotetiche ricostruzioni si sono persi trent'anni, mentre la verità sulle bombe di Capaci e via D'Amelio latitano e l'uccisione del giudice calabrese Antonino Scopelliti è senza verità. Oggi il Csm vuol capire se le toghe in Emilia-Romagna avrebbero chiuso un occhio sui rapporti tra Pd e boss. Invece l'antimafia si è ridotta a inseguire i fantasmi, a ipotizzare indicibili accordi tra Ros e mafia per la cattura di Messina Denaro. A blaterare di credibilità su Chiara Colosimo («Sconcertante che sia stata eletta all'Antimafia») come fa l'europarlamentare Pd Franco Roberti. Che come i suoi predecessori alla Procura antimafia (Pietro Grasso e Federico Cafiero de Raho) si è buttato in politica a sinistra? Tu chiamale, se vuoi, coincidenze.

Mai accettare ricostruzioni di comodo. La mafia, i falsi miti e i pm che hanno scelto di perdere la faccia: il Riformista voce fuori dal coro. Matteo Renzi su Il Riformista il 27 Maggio 2023 

I lettori de “Il Riformista” che hanno avuto la pazienza di seguirci in questi giorni sanno bene che il nostro quotidiano ha dedicato questa settimana a riflettere sulla mafia e su come la narrazione trentennale di questo Paese abbia creato falsi miti e veri scandali.

Nel ricordare Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli uomini della scorta, abbiamo scelto di contestare la ricostruzione allucinante che ha offerto Roberto Scarpinato, senatore, ex pm, grillino, che ha insultato l’intelligenza degli italiani offrendo un racconto di quegli anni viziato dall’ideologia, dalla faziosità, dall’odio politico. Scarpinato è uno di quei (pochi) pm che non sazio di perdere i processi ha scelto di perdere la faccia. E Luca Palamara glielo ha ricordato con dovizia di particolari proprio su queste colonne. Abbiamo pubblicato, poi, con Pandolfini, una riflessione a puntate sui diari di Falcone e Torchiaro ha intervistato Claudio Martelli che volle Falcone al Ministero dopo che i suoi colleghi lo avevano umiliato negandogli l’agibilità professionale a Palermo.

Questo giudizio contrasta con la tiritera a reti unificate, ispirata dal travaglismo, che per anni ci ha consegnato una politica impegnata a far fuori Falcone mentre tutti dovremmo ricordare che la guerriglia a Giovanni Falcone l’ha iniziata prima di tutto una parte del CSM. Lo ha ucciso la mafia, sia chiaro. Ma i suoi detrattori gli ferirono l’anima in modo ingiusto.

E poco importa se siamo accusati dai cantori del pensiero unico giustizialista di fare un giornale di parte. Avevamo promesso di fare de “Il Riformista” non il gazzettino di Italia Viva, ma una voce fuori dal coro. E per questo continueremo a dire la nostra ostinatamente contro corrente.

In molti casi indugiando anche sulle emozioni di chi scrive. Lo ha fatto bene ieri Claudia Fusani raccontando la notte di trent’anni fa in Via dei Georgofili quando la Mafia colpì al cuore l’Italia. E oggi il Presidente della Repubblica sarà a Firenze proprio per la cerimonia in ricordo di quella strage.

In quelle ore – scendendo in piazza come tutti – imparai che davanti al dolore mafioso si reagisce insieme, non dividendosi. Quel corteo che dal Liceo Dante ci portava verso una Piazza Signoria talmente piena da impedire l’afflusso di tutti i ragazzi mi ha segnato la vita. Avevo 18 anni, una maturità in arrivo e tanti sogni nel cassetto.

Sapere che il tritolo aveva colpito al cuore la mia città un anno dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino non mi portò solo a iscrivermi a giurisprudenza. Mi insegnò che non avrei mai dovuto accettare una ricostruzione di comodo sulla mafia, da qualunque parte essa provenisse. “Il Riformista” continuerà a farlo, con buona pace di chi ci teme e di chi ci insulta. 

Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista

Quel boato a notte fonda che non potrò mai scordare. Attentato dei Georgofili, quei ragazzi che, poco distante dal luogo della tragedia, aspettavano il giorno in cui sarebbero diventati carabinieri. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Domani il 27 maggio 2023

Pur essendo trascorsi ormai trent'anni, non riesco ancora a dimenticare quel boato fortissimo che fece tremare le possenti mura dell'antico convento dei padri domenicani annesso alla basilica di Santa Maria Novella a Firenze. Il convento ospitava dal 1920 la scuola sottufficiali carabinieri ed io quell’anno, poco più che ventenne, stavo ultimando il 44esimo corso biennale di formazione. La cerimonia di chiusura del corso, con la consegna dei gradi, era prevista per il 28 maggio.

Anche la sera del 26 maggio, pur mancando solo due giorni al termine del corso, il “contrappello” era passato puntuale alle 22.30. Ed alle ore 23.00 era risuonato il silenzio. I fumatori, o chi semplicemente non aveva sonno, come il sottoscritto, avevano aspettato che il sottufficiale di giornata spegnesse le luci ed erano andati in bagno per scambiare qualche parola con il collega che difficilmente, terminato il corso, avrebbe poi più rivisto. Le tecnologie dell'epoca non agevolano certamente i rapporti.

Poco dopo la mezzanotte, comunque, tutti erano tornati al proprio letto. La stanza era grandissima ed ospitava quasi una ventina di allievi. Il fortissimo boato, era circa l’una di notte, provocò uno spostamento d'aria che spalancò con violenza le enormi finestre che davano sul cortile principale. Le luci delle camerata si accesero immediatamente e ci fu dato l'ordine di metterci in divisa. Dopo poco, infatti, iniziò a circolare la voce che ci fosse stata una perdita di gas che aveva provocato una immane esplosione in centro.

Rimanemmo per qualche ora a disposizione e quindi ci venne detto di toglierci la divisa e tornare a letto. La mattina successiva, dopo l'alza bandiera, ascoltammo i racconti di chi era andato sul posto, in particolare del personale del quadro permanente, che descriveva macerie e distruzione ovunque proprio dietro piazza della Signoria, precisamente in via dei Georgofili, distante circa 500 metri in linea d’aria dalla nostra scuola. Ci sarebbero state anche alcune vittime. Di una bomba si iniziò a parlare solo in tarda mattina.

La notizia ci sconvolse tutti. Era difficile pensare alla cerimonia del giorno successivo. I superiori decisero che, anche se in tono minore, la cerimonia ci sarebbe stata comunque perché non doveva passare il messaggio che l’Arma subiva il ricatto dei terroristi.

Nessuna grande uniforme, allora, tutti con la divisa ordinaria e con il gonfalone del comune di Firenze listato a lutto. Si respirava però un’aria molto diversa da quella del 15 gennaio precedente quando i carabinieri del Ros avevano catturato a Palermo Totò Riina, il capo dei capi. Terminata la cerimonia ed indossati i gradi ci salutammo fra la commozione generale. Dopo qualche breve giorno di licenza avremmo raggiunto i reparti. Senza scordare mai quella notte di fine maggio del 1993. 

La strage 30 anni fa. Attentato di via dei Georgofili, a Firenze per la prima volta la mafia sparò nel mucchio. David Romoli su L'Unità il 27 Maggio 2023

Nella notte tra il 26 e il 27 maggio di trent’anni fa, 1993, Cosa nostra alzò il tiro più di quanto avesse mai fatto in precedenza. Portò l’attacco allo Stato nel continente, adottò la strategia dello stragismo indiscriminato, prese di mira non solo persone e cose ma i beni culturali del Paese, la sua ricchezza. La bomba esplose in via dei Georgofili a Firenze, dietro gli Uffizi, a un passo dall’Accademia dei Georgofili, poco dopo l’una di notte. Uccise l’intera famiglia del guardiano dell’accademia, incluse le due figlie, 9 anni la più grande, appena 50 giorni la piccola. Ci rimise la vita anche uno studente di 22 anni, nell’incendio che coinvolse le abitazioni circostanti. I danni al patrimonio culturale furono ingenti: crollò la Torre dei Pulci, fu danneggiato più o meno gravemente un quarto delle opere presenti nella Galleria degli Uffizi.

L’ordigno era stato preparato a Palermo da Gaspare Spatuzza, il bombarolo di Cosa nostra, uomo di fiducia dei fratelli Graviano, e di lì portato a Prato. Il gruppo di attentatori, oltre che da Spatuzza, era composto da Cosimo Lo Nigro, Salvatore Benigno e Francesco Giuliano, tutti “uomini d’onore” dei mandamenti di Brancaccio, quello dei Graviano, e di Corso dei Mille. La sera del 26 maggio Giuliano e Spatuzza rubarono un furgone Fiat Fiorino, lo spostarono a Prato per caricare l’esplosivo, nella notte fu parcheggiato in via dei Georgofili da Giuliano e Lo Nigro che lo fecero poi esplodere a tarda notte. Ogni strage ha i suoi misteri, veri o presunti che siano: quello di via dei Georgofili sarebbe costituito da un centinaio di chili di esplosivo T4, tra i più deflagranti, che sarebbe stato aggiunto ai circa 150 kg trasportati dalla Sicilia da mani sconosciute.

Non era il primo atto nella strategia d’attacco decisa dall’ala dura dei corleonesi, quella che faceva capo a Luchino Bagarella, dopo l’arresto di Totò Riina, il 15 gennaio di quello stesso anno. La sera del 14 maggio una Fiat Uno rubata e imbottita d’esplosivo era stata fatta esplodere in via Fauro a Roma, molto vicino agli studi dove veniva registrato il Maurizio Costanzo Show. A salvare il conduttore e la moglie, Maria De Filippi, era stata la decisione di lasciare gli studi su una macchina diversa dal solito. A premere il fatale pulsante erano i soliti Lo Nigro e Benigno che restarono spiazzati dalla macchina sconosciuta. Benigno premette il pulsante con un provvidenziale attimo di ritardo. Costanzo e De Filippi rimasero illesi, 24 persone rimasero invece ferite.

Il tentativo di assassinare il più popolare conduttore della tv italiana nel cuore della capitale, lontano da Palermo, era un segnale chiaro di quanto si fosse alzato il livello dello scontro. Costanzo prendeva di mira continuamente Cosa nostra: la decisione di toglierlo di mezzo poteva ancora sembrare consona allo stile della Cosa nostra dominata dai bellicosi e spietati corleonesi. Via dei Georgofili segnava invece un passo in avanti drastico sulla strada della guerra totale. Per la prima volta Cosa nostra sparava nel mucchio, falciava non magistrati, poliziotti o rivali interni ma passanti qualsiasi. Sceglieva lo stragismo.

L’attentato fu rivendicato, come tutti quelli di Cosa nostra in quella fase, dalla fantomatica “Falange Armata”. Nessuno, dal premier Carlo Azeglio Ciampi, il primo presidente del consiglio “tecnico” nella storia della Repubblica e capo di un governo costituitosi meno di un mese prima, al ministro degli Interni Nicola Mancino, ebbe mai dubbi sulla matrice mafiosa della strage anche se inevitabilmente, nell’ultimo anno della prima Repubblica, in una fase segnata da massima incertezza e altrettanto elevato rischio, il sospetto di commistioni con soggetti diversi dalle cosche dell’isola era inevitabile.

Il 27 luglio il gruppo dinamitardo colpì ancora, stavolta con una prova di forza anche più temibile perché prese di mira contemporaneamente le due principali città italiane, Roma e Milano. L’attentato più grave fu quello di via Palestro, nel capoluogo lombardo. La sera del 27 luglio i vigili del fuoco intervennero dopo che un agente aveva segnalato che da una Fiat Uno parcheggiata di fronte al Padiglione d’arte contemporanea usciva del fumo. L’autobomba esplose mentre i vigili erano al lavoro: uccise due di loro, un agente e un immigrato che dormiva su una panchina lì vicino, danneggiò le opere del Padiglione che però se la videro anche peggio quando, poche ore dopo, esplose anche una sacca di gas formatasi perché il crollo precedente aveva spezzato le tubature. Anche qui non manca il mistero di turno. Chi materialmente abbia portato in loco l’autobomba e provocato il botto è a tutt’oggi ignoto. I bombaroli in trasferta avevano preparato tutto prima di spostarsi a Roma ma la fase esecutiva non la gestirono loro. Un testimone oculare vide uscire dalla macchina esplosiva una bionda elegante. Possibile che Cosa nostra si fosse affidata a una femmina?

A Roma non ci furono vittime ma il livello degli obiettivi colpiti bastava e avanzava. I picciotti rubarono tre Fiat Uno il 28 luglio. Lo Nigro lasciò la prima, imbottita d’esplosivo, di fronte alla chiesa di San Giorgio in Velabro. Spatuzza e Giuliano parcheggiarono la seconda autobomba di fronte a San Giovanni in Laterano. Poi se ne andarono tutti insieme sulla terza Fiat, guidata da Benigno. Esplosero a distanza di 4 minuti l’una dall’altra, ferirono 24 persone e danneggiarono seriamente le due chiese. Ma il vero effetto esplosivo fu psicologico dal momento che erano state colpite due delle chiese più famose e antiche di Roma.

Prima di passare all’azione, nel pomeriggio, Spatuzza aveva inviato due lettere vergate da Graviano, indirizzate al Corriere della Sera e al Messaggero. Promettevano sfracelli. Minacciavano di distruggere “centinaia di vite umane”. Non era solo un modo dire. Ci provarono davvero pochi mesi dopo allo stadio Olimpico di Roma il 23 gennaio 1994, una domenica. L’autobomba, in quel caso, avrebbe dovuto esplodere alla fine della partita, mentre passava un furgone pieno di carabinieri di stanza. Con la folla in uscita dallo stadio le vittime, con e senza divisa, sarebbero state innumerevoli. Il telecomando non funzionò, la strage più efferata fu evitata da un caso miracoloso.

Poi, all’improvviso tutto si fermò. Le bombe smisero di esplodere. Difficile dire cosa fosse cambiato. Qual era l’obiettivo di Cosa nostra? Probabilmente si trattava di quello che Giovanni Bianconi definisce “un dialogo a suon di bombe” finalizzato a ottenere l’abrogazione o l’allentamento del 41 bis, l’allora neonato regime di carcere duro per i mafiosi. Nel caos di quell’anno è possibile che si siano intrecciate anche altre mire, miraggi golpisti inclusi. Ma probabilmente quel che decretò la fine dello stragismo mafioso fu la sconfitta dei duri, Bagarella e i Graviano, arrestati e messi in scacco da quella parte di Cosa nostra che aveva subìto senza crederci troppo la guerra totale decisa da Totò “u Curtu” e proseguita dal feroce cognato Leoluca Bagarella. E se c’era un boss che da quella strategia proprio non era convinto era proprio l’uomo chiamato “u Tratturi”, il trattore: Bernardo Provenzano. David Romoli

L'attacco di Cosa Nostra al cuore del Rinascimento. La strage dei Georgofili 30 anni dopo, la fine del mondo era arrivata a Firenze: la poesia di Nadia e il tramonto di Messina Denaro. Claudia Fusani su Il Riformista il 26 Maggio 2023 

Ogni volta che ci passo, ed è quasi ogni settimana, è come un clic nella testa. Osservo l’olivo e i suoi rami, dolcissimi seppur di bronzo, e ricordo che le macerie, quella notte arrivano più o meno lì, a circa quattro metri. Il palazzo del Pulci non c’era più, solo massi, anche enormi, arredi, cose della vita. I vigili del fuoco erano lì sopra, messi in fila, quasi una catena. Fu un momento di silenzio surreale in quella fine del mondo: “Ecco, tieni, prendi, dai, via via …”. Si passavano un fagotto chiaro, un bombolotto di stracci, l’ultimo vigile della catena entrò nell’ambulanza che era riuscita ad arrivare fino in via dei Girolami. Poi sparì tra le sirene. Noi tutti si rimase lì. Muti, come muti eravamo da ore.

Fazzoletti bagnati sul naso, l’odore del tritolo, del sangue, della paura e della morte dentro le ossa, la pelle, il cervello. Sapevamo che in quel fagotto c’era una bambina e non poteva che essere la più piccola delle due sorelline. Si chiamava Caterina Nencioni. La speranza che fosse sopravvissuta a quell’inferno durò meno di mezz’ora. Aveva 50 giorni. Nadia, la sorella di 9 anni, il babbo Fabrizio, un vigile urbano, la mamma Angela, custode dell’Accademia dei Georgofili motivo per cui ebbe assegnato l’appartamento nella Torre, furono estratti dopo ore in quella lunga notte che non finiva mai. Era l’una di notte. Lavoravo come cronista di nera e giudiziaria alla redazione di Repubblica a Firenze.

Il lavoro finiva sempre tardi e cenare tra le 23 e la mezzanotte quasi la norma. Stavo guardando un film, “Sotto tiro”, Nick Nolte che fa il fotoreporter, il fronte sandinista, i ribelli, l’attore che sta per essere giustiziato… bum. Un boato enorme fa tremare i vetri di casa poco dopo Porta Romana, sconquassa la dolce notte di maggio. Partono sirene, allarmi, il centro storico piomba nel buio totale. I telefoni del “giro di nera” – polizia, carabinieri, vigili del fuoco e vigili urbani – non rispondono, occupati, staccati. Riesco finalmente a parlare con una stazione distaccata dei vigili del fuoco. “Probabile grossa esplosione di gas, in pieno cento storico, vicino agli Uffizi…”. Un veloce giro di telefonate con il capo della redazione di Firenze e i colleghi Fabio Galati e Gianluca Monastra. Non si capisce nulla. Claudio Giua, il caporedattore, ci dice “avviciniamoci il più possibile agli Uffizi…”.

Lascio il motorino vicino al Ponte Vecchio, e già davanti a palazzo Pitti vedo gente che cammina confusa, piangono, si stringono, qualcuno è a terra, spaventati, altri scappano, chiedo, non riescono a parlare, tengono le mani sulle orecchie. Ci saranno seicento metri tra ponte Vecchio e via dei Georgofili, stradine e vicoli che si conoscono a memoria e che invece non riconoscevo più: colonne di fumo, polvere, sirene, gente accovacciata in terra che chiedeva aiuto, che non sapeva dov’era. Non so dire quanto tempo fosse passato dalla prima esplosione. Di sicuro la zona non era stata ancora trincerata né messa in sicurezza. si vedeva qualche uomo in divisa che cercava di spingere le persone lontano, oltre l’Arno. Cos’era stato? Gas? Oppure? Ed era finita lì? 

Via Lambertesca era coperta da una strana polvere, era tutto grigio, l’odore insopportabile, le fiamme, cadono tegole dai tetti. Si prova a prenderla un po’ più larga, in Chiasso del Buco si entra, anche in chiasso dei Baroncelli fino ad un “dove” irriconoscibile, via Lambertesca, appunto, all’angolo con via dei Georgofili. Quella che prima sembrava “nebbia” da qui è chiaro che sono macerie e polvere. La fine del mondo era arrivata a Firenze, a cento passi da piazza della Signoria. I colleghi junior, io, Fabio e Gianluca, rimaniamo lì, un cellulare in tre. Il caporedattore intanto ha avvisato Roma che è necessario ribattere perché “l’esplosione, se anche fosse gas, ha attaccato il cuore del Rinascimento”. I senior, si erano aggiunti Paolo Vagheggi e Franca Selvatici, vanno in redazione, in via Maggio, a scrivere. Noi restiamo lì, vedere, capire, annotare, restare lucidi. Non fu facile. Tutto è stato irripetibile. E indimenticabile. Metto qui in fila qualche frammento di quella notte. Quelli per me decisivi. Via via che si posa un po’ la polvere, cessano gli allarmi e turisti e residenti sono ormai lontani, resta il rumore dei generatori elettrici e delle pompe d’acqua, l’odore di qualcosa che è anche gas ma non solo e una montagna di macerie davanti agli occhi.

Il cratere lasciato dal Fiorino imbottito con 277 chili di esplosivo (tritolo, T4, pentrite, nitroglicerina) verrà fuori solo dopo giorni (3 metri di larghezza e due di profondità). Quella notte si vedono solo macerie e macerie e macerie. I periti scrissero che l’esplosione provocò “la devastazione del tessuto urbano del centro storico per un’estensione di ben 12 ettari, con un impatto bellico”. Alzando gli occhi, davanti a quella che era la torre del Pulci, ci sono finestre aperte e soffitti a cassettoni anneriti. Una casa affittata da studenti. I vigili del fuoco hanno provato a salvare Dario Capolicchio ma le fiamme avevano già mangiato la casa. Gas, solo gas? Dopo un po’ di tempo, non so dire quanto, ma prima che venga estratto il fagotto con i resti della piccola Nadia, cammina in questa devastazione il capo della Digos, Franco Gabrielli, con un paio di uomini. Hanno gli occhi all’insù, sono sgomenti, guardano la parete antistante all’accademia rimasta miracolosamente in piedi.

“Considera – riflettono – che l’esplosivo in questo imbuto di strade ha raddoppiato la potenza. E i danni”. La parete è bucherellata come una groviera. Fori concavi, tutti anche se più o meno grandi. “Ecco perché non può essere un’esplosione di gas. L’esplosione è stata esterna ai palazzi”. E solo una bomba può aver fatto quel macello. È stato forse il primo vero sopralluogo. Si attende il procuratore, Piero Luigi Vigna. Ha firmato alcune tra le inchieste più importanti di terrorismo e sequestri di persona. Prima di Vigna, s’intravede Gabriele Chelazzi, il suo sostituto “preferito” (senza nulla togliere agli altri che poi seguiranno le inchieste e i processi: Fleury, Crini e Nicolosi). Chelazzi si lascia avvicinare, sta camminando solo nel piazzale degli Uffizi, buio totale. “Lo senti cosa c’è sotto i piedi? Vetri, camminiamo su un tappeto di vetri. Hanno voluto colpire il cuore di Firenze, dell’arte, del Rinascimento”. Chi? “Non lo so ma…”. Ma un anno prima c’era stata Capaci, poi via D’Amelio e due settimane prima, il 14 maggio, in via Fauro a Roma, una macchina era stata imbottita di esplosivo per Maurizio Costanzo. Attentato fallito. Se Falcone diceva follow the money, Chelazzi ha sempre preferito unire i punti. Mi piace pensare che il primo momento in cui hanno unito i punti sia stato quando ho visti Vigna, Gabrielli, Chelazzi appoggiati al colonnato degli Uffizi, testa bassa, facce tese: quella notte cambiò le loro vite professionali.

Qualche flash back, andata e ritorno dall’angolo tra via Lambertesca e via dei Georgofili quella notte-mattina del 27 maggio 1993. Le parole mafia e Cosa Nostra presero tecnicamente cittadinanza sui fascicoli dell’indagine (strage di stampo mafioso) nel giro di un paio di settimane. Forse un mese. Chelazzi univa i puntini, appunto, ed aveva iniziato dal 1992. Quando due mesi dopo, la notte del 27 luglio 1993, prima a Milano e poi a Roma 3, il tritolo esplose in via Palestro e poi a San Giovanni e a San Giorgio al Velabro, la “linea” di Chelazzi disegnò una figura chiara: Cosa Nostra stava attaccando il cuore dello Stato, il patrimonio artistico e religioso e lo faceva fuori dalla Sicilia. Un salto di qualità senza precedenti. Circa sei mesi dopo – era ottobre – il procuratore Vigna convocò i giornalisti nel suo ufficio. Lo faceva raramente. In quel periodo un po’ di più. In quella stanza, c’erano tutti “i ragazzi” e “le ragazze” della sua squadra: Chelazzi, Crini, Nicolosi, Margherita Cassano (oggi procuratore generale in Cassazione) e Silvia della Monica che aveva passato le sue ai tempi del mostro di Firenze. 

“Questa procura – ci disse – ha sollevato conflitto per la titolarità di tutte le stragi in continente di Cosa Nostra”. Vinse il procuratore Vigna, a parità di numero di morti (5 a Firenze e 5 a Milano), prevalse l’interpretazione che eravamo di fronte ad un unico disegno stragista, da via Fauro fino a San Giovanni passando per Milano. Non fu facile. I professionisti dell’antimafia nicchiarono: “Cosa ne sa Firenze…”. Iniziò così uno dei periodi più duri ed entusiasmanti di quella procura e di quella squadra di magistrati ed investigatori. Tutte eccellenze. Le indagini, l’arresto di Brusca, l’inizio della sua collaborazione, le indagini dal basso che misero in fila i nomi del gruppo di fuoco Giuseppe Barranca, Cosimo Lo Nigro, Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano e poi i mandati, Totò Riina, Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano. Un centinaio gli imputati chiamati nell’aula bunker di Firenze nell’ex convento di Santa Verdiana. In questa aula per la prima volta Giuseppe Brusca parlò del “papello” con le richieste che Cosa Nostra aveva presentato allo Stato per cessare la stagione delle bombe e delle stragi.

Ma torniamo a quella notte. Sono le quattro del mattino quando la catena di braccia in fila porta fuori il fagotto bianco con i resti della piccola Caterina. Appena 50 giorni. Albeggia. Sono stati sgomberati alberghi e abitazioni. Il centro storico di Firenze è un campo di battaglia. La polvere sta calando. Le fiamme sono spente. L’odore, quello no, è ovunque. La luce del giorno misura la tragedia. E la montagna di macerie. S’intravedono i poveri resti di vite che sono state felici: fotografie, quaderni, libri, peluche, abiti. Repubblica è uscita in prima pagina: “Bomba nel cuore di Firenze. Il sospetto su Cosa Nostra”. I giornali stranieri chiamano in redazione, “Firenze come Palermo?”. Il 16 gennaio scorso è stato arrestato l’unico boss che ancora mancava all’appello: Matteo Messina Denaro. I carabinieri e la procura di Palermo hanno voluto chiamare l’indagine “Operazione tramonto”. Tramonto è il titolo di una bellissima poesia scritta da Nadia, 9 anni, il 24 maggio, tre giorni prima di morire: “Il pomeriggio se ne va/il tramonto si avvicina/un momento stupendo/il sole sta andando via (a letto)/è già sera/ tutto è finito”. Probabilmente c’è ancora da scoprire su quegli anni. Non è finita. Tra i tanti insegnamenti di quei giorni e di quell’inchiesta c’è che esiste una verità storica e una processuale. Quasi mai coincidono.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

30 anni fa la strage di Firenze: un filo la lega alla Trattativa Stato-mafia. Stefano Baudino su L'Indipendente il 26 Maggio 2023.

Il 27 maggio 1993, un boato risvegliò Firenze poco dopo l’una di notte. Un Fiorino imbottito con 250 chili di tritolo esplose sotto la Torre dei Pulci, nei pressi della Galleria degli Uffizi. Tra le macerie furono ritrovati i corpi di cinque vittime, tra cui quelli di due piccole bambine. L’attentato porta ufficialmente la firma degli uomini di Cosa Nostra, ma non rappresenta un passaggio estemporaneo. La strage di Via dei Georgofili – uno dei tanti episodi dimenticati che hanno segnato la storia recente del nostro Paese – è al contrario un tassello fondamentale della strategia stragista attraverso cui la mafia ricattò lo Stato italiano, che aveva avuto la sciagurata idea di lanciare segnali di dialogo ai suoi rappresentanti. Un progetto eversivo che, molto probabilmente, coinvolse anche entità esterne alle gerarchie mafiose, unite nell’ottica della “destabilizzazione”.

La strage di Via dei Georgofili fu anticipata da un fallito attentato andato in scena il 14 maggio 1993 in via Ruggero Fauro, a Roma. L’obiettivo di Cosa Nostra era in quel caso quello di uccidere il conduttore televisivo Maurizio Costanzo, impegnato a promuovere la lotta alla mafia all’interno delle sue trasmissioni, a cui aveva partecipato anche il giudice Giovanni Falcone. Al momento della detonazione, avvenuta alle 21.40, Costanzo era appena uscito a bordo di un auto dal Teatro Parioli, dove registrava il suo Maurizio Costanzo Show, ma si salvò miracolosamente insieme alla sua compagna Maria De Filippi.

Tredici giorni più tardi, nella notte tra il 26 ed il 27 maggio, l’attentato di Firenze provocò invece conseguenze molto più gravi, lasciando a terra cinque morti. A perdere la vita, insieme ai loro giovani genitori, furono anche Nadia e Caterina Nencioni, due bambine rispettivamente di nove anni e cinquanta giorni di vita, e uno studente di ventidue anni, Dario Capolicchio, che morì bruciato vivo. Quaranta le persone rimaste ferite. Il venticinque per cento delle opere presenti nella Galleria degli Uffizi subì danni, così come la Chiesa di S. Stefano e Cecilia. Insomma, venne lanciato un attacco frontale allo Stato con modalità del tutto simili a quelle che, per tutti gli Settanta fino allo strage di Bologna, avevano caratterizzato gli attentati della “strategia della tensione“. La strage, come avverrà per molti altri attentati che caratterizzarono quella stagione, sarà rivendicata dalla misteriosa sigla della “Falange Armata”.

Per l’attentato, tra i mandanti vennero condannati i membri della Commissione di Cosa Nostra, tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Tra gli esecutori materiali puniti dalle condanne, spiccano invece i nomi di Giuseppe Barranca, Cosimo Lo Nigro e Gaspare Spatuzza. In seguito alle rivelazioni di quest’ultimo, che confermò le sue responsabilità nell’attentato, venne processato e condannato anche il boss Francesco Tagliavia, responsabile di aver fornito l’esplosivo per l’attentato.

Proprio la sentenza del processo “Tagliavia” ha ufficialmente collegato le modalità e la tempistica dell’attentato in Via dei Georgofili alla cosiddetta “Trattativa Stato-mafia“, inaugurata dai vertici del Ros dei Carabinieri nella primavera del 1992, nei giorni intercorsi tra la morte di Giovanni Falcone e quella di Paolo Borsellino. All’invito al dialogo, trasmesso ai mafiosi dall’ex sindaco mafioso corleonese Vito Ciancimino, Totò Riina rispose con il famoso “papello”, in cui Cosa Nostra chiedeva allo Stato importanti benefici carcerari (tra cui l’abolizione del 41-bis e dell’ergastolo) in cambio della fine delle violenze.

“Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des; L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia; l’obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno d’intesa con Cosa Nostra per far cessare la sequenza delle stragi”, scrisse nel 2012 la Corte d’Assise di Firenze. “Iniziata dopo la strage di Capaci – ricostruirono i giudici -, la trattativa si interruppe con l’attentato di via D’Amelio […] Per tutto il resto del 1992 Cosa Nostra restò in attesa che si ripristinassero i canali interrotti e fermò. Senza però mai rinunciarvi, ogni ulteriore iniziativa d’attacco, motivata dal fatto che proprio lo Stato, per primo, si era fatto sotto“. Dunque, “per stimolare una riapertura dei contatti e dare prova della sua determinazione, e anche perché furente per l’arresto di Riina, dal maggio del ’93 […] l’ala più oltranzista […] riprese a far esplodere le bombe […] in modo che lo Stato capisse e si piegasse. Ed era certo che lo Stato avrebbe capito proprio perché la trattativa era stata interrotta”.

Tale verità, nel 2016, è stata ufficializzata anche dalla sentenza di Appello, in cui si legge che “l’esistenza” della Trattativa è “comprovata dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi” ed è “logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista“, dal momento che il ricatto “non avrebbe senso alcuno se non fosse scaturita la percezione e la riconoscibilità degli obbiettivi verso la presunta controparte”. I giudici hanno dunque considerato provato che, in seguito alla prima fase della trattativa, che si arenò dopo la strage di via D’Amelio, “la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura dell’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quella interruzione”.

La storia ci consegna poi altre due pagine che paiono significative. All’indomani delle bombe di Via Fauro e agli Uffizi, il Consiglio dei ministri presieduto da Carlo Azeglio Ciampi – in cui Giovanni Conso ricopriva la carica di ministro della Giustizia – scelse di destituire dal ruolo di capo dell’Amministrazione penitenziaria, senza nessun margine di preavviso, Nicolò Amato, strenuo difensore della “linea dura” sull’applicazione del 41-bis. Come suo successore venne individuato il “morbido” Adalberto Capriotti, magistrato cattolico legato al Vaticano, estremamente garantista. Pochi mesi dopo lo scoppio, nel mese di luglio, delle bombe di Via Palestro a Milano e delle basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni Laterano a Roma – nuovi episodi della strategia stragista – il ministro Giovanni Conso decise di non rinnovare il “carcere duro” a 334 mafiosi, restituendoli dunque al carcere ordinario.

Sulla “Trattativa Stato-mafia” è nato un processo che ha visto imputati, per il reato di “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, uomini delle istituzioni – tra cui gli ufficiali del Ros – e i vertici della mafia. In primo grado i Carabinieri hanno subito ingenti condanne, in Appello sono stati assolti “perché il fatto non costituisce reato“, mentre in Cassazione (la sentenza è stata emessa lo scorso 27 aprile) sono stati assolti in via definitiva “per non aver commesso il fatto“. Dopo essere stati colpiti dalle condanne nei primi due gradi di giudizio, a causa della riqualificazione del reato in “tentata minaccia”, i boss di Cosa Nostra hanno invece potuto beneficiare della prescrizione. Immediata era stata la reazione dell’Associazione dei familiari delle vittime di Via dei Georgofili dopo l’uscita del verdetto: “Il fatto storico, inoppugnabile, che resta, è che la trattativa Stato-mafia, interrotta con la cattura di Riina, portò alle stragi del 1993, e al sangue innocente di Caterina e Nadia Nencioni, dei loro genitori, e di Dario Capolicchio”. [di Stefano Baudino]

1993, l’anno buio della Repubblica: un mistero che resiste da 30 anni. Lirio Abbate su La Repubblica il 26 Maggio 2023

Il 27 maggio la strage di via dei Georgofili a Firenze inaugurò la stagione delle bombe mafiose contro i monumenti. Per quell’attentato sono stati condannati gli esecutori e chi li armò. Ma la caccia ai mandanti occulti non si è mai fermata

Ci sono ancora i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri scritti sul fascicolo dell'inchiesta sui mandanti delle stragi del biennio 1993 e 1994. Un'inchiesta prorogata più volte dal giudice per le indagini preliminari su richiesta dei magistrati della procura di Firenze. I pm l'hanno motivata fornendo al gip nuovi elementi che sostengono la necessità di continuare ad indagare sull'ex premier e sul suo amico e co-fondatore di Forza Italia. 

All'inizio ci sono state le dichiarazioni in aula a Reggio Calabria del boss Giuseppe Graviano, autore delle stragi, il quale ha saputo calcolare le uscite pubbliche, lanciando messaggi a Berlusconi e allo stesso tempo sostenendo che l'ex presidente del Consiglio non aveva rispettato "i patti" con la famiglia Graviano. Il boss di Brancaccio, Matteo Messina Denaro e Leoluca Bagarella sono i protagonisti delle bombe a Roma, Milano e Firenze. E dopo vent'anni di detenzione trascorsi in silenzio, Giuseppe Graviano ha iniziato a lanciare pesanti messaggi dal carcere rivolti a Berlusconi, nel tentativo di tornare libero, o ancor di più, di ottenere una grossa somma di denaro. Tutta questa storia, legata anche alla strage di via dei Georgofili del 26 maggio 1993, ha portato i pm fiorentini ad indagare sui due fondatori di Forza Italia, per accertare se vi sia stato un dialogo fra loro e i boss di Cosa nostra. Non risulta alcuna denuncia per calunnia presentata contro il capomafia palermitano. 

Prima che iniziasse a fare dichiarazioni in aula, Giuseppe Graviano, intercettato anni fa nella sala colloqui con il figlio Michele, si sentiva potente, grazie ai segreti di quella stagione delle bombe al Nord, e parlando di Berlusconi e dei suoi affari diceva: "Queste persone così potenti dipendono da me". Dopo di che fu visto alzarsi dalla sedia, allargare le braccia e battersi il petto con la mano destra scandendo: "Qui tutto dipende da me". Sono trascorsi gli anni, e qualcosa è cambiato. È sceso in campo il factotum dei Graviano, Salvatore Baiardo, anche lui in giro a seminare messaggi dal tono ricattatorio e allo stesso tempo il boss ha modificato la sua strategia in carcere: non più silenzio, ma sussurri. 

Il 1993 è stato uno degli anni più bui della vita della Repubblica, con Roma, Milano e Firenze che divennero scenario di stragi terroristico eversive. Le bombe provocarono la morte di dieci innocenti, il ferimento di 96 persone, danni ingenti e irreparabili al patrimonio artistico. Portarono distruzione, paura e insicurezza, nell'arco di 75 giorni, dal 14 maggio al 28 luglio. L'aggressione mafiosa rappresentò il momento di massimo pericolo per la nostra democrazia. All'1,04 del 27 maggio in via dei Georgofili esplode un ordigno collocato in un Fiorino. Muoiono Angela e Fabrizio Nencioni, le loro bambine Nadia e Caterina, e lo studente Dario Capolicchio, mentre dormivano nelle loro abitazioni. In 38 restano feriti, e viene distrutta la Torre dei Pulci, sede dell'Accademia dei Georgofili, e gravemente danneggiati la Chiesa di Santo Stefano e Cecilia e il complesso degli Uffizi, con danni patrimoniali enormi, per circa trenta miliardi di lire. Gli effetti dell'esplosione si sono propagati per circa dodici ettari nel centro di Firenze. L'allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi ha temuto in quel periodo che stesse per accadere qualcosa di oscuro per la tenuta democratica del Paese. 

I processi che si sono conclusi con pesanti condanne hanno accertato alcune verità. I magistrati evidenziano come "dai processi celebrati, sono emersi spunti investigativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell'ideazione e nell'esecuzione delle stragi". Per questo motivo vanno ricordati "alcuni interrogativi rimasti insoluti le cui risposte potrebbero squarciare i veli che avvolgono i cosiddetti mandanti a volto coperto".

Come ha detto nei giorni scorsi il procuratore aggiunto Luca Tescaroli, titolare dell'inchiesta sulle stragi, partecipando ad un incontro all'università di Pisa: "Si continuerà a indagare non solo perché questo è un obbligo giuridico, ma perché è la memoria delle vittime innocenti e del pericolo generato per la nostra democrazia, è la coscienza critica e morale della società civile che impone questo dovere, la ricerca della verità senza di che non c'è giustizia. E ci auguriamo di trovare il filo conduttore che ci consenta di individuare tali responsabilità, ove esistenti". I quesiti irrisolti e gli spunti investigativi riguardano i contatti fra un appartenente all'estrema destra come Paolo Bellini, condannato per la strage del 2 agosto a Bologna e i mafiosi corleonesi nel periodo in cui pensavano alle bombe al Nord. I pm vogliono accertare il ruolo e l'identità di una donna che avrebbe preso parte alla strage di Milano, e se la decisione dei vertici di Cosa nostra di queste stragi fu condivisa con soggetti estranei. E perché dopo aver fallito l'attentato all'Olimpico il 23 gennaio 1994 la campagna stragista si fermò. A marzo di quell'anno si tennero le elezioni politiche, mutò il quadro politico istituzionale, Silvio Berlusconi divenne il presidente del Consiglio e lo stragismo marcato Cosa nostra si arenò. Le indagini adesso proseguono.

 Trent’anni dalla strage dei Gergofili a Firenze: l’ultimo miglio per la verità. Nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 un’autobomba mafiosa sterminò una famiglia e uccise uno studente. La procura toscana lavora ancora al filone politico della strategia di Cosa nostra. Ecco cosa c’è da sapere su quella stagione di tritolo e patti. Enrico Bellavia su L'Espresso il 25 Maggio 2023

Il 27 maggio, ma in realtà accadde nella notte tra il 26 e il 27, è il 30° anniversario della strage di via dei Georgofili, a Firenze. Cinque i morti e 48 feriti. Persero la vita: la custode dell’Accademia, Angela Fiume, il marito vigile urbano di San Casciano Val di Pesa, Federico Nencioni e le loro figlie, Caterina di appena 50 giorni e Nadia Nencioni, 9 anni. Rimase ucciso anche lo studente palermitano Dario Capolicchio che dormiva con la fidanzata. La ragazza rimase ferita ma si salvò. La madre, Giovanna Maggiani Chelli, scomparsa nel 2019, ha speso la sua vita per la verità sull’eccidio. 

La strage di via dei Georgofili arriva a un anno di distanza dall’estate siciliana degli eccidi siciliani del 1992, Capaci e via D’Amelio. Ma il disegno mafioso e non solo è unico. La Cosa nostra corleonese di Totò Riina, dopo il colpo subito con la conclusione del maxiprocesso, all’inizio del 1992, decide di sbarazzarsi dei vecchi collegamenti politici e di eliminare chi l’aveva ostacolata e minacciava di farlo ancora.

Comincia il 12 marzo 1992 con l’eurodeputato Salvo Lima, uomo di Giulio Andreotti in Sicilia e affonda la candidatura del sette volte presidente del Consiglio alla presidenza della Repubblica. All’indomani della strage di Capaci sarà eletto Oscar Luigi Scalfaro.

La campagna di sangue e tritolo, l’esplosivo che sarà la firma macabra di tutti gli eccidi, consumati e tentati, continua con la strage di Capaci e 58 giorni dopo il 19 luglio del 1992, prossimo 31° anniversario, con l’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta (5 poliziotti, tra cui Emanuela Loi, unica donna delle scorte morta in servizio) in via D’Amelio a Palermo.

Lo Stato reagisce con il 41 bis, il carcere duro per i mafiosi detenuti che vengono trasferiti a Pianosa e all’Asinara. Nel mirino ci sono altri politici, Calogero Mannino (Dc), Claudio Martelli (Psi) e il magistrato Piero Grasso che scampa a un attentato.

Ma sul finire del 1992, Cosa nostra sposta l’attenzione dalla Sicilia al centro nord del Paese. Colpendo il patrimonio storico per dare una prova di forza distruttiva e gettare nel panico istituzioni e popolazione. 

Le prove generali, quasi un avvertimento, il 5 novembre del 1992 quando viene fatto trovare un proiettile di artiglieria al Giardino dei Boboli a Firenze. 

Il 15 gennaio del 1993 viene arrestato Totò Riina ma la strategia continua. La realizzano: Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, oggi tutti in carcere. 

Il primo attentato avviene a Roma, in via Ruggero Fauro ai Parioli, il 14 maggio del 1993: scampano alla morte Maurizio Costanzo e la moglie. Segue, pochi giorni dopo, l’attentato ai Georgofili.

Il 27 luglio 1993 a Milano, un’altra autobomba uccide in via Palestro altre cinque persone. In contemporanea, sempre il 27 a Roma le bombe che non fanno vittime a San Giorgio al Velabro e alla Basilica di San Giovanni.

È in preparazione un ultimo attentato eclatante in via dei Gladiatori a Roma, in occasione di una partita all’Olimpico contro un bus di carabinieri che dovrebbe fare almeno 200 morti. Inizialmente è stato datato a ottobre, poi certamente al 23 gennaio 1994.

Il 26 gennaio del 1994 scende in campo Silvio Berlusconi: con il celebre annuncio tv: “L’Italia è il Paese che amo”

Il 27 gennaio del 1994 a Milano vengono arrestati Giuseppe Graviano e il fratello Filippo. Da quel momento le stragi finiscono. 

Perché?

Questo è il cuore del problema: ci si arrovellò il pm di Firenze Gabriele Chelazzi, che in tempi record tra il 1996 e il 2002 concluse i processi contro i mandanti e esecutori mafiosi e morì, stroncato da un infarto, nel 2003 mentre lavorava alla ricostruzione del contesto politico delle stragi. Un lavoro che è tuttora in corso.

Cosa sappiamo?

Nel 2008 inizia a collaborare ufficialmente con la giustizia Gaspare Spatuzza, luogotenente di Graviano. Riscrive lui la vera storia della strage di via D’Amelio e racconta quel che sa, per avervi partecipato, alla ricostruzione delle stragi al Nord. Chiama in causa tra gli altri Francesco Tagliavia. Nella sentenza di condanna di quest’ultimo, a Firenze, 2016, poi ribadita ulteriormente in Cassazione nel 2017, si fa esplicito riferimento alla trattativa.

Ma cos’è questa trattativa?

È pacifico che i carabinieri del generale Mario Mori trattarono con Vito Ciancimino per far cessare le bombe mafiose. Secondo il generale Mario Mori, processato e assolto, il dialogo con l’ex sindaco di Palermo iniziò tra la strage di Capaci e via D’Amelio e si protrasse fino a quando Ciancimino, nel dicembre del 1992 fu arrestato. Un’iniziativa del tutto normale nell’ambito delle prerogative di chi cerca informazioni nell’interesse dello Stato, hanno sostenuto i carabinieri. 

Per i magistrati di Palermo, fu proprio la trattativa a convincere i boss dell’arrendevolezza dello Stato e della necessità di altri attentati per far cessare il regime di carcere duro per i mafiosi detenuti.

Cosa non sappiamo?

Gli interrogativi sono molti e riguardano sia le stragi sia il contesto. Perché i boss si esposero alle stragi fin dal 1992, sapendo che la reazione dello Stato sarebbe stata dura, quale calcolo li indusse ad accettare il rischio?

I mafiosi avevano avuto rassicurazioni e da chi?

Spatuzza ci dice che Graviano aveva un canale aperto con Silvio Berlusconi, frattanto entrato in politica legato a un investimento del padre sulla nascita di Milano due. Graviano conferma l’investimento attribuendolo al nonno e lancia segnali senza ammettere un contatto diretto con Berlusconi e con Marcello Dell’Utri. Il suo uomo di fiducia, Vincenzo Baiardo che ne ha custodito la latitanza nel 1993 e nel 1994 fino all’arresto parla invece di contatti mediati da lui e poi al conduttore tv Massimo Giletti avrebbe fatto vedere una foto con Berlusconi e Graviano. Ma lui nega l’esistenza della foto.

A che punto sono le indagini?

Chiuse e riaperte più volte ruotano intorno allo stesso punto: la mafia puntò sul cavallo nuovo, forse per i trascorsi legami. Le stragi cessarono per questo. Ma, la procura di Palermo, ritiene che il nuovo corso fu determinato proprio dalle stragi. Le indagini stanno intanto verificando tutti i movimenti dei Graviano negli anni 92-93 durante la stagione delle bombe. Le vacanze in Versilia e in Sardegna e a Omegna, il paese in cui si era trasferito Baiardo, sul lago d’Orta in Piemonte.

Le misteriose presenze raccontate da Spatuzza e venute fuori dalle inchieste, aprono scenari di compartecipazione al disegno stragista da parte di altri apparati. Spatuzza racconta di un uomo estraneo a Cosa nostra visto nel garage dove si preparava l’autobomba per Borsellino. Dalle testimonianze è emersa la presenza di una donna ben vestita sul teatro della bomba di via Palestro. Nessuno ha mai parlato di donne operative in Cosa nostra. Gli investigatori hanno rintracciato una donna che si dice estranea a tutto che ha condiviso con un suo ex compagno una formazione paramilitare che ricorda molto quella della struttura Gladio. 

È doveroso scandagliare in tutte le direzioni, senza riguardi per nessuno. Difficile rintracciare la pistola fumante. Illusorio pensare che Cosa nostra abbia agito su ordine di qualcuno, non è mai accaduto.

Ancora una volta ci viene in soccorso la dottrina di Giovanni Falcone che per i delitti politici di Palermo (Reina, Mattarella, La Torre) parlò di una convergenza di interessi tra mafia e politica. Del resto, senza la politica la mafia sarebbe un’organizzazione criminale e basta. E in molte regioni, anche del Nord, la politica non riesce a liberarsi dell’abbraccio mortale con la mafia.

C’è ancora molto da sapere sulle bombe del 1992-1993. Lo dobbiamo alle vittime e alle generazioni che sono venute dopo. Troppe pagine oscure della nostra storia sono un’ipoteca sul futuro. Ecco perché accanto alle doverose cerimonie è importante non dimenticare che non si tratta solo di celebrare il rito degli anniversari ma di esigere verità su quel che è accaduto. E fin dove è arrivato il livello di compromissione tra mafia e Stato.

Estratto dell'articolo da affaritaliani.it lunedì 2 ottobre 2023.

"Per l’ennesima volta, leggiamo sulla stampa dichiarazioni del signor Salvatore Baiardo che alludono a rapporti di amicizia con la famiglia Berlusconi, nella realtà mai esistiti, e a presunti finanziamenti di origine malavitosa al Gruppo Fininvest, parimenti inesistenti. Non possiamo quindi che ribadire per l’ennesima volta la falsità assoluta delle sue dichiarazioni, acclarata, del resto, da sentenze passate in giudicato ed ulteriori provvedimenti giurisdizionali".

Con queste lapidarie affermazioni l'avvocato Giorgio Perroni, storico legale della famiglia Berlusconi, smentisce categoricamente l'intervista rilasciata da Salvatore Baiardo ad Affaritaliani.it. […] 

(ANSA lunedì 2 ottobre 2023) - "Questa fotografia non esiste. Con Giletti si era parlato se c'erano eventuali foto con i Graviano", "ma i Graviano non hanno mai voluto farsi fotografare". E ancora, "è vero che ho incontrato Paolo Berlusconi", per "un aiuto economico ad aprire una gelateria. C'era un rapporto di amicizia con la famiglia Berlusconi" ma "in quei periodi il Cavaliere era inavvicinabile", "non sono riuscito a parlargli. Non è vero che volevo ricattare i Berlusconi. Paolo si è avvalso della facoltà di non rispondere", ma "se l'avessi minacciato mi avrebbe sicuramente denunciato".

Così Salvatore Baiardo parlando con Affaritaliani.it. "Io ho parlato degli incontri - sottolinea l'ex gelataio di Omegna, amico dei fratelli Graviano - così come ne ha parlato lo stesso Graviano nelle ultime deposizioni nel processo sulla 'ndrangheta stragista. Queste cose sono avvenute a Milano, non sul lago d'Orta come dicono i giornalisti. Ma di cosa parlassero non lo so, io li accompagnavo, poi se Graviano mi diceva che parlavano di certe cose… lo diceva lui".

Secondo l'ex gelataio "nelle tre puntate in cui c'è stato Baiardo, e nelle interviste esterne con il Baiardo il programma 'Non è l'Arena' ha fatto visualizzazioni mai fatte, e uno share della madonna - aggiunge -. Non mi sento responsabile della chiusura di 'Non è l'Arena'. Perché Giletti mi ha voltato le spalle? Perché io non sono più voluto stare al suo gioco. Il motivo per cui ho parlato delle foto non posso dirlo, ma qualcuno capisce sicuramente perché non sono più stato al gioco di Giletti e non sono più andato nella sua trasmissione".

Per Baiardo con la morte di Matteo Messina Denaro "uscirà qualcosa sui misteri che ancora ruotano attorno alle stragi e alla trattativa Stato-mafia. Però usciranno a metà dicembre, quando pubblicherò il mio libro. E' anche agli atti che io abbia conosciuto Messina Denaro. Poi ci sono altre cose che non sono agli atti e che ho messo nel libro". "Io ho solo detto chi vedevo, non vedevo, facevo, non facevo in quegli anni - conclude -. Chi se lo immaginava che raccontare oggi cose accadute nel 1989-1990 potesse suscitare un simile polverone. Non avevo interesse a raccontarlo prima, l'ho fatto quando me l'hanno chiesto, nel 2012-13".

Baiardo: "Giletti mi ha voltato le spalle. La foto con Berlusconi non esiste". L'intervista di Affaritaliani.it all'ex gelataio tuttofare dei boss Graviano, al centro dell'indagine sui presunti mandanti esterni delle stragi del 1993 di Eleonora Perego il 2 Ottobre 2023 su Affaritaliani.it.

Salvatore Baiardo ad Affari: "GIletti mi ha voltato le spalle. La foto di Graviano con Berlusconi? Non esiste"

Ha deciso di rompere il silenzio Salvatore Baiardo, tuttofare dei boss mafiosi Graviano, indagato dalla Direzione distrettuale antimafia di Firenze nell'ambito della nuova inchiesta sui presunti mandanti esterni delle stragi del 1993.

Lo ha fatto dopo la decisione del tribunale del Riesame di Firenze, che ha accolto il ricorso della Procura ritenendo fondate le accuse di calunnia nei confronti del conduttore Massimo Giletti e del sindaco di Cerasa, Giancarlo Ricca, disponendo gli arresti domiciliari. Gli stessi non hanno ritenuto sufficientemente provata l’accusa di favoreggiamento a favore di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Uno dei cuori dell’indagine è sempre la fotografia che ritrarrebbe il boss Graviano con l’ex premier e il generale Francesco Delfino. Immagine che secondo il tribunale “sicuramente è stata fatta vedere” a Giletti, al contrario di quello che Baiardo ha detto ai magistrati, sostenendo che il giornalista si fosse inventato tutto (da qui l’accusa di calunnia). Secondo i giudici proprio quella foto può aver causato la chiusura di “Non è l’Arena”. Ma Salvatore Baiardo, in attesa della decisione della Corte di Cassazione – che si dovrà pronunciare perché la misura diventi esecutiva – ha voluto nuovamente replicare, parlando con Affaritaliani.it.

Ranucci e Travaglio ci provano ancora con i pentiti di mafia. Il sedicente giornalismo antimafia ci mette del suo, mescolando informazioni e suggestioni, inchieste giudiziarie e kermesse da avanspettacolo, tra selfie, pizzini e Tiktok. Felice Manti il 23 Maggio 2023 su Il Giornale.

Se la mafia agisce sostanzialmente indisturbata in questo Paese è perché si passa più tempo a inseguire i fantasmi che a cercare i colpevoli. Il sedicente giornalismo antimafia ci mette del suo, mescolando informazioni e suggestioni, inchieste giudiziarie e kermesse da avanspettacolo, tra selfie, pizzini e Tiktok. Oltraggiando i morti di mafia prima ancora che la verità. Ieri sera Report ha mostrato un’intervista di Paolo Mondani tutt’altro che rubata del 2 marzo scorso a Salvatore Baiardo, manutengolo del boss Giuseppe Graviano e sedicente favoreggiatore della sua latitanza. Tema, la famigerata foto che ritrarrebbe Silvio Berlusconi con una polo scura, lo stesso Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino, scattata nella primavera del 1992 nei pressi del lago d’Orta (prima delle stragi di Falcone e Borsellino) o forse a luglio dopo via d’Amelio, dallo stesso inaffidabile mafioso. È l’ennesima inchiesta sul Cavaliere, aperta dalla Procura di Firenze, che vorrebbe dimostrare il folle teorema sul ruolo di possibile fiancheggiatore di Cosa nostra nella stagione stragista del ’92-’93 tramite una Forza Italia ancora inesistente. Ai pm Baiardo ha detto che sono fesserie, ai giornalisti dice che le foto esistono.

Ma la storia giudiziaria non si fa con i se, né con foto fantasma. E infatti in tribunale questa ipotesi si è disgregata più volte. Ora, che qualcuno insista su questa narrazione ci può stare. Il conduttore di Report Sigfrido Ranucci da sempre mescola teorie un po’ claudicanti a ipotesi televisivamente suggestive. Lo stesso dicasi per il Fatto quotidiano, che ha nel mascariamento di Berlusconi la sua ragione fondante.

Ci sta anche che Baiardo, ansioso di scrivere un libro e di raggranellare due spicci, alzi la posta tra una comparsata tv e un video su Tiktok (sic), a maggior ragione dopo che Massimo Giletti, il primo a cui aveva promesso la foto che il giornalista avrebbe pure visto nel luglio del 2022, a distanza e senza riconoscere né Graviano né Berlusconi, è saltato per aria assieme alla sua trasmissione su La7, chiusa improvvisamente e senza spiegazioni dall’editore Urbano Cairo.

Chi ha visto il servizio intuisce facilmente che Baiardo sa di essere registrato da Report, tanto che si lascia andare a frasi come «E se non va tutto come deve andare, nel libro usciranno le foto». Quale libro? Si sa il titolo, Le verità di Baiardo, manca un editore che potrebbe essere il Fatto, chissà. Secondo la ricostruzione di Giacomo Amadori sulla Verità Baiardo avrebbe mandato a Giletti un selfie con Mondani, con un messaggino tipo «Loro ricominciano ad aprire, vogliono farla con Netflix». In mezzo a questa trattativa commerciale (Baiardo ha già intascato da La7 un bel gruzzoletto, forse un anticipo sulle foto?) ci sono quelle politiche su ergastolo ostativo e i soliti veleni sul Ros dei carabinieri per la cattura di Matteo Messina Denaro. Con il servizio pubblico che si presta a fare da megafono a queste illazioni, alla stregua di Tiktok.

 Estratto dell'articolo di Marco Lillo per il Fatto Quotidiano il 25 giugno 2023.

Sarà un’udienza davvero interessante quella che si svolgerà, purtroppo in camera di consiglio quindi senza il pubblico, davanti al Tribunale del Riesame di Firenze il 14 luglio prossimo.

Il collegio dovrà decidere sull’opposizione alla richiesta di arresto dell’ex favoreggiatore dei boss Graviano Salvatore Baiardo, presentata dai pm di Firenze il 28 aprile e rigettata dal Gip Antonella Zatini il 26 maggio scorso. 

Le carte depositate, circa 1.500 pagine, non riguardano evidentemente solo il destino dell’ex gelataio di Omegna, difeso dall’avvocato Elisa Bergamo e dall’avvocato Carlo Fabbri, ma incidentalmente investono un pezzo della storia d’Italia recente. Le accuse rivolte dai procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli e dal sostituto Lorenzo Gestri a Baiardo sono quelle di favoreggiamento a Berlusconi e Dell’Utri con l’aggravante dell’agevolazione dell’organizzazione mafiosa e di calunnia ai danni di Massimo Giletti.

Baiardo è stato già arrestato nel 1995 e condannato nel 1997 in appello a 2 anni e due mesi per favoreggiamento semplice ai due boss della mafia, Filippo e Giuseppe Graviano, poi condannati definitivamente per le stragi e gli attentati di mafia del 1992 in Sicilia e del 1993 in “Continente”.

La novità è che i pm fiorentini, competenti sulle stragi di Firenze e Milano (10 morti) e sugli attentati di Roma del 1993 e 1994 ora indagano di nuovo Baiardo per favoreggiamento ma non dei boss bensì dei presunti e ipotetici mandanti esterni. La tesi dei pm è che, (dopo le stragi e gli attentati del biennio 1993-1994 per i quali sono stati condannati anche i suddetti boss Graviano e sono stati indagati Dell’Utri e Berlusconi) Baiardo avrebbe aiutato proprio Berlusconi e Dell’Utri a eludere le investigazioni con i suoi comportamenti recenti.

La parte “politicamente” più sensibile’ dell’accusa è la contestazione dell’agevolazione mafiosa ex articolo 416 bis n.1. Baiardo avrebbe favorito gli indagati celebri “con l’aggravante di aver agevolato l’associazione denominata cosa nostra, interessata a non compromettere le figure di Silvio Berlusconi, quale referente istituzionale, e Marcello Dell’Utri, legato all’organizzazione, ed entrambi parti, secondo l’ipotesi d’accusa, dell’accordo stragista, funzionale allo scambio tra il compimento dei delitti citati e interventi sulla legislazione afferente, fra l’altro, al regime detentivo applicato ai detenuti per mafia”. Sono accuse pesantissime tutte da riscontrare che il Gip, nella sua ordinanza di rigetto, non ha recepito.

Non deve stupire che la richiesta di custodia cautelare citi Berlusconi come ipotetico “favoreggiato” da Baiardo perché i pm fiorentini l’hanno presentata a maggio, prima della morte del Cavaliere. Premesso che l’accusa di strage in relazione ai fatti del 1993-94 contro Berlusconi e Dell’Utri è già stata archiviata più volte su richiesta degli stessi pm di Firenze e premesso che il Gip nella sua ordinanza non ritiene provato il favoreggiamento di Baiardo, l’esistenza dei rapporti tra Berlusconi e Dell’Utri con i fratelli Graviano e l’esistenza di una foto ritraente Berlusconi e Giuseppe Graviano, analizziamo le ragioni dei pm fiorentini.

La Procura voleva arrestare Baiardo e dopo il rigetto ha reiterato la richiesta nell’appello presentato al Riesame il 5 giugno scorso perché Baiardo avrebbe fornito indicazioni mendaci e, comunque, reticenti sulle reali ragioni dell'incontro intercorso il 14 febbraio 2011 con Paolo Berlusconi, realmente avvenuto, dopo aver cercato infruttuosamente il contatto con il fratello Silvio, all'epoca Presidente del Consiglio dei Ministri, il 3 febbraio precedente dello stesso anno. Per i pm avrebbe mentito “per non far emergere i rapporti tra costoro e i fratelli Graviano”. Non solo. Baiardo avrebbe negato l’esistenza della fotografia ritraente Berlusconi e Giuseppe Graviano di cui aveva asseverato l’esistenza a Giletti.

Infine avrebbe mentito nelle sue dirette e parlando a un giornalista de Domani (che correttamente riportava le sue dichiarazioni) intossicando l’informazione. Per i pm, Baiardo avrebbe compiuto il reato di favoreggiamento perché avrebbe fatto dichiarazioni mirate a “ricostruire i rapporti esistenti tra i citati Giuseppe e Filippo Graviano e gli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri in modo difforme rispetto a quanto realmente accaduto, dosandole abilmente con narrati veridici”. 

Come è noto Massimo Giletti ha raccontato che Baiardo gli mostrò fugacemente una foto che, a dire del gelataio, ritrarrebbe Berlusconi con Giuseppe Graviano e il generale Francesco Delfino, scattata probabilmente nel 1992 sul lago d’Orta. Anche a Paolo Mondani di Report Baiardo ha accreditato l’esistenza della foto (sarebbero addirittura tre) di Graviano con Berlusconi. Poi però subito dopo su Tik Tok Baiardo ha smentito l’esistenza delle foto dando la colpa ai giornalisti.

Per il Gip Baiardo è in mala fede ma la sua condotta non arriva a configurare la calunnia.

I pm fiorentini non ci stanno e hanno depositato un appello di 50 pagine per contestare il rigetto dell’arresto. Uno dei puntelli alla tesi dei pm Turco, Tescaroli e Gestri risiede proprio nelle dichiarazioni a verbale davanti ai pm stessi di Baiardo sull’incontro con Paolo Berlusconi nella sede de Il Giornale a Milano il 14 febbraio 2011.

(...)

Baiardo raccontò ai pm “Già conoscevo Paolo Berlusconi, lo avevo incontrato all’Hotel Quark di Milano dove avevo accompagnato una o due volte nel corso del 1992 Giuseppe Graviano; compresi dal primo incontro, cui ho assistito, che i due Berlusconi e Giuseppe Graviano, già si conoscevano; Graviano si è presentato con il proprio nome”. 

Tutte affermazioni negate dai diretti interessati e considerate non riscontrate dal Gip.

La caccia ai mandanti esterni per le stragi di mafia. Scomparsa Kata e le priorità della procura di Firenze: indagare il defunto Berlusconi ‘grazie’ al gelataio Baiardo. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 27 Giugno 2023 

La Procura del capoluogo toscano, dopo ben cinque procedimenti chiusi già nella fase delle indagini preliminari, pare sia ad una “svolta” nella ormai pluridecennale caccia ai mandanti esterni per le stragi di mafia del 1993, ad iniziare proprio da quella fiorentina di via dei Georgofili. I procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli, per puntellare il quadro accusatorio che vede indagati Silvio Berlusconi, scomparso l’altra settimana, e Marcello Dell’Utri, hanno tirato fuori dal cilindro Salvatore Baiardo, il folcloristico gelataio di Omegna che in passato era stato condannato per aver favorito la latitanza dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, ex boss del quartiere Brancaccio di Palermo.

Baiardo sembra destinato a prendere il posto di Massimo Ciancimino, il finto pentito le cui dichiarazioni diedero il via al processo Trattativa Stato-mafia, poi conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il gelataio di Omegna, infatti, è quello che mancava nel quanto mai variegato panorama delle piste investigative seguite fino ad oggi, senza grandi risultati, dagli inquirenti fiorentini. Personaggio a dir poco “esuberante” e per i quali i Pm fiorentini avevano chiesto al gip, senza ottenerlo, l’arresto (l’udienza per il ricorso è prevista il prossimo 14 luglio, ndr) aveva fatto la sua comparsa nei mesi scorsi nei programmi di punta del giornalismo d’inchiesta: Report e Non è L’Arena.

Fra le “primizie” per i fedelissimi di Sigfrido Ranucci e Massimo Giletti, vi fu certamene quella di aver detto di aver visto le fotocopie della famosa agenda rossa su cui il magistrato Paolo Borsellino annotava i suoi appunti riservati in mano a diversi boss, da Graviano fino a Matteo Messina Denaro. Attraverso TikTok, il social cinese utilizzato per comunicare ai suoi numerosi follower, Baiardo aveva poi smentito quelle affermazioni dicendo chiaramente di aver voluto prendere in giro i segugi di Report.

Il meglio di sé, però, il gelataio di Omegna lo aveva dato con Giletti, mostrandogli da lontano, e per pochi secondi, una foto dove a suo dire ci sarebbe stati ritratti Silvio Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. I tre sarebbero stati immortalati sulle sponde del lago d’Orta, in Piemonte, prima del 1994, anno in cui Graviano è finito in carcere senza più uscire in quanto al sottoposto al regime del 41 bis con tutti i divieti possibili. Ed è proprio grazie a questa presunta foto, mai trovata con le perquisizioni disposte dalla Procura, che i magistrati fiorentini hanno potuto riaprire per la quinta volta l’inchiesta per dimostrare il contatto fra Graviano, il mafioso stragista, e Berlusconi, il mandante delle stragi. Il tutto sotto la supervisione del generale della Benemerita Delfino.

Dei tre in foto l’unico ancora in vita è Graviano. Berlusconi, prima di morire, ha sempre smentito tramite i suoi legali tale incontro lacustre. Delfino è morto già da diversi anni in una casa di riposo a Santa Marinella, paese sul litorale laziale. Degrado a soldato semplice al termine di procedimento disciplinare a seguito del coinvolgimento nel procedimento per il sequestro dell’imprenditore bresciano Giuseppe Soffiantini, ai suoi funerali non aveva partecipato nessun rappresentante dell’Arma.

Il procedimento sulle stragi del 1993 della Procura di Firenze ha raccolto alcuni dei teoremi della vecchia inchiesta “Sistemi criminali” condotta dagli ex Pm palermitani Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato e archiviata nel 2000. In particolare, torna l’ipotesi di personaggi esterni alla mafia che avrebbero partecipato agli attentati, un “terzo livello” composto da potenti massoni, imprenditori, piduisti, e mafiosi assortiti che avrebbero dato l’avvio alle stragi per destabilizzare la vita democratica nel Paese.

Il teorema della Procura di Firenze stride, però, con le risultanze del processo Trattativa Stato-mafia, ormai conclusosi con sentenza definitiva. Secondo quest’ultimo procedimento, Dell’Utri sarebbe stato colui che ha veicolato la minaccia mafiosa al primo governo Berlusconi. Secondo la tesi dei Pm fiorentini che vogliono arrestare Baiardo per favoreggiamento, invece, l’ex presidente del Consiglio sarebbe arrivato al governo grazie alle stragi e all’appoggio di Cosa nostra. La domanda che bisognerebbe porsi è per quale motivo, allora, era necessario “minacciare” lo Stato se nel contempo venivano poste in essere le stragi.

La ricostruzione fiorentina ha, poi, un “paletto” temporale: durante le stragi del 1992-93, infatti, Berlusconi non aveva ancora fondato Forza Italia ed appoggiava i Pm di Mani pulite. Il sostegno al governo Berlusconi uno è emerso durante il processo Borsellino Ter. Sia Giovanni Brusca che Angelo Siino e Tullio Cannella, hanno parlato di un consistente sostegno di voti fornito da Cosa nostra a Forza Italia in occasione delle elezioni politiche del 1994. Sostegno offerto nella prospettiva di ottenere consistenti modifiche anche legislative nel senso auspicato dall’organizzazione mafiosa (cosa mai realizzata, tra l’altro). Nessuno dei tre mafiosi ha mai fatto comunque riferimento a contatti tra Cosa nostra e Berlusconi già nel 1992, nell’ambito della ricerca di nuovi referenti politici. Il teorema che vede Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi ha tutta l’aria di essere un tarocco. Forse in procura a Firenze anziché di Berlusconi avrebbero fatto meglio ad occuparsi dello sgombero dell’ ex Astor e della piccola Kata… Paolo Pandolfini

Perché Salvatore Baiardo non è stato arrestato: c’è un giudice a Firenze. Respinta la richiesta dei pm fiorentini. Volevano le manette per favoreggiamento nei confronti di Dell’Utri e Berlusconi. La gip avrà sbarrato gli occhi...Tiziana Maiolo su L'Unità il 27 Giugno 2023 

Doveva capitare, prima o poi, che arrivasse un giudice a Firenze a vagliare l’eterna attività di indagine dei “Due Luca”, gli aggiunti Turco e Tescaroli, e le loro fatiche sui “mandanti” delle stragi del 1993, trent’anni fa esatti. Forse, nel chiedere l’arresto del giocoliere un po’ mafioso un po’ contaballe Salvatore Baiardo, i “Due Luca” hanno fatto un passo falso. O forse erano troppo sicuri di sé.

Fatto sta che per la prima volta hanno perso: richiesta respinta. Parevano intoccabili. Quello che invece pare sempre “toccabile” è Silvio Berlusconi, che continua a essere oggetto dell’attenzione di questi magistrati e dei loro portaborse di redazione, pur se formalmente non dovrebbe essere così, da quando se ne è andato. In ogni caso un giudice a Firenze c’è. Si chiama Antonella Zatini, è stata sommersa da mille e cinquecento pagine con cui i “Due Luca” le chiedevano di arrestare Baiardo con due imputazioni. La calunnia nei confronti di Massimo Giletti, il quale aveva messo a verbale di aver visto nelle mani del gelataio la famosa foto in cui aveva riconosciuto un Berlusconi giovane, ma non le altre due persone, che avrebbero dovuto essere il generale Francesco Delfino (un altro che non potrà testimoniare, perché non c’è più) e il boss Giuseppe Graviano.

Poiché Giletti è attendibile, ed è stato anche intercettato mentre parlava della foto con Baiardo, la successiva smentita di questi è una calunnia nei confronti del presentatore. Perché? Perché è come se lo accusasse di aver reso false dichiarazioni al pm, dicono i “Due Luca”. Ma va là, replica la gip. Poi il gelataio avrebbe anche calunniato il “pentito” aureo Gaspare Spatuzza, il più intoccabile di tutti perché ha ristabilito qualche verità sull’omicidio Borsellino, facendo anche scarcerare quindici innocenti per la cui ingiusta detenzione non ha pagato nessuno. Il gelataio ha cercato di screditarlo, dicono i pm. Ma ancora non basta. Il colpo grosso, quello su cui, immaginiamo, la gip e con lei qualunque persona dotata di buon senso abbia sbarrato occhi e orecchi, è l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.

Ebbene si, secondo il ragionamento dei procuratori aggiunti di Firenze (a proposito che cosa aspetta il Csm a nominare un capo dell’ufficio che venga a mettere un po’ di ordine in questo guazzabuglio?) questo gelataio avrebbe messo in piedi tutta questa storia della foto per fare un favore a Berlusconi e Dell’Utri. Ma non basta. Lo avrebbe fatto “con l’aggravante di aver agevolato l’associazione denominata cosa nostra, interessata a non compromettere le figure di Silvio Berlusconi, quale referente istituzionale, e Marcello Dell’Utri, legato all’organizzazione, ed entrambi parti, secondo l’ipotesi d’accusa, dell’accordo stragista, funzionale allo scambio tra il compimento dei delitti citati e interventi sulla legislazione afferente, fra l’altro, al regime detentivo applicato ai detenuti per mafia”.

Non c’è da stupirsi del fatto che una giudice non abbia accolto una simile richiesta. Basterebbe aver letto qualche giornale per sapere che i governi Berlusconi sono stati, anche contro la parte più liberale di Forza Italia, i più repressivi e intransigenti nell’applicazione degli articoli 4-bis e 4-bis dell’ordinamento penitenziario nei confronti di mafiosi e terroristi. In che cosa sarebbe consistito dunque lo scambio mafioso? I due leader di Forza Italia avrebbero chiesto, non si sa perché, ai boss mafiosi di fare per conto loro un po’ di stragi, e in cambio Cosa Nostra che cosa avrebbe ricavato? Niente. Non è un caso se questa ipotesi è stata già archiviata quattro volte.

Per fortuna è arrivata una giudice. Di cui non vogliamo sapere se e a quale corrente della magistratura appartenga. Ci basta che sia una che ragiona e che legge le carte, anche se i pm l’hanno sepolta sotto quindicimila fogli. Per ora ha rigettato l’ipotesi dell’accusa perché non ritiene ci sia nessuna prova di rapporti tra Berlusconi e Graviano e perché nutre “seri dubbi” che la famosa foto esista davvero. Anche per quel che riguarda la calunnia, la gip non pensa sia tale. Insomma Baiardo è solo un piccolo imbroglione.

Per quale motivo dovrebbe dunque mettergli le manette ai polsi? Il non detto è che, dopo un po’ di carcere, un po’ di torchiatura, le risposte possono ammorbidirsi, adeguarsi e voila, magari adattarsi perfettamente all’ipotesi dell’accusa. I “Due Luca” non demordono, hanno fatto ricorso al tribunale del riesame contro la decisione della gip. Ci riaggiorniamo quindi al 14 luglio, giorno dell’udienza in camera di consiglio. Udienza non pubblica, ma tanto si saprà tutto, come sempre.

Tiziana Maiolo 27 Giugno 2023

Giletti, Baiardo e le bombe. Indagine su Non è l’Arena, i Pm interrogano pure Cairo. I magistrati fiorentini gli chiederanno perché ha chiuso in anticipo “Non è l’Arena”. Le tentano tutte per tenere in vita la loro indagine eterna... Tiziana Maiolo su L'Unità il 21 Giugno 2023

Urbano Cairo davanti ai pubblici ministeri di Firenze. A parlare di stragi, come fosse cosa normale, come non fossero passati trent’anni da quelle bombe disseminate tra Milano Firenze e Roma nel 1993, come non si conoscessero già i responsabili, processati e condannati. L’editore di Corriere della sera e La 7 sarà interrogato (o forse lo è già stato, alla chetichella), nella veste di persona informata dei fatti. Formalmente un testimone, senza avvocato quindi.

Nudo e inerme di fronte alla forza dello Stato, rappresentato dai procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco, che gli chiederanno conto di una sua scelta editoriale, cioè di aver anticipato di un mese la sospensione del programma “Non è l’arena”, condotto da Massimo Giletti. Il contratto del presentatore era in scadenza a luglio, inoltre la trasmissione era molto costosa e il bilancio decisamente in perdita. Quindi si è deciso di anticiparne la chiusura e di risparmiare qualche centinaio di migliaia di euro. Questa la spiegazione dell’azienda del 13 aprile scorso, alla vigilia della puntata numero 195. Si chiama libero mercato.

Un concetto forse estraneo a qualche burocrate che ha solo vinto un concorso. Infatti, che cosa potrebbe mai spiegare un imprenditore sulle ragioni di una scelta di tipo economico? Potrebbe solo dire quel che ha già detto a chi glielo ha chiesto: la decisione è stata aziendale, non siamo abituati a ricevere suggerimenti e nessuno ci ha chiesto di “mettere a tacere” Massimo Giletti. Del resto la notizia non avrebbe meritato più di, come si dice in gergo giornalistico, una breve in cronaca, non fosse che esistono due o tre quotidiani italiani che si nutrono di trasmissioni che sembrano tribunali del popolo, e “Non è l’arena” era una di quelle.

Quello che stupisce è il comportamento dei magistrati della Procura di Firenze. Hanno sempre mostrato molta sicurezza sulla propria ipotesi accusatoria nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle bombe. E questo nonostante quattro precedenti inchieste sullo stesso tema fossero state archiviate. Pure, questo fascicolo viene continuamente rinnovato e arricchito, come un elastico che alternativamente si tende e si rilascia ma non trova mai un suo punto di equilibrio. Si ha la sensazione che si sia capovolta la prassi che vede i giornalisti come utilizzatori finali dei verbali secretati delle Procure. Pare oggi che siano i magistrati ad andare a rimorchio delle notizie (o non notizie) di stampa a Tv. Il che fa pensare che, se non ci fossero stati i nutrimenti di qualche quotidiano o di trasmissioni come quella di Giletti o “Report” di Rai 3, il 31 dicembre del 2022, ultima scadenza prevista dell’inchiesta, avremmo assistito alla quinta archiviazione, su richiesta degli stessi pm Tescaroli e Turco.

Ma è comparso il gelataio Salvatore Baiardo e ha messo un po’ di carne al fuoco. Alla maniera sua, ovviamente, un po’ mafioso un po’ giocoliere, carta vince carta perde. Da quando gli ha mostrato, da lontano e in penombra, una foto in cui il conduttore tv ha ritenuto di riconoscere un Silvio Berlusconi più giovane, Massimo Giletti non ha più avuto pace: interrogato tre volte dai pm fiorentini, e due volte spiato e teleripreso mentre si incontrava con Baiardo a Roma per preparare le sue trasmissioni. La foto, qualora esistesse, mostrerebbe il fondatore di Forza Italia, intorno al 1992, con il generale Delfino dei carabinieri e Giuseppe Graviano. Sarebbe una “prova” del rapporto tra Berlusconi e un mafioso condannato per strage.

Un mafioso che oltre a tutto, anche lui con metodi un po’ da piccolo truffatore, continua a rivendicare un presunto credito di famiglia, in quanto il nonno avrebbe finanziato la nascita di Fininvest. Naturalmente non c’ è nessuna prova che possa attestare questa “verità”, e casualmente tutti coloro che potrebbero testimoniarla sono morti. Berlusconi compreso, a questo punto. E il ricatto, cui però l’ex presidente del consiglio si è sempre sottratto mostrando indifferenza, non vale più. Perché dunque avrebbe chiesto a Cairo (questo vorrebbero sentirsi dire i pm) di bloccare la trasmissione?

Intanto gli stessi magistrati hanno fatto perquisire la casa di Baiardo, ovviamente la foto non è saltata fuori, e hanno cercato anche di farlo arrestare. E’ stato così che abbiamo scoperto il fatto che anche a Firenze, non solo a Berlino, esiste un giudice. Il quale non ha accolto la richiesta, forse ritenendola solo un mezzuccio per fare pressione su Baiardo per fargli dire la verità. Ma il gelataio ha già usato altri mezzi di comunicazione, come Tik Tok, per ritrattare tutto. Nel frattempo però si fa avanti anche “Report” del 23 maggio a rivendicare che in un’intervista rilasciata al giornalista Paolo Mondani mesi prima e registrata con telecamera nascosta, Baiardo aveva parlato della foto, anzi aveva rilanciato citandone tre. Che nessuno ha mai visto, ovviamente.

L’indomani sarà ancora Tik Tok a ospitare la smentita indignata del gelataio. Che continua a minacciare, non si sa bene chi, con l’uscita di un libro, di cui per ora non c’è traccia. Quello che continuiamo a domandarci, visto che c’è un giudice a Firenze, è perché non chieda conto a questi pm di questo uso così disinvolto dell’indagine eterna per fatti di trent’anni fa, tra una proroga e l’altra, senza uno straccio di prova, ormai al servizio di qualche trasmissione pruriginosa. Tiziana Maiolo 21 Giugno 2023

Il giocoliere. Giornalisti e pm al guinzaglio di Baiardo: la caccia alle foto di Berlusconi è un gioco delle tre carte. Tiziana Maiolo su L'Unità il 24 Maggio 2023

Placido e beffardo, lui, il gelataio Salvatore Baiardo, se li porta in giro tutti come cagnolini al guinzaglio, pubblici ministeri e giornalisti. Loro, dai pm fiorentini Tescaroli e Turco, i due Luca, oltre alla squadretta dei cronisti del Fatto e di Report, sono alla caccia della (o delle) fotografie che inchioderebbero Silvio Berlusconi seduto al bar con il generale dei carabinieri Francesco Delfino e con un mafioso stragista come Giuseppe Graviano. La (le) cercano e non la (le) trovano. Un po’ come “io cerco la Titina, la cerco e non la trovo”, la canzone resa famosa da Charlie Chaplin che la cantava in Tempi moderni, ma soprattutto nella sua versione grammelot senza costrutto e con il guazzabuglio delle lingue mescolate. Ecco, questa ricerca della foto che non c’è è un po’ il simbolo di questa inchiesta della Dda fiorentina sui “mandanti” delle bombe del 1993. Quelle che nelle intenzioni, nonostante l’impiego di quantitativi enormi di esplosivo, avrebbero dovuto essere più “simboli” che stragi. Lo dice senza mezzi termini anche la sentenza d’appello del processo “Trattativa Stato-mafia”, che quei dieci morti a Firenze e Milano non erano stati programmati. Il che naturalmente nulla toglie alla gravità di quegli attacchi dal forte sapore terroristico.

Il procuratore aggiunto Luca Tescaroli, che coordina la Dda di Firenze dopo aver maturato la propria esperienza di magistrato “antimafia” in Sicilia, in un’intervista al quotidiano Nazione-Carlino-Giorno, parla della ricerca dei “mandanti” di quelle stragi in questi termini: “Se dovessimo usare una metafora potremmo dire che il bicchiere è quasi pieno ma non ancora completamente”. Incoraggiante. Se non fosse per almeno due buoni motivi, che ci permettiamo di ricordare all’illustre magistrato. Il primo: la procura di Firenze sta indagando su due persone, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, le cui posizioni sono state archiviate, per gli stessi fatti, già tre volte in quegli stessi uffici siciliani che il dotto Tescaroli ben conosce. Secondo: questa ultima inchiesta avrebbe dovuto essere chiusa entro il 31 dicembre 2022. L’ha riaperta il gelataio Baiardo. Ci dica lei, dottor Tescaroli, se le pare una cosa seria.

I giornalisti con il bollino blu dell’antimafia, come Marco Lillo del Fatto, lo definiscono un giocatore di poker. A noi Salvatore Baiardo ricorda di più uno di quelli del “carta vince, carta perde”, quelli che stanno su uno sgabellino sul marciapiedi e ti danno prima l’illusione lasciandoti vincere, e poi sferrano la mazzata e ti tolgono anche la casa e la fidanzata. Se a questo profilo aggiungi anche quel pizzico di mafiosità che deriva da una condanna per aver aiutato programmatori di stragi ed esecutori di omicidi di Cosa Nostra, ecco la foto, quella esistente e vera, di Salvatore Baiardo.

Fa il giocoliere, e l’abbiamo visto l’ultima volta lunedì sera a Report, dopo averlo già conosciuto al fianco di un affaticato Giletti, che però non si fidava del tutto, non avendo forse il cinismo degli uomini di Ranucci. Il gioco delle tre carte del gelataio consiste in questo: una versione per i giornalisti, una per i magistrati e l’altra per Tik Tok. Con la carotina per tutti del suo libro, che Il Fatto prevede in uscita il 20 giugno con la casa editrice Frascati e Serradifalco. Lì ci saranno le foto di Berlusconi con Graviano? Certo, basta cercarle. E trovarle, così come non fu trovato il mitico documento che avrebbe attestato il finanziamento da parte del nonno dei fratelli Graviano alle prime iniziative imprenditoriali del leader di Forza Italia.

A Massimo Giletti, Baiardo aveva parlato di una sola foto, anzi gliela aveva addirittura mostrata, però al buio e da lontano. Il conduttore di “Non è l’arena” ha riconosciuto con certezza un più giovane Berlusconi, e forse il generale Delfino, personaggio molto conosciuto degli anni novanta e che ora non c’è più e non potrà dare alcuna testimonianza su quello scatto, forse di polaroid e in bianconero. Solo Baiardo, o qualche boss di Cosa Nostra potrebbe dire con certezza (se la foto esistesse), se il terzo uomo, poco più di un ragazzino al tempo, fosse Giuseppe Graviano. In ogni caso, davanti ai magistrati Baiardo ha negato tutto e ancor di più ha irriso i giornalisti creduloni su Tik Tok. Poi Giletti è uscito di scena con la chiusura improvvisa del programma e il pallino passa a Paolo Mondani di Report, vecchia conoscenza del gelataio, che lo interroga davanti a un cornetto in pasticceria e con telecamera nascosta. Macché nascosta, sfotte il giocoliere: l’ho preso in giro perché ho capito subito che mi stava video-registrando. E parla delle tre foto. I magistrati acquisiscono, in accordo con il cronista.

Ma c’è uno scivolone politico, in cui incorrono tutti e tre i soggetti, magistrati, giornalisti e gelataio giocoliere. Le foto sarebbero del 1992, e secondo Baiardo gli incontri con il boss di Cosa Nostra sarebbero finalizzati alla nascita di Forza Italia e la presa del potere da parte di Berlusconi a suon di bombe e stragi. 1992? Forza Italia? Nella prima repubblica e con i governi Andreotti e Amato? Signor Baiardo, aggiusti un po’ le date, mentre porta a passeggio con il guinzaglio pubblici ministeri e giornalisti. Tiziana Maiolo

Da Gelli a Meloni, tutto si tiene. “Report” è meglio di Netflix. SALVATORE MERLO su Il Foglio il 24 maggio 2023.

E’ la trasmissione d’intrattenimento migliore della televisione italiana. Anzi mondiale. Lunedì sera in poco più di un’ora è andato in onda il romanzo delle stragi mafiose. Altro che Sorrentino

Da Licio Gelli a Giorgia Meloni, il romanzo delle stragi. Gli inglesi hanno avuto Ian Fleming e James Bond, John le Carré e Graham Greene, noi abbiamo “Report” e Sigfrido Ranucci su Rai 3, la fantastica macchina visiva, la fiabesca, inesauribile dispensatrice di immagini e parole: che la nuova Rai non ce li tocchi. Guai a lei. E lo diciamo seriamente. “Report” non si tocca!  Lunedì sera per oltre un ora, davanti al teleschermo, sul divano, anziché guardare “The diplomat” su Netflix, siamo rimasti incantati davanti a un’opera che dovrebbe essere recensita da Mariarosa Mancuso o Paolo Mereghetti: collusioni tra mafia, politica, carabinieri, terrorismo, massoneria, servizi segreti italiani e americani fluttuavano come gas (o palline da ping pong) sulle pareti, le poltroncine, il tappeto e il tavolino da caffè del  soggiorno di casa.

Estratto dell’articolo di Luca Serranò per “la Repubblica” il 24 maggio 2023.

Torna a parlare Salvatore Baiardo, il fiancheggiatore del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano che più volte nell’ultimo anno è stato sentito dai pm fiorentini che indagano sui mandanti occulti delle stragi del ‘93. Raggiunto da Report , Baiardo ha risposto alle domande sulla foto dei misteri, lo scatto — di cui aveva parlato anche con Massimo Giletti, come confermato da alcune conversazioni intercettate, salvo poi smentire la circostanza ai magistrati — che ritrarrebbe insieme Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino.  […]

Le immagini sarebbero tre, tutte scattate nella primavera del 1992 in un bar sul lago d’Orta […] di quello scatto sarebbe a conoscenza anche Paolo Berlusconi. Le parole registrate da Report con una telecamera nascosta sono finite subito sul tavolo dei magistrati fiorentini, perché incrociano le dichiarazioni intercettate dagli investigatori e la testimonianza di Giletti, al quale l’editore diLa7 , Urbano Cairo, ha chiuso (i motivi non sono mai stati chiariti) la trasmissione televisiva mentre aveva in scaletta la preparazione di servizi giornalistici proprio su questi fatti.

Lo scorso luglio Giletti aveva intervistato per la prima volta Baiardo per una puntata speciale sulla mafia della sua trasmissione Non è l’Arena su La7 ,dopo averlo visto parlare a Reportai microfoni di Paolo Mondani. In quell’occasione, per accreditare la propria attendibilità con Giletti, il fiancheggiatore dei Graviano aveva mostrato un’immagine con tre persone. «Me l’ha fatta vedere, senza consegnarmela, tenendola lontana da me — la testimonianza del giornalista — eravamo in un bar a Castano, vicino a Milano.

Mi è parsa una foto del tipo di quelle da macchinetta usa e getta, ho visto tre persone sedute a un tavolino. Berlusconi l’ho riconosciuto, era giovane, credo fosse una foto degli anni ‘90, sono certo fosse lui anche perché in quel periodo lo seguivo giornalisticamente». Ai magistrati Luca Tescaroli e Luca Turco, Giletti ha spiegato perché Baiardo gli ha mostrato il documento: «Perché ho sempre messo in dubbio le sue dichiarazioni». Il giornalista ha aggiunto anche altri dettagli delle confidenze raccolte dal fiancheggiatore dei Graviano, come le telefonate che lo stesso avrebbe ricevuto sul suo telefono — ma destinate al boss — da Marcello Dell’Utri. Lo stesso Dell’Utri che, intercettato, si lamentava delle trasmissioni televisive che Giletti aveva messo in onda sulla mafia.

Salvatore Baiardo, Report e le tre foto di Berlusconi con Giuseppe Graviano: «Le ho fatte io». Alessandro D’Amato su Open.online il 24 maggio 2023. 

Le immagini del caso Giletti-Non è l’Arena e le profezie dell’uomo condannato per aver favorito la latitanza dei boss di Brancaccio

Le foto che ritraggono Silvio Berlusconi insieme a Giuseppe Graviano e al generale dei carabinieri Francesco Delfino sono tre. Li mostrano seduti a un bar sul lago d’Orta. La data è il 1992. E a scattare le tre Polaroid sarebbe stato proprio Salvatore Baiardo. Che oggi nega l’esistenza degli scatti. Ma che ha detto invece di averle riprese in una registrazione (a sua insaputa) in cui parla con Paolo Mondani di Report. Si tratta delle immagini che Baiardo ha mostrato a Massimo Giletti secondo la testimonianza del conduttore a Firenze, dove si indaga sulle stragi del 1993. E che il gelataio condannato per aver aiutato la latitanza di Madre Natura ha minacciato di voler pubblicare in un libro. Ovvero nell’autobiografia che sta preparando. E che si intitolerà “Le verità di Baiardo“. 

Non è l’Arena, gli scatti e i ricatti

Nel verbale il conduttore di Non è l’Arena ha detto ai pm che indagano a Firenze che lo scatto fu “rubato”, cioè fatto di nascosto. Mentre l’ex favoreggiatore dei fratelli Graviano ha subito una perquisizione a marzo. Senza alcun esito. Luca Tescaroli e Luca Turco indagano sulle stragi di Firenze, Milano e Roma. Che si verificarono dopo l’arresto di Totò Riina. E che vedono protagonista tra gli ideatori Matteo Messina Denaro. Mentre viene ripreso a sua insaputa dalle telecamere di Report Baiardo racconta alcuni dettagli sulle fotografie. Le avrebbe scattate lui personalmente. Risalgono a dopo la morte di Paolo Borsellino. E sono collegate alla discesa in campo del Cavaliere: «Nel ’92 era in ballo la nascita di Forza Italia». Berlusconi avrebbe saputo di queste foto perché Baiardo le mostrò al fratello Paolo durante l’incontro tra i due nella sede de Il Giornale.

Cosa succede a marzo?

La Verità oggi racconta che il 2 marzo scorso Baiardo ha mandato a Giletti lo scatto che lo ritrae insieme a Mondani di Report. Gli dice anche che “loro” (cioè la trasmissione) «ricominciano ad aprile, vogliono farla con Netflix». Fa capire al conduttore che lui e Mondani hanno parlato delle foto. E gli dice che a Report sapevano già tutto, sospettando che sia stato lui a parlargliene. Giletti nega. Baiardo dice di aver fatto finta di cadere dalle nuvole. Poi tira fuori un’altra “profezia” delle sue. Dice che dopo il giorno 8 marzo «ne usciranno delle belle». Quello è il giorno in cui la Cassazione deve decidere sulla riforma dell’ergastolo ostativo del governo Meloni. Il 27 marzo la procura di Firenze perquisisce Baiardo. Ma le foto non si trovano. Baiardo intanto smentisce Giletti su Tiktok riguardo la foto.

Le profezie e le istantanee

Baiardo è l’uomo della “profezia” su Matteo Messina Denaro. In un’intervista a Non è l’Arena si era detto convinto che il superlatitante si sarebbe fatto catturare attraverso un accordo. Nei tempi però Baiardo ha parlato un po’ di tutto. Ha profetizzato che Giletti non sarebbe tornato in Rai, ma gli ha consigliato di aprirsi un canale YouTube. Ha provato a rimediare pubblicità per la trasmissione in crisi per l’Auditel. Avrebbe anche detto: «La foto non posso consegnarla se prima non ne parlo con Graviano». Il 26 aprile scorso Mondani è stato ascoltato dalla procura di Firenze. Che ha acquisito anche le immagini dei suoi dialoghi con Baiardo. A parlarne oggi è anche il Fatto Quotidiano.

La versione di Giuseppe Graviano

Giuseppe Graviano ha dato la sua versione dei fatti riguardo gli incontri con Berlusconi. In un memoriale consegnato tre anni fa ai giudici durante il processo ‘Ndrangheta Stragista ha detto che «la morte di mio padre, i rapporti di Totuccio Contorno con la procura di Palermo, quelli del gruppo di Bontate con Berlusconi, gli investimenti finanziari di alcuni imprenditori di Palermo a Milano, la strage di via d’Amelio» fanno parte di una vicenda collegata. Madre Natura ha sostenuto che dell’omicidio del padre, imprenditore «e incensurato» Michele Graviano, per il quale si è accusato Tanino Grado, sarebbe invece anche responsabile il pentito Totuccio Contorno. Graviano ha accusato anche «il pool della procura di Palermo, composto da Falcone, Chinnici e altri» di aver consentito a Contorno di commettere «una serie sconfinata di omicidi» che non avrebbe mai confessato.

Gli investimenti dei palermitani a Milano

Poi c’è il racconto dei 20 miliardi dei palermitani a Milano. Tra 1970 e 1972 suo nonno materno Filippo Quartararo ha deciso di farsi capofila di un gruppo di investitori del palermitano che piazzarono la cifra che equivale a 173 milioni di euro di oggi. Nell’occasione Michele Graviano ha detto al padre di sua moglie che non gli interessa partecipare alla “cordata” perché preferisce gestirsi gli interessi da sé. E gli ha intimato anche di non infilare i suoi figli (sono quattro: oltre a Filippo e Giuseppe ci sono il maggiore Benedetto e la più piccola Nunzia) in questa storia. Quando è morto il padre, sostiene Giuseppe, il nonno gli ha fatto presente che ci sono gli interessi milanesi da curare. Di questi, sempre secondo Graviano, si è occupato finora soltanto suo cugino Salvo Graviano.

La scrittura privata

Sempre secondo Graviano questi 20 miliardi sono garantiti da una scrittura privata tra Berlusconi e gli investitori palermitani. «E questo momento corrisponde, a mio avviso e a mente lucida, con l’ultimo incontro che ho avuto con Berlusconi a Milano. In quell’incontro si parlò di mettere nero su bianco quello che era stato pattuito con mio nonno Quartararo e gli altri investitori palermitani», sostiene Graviano. Il quale aggiunge che i palermitani da Berlusconi «volevano ottenere i propri utili e formalizzare l’accordo davanti a un notaio». Era stato fissato anche un appuntamento in uno studio per firmarlo nel febbraio del 1993. Poco prima Graviano viene arrestato.

Leggi anche:

Report, la minaccia di Salvatore Baiardo a Berlusconi: «Questo governo cade». Alessandro D’Amato su Open.online il 23 maggio 2023.

L’uomo della “profezia” dice di essere pronto a pubblicare le istantanee: «se non succede quello che (deve) succede(re), questo governo cade». Ma… 

«Se non succede quello che succede questo governo cade». È un Salvatore Baiardo in vena di mandare segnali quello che parla della foto di Silvio Berlusconi con Giuseppe Graviano mentre non sa di essere registrato da Paolo Mondani di Report. Le immagini che avrebbe scattato proprio lui ai due e al generale Francesco Delfino sul lago d’Orta a Omegna. E che avrebbe già mostrato in occasione dell’incontro con Paolo Berlusconi nella sede del Giornale a Milano. Secondo quanto ha raccontato lui stesso – per poi smentirlo – le istantanee con una Polaroid è pronto a pubblicarle in un libro di prossima uscita. Più precisamente: «Se non va tutto come deve andare nel libro usciranno le foto». E quindi «se non succede quello che (deve) succede(re), questo governo cade».

L’indagine

Il Fatto Quotidiano fa sapere oggi che la procura di Firenze ha acquisito nei giorni scorsi le registrazioni dei colloqui di Mondani con Baiardo. I Pm Luca Tescaroli e Luca Turco indagano insieme al sostituto Lorenzo Gestri su Berlusconi e su Marcello Dell’Utri. I pubblici ministeri hanno chiesto alla trasmissione Rai di «volere consegnare le registrazioni oggetto delle interlocuzioni intercorse il 4 ottobre, 2 marzo 2021 o in altre date tra Salvatore Baiardo e il giornalista Paolo Mondani, oggetto della deposizione di quest’ultimo il 26 aprile 2023 ove è stato fatto riferimento alla fotografia ritraente Silvio Berlusconi, Francesco Delfino, Giuseppe Graviano. I pm quindi hanno creduto al conduttore di Non è l’Arena Massimo Giletti. Il quale ha detto che Baiardo gli ha mostrato la foto e che lui nell’occasione ha riconosciuto Berlusconi.

La versione di Baiardo

Secondo Baiardo quindi esistono più foto che ritraggono Berlusconi, Graviano e Delfino. Le foto sono testimonianza di quel rapporto tra Berlusconi e Graviano che “Madre Natura” ha spiegato in un memoriale (sempre che dica il vero). Nel quale sostiene che un numero non imprecisato di imprenditori palermitani tra cui il nonno materno hanno investito nelle aziende immobiliari di Berlusconi negli Anni Settanta una cifra vicina ai 20 miliardi di lire. Graviano dice che gli investimenti erano garantiti da una “scrittura privata” conservata da suo cugino, nel frattempo deceduto. E aggiunge che avrebbe dovuto recarsi a un appuntamento con un notaio a Milano a febbraio per ratificare l’accordo e per decidere sulla restituzione del prestito. Ma pochi giorni prima è stato arrestato.

La smentita

Nel video di Report quando Mondani gli chiede della reazione di Paolo Berlusconi alla vista delle foto Baiardo fa un gesto con le mani che significa “paura”. Intanto ieri Baiardo su TikTok dopo aver letto le anticipazioni di Report ha smentito tutto. Sostenendo di aver detto “fandonie” contro il povero Berlusconi. E che si augura una denuncia per diffamazione nei confronti della trasmissione. Intanto il 20 giugno uscirà il suo libro per la casa editrice Frascati e Serrafalco. Ma cosa vuole di preciso Baiardo da Berlusconi? Tanto da minacciare la caduta di un governo? Posto che pare ovvio che secondo l’ex gelataio di Omegna che si offende se viene definito “pentito” intenda dire che i danni politici nei confronti di Berlusconi potrebbero mettere in difficoltà il governo, il problema rimane sempre l’ergastolo ostativo.

Quale governo?

Il governo Meloni ha infatti confermato l’ergastolo ostativo in uno dei primi provvedimenti licenziati. Né c’era possibilità che facesse qualcosa di diverso, vista la sensibilità dell’opinione pubblica su questi temi. Ma se la registrazione risale a prima delle elezioni del 25 settembre (la data non è specificata) allora la minaccia è nei confronti di Draghi. Di certo la situazione sembra simile a quella del 1992. Quando i mafiosi volevano ottenere la cancellazione del 41 bis. E non hanno ottenuto nulla.

La pupiata. Report Rai PUNTATA DEL 22/05/2023 di Paolo Mondani

Collaborazione di Marco Bova e Roberto Persia

Siamo alla ricerca della verità sui fatti di mafia e sulle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese.
Sono passati oltre trent’anni e ancora siamo alla ricerca della verità sui fatti di mafia e sulle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese. Racconteremo i particolari fino a oggi rimasti segreti delle fasi propedeutiche che hanno portato all'arresto di Matteo Messina Denaro, e quelli che riguardano la sua latitanza. Trent’anni sono passati dalla strage di Firenze in via dei Georgofili. La mafia in quegli anni metteva bombe qua e là per il Paese, ma secondo una nota del Sisde non era sola nella pianificazione della strategia stragista. Grazie al recentissimo lavoro della Commissione parlamentare antimafia aggiungiamo pezzi di verità sui mandanti e sugli esecutori.

LA PUPIATA. Paolo Mondani Collaborazione di Marco Bova, Roberto Persia Filmaker: Dario D'India, Cristiano Forti, Alessandro Spinnato Montaggio: Elisa Carlotta Salvati, Giorgio Vallati

VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Ragazze buongiorno. Sono in autostrada. Niente di nuovo. Io in genere sfuggo dal farmi conoscere, anche da mia mamma, e quando le persone mi studiano minchia mi infastidisco come una belva.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La cattura di Matteo Messina Denaro è diventata una soap opera. Pettegolezzi spacciati come segreti, le sue cartelle cliniche, i suoi selfie, le sue chat, i suoi amori veri o presunti, le amanti gelose che si mortificano e lo esaltano, il suo omertoso paese a fare da scenario, come se avesse gestito affari per cinque miliardi di euro tutti da Campobello di Mazara.

VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Non ho vissuto nel salottino seduto con le ciabatte. Io sono stato un tipo che il mondo lo ha calpestato. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Come se bastassero il medico Tumbarello, l'alter ego Bonafede e l'autista Luppino, a raccontare i suoi fiancheggiatori. Mancano pezzi decisivi della dinamica dell’arresto. E soprattutto continuiamo a non sapere nulla delle protezioni di cui ha goduto per trent'anni. È un vero boss questo Messina Denaro o solo un simbolo utile a dichiarare la mafia sconfitta?

VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Lo sai questo fatto di scrivere un libro me lo hanno detto tante volte. È che veramente tutta la vita è un’avventura. Se ti raccontassi cose…veramente cose assurde.

ANTONINO DI MATTEO – MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Io ritengo che nessun mafioso per quanto potente può restare latitante per 30 anni senza poter godere di protezione, ovviamente, anche molto alte. Ed è cresciuto in quella provincia di Trapani, che da sempre più delle altre provincie siciliane è stato il crocevia degli intrecci tra Cosa Nostra, la massoneria e ambienti particolari e deviati dei servizi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quella di Trapani non è una provincia qualsiasi. Già nel 1986, nel centro storico, all'interno di un circolo culturale, Scontrino, la polizia scopre sei logge massoniche, tra le quali Iside uno e Iside due, quelle che presumibilmente sono state inaugurate dal Gran maestro della loggia P2 Licio Gelli, ecco dentro quelle liste ci sono i nomi di politici e imprenditori, uomini delle forze dell'ordine e prefetti. Tutti dialogavano con i grembiulini mafiosi. E poi, nel 1987 viene scoperta la base Scorpione, quella riferibile a Gladio, a due passi da San Vito Lo Capo. Insomma, Trapani è la seconda provincia d'Italia per numero di logge massoniche. Nel 2016 il magistrato Marcello Viola, che oggi è capo della Procura di Milano, ha depositato una lista di 460 massoni che erano suddivisi in 19 logge, sei solo a Castelvetrano. Una lista che è stata anche ampliata dalla commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che, con l'aiuto di alcuni grandi maestri dell'obbedienza, ha poi potuto sottolineare il proliferare di massoni nella provincia, nella città di Matteo Messina Denaro, Castelvetrano. E infine, dopo l'arresto di Matteo Messina Denaro 16 gennaio scorso, emerge che uno dei più grandi fiancheggiatori del super latitante era il medico Alfonso Tumbarello, i cui contatti con Matteo Messina Denaro erano noti ai servizi segreti italiani già negli anni 2000. E si scoprirà solo però dopo l'arresto che il medico era iscritto alla loggia massonica Valle di Cusa di Campobello di Mazara, affiliata al Grande Oriente d'Italia. Ora il magistrato Maria Teresa Principato, che per anni ha dato la caccia a Matteo Messina Denaro, nel corso di un interrogatorio a Giuseppe Tuzzolino, architetto, scopre che Matteo Messina Denaro aveva messo in piedi una loggia massonica tutta sua, La Sicilia. E la rete della massoneria è stata fondamentale nella copertura della sua latitanza. Il nostro Paolo Mondani, con la collaborazione di Roberto Persia

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2017, l’architetto Giuseppe Tuzzolino, dopo anni di collaborazione con la giustizia, viene arrestato e condannato per calunnia. Aveva raccontato la balla di un pericolo imminente corso dai due magistrati che lo interrogavano. Ma alcune sue rivelazioni erano state riscontrate. Tuzzolino aveva dichiarato di essere iscritto a una loggia massonica coperta di Castelvetrano, denominata La Sicilia, in cui sedeva Matteo Messina Denaro e l'esponente di Forza Italia trapanese ed ex senatore Antonio D'Alì, la cui famiglia dava lavoro al padre di Matteo, don Ciccio Messina Denaro. D'Alì, già sottosegretario agli Interni del secondo governo Berlusconi ha sempre smentito l'appartenenza alla loggia. Oggi è in carcere, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. PAOLO MONDANI Il senatore D’Alì era dentro la loggia?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA D’Alì era al di sopra di ogni tipo di riunione. Quindi tutto quello che avveniva forse in loggia era perché D’Alì lo aveva in parte deciso o chi per lui.

PAOLO MONDANI Una sorta di Gran Maestro emerito.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Una sorta di Gran M…, bravissimo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Tuzzolino a verbale aveva fatto i nomi degli aderenti alla loggia La Sicilia, peccato che le indagini su questi iscritti eccellenti si siano inspiegabilmente fermate.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA In quegli anni il puparo della massoneria era Gasperino Valenti, quindi era lui che gestiva i due mondi massonici del Grande Oriente d’Italia e della Gran Loggia Regolare d’Italia. Mi propone di far parte di questa super loggia, La Sicilia, una loggia itinerante, quindi senza un tempio fisso e senza delle riunioni specifiche predefinite. Quindi avvenivano comunicazioni una sera prima e il pomeriggio ti dicevano, tu ti recavi a Castelvetrano, e il pomeriggio ti dicevano: stasera ci vediamo là. Poi magari poteva pure cambiare il luogo. Questa segretezza di questa super loggia era dovuta al fatto che vi appartenevano personaggi politici di un certo spessore come onorevoli e vi appartenevano imprenditori, quindi che non volevano figurare.

PAOLO MONDANI Tutti della zona del trapanese?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Tutti gli imprenditori erano assolutamente e solo della zona della provincia di Trapani.

PAOLO MONDANI Lei però raccontò agli inquirenti che questa loggia in qualche modo tutelava la latitanza di Matteo Messina Denaro.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Le posso dire che conosco in loggia un personaggio, di cui tutti avevano una reverenza straordinaria oserei dire, davvero straordinaria. Lui era accompagnato da una donna, quindi brasiliana di origine molto bella, e lui si chiamava per quel periodo Nicolò Polizzi. Si diceva che fosse un imprenditore di origine Castelvetrano, che però operava nel settore mobilificio in Brasile, una città vicino San Paolo. La reverenza era davvero assoluta. Camminava con due macchine, quindi camminava con un’autista e soprattutto veniva in orari specifici, dalle 23 in poi.

PAOLO MONDANI E questo Nicolò Polizzi che ruolo aveva?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Solo dopo la terza volta che lo vidi. Ci incontrammo comunque in una riunione conviviale a Maastricht, in una riunione massonica del tutto internazionale e lì venne anche Nicolò con la sua compagna. Fu in quella specifica occasione che io capii che lui era quell’uomo. Era Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI E lei oggi che ha visto la faccia del vero Matteo Messina Denaro può dire che era lui?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Era lui.

PAOLO MONDANI Nicolò Polizzi?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si era lui Nicolò Polizzi.

PAOLO MONDANI Ricorda qualche cosa? Un suo discorso? Due parole che lui ha scambiato con lei o con altri?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si, mi disse che io ero una brava persona quindi gli piacqui. Poi mi disse, gli parlai io di un progetto che avevo da svolgere a New York e lui mi raccomandò, mi diede dei contatti su New York e da lì partì la mia esperienza americana. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2016 il collaboratore di giustizia Marcello Fondacaro, colletto bianco della 'Ndrangheta che frequentava la mafia di Castelvetrano, conferma l'esistenza della loggia La Sicilia.

PAOLO MONDANI E Fondacaro dirà addirittura ai magistrati calabresi che la loggia La Sicilia era una loggia di diretta derivazione della P2.

PIERA AMENDOLA - ARCHIVISTA COMMISSIONE PARLAMENTARE SULLA P2 1981-1988 Fondacaro sostiene che Matteo Messina Denaro apparteneva a questa loggia. Quando dice che questa loggia è di derivazione, deriva dalla P2, ecco questa cosa non mi stupisce. Perché anche Bontate, che era massone e che era Maestro Venerabile di una loggia massonica, che si chiamava la loggia dei Trecento era entrato in rapporti molto stretti con Licio Gelli.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stefano Bontate è stato il capo dei capi di Cosa Nostra ucciso dagli emergenti corleonesi di Totò Riina nel 1981. La sua Loggia dei Trecento era conosciuta anche come Loggia Sicilia-Normanna, e forse stiamo parlando della stessa loggia di Matteo Messina Denaro. Pentiti autorevoli come Gioacchino Pennino e Angelo Siino hanno dettagliato con estrema precisione i viaggi di Gelli in Sicilia.

PIERA AMENDOLA - ARCHIVISTA COMMISSIONE PARLAMENTARE SULLA P2 1981-1988 Gelli andava lì per incontrare Bontate perché la loggia di Bontate era collegata alla P2, era considerata una appendice della P2 in Sicilia. Allora se tanti anni dopo viene fuori che anche quella di Matteo Messina Denaro era collegata alla P2 vuol dire che il discorso è andato avanti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Matteo Messina Denaro è coperto da una rete massonica. L'aveva detto Maria Teresa Principato, il magistrato che ha dato a lungo la caccia al super latitante. Ma nessuno le aveva creduto. Ora che il territorio di Trapani, dove la mafia regna dal 1800, fosse un territorio coperto da un'amalgama di poteri difficilmente penetrabile, l'aveva già detto nel 1838 il prefetto Olloa al procuratore del re. E tra questi poteri c'è sicuramente la massoneria. Il collaboratore, Fondacaro, nel processo del novembre 2022, ha ricostruito davanti al magistrato Giuseppe Lombardo a Reggio Calabria la penetrazione della 'ndrangheta all'interno della P2, ha ricostruito la rete massonica e ha detto anche di essere entrato in contatto con la Loggia della Sicilia, cioè la loggia voluta da Matteo Messina Denaro, alla quale si erano iscritti per volere proprio del boss solo uomini fidati, per lo più professionisti, ingegneri, avvocati, architetti, imprenditori e anche qualche giornalista e anche qualche politico. Una loggia itinerante nella quale Matteo Messina Denaro si muoveva a suo agio nei panni di un imprenditore, Nicolò Polizzi, e dispensava consigli e anche contatti per chi voleva investire all'estero. Ecco, insomma, poi, secondo Tuzzolino, l'architetto interrogato dalla Principato, a questa loggia faceva anche parte il senatore, l'ex senatore D'Alì, l'ex sottosegretario al ministero dell'Interno del governo Berlusconi 2001-2006. Lui ha sempre smentito l'appartenenza alla Loggia. Ora a vigilare sui terreni di famiglia c'era Messina Denaro, padre, Ciccio, e figlio e la famiglia D'Alì era anche proprietaria della Banca Sicula. Lo zio era proprio il presidente e il nome era nelle liste della loggia P2 di Licio Gelli. Ora l'ex sottosegretario è stato condannato definitivamente ed arrestato a dicembre scorso. Pochi giorni dopo qualcuno ha notato la coincidenza, è stato arrestato Matteo Messina Denaro e a proposito dell'arresto, questa sera siamo in grado di rivelarvi alcuni dei particolari rimasti fino a oggi segreti.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Benito Morsicato, soldato di Cosa Nostra di ultima generazione di base a Bagheria si pente nel 2014 e le sue dichiarazioni portano in carcere i parenti di Messina Denaro e vari altri affiliati. Ma lascia il programma di protezione nel 2020 protestando per il trattamento subìto.

PAOLO MONDANI Lei quanti appartenenti alla famiglia di Matteo Messina Denaro ha conosciuto?

BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Il nipote del cuore di Matteo Messina Denaro, che è Luca Bellomo, e poi c’è anche un altro nipote sempre del cuore, si chiama Francesco Guttadauro.

PAOLO MONDANI Con questi Messina Denaro ci era diventato amico?

BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Con i nipoti si, lavoravamo assieme nell’ambito delle rapine.

PAOLO MONDANI Ha mai sentito dire da altri appartenenti a Cosa Nostra perché Matteo Messina Denaro non viene catturato?

BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Certo che se ne parla. Anche io con altri soldati, ne parlavo anche io con l’ex, con il collaboratore di giustizia...

PAOLO MONDANI Chi?

BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Salvatore Lopiparo. Se ne parlava che c’erano dei personaggi dello Stato, che garantivano diciamo la latitanza di Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI In loggia c’erano uomini delle forze dell’ordine?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Tantissimi.

PAOLO MONDANI E uomini dei servizi di sicurezza? Che in qualche modo lei è venuto a sapere.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Quello che era ai tempi il responsabile dei servizi segreti per la Sicilia occidentale.

PAOLO MONDANI Lei a verbale dice anche di sapere che Matteo Messina Denaro frequentava la Spagna e l’Inghilterra.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si. Io nel 2015, il 2 aprile o il 3 aprile con esattezza del 2015, quindi era 2 o 3 giorni prima di Pasqua riferisco in località segreta alla dottoressa Principato la posizione geografica esatta dell’ultimo covo di Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI E cioè?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Che era a Roquetas De Mar. In una villa a Roquetas De Mar. Gli dico chi era il proprietario…

PAOLO MONDANI Che sta in Spagna?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Che sta in Spagna, in Andalusia, sì. Vicino Almeria.

PAOLO MANDANI Lei c’era stato?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Per Messina Denaro, il modo migliore per assaporare il fascino di Roquetas de Mar è recarsi a Playa Serena, fare shopping, e osservare una ragazza che spunta dalla piscina di un albergone.

PAOLO MONDANI Quanti giorni è stato là?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Una settimana, suo ospite.

PAOLO MONDANI Wow.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA In un hotel di lusso, sì

PAOLO MONDANI E lui era contornato da belle ragazze? Ha molti amici?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si, si, molti amici. Il sindaco di Almeria venne a farci onore quindi che ci venne lì con grande.. erano davvero un ambiente molto spudorato ecco.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Se la Sicilia è metafora del mondo come diceva Leonardo Sciascia, più umilmente, Giovanni Savalle è la metafora di Castelvetrano, patria di Matteo Messina Denaro. A Savalle, l'imprenditore più facoltoso della zona, la Guardia di Finanza sequestrò, nel 2018, 64 milioni di euro, tra cui una importante quota della proprietà del Kempinsky hotel di Mazara del Vallo. Poi gli è piombata addosso la bancarotta fraudolenta per due sue società. Ma nell'agosto scorso è caduta l'accusa più pesante: essere alle dipendenze di Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI Sui giornali è stato persino definito il cassiere di Matteo Messina Denaro.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, non il cassiere, il tesoriere, che è diverso.

PAOLO MONDANI Vabbè, insomma, diciamo. Una delle contestazioni che le sono state fatte riguarda una società che si chiama Atlas cementi. Alcuni membri della sua famiglia erano parte di quella compagine azionaria.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA È vero.

PAOLO MONDANI L’Atlas cementi era di Rosario Cascio.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, no. L’Atlas cementi era di Gianfranco Becchina.

PAOLO MONDANI E Rosaro Cascio?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Rosario Cascio l’ha comprata da Gianfranco Becchina.

PAOLO MONDANI Benissimo, ma Rosario Cascio è stato coinvolto nell’inchiesta mafia appalti e quindi diciamo così a cascata i suoi famigliari, quindi lei siete stati indicati come….

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Io Io le posso dire che Gianfranco nel 1990, '91 ora non …

PAOLO MONDANI Stiamo parlando di Gianfranco Becchina?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Becchina, quando ha venduto

PAOLO MONDANI Che è un noto trafficante di reperti archeologici.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No dottore, oggi è un trafficante di reperti archeologici. Ma Gianfranco Becchina a me mi è stato presentato da Aldo Bassi, Aldo Bassi...

PAOLO MONDANI Che era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Due volte.

PAOLO MONDANI Del quinto governo Andreotti.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Non lo so.

PAOLO MONDANI …e del primo governo Cossiga.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Benissimo, quindi vede una persona di grande qualità.

PAOLO MONDANI E quando lo ha conosciuto lei non era un trafficante di reperti archeologici?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Assolutamente. Tutti volevano avere a che fare con Gianfranco Becchina.

PAOLO MONDANI Perché lui vendeva olio in tutto il mondo.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Bravissimo. Ricordi che l’olio di Gianfranco Becchina è andato sul tavolo di Bill Clinton.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A Gianfranco Becchina il 24 maggio dell'anno scorso è stato confiscato un patrimonio stimato in 10 milioni di euro. Secondo la Dia, Becchina sarebbe stato a capo di un’organizzazione dedita al traffico internazionale di reperti archeologici con cui avrebbe accumulato ingenti ricchezze. Mentre Sarino Cascio, suo socio nella Atlas Cementi, accusato di essere uno dei cassieri di Matteo Messina Denaro, nel 2005 è stato condannato per associazione mafiosa. Ma la Cassazione nel 2021 ha ammesso la revisione della condanna perché già assolto per gli stessi fatti in un altro processo.

PAOLO MONDANI Le hanno contestato i rapporti con un noto mafioso.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Quale?

PAOLO MONDANI Giuseppe Grigoli.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Ma allora, anche lì, Giuseppe Grigoli, io ho fatto una piccola consulenza praticamente cinque milioni delle vecchie lire, 2.500 euro, questo è il mio rapporto con Pino Grigoli, ma di cosa stiamo parlando dottore? PAOLO MONDANI Poi le vengano contestati i rapporti con Filippo Guttadauro, che è nientemeno che il marito di Rosalia Messina Denaro. GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Benissimo, perfetto dottore.

PAOLO MONDANI Alla figlia di loro, Maria, lei ha procurato un posto di lavoro.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No dottore.

PAOLO MONDANI Avrebbe procurato...

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Ecco, avrei procurato. Perché Maria Guttadauro era bravissima nel rappresentare il territorio perché lo conosceva, perché aveva studiato per questa cosa.

PAOLO MONDANI I suoi rapporti con Filippo Guttadauro?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Mah, quali rapporti? Conoscenza praticamente così e nulla di particolare, nulla di particolare.

PAOLO MONDANI Con Bellomo?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Luca Bellomo, dottore, anche lì: Luca Bellomo è il figlio del signor Bellomo. Io conosco il signor Bellomo grazie al fatto che...

PAOLO MONDANI Anche lui noto mafioso, Luca Bellomo.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, no, non è un mafioso. Luca era un ragazzo che ha sposato la sorella di Maria Guttadauro.

PAOLO MONDANI I suoi rapporti con la politica?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Buoni, buoni. Io ho mantenuto rapporti con tutti.

PAOLO MONDANI Con quale parte della politica?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Mah, destra, sinistra, centro, non ho mai, ma guardi...

PAOLO MONDANI Sopra, sotto.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE – COMMERCIALISTA Totò mi disse una volta: "Perché non ti presenti come senatore?" Totò ma io non faccio la politica, mi piace fare questo lavoro e quant’altro. Non l’ho seguito ed è stato un peccato perché oggi sarei senatore della Repubblica italiana.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il mentore del quasi senatore è Totò Cuffaro che ha scontato cinque anni di reclusione per favoreggiamento a Cosa Nostra. Il resto degli amici di Savalle inizia con Pino Grigoli, re dei supermarket nel trapanese, riciclatore di denaro delle cosche e fiancheggiatore di Matteo Messina Denaro; poi Filippo Guttadauro, da anni in carcere, sposato con la sorella di Matteo, Rosalia, arrestata nel marzo scorso; e Luca Bellomo, nipote del cuore di Matteo, per anni in carcere per mafia, traffico di droga e rapina. Insomma, una lunga catena di affetti che non si può spezzare. Della quale avrebbe fatto parte anche il medico Alfonso Tumbarello arrestato nel febbraio scorso per aver curato Messina Denaro forse sapendo che la sua identità era coperta da quella del geometra, Andrea Bonafede. Il 70enne Tumbarello, in passato impegnato in politica con Totò Cuffaro e con Alleanza nazionale aveva un’altra passione.

PAOLO MONDANI Tumbarello era appartenente alla loggia Valle di Cusa, Giovanni di Gangi 1035 all'Oriente di Campobello di Mazara. Il Gran Maestro che ha da dire rispetto al fatto che questo venga arrestato per concorso esterno?

STEFANO BISI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE D'ITALIA Appena ho saputo che era stato indagato l'ho sospeso. Prima dell'Ordine dei Medici che l'ha sospeso soltanto quando è stato arrestato.

PAOLO MONDANI Alfonso Tumbarello era noto processualmente come ponte verso la famiglia di Messina Denaro sin dal 2012. Voi, l'idea che mi sono fatto è che arrivate sempre molto dopo. Non mancate di vigilanza sui vostri iscritti?

STEFANO BISI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE D'ITALIA Che Tumbarello potesse essere indagato per concorso esterno in associazione mafiosa non me lo sarei aspettato. Io non ho il potere di intercettare, non ho il potere di perquisire, non ho il potere di andare a vedere i conti correnti delle persone.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Eppure, il 19 ottobre del 2012, 11 anni fa, l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino testimoniando al tribunale di Marsala sosteneva che il suo tramite con la famiglia di Messina Denaro era stato proprio Alfonso Tumbarello. Si voleva prendere il latitante? Bastava inseguire Tumbarello. E un funzionario della polizia giudiziaria ci dice qualcosa in più del medico massone di Messina Denaro.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Il medico Tumbarello era una fonte dei servizi segreti. Ed è lui secondo me che fa confidenze su Messina Denaro ma sin dai tempi delle lettere a Vaccarino.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La nostra fonte ci sta parlando di un rapporto epistolare tra il sindaco Antonio Vaccarino e Matteo Messina Denaro intercorso tra il 2004 e il 2007. Una vicenda ancora oggi misteriosa. Perché l'operazione venne organizzata dal Sisde, il servizio segreto civile, diretto dal generale Mario Mori che aveva reclutato Vaccarino nel tentativo di comunicare con il latitante. Ma di questa iniziativa non è mai stato chiaro il fine.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA L'Operazione Vaccarino, non era finalizzata alla cattura di Messina Denaro, ma serviva a preparare il terreno ad un accordo per la consegna.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questo dice la nostra fonte. E chissà se è vero che anche Tumbarello era della partita. Ma Giuseppe De Donno, ufficiale dei carabinieri e braccio destro di Mario Mori, finito anche lui al Sisde, il 12 maggio del 2020, spiega in un processo a Marsala che lo scambio di lettere fra Vaccarino e il latitante era stato concertato dal servizio per realizzare la consegna spontanea di Matteo Messina Denaro.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Questo è un pre-tavolo di trattativa. E Matteo Messina Denaro in una lettera a Vaccarino spiega esattamente quel che vuole.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il primo febbraio del 2005 Messina Denaro scrive al sindaco Vaccarino: "hanno praticato e praticano ancora oggi la tortura nelle carceri...hanno istituito il 41 bis, facciano pure e che mettano anche l’82 quater, tanto ci saranno sempre uomini che non svenderanno la propria dignità...Per l’abolizione dell’ergastolo penso che con il tempo ci si arriverà, ma tutto andrà da sé con il processo di civilizzazione". Messina Denaro è chiaro: l'ergastolo e il 41 bis sono il centro della trattativa. Dopo questa lettera passano 18 anni. Matteo si ammala e improvvisamente cambia abitudini.

PAOLO MONDANI Messina Denaro dà il suo cellulare alle signore che fanno con lui la chemioterapia, si fa un selfie con un infermiere della clinica Maddalena di Palermo, prende il nome di Andrea Bonafede nipote di un pregiudicato di mafia, il suo secondo covo a Campobello di Mazara è intestato a un soggetto già indagato per mafia. Come se volesse lasciare delle briciole sul suo percorso, delle tracce. Mi chiedo e le chiedo: si è fatto arrestare?

ANTONINO DI MATTEO - MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Sono tutti comportamenti assolutamente anomali. Nessuno dei grandi latitanti di mafia si è comportato in questo modo, anzi in modo esattamente contrario. Ha adottato quindi un comportamento che è giustificabile solo in due modi: o si sentiva talmente sicuro delle protezioni da comportarsi in maniera incauta sapendo che non sarebbe stato catturato perché non lo volevano catturare oppure si è fatto arrestare.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La testimonianza che ora ascoltiamo viene da un investigatore che per anni ha braccato Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI Parliamo della cattura di Matteo Messina Denaro il 16 gennaio scorso. Da dove cominciamo?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Cominciamo dal maggio 2022, quando la polizia sfiora la cattura di Messina Denaro. Lui inviava delle lettere alle sorelle Giovanna e Bice via posta. E la polizia ne intercetta quattro e accerta su queste lettere la presenza del DNA del latitante. E poi vengono piazzate 150 telecamere vicino alle buche delle lettere di Mazara, Campobello, Castelvetrano e Santa Ninfa in attesa che lui vada lì a imbucarle.

PAOLO MONDANI Poi però Messina Denaro ad un certo punto inspiegabilmente si ferma.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Sì, l'ultima lettera intercettata è del 24 maggio 2022, era indirizzata alla nipote, Stella Como, e aveva come mittente un mafioso di Santa Ninfa. Nella lettera c'erano due pizzini destinati alle sorelle, uno destinato a Fragolone, probabilmente il soprannome della sorella Rosalia. E Matteo scrive: "È andato tutto a scatafascio, la ferrovia non è praticabile, è piena...quindi capirai che non si può".

PAOLO MONDANI Un messaggio in codice, cosa vuol dire?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Vuol dire che Matteo Messina Denaro si era accorto che la Polizia intercettava le lettere e da quel momento non scriverà più.

PAOLO MONDANI Evidentemente c'era una talpa...

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Possibile.

PAOLO MONDANI E i carabinieri come entrano nell'inchiesta?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Ros e polizia hanno sempre condotto delle indagini parallele. Poi a un certo punto succede qualcosa di strano: i carabinieri chiedono alla polizia, a dicembre 2022, le chiavi dell'appartamento di Rosalia. L'appartamento era già pieno delle microspie della polizia e i carabinieri vogliono aggiungerne una nel bagno. La polizia a questo punto si arrabbia: ma come, che ci andate a fare nel bagno, non succede nulla là dentro. Rischiate di compromettere tutto, già Rosalia si era accorta dei movimenti del Ros attorno e dentro le sue case, anche in quella di campagna.

PAOLO MONDANI A questo punto però la polizia non può certo rifiutarsi di dare le chiavi ai carabinieri.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA E infatti consegna le chiavi al Ros che il 6 dicembre del 2022 entra e si concentra nell'intercapedine della sedia dove ci sono le copie dei pizzini e trova degli appunti sulla condizione medica di Matteo.

PAOLO MONDANI Che è il pizzino decisivo, quello che permette ai carabinieri di fare lo screening sui malati di tumore e arrestarlo. Ma loro come sanno del nascondiglio nella sedia?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA A casa di Rosalia era piazzata una telecamera gestita insieme dal Ros e dalla polizia. La polizia monitorava già Rosalia attraverso le microspie che erano sparse in vari punti della casa e voleva intercettarle anche il telefono. La Procura però dà il permesso soltanto ai carabinieri.

PAOLO MONDANI Qui non capisco una cosa, quando la polizia è entrata in casa di Rosalia l'aveva visto quel pizzino sulla malattia di Matteo?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA La polizia entra per prima...

PAOLO MONDANI Prima dei carabinieri.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Cerca, trova, fotografa tutti i pizzini oggi resi noti, ma non trova quello della malattia.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Riassumendo. La sorella di Matteo, Rosalia, è la chiave della cattura del fratello. La polizia lo capisce subito e con i carabinieri si contendono microspie e intercettazioni. Sulla carta, tutti sanno tutto, eppure solo i carabinieri trovano il pizzino con gli appunti sulla malattia di Matteo. La polizia entra prima di loro in quella casa ma quel pizzino non c'è. La cosa lascia pensare, perché solo quel pezzo di carta spiega la cattura di Messina Denaro alla clinica la Maddalena. Senza quel pizzino dovremmo parlare di consegna del latitante. E poi, tutti entrano in casa sua, ma Rosalia non si accorge mai di nulla?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Rosalia impazzisce quando scopre che il 6 dicembre erano entrati i carabinieri e la polizia se ne accorge, lo capisce perché a Rosalia avevano messo una microspia anche nella ciabatta.

PAOLO MONDANI Insomma, carabinieri e polizia non collaborano e si pestano i piedi.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Bah, a me sembra che pestano i piedi alla polizia che stava sulla pista già da parecchio tempo. Quando nel 2021 Matteo Messina Denaro lascia l'Albania è la polizia a capire che si trova qui nel trapanese. E da lì il risveglio dell'interesse per le indagini da parte dei carabinieri.

PAOLO MONDANI E come viene individuato Matteo Messina Denaro in Albania?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Perché la polizia intercetta uno scambio di dati tra Giovanna, la sorella, e Matteo. Matteo viveva praticamente ormai là, in Albania. Tant'è vero che anche la sua amante, Andrea Hassler, l'amante austriaca lo va a trovare lì. Poi improvvisamente Matteo decide di lasciare l'Albania e torna nel trapanese e la polizia traccia Rosalia attraverso alcuni video che Rosalia sposta, a Matteo, erano video registrati e indirizzati a lui con i saluti della vecchia madre.

PAOLO MONDANI Torniamo un attimo però al pizzino del maggio dell'anno scorso, quello dove Matteo scrive: "La ferrovia è piena"... A me sembra la chiave di tutta la vicenda della cattura questo.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Lo è. Perché lui in quel modo dichiara che non vuole più utilizzare la posta, non è sicura, e solo di questo si preoccupa. E infatti, quando lui poi si trasferisce in Via CB 31 è a poche centinaia di metri da casa sua. Vuol dire che a Campobello lui si sente sicuro. Nonostante la presenza delle telecamere.

PAOLO MONDANI Insomma, in estrema sintesi, qualcuno spinge Matteo a non scrivere più lettere perché non vuole che sia catturato dalla polizia a maggio del 2022, ma questo perché?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Questa è un'operazione dell’intelligence.

PAOLO MONDANI Che significa?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA I servizi segreti non vogliono che Matteo venga preso dalla polizia a maggio del 2022 perché il governo Draghi non sarebbe caduto. Siamo di fronte a un nuovo round della trattativa. Questo significa che ne hanno a guadagnare anche i vari Graviano, Lucchese, Bagarella, Madonia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo questo alto funzionario di polizia giudiziaria, la cattura di Matteo Messina Denaro sarebbe il segmento di una trattativa che ha le radici nel tempo, da quando cioè l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, incaricato dal Sisde di Mario Mori, cerca di prendere contatti con Matteo Messina Denaro. E lo fa attraverso la mediazione del medico Alfonso Tumbarello, il medico massone. E comincia con il super latitante un singolare scambio di lettere sotto degli pseudonimi, Vaccarino è Svetonio, Matteo Messina Denaro, Alessio. E proprio Alessio scrive, Matteo Messina Denaro scrive, ad un certo punto una lettera particolare: “hanno praticato e praticano ancora oggi la tortura nelle carceri e hanno istituito il 41 bis. Facciano pure, che mettano anche l'82 quater. Tanto ci saranno sempre uomini che non svenderanno la propria dignità”. “Per l'abolizione dell'ergastolo - scrive Matteo Messina Denaro - penso che con il tempo ci si arriverà, ma tutto andrà da sé con il processo di civilizzazione”. Ecco, Matteo Messina Denaro è chiaro: il 41 bis è ancora un nervo scoperto per la mafia, è un punto della trattativa. Questo singolare scambio epistolare è rimasto a lungo un mistero fino al maggio 2020, quando l'ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, uomo fedelissimo di Mario Mori, lo segue anche al Sisde, lo spiegherà in un processo a Marsala. Ecco, quelle lettere servivano a preparare il terreno per una consegna di Matteo Messina Denaro. Passano 18 anni. Da allora Matteo Messina Denaro si ammala e cambiano le sue abitudini e verrà arrestato. Come? La storia comincia quando i carabinieri ad un certo punto cercano di, vogliono entrare nell'appartamento della sorella Rosalia per inserire una loro cimice nel bagno. L'appartamento è già pieno di telecamere e cimici della polizia, alcune anche in condivisione. Tuttavia, i carabinieri entrano il 6 dicembre 2022, si soffermano sull'intercapedine di una sedia all'interno della quale trovano i pizzini. Uno in particolare, quello sulle condizioni di salute di Matteo Messina Denaro è quello che consentirà di fare lo screening di tutti i malati di tumore e individuare il super latitante. Ora i carabinieri sanno che in quella sede ci sono i pizzini perché l'hanno osservata con una telecamera in condivisione con la polizia. Anche la polizia era entrata in quell'appartamento, aveva trovato i pizzini, li aveva fotografati tutti. Mancava però quello decisivo. Come mai? Perché quella è l'unica carta che giustificherebbe l'arresto di Matteo Messina Denaro presso la clinica La Maddalena. Un arresto che un grillo parlante ben informato aveva anticipato con modalità e anche tempistiche perfette.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A questo punto entra in scena Salvatore Baiardo, il favoreggiatore dello stragista Giuseppe Graviano. Che nel 2020 nel processo 'Ndrangheta stragista a Reggio Calabria aveva raccontato di aver incontrato per tre volte da latitante Silvio Berlusconi, finanziato dalla sua famiglia per 20 miliardi delle vecchie lire. Baiardo, nel 2021, aveva rivelato a Report che gli incontri con Berlusconi erano stati molti di più e che Graviano aveva persino ricevuto l'Agenda Rossa di Paolo Borsellino. Tutte fandonie, secondo Berlusconi. Ma nello scorso novembre, Massimo Giletti, che lo aveva visto a Report, porta Baiardo su La7 e lui predice il futuro. Annuncia che "Messina Denaro era molto malato, e che avrebbe potuto consegnarsi lui stesso facendo un regalino al governo”.

NON È L’ARENA 5/11/2022 MASSIMO GILETTI E quando avverrebbe questo ipotetico arresto di Matteo Messina Denaro?

SALVATORE BAIARDO Giletti ci sono delle date che parlano non è che Baiardo si sta inventando…

MASSIMO GILETTI Eh ma lei ha detto che quando allo Stato farà comodo oppure lui non servirà più…

SALVATORE BAIARDO Questo lo avevo detto già in tempi non sospetti

MASSIMO GILETTI …verrà preso. È arrivato questo periodo, questo momento forse?

SALVATORE BAIARDO Presumo, presumo di si

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Le parole di Baiardo suonavano come la previsione di uno scambio: l'arresto dell'ultimo dei Corleonesi con la fine dell'ergastolo ostativo, e magari anche del 41 bis. Il 16 gennaio scorso Messina Denaro viene arrestato e siccome Baiardo indovino non è e qualcuno quelle cose gliele deve aver suggerite, nel marzo scorso chiediamo a lui cosa sa di questa cattura annunciata.

PAOLO MONDANI Come avviene l’arresto di Matteo Messina Denaro? Tu ne sai qualcosa? Perché lì la polizia stava a un passo, come hanno fatto i carabinieri a passargli davanti?

SALVATORE BAIARDO Ma c’era già un accordo che dovevano prenderlo loro

PAOLO MONDANI Qualche particolare in più sulla cattura di Matteo?

SALVATORE BAIARDO In che senso, dimmi cosa vuoi sapere.

PAOLO MONDANI Gli uomini che hanno preso contatti con te e Graviano sono gli uomini di chi?

SALVATORE BAIARDO Dei Servizi.

PAOLO MONDANI Servizi, certo. Ma sono gli uomini di Mori dei servizi? Sì o no?

SALVATORE BAIARDO Sì.

PAOLO MONDANI Ascoltami, Graviano è convinto che lo tolgono il 41 bis?

SALVATORE BAIARDO Se non succede quello che succede questo governo cade, questo governo cade.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO L'Aisi, il servizio segreto civile, smentisce qualsiasi coinvolgimento nella cattura di Messina Denaro. A noi Baiardo ha confermato il nome del funzionario dei servizi che avrebbe interloquito con lui. Nome che su richiesta, abbiamo riportato all'autorità giudiziaria. Sarà fatalità ma abitavano tutti a Omegna o lì vicino, fra il '92 e il '93. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano latitanti, il loro favoreggiatore Salvatore Baiardo e il generale dei carabinieri Francesco Delfino, che aveva una villa a Meina. E qui, come è noto, ci sarebbe di mezzo una foto che ritrae Giuseppe Graviano, Silvio Berlusconi e il generale dei carabinieri Delfino seduti al bar vicino al lago a prendere un caffè. Di Delfino si può scrivere un libro: impegnato per anni al Sismi, coinvolto e assolto per avere sviato le indagini sulla strage di Brescia del 1974, condannato per avere intascato i soldi del sequestro dell'imprenditore Giuseppe Soffiantini, accusato da pentiti della 'ndrangheta di essere l'uomo chiave della strategia della tensione e finito dentro un’indagine sugli attentati del 1993. Che ci faceva Delfino al bar con Graviano e Berlusconi? È quella foto esiste davvero? Una cosa sola sappiamo: che sul lago d'Orta, nell'estate del 1992, la mafia si gioca il futuro.

PAOLO MONDANI L’altra volta tu mi dicevi che Graviano ha in mano delle foto. Foto che ritrarrebbero, mi dicevi, Berlusconi, Graviano e Delfino. Queste foto sono una o più di una?

SALVATORE BAIARDO Più di una.

PAOLO MONDANI Ma chi le aveva scattate? Delfino?

SALVATORE BAIARDO Ma che Delfino, Delfino era seduto.

PAOLO MONDANI No, intendo dire era lui ad aver proceduto a farle scattare, Delfino? Voi? Graviano?

SALVATORE BAIARDO (Alza la mano sinistra)

PAOLO MONDANI Tu? Tu hai scattato le foto? Fantastico. Quindi….

SALVATORE BAIARDO E se non va tutto come deve andare, nel libro usciranno le foto.

PAOLO MONDANI Cosa vuol dire nel libro? Stai facendo un libro?

SALVATORE BAIARDO Sì.

PAOLO MONDANI Comunque, queste foto ritraggono seduti a tavolino dove, a Omegna?

SALVATORE BAIARDO A Orta.

PAOLO MONDANI A Orta. In che periodo lo posso sapere?

SALVATORE BAIARDO ’92. C’era in ballo la nascita di Forza Italia.

PAOLO MONDANI La foto con Graviano, Delfino e Berlusconi fatta a Orta nel ’92 quando? In estate? Prima di Borsellino o dopo la morte di Borsellino?

SALVATORE BAIARDO Dopo.

PAOLO MONDANI Mi domando: avete altri documenti, Altre foto, altre cose di questo tipo?

SALVATORE BAIARDO No.

PAOLO MONDANI Berlusconi sa che avete le foto?

SALVATORE BAIARDO Uh.. (in segno di approvazione)

PAOLO MONDANI E come gli è stato comunicato che voi avete queste foto? Glielo hai comunicato tu?

SALVATORE BAIARDO Secondo te come c’è stato l’incontro con Paolo?

PAOLO MONDANI Tu sei andato a parlare con Paolo Berlusconi e all’incontro con Paolo Berlusconi gli hai detto che ci sono le foto? Gliele hai fatte anche vedere a Paolo Berlusconi?

SALVATORE BAIARDO (Annuisce)

PAOLO MONDANI Tosta. E Paolo Berlusconi come ha reagito? Dimmi una cosa almeno.

SALVATORE BAIARDO (Fa il segno della paura)

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO L’avvocato di Paolo Berlusconi ci informa che “percepito il tono insinuante di Baiardo, Berlusconi lo ha allontanato bruscamente e nessun riferimento fu fatto a fotografie di alcun genere”. Paolo Berlusconi sul punto si è avvalso della facoltà di non rispondere di fronte ai magistrati di Firenze. Ma un poliziotto della sua scorta ha testimoniato che Baiardo era venuto a screditare Silvio, il fratello che conta di più. Niente di vero per Baiardo che a Firenze dice che l'incontro, avvenuto nel 2011, gli era servito solo per chiedere a Paolo Berlusconi un posto di lavoro. Quindi non gli avrebbe mostrato le famose foto. Ultimo atto. Massimo Giletti rivela ai magistrati fiorentini di averne vista persino una, a noi Baiardo dice di averle addirittura scattate. Ma dopo la sospensione del programma di Giletti per ragioni ancora da chiarire e dopo che diventa pubblica la sua testimonianza alla Procura di Firenze, Baiardo compie la giravolta: su TikTok nega l'esistenza delle foto e racconta che le sue rivelazioni a Report del 2021 erano tutta un'invenzione.

SALVATORE BAIARDO – 16/05/2023 La Procura l'altro giorno mi sente proprio sulla base di queste dichiarazioni su Berlusconi. Son saltate fuori cose inimmaginabili: che addirittura ho delle foto che ritraggono lui insieme a Graviano e al generale Delfino. Tutte cose da fantascienza.

SALVATORE BAIARDO – 01/05/2023 Quando mi vedo arrivare questo signor Mondani, giornalista di Report, la prima cosa che vedo che cos'è, che questo ha una telecamera nascosta. Perciò, non è che questo mi dice Baiardo facciamo un'intervista, le va bene così gli avrei detto di sì. Gli avrei raccontato altre cose, magari veritiere. Appena mi sono accorto che questo qui aveva una telecamera nascosta, mi ruba l'intervista a telecamera nascosta e il Baiardo cosa fa: il Baiardo si sfoga a raccontargli un mucchio di fesserie.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Contento lui. Comunque alcune cose le ha confermate poi alla magistratura, altre le ha confermate parlando al telefono mentre era ascoltato dalla magistratura che lo aveva messo sotto intercettazione proprio a partire dal 2021 dopo la nostra puntata. Ed è così che i magistrati scoprono che l'uomo che ha gestito la latitanza dei fratelli Graviano ad un certo punto mostra una foto a Massimo Giletti e Massimo Giletti viene convocato dai magistrati e a quel punto non può non dire la verità all'autorità giudiziaria. Ecco Giletti dice di aver visto una foto stile Polaroid dai colori sbiaditi. Baiardo gliela mostra nascondendola nella tasca interna della giacca e riconosce, seduti intorno ad un tavolo nella piazza del Lago d'Orta, due persone su tre. E al centro c'è Silvio Berlusconi. Indossa una polo scura e alla sua sinistra c'è il generale Delfino, anche lui vestito in borghese di scuro, che Giletti conosce benissimo perché era suo padre, amico dell'imprenditore rapito Soffiantini. Accanto a loro c'era un giovane seduto che Giletti non riconosce, ma che secondo Baiardo è Giuseppe Graviano. Ora dell'esistenza di queste foto, Baiardo parla anche al nostro Paolo Mondani a marzo 2023. Poco prima che succedesse tutto il caos. E aggiunge anche dei particolari. Dice che le foto sono tre e anche di averla scattata lui. Ecco, è il 2 marzo e Baiardo a quel punto comincia a giocare su due tavoli in via una foto sua e del nostro inviato Mondani a Massimo Giletti e gli dice "Ma gli hai parlato tu delle foto?". Giletti dice: Ma quali? Quelle che ben sai, quelle che conosci. E poi gli dice di fare attenzione alla data dell'8 marzo. Ecco, noi da una prima ricerca abbiamo scoperto che quella data coincide con il pronunciamento della prima sezione penale della Cassazione in merito alla riforma dell'ergastolo ostativo del governo. Insomma, una sorta di banco di prova. Ma che gioco gioca Baiardo, per conto di chi gioca Baiardo? Ora noi non conosciamo i motivi per cui è stata sospesa la trasmissione di Massimo Giletti e della sua squadra, ma se dovessero essere questi che abbiamo visto i motivi e non vogliamo pensarlo, sarebbe grave per la libertà di stampa e soprattutto per il futuro del nostro Paese. L'oracolo Baiado aveva presentato, aveva azzeccato la malattia di Matteo Messina Denaro e anche l'arresto, la data. Aveva detto “è un regalo per il governo” e ha detto “Ci sono delle date - usando il plurale – “date che parlano da sole”. Questo l'aveva detto mesi prima. Poi Matteo Messina Denaro è stato arrestato il 16 gennaio. Il giorno dopo, cioè quel 15 gennaio in cui fu arrestato Totò Riina trent'anni fa. Quel 15 gennaio che coincide con il compleanno della premier Giorgia Meloni. Ora la mafia, da quello che ci risulta da alcune investigazioni ancora segrete, la mafia sarebbe anche un po' irritata nei confronti della premier perché non ha ceduto nonostante le pressioni all'indebolimento del 41 bis. E la Meloni ha detto più volte “Io non sono ricattabile”. Vivaddio. Ecco, tra 30 secondi passiamo invece ad un altro oracolo. Giusto il tempo di dare qualche consiglio su come aiutare la popolazione dell’Emilia-Romagna

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora stavamo parlando di Salvatore Baiardo, l'oracolo che aveva predetto con incredibile precisione la malattia e l'arresto di Matteo Messina Denaro. Noi come giornalisti, non possiamo far altro che notare e sottolineare un'altra coincidenza. Nel 1992 ci fu un altro personaggio di quelle presunte foto, il generale Delfino, che aveva Balduccio Di Maggio come confidente, e indossò i panni dell'oracolo. Baiardo ante litteram, profetizzando anche lui un regalino, questa volta per l'allora ministro della Giustizia Martelli. Insomma, o è l'aria del lago che rende tutti così visionari o sono le frequentazioni?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La storia della cattura di Totò Riina è il principio di ogni mistero. Perché è da quel momento che mafia, stato, stragi, e depistaggi si incastrano. Il mafioso Balduccio Di Maggio venne arrestato l'8 gennaio del 1993 a Borgomanero che è a un passo da Omegna e da Meina dove svernavano Baiardo, i fratelli Graviano e il generale Delfino a cui Di Maggio racconterà come catturare Totò Riina che verrà arrestato dal Ros dei carabinieri il 15 gennaio successivo. Ecco quel che racconta Giuseppe Graviano al processo 'ndrangheta stragista. Qualche giorno prima della cattura di Balduccio Di Maggio succede qualcosa di strano sul lago d'Orta.

GIUSEPPE GRAVIANO BOSS MAFIOSO PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA - 21.02.2020 Eravamo io, Baiardo, mio fratello e un’altra persona. Ci facciamo una partitina a carte, a poker. Che cosa è successo? Si erano fatte le sei, sette…sei e mezzo, una cosa del genere. Il signor Baiardo è andato a prendere i cornetti per la colazione. Ritorna e dice…sapete? C’è un altro collaboratore di giustizia, si chiama Balduccio Di Maggio. A proposito questo vi dimostra, che se io avessi voluto avrei avvisato o’ signor Riina o chi per lui per dire state attenti c’è Balduccio Di Maggio che sta collaborando e io vi posso indicare anche la villa dove è stato portato.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giuseppe Graviano non avverte Riina e sa dove è stato portato il neo-pentito Balduccio Di Maggio, che però verrà arrestato formalmente solo tempo dopo, l’8 gennaio del 1993. A che gioco giocava Graviano? Cominciamo a capirlo ascoltando quel che capitò alcuni mesi prima al ministro della Giustizia di allora, Claudio Martelli.

PAOLO MONDANI Siamo nell'estate del 1992 e ad un certo punto la viene a trovare il generale Delfino.

CLAUDIO MARTELLI - MINISTRO DELLA GIUSTIZIA 1991-1993 Eravamo all’indomani della strage di via D’Amelio e ancora però non si erano viste reazioni adeguate. Ha esordito dicendo: “non si angosci, non si preoccupi Presidente glielo portiamo noi Riina. Le facciamo noi un regalo per Natale, noi, noi. Glielo portiamo noi”. Io l’ho guardato tra il sorpreso e l’incuriosito, ma lui non ha voluto aggiungere altro.

PAOLO MONDANI L’8 gennaio del 1993 infatti viene catturato Balduccio Di Maggio, che poi racconterà di Riina eccetera. Balduccio Di Maggio stava a Borgomanero da molto tempo, quindi lei ebbe l’impressione dopo, ci ripensò, rifletté su quello che le aveva detto Delfino? Pensò che l’avessero già preso?

CLAUDIO MARTELLI - MINISTRO DELLA GIUSTIZIA 1991-1993 Se già da luglio Delfino si espresse in quei termini vuol dire che già da luglio lo avevano perlomeno sondato. Perché l’atteggiamento di Delfino è di chi era molto sicuro del fatto suo, cioè mi ha dato una comunicazione che nessuno poteva immaginare men che meno io, con grande certezza. Addirittura fissando la data.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Salvatore Baiardo predice la cattura di Messina Denaro e trenta anni prima il generale Delfino predice quella di Totò Riina. Due veggenti o dietro di loro si muove la stessa trama, quella di uno scambio dove la mafia incontra uomini dello Stato? Il solito Baiardo, su Di Maggio, Graviano e Delfino, forse non a caso, sa qualcosa in più.

PAOLO MONDANI A dibattimento "‘Ndrangheta stragista" Graviano dice quella storia di te poco prima del Capodanno ‘92 ‘93, che vai a prendere i cornetti una mattina dopo una lunga partita di poker. La racconta Graviano.

SALVATORE BAIARDO Quella è la storia di Di Maggio.

PAOLO MONDANI Quella che torni dicendo Di Maggio, ma Di Maggio era stato portato lì da Graviano.

SALVATORE BAIARDO Sì a Borgomanero lì all’officina, ma lui gli aveva trovato da lavorare lì.

PAOLO MONDANI Perché lui aveva insidiato la fidanzata di Brusca e Brusca non era...

SALVATORE BAIARDO E voleva farlo fuori.

PAOLO MONDANI Ascoltami, ma chi l’ha consegnato Balduccio Di Maggio a Delfino?

SALVATORE BAIARDO Lo ha fatto consegnare Graviano.

PAOLO MONDANI E come lo consegna, glielo presenta? Che fa’? Che succede? Materialmente lui?

SALVATORE BAIARDO È stato Balduccio Di Maggio ad andare da Delfino.

PAOLO MONDANI È stato Balduccio Di Maggio ad andare da Delfino? A casa sua? Lì in questo paesino, a Meina?

SALVATORE BAIARDO È così.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stando a questa ricostruzione, Graviano consegna Di Maggio a Delfino. E così vende Totò Riina allo Stato. E la storia si incastra con quanto raccontò il pentito Gaspare Spatuzza, uomo fidato di Giuseppe Graviano che a lui confidò particolari importantissimi che spiegano cosa c'era in ballo con Berlusconi. Siamo al 21 gennaio del 1994 al bar Doney, in via Veneto a Roma.

GASPARE SPATUZZA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA PROCESSO DEPISTAGGIO STRAGE VIA D'AMELIO - 05/02/2019 Siamo entrati in questo bar, con un'espressione, io che sono cresciuto con Giuseppe Graviano, di una felicità immensa. Quindi Giuseppe Graviano mi indica che avevano chiuso tutto e avevamo ottenuto tutto quello che noi cercavamo. In tale circostanza venne a dire che la personalità, quello che aveva gestito un po' tutto era Berlusconi, gli dissi: ma chi quello del Canale Cinque? E lui mi ha detto che era quello del Canale Cinque. E tra cui c'è di mezzo un nostro compaesano: Dell'Utri.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Parlando con il compagno di detenzione Umberto Adinolfi, Graviano è esplicito su quello che pensa oggi di Berlusconi. E lo indica precisamente come l'Autore.

CARCERE DI ASCOLI PICENO INTERCETTAZIONE TRA GIUSEPPE GRAVIANO E UMBERTO ADINOLFI - 14/03/2017 Io ti ho aspittatu fino adesso picchì haio cinquantaquattr’anni, i giorni passano, gli anni passano, sto invecchiando... e no, e tu mi stai facennu morire ‘ngalera senza io aver fatto niente, che sei tu l’autore. Ma ti viene ogni tanto in mente, di fariti ‘na passata... di passarite a mano ‘nta cuscienza, se è giusto che per i soldi tu fai soffrire le persone così?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO I fratelli Graviano e il loro favoreggiatore Baiardo hanno sempre detto di essere stati a un passo da Berlusconi. E Berlusconi li ha sempre smentiti. Ora parliamo di due verbali dimenticati. Nel 1996 Francesco Messina era alla Dia e indagava sulle stragi del 1993 insieme al magistrato fiorentino Gabriele Chelazzi, quando firmò due verbali con le rivelazioni di un confidente fino ad allora sconosciuto, Salvatore Baiardo.

PAOLO MONDANI Baiardo le confessa di avere assistito nella sua casa tra il 91 e il 92 a conversazioni telefoniche tra Filippo Graviano e Marcello Dell’Utri dalle quali si evinceva che i due avevano interessi economici in comune in Sardegna.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Dunque, lui disse di avere assistito a una conversazione telefonica tra Filippo Graviano e un tale Marcello, non disse che si trattava di Dell’Utri, questo bisogna dirlo per onore della cronaca.

PAOLO MONDANI Successivamente Baiardo aveva capito dai fratelli Graviano, tramite un commercialista di Palermo che era Fulvio Lima, parente del politico Salvo Lima, che venivano trasferiti ingenti capitali proprio a Marcello Dell’Utri.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Parlò di questo co-interessamento anche di Fulvio Lima a questo genere di trasferimento di capitale. Ma anche questo comunque fu rammostrato, fu riferito all’autorità giudiziaria.

PAOLO MONDANI La villa dove i Graviano stavano nell’agosto del ’93, dopo le stragi, era ubicata a Punta Volpe, ed è Baiardo che paga l’affitto per conto dei Graviano. Quanto distava dalla villa di Silvio Berlusconi quella villa?

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Ma guardi lui raccontò di avere accompagnato, di avere dovuto recapitare una valigia ai fratelli Graviano che si trovavano in vacanza in Sardegna. E che questa valigia a un certo punto fu recapitata in una villa che era diciamo nel comprensorio vicino a dove c’era la villa del prossimo Presidente del Consiglio.

PAOLO MONDANI Cosa le sembra che Gabriele Chelazzi avesse intuito alla fine del suo percorso investigativo sulla strage di Firenze e sulla strage di Milano, le stragi del’ 93.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Io credo che lui avesse percepito chiaramente da tempo, che, diciamo, dietro a questi fatti non c’era soltanto l’ala militare di Cosa Nostra corleonese.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Quindi Salvatore Baiardo diventò testimone fiduciario della Dia e del pubblico ministero Gabriele Chelazzi -che morirà improvvisamente nel 2003- sui presunti rapporti tra Graviano e Berlusconi. Recentemente Baiardo è stato più volte interrogato dal pubblico ministero di Firenze Luca Tescaroli nell'ambito delle indagini sui mandanti delle bombe di Firenze, Roma e Milano del 1993, che dopo alcune archiviazioni vedono Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri ancora sotto indagine. Mentre è accertato che Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro sono stati la mente pensante di quelle stragi.

DANILO AMMANNATO - ASSOCIAZIONE PARENTI VITTIME STRAGE VIA DEI GEORGOFILI Cosa Nostra nel ’93 con le stragi colpisce il vecchio per favorire, per facilitare l’avvento del nuovo soggetto politico. La sentenza 5 agosto 2022 secondo grado Trattativa, ci attesta, ci prova che ci fu una convergenza di interessi, cito testualmente: “Vi fu chi come Marcello Dell’Utri tramava, dialogando direttamente con gli esponenti mafiosi. Dell’Utri portò avanti su imput di Provenzano e Graviano questa opera di mediazione per canalizzare il voto mafioso in previsione di assicurare dei vantaggi alla organizzazione.”

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sulla trattativa Stato mafia, la Cassazione ha confermato l'assoluzione in appello degli ufficiali del Ros e di Marcello Dell'Utri per non aver commesso il reato che è quello di attentato agli organi politici dello Stato. Però già nella sentenza del 2022 della Corte d'Appello, che assolveva già Marcello Dell'Utri, c'è scritto che Dell'Utri “aveva tramato per assicurare certi risultati elettorali dialogando direttamente con gli esponenti mafiosi”. Ecco in queste settimane la Procura di Firenze deve decidere come procedere nei confronti di Dell'Utri e Berlusconi, indagati come mandanti esterni delle bombe del '93 e del '94. È un filone che viene da lontano, dal 1998 e viene rimbalzato tra le procure di Caltanissetta e Firenze. Un reato, lo diciamo, un'ipotesi di reato, per la quale sia Berlusconi che Dell'Utri sono stati già archiviati tre volte. E ora questa nuova inchiesta parte invece dalle nuove intercettazioni in carcere e dalle dichiarazioni di Giuseppe Graviano nel procedimento “'ndrangheta stragista” a Reggio Calabria. Graviano, che al 41 bis in cerca di benefici, ha detto che sarebbero stati investiti vecchi 20 miliardi di lire dal nonno nelle attività di Silvio Berlusconi. E ora i magistrati hanno avviato anche delle perquisizioni nelle case dei familiari dei Graviano in cerca di questa carta privata e poi hanno avviato anche nuove perizie sui flussi finanziari della Fininvest, che sarebbero risultati 70 miliardi di vecchie lire di cui la provenienza non sarebbe certa. E hanno analizzato anche i flussi di denaro tra Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Sarebbero spuntate fuori delle donazioni per milioni di euro e un compenso mensile di 30mila euro secondo Berlusconi sono un segnale di riconoscimento, di stima, di gratitudine nei confronti dell'amico Marcello e anche per ricompensarlo delle spese legali per i procedimenti che ha dovuto affrontare. Ora per i pm, invece, sarebbero la prova del pagamento di un ringraziamento, diciamo così, nei confronti di Marcello Dell'Utri per non aver coinvolto il Cavaliere nei processi di mafia. Ecco, una tesi che è entrata anche in una informativa della Dia di Firenze del 2021. Ora, ci scrive invece l'avvocato di Silvio Berlusconi, Giorgio Perroni, e dice che tutto il suo patrimonio è perfettamente ricostruibile. Dice che siamo di fronte a una macchina del fango illegale perché le due perizie sarebbero ancora protette da segreto istruttorio. In realtà sarebbero state già depositate al Tribunale del Riesame di Roma in un altro procedimento. Solo che a Giorgio Perroni ancora non erano state notificate, non le aveva ricevute. Ecco, qu questo punto l'avvocato ha presentato una denuncia alla Procura della Repubblica di Firenze, chiedendo di individuare chi siano gli autori di questa presunta fuga di notizie. Vedremo come andrà a finire. Tornando invece alla strage dei Georgofili del 27 maggio di trent'anni fa, dove hanno perso la vita cinque persone, tra cui due bambine, ecco va detto che il pentito Gaspare Spatuzza ha detto "questi morti non ci appartengono". E allora? E allora insomma, in una recente relazione della commissione Antimafia è spuntato o sono spuntate informazioni e sono inquietanti sull'esecuzione dell'attentato. L'autore è un magistrato che a lungo ha indagato sulle stragi, Gianfranco Donadio.

GIANFRANCO DONADIO – PROCURATORE DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA La commissione parte innanzitutto da un dato indiscusso. A via dei Georgofili furono collocati 250 chili di esplosivo. I mafiosi a Firenze disponevano all’incirca di 130, 140 chili

PAOLO MONDANI Qualcuno che non è mafioso quindi aggiunge l’esplosivo militare.

GIANFRANCO DONADIO – PROCURATORE DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO NAZIONALE ANTIMAFIA Nelle automobili dei mafiosi vi sono solo tracce di tritolo. Dobbiamo escludere che i mafiosi avessero altro. Quindi, altri hanno aggiunto alle cariche portate dai mafiosi esplosivo ad alto potenziale di tipo militare.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO I periti balistici della strage di Firenze hanno da poco rifatto la perizia sulla bomba dei Georgofili.

PAOLO MONDANI La miscela dell’esplosivo di Georgofili era composta da?

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Tritolo, probabilmente in parte preponderante visto gli annerimenti eccetera

PAOLO MONDANI Gli annerimenti delle pietre, della zona.

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Gli annerimenti della zona attorno al punto di scoppio. Poi dinitrotoluene, che potrebbe anche derivare dall’esplosione del tritolo. Poi T4, pentrite e nitroglicerina.

PAOLO MONDANI Per la parte che riguarda l’esplosivo da cava mi è chiaro dove si possa reperire. Ma il T4 e la pentrite dove si reperisce?

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Questi due tipi di esplosivo sono assieme nel plastico di fabbricazione cecoslovacca, che veniva utilizzato in campo civile cioè in miniera denominato Semtex H. Separatamente il T4 può stare insieme al tritolo in tritoliti, cosiddetti, di cui la più comune è quella di origine americana Compound B.

PAOLO MONDANI Stabilire se il T4 viene dal Semtex H di produzione cecoslovacca o dal Compound B di produzione americana è possibile?

LORENZO CABRINO- PERITO BALISTICO No.

PAOLO MONDANI Dopo l’esplosione?

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO No. Chimicamente non è possibile.

PAOLO MONDANI Quindi non sappiamo se viene dalla Cecoslovacchia o dagli Stati Uniti.

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO No.

ROBERTO VASSALE PERITO BALISTICO - EX COMANDANTE COMANDO RAGGRUPPAMENTO SUBAQUEI LA SPEZIA I reparti speciali hanno due plastici, uno con la pentrite e l’altro con il T4. Però è difficilissimo recuperarlo. Bisogna entrare a Comsubin, ammazzare la sentinella e andarle a prendere.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Rimane quindi un mistero chi ha procurato l’esplosivo al plastico per la strage di Firenze. Ma i misteri irrisolti non finiscono qui. Alcuni uomini della polizia giudiziaria fiorentina fecero indagini che non piacquero a molti.

EX AGENTE DI POLIZIA GIUDIZIARIA Una nostra fonte interna al mondo massonico fiorentino ci disse che nella Torre dei Pulci c'era un centro di raccolta dati metereologici guidato da Giampiero Maracchi, un climatologo di livello internazionale che è morto pochi anni fa. Ora questo centro era un Laboratorio di Monitoraggio collegato a satelliti con i computer sempre accesi. Quindi per molto tempo si disse che c’era un collegamento con i servizi segreti. Poi ci fu raccontato che l'Accademia dei Georgofili che era ospitata sempre all’interno della stessa Torre era una istituzione in mano alla massoneria, quella che conta di più a Firenze, e che poteva essere diventata il bersaglio di una massoneria collegata alla mafia. Insomma, non era detto che il vero obiettivo della bomba fossero gli Uffizi ma poteva essere che i Georgofili fossero diventati il bersaglio di una mente criminale più raffinata insomma.

PAOLO MONDANI Giungeste a delle conclusioni in queste indagini?

EX AGENTE DI POLIZIA GIUDIZIARIA Dopo due mesi di indagini accaddero tre fatti. Primo fatto: un ex carabiniere che era stato assunto nella Security di una grande azienda ci venne a dire che se continuavamo con le indagini ci dovevamo ricordare della vicenda dei militari morti dopo Ustica, cioè di quelle morti strane degli ufficiali che avrebbero dovuto testimoniare su quello che era successo la notte che fu abbattuto l'aereo. E noi lo prendemmo come un avvertimento pesante. Secondo fatto: quando dovevamo procedere con la perquisizione a casa del soggetto centrale dell’inchiesta, un nostro superiore lo chiamò e lo avvertì che stavamo arrivando e di fatto ci ha bruciato le indagini. E poi terzo fatto: un importante magistrato improvvisamente impose al nostro capo di troncare le indagini.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Da 30 anni si indaga anche sulla presunta presenza di una donna nelle stragi del 1993. Ecco gli identikit della bionda che avrebbe partecipato alla strage di Firenze di via dei Georgofili e della mora che avrebbe preso parte a quella di via Palestro a Milano. In un documento del Sisde, il servizio segreto civile, oggi Aisi, datato 19 agosto 1993 conservato all’archivio centrale dello Stato si legge: “una fonte del servizio operante nell’ambito della criminalità organizzata del capoluogo lombardo ha riferito: il commando che ha preparato e innescato l’autobomba esplosa in via Palestro a Milano sarebbe stato composto da due artificieri appartenenti ad una organizzazione parallela ed affiliata alla Mafia e da una donna che avrebbe parcheggiato la macchina con l’esplosivo. In passato sarebbe stata soprannominata “Cipollina”. Della bruna Cipollina e della bionda ci parla Marianna Castro, ex compagna del poliziotto Giovanni Peluso indagato come "compartecipe ed esecutore materiale della strage di Capaci". La catena di comando di questo nucleo occulto di agenti speciali di cui avrebbe fatto parte anche Peluso secondo la signora Castro era formata da Giovanni Aiello, faccia di mostro, e da Bruno Contrada ex numero tre del Sisde.

PAOLO MONDANI Faccia di mostro per suo marito era il?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, lavoravano insieme però è un suo superiore.

PAOLO MONDANI Contrada?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Era il superiore di loro.

PAOLO MONDANI Suo marito sparisce qualche giorno durante l’attentato a Falcone, no?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, sì, venerdì mattina.

PAOLO MONDANI Tre giorni. Successivamente le dice che secondo lui Falcone era stato ucciso….

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Si ha detto che a uccidere Falcone non era stata la mafia ma erano stati i servizi segreti.

PAOLO MONDANI E lei non ha chiesto spiegazioni? A chi dava fastidio Falcone? Perché i servizi segreti hanno fatto saltare Falcone?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Dice che dava fastidio alla politica italiana e poi dice che era pure dei favori fatti a degli amici americani.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A questo punto Marianna Castro ci racconta di un viaggio a Milano fatto da Peluso a fine luglio del ’93, alla viglia dell’attentato in via Palestro. Stesso viaggio anche a Firenze poco prima della strage

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO La sera stacco dal lavoro alle otto allora ha detto: ti devi sbrigare a venire a casa perché mi devi accompagnare allo svincolo di Napoli perché ci sono tre persone che lavoriamo tutti e quattro insieme e dobbiamo partire per fare delle indagini. Allora io arrivo e lo accompagno là e c’era la macchina che l’aspettava e lì dentro c’era pure Giovanni Aiello con due donne, una bionda davanti e una mora di dietro.

PAOLO MONDANI E dove andavano?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Eh…no dice che dovevano andare a Milano per fare delle indagini. Poi è tornato dopo la strage di Milano.

PAOLO MONDANI Sì.

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Gli ho detto scusa ma…siete partiti, siete tornati e c’è stato questo attentato? Ha detto: che vuoi dire che siamo stati noi? Ma e scusa che siete andati a fare fin là, a fare le indagini di che?

PAOLO MONDANI E lui come rispose?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Niente. Perché poi lui spariva, ritornava. Non…e a Firenze è stata la stessa storia con la strage di Firenze.

PAOLO MONDANI Cioè?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sempre a dire mi devi accompagnare che mi aspettano, che qua… che là…benissimo lo accompagno là

PAOLO MONDANI E sempre faccia da mostro con...?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Con la donna davanti dice…lui diceva: la donna davanti è la segretaria.

PAOLO MONDANI Bionda.

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Bionda, che era la nipote di Parisi.

PAOLO MONDANI Lui dice che era la nipote di Parisi?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Eh, era la nipote di Parisi quella Antonella. Io quando mi hanno fatto vedere le foto, prima mi hanno fatto vedere l’identikit delle donne bionde…e ho riconosciuto quella con i capelli un po' più lunghi e ho detto questa le assomiglia.

PAOLO MONDANI Ma se io le faccio vedere la fotografia della persona eh…che è stata pure dalla Procura di Firenze indicata come la possibile...

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO La Cipollina, la possibile Cipollina, che lui chiamava Cipollina.

PAOLO MONDANI Lui chi? Suo marito? La chiamava Cipollina?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO E allora a un certo punto siccome a mia figlia quella piccola la chiamava Cipollina io gli ho detto: “Scusa ma perché chiami Cipollina?” dice: “perché io ho una collega che lavoriamo insieme che c’ha……porta i capelli corti mori a uso cipolla”.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo Marianna Castro la donna bionda era nipote del capo della Polizia Parisi. In effetti in questi anni indagini calabresi si sono concentrate su Virginia Gargano, parente acquisita di Vincenzo Parisi e ritenuta vicina a Giovanni Aiello, Faccia di Mostro. Vicinanza mai accertata. Il legale di Virginia Gargano ritiene che le ipotesi di accusa siano indimostrate e indimostrabili. Marianna Castro riconosce anche la donna mora, che risulta essere soprannominata Cipollina esattamente come risultava al Sisde. Il 27 luglio del 1993 una bomba in via Palestro a Milano uccide cinque persone e ne ferisce dodici. I magistrati ritengono che ci sia un buco di 48 ore nella ricostruzione della preparazione della strage perché nessuno dei collaboratori di giustizia sa dire quel che accadde dopo. Come se i mafiosi avessero passato nelle mani di altri l’esecuzione. Fabrizio Gatti nel 2019 scrive “Educazione americana” la storia di un agente della Cia di stanza a Milano che gli rivela i retroscena della strage.

FABRIZIO GATTI - GIORNALISTA Dice di chiamarsi Simone Pace, il suo nome convenzionale, quindi io credo che sia anche un nome finto, e racconta e rivela che in quegli anni degli attentati così come prima e negli anni successivi esiste in Italia e anche a Milano una squadra clandestina della Cia formata da cittadini italiani e americani e in particolare lui, nei mesi precedenti all’attentato di via Palestro, viene coinvolto dal suo capo americano che dice di chiamarsi Viktor, viene coinvolto in un sopralluogo in via Palestro.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Siamo in un sabato di metà aprile del 1993, il responsabile Cia Viktor porta Simone Pace senza alcun preavviso in via Palestro. Lì prende delle misure con i passi e si annota a matita su un foglio alcune informazioni. E poi, passano ai fatti.

FABRIZIO GATTI - GIORNALISTA Viktor il suo capo, che loro chiamano in gergo "il controllore" chiede a Simone Pace di comprare del fertilizzante a base di nitrati, della carbonella e dello zolfo, che sono i componenti per produrre, per fabbricare la polvere da sparo. Si danno appuntamento al primo maggio, sempre del 1993 in un appartamento dalle parti di Arluno e lì in questo appartamento in un caseggiato popolare dove Viktor dice di abitare, fabbrica, Viktor, con questi ingredienti e un tubo di plastica una miccia e con un timer misurano la durata di combustione di questa miccia che è due minuti e nove secondi circa.

PAOLO MONDANI Si scopre che ad Arluno, a poche centinaia di metri dalla casa di Viktor, "il controllore", il capo di questa squadra clandestina della Cia, i due mafiosi Carra e Lo Nigro avevano portato l’esplosivo per la strage, appunto...

FABRIZIO GATTI GIORNALISTA L’autista del camion Pietro Carra, che poi diventerà collaboratore, racconta di un uomo che prende in consegna questo esplosivo, che arriva all’appuntamento su una 127 bianca e dalla sua descrizione potrebbe trattarsi dello stesso Viktor: un uomo sui quarant’anni, abbastanza calvo, che tra l’altro si muove con una 127 bianca.

PAOLO MONDANI Questo agente della Cia, Simone Paci, che è un po’ la tua fonte, che cosa ti dice a proposito del contesto di quei giorni? Della strage...

FABRIZIO GATTI GIORNALISTA Lui si definiva un facilitatore della storia, laddove i governi non possono arrivare ci sono gli agenti segreti che in qualche modo anticipano gli eventi e creano le condizioni perché tutto questo accada.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nell'ultima relazione l’Antimafia scrive: “si impone una verifica dei dati e delle informazioni raccolte dal Sisde in ordine all'esistenza di un'organizzazione parallela con finalità terroristiche che avrebbe affiancato la mafia nelle stragi”. Ecco, noi di Report in questi anni abbiamo dimostrato, raccontato, portato prove e testimonianze che le stragi del '92 e del '93 non sono altro che la continuazione di quella strategia della tensione cominciata negli anni '70 e '80 con lo stesso sistema criminale. E poi è quello anche che è emerso dalle recenti sentenze della strage di Bologna. Ora la domanda è questa verifica dei fatti che chiede l'antimafia, qualcuno la sta facendo?

Estratto dell’articolo di Enrico Deaglio per “la Stampa” il 23 maggio 2023.

Questo Baiardo comincia a diventare stucchevole, oltreché losco: rivela, minaccia, confida, prevede, allude, chiede soldi; non sembra aver paura, né che gli tappino la bocca i suoi vecchi sodali, né che qualche giudice gli metta le manette (e, francamente, non si capisce il perché non lo facciano). Si capisce perché la trasmissione di Giletti su La 7 sia stata chiusa – l'editore non voleva finire nei guai -, si capisce meno perché la Rai abbia mandato in onda ieri sera un'ennesima puntata della saga del gelataio, in cui Baiardo rivela che l'ormai famosa foto (virtuale) del trio Berlusconi – Graviano – Generale dei CC Delfino, seduti tranquilli al bar della piazza di Orta San Giulio, sono non una, ma tre e che le ha scattate lui.

A poco sono servite le proteste dei legali e della famiglia Berlusconi, per l'infamia che sottendono; se La 7 si è ritirata dallo show, la Rai insiste; e io non riesco veramente a capire il perché. Né, di nuovo, capisco perché carabinieri o magistrati lascino libero Baiardo di imperversare, da sei mesi. Forse pensano di risalire attraverso di lui ai suoi mandanti?

O forse pensano di lasciar passare senza troppi colpi di scena, l'anniversario della strage di Capaci, il trentunesimo per l'esattezza: un altro secolo, un'altra vita, un'altra generazione.

O forse c'è – intorno a Baiardo – qualcosa di indecoroso e di indicibile.

Nelle righe che seguono vi propongo di riconsiderare una sequela di eventi, la maggior parte dimenticati, che formano una possibile narrazione, come si dice ora.

Dunque, nel 1992, Giuseppe Graviano, boss palermitano semi sconosciuto, ma in realtà molto ricco, molto potente e molto protetto, conduce una latitanza dorata e senza problemi di sicurezza tra il paese di Omegna e Milano, dove ha "nella sua disponibilità", un appartamento a Milano 3, la creatura di Berlusconi, con cui, dice lui, è in rapporti di affari (affari molti seri).

Ad Omegna invece è Salvatore Baiardo, un affiliato al clan, a fargli da segretario e autista tuttofare. Il generale dei carabinieri Francesco Delfino, dopo anni passati a Miano ad occuparsi di sequestri di persona (il suo reparto, piuttosto che "La Benemerita" era chiamato "La Benestante", perché il generale, quando liberava un rapito, lo convinceva a ringraziare l'Arma). Delfino conosceva Berlusconi?

Non c'è prova, ma è probabile, di certo pescò tra i carabinieri gli uomini per la sicurezza privata della sua famiglia. Delfino conosceva Graviano? Sicuramente, in quanto Graviano gli fece fare "il colpo del secolo", con l'arresto dell'autista di Riina, nel paese di Borgomanero, a pochi chilometri da Orta. Non solo, ma Delfino si premurò di avvertire, sei mesi prima del fatto, politici potenti che sarebbe stato lui ad arrestare Riina. Giuseppe Graviano, tre anni fa, pubblicamente rivelerà di conoscere Delfino e si vanterà di aver fatto un servizio allo Stato contribuendo alla cattura di Riina. (E' un argomento che il generale Mario Mori, uscito indenne dopo un ventennio dal famoso processo trattativa, non ama affrontare. Il merito tocca a lui. Delfino non ribatte, perché è morto, in disgrazia peraltro).

Dunque, sicuramente la notizia della foto che ritrae il trio è falsa, ma naturalmente è verosimile; siamo insomma nella situazione peggiore. 

Ma torniamo al nostro gelataio. Salvatore Baiardo il 27 gennaio 1994 accompagna con la sua Mercedes 190 i Graviano Giuseppe e Filippo da Omegna a Milano. I due, le loro fidanzate e altri amici palermitani, vengono arrestati la sera mentre mangiano al ristorante. Ma nessuno trova loro le chiavi di casa, né di Omegna, né di Milano Tre.

In sostanza, un po' come era successo per la casa di Riina a Palermo, nessuno tocca le sue cose, i suoi documenti, i suoi effetti personali, i suoi soldi o i suoi telefoni.

Salvatore Baiardo sarà arrestato più di un anno dopo e accusato di reati gravissimi: avrebbe organizzato la logistica dell'attentato degli Uffizi a Firenze, organizzato un imponente riciclaggio di denaro per contro dei Graviano. È verosimile che Baiardo abbia preso in consegna gli effetti personali dei fratelli Graviano? Sì.

Molto strano è il passaggio di Salvatore Baiardo attraverso il mondo giudiziario. Arrestato dalla DIA di Firenze e passato sotto la supervisione di Pier Luigi Vigna, parla molto, ma non mette a verbale.

Fa nomi, elenca circostanze, ricostruisce la filiera dei soldi, ma non diventa un "collaboratore di giustizia". Viene liberato dopo due anni e due mesi. Quando si andrà a processo, sorpresa: contro di lui Vigna firma solo una richiesta – risibile – per favoreggiamento. E per questo viene liberato e perdonato. Se ci sia stata una trattativa privata tra il procuratore e l'imputato non si saprà mai. 

Vigna intanto è diventato procuratore nazionale antimafia e quell'esperienza "baiardesca" gli viene utile, quando, luglio 1997, viene arrestato a Palermo Gaspare Spatuzza, il killer più in gamba del clan Graviano. Spatuzza e Baiardo si conoscono, eccome. Il clan Brancaccio si sta dissolvendo, tra pentiti e semi pentiti. Gaspare Spatuzza non è da meno e spiffera tutto subito: "se volete la verità, guardate a Milano Due" sono le sue prime parole: il procuratore Vigna lo cura, lo fa trasferire al carcere di Tolmezzo (il penitenziario preferito per colloqui riservati) e lì, insieme al suo vice Piero Grasso, Spatuzza racconta tutto, luglio 1998, ma proprio tutto: le stragi, Capaci, via D'Amelio, i Graviano, Dell'Utri, Berlusconi, la nascita di Forza Italia, l'impostura del falso pentito Scarantino, il ruolo malefico del questore Arnaldo La Barbera.

Ne esce un verbale di 164 pagine […] quando sembra che l'accordo sia fatto, Spatuzza non firma, affermando che le garanzie per sua moglie non sono sufficienti. Succede spesso così, nelle grandi trattative, ma stranamente Vigna non rilancia; eppure era facile: avrebbe potuto coprirla d'oro la moglie di Spatuzza e lui medesimo, la coppia era terribilmente venale.

Per dire, quando Spatuzza uccise don Puglisi, al Brancaccio, prese dal suo portafoglio la marca della patente. 

Quando Graviano gli impose di controllare i freni della Fiat 126 che avrebbe ucciso Borsellino, si fece dare cinquantamila lire, ma non li diede al meccanico).

E invece, niente, i tre si salutano… Resta però un verbale scritto (quello audio invece pare proprio si sia perso) che riaffiora quindici anni dopo in un dimenticato faldone della procura di Caltanissetta, davanti alla quale Spatuzza nel 2010 ha finalmente concluso la trattativa sul suo pentimento light. E dire che quel documento non avrebbe mai dovuto saltare fuori.

C'è un altro particolare che lega Baiardo a questa grande vicenda.

Nel 2010, quando, […]  viene resa nota la testimonianza di tale Fabio Tranchina ("Giuseppe Graviano ha schiacciato il telecomando di via D'Amelio"), il gelataio di Omegna si fa vivo con i giornali: io so la verità! Tranchina mente, quel giorno Graviano era con me ad Omegna, un poliziotto può testimoniarlo; si fa forte del fatto che, in fin dei conti, è stato solo un favoreggiatore, reato minore. L'alibi era palesemente falso, ma nessuno neanche pensa di incriminare Baiardo. Chissà perché. 

Ora, quindici anni dopo, tutto sembra dimenticato e Salvatore Baiardo è in grado di tenere sulla corda mezzo mondo. Ha la foto del Trio, ha visto, anzi l'ha addirittura fotocopiata, l'Agenda Rossa di Borsellino, ha trattato una soluzione del caso con Paolo Berlusconi, sta per pubblicare un libro, nessuno lo può fermare, Tik Tok lo ospita volentieri, Report anche. Sa anche perché è stato ucciso Falcone: l'hanno ucciso i comunisti perché indagava sui finanziamenti russi al Pci. 

Ma davvero siamo ridotti così, che dopo 31 anni di antimafia, chi comanda la scena è il gelataio di Omegna?

[…] Oggi è l'anniversario, e Baiardo è l'unico a festeggiarlo. E' diventato famoso, ha vinto. Ed è un peccato che noi – noi opinione pubblica, noi magistrati, noi Stato, noi giornalisti gli abbiamo permesso tutto questo scempio di verità. Resta davvero l'amaro in bocca, inoltre, che la verità si sapesse fin dall'inizio e che sia stata così facilmente occultata. 

Baiardo: "Ho tre fotografie di Berlusconi con Graviano". Luca Serranò su la Repubblica il 23 maggio 2023.

Il fiancheggiatore dei boss torna a minacciare: "Se le cose vanno male usciranno nel mio libro"

Torna a parlare Salvatore Baiardo, il fiancheggiatore del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano che più volte nell'ultimo anno è stato sentito dai pm fiorentini che indagano sui mandanti occulti delle stragi del '93. Raggiunto da Report, Baiardo ha risposto alle domande sulla foto dei misteri, lo scatto - di cui aveva parlato anche con Massimo Giletti, come confermato da alcune conversazioni intercettate, salvo poi smentire la circostanza ai magistrati - che ritrarrebbe insieme Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino.

Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per repubblica.it il 22 maggio 2023.

Il favoreggiatore della mafia stragista, Salvatore Baiardo, ha parlato della foto che ritrae Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino anche con Report, in onda su Rai 3 e su Raiplay.it,  confermando di fatto ciò che aveva detto a Massimo Giletti. Baiardo si è dunque vantato con due giornalisti di avere la foto scattata nella primavera del 1992 attorno alla quale adesso ruota la nuova inchiesta della procura di Firenze. È un'immagine che metterebbe insieme la mafia stragista e la politica.

[...] le foto sarebbero tre, e a scattarle sarebbe stato proprio lui, Salvatore Baiardo, nei pressi del lago d’Orta.

Dell’esistenza di questa immagine, racconta Baiardo, è a conoscenza anche Paolo Berlusconi, il fratello dell’ex premier. Il favoreggiatore dei boss a gennaio 2011 si è presento da Paolo Berlusconi in via Negri a Milano e gli avrebbe mostrato una vecchia polaroid con l’immagine dei tre personaggi. Il fratello dell’ex premier quando Baiardo si è allontanato dal suo ufficio avrebbe protestato con gli agenti della sua tutela sulle richieste fatte dall’uomo. Chiamato dai pm fiorentini si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Si potrebbe dunque trattare della stessa foto che Massimo Giletti racconta di aver visto ai magistrati di Firenze, Luca Turco e Luca Tescaroli, che indagano sul ruolo di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri rispetto le stragi del 1993.

[...]

Se questa immagine fosse vera, potrebbe provare accordi e conoscenze di Berlusconi, sempre negati, con Graviano, ancor prima delle stragi di Falcone e Borsellino.

Estratto dell’articolo Giacomo Amadori per “La Verità” il 22 maggio 2023.

Una foto fantasma continua ad agitare il mondo della politica. A dicembre […] Massimo Giletti aveva raccontato alla Procura di Firenze di aver visionato, solo a distanza, uno scatto sulla cui autenticità, però, non poteva garantire e in cui sarebbero stati immortalati Silvio Berlusconi e il mafioso Giuseppe Graviano, condannato all’ergastolo per le stragi del 1993, per l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo e altre uccisioni. 

Stasera la trasmissione Report svelerà nuovi particolari sull’intricata e contraddittoria vicenda. A rendere il quadro particolarmente confuso è il protagonista della storia, Salvatore Baiardo, levantino favoreggiatore della latitanza dei fratelli Graviano. È lui che, nel luglio del 2022, avrebbe mostrato a Giletti una vecchia Polaroid con i contorni bianchi, nascosta nella tasca interna della giacca.

L’istantanea, a detta di Baiardo, sarebbe stata realizzata ai tavolini di un bar della piazza di Orta, sull’omonimo lago, e ritraeva Berlusconi (al centro, con una polo scura), il defunto generale Francesco Delfino (in abiti civili), chiacchieratissimo ex ufficiale dell’Arma (condannato per essersi intascato i soldi di un sequestro e accusato dai pentiti di «essere l’uomo chiave della strategia della tensione»), e un giovane che Giletti non riconosce, ma che Baiardo sostiene essere Giuseppe Graviano […]. 

Baiardo è lo stesso che aveva anticipato a Giletti che il capo della mafia Matteo Messina Denaro era «molto malato e che avrebbe potuto consegnarsi lui stesso facendo un regalino al governo». Sui tempi della resa, aveva detto sibillino che «ci sono delle date che parlano». Il 16 gennaio 2023 […] il boss è finito in ceppi […]

Il «veggente» siciliano aveva affrontato l’argomento, a ottobre, a Palermo, anche con l’inviato di Report, Paolo Mondani. Quest’ultimo, il 2 marzo scorso, incontra nuovamente Baiardo, sempre nel capoluogo siciliano, e lo registra di nascosto. 

Il factotum dei Graviano non è più il Baiardo loquace di fine 2020, quando venne intervistato per la prima volta dalla trasmissione di Ranucci. È diventato diffidente. Ammette solo che le foto sono «più di una» e, quando l’inviato gli chiede chi le abbia scattate, alza la mano. E, un po’ minaccioso, annuncia: «E se non va tutto come deve andare, nel libro usciranno le foto».

In effetti, l’ex gelataio un’autobiografia lo sta scrivendo e si intitolerà Le verità di Baiardo. Nelle immagini rubate da Report, l’uomo riferisce anche che gli scatti sarebbero stati effettuati a Orta nel 1992, dopo la morte di Paolo Borsellino. «C’era in ballo la nascita di Forza Italia» specifica sornione. Mondani, a questo punto, domanda: «Berlusconi sa che avete le foto?». Nel video Baiardo annuisce e conferma di averne parlato con Paolo Berlusconi. 

Il quale, fa sapere Report, «sul punto si è avvalso della facoltà di non rispondere di fronte ai magistrati di Firenze. Ma un poliziotto della sua scorta ha testimoniato che Baiardo era venuto a screditare Silvio, il fratello che conta di più». Baiardo ai magistrati ha, invece, raccontato che «l’incontro, avvenuto nel 2011, gli era servito solo per chiedere a Paolo Berlusconi un posto di lavoro».

Il 2 marzo scorso, Baiardo manda a Giletti un selfie che lo ritrae insieme con Mondani e gli scrive: «Loro ricominciano ad aprire, vogliono farla con Netflix». Quindi fa capire a Giletti di aver discusso con l’inviato Rai degli scatti di Orta: «Ma tu hai parlato in giro di alcune foto? Mondani lo sapeva già. Quelle che sai tu». Giletti resta sorpreso: «Come fa a sapere?». Baiardo ribatte: «Lo chiedo a te». 

Giletti gli suggerisce di cercare la fonte di Mondani e Baiardo replica: «Lunedì che viene, voglio chiedergli questa fesseria per vedere cosa mi risponde. Perché io ho fatto finta di cadere dalle nuvole». L’ex complice di Graviano fa anche riferimento a una data: «Dopo il giorno otto ne vedrai delle belle». E aggiunge che, per questo, «si stanno muovendo tutti».

Che cosa è successo l’8 marzo? Lo spiega Sigfrido Ranucci nella puntata in onda stasera: «La data coincide con la pronuncia della prima sezione penale della Cassazione in merito alla riforma dell’ergastolo ostativo del governo. Insomma una sorta di banco di prova». Il 27 marzo la Procura di Firenze perquisisce Baiardo alla ricerca della foto. L’uomo, interrogato dall’aggiunto Luca Tescaroli, ne nega l’esistenza. Ad aprile, la trasmissione di Giletti viene sospesa. Noi, il 15 dello stesso mese, raccontiamo la vicenda dell’istantanea e del selfie di Baiardo con Mondani, ipotizzando che potesse servire «a scatenare un’asta tra trasmissioni concorrenti».

Il 16, su Tiktok, Baiardo prova a smentire tutto: «La Procura l’altro giorno mi sente proprio sulla base di queste dichiarazioni su Berlusconi. Son saltate fuori cose inimmaginabili.

Che addirittura ho delle foto che ritraggono lui insieme a Graviano e al generale Delfino. Tutte cose da fantascienza». E poi, in una sorta di excusatio non petita, aggiunge di essersi accorto che Mondani aveva una telecamera nascosta e allora gli aveva raccontato «un mucchio di fesserie».

Lo scorso 26 aprile Mondani è stato sentito dalla Procura fiorentina e i magistrati hanno acquisito immagini e registrazioni degli incontri dell’inviato con Baiardo. Nella puntata di stasera Ranucci si domanda: «Ma a che gioco gioca Baiardo? Per conto di chi gioca? Noi non conosciamo i motivi per cui è stata sospesa la trasmissione di Giletti e della sua squadra. Ma se dovessero essere questi i motivi (la storia delle foto, ndr), e non vogliamo pensarlo, sarebbe grave per la libertà di stampa e soprattutto per il futuro del nostro Paese». 

E poi ha concluso: «La mafia, da quello che ci risulta da alcune investigazioni ancora segrete, sarebbe anche un po’ irritata nei confronti del premier (Giorgia Meloni, ndr) perché non ha ceduto, nonostante le pressioni, all’indebolimento del 41 bis. E Meloni ha detto più volte “io non sono ricattabile». Infine, Report raccoglie la testimonianza di un funzionario di polizia (oscurato in viso) che farà discutere.

Nella casa della sorella di Matteo Messina Denaro, Rosalia, i poliziotti avevano trovato e fotografato di nascosto dei pizzini, ma solo dopo che in quell’abitazione entrarono i carabinieri sarebbe stato rinvenuto il messaggio che parlava dei problemi al colon del capo della Piovra e che ha permesso di dare una svolta alle indagini. Per il funzionario, i colleghi dell’Arma avrebbero «pestato i piedi» alla polizia e la Procura avrebbe autorizzato solo i carabinieri a intercettare il telefono di Rosalia. Anche per Baiardo, Messina Denaro, «dovevano prenderlo loro», gli uomini della Benemerita. Accuse che rischiano di bissare le polemiche seguite alla cattura di Riina.

Dagospia il 18 aprile 2023. Da “Un Giorno da Pecora” – Rai Radio1

Il caso Giletti? “Mi dispiace per la chiusura di ‘Non è l’Arena’, quando si chiude una voce è sempre un grandissimo dispiacere ed una perdita per la democrazia”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, il giornalista e conduttore di Report Sigfrido Ranucci, intervistato da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. 

 La fantomatica foto che ritrarrebbe Berlusconi, Graviano ed il generale Delfino e che Baiardo avrebbe proposto a Giletti è stata proposta anche a Report? “Baiardo lo avevamo intervistato circa un anno e mezzo prima, aveva detto tantissime cose anche a noi, è vero che aveva parlato di questa fotografia, lo ha fatto più volte. Detto questo però non posso dire altro perché su questa vicenda c’è un’indagine in corso”. 

Non può dirci se lei ha visto la foto oppure no? “Non lo posso dire perché coperto da segreto istruttorio”. Cosa può dire di Baiardo? “Baiardo con noi ha parlato più volte tantissimo - ha detto a Un Giorno da Pecora Ranucci - è uno loquace, bisogna capire per conto di chi parla e con quali finalità”.

Estratto dell’articolo di Enrico Deaglio per “La Stampa” il 23 aprile 2023.

Non c'è nulla che dia più fastidio alla mafia che la televisione. Non le piace: la tv comunica un senso della realtà difficile da dimenticare e poi raggiunge troppe persone, che poi magari prendono coraggio; la tv mostra i mafiosi per quello che sono, spesso dietro le sbarre, deboli, tutt'altro che invincibili; e loro invece sono abituati ad essere rispettati. Neanche la parola scritta, gli piace; ma quella la leggono in pochi. La televisione è peggio. 

[…] 

Il binomio mafia-televisione è tornato di attualità in questi mesi e sta al centro di una notevole conversazione pubblica: è il "caso Giletti", con le sue clamorose rivelazioni in diretta, culminate con la chiusura improvvisa del programma e un retrogusto di mistero.

Chi è veramente questo Baiardo, un gelataio capace di profetizzare, con due mesi di anticipo, il giorno della cattura di Matteo Messina Denaro? Esiste davvero la fotografia del boss mafioso insieme all'imprenditore e al generale dei carabinieri in piacevole colloquio sul lago d'Orta? Davvero tutto l'arresto di Salvatore Riina fu una colossale messa in scena? E chi sono veramente questi tenebrosi fratelli Graviano, ancora oggi in grado di ricattare lo Stato? 

[…] 

I fratelli boss

Partiamo dai misteriosi fratelli Graviano. Sono due, Filippo (nato nel 1961) e Giuseppe (nato nel 1963), boss del quartiere Brancaccio di Palermo. Passati sotto i radar negli anni Ottanta (sono condannati al maxiprocesso, ma a pochi anni), diventano potentissimi e ricchissimi "urban developers" di Palermo: la loro opera più grandiosa è un grande albergo di lusso, il San Paolo Palace Hotel, al centro del loro malfamato quartiere, che diventa il luogo di incontro dell'élite della città, dai politici ai magistrati, agli investigatori e ai sindacalisti, che entrano nella hall sfiorando i locali della "camera della morte" in cui la mafia del quartiere ha eliminato qualche centinaio di nemici. Nell'attico abita la madre dei due, cui il clan è devoto, come al vero Capo (Invece che Godfather, la chiamano Godmother). 

All'inizio degli anni Novanta il clan dichiara di voler trasferire la propria residenza e la propria attività economica nel Nord Italia e in Svizzera. Non figurano tra i sospetti, né tra gli esecutori delle stragi del '92-'93, ma vengono considerati i mandanti dell'omicidio di don Puglisi avvenuto nel settembre 1993, nel loro quartiere. Vengono arrestati a Milano il 27 gennaio 1994, in un ristorante alla moda con le loro fidanzate. Sono al 41 bis da allora.

E un signore di Omegna, provincia di Verbania; tra il '91 e il gennaio 1994 ha organizzato nella cittadina la residenza dei Graviano, facendo loro da autista, organizzando le loro vacanze e introducendoli nell'ambiente cittadino. Per questo motivo subì un arresto nel 1995 e fu condannato in appello a Palermo nel 1999 per "favoreggiamento" (essendo cadute le accuse di associazione per delinquere di stampo mafioso e di riciclaggio di denaro).

È il personaggio televisivo del momento; ha predetto l'arresto di Messina Denaro, ha promesso altre grandi rivelazioni e ha mostrato (mano sua) a Giletti una fotografia (tipo Polaroid) in cui si vedono – a suo dire – Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino seduti a un tavolino di un bar in quella che sembra la piazza principale di Orta-San Giulio, luogo incantevole e turistico. Vestiti primaverili, probabile anno 1992. 

Giletti ha riferito questa circostanza ai pm di Palermo che indagano sulla vicenda; gli stessi hanno intercettato Baiardo che parla con Giletti della fotografia; Baiardo non risulta incriminato per alcunché. In seguito a questi fatti, Urbano Cairo, editore de La7, ha chiuso la trasmissione. 

Francesco Delfino (generale dei carabinieri e superagente del Sismi, morto in disgrazia nel 2014) viene indicato come il terzo uomo della fotografia, insieme a Berlusconi e Graviano. Possibile? Un tempo si sarebbe detto: impossibile e assurdo; ora però non più. Da qualche tempo si parla parecchio del suo vero ruolo nella cattura di Riina.

Secondo Graviano stesso, e Baiardo di rimando, il famoso pentito Balduccio Di Maggio, che guidò i carabinieri alla cattura del capo dei capi, sarebbe stato convinto a farsi arrestare, a Borgomanero, pochi chilometri da Omegna, in cambio di molto denaro dal Graviano medesimo, in accordo con il generale (non nuovo a queste operazioni spregiudicate). 

Delfino, in compenso dell'aiuto ricevuto da Graviano, gli avrebbe fatto avere una "favolosa protezione" per le sue malefatte e i suoi affari. Che Delfino potesse conoscere Berlusconi non deve stupire; i due erano in contatto fin dai tempi dei sequestri di persona a Milano. Il primo come investigatore, il secondo come potenziale vittima. Berlusconi, peraltro, quando costruì Milano Tre, ci volle una stazione dei carabinieri, che regalò ai carabinieri stessi, che dall'epoca sono grati (Ed è tornato alla mente che Giuseppe Graviano ha fatto sapere di aver avuto un appartamento a disposizione a Milano 3 e l'ha collocato «nei pressi della stazione dei carabinieri»).

La gloria di Delfino per l'arresto di Di Maggio e quindi di Riina durò poco: nel 1998 fu lui stesso arrestato per aver estorto un miliardo alla famiglia di un notissimo industriale bresciano, suo amico, Giuseppe Soffiantini, in cambio della sua liberazione da un lunghissimo rapimento. Si scoprì all'epoca che non era la prima volta che il generale si comportava così; amava molto il lusso e perdeva al gioco.

[…] Killer del quartiere Brancaccio, Spatuzza venne arrestato per l'omicidio di don Puglisi e per la partecipazione alla strage di via dei Georgofili, ma rimase una figura di secondo piano fino al 2009, quando – al termine di «un percorso di pentimento religioso» certificato addirittura dal vescovo dell'Aquila – venne presentato all'opinione pubblica con una bomba: Spatuzza disse di essere stato lui a preparare l'attentato Borsellino, distruggendo dalle fondamenta tutto il lavoro – quindici anni – degli investigatori e dei giudici di Caltanissetta che avevano presentato un altro colpevole – un ragazzo di borgata di nome Vincenzo Scarantino – come l'organizzatore dell'eccidio. 

Scarantino aveva chiamato correi un'altra dozzina di persone che erano al 41 bis: erano completamente innocenti. Si trattò della peggior débacle in tutta la storia della lotta alla mafia, cui la magistratura reagì con imbarazzato silenzio.

Ma Spatuzza era un fiume in piena: rivelò di essere stato lui ad aver compiuto gli attentati di Roma, Firenze, Milano; di essere agli ordini dei fratelli Graviano, disse che questi avevano protezioni molto importanti e che erano soci in affari di Dell'Utri e Berlusconi, essendo stati tra i primi finanziatori dell'impero Fininvest. I Graviano, poi, avevano aiutato Forza Italia a vincere le elezioni del 1994. Tutte queste accuse, però, non vennero riconosciute come credibili dalla magistratura. 

Ma, a confermarle, con sempre maggiori dettagli ci hanno pensato proprio i Graviano, che negano – naturalmente – di essere gli autori delle stragi, ma non negano, anzi rivendicano i loro rapporti con Berlusconi. Secondo Giuseppe Graviano, autore di una recente (e pregevole per chiarezza) memoria difensiva, la sua famiglia ha contribuito con il venti per cento del capitale iniziale Fininvest e Berlusconi gli aveva promesso di rendere questo contributo palese, invece che occulto. Quando? In un incontro a Milano nel gennaio 1994, alla presenza di avvocati, dopo essersi assicurato l'appoggio dei Graviano per la campagna elettorale. E invece? E invece, sostiene Graviano, «mi ha fatto arrestare!».

Sono le fantasie di chi sta da troppo tempo in carcere? Naturalmente sì – la Fininvest nega qualsiasi cosa – ma… E qui comincia la storia che rende così appassionante la vicenda televisiva attuale. 

Partiamo dalla "sera delle beffe". 27 gennaio 1994, in tarda mattinata Salvatore Baiardo da Omegna accompagna Filippo e Giuseppe Graviano a Milano, con la sua Mercedes 190: vanno a fare shopping (Giuseppe è un patito dello shopping). Li lascia in centro e poi torna al paese. La sera apprende che sono stati arrestati, ma lui non lo vengono a cercare. Eppure i Graviano hanno tutta la loro roba lì: vestiti, documenti. O no? O forse avevano un'altra casa a Milano? Non si saprà mai, perché dopo l'arresto, compiuto in circostanze fantozziane, non seguono gli atti che normalmente si accompagnano, perquisizioni, ricerca dei telefonini, indagini sui documenti falsi. Niente. 

[…]

Baiardo, comunque, sta tranquillo, anche se a Omegna vedono le foto dei boss arrestati che assomigliano tanto a quei distinti industriali siciliani (si erano presentati così) «in viaggio di affari», e qualcuno si preoccupa un po' perché hanno avuto business con loro; dopo un anno (senza clamore) Baiardo viene arrestato dalla Dia di Firenze. Accuse pesantissime: hanno rintracciato il suo telefono e lo hanno collegato a una villa di Forte dei Marmi in cui, dicono, è stato preparato l'attentato di via dei Georgofili; lo accusano di aver riciclato miliardi e miliardi dei Graviano al Nord, fanno i nomi di Dell'Utri e Flavio Carboni (il riciclatore del caso Calvi). 

Baiardo parla? Lui dice di no, ma c'è una cosa strana: alla fine, per lui, in un processo stralcio presso la Corte d'Appello di Palermo, la condanna è solo per favoreggiamento. Caselli, all'epoca procuratore capo di Palermo avrebbe voluto l'associazione con 416 bis, ma si è imposto Vigna, allora procuratore capo a Firenze. No, solo favoreggiamento. Così invece di andare al 41 bis, Baiardo torna a casa, anche se lo metteranno di nuovo in carcere per alcuni mesi nel 1998. Non sarà per caso che Baiardo ha vuotato il sacco? Lui nega. 

Anzi, proprio in virtù di essere solo un favoreggiatore, nel 2011 fornisce un alibi (falso) per Giuseppe Graviano, che a questo punto è accusato da due pentiti di aver partecipato materialmente all'eccidio di via D'Amelio. «No, era con me a Omegna quel 19 luglio 1992». Non lo prendono neppure in considerazione. Non lo denunciano nemmeno, però. 

[…]

Il fatto è che tutta questa storia dei Graviano, all'epoca non sembra interessare proprio nessuno. La magistratura ha imboccato un'altra strada e assiste felice ai suoi successi: Riina è stato catturato e Di Maggio ha rivelato il "bacio" con Andreotti; il ragazzo Scarantino è stato il factotum del delitto Borsellino. Sì, ci sono state delle bombe in continente, ma sono dovute a un ricatto della belva Riina contro lo Stato: la famosa "trattativa", rivelata da uno dei tanti falsi pentiti; parte un'inchiesta che impegnerà i migliori eroi dell'antimafia, coinvolgendo ministri, governo e addirittura il presidente Napolitano, in cui tutti hanno un ruolo e solo i Graviano sono dimenticati.

Solo dopo trent'anni si è stabilito, in un' aula giudiziaria, che il "caso Scarantino" è stato «il più grande depistaggio della storia italiana», ma si è evitato di dire che a questa impostura ha partecipato, volenterosamente, tutta la magistratura italiana, spalleggiata dal miglior giornalismo. È passato praticamente inosservato che l'ormai famoso Spatuzza, dodici anni prima di pentirsi di fronte al vescovo, aveva già spifferato tutto, alla Dia e alla procura nazionale antimafia. Tutto, ma proprio tutto: addirittura nel 1998, nel carcere speciale di Tolmezzo, dove aveva chiesto e ottenuto di essere messo vicino a Filippo Graviano, davanti alle orecchie attente dei procuratori nazionali Vigna e Grasso. 

Racconta Spatuzza: sono stato io, per ordine dei Graviano, il loro rapporto con Berlusconi è la chiave di tutto. E poi, un sacco di particolari: Omegna, il riciclaggio, Baiardo, le vacanze del 1993, uno strano viaggio estivo in Sardegna. Naturalmente, ha poi aggiunto che quella di Scarantino era un'impostura ordita dalla polizia. Certo, stupisce un po' che i vertici della magistratura non abbiano fatto tesoro di queste informazioni, per dodici anni; e che non si siano adoperati nemmeno per togliere dalla galera una dozzina di ingiustamente accusati. Dispiace, ma le cose andarono così. Nello stesso anno, abbiamo uno Spatuzza che spiffera tutto e un Baiardo graziato come semplice favoreggiatore. Forse il procuratore Vigna aveva anche lui un piano.

E per quanto riguarda i fratelli Graviano, furono trattati con tutto il rispetto: un 41 bis che sembra un grande albergo, dove i due fratelli si sposano, figliano, ricevono i loro avvocati, trasferiscono i loro capitali, depistano, inquinano, e ogni tanto ricordano che sono loro a essere in dcredito, con la Fininvest in particolare. Per il resto, sembrano abbiano fatto pace con tutti; Filippo si è dissociato ufficialmente, Giuseppe da tempo collabora con i pm di Firenze, non sono irritati con Spatuzza che ha rivelato i loro affari, quanto con Berlusconi che lo ha fatto arrestare e poi non ha rispettato i patti.

Da anni hanno rivelato i misteri della cattura di Riina e il ruolo del generale Delfino, ma stranamente non hanno trovato orecchie disposte a sentirli; la loro versione della faccenda, infatti, mina alle basi tutta la retorica della lotta alla mafia. Dice infatti Giuseppe Graviano: Riina ve lo abbiamo consegnato noi, sappiatelo. Anzi, ringraziateci due volte, perché avremmo potuto farlo fuggire. Il fido Baiardo, recentemente da Giletti, ha confermato. Non solo, ma poi ha fatto sapere che la stessa cosa è successa con Messina Denaro: sono stati i Graviano a consigliargli di farsi prendere. Già: e se fosse andata proprio così? Sta a vedere che lo sapevano tutti.

Grande potenza della televisione: ora tutti si appassionano alla vicenda. Grande errore di Giletti: è andato a toccare dei fili scoperti, da cui l'Italia ormai pacificata da trent'anni, ha cercato di stare lontana. Per fortuna di tutti – della storia d'Italia, soprattutto – Giletti è stato fermato in tempo. Dispiace per il licenziamento della sua squadra, ma si troverà senz'altro una soluzione.

Estratto da open.online il 24 aprile 2023.

«La Procura l’altro giorno mi sente proprio sulla base di queste dichiarazioni su Berlusconi : sono saltate fuori cose inimmaginabili, che addirittura avrei delle foto che lo ritraggono con i Graviano e il generale Delfino. Tutte cose da fantascienza». 

A parlare è Salvatore Baiardo, che nega categoricamente l’esistenza di una foto che ritrae insieme il boss di Cosa Nostra Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi. Ma a rivelare l’esistenza di quella foto sarebbe stato Baiardo stesso a Massimo Giletti […]. 

[…] Il Fatto Quotidiano ha pubblicato il verbale dell’interrogatorio del conduttore di Non è l’Arena, in cui Giletti dice che lo scatto fu “rubato”, cioè fatto di nascosto. Il conduttore avrebbe anche aggiunto di aver chiesto di vedere la foto perché metteva «in dubbio le sue dichiarazioni. Credo, quindi, che per dimostrare che i rapporti li teneva mi ha mostrato la foto».

L’ex gelataio, molto vicino ai fratelli Graviano, ora però smentisce quella ricostruzione […]: «Non so chi abbia potuto dire una cosa del genere, io ho altre cose da dire ma sono veritiere, non come le fantasie delle Procure. Sulla famiglia Berlusconi sono state dette cose non vere, per cui quelle vere ve le dirò io. Anche sull’incontro con Paolo Berlusconi nella sede del giornale, è stato raccontato come una fantasia, che sono andato lì a intimidire e minacciare Paolo Berlusconi. Tutte fesserie».

Estratto dell’articolo di Roberto Pavanello per “La Stampa” il 3 giugno 2023.  

Vita, carriera, opere, ma anche qualche omissione. Urbano Cairo si è sottoposto ieri, al Festival della tv di Dogliani, alla centrifuga di domande "belvesche" di Francesca Fagnani. Piatti forti, il futuro prossimo di La7, il passato remoto con Berlusconi e il futuro da «mai dire mai» in politica. 

[…] La conduttrice Rai gli chiede di confermare le voci, quasi urla ormai, dell'approdo di Massimo Gramellini su La7. Il patròn le offre in risposta una mezza conferma: «Appena tutto quanto sarà formalizzato, lo comunicheremo. Sarebbe bellissimo, ma non è ancora fatto».

Insomma, […]  manca solo la firma, giacché il numero di maglia gli sarebbe già stato assegnato: dovrebbe essere quello della domenica sera, nella collocazione oraria di Massimo Giletti. […] Resterà invece un'occasione mancata il passaggio di Fabio Fazio alla corte di Cairo. Fagnani lo stuzzica, ed ecco il retroscena: «Questa volta non l'ho cercato, ma ci provai 6 anni fa. Andai a pranzo a casa sua con il suo agente Beppe Caschetto, ma alla fine non se ne fece nulla». 

Stavolta invece nessun tentativo di sottrarlo a Discovery, sua prossima destinazione. «Non se lo poteva permettere?», incalza Fagnani. Notevole la risposta: «Se mi sono potuto permettere Giletti, mi sarei potuto permettere anche Fazio». 

Doveroso parlare della chiusura di Non è l'Arena […] Cairo ribadisce che nulla c'entrano le puntate sulla mafia con Salvatore Baiardo: «Non ho ricevuto lamentele». Nega anche di essere stato a conoscenza della foto, mostrata da Baiardo a Giletti, che ritrarrebbe Silvio Berlusconi, con il generale dei carabinieri Delfino e il boss Giuseppe Graviano nel 1992: «Non me ne ha mai parlato».

La fine del rapporto sarebbe giunta per ragioni editoriali ed economiche: «Gli ho dato piena libertà per 194 puntate in 6 anni», ribadisce per poi entrare nel dettaglio: «I primi due anni il programma è andato alla grande, nel secondo biennio per colpa del Covid c'è stato il calo pubblicitario. Ma nel terzo biennio ha voluto cambiare giorno e andare in onda al mercoledì nonostante noi lo sconsigliassimo». 

[…]  «Ha perso due punti - ricostruisce Cairo - e poi, quando è tornato alla domenica, non ha più recuperato». […]  «Ho deciso di chiudere prima, parlandone con l'amministratore delegato e il direttore di rete, senza l'ingerenza di nessuno. La motivazione è solo editoriale».

Il tycoon si infervora: «Ho chiamato Mentana e gli ho detto "chiude Giletti, non La7. Se ci sono cose così importanti di cui parlare, ci sei tu, ci sono Floris, Purgatori, Formigli...». Il canale tv di sua proprietà è adesso visto come l'unica opposizione alla destra pigliatutto. Una linea politica che piace al suo editore? «Io non sono di destra né di sinistra. La7 viene considerata un po' più di sinistra, ma io l'ho trovata così, anzi lo era anche di più». Nella filosofia cairesca, «il dna di una tv o di un giornale non lo puoi cambiare, Berlusconi portò a destra Panorama e perse un sacco di lettori». […] C'è solo una cosa in più che vorrebbe se dovesse rinascere: «5 cm». Come Berlusconi.

 Estratto dell’articolo di Paola Pica per il “Corriere della Sera” il 3 giugno 2023.  

L’affondo della Belva Francesca Fagnani sul caso Giletti arriva dopo più di mezzora di domande personali e a bruciapelo […] al presidente «di quasi tutto» come lo chiama la giornalista, l’editore Urbano Cairo che qui a Dogliani, sotto il tendone del Festival della Tv, parla prima di tutto come patron de La7. 

[…] «Ha mai ricevuto telefonate o lamentele per la presenza di Salvatore Baiardo (storico collaboratore del mafioso Giuseppe Graviano, ndr) a “Non è l’Arena” la trasmissione condotta da Massimo Giletti che è stata improvvisamente sospesa?». «No», è la risposta di Cairo. «Ma allora perché ha chiuso una trasmissione che aveva ancora nove puntate davanti a sè?».

«Prima di tutto tengo a precisare che Giletti ha fatto sei anni e 194 puntate su La7, potendo lavorare in piena autonomia — premette Cairo — . Poi va detto che nell’ultimo biennio i costi della trasmissione erano diventati insostenibili — racconta l’editore —. Lui si era impuntato di passare dalla domenica al mercoledì, un’operazione che gli ha fatto perdere quasi due punti di share mai recuperati nonostante poi sia tornato alla domenica». «Ma perché tutta questa fretta di chiudere non è l’Arena», insiste Fagnani.

«Per i costi, ne avevo parlato del resto con lo stesso Giletti e Mazzi, il suo agente o amico non ho ben capito, già nel mese di gennaio». «Lei era a conoscenza» dell’ipotesi o del fatto che Baiardo avrebbe mostrato a Giletti «una foto che ritrae Silvio Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino»? «No, Giletti non me ne ha mai parlato. Come detto, aveva autonomia e io mi sono fidato».  Fagnani: «I magistrati l’hanno chiamata?». «No, non mi ha cercato nessuno». 

Tante le domande su Silvio Berlusconi e gli inizi della carriera di Cairo nel mondo del Biscione: «È stato un grande maestro per me, mi ha insegnato a non mollare mai, a motivare le persone. Perché gli sono piaciuto? Per l’intraprendenza. Non piacevo a Marcello dell’Utri? A quanto pare. Perché sono stato licenziato dalla Mondadori?

L’allora amministratore delegato Franco Tatò, un altro grande maestro, mi comunicò che avevano deciso di spostarmi a Pagine Utili. Io dissi va bene, ma voglio il 50% di quella società. Dopo un mese sono stato licenziato. Ricca liquidazione? Stendiamo un velo pietoso. Mi rimboccai le maniche e fondai la Cairo pubblicità, per i primi contratti con Rcs facevo tutto io. Una cordata per comprare Mediaset? Non c’è nulla di vero». 

E ancora: «Quanto mi piaccio? Non tanto, mi do un 7+. Io uno squalo? No, penso sempre a salvare i posti di lavoro. Destra e sinistra? Sono superate. Ma penso si debba investire nell’accoglienza dei migranti e nei giovani. I salotti buoni? Mi invitano, ma non li frequento. Tra indiani e cow boy mi collocano tra i primi? Come direbbe Meloni sono stato un underdog. Cosa mi piace del potere? Avere la possibilità di realizzare le idee. Chi riporterei in vita almeno per qualche minuto? Mia madre».

NON È L'ARENA E LA FOTO DEI MISTERI. Baiardo conferma l’incontro tra Graviano e Berlusconi. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 27 aprile 2023

I magistrati antimafia di Firenze hanno svolto accertamenti e «attività tecniche», intercettazioni, su Salvatore Baiardo, l'ex gelataio diventato famoso per aver predetto l'arresto dell'ultimo latitante stragista, Matteo Messina Denaro, approfondimenti che precedono la sua profezia.

Baiardo, inoltre, è stato utilizzato già nel 2011 «per far giungere un messaggio all'esterno del carcere a Silvio Berlusconi», a nome di altri due stragisti, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano.

Emerge dagli atti dell'inchiesta, che Domani può rivelare, coordinata dalla procura di Firenze, sui mandanti esterni alle stragi del 1993 che vede tra gli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.

La foto dei misteri sui rapporti tra i mafiosi stragisti Graviano e Berlusconi, la chiusura di Non è l’Arena e l’ipotesi che circola in procura antimafia a Firenze di sentire come testimone Urbano Cairo, l’editore di La7 e del Corriere della Sera, in quanto persona informata sui fatti, dopo che i pubblici ministeri hanno già ascoltato Massimo Giletti.

Il conduttore ha raccontato ai magistrati Luca Tescaroli e Luca Turco di aver visto uno scatto che ritrae l’ex presidente del consiglio, uno dei fratelli Graviano e il generale Francesco Delfino, il militare al centro di svariati misteri italiani. A mostrargli il documento prezioso a tal punto da poter riscrivere la storia della seconda Repubblica è stato, secondo Giletti, Salvatore Baiardo: il personaggio reso celebre da un’intervista rilasciata a Non è l’Arena in cui ha predetto l’arresto di Matteo Messina Denaro. Per quelle apparizioni televisive Baiardo è stato pagato regolarmente dalla produzione esterna a La7.

Baiardo da mago che prevede il futuro si è trasformato presto in una pedina centrale nell’indagine sui mandanti occulti delle stragi del 1993 in corso a Firenze. È il collante che tiene insieme diversi piani: è stato condannato in passato per favoreggiamento ai fratelli Graviano, ritenuto un loro portavoce, è a conoscenza, come dimostrano alcuni documenti ottenuti da Domani, degli incontri tra uno dei fratelli stragisti e Berlusconi, in procinto di “scendere in campo”.

Baiardo dunque è il ponte che unisce passato e presente: dai rapporti (ammessi dallo stesso Graviano durante gli interrogatori) con l’ex presidente del consiglio alla foto di cui ha parlato Giletti con i magistrati. Baiardo è netto nel sostenere che la foto non esiste, tuttavia intercettazioni dimostrerebbero il contrario.

Sullo sfondo di questo intreccio c’è uno scenario investigativo che punta a svelare l’identità dei mandanti occulti degli attentati eseguiti dalla mafia di Totò Riina nel 1993, le bombe sul continente, successive al tritolo che aveva trasformato le strade di Palermo in Beirut con la mattanza delle scorte e dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. I due indagati eccellenti sono Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, in passato già coinvolti in inchieste sui mandanti e prosciolti da ogni accusa. Il filo seguito dai detective lega la nascita di Forza Italia, le stragi del 1993, le presunte relazioni pericolose tra i mafiosi stragisti e Silvio Berlusconi, mediati dal fedelissimo Marcello Dell'Utri, che ha scontato una condanna per complicità con le cosche siciliane.

IL BOSS E BERLUSCONI

Per riannodare i fili di questa storia iniziata 30 anni fa è necessario partire dalla figura di Baiardo. I magistrati antimafia di Firenze hanno intercettato Baiardo almeno fino al 2021: a partire dal primo interrogatorio cui è stato sottoposto l’uomo dei Graviano. Inoltre un fatto è certo, Baiardo, è stato utilizzato già nel 2011 «per far giungere un messaggio all'esterno del carcere a Silvio Berlusconi», a nome di altri due stragisti, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Questi elementi emergono dagli atti dell'inchiesta di Firenze, in via di conclusione prima della deflagrazione del caso Giletti, e che ora invece si è arricchita di ulteriori indizi con consequenziale dilatazione dei tempi.

Arriviamo così alla foto Berlusconi-Graviano-Delfino, la cui esistenza è stata svelata da Domani, e che secondo alcuni potrebbe essere una delle cause della fine anticipata del programma condotto da Giletti. Sulle reali motivazioni della decisione non c’è nulla di ufficiale: fonti interne alla rete hanno imputato ai costi eccessivi del programma, altri sostengono che sia stata invece l’operazione Baiardo a portare a una scelta così drastica. Di certo, al momento, non c’è una versione ufficiale esaustiva.

Giletti sostiene di aver visto la foto, individuando solo un giovane Berlusconi. Convocato dai pm racconta del documento in possesso di Baiardo. I pm fiorentini peraltro hanno riscontrato la possibile esistenza ascoltando le conversazioni degli incontri tra l'ex volto di La7 e il pregiudicato. Non sarebbe così assurdo che Baiardo custodisse uno scatto tra Graviano e Berlusconi. Il motivo è da ricondurre al suo ruolo originario avuto per i padrini palermitani. C’è traccia di questo nelle carte dell’inchiesta.

A far ripartire l'indagine sui mandanti esterni ci sono i colloqui intercettati in carcere tra Giuseppe Graviano e il compagno di cella, Umberto Adinolfi, nei quali lo stragista parla di accordi economici con Berlusconi e di quegli anni di bombe e sangue innocente. In queste registrazioni c’è un riferimento a Baiardo presente agli incontri con Berlusconi: «Quando si preparavano gli incontri” e a me mi accompagnava (…) Baiardo...mi accompagna lui, io incontravo a lui», dice Graviano e specifica la ragione degli incontri «per mantenere i patti». In pratica Graviano parla della propria latitanza e della disponibilità di una casa a Milano 3, la cui proprietà apparteneva a un soggetto che lo stragista non nomina, lo definisce come ‘lui’.

«Graviano riferiva di aver utilizzato un soggetto prestanome per creare una copertura su tale immobile mentre, quando si recava agli incontri, necessari per mantenere i patti, si faceva accompagnare da Salvatore Baiardo», scrive la direzione investigativa antimafia. La novità è che, ora sappiamo, Baiardo avrebbe confermato a verbale di aver accompagnato il boss agli incontri, presunti, con Berlusconi. Per l’entourage del Cavaliere si tratta solo di falsità, messe in giro per colpirlo.

MESSAGGI AL CAVALIERE

Tra i colloqui intercettati in carcere c’è una conversazione che, nella parte finale, diventa cruciale: «Rileva l’intenzione di poter far giungere un messaggio all’esterno del carcere a Silvio Berlusconi, nella circostanza definito “B”, e così era accaduto nel 2011 quando, a tale scopo, aveva utilizzato Salvatore Baiardo», scrive Francesco Nannucci, capo centro della Direzione investigativa antimafia.

Tra il 2011 e il 2012 gli avvocati dei Graviano scrivevano alle procure competenti invitandole ad ascoltare Baiardo e lui, in quel periodo, faceva una cosa che ricorda la strategia adottata negli ultimi tempi: parlare ai giornali. Accusava, ritrattava, smentiva nominando Berlusconi per la solita storia dei presunti rapporti con i Graviano, e, anche allora, riferiva di incontri, prove e foto.

Si scopre che, in quel periodo, ha incontrato anche Paolo Berlusconi, il fratello dell’allora primo ministro, come dirà in un interrogatorio del 2011. L’incontro, aveva spiegato Baiardo, serviva a chiedere un posto di lavoro, mai ottenuto. Certamente è curioso che a distanza di tanti anni, dopo la rottura con Giletti, Baiardo annunci sui social un fantomatico ingaggio con Mediaset della famiglia Berlusconi. All’azienda non risulta, secondo molti è l’ennesimo messaggio dell’uomo dei Graviano.

I magistrati di Firenze hanno ascoltato Baiardo quattro volte e alcuni suoi racconti risulterebbero fondati e riscontrati, «il Baiardo televisivo è diverso da quello che si reca in procura», confida un investigatore.

L’INCROCIO CALABRESE

L’indagine di Firenze sui mandanti incrocia un processo calabrese sulla strategia stragista della ‘ndrangheta, la mafia calabrese, in combutta con i siciliani. Imputato e condannato Giuseppe Graviano. E in quel mare di atti spuntano diversi rapporti investigativi sia su Baiardo sia sul generale Delfino. I protagonisti della foto con Berlusconi. Nomi che ricorrono nelle carte e che si incrociano, in quegli anni, pericolosamente.

Uno degli audio che Giletti avrebbe mandato in onda se la trasmissione non fosse stata chiusa, riguarda le dichiarazioni del pentito Nino Fiume: è lui a rivelare l’impegno preso dal capo dei capi della ‘ndrangheta al nord, Antonio Papalia, per evitare il rapimento di Piersilvio Berlusconi, il figlio del Cavaliere. Papalia, c’è scritto nelle note degli investigatori reggini, era in contatto con il generale Delfino.

Molto del materiale del processo sulla ‘ndrangheta stragista è conosciuto anched dai magistrati di Firenze. Per esempio la parte in cui i detective ricostruiscono il collegamento tra i Graviano e Dell'Utri: favorito dall'imprenditore, sodale dell'ex senatore, Filippo Alberto Rapisarda, pregiudicato e socio del sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. «Il nome di Filippo Alberto Rapisarda... è indicato da Salvatore Baiardo quale trait d’union tra Dell'Utri e i Graviano per la gestione di interessi economici e, in particolar modo immobiliari, in Lombardia e Sardegna», si legge in un'informativa depositata.

Ma dalle carte, a proposito degli incroci tra Baiardo e Graviano, è spuntato anche un documento investigativo, definito di «portata eccezionale», relativo all'analisi dei movimenti dei due fratelli stragisti, eccezionale «alla luce delle nuove risultanze sulle mancate attenzioni istituzionali sulla figura di Baiardo», si legge.

I Graviano, nell'estate del 1993, erano in vacanza in Sardegna. «Il dato che qui preme evidenziare è la presenza dei due ricercati, nell’agosto del 1993, a un tiro di schioppo dalla residenza estiva del leader della istituenda Forza Italia, rendez vous dei collaboratori di Berlusconi e, si presume, anche di Dell'Utri», si legge.

Erano gli anni della decisione di Berlusconi di “scendere” in politica, la prima discussione avveniva in Sardegna nell’estate 1993, come ha confermato Gianni Letta, ascoltato nel processo Dell'Utri.

L’allora cavaliere accetta i consigli di quest’ultimo piuttosto che quelli di Confalonieri e Letta, entrambi contrari alla discesa in campo. Perché Silvio si è fatto convincere da Dell’Utri snobbando i consigli persino di Letta? I motivi non li ha rivelati né Berlusconi, né Dell'Utri.

Nell’aprile 2021, gli inquirenti hanno chiesto conto a Graviano di un'intervista in cui Baiardo riferiva che lo stragista avrebbe portato, negli anni novanta, molti soldi al Cavaliere in Sardegna. «Non ho mai incontrato Berlusconi in Sardegna», ribatteva Graviano.

CAIRO IN PROCURA

Le puntate di Giletti sulla mafia e le stragi infastidiscono Dell’Utri. In un’intercettazione, anticipata da La Repubblica, l’ex senatore manifestava irritazione contro gli approfondimenti di Giletti sui suoi rapporti con la mafia, per i quali è stato anche condannato a sette anni di carcere.

Gli investigatori della Dia scrivono: «Altra situazione che preoccupa Dell'Utri è la diffusione della puntata della trasmissione “Non è l'Arena” di Massimo Giletti, andata in onda il 10 giugno (2021, ndr), di cui si è parlato nella richiesta di cessazione a naturale scadenza delle attività tecniche a carico di Salvatore Baiardo», si legge nelle carte dell'indagine. Un altro riferimento a Baiardo, da cui è chiaro che esisteva all’epoca un intesa operazione di intercettazione sull’uomo dei Graviano. Ancora una volta inserito in una informativa sull’ex manager e senatore berlusconiano.

Siamo a giugno 2021, dunque. Dell’Utri a un pranzo parlava con l’avvocata di Mediaset, Enrica Maria Mascherpa, e con il tesoriere di Forza Italia, Alfredo Messina. Dell'Utri esprimeva la necessita di riabilitare, mediaticamente, la sua figura e costruire una strategia per difendere Berlusconi e le aziende, anche perché di lì a breve ci sarebbe stata la sentenza di secondo grado sulla trattativa stato-mafia, processo in cui Dell'Utri è stato assolto.

Tre mesi più tardi Dell’Utri ha rilasciato un’intervista affatto tenera nei confronti di Cairo pubblicata da Il Foglio: «Era un ragazzo sveglio, gli feci fare l’assistente personale di Berlusconi (…) Lui era, ed è ancora, un tipo assai rampante. E se posso, anche un pizzico irriconoscente. So bene che un editore bravo non interviene. Ci mancherebbe. Però, diamine, lui mi conosce. Come può pensare di me le cose che dicono in alcune sue trasmissioni? L’informazione è una cosa. L’accanimento è tutto un altro paio di maniche», diceva Dell'Utri.

L'ex senatore Messina ricorda il disappunto di Dell'Utri per le puntate di Giletti, tuttavia dice: «Io non ho chiamato Cairo, non saprei se lo ha fatto Dell'Utri. Di certo è stato nostro collaboratore, dipendente e assistente del presidente Berlusconi». Ora questi rapporti conditi dai riferimenti diretti espressi da Dell’Utri tornano di attualità con la decisione di chiudere “Non è L’Arena”.

Così dopo la testimonianza fornita da Giletti ai pm, un’ipotesi sembra farsi certezza: la possibile convocazione di Cairo per sentirlo come persona informata sui fatti in relazione al caso Giletti.

Contattati da Domani, l’ufficio stampa di La7 smentisce al momento una convocazione ufficiale. Dalla procura nessuna conferma e neppure nessuna smentita.

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Estratto dell'articolo di Giovanni Tizian e Nello Trocchia per editorialedomani.it il 29 aprile 2023.

Essere amico di Marcello Dell’Utri costa caro a Silvio Berlusconi. Questa è la prima certezza che emerge da alcuni documenti inediti e da decine di relazioni dell’antiriciclaggio lette da Domani. Materiale che permette di ricostruire i rapporti economici tra i due fondatori di Forza Italia, entrambi indagati a Firenze nell’indagine sulle stragi di mafia del 1993 tra il capoluogo toscano, Roma e Milano. 

Una tassa, quella Dell’Utri, che per Berlusconi era diventata insostenibile a tal punto da dover trovare un accordo che riequilibrasse questo flusso a senso unico, da Silvio a Marcello. Delle riunioni riservate c’è traccia nelle informative della Direzione investigativa antimafia fiorentina.

Incontri in cui è stato deciso il vitalizio mensile, elemento già emerso nei mesi scorsi. Ora con le nuove carte ottenute è possibile svelare come si è arrivati alla decisione di regolarizzare le donazioni a Dell’Utri, stabilendo la cifra di 30mila euro mensili, e chi sono i protagonisti di questa trattativa segreta, che coinvolge oltre a Berlusconi anche alcuni manager di Fininvest e il tesoriere di Forza Italia, Alfredo Messina. 

(...) 

Gli investigatori antimafia hanno documentato «una trattativa e una mediazione per raggiungere un accordo volto a definire, una volta per tutte, e sistematicamente, le somme di denaro che Berlusconi dovrà versare a Dell’Utri, situazione più volte sollecitata anche da Miranda Ratti (moglie dell’ex senatore, ndr)... Se in precedenza vi erano bonifici saltuari, di importo variabile, ora l’accordo ha stabilito definitivamente una somma mensile, alla quale si andranno ad aggiungere altre somme indirette, quali pagamenti per acquisto e ristrutturazione di immobili, per notule degli avvocati di Dell’Utri e situazioni simili».

A condurre questa «mediazione» e «trattativa» per conto di Berlusconi c’è Alfredo Messina, ex potente manager Fininvest, vicepresidente di Mediolanum e tesoriere di Forza Italia, con Maria Enrica Mascherpa, attuale direttore dell’Ufficio Legale di Fininvest e in un’occasione anche Nicolò Ghedini, lo storico avvocato del Cavaliere scomparso l’anno scorso. 

«Alfredo (Messina, ndr) mi ha chiamato che andava ad Arcore ... dove c’era Ghedini...che facevano la riunione e decretavano questa cosa mia ... perché dice che ci vuole il consenso», dice Dell’Utri intercettato, in attesa di ottenere una risposta sulla definizione del sostentamento di Berlusconi. Le riunioni più importanti in cui definiscono i contorni dell’accordo sono tre, tutte a inizio 2021: il 23 febbraio ad Arcore, il 28 febbraio e il 2 marzo negli uffici Fininvest. Nel mezzo e nelle settimane successive sono stati organizzati pranzi e cene alla presenza anche di Dell’Utri.

All’esito di di una di queste riunioni, negli uffici di Fininvest, le intercettazioni rivelano un ulteriore novità: «Trattandosi di cifre elevate, all’esito dell’incontro è stato richiesto a Dell’Utri di scrivere una lettera da recapitare a Silvio Berlusconi al fine di far autorizzare tutte le spese sopra evidenziate», è scritto nell’informativa della Dia. 

«Adesso gli faccio la lettera e gli mando anche un messaggio a parte», è il desiderio dell’ex senatore, che i detective spiegano così: «È intenzione di Dell’Utri accompagnare la lettera da un messaggio scritto separato. Inoltre, in occasione del prossimo incontro con Messina, nel corso del quale consegnerà la lettera e il biglietto manoscritto, Dell’Utri chiederà al predetto di chiamare al cellulare Berlusconi per poterci parlare». 

Arriviamo così all’11 maggio. È il giorno in cui il ragioniere Giuseppe Spinelli, contabile dei segreti finanziari di Berlusconi, ha ricevuto una mail da due manager di Fininvest, con il via libera all’operazione vitalizio per Dell’Utri. L’oggetto del messaggio di posta elettronica: «Lettera all’amico - risposta».

Il testo: «Gentile Dottor Dell’Utri, il Dottor Berlusconi mi ha dato disposizione di accreditare a Suo favore la somma di euro 30.000 mensili. Provvederemo quanto prima all’accredito della somma corrispondente al primo semestre 2021 e successivamente con cadenza semestrale anticipata. Voglia cortesemente farmi avere gli estremi del Suo Iban. Con i migliori saluti». Accordo raggiunto, quindi, e seguito passo passo dai vertici dell’ufficio legale del colosso aziendale della famiglia Berlusconi. 

«Berlusconi non abbandona mai gli amici», replica Messina, che sulle riunioni sostiene di non ricordare, ma di avere eseguito solo disposizioni. «I versamenti sono stati fatti sempre dai conti personali del presidente mai dall’azienda», specifica Messina, «30 mila euro, troppi? Chi riceve ha avuto un ruolo centrale nella crescita delle aziende con incarico di vertice in Publitalia». Nessun ricatto, perciò, solo enorme riconoscenza. 

Che sia andato tutto per il verso giusto per Dell’Utri emerge anche dai documenti dell’antiriciclaggio finora inediti. 

Una segnalazione di operazione sospetta con cui l’autorità di Banca d’Italia evidenzia anomalie finanziarie rivela la buona riuscita della trattativa: «Da analisi del rapporto sono emersi due bonifici, ciascuno di 90.000 euro, disposti a maggio e giugno 2021 da Silvio Berlusconi, entrambi recanti causale “Donazione di modico valore”. Il cliente ha chiesto l’emissione di una carta di credito che la filiale ha però negato e, a fine giugno, ha quindi richiesto di effettuare un bonifico di 10.000 euro direzionato su una carta prepagata a sé intestata, emessa da una società lituana, chiedendo contestualmente le credenziali per l’accesso all’home banking, onde poter gestire in autonomia il rapporto di conto corrente».

Entrambe le richieste, tuttavia, sono state negate dalla banca. Il segno dei tempi e dei processi, il cliente Dell’Utri non è più affidabile come un tempo.

DA PUBLITALIA A OGGI. Le indagini dell’antiriciclaggio sui milioni di Berlusconi versati a Dell’Utri. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 30 aprile 2023

Oltre a un vitalizio da 30mila euro al mese, Berlusconi ha elargito milioni di euro alla famiglia dell’ex senatore. La storia dei soldi dati dal pregiudicato alla banca di Verdini poi fallita. Il faro sui bonifici dei tempi delle stragi

Prima dell’accordo grazie al quale Marcello Dell’Utri ha beneficiato di un vitalizio mensile da 30mila euro al mese, Silvio Berlusconi ha elargito milioni di euro alla famiglia dell’ex senatore, condannato per collusione con la mafia. Domani ha svelato le riunioni e le trattative condotte per fare fronte alle continue richieste dell’ex senatore, cofondatore di Forza Italia ed ex manager del colosso televisivo.

Negoziati portati avanti da manager di Fininvest, da avvocati e dal tesoriere di Forza Italia, Alfredo Messina. Il patto economico è stato raggiunto nei primi mesi del 2021. Figlio di una vera e propria «trattativa», così la definiscono gli investigatori dell’antimafia nelle informative depositate nell’inchiesta di Firenze sulle stragi del 1993 condotta dai magistrati Luca Tescaroli e Luca Turco, nella quale sono indagati sia Berlusconi sia Dell’Utri per concorso in strage.

I documenti finora inediti dell’antiriciclaggio permettono di ricostruire nei dettagli questi flussi precedenti all’accordo, ritenuti sospetti anche perché disposti negli anni dei processi per collusione con la mafia di Dell’Utri. Decine di segnalazioni sul denaro che da Berlusconi sono approdati sui conti Dell’Utri e famiglia. Una montagna di denaro, che a partire dal 2011 arrivano al 2021. 

DEBITI E VERDINI

La segnalazione più rilevante è sugli 8 milioni di euro versati dal Cavaliere, Dell’Utri li utilizza in gran parte per effettuare bonifici e soprattutto per ripianare debiti con le banche. È il 2011. Tra i creditori c’era il Credito Fiorentino. Dei soldi ricevuti da Berlusconi, Dell’Utri usa 1,6 milioni per ridurre il debito con l’istituto allora presieduto da Dennis Verdini, altro fedelissimo finito in disgrazia. La banca è fallita l’anno successivo, nel 2012. Per il crack Verdini è stato condannato in via definitiva a sei anni.

Il 2012 è un altro periodo di grande generosità berlusconiana in un momento difficile per Dell’Utri, all’epoca ancora sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. La segnalazione 2012 rileva «fondi di importo considerevole trasferiti da Berlusconi a Dell’Utri o a soggetti allo stesso riconducibili, presumibilmente nell’ambito della compravendita di un complesso immobiliare sito in Comune di Torno (CO) denominato “Villa Comalcione” ceduto da Dell’Utri a Berlusconi». In particolare, a marzo 2012, Berlusconi aveva disposto un bonifico di quasi 3 milioni in favore di Dell’Utri, titolare del conto nella banca di Verdini. Altri 15,7 milioni il Cavaliere li versa alla moglie dell’ex senatore. La donna con quella provvista effettuerà un giroconto su un suo conto nella Repubblica domenicana di 11 milioni, causale «per acquisto immobile».

IL CARCERE E LA YACHT

Nel 2016, Dell’Utri era in carcere per scontare la pena a sette anni per concorso esterno alla mafia, l’ex primo ministro versa a uno dei figli un milione di euro, usati da Dell’Utri junior per «pagare i legali del padre e somme ingenti per il noleggio di uno yacht di lusso». Lo stesso anno, segnala l’antiriciclaggio, sui conti della moglie dell’ex senatore Berlusconi invia 2 milioni di euro come «prestito infruttifero».

Nel 2017 sul conto della moglie di Dell’Utri i detective antiriciclaggio, oltre a segnalare operazioni su conti esteri, sottolineano un bonifico dell’ex presidente del consiglio di mezzo milione di euro. 

Il 2018 è l’anno della condanna in primo grado nel processo trattativa stato-mafia, Dell’Utri è poi stato assolto nei giorni scorsi in Cassazione. Quell’anno la moglie incassa da Berlusconi tre bonifici per un totale di 1,9 milioni, causale è sempre la solita: «Prestito infruttifero». Oltre 200mila servono per pagare uno degli avvocati di Dell’Utri.

Due mesi prima della sentenza di primo grado sulla trattativa stato-mafia, Berlusconi fa un altro regalo da 1,2 milioni alla moglie dell’amico imputato. A venti giorni dal verdetto palermitano un nuovo versamento sui conti della donna pari a 800mila euro: 300 li gira al figlio, il quale userà parte della provvista per un «finanziamento soci infruttifero» alla società di cui è azionista, la Finanziaria Cinema srl. Soltanto nel 2018, quindi, il capo di Forza Italia ha versato quasi 4 milioni ai Dell’Utri. 

LA CASA 

L’anno successivo, il 2019, l’antiriciclaggio segnala un altro movimento sospetto: un  bonifico da mezzo milione destinato alla consorte di Dell’Utri, proveniente dal solito Berlusconi. Tuttavia i detective di Banca d’Italia individuano anche una compravendita di una villa liberty in un quartiere di Milano da poco riqualificato, “il villaggio del sarto”. In pratica ad attirare l’attenzione è un atto preliminare di vendita tra i Dell’Utri e la società “Quartiere del sarto” il cui rappresentante legale è Simon Pietro Salini, dell’omonima famiglia di costruttori coinvolti nella progettazione del Ponte sullo Stretto, pallino di Berlusconi e riportato in auge da Matteo Salvini.

Il prezzo pattuito per la casa di pregio in centro a Milano è di 1,2 milioni di euro. Dai documenti letti risulta però che alla fine di dicembre 2019 l’atto è stato annullato e alla signora Dell’Utri ha ottenuto la restituzione di 200 mila euro versati come caparra. Poco dopo però Salini ha avuto una nuova offerta della stessa cifra. Il nuovo acquirente è l’immobiliare Dueville srl, tra gli azionisti diverse società, molte delle quali «riconducibili a Silvio Berlusconi», si legge nelle carte dell’antiriciclaggio.

Negli anni successivi, fino al 2021, il canovaccio si ripete fino al vitalizio concordato per l’ex senatore di 30mila euro al mese. Alla pensione d’oro offerta all’ex senatore vanno aggiunti altri benefit, come la ristrutturazione della casa della figlia.

ANNI NOVANTA

Nel fascicolo dell’inchiesta sulle stragi del 1993 c’è molto altro sulle origini dei rapporti economici tra Dell’Utri e Berlusconi. Sono stati allegati gli atti del processo di Torino scaturito dall’inchiesta su Publitalia e le fatture false con Fininvest. Dell’Utri era il principale imputato. Da quelle carte emergono dazioni di denaro extra ricevute dall’allora manager berlusconiano, principale artefice della nascita di Forza Italia. Berlusconi sentito come testimone in quel processo contro l’amico aveva confermato le elargizioni, dal canto suo Dell’Utri aveva dichiarato di aver ricevuto una somma intorno ai 5 miliardi di lire tra contante e valori mobiliari. 

Per l’antimafia sono regali importanti se contestualizzati al periodo in cui si concretizzano, «storicamente individuabile in quello delle stragi continentali, ma anche della nascita del partito di Forza Italia, dell’impegno politico di Silvio Berlusconi, del concorso di Dell’Utri nella nascita del partito e del suo ruolo nei rapporti tra Berlusconi e persone appartenenti alla mafia siciliana, e, non ultimo, tra il 18 e il 21 gennaio 1994, l’incontro al bar Doney, per arrivare all’arresto dei fratelli Graviano il 27 gennaio 1994». 

I Graviano sono i mafiosi stragisti attorno ai quali ruota l’inchiesta di Firenze e ai loro rapporti con Berlusconi e Dell’Utri. Secondo il pentito Gaspare Spatuzza, al bar Doney, Giuseppe Graviano gli disse che «avevano il paese nelle mani» grazie all’interlocuzione con Berlusconi e il loro compaesano Dell’Utri. 

LA CARTA DIMENTICATA

Per tutti questi motivi, secondo gli investigatori antimafia è rilevante anche un altro documento del processo Publitalia: si tratta della causa di lavoro che Dell’Utri ha mosso contro Fininvest nell’ottobre 1994 per demansionamento. Era l’anno d’oro della discesa in politica e della vittoria elettorale, Berlusconi e Dell’Utri erano una cosa sola. Ancora più strano quel che è accaduto il giorno stesso della presentazione della causa con una conciliazione tra i legali delle due parti  che riconosce a Dell’Utri un ammontare di tre miliardi e mezzo di lire «quale risarcimento del danno e incentivo all’esodo», somma più alta di quella chiesta dal fido sodale.

La causa di lavoro serviva a giustificare un’elargizione personale di Berlusconi a Dell’Utri «in modo legale», emerge dalla sentenza di Torino.

La conclusione degli inquirenti in una delle informative dell’inchiesta sulle stragi lega quelle dazioni del 1994 al mutato contesto di relazioni con la mafia: «L’appunto sequestrato (sui 3 miliardi e mezzo, ndr) è relativo al giugno 1994, la causa del lavoro è del fine ottobre dello stesso anno. Ancora una volta il 1994. Dopo l’arresto dei fratelli Graviano, il quadro dell’anno offre un dinamismo finanziario “intenso”, volto quasi a impostare nuovi andamenti, scevri dalla necessità di confrontarsi economicamente con una vecchia compagine mafiosa siciliana, verso la quale si era debitori al fine di instaurare affari economici legati al mondo dell’edilizia, ma per proporsi, anche per il tramite di nuovi contatti con la mafia, individuati da Dell’Utri, a cui va riconoscenza, non per consolidare gli affari immobiliari o televisivi, ma per acquistare, questa volta, potere politico». Ipotesi per chi indaga. Solo teoremi e fango come sostengono i fedelissimi del capo di Forza Italia. Per capire chi avrà ragione bisognerà attendere la fine dell’indagine di Firenze. 

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Nello Trocchia è inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Mario Mori ha confessato la “trattativa Stato-mafia”? Ecco perché è una bufala. L'ex Ros nel 1998 ha detto nella sua deposizione al processo di Firenze quello che già aveva riferito nel 1993 alla procura di Palermo. Ma non ha nulla a che fare con la tesi della "trattativa". Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 4 maggio 2023

Pur di non ammettere che la tesi giudiziaria è polverizzata, si cerca di confondere l’opinione pubblica sovrapponendo la “trattativa” (o meglio un bluff), quella intercorsa tra gli ex Ros e Vito Ciancimino (e riferita alla procura di Palermo già nel 1993, senza che giustamente i pubblici ministeri ravvisassero elementi “indicibili”) e la “Trattativa Stato- mafia” che racconta una storia totalmente diversa e smantellata con le assoluzioni definitive.

Prima di entrare nel merito della “confessione” dell’ex Ros Mario Mori, bisogna ripartire dai capi d’accusa che dettero l’avvio al processo Trattativa. È qui che si costruisce la storia – in seguito completamente sbugiardata dai fatti - raccontata dai pubblici ministeri palermitani di allora. Il capo A della richiesta di rinvio a giudizio indica l’esistenza, a partire dal 1992, di un articolato piano di attentati ordito dai vertici di Cosa nostra per “ricattare lo Stato” e costringerlo a ridimensionare l’azione di repressione e contrasto alle organizzazioni mafiose, la cui realizzazione avrebbe avuto inizio con l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima per poi proseguire con la progettazione di omicidi e l’esecuzione di stragi. 

Secondo l’accusa, il proposito criminoso dei vertici mafiosi si sarebbe rafforzato in ragione della condotta tenuta da alcuni esponenti delle istituzioni preposte alla difesa della sicurezza interna e all’applicazione di misure repressive delle azioni criminali. Più precisamente, sulla base della tesi esplicitata dal pubblico ministero, in alternativa a una fisiologica repressione del crimine mafioso senza mediazione alcuna da parte degli organi pubblici competenti (forze dell’ordine, polizia giudiziaria, magistratura), alcuni pubblici ufficiali e alcuni esponenti politici di primo piano avrebbero attivato “canali di dialogo” con esponenti mafiosi, manifestatisi trasversalmente e in forme diverse nel circuito istituzionale a partire dall’estate del 1992. Il “dialogo” avrebbe avuto a oggetto la disponibilità a trattare sulla concessione di benefici penitenziari e sull’intervento penale in cambio della cessazione degli attentati. In altri termini gli atti di minaccia indicati dai Pm di Palermo, suscettibili di integrare l’ipotesi di reato cui all’art. 338 del codice penale (violenza o minaccia a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario), e materialmente attribuiti ai capi della organizzazione mafiosa, vengono connessi alle condotte degli ex Ros ed esponenti politici (più precisamente Calogero Mannino in qualità di ministro) che, agendo con abuso di potere e in violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione, hanno finito per rafforzare il proposito criminoso dei primi sempre pronti a rinnovare le minacce per ottenere quanto preteso, così integrando una ipotesi di concorso morale.

In sostanza, così come d’altronde si legge nella richiesta di rinvio a giudizio, la storia “Trattativa Stato-mafia” si svolge in questo modo: le ripetute minacce all’indirizzo dell’onorevole Mannino, a partire dal febbraio del 1992, sarebbero finalizzate a creare un “rapporto di interlocuzione nuovo” con il mondo politico, per la cura degli interessi finanziari e per contenere l’azione repressiva dello Stato, una volta che Cosa nostra ha deciso di eliminare alcuni referenti del passato quali l’onorevole Lima. Quindi cosa accade secondo questa narrazione meta- giudiziaria? Mannino, tramite l’allora capo dei Ros Antonio Subranni, ordinò l’avvio di questa trattativa per salvare la sua pelle. Gli ex ros Mori e De Donno si misero al servizio della politica instaurando il dialogo con Vito Ciancimino, che sfociò nella redazione di un documento proveniente da Riina, il cosiddetto “papello”, con una serie di richieste scritte sui benefici per la organizzazione mafiosa, relativi principalmente alla legislazione penale, in cambio della cessazione delle stragi. Documento fatto pervenire per il tramite di Antonino Cinà, uomo vicino a Riina.

Tutta questa narrazione è stata smantellata da varie sentenze definitive che hanno dovuto affrontare anche la storia della “trattativa Stato-mafia”: a partire da quella su Mannino il quale scelse il rito abbreviato, quella sulla cosiddetta mancata perquisizione del “covo” di Riina e la “Mori-Obinu” sulla presunta mancata cattura di Provenzano, fino all’esito giudiziario attuale sancito dalla Cassazione. Non è vero che Mannino dette l’input all’avvio della trattativa, non è vero che gli ex Ros hanno veicolato la minaccia al governo e non è vero che quest’ultimo si è piegato di fronte alle minacce. Nessun patto indicibile con la mafia.

Ma quindi Mori ha confessato tale “trattativa Stato- mafia”? Non ha confermato una sola virgola di questa narrazione. In questi giorni si ripesca la sua deposizione del 24 gennaio 1998 durante il processo di Firenze sulle stragi continentali del 1993. Si riporta in sostanza questo suo passo in merito ai contatti che ha avuto con don Vito: “Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro, contro muro. Da una parte c’è Cosa nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”. Ha confessato cosa? Sostanzialmente ciò che era già a conoscenza dalla procura di Palermo nel 1993, quando Ciancimino stesso fu sentito e messo al verbale tutto. Nulla che ha fatto sobbalzare i pubblici ministeri di allora. Nulla a che fare con la storia della “Trattativa Stato- mafia” narrata in seguito dalla pubblica accusa. E in che cosa è consistita? Mori stesso lo ribadisce in quella famosa deposizione che ora va di moda ripescarla. Fu un bluff. Ciancimino abboccò all’amo. Nel quarto incontro, infatti don Vito disse a Mori: “Quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l’intermediario sono io e che la trattativa si svolga all’estero. Voi che offrite in cambio?”.

Ebbene, sempre Mori racconta che a quel punto non poteva più allargare il brodo, perché sapeva benissimo che quella manovra della trattativa fosse un escamotage per uscire dai domiciliari e rifugiarsi in sicurezza all’estero. E allora gli disse: “Beh, noi offriamo questo: i vari Rina, Provenzano e soci si costituiscano e lo Stato tratterà bene loro e le loro famiglie”. A quel punto Ciancimino si inalberò, comprese il bluff, e rispose: “Ma voi mi volete morto!?”. Un bluff che poi servì perché si aprì un varco: Ciancimino li ricontattatò per accettare di aiutarli ad arrivare a Riina e Provenzano, si propose di fare una specie di agente provocatore per inserirsi nel mondo degli appalti, voleva in cambio un aiuto per aggiustare la sua posizione giudiziaria, e propose di voler essere ascoltato in commissione antimafia. Non male. Ma tutto sfumò nel momento in cui Ciancimino fu – su segnalazione dell’allora guardasigilli Martelli – riportato in carcere di Rebibbia. Dopodiché decise in quale modo di continuare a collaborare. A quel punto Mori avvisò il neocapo procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Quest’ultimo e l’allora pm Ingroia, decisero di ascoltare Ciancimino. Ed è proprio quest’ultimo – precisamente parliamo del verbale datato 17 marzo 1993 - a raccontare di trattative, contatti con gli intermediari mafiosi a seguito del dialogo instaurato con i Ros. Parlò pure della proposta da lui considerata oscena che gli fece Mori: quella della resa, la consegna di Riina e Provenzano. Tutto. Ma non è la “trattativa Stato-mafia”, quella che poi verrà narrata in seguito al livello processuale. Altrimenti, Caselli stesso, persona indiscutibilmente seria ed integerrima, avrebbe subito inquisito Mori. Nessuna confessione. E ci vuole tanta disonestà intellettuale nel riproporre questa bufala ben sapendo che l’opinione pubblica non è a conoscenza di questi fondamentali dettagli. 

(ANSA il 4 maggio 2023) - L'avvocato di Silvio Berlusconi Giorgio Perroni ha annunciato che domani presenterà una denuncia contro la "ignobile e illegale fuga di notizie" riguardo le indagini della Procura di Firenze sulle stragi del 1993. 

"Ancora oggi - ha spiegato il legale - appaiono sul Fatto Quotidiano due articoli che riportano il contenuto di atti di indagine, coperti da segreto istruttorio, compiuti nel procedimento penale pendente dinanzi alla Procura della Repubblica di Firenze, PP.MM.

Tescaroli e Turco, nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Addirittura, il giornalista afferma che è sua intenzione celebrare il trentennale dalle stragi del 1993 parlando dell'inchiesta fiorentina sui mandanti esterni con la pubblicazione di documenti inediti". 

Ma, ha sottolineato Perroni, "da almeno un quarto di secolo tutte le più insensate accuse di presunta mafiosità contro Silvio Berlusconi si sono sempre dimostrate false e strumentali, tant'è vero che ogni volta gli stessi inquirenti sono stati costretti a chiederne la archiviazione". Ed è "doveroso" ricordarlo".

"Di fronte a questa continua, incessante e calunniosa macchina del fango - ha concluso -, confermo che, come già anticipato, domani presenterò una denuncia alla Procura della Repubblica, chiedendo che i Magistrati si adoperino per individuare quanto prima i responsabili e far cessare questa ignobile ed illegale fuga di notizie".

Estratto dell’articolo di M.L. per "il Fatto quotidiano” il 4 maggio 2023.

Sono passati 30 anni dalle stragi del 1993. Il 14 maggio sarà il trentennale dell’autobomba esplosa in via Fauro vicino al Teatro Parioli, a Roma, al passaggio della Mercedes che portava a casa il conduttore tv Maurizio Costanzo insieme alla futura moglie, l’allora semisconosciuta Maria De Filippi. Seguirà nella notte tra 26 e 27 maggio la strage di via dei Georgofili, dietro agli Uffizi. […] 

Quindi, il 27 luglio, il doppio botto intorno alla mezzanotte: un’autobomba davanti al Pac di via Palestro a Milano uccide 5 persone, mentre altri due ordigni sfigurano (senza vittime) le basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma. Quella notte i centralini di Palazzo Chigi saltano e il premier Ciampi pensa al colpo di Stato.

[…] Tutto finisce con l’attentato fallito dell’Olimpico di Roma. Il 23 gennaio 1994, dopo Roma-Udinese, dovevano morire 100 carabinieri ma la Lancia Thema imbottita di tritolo non esplode per un guasto al telecomando. Il 27 gennaio 1994 vengono arrestati i boss Giuseppe e Filippo Graviano. Il giorno prima era sceso in campo Silvio Berlusconi che due mesi dopo vincerà le elezioni. La mafia non farà esplodere più nulla. Nemmeno un cassonetto. 

Nel disinteresse generale i pm di Firenze Luca Turco e Luca Tescaroli stanno cercando di capire perché le stragi sono iniziate e perché sono finite. Berlusconi e il fido Dell’Utri sono indagati per l’ipotesi di strage in concorso con i Graviano, ipotesi che gli interessati respingono ovviamente con sdegno.

La Procura di Firenze indaga da 27 anni a intermittenza sui fondatori di Forza Italia. L’inchiesta sui “mandanti esterni” (le uniche condanne per ora sono state inflitte solo a boss mafiosi) è stata aperta e chiusa già 4 volte su richiesta dei pm stessi. […] 

La commemorazione con la censura incorporata sulle indagini in corso non fa onore a nessuno. […] Una trasmissione televisiva ha osato avvicinarsi a questa inchiesta. Non è l’Arena si sarebbe occupata delle indagini sui rapporti triangolari tra Berlusconi, Dell’Utri e Cosa Nostra.

Massimo Giletti aveva chiesto a chi scrive di partecipare a una o più trasmissioni sull’inchiesta fiorentina, portando in tv il bagaglio di conoscenze mostrate sulle pagine del Fatto. Eravamo perplessi sul fatto che l’editore Cairo fosse d’accordo su una trasmissione certamente non gradita a Berlusconi e compagni. 

Giletti ci aveva rassicurato entrando persino nel dettaglio dei contenuti: le conversazioni intercettate e i milioni di euro da Berlusconi a Dell’Utri, gli antichi rapporti con la mafia di quest’ultimo. Il 12 aprile Giletti ci aveva scritto questo messaggio: “Poi ci dobbiamo vedere per pianificare...!”. Il giorno dopo Non è l’Arena è stata cancellata con una email di La7.

[…]

Estratto dell’articolo di Marco Lillo per "il Fatto quotidiano” il 4 maggio 2023.  

Secondo la Dia, Giuseppe Graviano nel 2016 avrebbe confidato al compagno di detenzione, Umberto Adinolfi, un segreto: la strage dello Stadio Olimpico, tentata e fallita dagli uomini dello stesso Graviano, il 23 gennaio 1994, gli sarebbe stata chiesta da Silvio Berlusconi. È solo un’ipotesi investigativa. Lo stesso Graviano, interrogato sul punto, non ha confermato la lettura data dalla Dia delle sue parole.

Però le ultime righe dell’informativa del 16 marzo 2022 di 72 pagine, firmata dal capo centro della Dia di Firenze, Francesco Nannucci, sono nette: “Si può affermare che la conversazione ambientale del 10 aprile 2016, oggetto di rivalutazione nel corso dell’odierna delega di indagine è riconducibile al contesto criminale relativo alla strage dell’Olimpico del 23 gennaio 1994, con il coinvolgimento di Silvio Berlusconi, per il tramite di Marcello Dell’Utri, quale diretto interessato alla sua realizzazione”.

Vediamo come la Dia arriva a queste conclusioni. Si parte dal video registrato il 10 aprile 2016 in cella ad Ascoli Piceno. Graviano parla con Adinolfi e le telecamere nascoste riprendono. “Graviano – scrive la Dia – fa alcuni riferimenti all’investimento di 20 miliardi di lire che il nonno e altre persone hanno effettuato nelle attività delle imprese riconducibili a Silvio Berlusconi”. Va detto subito che Berlusconi e Dell’Utri negano tutto e i legali parlano di accuse infondate e fantasiose. 

Graviano torna sul punto con i pm di Firenze il 20 novembre 2020: “Mio nonno portò me e Salvatore (cugino di Graviano, ndr) a Milano a incontrare Silvio Berlusconi. L’incontro avvenne all’Hotel Quark (…) con Berlusconi ho avuto un incontro anche nel 1985/1986, allorquando ero già latitante (...) sapeva che io ero latitante”.

Nell’informativa c’è spazio per la sentenza Dell’Utri: “I legami di Silvio Berlusconi con la mafia palermitana erano già noti sin dagli anni 70, come peraltro emerso nel processo palermitano a carico di Marcello Dell’Utri”, nel quale “venivano confermati i rapporti con Cosa Nostra almeno fino all’anno 1992”. Poi si torna al colloquio Graviano-Adinolfi. La Dia prosegue così: “Altro aspetto importante è il riferimento che Graviano fa al tentativo da parte di alcuni esponenti della politica siciliana del tempo, convenzionalmente definiti ‘i vecchi’, di far cessare le stragi”.

Per la Dia, Graviano si riferisce ad alcuni esponenti della vecchia Democrazia Cristiana “tra i quali il senatore Vincenzo Inzerillo, strettamente legato a Giuseppe Graviano”, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo l’interpretazione data alle parole di Graviano dalla Dia, Inzerillo voleva far cessare le stragi a fine 1993 mentre, sempre per la Dia, Graviano sostiene che Berlusconi voleva farle proseguire. Tesi accusatorie tutte da provare che la Dia argomenta partendo dal video del 10 aprile 2016. 

Il boss di Brancaccio quando parla della “bella cosa” fa un gesto con la mano che per la Dia è una “mimica riconducibile a un evento esplosivo”. Lo fa quando corregge l’errore di comprensione del compagno di detenzione. “Adinolfi sembra convinto – scrive la Dia – che Silvio Berlusconi avesse anch’egli interagito con Giuseppe Graviano al fine far terminare il periodo stragista (“per bloccare l’azione”), ma al contrario, quest’ultimo prima risponde negativamente: “Noo!” e poi aggiunge: “Anzi meglio, anzi... lui mi disse, dice: ‘Ci volesse una bella cosa’”.

Secondo l’interpretazione della Dia, quindi, la “bella cosa” sarebbe l’attentato di cui Graviano parlò ai tavolini del bar Doney a Gaspare Spatuzza nel gennaio 1994 per chiedergli di dare ‘il colpo di grazia’ allo stadio Olimpico. 

[…] Per puntellare il ragionamento la Dia ricorda le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia (Pietro Romeo e Giovanni Ciaramitaro) che nel 1995/96, parlarono, de relato, della confidenza riferita loro da Francesco Giuliano, un altro mafioso non pentito, sulla richiesta di Berlusconi di fare le stragi. Romeo già il 14 dicembre 1995 riferisce la confidenza di Giuliano sul fatto che c’era “un politico di Milano che aveva detto a Giuseppe Graviano di continuare a mettere bombe”.

Poi il 29 giugno 1996 Romeo precisa che il nome lo aveva appreso in un colloquio a tre con Spatuzza e Giuliano. Quando chiesero a Spatuzza, “se era Berlusconi la persona che c’era dietro gli attentati. Spatuzza aveva risposto di sì”. Giuseppe Graviano, però, sentito nel 2020 e nel 2021 dai pm di Firenze, ammette che si riferiva a Berlusconi solo quando parlava degli investimenti del nonno e della sua delusione per le leggi sul 41 bis. Ma a domanda specifica “Ci dica se Berlusconi è stato il mandante delle stragi?” il boss glissa: “Non lo so se è stato lui”. 

La Dia vede il bicchiere mezzo pieno: “Graviano non nega che Berlusconi sia stato il mandante, ma neanche lo ammette, prendendo una posizione interlocutoria”. E sottolinea che nel colloquio intercettato in cella del 14 marzo 2017 “è lo stesso Graviano che imputa a Silvio Berlusconi di essere il mandante delle stragi (...) ‘Tu mi stai facendo morire in galera... che sei tu l’autore... io ho aspettato senza tradirti...’” .

L’autore, inteso come autore delle stragi, è dunque l’interpretazione della Dia che non crede ai verbali più vaghi sul punto di Graviano. “In sede di contestazione da parte dei magistrati, Graviano, cercando di fornire un improbabile giustificazione, riconducendo il tutto alla mera questione relativa agli investimenti economici del nonno materno, di fatto forniva indirettamente la conferma che il mandante delle stragi era appunto Silvio Berlusconi. Infatti – prosegue la Dia – opportunamente incalzato sul punto, alla domanda del pm: ‘E che sei tu l’autore, l’autore di cosa?’, Graviano ribadiva con un laconico: ‘Non posso rispondere’, volendo, evidentemente, coprire, o non escludere, il possibile coinvolgimento di Berlusconi”.

Secondo la Dia “è chiaro, qualora ve ne fosse ancora bisogno, che Graviano ha inteso ‘coprire’ Berlusconi, non lo ha voluto tradire raccontando tutto quello che sa, sia nei rapporti con suo nonno e suo cugino, sia in rapporti ulteriori e diversi di cui Berlusconi era attore, ma che non ha voluto specificare. Il termine ‘tradire’, infatti, trova più giustificazione verso la rivelazione di un segreto che avrebbe certamente procurato un forte nocumento a Berlusconi, per qualcosa di cui quest’ultimo era ‘autore’, più che in un mancato rispetto di un patto economico che lo stesso avrebbe consolidato con il nonno di Giuseppe Graviano”. 

Per la Dia “sono stati raccolti sufficienti indizi per ritenere che i riferimenti di Graviano nel colloquio con Adinolfi, siano per il coinvolgimento di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nella strage dell’Olimpico di Roma del 23.1.1994 e non per altri episodi, mai riscontrati. […] Accuse pesantissime che gli indagati smentiscono e che allo stato non sono dimostrate.

Narrazioni fantasiose dei Pm. Berlusconi, stop a ignobile macchina del fango. Il legale: “Presenterò denuncia contro il Fatto Quotidiano”. Giulio Pinco Caracciolo su Il Riformista il 4 Maggio 2023 

Il legale di Silvio Berlusconi, l’avvocato Giorgio Perroni spiega in una nota la volontà del suo assistito a presentare una denuncia alla Procura della Repubblica per la “continua, incessante e calunniosa macchina del fango contro il Cavaliere”.

Perroni sollecita i Magistrati affinché si adoperino “per individuare quanto prima i responsabili e far cessare questa ignobile ed illegale fuga di notizie”. Ancora oggi – prosegue il legale – “appaiono sul Fatto Quotidiano due articoli che riportano il contenuto di atti di indagine, coperti da segreto istruttorio, compiuti nel procedimento penale pendente dinanzi alla Procura della Repubblica di Firenze, PP.MM. Tescaroli e Turco, nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.”

L’avvocato di Berlusconi sottolinea che “addirittura, il giornalista afferma che è sua intenzione celebrare il trentennale dalle stragi del 1993 parlando dell’inchiesta fiorentina sui mandanti esterni con la pubblicazione di documenti inediti”. Secondo Perroni, tuttavia, “è, anzitutto, doveroso ricordare, ancora una volta, che da almeno un quarto di secolo tutte le più insensate accuse di presunta mafiosità contro Silvio Berlusconi si sono sempre dimostrate false e strumentali, tant’è vero che ogni volta gli stessi inquirenti sono stati costretti a chiederne la archiviazione”.

Solidale con Berlusconi anche il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri: “La clamorosa sentenza sulla presunta trattativa Stato-mafia evidentemente irrita gli inventori di teoremi. Da quel processo, dopo decenni, sono usciti a testa alta il generale Mori, il generale Subranni, il colonnello de Donno e lo stesso Marcello dell’Utri. Erano state inventate ricostruzioni incredibili. E ancora ne circolano in alcune procure. Io mi chiedo se il Ministro della Giustizia non debba disporre delle ispezioni anche in queste procure, che alimentano ricostruzioni che definire fantasiose vuol dire usare un termine fin troppo riduttivo.”

La mafia – conclude il senatore –  “è stata stroncata soprattutto dai governi di centrodestra. Che hanno reso permanente e poi irrobustito il 41 bis. Che hanno dato forza e fiducia ai reparti speciali delle Forze dell’Ordine, che hanno registrato risultati eclatanti. Questa è la verità della storia. Invece toghe rosse e toghe creative alimentano narrazioni smentite del resto dagli stessi tribunali o dalla Cassazione, che hanno avuto il coraggio di certificare la verità. Alcuni articoli poi rappresentano un penoso modo di alimentare campagne basate su teoremi inesistenti e irrispettosi della verità. Che squalificherebbero chi le sigla, se non fosse già sommerso da una montagna di fanfaluche che ha prodotto nel corso dei decenni”.  Giulio Pinco Caracciolo

Anticipazione da “Gente” il 18 maggio 2023. 

Massimo Giletti è stato censurato dalla casa editrice Solferino. È quanto rivela il settimanale Gente, in edicola da venerdì 19 maggio. 

Giletti aveva scritto l’introduzione al libro di Ferruccio Pinotti “Attacco allo Stato”, uscito in libreria martedì 16 maggio per Solferino, casa editrice che fa capo a Urbano Cairo. Ma il suo testo è stato tolto poco prima della stampa del volume, e il nome del conduttore è stato cancellato dalla copertina, come provano le due versioni della copertina che Gente è in grado di mostrare.

L’introduzione di Giletti affrontava i temi che sono stati oggetto delle ultime puntate di Non è l’Arena, su La7, rete sempre di proprietà di Cairo: Messina Denaro, Baiardo, le stragi del ’93, “i rapporti delle associazioni mafiose con realtà a loro esterne”, “l’anello di carattere politico che potrebbe aver concorso a definire questa singolare riedizione della strategia della tensione”. Il testo integrale dell’introduzione scomparsa è pubblicato su Gente.

Estratto dell’introduzione di Massimo Giletti al libro “Attacco allo Stato”, di Ferruccio Pinotti (ed. Solferino), poi rimossa dalla casa editrice

Ci sono storie che scegliamo di raccontare, le troviamo nelle decine e decine di notizie che ogni giorno entrano nelle nostre vite sotto forma di mail o di lettere, le valutiamo e le facciamo nostre in un racconto che possa arrivare a tutti nel miglior modo possibile. 

Una di questa mi spinse ad andare nell'autunno del 2019 a Mezzojuso, nel cuore della Sicilia occidentale, non lontana dalla più «famosa» Corleone. Lì avevo saputo che tre sorelle Marianna, Ina e Irene lottavano da sole contro la mafia dei pascoli. Per raggiungerle dovevo salire una strada sterrata a strapiombo con una serie di burroni che mettevano i brividi.

A un certo punto incontrammo un pastore con un gregge di pecore. Il maresciallo Saviano disse di fermare la vecchia Campagnola Fiat con cui stavamo salendo. Il pastore ci guardò ma non disse nulla. In un attimo ebbi la sensazione che sapesse già tutto: dove stessimo andando e il perché. 

Allora, in quel momento, mi venne in mente una frase che aveva citato poco prima il colonnello Antonio Di Stasio, allora comandante provinciale dei carabinieri di Palermo ricordando Pirandello: «In Sicilia ho incontrato molte maschere e pochi volti». Andando oltre la metafora, voleva dire che è sempre difficile comprendere la vera anima di chi ci si trova davanti.

Ecco perché ogni libro che parla di mafia è importante se ha radici profonde e verità pericolose. Per queste ragioni ho scelto di scrivere questa mia breve presentazione al collega della carta stampata Ferruccio Pinotti, caposervizio Interni al «Corriere della Sera» […]

Dagospia il 18 maggio 2023.Riceviamo e pubblichiamo: In merito al pezzo pubblicato in data odierna, dal titolo: “Lo scoop di Gente: Urbano Cairo ha censurato Massimo Giletti....” precisiamo che la prefazione al libro di Pinotti è stata chiesta personalmente dall’autore a Giletti e la decisione di non pubblicarla è stata presa dall’autore stesso che ha avvisato la casa editrice Solferino delle sue intenzioni.

Urbano Cairo non era a conoscenza del fatto che la prefazione era stata chiesta a Giletti, né tantomeno del fatto che era stato deciso di non pubblicarla.

Cordialmente,

Alessandro Bompieri Direttore Generale News RCS MediaGroup

Non è l'Arena, “intercettazioni su mafia, politica e imprese”. Retroscena sull'addio a Giletti. Il Tempo il 05 maggio 2023

Perché Non è l’Arena è stata chiusa? A quasi un mese dallo stop inaspettato della trasmissione domenicale di La7 condotta da Massimo Giletti arriva un nuovo articolo di retroscena sui motivi che hanno spinto Urbano Cairo a prendere tale decisione. “Seconda una fonte molto qualificata al centro dell’appuntamento (mai trasmesso) del 13 aprile scorso ci sarebbero state le intercettazioni su mafia, politica e imprese” la spiegazione che arriva dal sito Affari Italiani.

Che poi continua tracciando un quadro della situazione sul programma televisivo: “Sui rapporti, ad altissimi livelli, tra Cosa Nostra, politici di peso e sulle aziende che erano coinvolte da questa triangolazione malata. I nomi che circolano sono, d’altronde, di primissimo rilievo ed è perfino comprensibile che il rischio di toccare gangli imprescindibili della nostra vita pubblica fosse altissimo”. Nei giorni scorsi è circolata anche l’ipotesi che dietro al cartellino rosso sventolato in faccia a Giletti ci sia la vicenda che coinvolge Carlo Bertini, ex funzionario di Bankitalia che aveva denunciato lo scandalo dei diamanti: secondo il sito non è questo il motivo della chiusura di Non è l’Arena. 

Così i clan volevano sequestrare il figlio di Berlusconi: ecco l’audio del caso Giletti. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 19 aprile 2023

Massimo Giletti aveva in programma di mandare in onda alcuni audio su Silvio Berlusconi, i fratelli Graviano (i boss della mafia stragista) e le dichiarazioni di un gruppo di collaboratori si giustizia agli atti del processo ‘ndrangheta stragista istruito dalla procura antimafia di Reggio Calabria.

In particolare l’attenzione si era concentrata su due tracce che Domani può rivelare.

Tracce che riportano di attualità il filone sul quale la trasmissione stava provando a fare luce, quello che incrocia l’ex primo ministro, i fratelli Graviano e il generale, Francesco Delfino.

Massimo Giletti aveva in programma di mandare in onda alcuni audio di deposizioni del mafioso, Giuseppe Graviano, e di pentiti che parlavano di Silvio Berlusconi, materiale agli atti del processo ‘ndrangheta stragista istruito dalla procura antimafia di Reggio Calabria. Registrazioni di cui hai parlato sul Quotidiano del Sud il giornalista Paolo Orofino. 

In particolare l’attenzione si era concentrata su due tracce che Domani può rivelare. Tracce che riportano di attualità il filone sul quale la trasmissione stava provando a fare luce, quello che incrocia l’ex primo ministro, i fratelli Graviano e il generale, Francesco Delfino.

Nomi che sono i protagonisti della foto dei misteri, quella che ha provocato la rottura dei rapporti tra Salvatore Baiardo, pregiudicato per favoreggiamento degli stragisti Graviano, e Giletti.

L’esistenza di questa foto resta ancora un giallo, come ha raccontato Domani nella serie di articoli pubblicati nei giorni scorsi. Baiardo avrebbe mostrato lo scatto, che potrebbe essere la prova di un patto sporco, al conduttore senza rilasciargli copia.

Così Giletti ha raccontato tutto ai magistrati di Firenze che indagano sui mandanti esterni alle stragi sul continente del 1993, inchiesta che vede indagati Berlusconi e il fido, Marcello Dell’Utri, per concorso in strage (indagini analoghe sono già state aperte e chiuse). I protagonisti si difendono e parlano di una ricostruzione infamante.  

Dagli atti emerge che Baiardo ha più volte fatto riferimento all’esistenza di questa fotografia nei colloqui con Giletti, colloqui che gli investigatori hanno registrato per verificare la veridicità delle dichiarazioni del conduttore. 

GLI AUDIO DEL PENTITO

Gli audio, vista la cancellazione del programma, non saranno mai trasmessi su una televisione nazionale, sono stati mandati in onda da Lacnews24 nello speciale sul processo realizzato dal giornalista Pietro Comito. Queste registrazioni incrociano i protagonisti della foto che, nel caso esistesse, riscriverebbe la storia delle stragi e un pezzo di storia repubblicana. 

Partiamo dal primo audio, che vede protagonista Antonino Fiume, un collaboratore di giustizia di primo livello della ‘ndrangheta. Interrogato dal pubblico ministero, Giuseppe Lombardo, risponde a questa domanda: «Mi spiega meglio, questo fatto di non rapire il figlio di Berlusconi?». «I palermitani erano andati ad Africo, Peppe Morabito (boss di ‘ndrangheta, ndr) si era assunto la responsabilità perché i palermitani dicevano che gli fa dei regali e di non sequestrarlo, era un periodo che i sequestri c’era chi voleva farli e chi no, e Antonio Papalia l’aveva passata per novità questo discorso che il figlio di Berlusconi non si doveva toccare». Lo aveva mandato a dire Antonio Papalia che «il figlio di Berlusconi non si tocca». 

Papalia non è il nome qualunque non solo per il peso che ha avuto nella ‘ndrangheta, ma anche perché diversi collaboratori di giustizia indicano in rapporti con il generale Francesco Delfino. Il generale Delfino (o ex generale, poiché ha ingloriosamente concluso la sua carriera subendo l’onta della degradazione a soldato semplice), calabrese e originario di Platì, sarebbe uno dei protagonisti della foto dei misteri. Anche Delfino, ma dal punto di vista investigativo, si occupava di sequestri, nel suo caso per evitarli. 

«È emersa, in modo fin troppo evidente, la collocazione verticistica dei Papalia (e in primis di Domenico Papalia) e dei fratelli del generale Francesco Delfino nel panorama 'ndranghetistico e massonico», scrivono gli investigatori autori del rapporto ‘ndrangheta stragista.

«In quel quadro di analisi era stata, anche, evidenziata la posizione di Francesco Delfino, generale dell'Arma dei carabinieri, in un periodo in fuori ruolo presso il Sismi (i servizi segreti interni, ndr), originario di Platì (cuore della ‘ndrangheta) e attore, in più ricorrenze, di accadimenti criminali della massima importanza in questo procedimento», proseguono gli inquirenti.

Un capitolo dell’informativa è dedicato al potere dei Papalia e di uno dei parenti di Delfino su Buccinasco, provincia di Milano, feudo nordico della cosca, dove ancora oggi hanno una fortissima influenza.  

Nell’informativa agli atti del processo ‘ndrangheta stragista in cui i pubblici ministeri calabresi hanno dimostrato il ruolo delle cosche reggine nella strategia eversiva degli anni Novanta guidata da cosa nostra e Totò Riina, emerge più volte il nome di Delfino.

IL GENERALE E I PADRINI

Soprattutto per i suoi rapporti con il gotha della ‘ndrangheta, cioè i Papalia, che erano sovrani non solo in Calabria. Anzi, i fratelli Papalia erano considerati ai tempi i capi dei capi della mafia al nord, in particolare in Lombardia, dove all’epoca, come raccontato al pm Lombardo da diversi pentiti esisteva una sorta di “consorzio” unico delle tre mafie più potenti (camorra, ‘ndrangheta e cosa nostra) con Papalia a farla da padrone.

Proprio lì dove organizzava sequestri degli industriali e contemporaneamente interloquiva con la politica locale. 

Su Delfino oltre ai rapporti con i boss Papalia erano emersi i legami con un altro potente padrino di ‘ndrangheta, intimo dei Papalia: «Altro tema di interesse a queste indagini è la collocazione, nello scenario criminale che stiamo esplorando, di Giuseppe Nirta, soggetto legato - dalle risultanze giudiziarie note - al generale Francesco Delfino». Anche la famiglia Nirta, di San Luca (altro santuario della ‘ndrangheta) all’epoca coinvolta nei sequestri di persona. 

Delfino ha avuto un ruolo anche nella collaborazione di Balduccio Di Maggio, colui il quale porterà gli investigatori nel covo di Totò Riina. Come ha raccontato il nostro giornale abitavano tutti lì, fra il 1992 e il 1993. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano latitanti, il loro amico gelataio Salvatore Baiardo che li ospitava ad Omegna “con altre persone”, abitava lì anche il generale Francesco Delfino che aveva una villa a Meina, e a Borgomanero era stato catturato Balduccio Di Maggio. Un altro audio che sarebbe stato trasmesso durante la trasmissione è quello nel quale Giuseppe Graviano riferiva di aver investito, in particolare il nonno, nelle attività finanziarie di Silvio Berlusconi. Audio che resteranno sconosciuti al grande pubblico. 

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Nello Trocchia è inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Estratto dell'articolo di Marco Lillo per "il Fatto quotidiano” il 5 maggio 2023. 

Nell'informativa del 16 marzo 2022 della Dia di Firenze confluita nel fascicolo recentemente riaperto nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri con l'ipotesi tutta da riscontrare di avere avuto un ruolo di 'mandanti esterni' nelle stragi di Milano e Firenze e negli attentati di Roma del 1993-94, c'è una pagina dedicata alla 'compresenza' di Marcello dell'Utri e dei boss della mafia Giuseppe e Filippo Graviano nelle stesse zone nel 1993-94. 

A pagina 40 dell'informativa di 72 pagine […] la Dia scrive, riferendosi alle vecchie indagini svolte già nel 2010: “La disamina permise di poter accertare la compresenza nei medesimi luoghi di Graviano, Dell'Utri e Tranchina (Fabio Tranchina, faceva l'autista di Graviano e poi è divenuto collaboratore di giustizia, Ndr), nonché i seguenti e ulteriori elementi”.

Segue un elenco con incroci telefonici, date e luoghi sparsi per l'Italia. Un elenco si badi bene non di incontri provati (tra Graviano e Dell'Utri) ma di spunti investigativi derivanti dall'analisi delle celle telefoniche dei ripetitori agganciati dai cellulari nonché dalle agende e dalle testimonianze raccolte. 

Berlusconi e Dell’Utri hanno sempre negato qualsiasi rapporto con i Graviano. Precisiamo subito quindi che stiamo parlando di spunti investigativi. Vale come sempre la presunzione di innocenza sopratutto in questo caso visto che si tratta di indagini per fatti gravissimi di 30 anni fa e che già in passato inchieste sulle medesime accuse sono state chiuse con archiviazioni. L'analisi delle celle telefoniche di Dell'Utri e dei favoreggiatori di Graviano non fu considerata decisiva già 12 anni fa. Tanto che Berlusconi e Dell'Utri furono archiviati su richiesta degli stessi pm fiorentini.

Ora quelle analisi però sono state rispolverate e messe in relazione con i nuovi elementi emersi nell'informativa del 16 marzo 2022 che conclude così: “Vi è infatti il fondato motivo di credere che Silvio Berlusconi, tramite la mediazione di Marcello Dell'Utri e di altre persone allo stato ignote, abbia intrattenuto nel tempo rapporti con esponenti di spicco della mafia siciliana, per ultimo Giuseppe Graviano, per garantirsi inizialmente fondi volti ad effettuare gli investimenti, che poi gli hanno consentito di creare il suo impero economico, e poi, per quanto strettamente d'interesse, la sua ascesa in politica del 1994, facendo veicolare i voti dell'allora costituendo movimento politico Sicilia Libera nel neonato partito Forza: Italia di cui Berlusconi era il leader”.

L'informativa del 16 marzo 2022 è un atto che non è stato depositato nel procedimento principale su Berlusconi e Dell'Utri […] ma in quello incidentale sulle perquisizioni ai fratelli di Giuseppe Graviano, non indagati. […] 

Ma qual è il senso del lavoro della DIA? Gli investigatori sanno che Fabio Tranchina e Salvatore Baiardo, condannato per favoreggiamento nel 1997, accompagnavano Giuseppe Graviano e talvolta anche il fratello Filippo nei primi anni novanta. Sanno anche che, quando i boss sono stati arrestati a Milano il 27 gennaio 1994, i Carabinieri sequestrarono un cellulare intestato a un tal Costantino Taormina, incensurato.

Incrociando i tabulati telefonici con le celle agganciate dai cellulari di Baiardo, Tranchina e Taormina con quelli dei telefonini di Marcello Dell'Utri e dei suoi accompagnatori gli investigatori hanno trovato elementi per ipotizzare dei luoghi e delle date di quelle che la Dia chiama 'compresenze', cioé volgarizzando possibili e ipotetici (ripetiamolo solo ipotetici) incontri tra il boss e il manager di Publitalia nonché futuro senatore, proprio nel periodo in cui Giuseppe Graviano ordiva il suo piano stragista e Silvio Berlusconi preparava la sua discesa in campo. 

Il periodo chiave è quello del 1993-1994. Scrive il capocentro della Dia di Firenze Francesco Nannucci a marzo 2022 ricordando l'evoluzione delle vecchie indagini “sulla base degli elementi segnalati nella nota prot. 6246 del 15/10/2010, allegata all'informativa del 2018, nella quale era stato rendicontato l'esito dei riscontri sugli spostamenti dei fratelli Graviano nel periodo delle stragi, e la compresenza dei due loro favoreggiatori, ovvero Fabio Tranchina e Salvatore Baiardo, nei medesimi luoghi frequentati dai fratelli Graviano.

Per completezza di indagine, venne altresì effettuata un'analisi del materiale in possesso agli investigatori, rendicontata nella nota n.7762 del 17.12.2010 , concernente pregresse attività di polizia giudiziaria espletate a carico di (…) e Marcello Dell'Utri. La disamina permise di poter accertare la compresenza nei medesimi luoghi di Graviano, Dell'Utri e Tranchina, nonché i seguenti e ulteriori elementi”. 

Seguono una serie di punti. Qui ne riportiamo alcuni: “(…) Compresenza Dell'Utri-Graviano a Venezia in occasione del carnevale 1993;Possibile spostamento in Toscana di Dell'Utri il 27.04.1993 compatibile con la presenza a Firenze dei Graviano ivi prelevati da Tranchina, il giorno 29.04.1993;(...)Compresenza su Roma il giorno 08.08. 1993 di Dell'Utri Marcello - Ratti Miranda (la moglie ovviamente estranea all’indagine, Ndr) e Graviano Giuseppe ivi accompagnato da Tranchina; […] Presenza di Dell'Utri Marcello, il giorno 18.01.1994, presso l'Hotel "Majestic'' di Roma insieme a funzionari e collaboratori di Publitalia 80 Spa, in periodo coincidente con l'incontro tra Graviano e Spatuzza al Bar Doney a Roma e con la strage dell'Olimpico, che doveva compiersi il 23.01.1994 in danno dei Carabinieri”. 

A difesa di Dell'Utri va detto che a tutti può capitare di trovarsi con il telefonino acceso nella stessa zona in cui si trova un boss sconosciuto e che un tempo le celle telefoniche erano molto più ampie di adesso. 

[…] Cerchiamo di spiegare perché la Dia segnala queste 'compresenze', sparse per l'Italia in un periodo delicato sul fronte politico e stragista. La prima 'compresenza' segnalata è quella del Carnevale di Venezia del 1993. I fratelli Graviano insieme al loro braccio destro Cesare Lupo e alle rispettive consorti alloggiavano in un palazzetto affittato dal loro favoreggiatore Salvatore Baiardo. 

Quell'anno il Carnevale era organizzato dalla società del gruppo Fininvest 'Grandi Eventi Publitalia 80'. Il cellulare di Baiardo il 21 febbraio alle 13 e 42 fa una telefonata di un minuto e mezzo al centralino del comitato organizzatore che faceva capo alla società suddetta.

[…] La Dia però ritiene che anche Marcello Dell’Utri fosse a Venezia nei giorni in cui c'erano i Graviano perché sull'agenda dell'ex senatore in quei giorni c'è scritto ‘Venezia’ e un testimone ricorda di averlo visto. Ciò non prova comunque che, anche ove fossero stati nello stesso luogo, Marcello Dell'Utri e i Graviano si siano incontrati. 

[…].Andiamo ora a Roma. La Dia nelle sue precedenti informative segnalava la presenza a Roma di un telefonino di Marcello Dell'Utri che agganciava la cella 06 in data 8 agosto mentre il giorno prima e quello seguente si trovava in Sardegna. La Dia annota che anche il cellulare di Fabio Tranchina, allora autista di Giuseppe Graviano, l'8 agosto intorno alle 12 e 30 aggancia la cella telefonica 06. Di qui probabilmente nell’informativa dello scorso anno si legge della possibile “Compresenza su Roma il giorno 08.08.1993 di Dell'Utri Marcello - Ratti Miranda e Graviano Giuseppe ivi accompagnato da Tranchina”. Dal 31 agosto 1993 invece il cellulare di Fabio Tranchina, fino al 5 settembre 1993, aggancia la cella 070 corrispondente alla Sardegna.

La Dia nei tabulati telefonici dei telefonini in uso a Dell'Utri trova chiamate sulla cella telefonica sarda a fine agosto e anche il 2 settembre.Sono quelli momenti decisivi perché, come ha raccontato Gianni Letta al processo Dell’Utri, a fine agosto del 1993 in Sardegna, a Villa Certosa, per la prima volta Berlusconi gli parlò della sua intenzione di scendere in politica.

Letta e Confalonieri erano contrari mentre, ha raccontato l’ex sottosegretario, Dell’Utri era favorevole.Un cellulare di Publitalia che secondo la Dia era in uso a Marcello Dell'Utri inoltre aggancia la cella di Padova-Venezia il primo ottobre e per questa ragione la Dia segnala una possibile compresenza con i Graviano. Secondo le inchieste sul loro favoreggiatore Antonino Vallone, infatti, i Graviano in quei primi giorni di ottobre erano latitanti ad Abano Terme.

Ovviamente potrebbero essere tutte coincidenze fortuite. Come anche la presenza a Roma di Marcello Dell'Utri all'hotel Majestic di via Veneto il 18 gennaio 1994. Una data vicina a quella in cui si è svolto l'incontro tra Giuseppe Graviano e Gaspare Spatuzza a poche centinaia di metri di distanza, al Bar Doney. In quell’incontro, secondo Spatuzza, Graviano avrebbe parlato dei suoi rapporti con Berlusconi e Dell'Utri. Giuseppe Graviano è già stato condannato per le stragi in 'Continente' con gli altri boss non collabora con la giustizia e si professa innocente. Ha fatto dichiarazioni imbarazzanti per Silvio Berlusconi, mai per Dell'Utri.

L'ex senatore è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa ma solo per i suoi rapporti con i mafiosi fino al 1992. Secondo l’informativa Dia del 16 marzo 2022 “tale attività investigativa permise di cristallizzare la presenza di Dell'Utri in Roma nei giorni tra il 17 e il 21 gennaio 1994, ovvero negli stessi giorni in cui vi èra la presenza di Giuseppe Graviano e Gaspare Spatuzza per la preparazione della strage all'Olimpico con il loro incontro al Bar "Doney" di Via Veneto, in cui Graviano disse a Spatuzza·la frase 'abbiamo il paese nelle mani'”, introducendo poi i nomi di Berlusconi e Dell'Utri”. Quando però i pm di Firenze il primo aprile 2021 vanno a interrogare Giuseppe Graviano lui rimane fermo sul punto: “vi posso assicurare che io il signor Dell'Utri non lo conosco”.

Crolla la Trattativa Stato-mafia, ma la procura di Firenze riesuma un altro teorema. Per la quinta volta si tenta di far decollare l’inchiesta sulle stragi continentali con Berlusconi e Dell’Utri mandanti. Forse i pm hanno trovato il loro “Ciancimino”: Salvatore Baiardo. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 28 aprile 2023

Crollato miseramente il teorema della (non) Trattativa Stato-mafia, rimane in piedi ancora l’asso nella manica, quella che permette di perdere altri anni di risorse. Una carta che vede come mandanti delle stragi Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, la quale ha sempre viaggiato parallelamente alla tesi trattativa. Anche se va in antitesi con essa.

Tale tesi della procura di Firenze non ha mai dato sbocco a un rinvio a giudizio. Puntualmente archiviata per mancanza di prove. Anche l’inchiesta trattativa fu inizialmente archiviata. Nel 2004, infatti, i pm di Palermo chiesero l’archiviazione a causa della non poca confusione dei risultati probatori raggiunti. Ma poi entrò in scena Massimo Ciancimino, colui che – ricordiamo ancora una volta – poi sarà condannato per calunnia, il “papello” da lui consegnato e dichiarato falso. L’inchiesta a quel punto venne riaperta nel 2008. Sarà grazie a Ciancimino jr. che le indagini furono estese nei confronti degli ex Ros e anche di Calogero Mannino. Grazie a Ciancimino - in quel frangente elevato a icona antimafia -, questa volta il terzo tentativo andò a buon segno: fu così possibile imbastire il processo trattativa.

Ebbene, dopo ben cinque tentativi, ora la procura di Firenze, per quanto riguarda la tesi di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti esterni, potrebbe avere il suo “Ciancimino”. Parliamo di Salvatore Baiardo, riesumato per la prima volta dalla trasmissione Report. Tra sorrisini e ammiccamenti, ha affermato di aver visto le fotocopie della famosa agenda rossa di Borsellino in mano a diversi boss, da Graviano fino a Matteo Messina Denaro. Qualche settimana fa, attraverso Tik Tok (sic!), ha smentito quelle affermazioni dicendo chiaramente di aver trollato i giornalisti di Report. Ma pare che abbia trollato anche l’ignaro Massimo Giletti, conduttore di Non è L’arena, facendogli mostrare da lontano, e per pochi secondi, una foto dove a detta ci sarebbe ritratto Berlusconi, Graviano e il generale Francesco Delfino. Tutti e tre appassionatamente in un bar, a bella vista di tutti, sulle sponde del Lago d'Orta, in Piemonte. E proprio grazie a questa presunta foto, mai trovata con le perquisizioni disposte dalla procura, che i pm fiorentini hanno potuto riaprire per la quinta volta l’inchiesta.

Questo procedimento giudiziario, che indaga sulle stragi continentali del 1993, è un mix tra la vecchia inchiesta “sistemi criminali” condotta dagli ex pm palermitani Ingroia e Scarpinato archiviata nel 2000, e quella dove si riesuma l’ipotesi di personaggi esterni alla mafia che avrebbero partecipato agli attentati. Primeggia la vicenda della presenza delle “donne bionde”. In sostanza, si tratta di una specie di terzo livello composto da massoni, imprenditori, P2 e mafie di vario genere che avrebbero dato l’avvio alle stragi per destabilizzare la vita democratica nel nostro Paese. Un teorema che in realtà affiorava già ai tempi di Giovanni Falcone, visto che lui stesso – anche dopo aver vagliato la questione Gladio - l’ha stigmatizzato in tutte le occasioni.

Il teorema della procura di Firenze, come detto, confligge con quello della trattativa. Basterebbe un po’ di logica, che poi è quella che ritroviamo nella sentenza d’appello sulla trattativa che ha assolto con formula piena Marcello Dell’Utri. Secondo il teorema, l’ex senatore sarebbe stato colui che ha veicolato la minaccia mafiosa al governo Berlusconi. Cosa non torna? Secondo l’altra tesi giudiziaria, invece l’ex presidente del Consiglio sarebbe arrivato al governo grazie alle stragi e all’appoggio di Cosa nostra. E allora che bisogno c’era di minacciare?

Così come è difficilissimo trovare una logica nella tesi di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti. Pensare che i boss corleonesi prendessero ordini da persone completamente estranee, vuol dire che Falcone non ci ha capito nulla di mafia. Ovviamente, non può essere. Parliamo di un giudice che aveva una mente talmente geniale, che lo stesso Riina l’ha annichilito per farlo soprattutto smettere di pensare. Per capire che si tratta di un’ipotesi che rasenta il fallimento logico, basterebbe attenersi ai fatti. Nel biennio delle stragi del ’92 e ’93, ancora non era nata Forza Italia. Berlusconi non poteva, come ha detto anche Riina nelle intercettazioni, essere avvicinato visto che non aveva nessun potere politico. «Era solo una palazzinaro!», ha detto Riina in 41bis. L’unico contatto era il pagamento del cosiddetto “pizzo”. Lo stesso Riina parla della minaccia di attentati alla ex Standa e ai ripetitori televisivi in Sicilia.

Non solo. Durante il processo Borsellino Ter, sia Giovanni Brusca che Angelo Siino e Tullio Cannella, hanno parlato di un consistente sostegno di voti fornito da Cosa nostra al partito di Forza Italia creato da Berlusconi in occasione delle elezioni politiche del 1994. Sostegno offerto nella prospettiva di ottenere consistenti modifiche anche legislative nel senso auspicato dall’organizzazione mafiosa (cosa mai realizzata, tra l’altro), ma nessuno di loro ha fatto riferimento a contatti tra quell’organizzazione e Berlusconi già nel 1992 nell’ambito della ricerca di nuovi referenti politici. Anzi, le dichiarazioni rese dai predetti pentiti sono state assai puntuali nel far riferimento al tentativo di Cosa nostra nel corso del 1993 di promuovere la nascita in Sicilia di un movimento politico indipendentista, una sorta di Lega del Sud, che si affiancasse a quella del Nord nel richiedere la creazione di una federazione di Stati che sostituissero quello unitario. Solo agli inizi del 1994, invece, tale progetto sarebbe stato accantonato per sostenere la nuova formazione politica promossa da Berlusconi. Ma sappiamo pure come è andata. La stessa Forza Italia si è poi separata dalla coalizione con la Lega Nord, da quel movimento, cioè, il cui collante - stando alle emergenze sulle leghe meridionali - avrebbe dovuto essere proprio il collegamento con Cosa nostra. Sappiamo che il governo presieduto da Berlusconi, cadrà dopo pochi mesi. Il fallimento logico del teorema che vede Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi è evidente.

Pronta ennesima inchiesta per lee stragi del '93. Foto fantasma di Baiardo mostrata a Giletti, scatta nuova caccia a Dell’Utri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Aprile 2023

L’attesa messianica è per il 27, cioè tra due giorni. Quando la Corte di cassazione dirà forse la parola definitiva sul processo “Trattativa”. E su Marcello Dell’Utri, per il quale il pg ha chiesto la conferma dell’assoluzione, già definita nella sentenza di appello. La richiesta è del 14 aprile. L’ex presidente di Publitalia avrà appena fatto in tempo quel giorno a tirare un piccolo sospiro di sollievo e aprirsi alla speranza. Ma ancora non conosceva la sorpresa del giorno dopo.

Perché, va da sé, se non hai commesso un attentato contro corpi dello Stato, almeno avrai messo delle bombe mafiose. Che importa se ti hanno già archiviato tre-quattro volte? Ecco quindi quel giorno la pubblicazione di un verbale di perquisizione fatta nella casa di Salvatore Baiardo, uno scaltro giocatore di poker mezzo mafioso, con la ricerca di una foto misteriosa e forse inesistente. E la notizia di una nuova inchiesta che ti vede ancora, e ancora e ancora, indagato per strage insieme al tuo amico Silvio Berlusconi. Dell’Utri nella presunta foto non dovrebbe neanche esserci, ma che importa? Lo iscrivono ugualmente nel registro degli indagati.

I pubblici ministeri di Firenze Luca Turco e Luca Tescaroli, ecco la notizia del 15 aprile, hanno chiuso il 31 dicembre 2022, a termini scaduti, la quarta inchiesta contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’ Utri come mandanti delle bombe del 1993. Con una richiesta di archiviazione, si suppone, come le tre precedenti, dopo esser andati a caccia di fantasmi. Ma pronti ad aprire la quinta, secondo quanto riportato dall’house organ delle procure. Quella che porta le impronte digitali del conduttore tv Massimo Giletti e del suo ospite fisso Baiardo e di una fotografia di cui non si sa se esista, né dove sia né da chi sia stata scattata né quando né che vi sia ritratto, perché è piccola e buia. Il pataccaro amico dei boss di Cosa Nostra Filippo e Giuseppe Graviano dice che uno dei protagonisti, ripreso insieme a uno dei due fratelli, sarebbe Berlusconi, e l’altro il generale dei carabinieri Francesco Delfino, deceduto nel 2014, quindi inservibile come testimone.

Ecco la “notitia criminis”, quella che avrebbe fatto aprire la quinta inchiesta sulle stragi. Bravo Giletti, hai fatto il tuo dovere di cittadino. E cattivi (complici?) quelli che ti hanno tolto la trasmissione. Perché tutto sarebbe partito da lì, dalle deposizioni, ormai tre, dell’ex conduttore di “Non è l’Arena” ai pm di Firenze, i due Luca, di cui non si riesce più a capire dove finisca l’ingenuità e dove cominci l’ossessione. Perché di Salvatore Baiardo è appurata anche in diverse sedi giudiziarie la totale inattendibilità. Bravo giocatore di poker, indubbiamente, capace di alludere e sfottere. E anche di illudere il giornalista vanesio di aver pronto, nelle mani tenute dietro la schiena come per fare la sorpresa al bambino, lo scoop del secolo. Del resto, non era stato questo mezzo mafioso a “prevedere” l’imminente arresto di Matteo Messina Denaro?

Anche in quel caso alludendo sapientemente a una possibile “trattativa” tra Stato (procura di Palermo?) e mafia? E non è sempre lui a gettare ombre sugli arresti di Riina e Provenzano, e sui pentiti Spatuzza e Balduccio Di Maggio? Nell’attesa di capire se anche i due Luca di Firenze, come già tanti loro colleghi, in particolare di Sicilia, ma ultimamente anche di Calabria con il processo “ ’Ndrangheta stragista”, intendano farsi storiografi, al centro della scena è ormai Massimo Giletti. Che ha rubato i riflettori al gelataio di Omegna. E’ stato lui a coprirsi le spalle (con i mafiosi non si scherza), andando dai magistrati di Firenze, proprio nei giorni in cui si stava chiudendo con un nulla di fatto la quarta indagine sui mandanti delle stragi del 1993. La scadenza dell’inchiesta era fissata in modo inderogabile per la fine dell’anno.

Giletti si è presentato in procura il 19 dicembre 2022, e poi il 23 febbraio 2023. Ha raccontato la storia della foto, una foto che “ove esistente”, riporta Marco Lillo sul Fatto riferendo le parole dei magistrati, potrebbe essere “la prova dei rapporti tra il boss Graviano e Berlusconi prima dell’arresto di quest’ultimo”. L’arresto di Berlusconi? La gaffe esprime il sogno dei pm o del giornalista? Ma non c’è solo quella vecchia polaroid, nel racconto di Giletti. Si parla anche del processo “Trattativa”. Si, sempre quello, l’incubo di tutti i professionisti dell’antimafia. Perché Baiardo avrebbe detto al conduttore di La7 di avere un documento fondamentale. Che, come accade nei film gialli, si sarebbe poi dovuto distruggere. Naturalmente anche questo foglio, così come la foto, non c’è. Ma i due Luca ritengono Giletti sincero, e sicuramente lo è.

Lo sentono due volte, poi decidono di far perquisire la casa di Baiardo, ma solo dopo aver video-ripreso e intercettato il conduttore tv mentre parla della foto con Baiardo. E’ la prova della sua attendibilità. Quindi emettono il famoso decreto di perquisizione, firmato da un gip il 23 marzo, pubblicato dal Fatto il 15 aprile, due giorni dopo la sospensione della trasmissione di Giletti e il giorno successivo le richieste del pg della cassazione al processo “Trattativa”, in cui viene richiesta di nuovo l’assoluzione di Dell’Utri “perché il fatto non sussiste”. Ovviamente la foto non c’è, e neanche il documento fondamentale sulla “trattativa”. Forse sarà stato già bruciato, magari insieme alla polaroid. Si arriva così al terzo interrogatorio di Giletti. I magistrati vogliono sapere perché l’editore Cairo gli abbia sospeso la trasmissione, forse gli suggeriscono di non partecipare alla maratona di Mentana, che infatti viene sospesa.

E lui, all’uscita dalla procura, con sapiente regia lancia una frase così ambigua che pare scritta da Salvatore Baiardo: “Ci sono vicende che non si possono risolvere all’interno di uno studio televisivo, vanno affrontate nei luoghi deputati, cioè gli uffici di un’azienda, altrimenti si rischia di finire in un’aula di tribunale”. Probabile che parli semplicemente del proprio contratto aziendale, che scade alla fine di giugno, e che il “tribunale” sia un’aula di processo civile, non penale. Ma ha imparato anche a lui a dire e non dire, alludere e lasciar intendere, proprio come il suo ospite fisso Baiardo. Così tutti ritengono stia parlando di mafia e non di “piccioli”, o del proprio vincolo di riservatezza rispetto all’azienda. Prodigi della comunicazione! In attesa del 27 e della sentenza sulla “trattativa”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

«Incontrai Berlusconi a Milano 3». I pm trovano la casa del boss. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 05 maggio 2023

I magistrati antimafia di Firenze hanno setacciato le palazzine del complesso realizzato dall’ex premier.

Milano 3 è stato l’ultimo sogno edilizio realizzato da Silvio Berlusconi con la sua società immobiliare Edilnord.

Un appartamento sospetto corrisponde alla descrizione fatta da Graviano: al tempo era in uso a un mafioso.

Milano 3 è stato l’ultimo sogno edilizio realizzato da Silvio Berlusconi con la sua società immobiliare Edilnord. Ed è tra queste palazzine, immerse nel verde, realizzate tra il 1980 e il 1991, che è ambientato l’ultimo grande mistero delle stragi di mafia del 1993: l’incontro presunto tra il boss stragista Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi, raccontato per la prima volta dal mafioso durante un’udienza del processo sulla presunta ‘ndrangheta stragista a Reggio Calabria, in cui era imputato proprio Graviano.

Le stragi di 30 anni fa sono iniziate il 14 maggio con l’attentato a Maurizio Costanzo e sono proseguite fino al gennaio successivo con la bomba inesplosa allo stadio Olimpico: nel mezzo i morti di Firenze di via Georgofili e le bombe a Milano e Roma. Sugli esecutori ci sono ormai pochi dubbi, i mafiosi di cosa nostra, tra loro Giuseppe Graviano. La procura di Firenze, però, oggi punta a individuare i mandanti occulti del tritolo piazzato per colpire il patrimonio artistico italiano.

I pm Luca Tescaroli e Luca Turco indagano da alcuni anni sul livello politico del terrorismo mafioso e hanno iscritto nel registro degli indagati Berlusconi e Marcello Dell’Utri. La direzione investigativa antimafia di Firenze ha prodotto diverse informative ricche di informazioni e riscontri alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e soprattutto del boss mai pentito Graviano, il quale gioca su più tavoli e, pur mostrando chiusura a qualunque tipo di collaborazione, ha parlato in alcune occasioni del suo rapporto privilegiato con Berlusconi tra gli anni Ottanta e Novanta, a cavallo delle stragi del ‘93.

È stato lui a riferire dell’incontro con il Cavaliere in un appartamento di Milano 3. Se il randez vous fosse provato, confermerebbe i sospetti di un patto tra il fondatore di Forza Italia e la mafia palermitana. I legali di Berlusconi hanno bollato queste ricostruzioni come fantasiose e infamanti, e si dicono pronti a difendere l’onore del loro assistito nelle sedi opportune.

L’APPARTAMENTO SEGRETO

Per riscontrare le parole di Graviano il primo passo compiuto dai detective – scopre ora Domani – è stato quello di setacciare il complesso residenziale di Milano 3, un elemento che emerge dagli atti depositati. Seguendo la descrizione molto generica del padrino di mafia.

L’appartamento era «ubicato a Milano 3»; «era un appartamento piccolo, forse un paio di stanze, sito al primo o secondo piano di una palazzina servita da ascensore»; «dalla finestra sul retro si vedeva una caserma dei carabinieri»; «la strada di fronte a tale palazzina si attraversava tramite un ponticello (ve ne era più d'uno su tale strada) che conduceva a uno spazio antistante una piscina e più avanti vi era un albergo e un centro commerciale».

Sulla base di queste indicazioni gli investigatori scrivono: «Gli elementi fattuali e documentali che hanno condotto, fra i numerosi edifici analoghi costituenti il Comprensorio Milano 3 di Basiglio, ad individuare nella residenza Alberata lo stabile, verosimilmente l’appartamento 223, quello indicato da Giuseppe Graviano». Nell’informativa, si legge: «Partendo dall'imprescindibile elemento fornito dal dichiarante (Graviano, ndr) che dall'appartamento fosse visibile la locale ed unica stazione dei carabinieri lo stabile di interesse è stato agevolmente individuato nell'edificio A della residenza Alberata».

La sorpresa per procura e investigatori arriva dall’analisi dei proprietari e dei locatari a partire dagli anni in cui Graviano sostiene di aver incontrato Berlusconi nell’appartamento di Milano 3. L’interno 223, scala 2 e piano secondo, era di proprietà di tale Corrado Cappellani di cui non c’è traccia sul web. Ma soprattutto scoprono che all’epoca era stato affittato a Emanuele Fiore, deceduto nel 2012. Fiore è lo zio paterno di un mammasantissima di Cosa nostra.

O meglio è lo zio di Antonino Mangano, ritenuto il successore dei Graviano dopo il loro arresto. Una coincidenza degna di nota. La domanda cui ora stanno cercando di dare una risposta in procura a Firenze è se poteva essere Mangano la persona cui si riferiva Gravano senza mai nominarlo, definendolo “Lui”, durante un dialogo in carcere, intercettato.

CASA E FOTO

Nelle stesse intercettazioni il boss riferiva, inoltre, di aver utilizzato un prestanome per creare una copertura sull’immobile milanese, usato per gli incontri «necessari per mantenere i patti». Quali patti con Berlusconi? Graviano non lo dice: per i pm si tratta delle stragi ma anche dei miliardi, questo sì confermato dal boss, che il nonno aveva affidato al Cavaliere. Ad accompagnare Graviano anche a questi incontri c’era Salvatore Baiardo, l’uomo diventato celebre per avere predetto l’arresto di Matteo Messina Denaro durante un’intervista a Non è l’Arena di Massimo Giletti.

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Nello Trocchia è inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Correggiamo la storia distorta dalle indagini di mafia e di Tangentopoli. La sentenza della Cassazione sulla Trattativa segna la fine della pretesa della magistratura di essere protagonista nelle vicende sociali e politiche. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 7 maggio 2023

La recente sentenza sulla trattativa tra lo Stato e la mafia non ha avuto un adeguato commento dalla grande stampa eppure si tratta di una decisione della Cassazione eclatante e fondamentale per la storia civile, politica e umana del nostro Paese.

È una sentenza che non può soltanto essere pubblicata nel Massimario e dare lustro a magistrati che hanno dimostrato la loro serena indipendenza come prevista dall’art. 104 della Costituzione, ma deve avere conseguenze nella valutazione attenta da parte della cultura giuridica e del mondo giudiziario. Come è noto la Cassazione ha stabilito che il fatto “trattativa” non è stato commesso e non costituisce reato; e quando un “fatto” non è reato e non è stato compiuto il processo penale non ha consistenza.

Viene da dar ragione a chi si pone la domanda perché è stato intentato un processo lungo venti anni che ha costruito una storia che non esiste. La magistratura non può inquinare le vicende della storia con cronache non vere che incidono fortemente sul tessuto sociale e sulla convivenza dei cittadini.

Perché è iniziato questo processo e tanti altri che hanno avuto meno clamore e che hanno interessato leader politici come Nicola Mancino e Calogero Mannino, campioni assoluti più di tanti altri della legalità repubblicana, come tanti esponenti dell’amministrazione dello Stato, delle forze di polizia, della struttura intima dello Stato?! È una domanda che ogni cittadino si pone.

Al di là di sospetti particolari e specifici la risposta ingenua che possiamo dare è che una certa magistratura voleva essere protagonista nello scrivere la storia del nostro Paese, nel far diventare protagonista fuori misura l’antimafia nella sua dissennata esasperazione di ritenere che tutto il mondo è mafia e che la politica è inquietante deviando dai fondamentali canoni della ricerca della prova e della razionalità delle decisioni.

La sentenza dunque segna la fine della pretesa della magistratura essere protagonista nelle vicende sociali e politiche, capace di far trionfare il bene sul male e di esprimere un modello etico di riferimento completo e complessivo di tutta la società, come tutore della moralità. Questa fase è iniziata negli anni 90 con le indagini giudiziarie di Tangentopoli e con le indagini giudiziarie nei confronti di Andreotti, Mannino del giudice Carnevale che non dobbiamo dimenticare, che hanno portato a sentenze clamorose di assoluzione perché il fatto non è stato riscontrato, con valutazioni severe, contenute nelle sentenze che bisognerebbe ogni tanto rileggere, nei confronti dei pubblici ministeri.

In una di queste sentenze della Cassazione è stato scritto che le modalità di indagine giudiziaria utilizzate per quel processo debbono essere di monito per “come non si deve fare un processo”! Ho scritto varie volte che tutte le formule di condanna o di assoluzione restano coerenti nell’ambito del processo penale escluso quella del “fatto che non esiste” o del fatto che non è stato compiuto, che dà una responsabilità in più a chi ha iniziato l’azione penale e non si è reso conto che non c’era il “fatto” o che il fatto non era reato e non è stato compiuto.

Come non rendersi conto di questo?! Se si vuole riformare il ruolo del magistrato e adeguarlo ai tempi si deve ancor più esaltare la sua indipendenza che non si può non collegare a una responsabilità.

La indipendenza non determina irresponsabilità e una esasperata “autonomia” porta alla chiusura e alla “casta” incontrollata. L’autonomia, bisogna ormai riconoscerlo, è un istituto dell’aciern regime che i costituenti mutuarono perché dovevano prevedere una vera e propria separatezza della magistratura rispetto al governo e alle altre istituzioni segnare una forte discontinuità rispetto al regime fascista! Il costituzionalismo moderno non può non porsi questo problema, che riconosco è molto arduo e complesso, ma è un problema che ha bisogno di essere risolto.

La riforma della magistratura è soprattutto di natura costituzionale ed è la premessa per le altre riforme che sono state indicate dal ministro Nordio che portano alla distinzione istituzionale tra pm e giudice, a una composizione diversa del Csm, per evitare che vi sia la prevalenza del giudiziario sul Parlamento, sul governo e quindi sulla politica.

Si deve sviluppare un grande dibattito su queste questioni, perché la magistratura vuol conservare inopinatamente il suo anomalo potere, la sua funzione di supplenza e questo non è coerente con la nostra Costituzione.

Nell’ultimo numero della rivista Questione giustizia, organo ufficiale della corrente magistratura democratica, il direttore scrive: “In moltissimi casi della vita sociale ed economica – scrive Nello Rossi – è il giudiziario ad intervenire in esclusiva, o almeno in prima battuta, nella ricerca di soluzioni di problemi inediti talora incancreniti dalla paralisi e dall'inerzia della politica… e quindi c’è bisogno di una magistratura che assolva un incisivo ruolo di garanzia dei diritti individuali e della dignità delle persone… all'affermazione di diritti dolorosi come quelli relativi al fine vita; alle soluzioni offerte sul terreno dell'eguaglianza di genere; alla protezione di diritti umani fondamentali come nel caso dei migranti; alle azioni a tutela dei risparmiatori e delle finanze pubbliche in contesti finanziari sempre più complicati e vorticosi; agli interventi sulla condizione dei lavoratori marginali, come i rider o i lavoratori della logistica… il magistrato non può pensare di essere un semplice passacarte, un freddo tutore dell'ordinamento giudiziario, ma deve rivendicare il suo ruolo speciale nella società, anche a costo di allargare il perimetro delle proprie prerogative… La Costituzione non indica più una direttrice di marcia univoca nel cui solco il giudiziario possa identificare una sua funzione unitaria, storica…!” Questo scritto è in coerenza con quanto scritto nel lontano 1983 sulla stessa rivista che io ho ricordato molte volte in questi anni, dal pubblico ministero Gherardo Colombo.

La mancanza di una profonda, incisiva e penetrante opposizione politica da parte degli apparati cui lo svolgimento di questa funzione spetta istituzionalmente e costituzionalmente, ha indotto come conseguenza un fenomeno che riguarda direttamente la magistratura. Il controllo giurisdizionale, tradizionalmente e istituzionalmente diretto alla composizione dei conflitti e all'accertamento di comportamenti devianti di singoli, si è via via trasformato per una molteplice serie di motivi, che hanno complessivamente portato al risultato di modificarne la natura...”

È stata devoluta alla magistratura una serie di compiti che non sono suoi propri e che investono più la funzione politica che non quella giurisdizionale. In tema di terrorismo, ad esempio, tutto il complesso fenomeno, di chiarissima natura politica, è stato affrontato a livello giudiziario e risolto - per quanto si è potuto attraverso strumenti utilizzati dalla magistratura.

Quello del terrorismo è uno dei tanti settori nei quali si è verificata l'imposizione alla magistratura di un'attività di supplenza da parte di altri apparati dello Stato… non mancano altri campi, più o meno estesi e più o meno evidenti, in cui sono state scaricate sulla magistratura responsabilità che spetterebbero, in linea di principio, ad altri organi o settori dello Stato. Ciò ha portato necessariamente l'ordine giudiziario ad invadere, perché richiesto, sfere di intervento istituzionalmente riservate ad altri. È successo, inoltre, che gli spazi lasciati liberi dalla mancanza o dalla più o meno grave insufficienza della opposizione politica siano stati essi pure, ed essi pure necessariamente, occupati dall'intervento giudiziario”.

È molto significativo come vi sia una costante in parti della magistratura di costruire un protagonismo istituzionale fuori dal dettato della Costituzione, ed è incomprensibile questa ostinazione di costruire una magistratura – politica. So bene che la colpa è della politica ma è la classe dirigente non solo la politica che deve avere consapevolezza e allarmarsi. L’evoluzione del ruolo della funzione della magistratura non può avvenire in queste forme perché costituirebbe un vulnus per la democrazia.

La distinzione dei poteri non è superata perché dall’epoca di Montesquieu sono passati tanti anni, ma è l’anima dello stato di diritto, dell’equilibrio tra i poteri perché nessuno deve prevalere sull’altro e ogni potere deve essere fedele alle sue rigorose competenze.

La sentenza della Cassazione vogliamo sperare chiude questo lungo periodo di “supplenza”, ristabilisce la consistenza dei fatti e cancella una distorta e mendace cronaca di tutti questi anni per la quale abbiamo patito tutti e hanno patito i personaggi che hanno avuto un ruolo importante nel nostro Paese opposto a quello che le sciagurate iniziative giudiziarie hanno voluto indicare. È arrivato davvero il momento di correggere la storia distorta che le indagini di Tangentopoli e quelle contro la mafia hanno fittiziamente costruito, e ristabilire un rapporto virtuoso tra la società e le istituzioni, tra la società e la politica.

La sconfitta non esiste...Fatto Quotidiano come i soldati giapponesi, Travaglio pubblica accuse ‘non dimostrate’ sulla Trattativa mai esistita. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 6 Maggio 2023 

Come i soldati giapponesi che, finita la seconda guerra mondiale, rimasero nascosti sulle isole delle Filippine in attesa di ricevere ordini per sferrare l’offensiva contro l’esercito americano, al Fatto Quotidiano, nonostante la Cassazione abbia detto che la trattativa Stato-mafia non è mai esista, sono sempre pronti a raccogliere le testimonianze di qualcuno che affermi il contrario, e che Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri abbiano avuto un ruolo di ‘mandanti’ delle stragi di mafia del 1993-94.

Per proseguire tale narrazione, ovviamente, si ricorre come nelle migliori tradizioni alla classica fuga di notizie. Ieri, infatti, il quotidiano di Marco Travaglio ha tirato fuori dal cassetto una inedita informativa della Direzione nazionale antimafia (Dia) del 16 marzo del 2022. Nell’informativa, mai depositata alle difese di Berlusconi, si descrivono le attività d’indagine svolte sui telefoni dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss di Brancaccio, arrestati nel 1994 e da allora in carcere al regime del 41 bis. I cellulari dei Graviano, in particolare, nel 1993 avrebbero agganciato diverse volte le stesse celle telefoniche di quelli in uso a Dell’Utri e Berlusconi. Tale coincidenza sarebbero la prova, dunque, dell’avvenuto incontro fra loro anche se Dell’Utri e Berlusconi hanno sempre smentito rapporti con i due boss.

Nell’informativa, poi, si evidenzia la circostanza che quando i Graviano ordivano il loro piano stragista, Berlusconi si preparava a scendere in campo. La nota, firmata dal primo dirigente della Polizia di Stato Francesco Nannucci, era stata trasmessa al procuratore facente funzione di Firenze Luca Turco e all’aggiunto Luca Tescaroli. Quest’ultimo è noto perché da giovane magistrato in servizio alla Procura di Caltanissetta negli anni ‘90 indagava sulle medesime vicende per poi giungere invariabilmente all’archiviazione.

Un canovaccio che si ripete dunque con gli stessi protagonisti e con le stesse vittime, cui non viene concesso neppure il diritto di essere imputate in un regolare processo per potere poi, seppur a distanza di qualche decennio, sostenere di essere innocenti. Di ciò sembrano essere in qualche misura consapevoli anche al Fatto Quotidiano in quanto, senza timore evidentemente di scadere nel ridicolo, alla fine del pezzo scrivono: “Accuse pesantissime che gli indagati smentiscono e che allo stato non sono dimostrate”.

Sicché ci si chiede come possa Nannucci, dal 2019 capo centro della Dia dopo essere stato per oltre 15 anni capo della Squadra mobile di Prato, mettere nero su bianco accuse simili sebbene “non dimostrate”, e quale interesse ad una corretta e veritiera informazione possano avere un giornalista e un quotidiano a pubblicare accuse da loro stessi ritenute “non dimostrate”, se non orientare politicamente il lettore contro l’avversario di turno. Sarebbe quindi il caso che la Procura di Firenze, in attesa che il Csm decida finalmente di nominare il nuovo procuratore, si dedicasse con lo stesso impegno e zelo a perseguire reati conclamati quale quello segnalato dalla giudice Sara Farini, anziché ingolfare la macchina della giustizia con indagini che tutti sanno che porteranno a nulla, se non all’ennesima archiviazione, come ci ha abituato Tescaroli da quasi un trentennio.

Si dà il caso, infatti, che in una recente audizione davanti alla Commissione giustizia del Senato, per la precisione il 2 febbraio scorso, Turco nulla aveva risposto alla senatrice Erika Stefani (Lega) che gli chiedeva conto dell’indagine sulla ormai famosa fuga di notizie del 29 maggio 2019 quando il Corriere, Repubblica e il Messaggero con articoli fotocopia avevano pubblicato le intercettazioni allora in corso a Perugia sull’indagine a carico dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, determinando le dimissioni di ben cinque consiglieri del Consiglio superiore della magistratura.

La giudice del tribunale di Firenze Farini, con un provvedimento del 27 gennaio 2021, quindi di oltre due anni fa, a proposito della divulgazione degli atti dell’indagine perugina del 29 maggio 2019, aveva testualmente affermato che “sussiste senza dubbio il fumus commissi delicti del reato in iscrizione, considerata la circostanza – non controversa alla luce della documentazione prodotta dal denunciante (Palamara, ndr) e dalla scansione temporale dei fatti riferita in querela – della pubblicazione su varie testate giornalistiche di notizie ancora coperte da segreto investigativo”.

Appare dunque configurabile – aveva aggiunto la giudice – la fattispecie di cui all’art. 326 c.p. (rivelazione del segreto d’ufficio, ndr): vi è stata una condotta di illecita rivelazione di dette notizie da parte di un pubblico ufficiale, allo stato non identificato, che, avvalendosi illegittimamente di notizie non comunicabili in quanto coperte dal segreto investigativo, riferibili ad atti depositati presso la Procura della Repubblica di Perugia, le ha indebitamente propalate all’esterno”. E a proposito della condotta tenuta dalla Procura di Firenze nella per- sona di Turco, la medesima dottoressa Farini non aveva mancato di precisare che “ad oggi non risulta- no infatti compiuti atti di indagine volti quantomeno a circoscrivere la platea di soggetti che possono esse- re venuti in contatto con le notizie segrete indebitamente propalate all’esterno della Procura della Repubblica di Perugia”.

Tornando comunque alla fuga di notizie da parte del Fatto Quotidiano, l’avvocato romano Giorgio Perroni, difensore di Berlusconi a Firenze, ha depositato ieri una denuncia alla Procura di Firenze.

Paolo Pandolfini

Estratto dell’articolo di Marco Lillo per “il Fatto quotidiano” il 9 maggio 2023.

La Procura di Firenze ha interrogato Giuseppe Graviano in cella in due occasioni il 20 novembre 2020 e il 1º aprile del 2021 nell’ambito dell’indagine poi chiusa e riaperta a fine 2022 su Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi per le stragi del 1993. 

In entrambi i casi il pm Luca Tescaroli ha chiesto al boss dei suoi rapporti con Dell’utri partendo da due conversazioni in cella del 1998 e 1999 con la sorella Nunzia in cui, per la Dia, parlerebbe proprio dell'ex senatore cercando di portare, tramite l'avvocato Fragalà, messaggi all’esterno verso vari soggetti tra cui, appunto, un ‘Marcello’ che sarebbe Dell’utri .

Ovviamente l’intento, anche se fosse stato nella mente di Graviano, non è detto si sia realizzato e non è riscontrato. Peraltro negli interrogatori ha negato questa interpretazione e ha negato soprattutto di conoscere Dell’utri. La Dia e i pm di Firenze però non mollano e nell’informativa del 16 marzo 2022 elencano una serie di elementi che sembrano andare in senso inverso. 

ALLORA, fatte le solite premesse (Dell’utri, come Berlusconi, è stato indagato già in passato per le stragi del 1993 a Milano e Firenze e per gli attentati di Roma – per i quali è stato condannato Gravian – e più volte il procedimento sui “mandanti esterni” è stato archiviato; parliamo di spunti investigativi che per ora non hanno portato nemmeno a un avviso chiusura indagine ma che sono di interesse pubblico perché rivitalizzati dalla Dia e messi in relazione con atti e fatti più recenti) passiamo a riportare quel che scrive il capocentro Dia di Firenze Francesco Nannucci: “Altri elementi di connessione tra Giuseppe Graviano e Marcello Dell’utri vennero desunti anche dall’esito delle indagini condotte dal centro operativo Dia di Palermo nell’ambito dell’operazione ‘Lince’ (procedimento¸penale n. 1519/08-21 DDA) in particolare; vennero intercettati, rispettivamente in data 24 giugno 1998 e 24 marzo 1999, due colloqui presso il carcere di Spoleto tra il detenuto Giuseppe Graviano e i suoi familiari ai quali il predetto esprimeva la necessità di riportare all’esterno della struttura carceraria suoi messaggi da recapitare a terzi tramite l’avvocato Fragalà. 

Tra i destinatari dei messaggi, nel primo colloquio, – prosegue la Dia – faceva riferimento più volte a tale ‘Marcello’, mentre nel secondo colloquio cita il cognome ‘Dell’utri’ e la necessità di reperire l’indirizzo del citato avvocato”. 

La Dia evidentemente fa riferimento a Enzo Fragalà, parlamentare di An dal 1994 al 2006, professore e avvocato di aggredito da un manipolo di mafiosi di Palermo il 23 febbraio del 2010, a bastonate all'uscita dal suo studio. Dopo tre giorni di coma, morto. 

I mafiosi, secondo i collaboratori di giustizia, volevano punirlo perché negli ultimi tempi sarebbe diventato troppo ‘sbirro’, cioé troppo incline a far parlare i suoi assistiti con i magistrati. Quindi Fragalà è una vittima di mafia.

La Dia sostanzialmente scrive che nel 1998, quando Fragalà era parlamentare An e Dell'utri senatore Fi, Graviano parla alla sorella Nunzia dell’avvocato pensando di far portare un messaggio a Marcello. La Dia richiama indagini del 2013 e scrive: “In considerazione degli accertamenti (...) gli investigatori identificarono il citato ‘Marcello’ proprio in Marcello Dell'utri”. 

[…] La Dia riporta un estratto dell’intercettazione che effettivamente è di per sé poco comprensibile. Secondo la Dia oltre a Fragalà Graviano cita anche un secondo avvocato, Zito. La Dia evidenzia i punti salienti della conversazione, in particolare le parole Sismi e “barba”, accompagnata da gesti che farebbero riferimento al rischio che ci siano microspie in giro in grado di intercettare il discorso che lui vuol portare fuori dalla cella. 

[…] Difficile davvero dare un senso al discorso di Graviano tra barbe, SISMI, avvocati e messaggi. Infatti la Dia prosegue spiegando che i pm andavano “a sentire Graviano rispettivamente in data 20.11.2020 e 1.4.2021”. Graviano nella prima audizione chiede di sentire l’audio. Nella seconda, quando gli dicono che non c’è più, dice che “la trascrizione non è esatta”. Alle domande del pm Tescaroli su chi fosse “barba” risponde: “ho conosciuto l'avvocato Zito e l’avvocato Fragalà come avvocati di processi, mentre non ho mai utilizzato il nomignolo barba per indicare una qualche persona, o per lo meno non ricordo”. 

P.M. Tescaroli: “Se ha menzionato Marcello, no? Come risulta, a chi si riferiva? Chi è questo Marcello”? 

Graviano: “Può essere anche Marcello Tutino. Vi assicuro che se ...” 

P.M. Tescaroli: “Marcello”? Graviano: “Tutino o qualche altro Marcello che conoscevamo ... però vi posso assicurare che io il signor Dell’utri non lo conosco. Ve lo ripeto ancora”.

La Dia non crede molto a queste parole. Graviano dice che quel Marcello poteva essere un suo uomo di secondo livello come Marcello Tutino ma effettivamente quel soggetto poco c'entrerebbe nel discorso fatto dal boss alla sorella Nunzia su “SISMI”, avvocati e sul misterioso “barba”. 

Nell’informativa la Dia, dopo aver riportato le risposte di Graviano su Dell’utri, chiosa richiamando un collaboratore che dice cose ben diverse:“al fine di dirimere ogni dubbio, si riportano di seguito gli esiti degli interrogatori del collaboratore Gaspare Spatuzza i quali forniscono una chiave di lettura oggettiva e lineare in merito al possibile coinvolgimento di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’utri in ordine al fallito attentato all'olimpico di Roma il 23 gennaio 1994”. Seguono le dichiarazioni di Spatuzza e le parole dette da Graviano in cella nel 2016 sulla “bella cosa” che a suo dire gli sarebbe stata chiesta da un “lui” che negli interrogatori sostiene essere Berlusconi.

POI LA DIA riporta la versione di Graviano sulla “bella cosa” (nulla a che fare con bombe ma solo un riferimento a investimenti immobiliari) e dopo aver spiegato perché non crede a questa versione minimal scrive: “In conclusione, si può quindi affermare che la conversazione ambientale del 10.4.2016, oggetto di rivalutazione nel corso dell’odierna delega di indagine, è riconducibile al contesto criminale relativo alla strage dell’olimpico del 23.1.1994, con il coinvolgimento di Silvio Berlusconi, per il tramite di Marcello Dell’utri, quale diretto interessato alla sua realizzazione”. Una linea interpretativa tutta da dimostrare che al momento non ha trovato riscontri e non è escluso che l’indagine contro Berlusconi e Dell'utri sia archiviata come già in passato su richiesta dei pm.

 Marcello Dell’Utri è un numero uno della politica e della cultura italiana (e se ne fotte di Massimo Giletti). L’ex ad di Publitalia ed ex parlamentare di Forza Italia ha ben altro da fare che pensare alle accuse del trombato Massimo Giletti e del noiosissimo Peter Gomez. Legge, viaggia, si gode i figli e la “sua” Milano2. Stefano Bini su Notizie.it  il 9 Maggio 2023

Marcello Dell’Utri è definitivamente un uomo libero, criticabile come chiunque persona al mondo ma a questo punto esonerato per sempre da ogni accusa giuridica e morale. Anche perché di moralità Marcello Dell’Utri ne ha da vendere: la vecchia guardia di Publitalia lo ricorda con sincero affetto per quanto ha insegnato “ai fu giovani pionieri” della concessionaria, quando tutto era da costruire e nessuno sapeva come sarebbe andata a finire. Da Silvio Berlusconi ai figli, da Publitalia a Mediaset, da Fininvest al Milan, fino a Forza Italia, tanti devono dire grazie a Marcello Dell’Utri, non solo per l’esperienza, l’umiltà, la cultura e la diligenza che è riuscito a trasmettere a centinaia di persone ma per l’approccio umano, che riusciva e riesce a conquistare tutti. Dell’Utri è un uomo di una cultura immensa, che ama alla follia moglie e figli, non ha mai smesso di leggere libri di letteratura e saggi, di guardarsi intorno alla ricerca di giovani da sostenere e promuovere nelle sue attuali attività culturali. Sorriso bonario, spirito giovane ed entusiasmo fanno il resto.

Dopo decenni, sarebbe il momento di mettere la parola “fine” alle accuse ingiuriose e infamanti nei confronti di un uomo che, a questo punto ingiustamente, ha fatto anni di carcere tra Parma e Rebibbia a Roma, passato momenti di depressione, lontano dalla famiglia e con un tumore; ora è un uomo libero e può fare ciò che vuole, come ogni essere umano cosciente. Il peso di queste situazioni è stato fortissimo eppure non si è lasciato mai scalfire, né dagli attacchi televisive finanche quelli mediatici, provenienti soprattutto da Repubblica e dal Fatto Quotidiano, i quali ormai hanno la credibilità dei pupazzi Uan e Four.

Massimo Giletti accusa e Peter Gomez attacca, una storia ripetuta migliaia di volte che ormai non ha più appeal. Attaccare Marcello Dell’Utri, come Silvio Berlusconi, è diventato di una noia e banalità pazzesche. Secondo i suddetti giornalisti, Dell’Utri sarebbe intervenuto per far cacciare Massimo Giletti da La7; addirittura si sono spinti a dire che in televisione l’ex senatore è un tabù e i programmi che ne parlano spariscono. Situazioni incomprensibili, che talvolta fanno ben capire il livello intellettuale e professionale di certe persone.

Marcello Dell’Utri, che si parli o meno di lui, rimane un esperto di politica, management e cultura, punto di riferimento di milioni d’italiani che da una parte lo hanno conosciuto e dall’altra ammirato nelle varie attività svolte in cinquant’anni di carriera. Chi ha avuto modo di starne a contatto sa bene che non si sporcherebbe mai le mani per avvenimenti o persone che non meritano la minima attenzione.

In questi giorni, giornali e giornalisti, blog e blogger, giornalai e amanti del ciarpame mediatico hanno straparlato; di contro, Marcello Dell’Utri non ha rilasciato alcuna dichiarazione. Questione d’intelligenza, stile e superiorità morale.

Gli occhiuti storiografi giudiziari. La foto del mafioso con Berlusconi che non c’è e la nuova storia sull’arresto di Totò Riina: gli ‘scoop’ di Domani e Fatto. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Aprile 2023 

La foto “prova regina” del legame tra Silvio Berlusconi e la mafia non si trova. Ovviamente. Ma potrebbe sbucar fuori una casa. Vuoi che un ricco imprenditore brianzolo non abbia nemmeno uno straccio di villa sul Lago Maggiore? Magari a due passi da quella a Meina del generale Francesco Delfino, colui che nella fantasia dei mafiologi professionisti sta prendendo il posto di Mario Mori.

E, se non proprio a due passi, magari a trenta-quaranta chilometri, da quei luoghi del lago d’Orta e vicinanze, Omegna e Borgomanero, dove nei primi anni novanta trovarono rifugio i latitanti fratelli Graviano e quel Balduccio Di Maggio, l’autista che ha fatto arrestare il suo capo, Totò Riina. Tutti in fuga dal nemico Giovanni Brusca. Ogni notizia, ormai lo sappiamo, è quella che “riscrive la storia”. Non quella del Risorgimento o della grande guerra o della seconda e del fascismo e la resistenza e l’arrivo degli americani. E neanche quella della ritrovata democrazia e la nostra bella Costituzione e poi la ricostruzione.

Niente di tutto ciò. La storia da riscrivere, in cui sono impegnati sempre i soliti, che poi sono un pugno di penne e di toghe, è una e una sola, quella delle stragi di mafia. Un mondo e una storia che ormai esistono non solo in sentenze che credevamo definitive, ma soprattutto in qualche atto giudiziario di passaggio e negli occhi stanchi di chi passa troppo tempo a spulciarli dopo il consueto dono delle mani amiche.  Così i primi anni Novanta, fino al 1994 quando è entrato in scena Silvio Berlusconi, vengono letti e riletti, e aggiustati e maneggiati e rivoltati, per arrivare sempre alla medesima conclusione. Chi ha messo le bombe nelle mani di quel contadino analfabeta di Totò Riina? E perché? E ogni volta, a ogni nuova “notizia”, che in genere notizia non è, come l’ultima sulla foto con il generale Delfino e il mafioso Graviano, si squarcia un velo. Ma gli articoli sono tutti uguali.

Anche se c’è una novità nel panorama della comunicazione. La Repubblica, il quotidiano che fu capostipite nella campagna politico-giudiziaria contro Silvio Berlusconi, contro il suo ingresso in politica, con l’occhio attento delle dieci domande sulla sua vita personale, è ormai tagliata fuori. I nuovi esecutori dell’ O di Giotto con cui l’allievo superò il maestro Cimabue, sono gli storiografi giudiziari di Domani e del Fatto. Che si accapigliano e si scopiazzano senza pudore. Dopo lo scoop della foto su Berlusconi che non c’è, e che ha creato quel parapiglia nella redazione di La 7 su cui ci illuminerà Enrico Mentana domenica sera, è ora la volta di squarciare anche l’oscurità dell’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio del 1993, due ore prima dell’arrivo a Palermo del nuovo procuratore Giancarlo Caselli.

La spiata era arrivata dal “traditore” Balduccio Di Maggio, che del boss dei corleonesi era stato l’autista. Quello che noi boccaloni credevamo fosse stato fermato pochi giorni prima, l’8 gennaio. Pare invece che il “traditore” e “pentito” fosse nelle mani della giustizia già da qualche giorno, da prima del capodanno 1992. Nelle mani di chi? Domanda ingenua. Del generale Delfino.

Delfino chi? Ma quello della foto con Berlusconi e Graviano no? E dove? Ma sul lago D’Orta, ovvio. E qui il cerchio si chiude, perché Di Maggio viene arrestato a Borgomanero, luogo a quindici chilometri da Omegna dove il gelataio Baiardo, quello che ha fatto fuori Giletti da La 7, ospitava i fratelli mafiosi Graviano, uno dei quali, Giuseppe, sarebbe il protagonista della famosa foto. Inoltre, guarda caso, il generale Delfino aveva una villa a Meina, cittadina che non c’entra niente con gli altri due luoghi, perché è sulla punta sud del lago Maggiore.

Però agli occhiuti storiografi giudiziari non può sfuggire il fatto che tutto sommato stiamo parlando di soli trenta chilometri di distanza. Poi, se vogliamo proprio dirla tutta, quanti laghi ci sono tra Lombardia e Piemonte? Lasciamo stare il Garda che è più sopra, ma non vogliamo vedere se non c’è stato qualche mafioso nascosto in quegli anni per esempio sul lago di Varese? L’onore dello scoop andrebbe al Fatto del 17 aprile, se il giorno dopo, il 18, Domani non avesse schierato la corazzata Attilio Bolzoni, che come il suo collega Giuseppe Pipitone conosce a spanne la geografia del nord d’Italia, ma viene dalla scuola di Repubblica, quindi ci mette il carico di chi conosce la storia dall’inizio.

Sentite: “In un angolo d’Italia lontano da Palermo è accaduto qualcosa che può ribaltare la scena intorno alla cattura di Totò Riina, che poi è il principio di ogni mistero. Perché è da quel momento che si incastra tutto: mafia, stato, stragi, depistaggi, patti. Oggi possiamo avere una visione meno incompleta sulle uccisioni di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, sulle bombe di Firenze”. Manca solo una villa di Silvio Berlusconi sul Lago Maggiore, possibilmente con dépendance affittata all’amico Marcello Dell’Utri.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Dagospia il 19 aprile 2023.

Caro Dago

Come è noto Fremantle Italia è solo il produttore esecutivo di Non è l’arena e non gestisce la raccolta pubblicitaria del programma che è, invece, di competenza della rete. Eventuali retroscena su questo argomento sono dunque fantasiose ricostruzioni dei fatti.

Ufficio stampa Fremantle Italia

Estratto dell'articolo di Salvatore Merlo per “Il Foglio” il 19 aprile 2023.

Chissà perché viene raccontato come un mistero. Urbano Cairo ha chiuso il programma di Massimo Giletti su La7, quello grazie al quale l’Onu è stata sul punto di inserire l’Italia nell’elenco dei paesi sottosviluppati, perché ormai Giletti gli faceva perdere una barca di soldi. E nell’ultimo mese la situazione si era fatta addirittura insostenibile: circa centocinquantamila euro di passivo ogni puntata. 

Insomma ogni santo giorno in cui “Non è l’Arena” andava in onda, Cairo, uno che a La7 riesce a tagliare i costi persino delle colazioni al mattino, che rinegozia al ribasso pure i contratti già chiusi verbalmente, era costretto alla più spaventosa (per lui) delle ginnastiche: quella di svuotare il portafogli. Circa duecentomila euro di spesa a puntata per tenere in piedi la trasmissione di Giletti, quando un talk-show, pure il più lussuoso, costa al massimo – volendo esagerare – centocinquantamila euro a puntata. Con una raccolta pubblicitaria compresa tra i cinquanta e i sessantamila euro. Dunque in passivo. Assai in passivo.

[…]  il programma più redditizio di La7 è “Otto e mezzo” di Lilli Gruber, che non ha servizi giornalistici, non ha inviati in esterna, non ha impianto scenico di studio e i cui unici costi sono all’incirca il compenso della conduttrice e quello di alcuni ospiti fissi. I denari si fanno così: spendendo il minimo e raccogliendo il massimo di pubblicità. Un equilibrio delicato. Se salta, perché calano gli ascolti, si va in perdita. E Cairo in perdita non ci vuole andare mai. Il verbo che preferisce è ovviamente “guadagnare”, mentre “pagare” gli piace un po’ meno. […]

Cairo non è un finanziere come Caltagirone, che possiede il Messaggero. Non costruisce automobili come Elkann, che possiede Repubblica. Vive di tivù e giornali. Che devono andare bene. O perlomeno benino. Inoltre, ha una ben nota fissazione, si direbbe quasi patologica, per le marginalità. Anche quelle minime. C’è chi racconta di avere contrattato con lui per ore su cifre intorno ai ventimila euro. Altri per quella somma acquistano un’automobile semi utilitaria. Lui, per risparmiarli, ci perde una giornata. 

[…] Partito nella stagione 2017-2018 con 1.403.813 spettatori, Giletti nei successivi cinque anni quegli spettatori li ha dimezzati arrivando oggi a una media di 779.979. E anche se in questa stagione si stava forse riprendendo, la pubblicità non entrava comunque. 

[…]

D’altra parte persino Giletti era consapevole del calo degli introiti pubblicitari. E se ne lamentava. Però più andava male, più lui si spingeva su temi controversi, per così dire. Compresa la mafia e la stagione delle stragi. Spesso infatti l’insuccesso costringe questi conduttori di talk-show ad acrobazie nel ramo dell’informazione a fumetti. Addirittura pare che a un certo punto il famoso Salvatore Baiardo, il mezzo mafioso che lui ospitava a pagamento, quello della presunta foto di Berlusconi con lo stragista Graviano, si sarebbe offerto di dare una mano per trovare lui aziende interessate a investire nella pubblicità di “Non è l’Arena”. Roba tipo “Catania arancino express”. 

Dicono che questa ipotesi, nei giorni scorsi, avesse mandato nel panico i dirigenti di Fremantle, la casa di produzione che confezionava il programma di Giletti. La settimana scorsa un dipendente di Fremantle avrebbe infatti ricevuto questo incarico noiosissimo: andare a rivedere tutti i passaggi pubblicitari di “Non è l’Arena” in questa stagione e verificare che non ci fossero cose tipo aziende di Corleone operanti nell’export di olio d’oliva. Erano terrorizzati che qualche azienda non precisamente specchiata potesse avere acquistato sul serio gli spazi pubblicitari. Sarebbe imbarazzante. Ma sarà stata certamente solo una spacconata, una delle tante, di Baiardo. 

[…]  Il narcisismo di Giletti lo spinge a pensarsi vittima di un’epurazione, perché è per natura incapace di accettare un fallimento professionale. Se lo prenderà la Rai? Chissà. E’ già iniziata una battaglia tra Matteo Salvini e Fratelli d’Italia. Fino a luglio Giletti non dirà praticamente nulla di questa faccenda, in quanto è ancora sotto contratto con La7. Ma il racconto giornalistico che se ne fa, fitto di suggestioni e inafferrabili collusioni che fluttuano come gas sulle pagine dei quotidiani più sbrigliati, prepara forse il terreno per una sua mega intervista di denuncia.

Essere epurati, in Italia, equivale al Nobel. Dunque Massimo Giletti non solo riceve ancora il suo compenso da La7, ma deve anche rispettare delle clausole di correttezza e di riservatezza. Insomma deve stare zitto. E infatti domenica è improbabile persino che vada da Enrico Mentana che ha annunciato di volergli dedicare uno speciale. […] 

[…] Dopo l’estate, una volta libero dal contratto che lo costringe al silenzio, che ne sarà di lui? Andrà alla Rai? Matteo Salvini, negli ultimi tempi ospite frequentissimo di “Non è l’Arena”, è stato l’unico leader politico a intervenire pubblicamente a sua difesa. Sentendosi forse in colpa per aver contribuito al flop degli ascolti di Giletti (basta guardare le curve auditel per constatare che Salvini è stato un diserbante sugli ascolti già non rigogliosi di Giletti: dove passa il leghista ormai non cresce più l’erba), gli ha espresso solidarietà.

Con un tweet. Questo: “Il mio abbraccio a Massimo e alla sua squadra. L’ho sempre stimato e spero di rivederlo in video al più presto”. Salvini lo voleva già candidare sindaco prima a Torino, e poi a Roma. Adesso dicono tutti che voglia officiarne il ritorno in Rai. Bisogna però probabilmente aspettare che nell’azienda cambi la governance e venga mandato via l’attuale amministratore delegato. Si vedrà. 

Tuttavia gli uomini di Giorgia Meloni non sono inclini all’idea di prendere Giletti. Almeno così sembra. Giampaolo Rossi, che è il direttore generale in pectore, ha escluso che ci siano stati contatti con Giletti. Roberto Sergio, invece, che è l’amministratore delegato in pectore ed è un interno Rai, ha ammesso riservatamente di aver incontrato Giletti. Ma richiesto di dare spiegazioni ha precisato: “Era soltanto per un caffè”.

Trattandosi di una trasmissione che in Rai rientrerebbe nell’incongrua definizione di “approfondimento”, il ritorno di Giletti dovrà coinvolgere anche il direttore dell’approfondimento. Che, nel futuribile organigramma della Rai meloniana, dovrebbe essere Paolo Corsini. Giornalista di destra, sì, ma non leghista. Sicché ieri sera girava una leggenda talmente fantastica e inverosimile da essere certamente vera: “Finirà che non potendolo riportare in Rai, Salvini candiderà Giletti capolista alle europee”.

Caso-Giletti, la mossa di Baiardo: toh, chi sceglie come avvocato. Libero Quotidiano il 21 aprile 2023

Salvatore Baiardo ha confermato l'avvocato d'ufficio Carlo Maria Fabbri come suo avvocato di fiducia. Fabbri, come sottolinea il Fatto quotidiano, è uno storico difensore di collaboratori di giustizia, ed era stato chiamato dalla Procura di Firenze per assistere Baiardo, appunto, nell’interrogatorio del 27 marzo scorso. Quel giorno Luca Tescaroli, pm di Firenze, chiese all’ex gelataio amico dei fratelli Graviano di parlare della famosa presunta fotografia che ritrarrebbe Silvio Berlusconi con il boss Giuseppe Graviano e il generale Francesco Delfino, e della quale aveva accennato, sempre davanti ai pm Massimo Giletti il 19 dicembre scorso. L'ex gelataio, quindi, in modo assolutamente non scontato, ha confermato Fabbri che è già stato avvocato di pentiti come Francesco Marino Mannoia. Anche se Baiardo non vuole essere considerato un pentito visto che ha scontato la sua pena e non si è pentito di nulla.

Ma c'è di più. In un video pubblicato sul suo profilo TikTok l'ex gelataio riferisce anche di un incontro al ristorante Pierluigi tra Urbano Cairo e Giletti e ha invitato il conduttore di Non è l'arena a dire che cosa si sono detti. Il faccia a faccia è stato immortalato anche dal re dei paparazzi Rino Barillari il 15 febbraio alle 23:40 all’uscita del Pierluigi appunto e pubblicata il 13 aprile dal sito Leggo.it. Ma quella sera, come scritto il 19 aprile dal Fatto, "c’erano anche l’ad di La7 Marco Ghigliani e il sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi, amico di Giletti. Che ci faceva Mazzi?". Anche su questo punto, al momento, non c'è risposta. 

Salvatore Baiardo minaccia Libero: "Sarete querelati". Brunella Bolloli su Libero Quotidiano il 20 aprile 2023

«...Perché qui mi stan facendo fare la fine di Berlusconi. Sto passando tutti i weekend con i miei avvocati da quando è scoppiata questa bomba di Giletti...». Capelli al vento, occhiali sul naso, inflessione piemontese e sfondo pseudo bucolico, Salvatore Baiardo, senza più le telecamere puntate di Non è l’Arena, affida a Tik Tok il suo sfogo. L’uomo dei misteri ora fa la vittima, e già qui ci sarebbe da ridere. Il gelataio di Omegna, ma con origini palermitane, che a novembre aveva rivelato a Massimo Giletti che la cattura di Matteo Messina Denaro era vicina («è malato, non ne ha per molto»), è tornato sui social con le sue “profezie” e con qualche minaccia ai giornalisti che non pendono dalle sue labbra. Dopo avere annunciato, la scorsa settimana, che sarà protagonista di nuove iniziative su altri canali televisivi competitor de La7, che a breve darà alle stampe un libro scoppiettante, ha assicurato che il suo conduttore preferito non firmerà alcun contratto con la Rai («Giletti racconta solo quello che vuole raccontare, ma non dice della cena con Cairo al ristorante da Pierluigi in piazza de’ Ricci a Roma. Perciò io devo stare lì ancora a perdere tempo con Giletti? No»).

Poi ammette che la mafia «sì, in Italia ce l’abbiamo, la stanno combattendo, è giusto che sia così, però non bisogna neanche sempre infangare le persone...». Povera stella: non ci sta. Guai ad accostarlo ai cattivi. Salvatore passa alle vie legali e, non sapendo cosa fare, punta il dito contro Libero, in particolare attacca Filippo Facci, che di lui ha scritto in prima pagina almeno tre pezzi specie venerdì scorso quando è scoppiato il bubbone sul presunto cachet del gelataio gola profonda ed è emersa un’indagine della Direzione investigativa antimafia di Firenze. «Tanti mi dicono che io sono amico di Berlusconi, lo difendo, lo attacco, no: io comincio a querelare Libero», fa sapere Baiardo mischiando politica e giornali, «nella persona del giornalista Facci, che continua a darmi del “pentito” e anche le mie figlie sono preoccupate del fatto che si scriva di me che sono un “pentito”. Ma se Facci trova un verbale di un magistrato firmato da me in cui c’è scritto che io sono un pentito... Invece non c’è perché io non ho niente di cui pentirmi di quello che ho fatto nella mia vita».

Il video prosegue con lui che si augura che Facci venga condannato non per una questione di soldi - «io non voglio un euro», giura, «devolvo tutto il risarcimento a queste associazioni di bambini autistici» ma basta scrivere «fesserie». Insomma, “l’indovino seriale”, come l’ha chiamato Attilio Bolzoni in un pezzo sul Domani in cui ripercorre “tutti i misteri irrisolti attorno al generale Delfino” (defunto dal 2014), non vuole proprio essere accostato ai pentiti di mafia, ma noi intendiamo tranquillizzarlo: Libero non l’ha scritto, casomai è il tg de La7 che sul sito l’ha chiamato così e cosa fa: querela anche loro? Per essere sicuri al cento per cento abbiamo riguardato gli articoli di Facci, ma si dà il caso che il collega editorialista sia esperto della materia giudiziaria e per questo molto attento alle parole. Infatti, a domanda precisa: Filippo, hai scritto di Baiardo che è un pentito?, la risposta è stata lapidaria.

«Su Libero del 7 febbraio e del 14 e 15 aprile ho scritto tre frasi praticamente identiche in cui specifico che Massimo Giletti non ha dato la parola a un pentito, ma a un favoreggiatore di stragisti mafiosi che in precedenza aveva detto talmente tante sciocchezze da non riuscire neppure a ottenere lo status di collaboratore di giustizia». Baiardo, per chi l’avesse conosciuto soltanto come ospite del talk show della domenica sera, è un ex consigliere comunale del Psdi della cittadina in provincia di Verbania, ma è soprattutto la persona che ne 1996, dopo la cattura dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, ha parlato segretamente con gli investigatori della Dia rifiutandosi di mettere a verbale le sue frasi in cui spiegava di essere stato un riciclatore dei Graviano, i boss del quartiere Brancaccio di Palermo, considerati i mandanti dell’assassinio di don Pino Puglisi nonché ritenuti i responsabili delle stragi in cui hanno perso la vita i giudici Falcone e Borsellino. 

LA MOSSA DI MENTANA. Estratto dell'articolo di Grazia Longo per “La Stampa” il 18 aprile 2023.  

Una trasmissione su La7, per ricostruire la vicenda che ha portato alla chiusura anticipata di Non è l'arena. Andrà in onda, a cura di Enrico Mentana, la sera di domenica prossima, proprio nello spazio dedicato al programma soppresso. Lo ha annunciato ieri sui suoi profili social proprio il direttore del TgLa7: «Sul caso Giletti continuo a pensare che queste crisi si superano solo con la chiarezza». 

E all'origine della decisione dello stop a Giletti pare esserci proprio la vicenda della foto proposta al giornalista dal fiancheggiatore dei fratelli Graviano, Salvatore Baiardo, che ritrarrebbe Silvio Berlusconi insieme all'ex generale dei carabinieri Delfino e al boss mafioso Giuseppe Graviano.

Il condizionale è d'obbligo perché di quello scatto non è mai stata trovata traccia dagli inquirenti della procura di Firenze che indagano sull'episodio. Massimo Giletti ha raccontato al procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, Luca Tescaroli, «di aver visto quella foto da lontano, di non averla potuta tenere in mano e di aver riconosciuto solo Berlusconi e Delfino, perché non avevo un'immagine in mente di Graviano». 

E ora Mentana precisa che «Giletti non informò l'editore Cairo né della foto fantasma fattagli intravedere da Baiardo, né della conseguente convocazione dai pm fiorentini. È nelle prerogative di un editore sospendere un programma, ma forse Urbano Cairo non poteva immaginare che sarebbero poi emersi tutti questi elementi, che rischiano di dare allo stop di Non è l'arena un segno diverso».

Che la storia della foto […] avesse influito sulla decisione di Cairo era stato ipotizzato anche dallo stesso Giletti. Ai suoi collaboratori, come riferito da La Stampa, aveva infatti precisato: «Chiediamoci perché ci hanno chiuso. Stavamo preparando tre puntate importanti, delicatissime. Deflagranti. E siamo stati fermati». Ma Cairo ha smentito ogni censura […]. 

Enrico Mentana, d'intesa con il direttore di rete, Andrea Salerno, ha così deciso di fare luce sull'intera vicenda. Interpellato al telefono, racconta che preferisce non dire nulla in più sulla puntata rispetto a quanto ha scritto nel suo post. Ma è certo che preparerà la trasmissione leggendo accuratamente le carte dell'inchiesta della procura di Firenze.

Domenica prossima è anche possibile la presenza di Giletti, ma al momento non si trova conferma. 

«Massimo è ancora sotto contratto, e la domenica resta libera – conclude Mentana –. E allora per domenica prossima stiamo pensando a una trasmissione che affronti tutte le questioni più scottanti emerse attorno a questa vicenda, adeguata testimonianza del fatto che da noi non si nasconde nulla, soprattutto quando si parla di mafia.  E chissà che poi...». I puntini di sospensione sembrerebbero alludere proprio alla partecipazione dell'ex conduttore di Non è l'arena. Ma, appunto, non è ancora certo. […]

Estratto dell’articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 18 aprile 2023.  

[…] Mentana non si è rivolto ai suoi telespettatori guardando in camera, ma ai suoi followers, attraverso i propri seguitissimi canali social. In tal modo dando l’impressione del capitano, rimasto finora prudentemente silente, che riprende vistosamente il timone in mano. Domenica, quindi, nei fatti andrà in scena il processo.

Niente pm e giudici, per carità. Forse qualcosa di più simile a un’ambasciata o a un moviolone grazie al quale il direttore maratoneta, vestendo panni forse un po’ più simili a quelli dell’indimenticato Aldo Biscardi, farà comunque lo scatto in avanti che serviva per provare a stemperare i toni del clamoroso giallo che nella settimana appena trascorsa ha messo in subbuglio contemporaneamente il mondo del giornalismo, della tv e della politica, senza tralasciare i giornalisti professionisti dell’antimafia che con Giletti, va detto, hanno avuto sempre il dente abbastanza avvelenato.

ARTICOLO DI FRANCESCA FAGNANI IN DIFESA DI MASSIMO GILETTI - LA STAMPA - DOMENICA 16 APRILE 2023

Particolare, quest’ultimo, sottolineato domenica con un circostanziato articolo di Francesca Fagnani (che di Mentana è la compagna) su La Stampa e ritwittato dalla vicedirettrice del TgLa7, Gaia Tortora. Con Fagnani che, papale papale, ha scritto come, in questo caso, «la libertà di stampa finisce dove inizia quella di chi ci sta antipatico» perché Giletti «non è di sinistra, anzi mostra confidenza con i leader della destra, ammicca da piacione alla telecamera e piace più alla pancia del suo pubblico che ai critici e ai colleghi». Mentre Gaia Tortora aveva parlato di «coraggio che manca a molti e libertà d’informazione a senso alternato». 

Prese di posizione nette e troppo vicine al direttore del TgLa7 perché lui stesso non intervenisse in prima persona a ingaggiare da un lato, muso a muso, il proprio confronto con la ricostruzione della verità ma dall’altro facendo oggettivamente (e in pieno accordo e collaborazione col direttore di rete) da garante rispetto al proprio editore.

Oltre a piazzare, da par suo, quello che sarà anche televisivamente un vero “colpo perfetto”. Nulla a che vedere col film americano dal titolo ammiccante o in questo caso fin troppo autoironico scelto da La7 come improbabile surrogato di Giletti, fermatosi a un umiliante 2,3% di share, ovvero meno della metà dell’ audience abituale di “Non è l’Arena” che viaggiava abitualmente tra il 5 e il 6% con un picco oltre l’8% proprio nella puntata successiva all’arresto di Messina Denaro, presente in studio il discussissimo Salvatore Baiardo. […]

Domenica su La7 speciale di Mentana. Il pataccaro Baiardo, lo scherzetto a Giletti e la foto di Berlusconi con Graviano che non esiste. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Aprile 2023 

Nel 1978 in Calabria con Bettino Craxi e il boss Peppe Piromalli, nell’agrumeto di uomini della ‘ndrangheta. Nel 1992 con il generale Delfino dei carabinieri e il mafioso Giuseppe Graviano, in un bar sul lago d’Orta. Ecco l’ultimo ritratto di Silvio Berlusconi che saltella tra cosche calabro-siciliane, negli scatti ossessivi del triangolo mafiologi di penna-mafiosi-mafiologi di toga.

Non ci dormono la notte, gli uomini della trattativa tra giornalisti, mafiosi e pubblici ministeri. Così in Calabria, in quel processo surreale chiamato “’Ndrangheta stragista”, che pare il fratello minore di quello palermitano sulla trattativa, un “pentito” di nome Girolamo Bruzzese ha potuto raccontare sotto l’occhio impassibile di procuratori e giudici un ricordo di se stesso quindicenne. Era il 1978, subito dopo l’assassinio di Aldo Moro. E “si doveva cambiare prospettiva politica”, riflette il quindicenne.

Fu per quello che un giorno comparvero in Calabria, nell’agrumeto del padre del ragazzino, due signori eleganti, con soprabiti neri e cappelli borsalino del tipo di quelli indossati “dai gangster americani”. Il baby-mafioso, non ancora “pentito”, li riconosce immediatamente, sono Silvio Berlusconi e Bettino Craxi, scesi in Calabria per trattare con Piromalli il cambiamento politico italiano. Se qualcuno pensa che si tratti di pura fantasia di un ragazzino o dello scherzo del “pentito”, non ha ancora visto niente. Parliamo della fotografia che sarebbe stata vista, ma “da lontano”, dal conduttore tv Massimo Giletti, ma che nessuno riesce a trovare, che avrebbe fissato l’immagine del mafioso Giuseppe Graviano con un alto ufficiale dei carabinieri, il generale Delfino e, ovviamente, Silvio Berlusconi.

I tre erano seduti in un bar “molto buio” sul lago D’Orta. Non siamo neppure inondati dal sole della Calabria, né inebriati dal profumo degli agrumi, ma nel buio di un bar sul lago nero e morto di Orta. Anche in questo caso, i più creduloni paiono essere i magistrati. Quelli di Calabria hanno il piccolo alibi di dover credere, o almeno far finta, alla testimonianza di un proprio collaboratore di giustizia, la cui parola non va mai screditata per non correre il rischio di vedere messa in discussione l’intera testimonianza. I pubblici ministeri di Firenze, quelli che dopo tre inchieste fallimentari e archiviate, ancora pensano di poter provare che Berlusconi e Dell’Utri abbiano messo le bombe delle stragi nelle mani di Cosa Nostra, non hanno eppure quell’appiglio, per evitare di rendersi ridicoli.

Così paiono dare credibilità al pataccaro Baiardo, uno che sembra inventato apposta per dare sostanza e patente di “antimafia” alla trasmissione “Non è l’arena” di Massimo Giletti su La 7. Un signore già condannato non solo per il favoreggiamento dei fratelli Graviano nei processi di mafia, ma anche per calunnia e falso. Uno ritenuto credibile da nessuno, del resto basta guardare le sue occhiate sornione, il suo dire e non dire, alludere e smentire, per aver voglia di mettergli in mano qualche spicciolo e mandarlo a comprarsi un gelato.

Invece la rete di Urbano Cairo lo invita quale ospite d’onore per tre volte in trasmissione e lo retribuisce: trentamila euro, quarantamila? In chiaro, in nero? Quel che conta è il fatto che il pataccaro Baiardo, amico di chi, se le sentenze non hanno sbagliato, le stragi di mafia le ha fatte davvero, pare avere più credibilità, agli occhi del conduttore Giletti e del suo editore (il quale ha detto di aver sempre lasciato il massimo di libertà alla trasmissione) di Silvio Berlusconi. E lasciamo perdere il momento storico, con le patacche sparate quasi sul letto della terapia intensiva dell’ospedale San Raffaele di Milano. Ma il fatto grave è che in quel di Firenze, all’indirizzo della Procura della repubblica, ci sono dei pubblici ministeri, Luca Tescaroli e Luca Turco, che ancora vanno a caccia di farfalle, sperando di acchiappare nella retina Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle bombe.

La loro indagine sulle stragi del 1993 avrebbe dovuto essere chiusa già dal 31 dicembre del 2022, ma a quanto pare di proroga in proroga viene tirata in avanti da un invisibile elastico che la sta rendendo eterna, per quanto fallimentare. Mancava solo il pataccaro Baiardo. Che, ovviamente, ha già ritrattato tutto. E mai consegnerà una foto che non esiste. Dopo aver tirato un bello scherzetto al povero Giletti. Come faranno adesso i due pm Luca, visto che “Non è l’arena” è stata chiusa, e che le posizioni di Berlusconi e Dell’Utri sono state già archiviate tre volte e si avviano alla quarta?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Da adnkronos.com il 21 aprile 2023.

"Ci sono vicende che non si possono risolvere all'interno di uno studio televisivo. Vanno affrontate nei luoghi deputati per farlo, cioè gli uffici di un'azienda, altrimenti vanno a finire in un'aula di tribunale". A dirlo è Massimo Giletti che, in un video, comunica che domenica non sarà presente allo speciale condotto da Enrico Mentana su La7 che riguarderà la vicenda del blocco anticipato della sua trasmissione 'Non è L'Arena'.

"Come vedete -dice Giletti nel video- sono appena uscito dalla Procura di Firenze e questo vi fa capire la situazione complessa, difficile e delicata che stiamo vivendo. Per questo, pur dicendo davvero grazie a Enrico Mentana, non mi è possibile partecipare allo speciale previsto per domenica da La7. Lo devo soprattutto ai magistrati che stanno lavorando a questa indagine, lo devo anche forse per rispettare me stesso. Io parlerò sicuramente ma questo non è il momento giusto per farlo e forse non è neanche il modo giusto", conclude il conduttore.

(ANSA il 21 aprile 2023) – ''Nel nostro Paese non è facile fare un certo tipo di televisione''. Lo dice Massimo Giletti nel corso della sua trasmissione su RTL 102.5 insieme a Luigi Santarelli in chiusura di puntata. 

''Vorrei dire tante cose, e verrà il giorno in cui potrò dirle. In questo momento - ha detto ancora Giletti a proposito della chiusura di Non è l'Arena su La7 - ho tanto rispetto per i magistrati, data la situazione delicata. 

L'importante è avere la coscienza a posto, poi la verità verrà fuori. Ho un contratto che mi vincola all'azienda in cui ho lavorato per sei anni, e per rispetto a questo contratto non posso parlare senza autorizzazione e chiarire in modo serio. Devo dire grazie alle centinaia di persone che continuano a mandarmi messaggi di sostegno, non per me ma per tutto il gruppo di lavoro.

Nel nostro Paese non è facile fare un certo tipo di televisione, che va a disturbare chi sta nei palazzi, ma bisogna avere il coraggio di farla. Quando c'è una situazione delicata, abbiamo il dovere doppio di andare nelle sedi corrette, io l'ho fatto, il resto sono chiacchiere.

Ci sono intercettazioni terribili, dove qualcuno di importante dice 'Va chiuso Giletti'. L'ho letto su La Repubblica, Marcello Dell'Utri. Sono intercettazioni che fanno capire quanto quel lavoro era importante. Ma noi non molliamo e continueremo a farlo. Lo devo alle persone che ci hanno seguito ma per rispetto dell'azienda per cui ho lavorato non posso dire altro, se non ringraziarla per ciò che mi ha fatto fare in questi ultimi anni''.

Il caso della trasmissione di La7. Caso Giletti, salta lo speciale La7 con Mentana: “Certe vicende non si possono risolvere in tv”. Redazione su Il Riformista il 21 Aprile 2023 

È saltato lo speciale di Enrico Mentana sul caso di Massimo Giletti che doveva andare in onda domenica sera su La7. Giletti ha rifiutato l’invito alla puntata che avrebbe trattato la chiusura della sua trasmissione Non è l’Arena. A farlo sapere lo stesso direttore del TgLa7, tramite i suoi social. “Massimo Giletti mi ha appena inviato un breve messaggio video all’uscita dalla procura di Firenze. Lo potete vedere sul sito e sui social del Tgla7. È ovvio che di fronte alle argomentazioni che potete sentire non si può che raccogliere la richiesta di Giletti di rinviare la trasmissione di domenica prossima”.

Non è l’Arena è stato sospeso la settimana scorsa senza una motivazione ufficiale. “La7 ha deciso di sospendere la produzione del programma Non è l’Arena che da domenica prossima non sarà in onda. La7 ringrazia Massimo Giletti per il lavoro svolto in questi sei anni con passione e dedizione”. Da subito c’era stato stretto riserbo sulle motivazioni. Si era parlato anche di un possibile passaggio in Rai del giornalista e conduttore. Successivamente i giornali si erano concentrati sulle partecipazioni di Salvatore Baiardo. I magistrati stanno indagando sui pagamenti effettuati dalla trasmissione a Baiardo, che negli anni Novanta aveva scontato quattro anni di carcere per favoreggiamento e riciclaggio di denaro in favore dei fratelli Graviano.

Baiardo in una puntata aveva alluso alla possibilità che il boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro venisse arrestato in una sorta di accordo con lo Stato. “Magari chi lo sa, che arriva un regalino. Che magari, presumiamo, che un Matteo Messina Denaro sia molto malato e faccia una trattativa per consegnarsi lui stesso per fare un arresto clamoroso. E così arrestando lui magari esce qualcuno che ha l’ergastolo ostativo senza che ci sia clamore. Sarebbe un fiore all’occhiello per il governo, un bel regalino”. La puntata era andata in onda in giorni in cui era all’ordine del giorno la questione dell’ergastolo ostativo, la pena prevista per alcuni reati di particolare gravità che impedisce ai condannati che non collaborano con la giustizia di accedere a misure alternative alla detenzione e che la Corte Costituzionale aveva ritenuto incostituzionale. Il decreto legge approvato dal governo Meloni non aveva abolito la pena, la modifica approvata dal parlamento aveva previsto che dai benefici venissero comunque esclusi i detenuti in regime di 41-bis.

A gennaio il latitante è stato catturato nei pressi di una clinica a Palermo e Baiardo era stato più volte invitato in trasmissione, al quotidiano Domani aveva confermato i pagamenti per le sue partecipazioni. “Mi hanno pagato alcuni gettoni di presenza, ma tutto è stato fatturato, è tutto regolare, nessun pagamento è avvenuto in nero. I miei rapporti con Giletti si sono incrinati per altre questioni”. Dopo la sospensione della trasmissione aveva detto di esser stato interrogato e ha annunciato altre dichiarazioni in un suo libro che sarà pubblicato prossimamente. L’indagine della Dia sarebbe in corso almeno da dicembre scorso. Il conduttore aveva smentito perquisizioni della Dia a casa sua. 

Oggi Giletti è stato sentito dalla Procura di Firenze, ha commentato così la sua posizione nel video diffuso: “Ci sono vicende che non si possono risolvere in uno studio televisivo. Sono appena uscito dalla Procura di Firenze e questo vi fa capire la situazione complessa, difficile e delicata che stiamo vivendo. Per questo, pur dicendo davvero grazie ad Enrico Mentana, non mi è possibile partecipare allo speciale previsto per domenica su La7”. Prima, nella sua trasmissione su RTL 102.5, aveva detto che “vorrei dire tante cose, e verrà il giorno in cui potrò dirle. Ho tanto rispetto per i magistrati, data la situazione delicata. L’importante è avere la coscienza a posto, poi la verità verrà fuori. Ho un contratto che mi vincola all’azienda in cui ho lavorato per sei anni, e per rispetto a questo contratto non posso parlare senza autorizzazione e chiarire in modo serio”.

“Devo dire grazie alle centinaia di persone che continuano a mandarmi messaggi di sostegno, non per me ma per tutto il gruppo di lavoro. Nel nostro Paese non è facile fare un certo tipo di televisione, che va a disturbare chi sta nei palazzi, ma bisogna avere il coraggio di farla. Quando c’è una situazione delicata, abbiamo il dovere doppio di andare nelle sedi corrette, io l’ho fatto, il resto sono chiacchiere. Ci sono intercettazioni terribili, dove qualcuno di importante dice ‘Va chiuso Giletti’. L’ho letto su La Repubblica, Marcello Dell’Utri. Sono intercettazioni che fanno capire quanto quel lavoro era importante. Ma noi non molliamo e continueremo a farlo. Lo devo alle persone che ci hanno seguito ma per rispetto dell’azienda per cui ho lavorato non posso dire altro, se non ringraziarla per ciò che mi ha fatto fare in questi ultimi anni”.

Si è scritto anche di una “foto dei misteri”, com’è stata definita dai giornali, delle stragi mafiose di inizio anni Novanta che avrebbe incrinato i rapporti tra Giletti e Baiardo. L’esistenza della foto è un giallo, non è stata comprovata. A Giletti era stata rafforzata inoltre la scorta dopo le minacce ricevute negli scorsi mesi. Enrico Mentana ha spiegato, sempre in commento al video: “Nel colloquio immediatamente successivo all’invio del video si è convenuto di riprovarci appena le ulteriori indagini che si sono aperte potranno consentire una testimonianza televisiva adeguata per lo scopo della trasmissione”.

Soldi ai pentiti, spunta pure Corona. Giletti ora è un caso e Cairo lo "liquida". Il benservito del patron di La7: "Ha potuto trattare ogni argomento, spero trovi ancora la stessa libertà". Nel mirino i 48mila euro al testimone Baiardo, il conduttore sentito due volte dai pm di Firenze. Laura Rio il 15 aprile 2023 su Il Giornale.

In tutta questa vicenda, una sola cosa è certa: Massimo Giletti si è fatto tanti nemici. E, in queste ore, nell'ombra, i nemici stanno gettando benzina sul fuoco. Quello stesso fuoco che lui ha contribuito ad appiccare con le sue trasmissioni.

Cogliendo l'occasione della defenestrazione del giornalista da La7, si stanno aprendo cassetti pieni di indiscrezioni, malumori, odio, insofferenza verso il conduttore di Non è l'arena. Mafia, pentiti, stragi, politica corrotta, guerra in Ucraina: si è messo in mezzo di tutto per motivare la decisione della rete di sospendere il programma di punto in bianco e di fatto chiuderlo anche se il giornalista resta a disposizione fino a giugno, data di scadenza del contratto.

Forse, semplicemente, la risposta va cercata nelle parole dette ieri dal patron Urbano Cairo: «Giletti ha condotto in 6 anni 194 puntate dove ha potuto trattare in totale libertà tutti gli argomenti che ha voluto, inclusi quelli relativi alla mafia, sulla quale ha fatto molte puntate, con tutti gli ospiti che ha voluto invitare. Gli auguro di trovare la stessa libertà incondizionata nella sua prossima esperienza televisiva o di altro genere». Frasi molto dure che fanno capire che la rottura sarebbe dovuta alla trattativa del giornalista per il ritorno in Rai. L'editore - a cui alla fine importa solo l'utile delle sue aziende - avrà concluso: con tutti i casini giudiziari e politici che ha creato, ora questo se ne vuole andare, quindi meglio chiudere la trasmissione per evitare altri guai e nel contempo risparmiare anche i soldi delle ultime puntate.

Questa la sostanza, poi i retroscena si sono sprecati. Alcuni mettono in pessima luce il lavoro giornalistico del conduttore, altri lo fanno passare per martire. Di certo Giletti, che assicura di non capire i motivi dell'allontanamento, non ci sta all'idea che il suo show sia stato chiuso per questioni di costi, o di mancanza di pubblicità, altra cosa che è stata fatta paventare. Comunque finisca, a questo punto non sarà neppure facile per lui tornare in Rai, nonostante la nuova governance che potrebbe arrivare alla guida della tv pubblica a fine aprile non gli sia nemica e neppure la parte della politica che esprime questa nuova dirigenza, leggasi le parole di sostegno di Salvini.

Comunque, tra i tanti retroscena emersi, il più probabile resta quello legato alle dichiarazioni di Salvatore Baiardo che a Non è l'Arena aveva annunciato in anticipo la cattura di Matteo Messina Denaro che si sarebbe praticamente fatto prendere perché malato. Giletti, in questa chiave, si sarebbe infilato in un pasticcio che avrebbe creato un corto circuito investigativo. Il conduttore, infatti, è stato sentito due volte nelle scorse settimane come persona informata sui fatti dalla procura di Firenze, la stessa che indaga sulle stragi mafiose del 1993. I magistrati stanno anche svolgendo accertamenti sui compensi elargiti a Baiardo (si parla di 48mila euro). Sulla questione Giletti precisa che «è falso che io abbia pagato personalmente e di nascosto il signor Baiardo che è stato compensato come un qualsiasi ospite, in maniera trasparente». Il Domani, invece, dice che nelle prossime puntate si sarebbero mostrate foto di Berlusconi con i fratelli Graviano (che però lo stesso Baiardo sostiene di non avere).

In difesa di Giletti sono scesi in campo l'ex magistrato Antonio Ingroia per cui il giornalista si «sarebbe spinto troppo in avanti nelle inchieste sulla mafia» e la giornalista Sandra Amurri secondo cui la «sospensione del programma sarebbe scaturita da inchieste in cantiere su intoccabili». E c'è chi dice addirittura che Fabrizio Corona abbia fatto da tramite per ottenere gli audio delle donne di Messina Denaro mandate in onda. A questo punto, Giletti potrebbe essere accusato di tutto.

(ANSA il 14 aprile 2023) – "Giletti ha condotto in 6 anni 194 puntate di "Non è l'Arena" dove ha potuto trattare in totale libertà tutti gli argomenti che ha voluto inclusi quelli relativi alla Mafia sulla quale ha fatto molte puntate, con tutti gli ospiti che ha voluto invitare. Gli auguro di trovare la stessa libertà incondizionata nella sua prossima esperienza televisiva o di altro genere".

Lo dice all'ANSA il patron di La7, Urbano Cairo.

 (ANSA il 14 aprile 2023) - Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35), Valerio Staffelli consegna il Tapiro d'oro a Massimo GILETTI, dopo che Non è l'arena è stato chiuso improvvisamente e senza spiegazioni da La7.

 "Non è che Fabio Fazio, che la fece mandare via dalla Rai...", dice l'inviato di Striscia, ipotizzando che il conduttore di Che Tempo che fa sia anche stavolta il mandante dell'allontanamento di GILETTI.

 "E Fazio andrebbe a La7? Neanche i Dumas padre e figlio potrebbero scrivere una sceneggiatura di questo tipo. Ma Cairo è più bravo ancora", replica GILETTI. Che aggiunge, scherzosamente: "Magari vengo a Mediaset".

 "Bisogna chiedere a Cairo il perché mi abbiano mandato via, forse l'ha fatto perché sono juventino", continua il conduttore. Quando Staffelli gli chiede se l'allontanamento sia collegato con la discussa messa in onda dello speciale su Matteo Messina Denaro, risponde: "L'Italia non è ancora pronta ad ascoltare certe verità, fa più comodo tenerle nei cassetti". Infine, GILETTI liquida così il chiacchierato gossip che lo vede a fianco alla sciatrice Sofia Goggia: "Il niente del niente". Per Massimo Giletti si tratta del quinto Tapiro d'oro ricevuto dal tg satirico. Il servizio completo stasera a Striscia la notizia.

"Non è che Fabio Fazio..?". Massimo Giletti riceve il Tapiro di Striscia. Dopo la sospensione di Non è l'arena, Giletti è stato raggiunto da Valerio Staffelli e ricevendo il Tapiro ha scherzato: "Forse mi ha cacciato perché sono juventino". Novella Toloni il 14 aprile 2023 su Il Giornale.

Se non è attapirato poco ci manca, ma almeno non lo ha dato a vedere. In seguito alla sospensione del suo programma Non è l'arena, Massimo Giletti è stato raggiunto da Valerio Staffelli, che gli ha consegnato il tapiro d'Oro per quanto avvenuto nelle ultime ventiquattro ore, ma il giornalista l'ha presa con ironia. Il servizio della consegna dell'ambito premio ideato da Striscia la notizia andrà in onda nella prossima puntata del tg satirico (Canale 5, ore 20.35), ma già trapela qualche indiscrezione.

Dopo Antonio Cassano è toccato al popolare conduttore ricevere il Tapiro. La chiusura improvvisa e senza spiegazioni da parte di La7 di Non è l'arena ha lasciato il pubblico a bocca aperta, ma a quanto pare anche lo stesso Massimo Giletti, che ha ricevuto il Tapiro dalle mani di Staffelli. "Non è che Fabio Fazio, che la fece mandare via dalla Rai…", ha scherzato l'inviato di Striscia, consegnando il premio al giornalista. L'ipotesi che il conduttore di Che Tempo che fa sia stato (ancora una volta) il mandante dell'allontanamento di Giletti, come si vociferava fosse successo anni fa, ha scatenato Valerio Staffelli, ma Giletti ha replicato a tono: "E Fazio andrebbe a La7? Neanche i Dumas padre e figlio potrebbero scrivere una sceneggiatura di questo tipo. Ma Cairo è più bravo ancora".

"Ecco perché Giletti è stato sospeso...". Le voci sullo stop di Non è l'Arena

Perché Giletti è stato allontanato da La7?

I motivi della chiusura del programma e della sospensione di Massimo Giletti non sono chiari. Nelle ultime ore si è detto e scritto di tutto, ma una definizione precisa il conduttore l'ha data rispondendo a Valerio Staffelli, confermando di essere stato mandato via: "Bisogna chiedere a Cairo il perché mi abbiano mandato via, forse l'ha fatto perché sono juventino". A quel punto l'inviato di Striscia non si è fatto sfuggire l'occasione di fare un'ipotesi, collegando l'allontanamento da La7 allo speciale su Matteo Messina Denaro andato in onda settimane fa. "L'Italia non è ancora pronta ad ascoltare certe verità, fa più comodo tenerle nei cassetti", ha replicato Giletti mettendo a tacere anche le voci su un presunto coinvolgimento sentimentale con la sciatrice Sofia Goggia. Per Massimo Giletti si tratta del quinto tapiro d'oro ricevuto dal tg satirico, che va ad aggiungersi agli altri.

Massimo Giletti sospeso? "Vento politico in poppa", cosa succederà. Daniele Priori su Libero Quotidiano il 15 aprile 2023

Cairo stoppa Giletti. All’improvviso, prima del tempo. Come un fulmine a ciel sereno scrosciato dal cielo dell’etere ai rulli delle agenzie nel primo pomeriggio di ieri. Così Non è l’Arena, dopo sei annidi puntuale presenza nelle serate domenicali di La7, è costretta a chiudere bottega e cedere il posto nel palinsesto. Con tanti ringraziamenti al conduttore che, ovviamente, «resta a disposizione della rete», precisa la nota ufficiale dell’editore. Il quale, chiaramente, ringrazia Giletti per l’impegno e la professionalità profusi ma evidentemente non sufficienti ad arrivare alla fine di questa turbolenta stagione politica e televisiva. Che al centro ha visto, proprio Non è l’Arena e il suo interprete principale.

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IL FILONE - In prima linea, anzi forse ancor prima della prima linea, specialmente nelle settimane appena precedenti l’arresto di Matteo Massina Denaro. Tanto da finire sotto la lente dell’Antimafia. A insospettire la Dia le dichiarazioni decisamente puntuali del faccendiere, ex gelataio Salvatore Baiardo, rese proprio ai microfoni di Massimo Giletti. Baiardo fu vicinissimo ai fratelli Graviano, oggi condannati all’ergastolo. In molti, nel corso di quelle settimane, si sono chiesti, senza ottenere risposte, come un uomo con amicizie tali potesse prendersi la briga di parlare tanto serenamente in tv, ammiccando anche alle telecamere di La7. In alcuni video en plen air, all’aperto, in altri, come quella volta in cui disse a Giletti che se la stava rischiando alquanto, direttamente negli studi dell’emittente di Urbano Cairo. Giletti ascolta e con lui anche qualcun altro nei paraggi a controllare se, come riferito da Dagospia, proprio ieri mattina la Direzione Investigativa Antimafia pare abbia visitato casa del conduttore, poi spento all’improvviso e senza preavviso da La7. Voci, queste ultime, smentite nel tardo pomeriggio di ieri dallo stesso Giletti che le ha definite false, affermando che non c’era stata nessuna perquisizione nella sua abitazione. «Nessuna notifica delle forze dell’ordine, nulla di nulla».

Nella ridda di rumors che, come detto, ormai da mesi avvolgono Massimo Giletti come un’aura fumosa, oltre alle voci che in molti danno ormai quasi per ufficiali, legati a un sempre più prossimo ritorno in Rai del giornalista, ci sarebbe anche il sospetto su un passaggio di 30mila euro dalle mani dell’anchor man a quelle dell’ex gelataio, profeta a favore di telecamera. Ieri sera la Procura di Firenze ha smentito perquisizioni a carico di Giletti, il quale però sarebbe stato sentito due volte in Procura riguardo alle dichiarazioni rilasciate da Baiardo, l’ultima il 23 febbraio. Oltre al caso-Baiardo, a demotivare a tal punto l’editore de La7 dal portare avanti per altri due mesi l’appuntamento domenicale, sarebbero stati anche i costi elevati della trasmissione, a fronte di una minore corrispondenza da parte degli sponsor. Una sommatoria di ingredienti tale da convincere l’editore de La7 a mettere Giletti in panchina. 

 Sta di fatto che la sospensione, per quanto edulcorata al meglio nei lanci stampa diffusi dalla rete, non è stata affatto uno zuccheretto da ingoiare per Giletti che si è smarcato con eleganza proprio da tutte le chiacchiere, sulle quali tuttavia, inevitabilmente, il dibattito insiste e insisterà a lungo. Ci ha tenuto, invece, a rivolgere il proprio pensiero ai lavoratori che con lui operano da sei anni alla realizzazione di Non è l’Arena. «Prendo atto della decisione di La7. In questo momento, l’unico mio pensiero va alle 35 persone che lavorano con me da anni e che da un giorno all'altro - senza alcun preavviso - vengono lasciate per strada» sono state le uniche parole che Giletti aveva pronunciato a caldo, nel primo pomeriggio di ieri ai microfoni delle agenzie di stampa. Alle quali nelle ore successive ha detto ancora: «Ognuno ha la sua versione ma io ho le spalle larghe». E il vento in poppa, anche politico, se dagli ariosi corridoi di viale Mazzini non si spiffera solo di un contratto di ritorno ormai lì lì da firmare, ma si parla già anche della rete alla quale Giletti sarà destinato. Se, infatti, inizialmente, doveva essere RaiUno, già sede dell’Arena originale, nel primo dopopranzo domenicale, ora si parla con insistenza di RaiDue come meta finale, dove ad attenderlo ci sarebbe nientemeno che la prima serata del giovedì. Collocazione storica dei talk destinati a fare rumore. Esattamente come Giletti.

Il caso del giornalista. Perché è stato sospeso Giletti e chiusa Non è l’Arena, “la Dia indaga su 30 mila euro a Baiardo”. Paolo Comi su il Riformista il 14 Aprile 2023

Dopo sei anni chiude la trasmissione televisiva Non è l’Arena. Lo hanno deciso ieri i vertici de La7 che, in un comunicato, hanno voluto ringraziare Massimo Giletti “per il lavoro svolto con passione e dedizione”, annunciando che lo stesso rimarrà a “disposizione” dell’azienda. La chiusura di Non è l’Arena ha colto un po’ tutti di sorpresa in quanto nel palinsesto de La7 erano previste puntate fino al prossimo mese di giugno. Fra le ipotesi, vi sarebbero alcuni contrasti con Urbano Cairo che non avrebbe apprezzato i recenti rumors su un suo rientro in Rai.

Secondo Dagospia, invece, ci sarebbero degli accertamenti in atto da parte della Direzione investigativa antimafia a proposito dei rapporti con Salvatore Baiardo, che, intervistato lo scorso novembre durante lo speciale “Fantasmi di Mafia”, aveva parlato della malattia di Matteo Messina Denaro, anticipandone una potenziale cattura. Cosa poi effettivamente avventa due mesi dopo mettendo così fine a decenni di latitanza del boss di Castelvetrano. Giletti, in particolare, avrebbe consegnato 30 mila euro a Baiardo.

Ufficialmente gelataio ad Omegna, Baiardo, di origine palermitana, era stato condannato per favoreggiamento aggravato perché aveva curato la latitanza dei boss stragisti Giuseppe e Filippo Graviano, catturati nel 1994. Proprio in quel periodo, Baiardo aveva reso dichiarazioni alla Dia di Firenze, dove si indaga tuttora sui mandanti occulti delle stragi, ma le sue rivelazioni non furono ritenute credibili. Personaggio ben noto ai magistrati e agli investigatori, Baiardo aveva sostenuto che dell’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, mai ritrovata, esisterebbero diverse copie, precisando comunque di non essere “un portavoce dei Graviano”, anche perché, essendo i due boss reclusi al 41 bis, veicolare i loro messaggi all’esterno avrebbe determinato una sua incriminazione.

Prendo atto della decisione di La7. In questo momento, l’unico mio pensiero va alle 35 persone che lavorano con me da anni e che da un giorno all’altro, senza alcun preavviso, vengono lasciate per strada”, ha commentato il giornalista. Con la chiusura di Non è L’Arena termina, per il momento, il ‘’modello Giletti’’ di fare giornalismo, un modello basato, oltre che su un meccanismo autoreferenziale, su un mix di congetture ed ipotesi, spesso senza riscontro. “Devo dire grazie a chi mi ha costretto ad andare via, nelle tempeste si costruiscono le persone. Il mandante politico? So benissimo chi è ma non voglio dirlo”, erano state le sue parole pronunciate a “Belve” nelle scorse settimane a proposito della esperienza in Rai.

Nel 1988 Giletti ha fatto il suo esordio come giornalista nella redazione di Mixer. Nel 1994 il debutto come conduttore televisivo in “Mattina in famiglia” e in “Mezzogiorno in famiglia” su Rai 2. Dal 1996 al 2001 è il presentatore di “I fatti vostri” e nel 2002 di “Casa Raiuno”. Nel 2004 presenta “Domenica In” insieme a Mara Venier. Dal 2005 fino al 2016 conduce il talk-show “L’arena” e nel 2017 passa a La7 per condurre “Non è l’arena”.

Dal 2020 vive sotto scorta a causa delle minacce di morte ricevute, proprio da Filippo Graviano, in seguito ad alcuni servizi sulle scarcerazioni di mafiosi durante i primi mesi della pandemia. “Sospeso il programma di Giletti su La7: il mio abbraccio a Massimo e alla sua squadra. L’ho sempre stimato e spero di rivederlo in video al più presto”. Così ieri su Twitter il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini. Paolo Comi

Estratto dell’articolo di Erika Pontini per quotidiano.net il 14 aprile 2023.

Massimo Giletti, il conduttore di “Non è l’Arena”, la cui trasmissione è stata sospesa da La7, è stato sentito negli ultimi giorni per ben due volte - come persona informata sui fatti - dalla procura di Firenze nell’ambito dell’indagine in corso sui mandanti delle stragi nel continente.

In particolare il giornalista è stato ascoltato dal procuratore della Direzione distrettuale antimafia, Luca Tescaroli (lo stesso che portò avanti Mafia Capitale) e dagli investigatori della Dia diretti da Francesco Nannucci dopo che l’Antimafia fiorentina aveva ascoltato a Palermo Salvatore Baiardo, l’uomo di fiducia dei fratelli Graviano. […]

L’interesse dell’Antimafia fiorentina comunque non sarebbe stato quello di svelare la presunta bufala di Baiardo ma di indagare sul ruolo, sui contatti e sugli incontri a cui avrebbe assistito lo stesso Baiardo quando tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 nascose i boss di Brancaccio.

 […] La procura di Firenze vuole verificare se ci fu una mano esterna che aveva interesse a proseguire nella strategia della tensione per destabilizzare il Paese dopo gli attentati di Falcone e Borsellino. Tutto ruota intorno all’attentato prima fallito, e poi abortito, ai carabinieri in servizio all’Olimpico, ultimo tassello di un attacco allo Stato iniziato con la bomba a Maurizio Costanzo e passata attraverso i morti di Firenze dei Georgofili […].

 La procura di Firenze, in particolare, indaga attorno alle figure di Silvio Berlusconi e Marcello dell’Utri, mai raggiunti da un avviso di garanzia (ma a conoscenza dell’iscrizione) e ai rapporti economici con i Graviano negli anni ‘70.

Nelle settimane scorse l’Antimafia ha depositato al tribunale del Riesame […] una nuova consulenza economica, dopo una analoga che venne fatta a Palermo, per verificare punti oscuri nei fondi con cui venne costituita all’epoca la Fininvest e per tracciare i soldi transitati dai conti del Cavaliere a quelli di Dell’Utri, la maggior parte giustificati come regalie.

 Il contenuto del verbale di Baiardo è top secret ma il gelataio, più che attivo sul suo profilo tik tok in cui invita a riflettere sull’importanza del carcere come riabilitazione nella società e attacca i pentiti, è da sempre una figura controversa: fu lui a nascondere ‘Madre Natura’ durante la latitanza ed è sempre lui a parlare dei Graviano come di ‘ragazzi, giovani che hanno fatto fesserie’. […]

Estratto dell’articolo di Grazia Longo per “La Stampa” il 14 aprile 2023.

[…] Non solo Massimo Giletti è stato sentito dai magistrati di Firenze, in due occasioni, come semplice testimone, ma dalla procura filtra addirittura preoccupazione per la sua vita. Si teme per la sua sicurezza personale - nonostante sia già sotto scorta - per l'attività giornalistica svolta nelle interviste a Salvatore Baiardo, l'uomo che coprì la latitanza dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (ora in carcere), reato per cui scontò 4 anni di carcere negli Anni Novanta.

[…] La procura di Firenze è […] molto interessata a tutto ciò che gravita intorno a Messina Denaro. Di qui l'intenzione di approfondire le affermazioni di Salvatore Baiardo di fronte a Massimo Giletti. Il noto conduttore tv è stato così interrogato, come persona informata dei fatti, due volte: il 19 dicembre 2022 e il 23 febbraio scorso.

 Nulla emerge da quei due incontri, coperti dal segreto istruttorio, se non l'intenzione a ricostruire come siano state organizzate le interviste a Baiardo (oltre a novembre, fu ospite su La 7 anche il 5 febbraio). E inoltre filtra, appunto, la preoccupazione sull'incolumità di Giletti.

La puntata su cui è concentrato il faro degli inquirenti è, comunque, quella del 5 novembre, due mesi prima del clamoroso arresto del capo di Cosa nostra.

 «Chissà che non arrivi un regalino – aveva detto Baiardo – che un Matteo Messina Denaro, che presumiamo sia molto malato, faccia una trattativa lui stesso di consegnarsi per un arresto clamoroso. In questo modo, qualcuno in ergastolo ostativo potrebbe uscire senza che si faccia troppo clamore».

 Per questa intervista Baiardo è stato pagato? E con quelle parole spese in tv il pentito stava anche inviando messaggi a esponenti mafiosi? Si sta indagando per scoprirlo.

Estratto dell'articolo di Giovanni Tizian e Nello Trocchia per editorialedomani.it il 14 aprile 2023.

Uno scoop che si è trasformato in un boomerang. Anzi, in un vero e proprio terremoto che ha portato alla chiusura improvvisa della trasmissione domenicale di La7, “Non è l’arena”, condotta da Massimo Giletti. Dalla direzione della rete sostengono che si è trattato di una normale scelta televisiva, nulla di più. Ma modi e tempi non hanno precedenti nella storia recente dei talk politici, e dunque le motivazioni forse vanno cercate anche altrove.

In particolare in alcune interviste fatte da Giletti a Salvatore Baiardo, un pregiudicato condannato per favoreggiamento (negli anni novanta) agli stragisti della mafia, i fratelli Graviano. […] Una presenza che sarebbe stata pagata, tanto che alcune fonti ipotizzano di un gettone di circa 30mila euro.

 Baiardo a Domani conferma i pagamenti, ma non la cifra: «Mi hanno pagato alcuni gettoni di presenza, ma tutto è stato fatturato, è tutto regolare, nessun pagamento è avvenuto in nero. I miei rapporti con Giletti si sono incrinati per altre questioni», racconta. […] Al tempo Baiardo non era indagato e risultava anche testimone in importanti indagini, come quella di Firenze sui mandanti esterni alle stragi.

[…] Cosa è successo? Quello che è certo, al netto di tutte le voci circolate, è che allo stop ha contribuito anche una verifica delicatissima della procura antimafia di Firenze, il pool guidato dal magistrato Luca Tescaroli, e affidata alla direzione investigativa antimafia. Il magistrato e gli investigatori della Dia, è fatto noto, sono impegnati nell’indagine sulle stragi di mafia del 1993 in cui sono indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.

 Parla Baiardo

Nei giorni scorsi Baiardo è stato di nuovo sentito a Palermo dai pm fiorentini. […] Contattato da Domani esordisce così: «Sono Salvatore Baiardo, ora vi racconto tutto». Poi spiega: «Non andrò più a La7, ma sto scrivendo un libro perché ho scoperto cose assurde». Baiardo è figura complessa, già in passato ha mostrato di saper mescolare il vero al sentito dire, verità a bugie.

«Lunedì scorso sono stato ascoltato dalla procura dal dottor Tescaroli, e mi ha riferito che Giletti ha detto che gli avrei mostrato delle fotografie che ritraggono Berlusconi con Graviano e il generale Delfino. Non è vero, è falso, non gli ho mai fatto vedere queste foto. Loro dicevano “Giletti le ha viste, Giletti le ha viste”, ma non è vero. Io sono stato anche perquisito, ma non hanno trovato niente», dice Baiardo.

È certo che Giletti - sotto scorta perché minacciato dai fratelli Graviano - ha riferito quanto di sua conoscenza, qualche mese fa, in un colloquio con i magistrati. Baiardo aggiunge a Domani anche un altro elemento (senza riscontro ad ora) che avrebbe verbalizzato e riferito al pubblico ministero Tescaroli.

 «Prima delle trasmissioni con Giletti c’era sempre un colloquio nel quale si parlava degli argomenti da affrontare. Durante la pausa di tre minuti in mezzo alla trasmissione è arrivato con un pezzo di carta con scritto “Dici in trasmissione che sono minacciato”, e io come un cretino ho detto quelle cose che lui era minacciato a 360 gradi», dice.

Baiardo sostiene che il tutto sia avvenuto all’esterno dello studio dove si registra la trasmissione. Il conduttore sarebbe uscito di corsa, avrebbe mostrato il biglietto a Baiardo e poi sarebbe tornato indietro per riprendere la conduzione. Il tutto in pochi minuti di pausa e con nessun testimone.

 L’unica cosa riscontrata in questa storia sono i pagamenti avvenuti e fatturati. Dallo scoop al terremoto, in mezzo c’è sempre lui, Baiardo, l’uomo dalle molteplici vite: gelataio, favoreggiatore, super testimone ed ex ospite del conduttore silurato.

Estratto dell’articolo di Giovanni Tizian e Nello Trocchia per editorialedomani.it il 15 aprile 2023

 La chiusura della trasmissione “Non è l’arena” di Massimo Giletti è sempre più una trama di un film giallo: il ruolo dell’antimafia che indaga su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, e quello di una foto che cambierebbe la storia del biennio stragista; la figura di Salvatore Baiardo, amico e portavoce dei mafiosi stragisti Graviano, diventato celebre per aver predetto l’arresto di Matteo Messina Denaro alcuni mesi prima in un’intervista con Giletti; lo scontro con la rete dovuto ai costi troppo alti della trasmissione e a un possibile passaggio del conduttore in Rai.

[…] 

Se ieri Baiardo in esclusiva su Domani ha raccontato la sua versione dei fatti («sono stato pagato per andare a “Non è l’Arena, Giletti dietro le quinte mi chiese di dire in diretta che era minacciato», ha detto, ma testimoni negano l’accaduto) oggi autorevoli fonti investigative spiegano al nostro giornale che l’incolumità di Giletti – già sotto scorta – sarebbe a rischio, e che per questo motivo è stata potenziata la protezione.

Nell’inchiesta condotta dalla Direzione investigativa antimafia di Firenze e dai magistrati guidati da Luca Tescaroli, Giletti è testimone e vittima di una storia incentrata anche su una vecchia foto misteriosa, un’istantanea che sarebbe prova di un ipotetico patto sporco tra pezzi di stato e della mafia stragista rappresentata dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. È proprio il conduttore che, lo scorso dicembre, si fionda in procura a raccontare ogni particolare della fotografia che […] il pregiudicato avrebbe mostrato al giornalista tempo fa.

 La domanda è ora una: perché sospendere un professionista così esposto per le sue inchieste sulla mafia? Urbano Cairo, editore de La7, non è entrato nel merito della sua scelta. Ma ha solo detto che «Giletti ha condotto in sei anni 194 puntate di “Non è l'Arena” dove ha potuto trattare in totale libertà tutti gli argomenti che ha voluto includere quelli relativi alla mafia sulla quale ha fatto molte puntate […]».

Qualche altra fonte ben informata dentro l’azienda ci dice invece che la questione Baiardo sarebbe solo parallela alle altre motivazioni che avrebbero spinto la reta a sospendere Giletti. Il programma sarebbe in forte perdita, i gettoni pagati a Baiardo per le ospitate non sarebbero stati ritenuti “opportuni”, così come i rapporti con Fabrizio Corona, che tramite la società Athena avrebbe ceduto gli audio delle chat tra Messina Denaro e due pazienti ricoverati con il padrino (andate in onda su Non è l’Arena), mentre la trattativa per il rinnovo del contratto portata avanti da Cairo con l’agente del conduttore Gianmarco Mazzi (attuale sottosegretario del governo Meloni alla Cultura) non sarebbero decollati.

In molti però credono che la vicenda della sospensione nasconda altro: non si è mai visto nella storia della televisione che un programma di successo venga chiuso d’emblée a poche puntate dalla fine della stagione. «I motivi dello scontro riguardano le rivelazione e la gestione del caso Baiardo» dice chi non crede alla versione aziendale. Dagospia ha parlato di un compenso da 30mila euro ottenuti dal pregiudicato, da La7 hanno spiegato che tutto era noto e fatturato.

Baiardo diventa per tre puntate ospite retribuito di “Non è l’Arena”. In questo contesto […] Giletti acquisisce informazioni delicate. Non tutte spendibili in diretta. Alcune sensibili a tal punto da spingere il conduttore a bussare dai magistrati antimafia di Firenze, che da due anni e mezzo stanno conducendo un’inchiesta sui mandanti esterni alle stragi di mafia del 1993, tra gli indagati ci sono Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, sullo sfondo il ruolo dei Graviano.

Giletti riferirisce in particolare l’esistenza di una foto che ritrarrebbe Berlusconi, il generale Francesco Delfino e uno dei fratelli Graviano seduti in piazza a Orta, in Piemonte. È Baiardo ad aver detto a Domani che Giletti ha rivelato la vicenda della foto, ma l’amico dei mafiosi sostiene che questa foto non esista, e che quindi è impossibile che abbia mai mostrato lo scatto a chichessia. Fatto sta che la Dia di Firenze – dopo aver sentito il conduttore – ha deciso di perquisire la casa di Baiardo alla ricerca della fotografia.

 Ma perché Giletti avrebbe dovuto mentire ai pubblici ministeri? A quanto ci risulta l’aver riferito dell’esistenza di questa immagine avrebbe messo Giletti in elevato pericolo. Il generale Delfino, deceduto nel 2014, è l’uomo che anticipò l’arresto di Totò Riina mesi prima. Era proprietario di una villa vicino alle zone dove abitavano i Baiardo e i Graviano latitanti.

 Esistesse la foto, cambierebbe forse un pezzo della storia del paese e di quel biennio stragista. Dopo la testimonianza di Giletti, i suoi rapporti con Baiardo si rompono.

Dove va a bussare Baiardo, l’amico dei Graviano? A Mediaset, dice lui. «Indipendentemente dal gettone, lì mi garantiranno libertà», spiega a Domani. A Mediaset, di proprietà di Berlusconi, cioè il destinatario principale dei messaggi obliqui lanciati da un lustro dai Graviano? «Certo, certo», risponde.

 Baiardo difende Berlusconi anche in un video su Tiktok: «Basta dire che è delinquente», spiega.

 Eppure, in una intervista rilasciata a Report nel 2021, Baiardo parlava proprio di rapporti anche economici tra i Graviano e Berlusconi.

Il tempo passa e torna alla mente un racconto, rivelato da Domani, di quando Baiardo aveva avvicinato Paolo Berlusconi, fratello dell’allora primo ministro Silvio, per chiedergli un posto di lavoro, senza esito. Un posto di lavoro che aveva un altro sapore. A distanza di anni potrebbe riuscirci.

 Nelle prossime puntate Giletti si sarebbe occupato dei rapporti dei Graviano con Marcello Dell’Utri, braccio destro di Berlusconi e già condannato per collusione con la mafia. Ora non potrà più farlo. Almeno su La7.

Dagospia il 14 aprile 2023. “CHI CONOSCE COSA NOSTRA SA CHE IL FILO SCOPERTO HA UN NOME: SALVATORE BAIARDO” – SANDRA AMURRI SCRIVE A DAGOSPIA SULLA SOSPENSIONE DI "NON È L'ARENA": “C'È DAVVERO QUALCUNO DISPOSTO A CREDERE CHE LA RAGIONE DI UNA TALE DECISIONE DELLA RETE, POSSA ESSERE DIPESA DAL PAGAMENTO DI BAIARDO? E NON SIA SCATURITA DAL SUSSEGUIRSI DI INCHIESTE SU FATTI DI MAFIA-POLITICA-SERVIZI DEVIATI-MASSONERIA?” - "COSA SAREBBE ACCADUTO, SE FOSSE STATO CHIUSO UN ALTRO PROGRAMMA DI PUNTA E NON QUELLO DEL "BRUTTO ANATROCCOLO" GILETTI?" - VIDEO

Riceviamo e pubblichiamo:

Al di là delle ricostruzioni, utili ad ognuno, a sostegno della propria tesi, forse, sarebbe utile parlare dei fatti. Mi chiedo: c'è davvero qualcuno disposto a credere che la ragione di una tale decisione della rete, possa essere dipesa dal pagamento di Baiardo per le sue partecipazioni al programma?

 E non sia, invece, scaturita dal susseguirsi di inchieste su fatti di mafia-politica-servizi deviati-massoneria, già in parte noti, ma prevalentemente, solo agli addetti ai lavori. Fatti che Non E' L'Arena ha portato alla conoscenza di un più vasto pubblico che ignorava, ad esempio, la scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino, del depistaggio Scarantino, della mancata perquisizione della villa di Totò Riina, e della mancata cattura di Provenzano alla base della Trattativa Stato-mafia, dell'arresto per mafia dell'ex sottosegretario all'Interno Antonio D'Alì, della volontà di abolire l'ergastolo ostativo e il regime del 41 bis, necessità prioritarie dei boss Graviano, fino a svelare le debolezze e i vizi del capo di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro.

E, aggiungo, non sia scaturita dalle inchieste in cantiere su altre verità nascoste sui cosiddetti “intoccabili”? Un grande investigatore, che ha pagato sulla sua pelle il non essersi piegato è solito ripetere: “Una variante quando non può essere gestita, viene eliminata”. Non sempre fisicamente, per fortuna, ma anche, come è accaduto ieri, dando il via alle trombe della delegittimazione iniziata con la notizia su twitter della perquisizione della Dia a casa di Massimo e a La7.

Notizia inventata per un messaggio chiaro però: Massimo non era la vittima , bensi il colpevole. Lungi da me dal delineare i tratti di un santino, non sarebbe nel mio stile e, non sarebbe neppure credibile, vista la sua contraddittoria natura ribelle-conservatrice,che spesso ha prodotto confronti accesi fra noi.

 Confronti che si sono sempre ricomposti, perchè accumunati dalla, forse, ingenua, convinzione, che, per dirla con Cicerone: “La libertà non consiste nell'avere un buon padrone, ma nel non averne affatto”.

Che Massimo Giletti sia il brutto anatroccolo nella cosiddetta “compagnia di giro” o, se si preferisce, del “conclave mediatico” piu raffinato, è stato certificato ieri dal silenzio, con cui è stata ignorata l'inedita e dirompete notizia, fatta eccezione dal Tg La 7 di Enrico Mentana. Provate solo ad immaginare, per un istante, cosa sarebbe accaduto, se, giusto il tempo di bere un sorso d'acqua, fosse stato chiuso un altro programma di punta.

E questo riguarda il “come”. Ora torniamo al “cosa”. Chi, come me, scusate il peccato di umiltà, conosce da molti anni Cosa Nostra, sa che il filo scoperto ha un nome: Salvatore Baiardo, già condannato per favoreggiamento per la latitanza dei boss Giuseppe e Filippo Graviano.

 Uno strumento nelle mani di un puparo, forse? E chi sarebbe il puparo che ha “bruciato” Massimo Giletti quando ha ritenuto che non servisse più perchè ha fatto qualcosa di troppo dissonante? Non resta che sperare che la Procura di Firenze che ha ascoltato Massimo come persona informata dei fatti, e interrogato Baiardo, possa dare le adeguate risposte in tempi ragionevoli per far tacere le trombe, così efficaci, per mascariare, restando in tema. Sandra Amurri

Estratto dell’articolo di Ignazio Stagno per “Libero quotidiano” il 10 maggio 2023. 

L’intervista al generale Mario Mori a Quarta Repubblica, il talk show di Rete 4 condotto da Nicola Porro, ha scatenato un vero e proprio putiferio in studio. A innescarlo è stata Sandra Amurri, giornalista e opinionista di Non è l’Arena, il programma di Massimo Giletti chiuso qualche settimana fa nel giro di poche ore.

La Amurri […] ha voluto riscrivere a suo modo la realtà dei fatti di quella stagione dei primi anni Novanta citando un’intervista di Paolo Borsellino con due giornalisti francesi poco prima della strage di via D’Amelio del luglio 1992. La Amurri sostiene che Borsellino abbia fatto il nome di Dell’Utri in quel colloquio legandolo a presunti rapporti con Cosa Nostra, ma in studio smontano subito la ricostruzione affermando in modo netto che il nome dell’ex senatore di Forza Italia non è mai stato citato dal giudice ucciso dalla mafia.

«Borsellino il nome di Marcello Dell’Utri non l’ha mai fatto, certe cose non si possono dire. A casa passa questo messaggio, la realtà è ben diversa ed è doveroso chiarire» afferma Andrea Ruggieri, direttore de Il Riformista.

Gli animi si accendono e così poco dopo, proprio la Amurri […] fa un riferimento alla chiusura di Non è l'Arena che a suo dire sarebbe legata ad alcune inchieste che lei, la redazione e Giletti stavano portando avanti. Le parole che usa sono pesantissime: «Allora ascolta Piero - afferma la Amurri interrompendo Piero Sansonetti, direttore dell’Unità, ospite in studio - ci hanno chiuso una trasmissione per le inchieste, fammi parlare».

La frase della Amurri non passa inosservata e poco dopo Porro torna sulla Amurri e chiede: «Scusa, perché ti hanno chiuso la trasmissione?». La risposta è netta: «Hanno chiuso Non è l’Arena per le inchieste che stavamo facendo. Questo è sicuro». Porro ribatte: «Quindi Cairo ha interrotto un programma per questo motivo?». La Amurri replica subito: «Cairo dovrà spiegare ai magistrati i motivi della chiusura, c’è un’indagine in corso. Di certo la trasmissione non è stata chiusa perché andava male come leggo sui giornali».

[…]  la rivelazione della Amurri suona come una vera bomba sganciata tra una frase e l’altra all’indirizzo del suo, ormai ex editore. Parole che scaldano ancora di più lo studio. E Porro la incalza: «Ma quindi c’è un’inchiesta? A me hanno chiuso un programma, ma inchieste non ne ho avute». Apriti cielo, la Amurri è un fiume in piena: «L’inchiesta c’è. Ma scusa, a te ti sembra normale chiudere una trasmissione da un’ora all’altra? C’è un’indagine in corso e Cairo dovrà spiegare», afferma la giornalista rivolgendosi al conduttore. 

Insomma a quanto pare la battaglia tra Giletti e Cairo non è affatto chiusa e a questo punto non si possono escludere colpi di scena. […] Ma sui social si è scatenata la tempesta: «Caro Porro mi dispiace cambiare canale, ti seguo da anni, ma stasera mi è venuto il volta stomaco a sentire Sabella e la Amurri. Scusami», scrive un utente. E un nostalgico di Non è l'Arena twitta: «Ma lo ricordiamo quante volte Giletti rimproverava la Amurri. E lei subito si zittiva». Questa volta non è andata così […].

Dagospia il 14 aprile 2023. Thread di Giuseppe Candela su Twitter

Repubblica parla di 48 mila euro parzialmente in nero a Baiardo. La Stampa fa sapere che Giletti avrebbe incontrato più volte Roberto Sergio (in corsa per ruolo di Ad Rai). Cairo al Fatto: "Non posso rispondere. Comunque abbiamo fatto un comunicato e non ho nulla da aggiungere". 

 Il Fatto parla di dissensi sulla linea editoriale e di puntate in arrivo su D'Alì e Dell'Utri. Baiardo a Domani conferma di aver preso gettoni ma "tutto è stato fatturato". Giletti avrebbe detto ai pm di Firenze che Baiardo gli avrebbe mostrato delle foto dell’incontro tra Berlusconi, i fratelli Graviano e il generale Delfino. Baiardo smentisce. Baiardo parla poi di una strana richiesta del conduttore.

La precisazione di Roberto Sergio

In merito a quanto riportato da alcuni organi di informazione ed in particolare  dal quotidiano La Stampa che ha scritto: “Giletti più volte ha incontrato Roberto Sergio, indicato come prossimo ad… ” si precisa che  si tratta di è notizia totalmente infondata. Il Direttore di Rai Radio ha avuto solo un breve scambio di saluti con il giornalista di La7 nel pomeriggio del 10 gennaio 2023 in occasione della conferenza stampa di presentazione del programma Mixer tenutasi presso la sala A di via Asiago, sede di Rai Radio.

Dagospia il 17 aprile 2023. Dal profilo Facebook di Enrico Mentana

Sul caso Giletti continuo a pensare che queste crisi si superano solo con la chiarezza. So che Giletti non informò l'editore Cairo né della foto fantasma fattagli intravedere da Baiardo, né della conseguente convocazione dai pm fiorentini. È nelle prerogative di un editore sospendere un programma, ma forse Urbano Cairo non poteva immaginare che sarebbero poi emersi tutti questi elementi, che rischiano di dare allo stop di Non è l'arena un segno diverso. 

Massimo Giletti è ancora sotto contratto, e la domenica resta libera. E allora per domenica prossima stiamo pensando a una trasmissione che affronti tutte le questioni più scottanti emersi attorno a questa vicenda, adeguata testimonianza del fatto che da noi non si nasconde nulla, soprattutto quando si parla di mafia. E chissà che poi...

Estratto dell’articolo di Giuseppe Pipitone per “il Fatto quotidiano” il 17 aprile 2023.

Dice Massimo Giletti che Salvatore Baiardo gli parlò dell'arresto di Balduccio Di Maggio. Prima di fargli vedere la foto in cui, a dire di Baiardo, compaiono Silvio Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale Francesco Delfino, l’uomo che ha “predetto” la fine della latitanza di Matteo Messina Denaro gli parlò di un altro arresto clamoroso: quello dell’autista di Totò Riina, l’uomo che trent’anni fa portò i carabinieri a prendere il capo dei capi di Cosa nostra.

La possibile esistenza del fantomatico scatto, su cui si sono concentrate le ricerche della Dia, potrebbe illuminare di una luce nuova alcune delle vicende più misteriose della stagione delle stragi. E non solo perché potrebbe provare i rapporti tra Berlusconi e il boss di Brancaccio, mai dimostrati e sempre negati dall’uomo di Arcore. 

In questa vicenda della foto, infatti, s’inserisce un personaggio controverso: il generale Delfino, processato e assolto per la strage di Brescia, esperto di rapimenti nella Milano degli anni 70, poi condannato per truffa nella vicenda Soffiantini.

Nel suo curriculum anche l’esperienza come unico agente segreto italiano a Londra, subito dopo la morte di Roberto Calvi nel 1982. Dieci anni dopo va a comandare i carabinieri in Piemonte, dove ha una splendida villa a Meina, sul Lago Maggiore. In quella primavera del ’92, come ha scoperto Enrico Deaglio, i personaggi di questa storia stavano tutti lì: la dimora del generale, infatti, dista appena una ventina di chilometri dalla gelateria di Baiardo a Omegna, sul lago d’Orta, dove all’epoca si muovevano i fratelli Graviano. Ad appena 15 chilometri, invece, c'è Borgomanero, dove aveva trovato riparo Di Maggio, fuggito dalla Sicilia per evitare di farsi ammazzare da Giovanni Brusca. 

È in un’officina del paese in provincia di Novara che arrivano i carabinieri, allertati da una soffiata su un traffico di stupefacenti: non trovano droga, ma trovano Di Maggio. Secondo la versione ufficiale è l'8 gennaio del '93: il mafioso chiede subito di parlare con Delfino e a lui racconta che sa come arrivare a Riina. Un vero colpo di fortuna per il generale che pochi mesi prima aveva voluto incontrare Claudio Martelli, per fargli una promessa: “Glielo faccio io un regalo di Natale, le portiamo Riina”. Il resto è storia: Di Maggio viene portato a Palermo, dove il 15 gennaio – poco dopo Natale – finiscono i 25 anni di latitanza del capo dei capi. 

Davanti ai pm, però, Giletti racconta una versione diversa: “Baiardo sosteneva che Di Maggio fosse stato arrestato intorno al 26 dicembre 1992 e non il 7-8 gennaio 1993, e che una persona molto importante delle istituzioni lo aveva avvisato in questi giorni di festa dell’arresto, tant’è che lo disse subito a Graviano”. Chi era questa persona delle istituzioni? “Abitava vicino al lago d'Orta”, ha detto il conduttore, riportando le parole di Baiardo […]  Baiardo […] Al processo Graviano non parla di nessuna “persona importante delle istituzioni”, ma dice solo che “Omegna è un paese piccolo, tutti sanno tutto”. […]

Che sulle rive del lago d’Orta possano esserci i segreti delle stragi sembrava averlo intuito anche Gabriele Chelazzi, il pm di Firenze che indagava sulle stragi prima di morire d'infarto nel 2003. Il 24 aprile del '97 il magistrato sta interrogando Di Maggio ed è particolarmente interessato al periodo trascorso dal pentito nel Nord Italia. Gli spiega di avere saputo da Brusca che i Graviano sapevano della sua presenza in Piemonte: lo avevano saputo da un tale “di origine palermitana, che faceva il gelataio lì, a pochi chilometri da Borgomanero”. […] Stavano tutti lì, affacciati sul lago nella stagione delle bombe.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” il 17 aprile 2023.

[…] In estate Baiardo aveva chiesto a Giletti di raggiungerlo con urgenza vicino a Milano. La stessa sera il conduttore si era recato presso la fonte, la quale gli aveva annunciato un clamoroso scoop in arrivo e gli aveva mostrato (senza fargliela toccare), a garanzia della bontà delle sue rivelazioni, una fotografia, una di quelle vecchie Polaroid degli anni ‘80-‘90. 

Nell’immagine Giletti aveva riconosciuto Berlusconi e il generale dei carabinieri Francesco Delfino, ma non la terza persona, che a detta di Baiardo era il mafioso Giuseppe Graviano. Giletti avrebbe detto ai magistrati di non poter garantire sull’autenticità di quello scatto, ma che, dopo alcune verifiche su Internet, era arrivato alla conclusione che il terzo soggetto potesse in effetti essere il malavitoso siciliano.

Lo scatto immortalava i tre seduti all’aperto, probabilmente al tavolino di un bar, in abiti primaverili. Per Baiardo si trovavano sul lago d’Orta. Con i magistrati ha negato la ricostruzione di Giletti: «Non è vero, io sono stato anche perquisito, ma non hanno trovato niente». 

Ma come La Verità è in grado di rivelare il gelataio di Omegna aveva riferito dell’esistenza scatto (o addirittura lo aveva mostrato) anche ad altri giornalisti, per esempio, sembra già a gennaio, all’inviato di Report Paolo Mondani. Lo stesso Baiardo, a inizio marzo, aveva inviato a Giletti un selfie con lo stesso Mondani in cui chiedeva al conduttore se fosse stato lui a parlare all’inviato Rai «delle foto».  Una domanda che magari serviva a confondere le acque o a scatenare un’asta tra trasmissioni concorrenti.

Di certo, sempre utilizzando l’esca della competizione tra programmi, Baiardo era riuscito a ottenere alcuni pagamenti per le sue ospitate a Non è l’Arena. Ma dalla trasmissione hanno ribadito che, nel rispetto della policy aziendale, i pagamenti sono stati fatti tutti in chiaro e in modo tracciabile. Baiardo avrebbe incassato circa 25.000 euro per due speciali e due ospitate. 

Dopo l’arresto di Messina Denaro e le ulteriori puntate tv, Giletti è stato sentito nuovamente in Procura il 23 febbraio scorso e questa volta al centro della convocazione c’era un misterioso documento di cui Baiardo aveva parlato al conduttore: «Quando te lo mostrerò e leggerai quello che c’è scritto resterai senza parole e capirai che il rapporto tra Graviano e Berlusconi era reale, ma non potrò lasciartene una copia» avrebbe detto.

Lo scorso 27 marzo Baiardo è stato sentito dal procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, quando ormai era calata la sera, presso il commissariato di San Lorenzo, in veste di testimone assistito nel procedimento fiorentino contro Berlusconi e Marcello Dell’Utri, essendo stato condannato in via definitiva per il favoreggiamento dei Graviano.

«Sono stato chiamato ad assistere questo Baiardo verso le 20:30 di sera e siamo rimasti lì due o tre ore» ci ha raccontato l’avvocato Carlo Fabbri, già legale del pentito Francesco Marino Mannoia. Il difensore ci ha anche confermato che al centro del verbale c’era proprio la famosa foto. 

Dopo essere stato perquisito e interrogato Baiardo ha ottenuto di potersi allontanare e raggiungere i famigliari in Nord Italia per le vacanze pasquali. Giovedì è ricomparso su Tik tok più acido che mai con Giletti, che, evidentemente, ritiene responsabile delle sue nuove disavventure: «Non sarò più a La7, probabilmente mi vedrete in Mediaset: lì almeno lasciano dire quello che uno pensa, non ti condizionano nel parlare, ne scoprirete delle belle». Sul suo faccia a faccia con Tescaroli, ha puntualizzato: «È stato interessante anche perché ho scoperto delle cose talmente assurde che è stato un bene, da una parte, perché le aggiungerò al mio libro ormai in chiusura».

Baiardo ha approfittato dell’occasione per fare pubblicità alla sua fatica letteraria e anticipare la sua partecipazione al Salone del libro di Torino. Ha poi attaccato Giletti: «Alla fine della fiera non so che gioco faccia anche lui perché se uno va in trasmissione ci va per dire qualcosa, poi alla fine non ti fanno mai dire niente...». In realtà il giornalista ha sempre provato a farlo parlare apertamente, ma lui ha preferito dire e non dire e giocare su più tavoli. 

Adesso Giletti, forse anche per colpa anche di questo signore, è stato licenziato direttamente da Cairo. Nessuna telefonata o comunicazione a quattr’occhi. Il conduttore stava trattando con l’azienda un rinnovo di un paio d’anni, ma, a quanto ci risulta, Cairo aveva già deciso di chiudere la trasmissione, visti i costi di oltre 200.000 euro a puntata non compensati dalle entrate pubblicitarie. 

Ma la decisione si è clamorosamente saldata con i boatos sulle perquisizioni e in tanti hanno collegato le due vicende. Giletti non ha smentito subito le voci perché è corso in redazione per tranquillizzare la sua squadra e confrontarsi con l’amministratore delegato della Fremantle Gabriele Immirzi.

Ma perché Cairo non ha aspettato giugno, data di scadenza naturale del contratto, per chiudere la trasmissione? Qualcuno ipotizza che l’editore, ex dipendente di Silvio Berlusconi e in buoni rapporti con i leader dell’attuale maggioranza, potrebbe aver ritenuto che le prossime puntate in cantiere sui rapporti con Cosa nostra dell’ex sottosegretario di Forza Italia Antonio D’Alì, ma anche di Dell’Utri, non ancora pronta, ma in fieri, stridessero con le attuali condizioni di salute del Cavaliere, ricoverato al San Raffaele per una leucemia cronica.

Cairo […], però, con l’Ansa, ha voluto allontanare da sé i sospetti di censura: «Giletti ha condotto in 6 anni 194 puntate di "Non è l'Arena" dove ha potuto trattare in totale libertà tutti gli argomenti che ha voluto inclusi quelli relativi alla mafia sulla quale ha fatto molte puntate, con tutti gli ospiti che ha voluto invitare. Gli auguro di trovare la stessa libertà incondizionata nella sua prossima esperienza televisiva o di altro genere». 

Quasi contemporaneamente Giletti ha negato di avere in corso trattative con la Rai […]

Da “Posta e Risposta – la Repubblica” il 17 aprile 2023.

Caro Merlo, non so in quale Tv andrà a lavorare Massimo Giletti, ma chiudergli il programma a fine stagione, e proprio quand’è in uscita, non significa regalargli una grande pubblicità? 

Non mi piace il giornalismo populista e di destra di Giletti e dubito che la scorta che gli hanno assegnato lo qualifichi come giornalista antimafia. Non crede che in Italia ci siano troppe persone sotto scorta? 

Le confesso che non ho capito quanto sia squalificato il pentito Baiardo, ma sarebbe indecente se Giletti lo avesse pagato in nero e sono sicuro che questa foto di Berlusconi con Graviano e il generale Delfino verrà distrutta. Anche dalla terapia intensiva Berlusconi saprà cosa fare. 

Giulio Sorrentino — Torino 

Risposta di Francesco Merlo:

Premetto che non mi piacciono gli atti d’imperio e dunque non mi piace la chiusura d’imperio del programma di Giletti. Guardo poco la tv e benché fosse di successo, guardavo poco anche Giletti, ma questa brutta chiusura me lo fa rimpiangere. Come altri giornalisti, Massimo Giletti vive sotto scorta perché ha ricevuto minacce che non sono diplomi di nobiltà, ma rischi che il ministero degli Interni prende sul serio. In Italia sono troppe le scorte o sono troppe le minacce? 

[...] Insomma, non condivido le sue considerazioni sulla scorta di Giletti, la cui sicurezza non è misurabile con il pregiudizio politico. Del suo giornalismo ho già scritto che Giletti, partito come allievo di Minoli, è diventato l’erede di Santoro, un misto di scoop e narcisismo, la piazza-tv dove le sfide sono giostre e i nemici compari, ma dove tutti vogliono andare e vanno. E dunque è vincente perché è l’audience che, non solo in tv, misura la qualità. [...]

Escludo che Giletti e l’editore che lo ha autorizzato possano avere pagato in nero un qualunque ospite, non solo un mafioso patentato. Sulla foto, che Giletti dice di avere malamente intravisto da lontano, credo che la paura della foto abbia molta più sostanza della foto stessa che potrebbe non esistere ma alla quale tutti ormai credono. Vedo una sapienza (mafiosa e politica) nella sua gestione: il nulla non si annulla e dunque, se non la vedremo mai, sarà “la prova” che è stata distrutta, perché si sa che in Italia solo le prove vengono distrutte, e più si distrugge e si fa sparire più si rafforza la prova.

 Giletti furioso per la chiusura di Non è l'Arena: "Chiediamoci perché". All'ultima riunione di redazione della trasmissione Giletti appare furioso per la chiusura di Non è l'Arena. Giampiero Casoni su Notizie.it il 15 Aprile 2023

Dopo qualche giorno di silenzio e numerose voci smentite oggi Massimo Giletti è furioso per la chiusura di Non è l’Arena: “Chiediamoci perché”. Il conduttore ha fatto capire che nel mirino ci sono finite 3 puntate in programma ed ai giornalisti nell’ultima riunione di redazione o ha spiegato senza mezzi termini: “Chiediamoci perché ci hanno chiuso. Stavamo preparando tre puntate importanti, delicatissime. Deflagranti. E siamo stati fermati“.

Giletti furioso per la chiusura: “Perché?”

Quali sarebbero le tre puntate non gradite a La7? Erano quelle sulla strage di via d’Amelio, su Marcello dell’Utri e sull’ex sottosegretario di Forza Italia D’Alì che era stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo La Stampa l’ultima riunione a La7 non è il preambolo del ritorno del conduttore in Rai ed esattamente a causa del defenestramento da parte di Urbano Cairo: “E dopo tutto questo, col cavolo che ce lo riprendiamo”. Ma Cairo ha smentito e i dirigenti di viale Mazzini dicono che non ci sono stati incontri con Giletti. In questi giorni c’era stata la testimonianza di Giletti davanti ai pubblici ministeri Turco e Tescaroli che indagano sulle stragi del 1993.

La foto di Berlusconi “con Graviano”

l conduttore ha detto ai giudici che Salvatore Baiardo “gli ha mostrato una foto che ritraeva Silvio Berlusconi insieme a Giuseppe Graviano e al generale dei carabinieri Francesco Delfino”. La collaboratrice di Giletti e giornalista del Fatto Sandra Amurri ha detto: “Mi chiedo: c’è davvero qualcuno disposto a credere che la ragione di una tale decisione della rete possa essere dipesa dal pagamento di Baiardo per le sue partecipazioni al programma? E non sia, invece, scaturita dalle inchieste in cantiere su altre verità nascoste sui cosiddetti intoccabili?”.

La7 cancella l’Arena di Giletti prima di 2 puntate su D’Alì&Dell’Utri

Nel pomeriggio voci poi smentite di perquisizioni della Dia. Presidente Cairo – replichiamo su Whatsapp dopo aver provato vanamente a telefonare al patron di La7 –, ma ci può dire solo la motivazione della sospensione di Non è l’arena […] 

(DI GIAMPIERO CALAPÀ – Il Fatto Quotidiano 14 aprile  2023) – “Non posso rispondere, comunque abbiamo fatto un comunicato e non ho niente da aggiungere. Saluti Uc”. Presidente Cairo – replichiamo su Whatsapp dopo aver provato vanamente a telefonare al patron di La7 –, ma ci può dire solo la motivazione della sospensione di Non è l’arena: share e costi? Linea editoriale? O la trattativa con la Rai di cui si parla?

“Faccia lei”.

Urbano Cairo, insomma, nella serata di ieri non chiarisce nulla sulla decisione di cancellare le puntate finali della trasmissione di Massimo Giletti dai palinsesti. Decisione comunicata ieri pomeriggio e che anche lo stesso Giletti avrebbe appreso dalle agenzie di stampa. È delle 14:01 il lancio dell’Adnkronos: “La7 ha deciso di sospendere la produzione del programma Non è l’arena che da domenica prossima non sarà in onda. Lo rende noto l’emittente in una nota in cui ‘ringrazia Massimo Giletti per il lavoro svolto in questi sei anni con passione e dedizione’. ‘Massimo Giletti – conclude La7 – rimane a disposizione dell’Azienda’”. A quel punto tra social e Dagospia hanno cominciato a rincorrersi le voci più disparate.

Ipotesi 1: share basso e costi elevati

Tra le varie ipotesi circolate c’è quella dell’insoddisfazione degli inserzionisti per i numeri del programma, elemento per Cairo decisivo se combinato con i costi della trasmissione, di molto superiori a quelli medi sostenuti dalla rete per gli altri talk. Numeri di ascolto, però, tra il 4,8 e il 5%, che Giletti non giudica negativi.

Ipotesi 2: trattativa con la Rai

L’ipotesi 1 sarebbe strettamente intrecciata con l’ipotesi 2: Cairo avrebbe infine preso la decisione di negare il finale di stagione a Giletti per le voci che si rincorrono da tempo di una trattativa in stato avanzato per un ritorno in Rai dopo sei anni, proprio nella fascia serale della domenica. Anche perché altre voci danno Fabio Fazio in uscita verso Discovery, quindi Che tempo che fa si trasferirebbe sul Nove, lasciando libera la prima serata della domenica per un programma di peso.

Ipotesi 3: dissensi sulla linea editoriale

Un’altra voce che si è rincorsa ieri raffigurava uno scenario in cui i vertici editoriali di La7 abbiano spinto Cairo a prendere questa decisione per le posizioni di Giletti sulla guerra in Ucraina, considerate troppo filorusse, e sulla mafia, considerate troppo “complottiste”. Proprio D’Alì e Dell’Utri, i rapporti della politica con Cosa Nostra, erano tra i temi previsti per le prossime puntate. E proprio ieri mattina, prima del putiferio scatenato dal comunicato di La7, sul social Tik Tok è comparso quel Salvatore Baiardo, personaggio ambiguo considerato vicino ai fratelli Graviano, che preannunciò mesi prima l’arresto di un Matteo Messina Denaro malato proprio davanti alle telecamere di Giletti. Ieri Baiardo ha annunciato: “Ci sono nuove iniziative, probabilmente mi vedrete in Mediaset, lì uno può dire quello che pensa e non ti condizionano nel parlare. Ne scoprirete delle belle”. E ancora: “Anche Giletti, sotto scorta, ma alla fine della fiera non so che gioco faccia anche lui. Se uno va in trasmissione va per dire qualcosa, poi alla fine non ti fanno mai dire niente”. Poi rispondendo a un commento che gli dava del “veggente” dopo la pubblicazione della notizia della sospensione di Non è l’arena, Baiardo scrive: “Tutto previsto, anche la Rai non gli farà il contratto”. Intanto Dagospia lanciava un’altra ipotesi: la decisione di Cairo sarebbe arrivata in seguito a indagini e perquisizioni della Dia proprio relative alle ospitate di Baiardo nel salotto televisivo di Giletti. Tutto smentito da fonti della stessa Dia e della Procura di Firenze.

Cairo al Fatto: “Faccia lei, non posso dire nulla”

Anche Giletti rimanda i chiarimenti e si limita a dichiarare all’Ansa: “Ognuno ha la sua versione, tutto si chiarirà al momento giusto”, esprimendo poi rammarico per “i 35 che lavorano con me e si ritrovano ora sbattuti fuori dopo sei anni”. Di certo c’è che nel governo, Matteo Salvini sarebbe ben contento di rivedere Giletti in Rai, come rivelato dallo stesso capo della Lega sui social: “Il mio abbraccio a Massimo e alla sua squadra. L’ho sempre stimato e spero di rivederlo in video al più presto”. D’altra parte Giletti aveva recentemente sostenuto nella trasmissione Belve che la rottura con la Rai sei anni fa gli procurò un “dolore profondo”, affermando di conoscere “il mandante politico” di quella decisione: “So chi è, ma non voglio dirlo”.

Intanto, prima di chiudere il giornale, proviamo a insistere per avere una spiegazione da Cairo, che però declina: “Stasera proprio non posso”. Per trattarsi di informazione e giornalismo non proprio modelli di chiarezza e trasparenza, dichiarazioni a mezza bocca che ricordano tanto le trattative del calciomercato a fine stagione sportiva. Mercato, appunto.

La7 sospende “Non è l’Arena” di Giletti: tutte le ipotesi. Baiardo: “Io pagato per andare in tv”. Da Iacchite il 14 Aprile 2023

Il programma “Non è l’Arena” di Massimo Giletti su La7 è stato sospeso dall’editore Urbano Cairo. Che però non ne ha spiegato i motivi: «Non posso rispondere. Comunque abbiamo fatto un comunicato e non ho nulla da aggiungere. Stasera proprio non posso», ha detto al Fatto Quotidiano. Anche il conduttore non ha voluto dire molto, limitandosi a smentire le voci di una perquisizione della Direzione Investigativa Antimafia. Ma l’ipotesi di un incidente sulle storie di mafia continua a circolare in queste ore. In particolare si punta su Matteo Messina Denaro e su Salvatore Baiardo. Ed è proprio l’ex gelataio amico dei fratelli Graviano a irrompere nella scena. Prima con un video in cui annuncia un nuovo libro e il suo passaggio a Mediaset. E poi con un articolo di Domani in cui si dice che è stato il suo “scoop” a far chiudere la trasmissione. Confermando di aver ricevuto compensi regolarmente fatturati per le comparsate. Mentre Repubblica parla di 48 mila euro parzialmente “in nero”.

I compensi regolarmente fatturati

Tutto infatti comincia con la “profezia” su Messina Denaro. Baiardo ipotizza prima del suo arresto che l’Ultimo dei Corleonesi sia malato. E che stia per morire. Non si tratta di una novità: della salute di ‘U Siccu si occupavano da tempo i rapporti degli investigatori. Ipotizzando malattie anche gravi, ma non il cancro al colon. Il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia risponde a lui (e ad altri) parlando di “terrapiattisti dell’Antimafia”. Ma i pubblici ministeri di Firenze che indagano sulle stragi del 1993 ascoltano Giletti come testimone. E chiedono anche a Baiardo di parlare del suo incontro con Paolo Berlusconi a Milano dopo l’arresto dei Graviano. Mentre proprio l’Ultimo dei Corleonesi lo smentisce sulla sua malattia: «Avrà tirato a indovinare». Adesso, scrive Domani, si parla di nuovo delle sue comparsate su La7. E dei compensi “regolarmente fatturati”, come ha confermato la produzione del programma.

La presunta indagine sui 48 mila euro “in nero”

La Repubblica invece parla di un’indagine aperta a Firenze sul compenso ricevuto dal programma e sulle sue dichiarazioni. Si parla di almeno 48 mila euro e, scrive il quotidiano, di cui una parte pagata “in nero”. La questione è stata affrontata da Giletti ieri, quando il conduttore ha detto che «è falso che io abbia pagato personalmente Baiardo», ammettendo – e spiegando che si tratta di un trattamento riservato a tutti – il pagamento da parte della produzione per le ospitate. Di certo Freemantle, la casa di produzione di Non è l’Arena, ha pagato Baiardo con un accredito bancario e con fattura. Domani aggiunge che Giletti avrebbe detto ai pm di Firenze che Baiardo gli avrebbe mostrato delle foto dell’incontro tra Berlusconi, i fratelli Graviano e il generale Delfino. L’ex gelataio smentisce tutto: «Sono stato anche perquisito ma i giudici non hanno trovato niente».

Le perquisizioni e le indagini (smentite)

Ieri Baiardo ha annunciato il suo nuovo libro e l’approdo a Mediaset quando doveva ancora scoppiare il caso Giletti. In un filmato successivo dice che sulla sospensione del programma lui aveva «previsto tutto. Anche la Rai non gli farà il contratto». La procura di Firenze smentisce perquisizioni e indagini su “Non è l’Arena”. Marco Lillo spiega sul Fatto che Giletti è stato sentito dai pm di Firenze per due volte. Il 19 dicembre e il 23 febbraio di quest’anno. Pochi mesi fa il suo livello di protezione è stato alzato. La puntata di lunedì prossimo avrebbe dovuto poi occuparsi di Antonio D’Alì, ex sottosegretario di Forza Italia. Condannato in via definitiva per associazione mafiosa. D’Alì fa parte di una famiglia che a Castelvetrano aveva la proprietà terriera più grande della Sicilia. E tra i suoi campieri (ovvero coloro che organizzavano il lavoro dei contadini) si sono alternati prima Francesco Messina Denaro e poi il figlio Matteo.

Marcello Dell’Utri

Sempre il Fatto Quotidiano sostiene che Giletti volesse costruire altre trasmissioni sul ruolo di Marcello Dell’Utri. Anche lo storico dirigente di Berlusconi è stato condannato per associazione mafiosa. Secondo il giornalista l’ipotesi di accusa (tutta da dimostrare) relativa alle stragi del 1993 è un tabù in tv. Giletti voleva infrangere il divieto. Lavorando anche sulle perizie sui primi capitali di Fininvest. Ma il giornale di Travaglio dà spazio anche alle altre ipotesi sulla chiusura del programma. La prima è l’insoddisfazione degli inserzionisti per lo share, unita ai costi della trasmissione. L’Auditel però certificava una media tra il 4,8% e il 5%: numeri che secondo Giletti non sono negativi. Poi c’è la trattativa con la Rai. Che sarebbe intrecciata a quella con Fabio Fazio. Il quale si trasferirebbe a Discovery lasciando spazio libero proprio a Giletti nel palinsesto della tv pubblica.

Gli inserzionisti, il passaggio in Rai, la rabbia di Cairo

Anche La Stampa parte da questa ipotesi. E sostiene che sarebbero stati proprio i contatti con la tv pubblica a mandare su tutte le furie Cairo. Il quale, sapendo che dall’anno prossimo Giletti sarebbe tornato a viale Mazzini, avrebbe accelerato il trapasso sospendendo la trasmissione. Come quei presidenti di società di calcio che esonerano gli allenatori o mettono fuori rosa i calciatori. Una ipotesi poco credibile in assenza di altri riscontri. Se non altro perché così l’editore si dà la zappa sui piedi. E si mette in cattiva luce sia con il pubblico che con gli altri conduttori.

Baiardo attacca Massimo Giletti. Il giallo delle foto di Berlusconi. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 13 aprile 2023

Uno scoop che ha fatto il giro del mondo si è trasformato in un boomerang, di più in un vero e proprio terremoto che ha portato alla chiusura della trasmissione domenicale di La7, ‘Non è l’arena’, condotta da Massimo Giletti. 

Lo scoop è l’intervista realizzata a Salvatore Baiardo, pregiudicato per favoreggiamento agli stragisti Graviano, che anticipava di qualche mese l’arresto di Matteo Messina Denaro, il boss latitante da 30 anni, ammanettato nel gennaio scorso dai carabinieri del Ros e dalla procura di Palermo.

Da allora Baiardo, che per la prima volta aveva parlato mesi fa a Report, è stato diverse volte ospite nelle trasmissioni di Massimo Giletti. I compensi sono stati regolarmente fatturati, fanno sapere dalla produzione del programma.  GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Da adnkronos.com il 13 aprile 2023.

 La7 ha deciso di sospendere la produzione del programma 'Non è l'Arena' che da domenica prossima non sarà in onda. Lo rende noto l'emittente in una nota in cui "ringrazia Massimo Giletti per il lavoro svolto in questi sei anni con passione e dedizione". "Massimo Giletti - conclude La7 - rimane a disposizione dell'Azienda".

 "Prendo atto della decisione di La7 - dice Giletti, contattato dall'AdnKronos - In questo momento, l'unico mio pensiero va alle 35 persone che lavorano con me da anni e che da un giorno all'altro - senza alcun preavviso - vengono lasciate per strada".

Da open.online – 23 gennaio 2023

Durante il suo intervento a Non è l’Arena su La 7 Salvatore Baiardo ha detto che Matteo Messina Denaro sta per morire: «Penso non ne abbia per molto, altrimenti non succedeva quanto è successo, almeno questo presumo».

 L’uomo che gestì la latitanza dei Graviano ha detto di non poter rivelare in televisione chi gli disse che l’ultimo dei Corleonesi era malato nel novembre 2022. Ma la sua tesi, riecheggiata anche in altre, è che Messina Denaro si sia semplicemente fatto prendere il giorno del suo arresto: «Sappiamo bene che non è tutto finito. È finito con l’arresto di Denaro quel tipo di epoca. Stiamo dando troppa credibilità ai pentiti. Trovatemi un pentito che si sia pentito da uomo libero. Tutti si sono pentiti per non fare galera. Non sono un pentito. Non l’ho mai fatto. Ho fatto 12 querele contro chi mi chiama pentito».

Nell’intervento Baiardo ha ribadito che la notizia della malattia di Denaro gli è arrivata «da un ambito palermitano ma non dai fratelli Graviano. Sono 30 anni che non li vedo e sento. Sono 1022 le persone che hanno l’ergastolo ostativo». E quindi la cattura di Denaro «non può far comodo solo ai Graviano.

 I Graviano hanno staccato la spina da Palermo». Poi ha parlato dell’agenda rossa di Paolo Borsellino: «Il passaggio di mano dell’agenda rossa l’ho visto nel ’92-93. Ho visto dei fogli che la riproducevano. Io dico che Graviano non era lì come dicono i pentiti a proposito dell’omicidio di Borsellino. Graviano ha 12 ergastoli. Non devo difenderlo per fargliene togliere uno». Infine, Baiardo si è rivolto al conduttore della trasmissione Massimo Giletti sostenendo che è in pericolo: «Lei sta rischiando parecchio. A 360 gradi. Fa del buon giornalismo ma sta rischiando, e non solo a livello di mafia».

Susanna Picone per fanpage.it – articolo del 22 gennaio 2023

 Salvatore Baiardo, presentato da Massimo Giletti come "l’uomo che ha previsto l’arresto di Matteo Messina Denaro", è tornato a parlare della cattura del boss mafioso nel corso della trasmissione di questa sera Non è l’arena su La7.

 "Presumo sia una resa sua, non è che lo Stato lo sta prendendo", aveva detto Baiardo, che per anni ha tutelato la latitanza dei fratelli Graviano, in una intervista realizzata mesi prima dell’arresto di lunedì scorso a Palermo, aggiungendo che il capomafia era molto malato e che la cattura sarebbe stata "un bel regalino".

Baiardo e le rivelazioni su Matteo Messina Denaro

È stata una coincidenza? Quella "profezia" è un indizio di una trattativa tra parti deviate dello Stato e la mafia? "Le profezie vorrei farle in altro ambito, giocando al Superenalotto, queste non sono profezie, sono cose serie", ha detto questa sera Baiardo.

Come faceva a sapere che Messina Denaro era malato? "I giornalisti dicono che ‘correva voce’, ma nessuno lo ha mai detto", così Baiardo in tv evitando di rivelare le sue fonti sul boss. "Non ci sono solo i Graviano, ci sono altre persone", ha detto quindi smentendo di parlare per bocca dei Graviano.

 "Matteo Messina Denaro, Totò Riina, Bernardo Provenzano dove sono stati arrestati? Tutti e tre in Sicilia, mentre i fratelli Graviano sono stati arrestati a Milano, c'è qualcosa che non torna. I fratelli si stavano rifacendo un'altra vita. I pentiti non possono continuare a inventarsi le barzellette. Se i Graviano dovevano continuare a delinquere, sarebbero rimasti a Brancaccio", così Baiardo a Non è l’Arena.

Baiardo a "Non è l’arena"

Il regalino per chi era? "Per chi ne beneficia", risponde a Giletti. "Non penso che ne abbia per molto, non succedeva quello che è successo", ha detto ancora facendo riferimento alle gravi condizioni di salute di Messina Denaro. […]

Da lasicilia.it – 5 febbraio 2023

Ha affidato a un breve video su tik tok la cronaca della sua giornata romana Salvatore Baiardo, controverso personaggio già condannato per favoreggiamento della mafia, sedicente depositario di segreti sul boss Matteo Messina Denaro.

 "Sono già arrivato a Roma e ho voluto iniziare con la colazione al bar Doney, quello della famosa rivelazione di Spatuzza", ha detto in un video riferendosi al locale in cui il pentito Gaspare Spatuzza raccontò di aver appreso dal boss Giuseppe Graviano dei rapporti con Marcello Dell’Urto. Al termine del filmato Baiardo, come un influencer qualunque che disquisisce di futilità, ha dato appuntamento ai suoi follower su la 7, dove stasera sarà ospite della trasmissione Non è l'Arena per nuove rivelazioni.

Intanto il quotidiano La Repubblica oggi riporta che nel 2011Baiardo avrebbe avuto un incontro a Milano con Paolo Berlusconi. Sarebbe stato l'ex favoreggiatore dei Graviano a chiedere l’incontro: era alla ricerca di un lavoro, avrebbe riferito ai pm della Dda di Firenze titolari dell’inchiesta sui presunti mandanti esterni delle stragi del 1993 che vede tra gli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’utri.

Il quotidiano spiega inoltre che i magistrati fiorentini, nell’ambito di accertamenti svolti nel 2020 per quell'incontro, hanno cercato di sentire Paolo Berlusconi, il quale si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere in quanto familiare di un indagato. Presi a verbale invece due poliziotti che erano nel dispositivo di tutela di Paolo Berlusconi a Milano nel 2011. […]

Dagospia il 13 aprile 2023. "Smentisco le fantasie che sono state divulgate ad orologeria in queste ore che raccontano di presunte perquisizioni avvenute in casa mia o negli uffici della società che produce “ Non è l ‘ Arena “ . Nessuno ne ‘ oggi , ne’ nelle settimane passate si è presentato per notificarmi atti giudiziari . È inoltre falso che io abbia pagato personalmente e di nascosto il sig Salvatore Baiardo che è stato compensato per le proprie apparizioni nel programma e nello speciale di novembre interamente costruito sulla sua intervista , come un qualsiasi ospite, in maniera trasparente e tracciabile"

 (ANSA il 13 aprile 2023) - "Tutto si chiarirà al momento giusto". Così Massimo Giletti commenta con l'ANSA la nota de La7 che oggi annuncia la sospensione di Non è l'Arena. "Ognuno ha la sua versione. Non voglio aggiungere altro, non parlo, penso solo ai miei, ai 35 che lavorano con me e si ritrovano ora sbattuti fuori dopo 6 anni.

Massimo Giletti: "La polizia a casa mia? Falso". Lo stop di Non è l'Arena è un caso. Il Tempo il 13 aprile 2023

Èun caso la sospensione da parte di La7 della trasmissione Non è l'Arena condotta da Massimo Giletti ogni domenica sulla rete di Urbano Cairo. Secondo indiscrezioni dietro allo stop ci sarebbe un deterioramento del rapporto a causa dei contatti tra il giornalista e la Rai per un possibile rientro nel servizio pubblico, magari al posto di Fabio Fazio in scadenza di contratto. Ma prima Selvaggia Lucarelli e poi Dagospia hanno parlato anche di una perquisizione della polizia.

"Nelle redazioni si rincorre da un’ora la notizia che ci sarebbero le forze dell’ordine in casa di Giletti, nonché in alcuni uffici amministrativi", aveva scritto la giornalista per poi integrare: "Secondo indiscrezioni il rapporto tra Urbano Cairo e Massimo Giletti, un tempo idilliaco, negli ultimi tempi era diventato molto teso, anche per la notizia di trattative tra Giletti e la Rai (o tra Giletti e chi provava a portarlo in Rai…). La notizia delle perquisizioni di stamattina avrebbe dunque convinto Cairo ad agire d’anticipo e chiudere il programma". Il sito di Roberto D'Agostino aveva poi tirato in ballo le interviste a Salvatore Baiardo. 

Ricostruzioni e sospetti a cui risponde, lapidario, lo stesso Giletti: "Perquisizioni in casa mia della Dia? È una notizia falsa", dice il giornalista all’Agi. In un commento all'Ansa, riportato da Dagospia, afferma inoltre che "non c'è stata nessuna perquisizione nella mia abitazione. Nessuna notifica delle forze dell'ordine, nulla di nulla. Del resto era tutto facilmente verificabile e riscontrabile". Sullo stop al programma ha detto che tutto si chiarirà al momento giusto e che "ognuno ha la sua versione".

"Smentisco le fantasie che sono state divulgate ad orologeria in queste ore che raccontano di presunte perquisizioni avvenute in casa mia o negli uffici della società che produce Non è l‘Arena. Nessuno né oggi, né nelle settimane passate si è presentato per notificarmi atti giudiziari" sono le parole di Giletti citate da Dagospia, "è inoltre falso che io abbia pagato personalmente e di nascosto il sig Salvatore Baiardo che è stato compensato per le proprie apparizioni nel programma e nello speciale di novembre interamente costruito sulla sua intervista, come un qualsiasi ospite, in maniera trasparente e tracciabile". 

Dopo la diffusione della notizia della sospensione del suo programma, Giletti aveva rivolto un pensiero ai suoi collaboratori: "Prendo atto della decisione di La7. In questo momento, l’unico mio pensiero va alle 35 persone che lavorano con me da anni e che da un giorno all’altro - senza alcun preavviso - vengono lasciate per strada", aveva detto all’AdnKronos il giornalista. 

Cairo chiude Non è l'arena: Giletti resta a disposizione di La7 (ma guarda alla Rai). Francesco Canino su Panorama il 13 Aprile 2023

Il programma sospeso senza preavviso. Dietro la rottura col patron di La7, le indiscrezioni sui contatti per un passaggio in Rai, i problemi sui costi e la raccolta pubblicitaria della trasmissione e i dissidi col direttore di rete sulle puntate dedicate alla mafia

Il blitz di Urbano Cairo è di quelli destinati a creare un mezzo terremoto televisivo: con un colpo di scena totalmente inaspettato, il patron di La7 ha deciso di sospendere Non è l'arena. Tradotto in altri termini, da domenica prossima il programma ideato e condotto da Massimo Giletti non andrà più in onda. Lo ha reso noto la stessa emittente attraverso uno stringatissimo comunicato in cui «ringrazia Massimo Giletti per il lavoro svolto in questi sei anni con passione e dedizione» e precisa che il conduttore rimane a disposizione della rete. Tutto facile, tutto liscio? Non proprio. A cominciare dalla tempistica sospetta, che s'incrocia con le indiscrezioni sempre più insistenti che ipotizzano il ritorno di Giletti in Rai. «Sento in modo profondo il legame con Cairo che mi ha sempre lasciato assoluta libertà», commentò il giornalista due anni fa, al momento del rinnovo del contratto con La7. «Giletti è un numero uno, che ha la tv nel suo dna . Con noi ha fatto benissimo fin dal suo arrivo nel 2017, con risultati eccellenti alla domenica», rispose Urbano Cairo in uno scambio di affettuosità che oggi pare lontanissimo. Il contratto scadrà tra poche settimane ed è impossibile che venga rinnovato, visto che Massimo Giletti ha un piede in Rai. Per ora solo informalmente, ma da mesi pare cosa fatta il suo ritorno sulla tv di Stato dopo la sua "cacciata" nel 2017, com'è stata definita da più commentatori. «Lasciare la Rai è stato dolore profondo, ma a volte non esserci è un valore: fai delle scelte. Devo dire grazie a chi mi ha costretto ad andare via, nelle tempeste si costruiscono le persone», ha rivelato poche settimane a Belve, ribadendo di avere ben chiaro che la sua uscita dalla Rai ebbe «un mandante politico, non ho la certezza ma posso avere delle intuizioni. So benissimo chi è ma non voglio dirlo». Anche però questo appartiene al passato. Questione di giorni e verranno rinnovati i vertici della Rai, con un assetto a trazione centro-destra, e l'arrivo di Roberto Sergio come nuovo amministratore delegato (stimato da più fronti, va detto) potrebbe coincidere con il ritorno di Giletti. Dove? Su Rai1, forse. Più probabile però approdi su Rai2, magari con un talk show in prima serata il giovedì sera, per un rilancio in grande stile dopo i troppi tentativi andati a vuoto (ultimo, il flop del programma di Ilaria D'Amico). «Secondo le indiscrezioni che circolano a La7, sarebbero stati proprio icontatti avuti con la tv pubblica a determinare la rottura con l'emittente di Urbano Cairo. Di fronte alla prospettiva di un rapporto destinato aterminare, negli ultimi giorni l'azienda avrebbe deciso di accelerare i tempi arrivando alla decisione della sospensione del programma», scrive l'Ansa. Che poi aggiunge altri dettagli a proposito di Non è l'Arena: secondo l'agenzia stampa sarebbero «sorti problemi in relazione ai costi e alla raccolta pubblicitaria della trasmissione». Il tutto nonostante gli ascolti comunque buoni del programma, che in alcune puntate ha toccato anche il 10% di share. «Prendo atto della decisione di La7. In questo momento, l'unico mio pensiero va alle 35 persone che lavorano con me da anni e che da un giorno all'altro - senza alcun preavviso - vengono lasciate per strada», replica Giletti. Ma c'è un ultimo dettaglio, rivelato da La Stampa, forse non del tutto secondario, che riguarda alcune delle puntate più criticate di Non è l'Arena (assieme a quelle in diretta da Mosca). «Dietro la sospensione ci sarebbe una disparità di vedute tra il conduttore e il direttore di rete Andrea Salerno sul taglio del programma, in particolare sulle puntate dedicate alla mafia e alla partecipazione di Salvatore Baiardo, l’ex tuttofare dei fratelli Graviano», scrive il quotidiano di Torino. «Le dichiarazioni sulla latitanza di Matteo Messina Denaro e in seguito sul suo arresto avevano fatto discutere e non a tutti erano piaciute».

Colpo di scena a La7. L’editto bulgaro di Cairo: chiusa l’Arena di Giletti. Non è l’Arena, il programma su La7 di Massimo Giletti, è stato sospeso. Questa domenica non andrà in onda. Redazione su Nicola Porro il 13 Aprile 2023

La7 ha deciso di sospendere Non è l’Arena, il programma condotto dal giornalista Massimo Giletti e in onda da novembre 2017. Lo ha reso noto la stessa emittente, che ha comunque deciso di ringraziare “Massimo Giletti per il lavoro svolto in questi sei anni con passione e dedizione”. Commentando la decisione dell’editore sulle colonne dell’agenzia Ansa, il giornalista investigativo ha affermato che “tutto si risolverà al momento giusto”, senza voler aggiungere altro.

Ognuno ha la sua versione. Non voglio aggiungere altro, non parlo, penso solo ai miei, ai 35 che lavorano con me e si ritrovano ora sbattuti fuori dopo 6 anni. Io ho le spalle larghe, penso solo a loro”, ha continuato Giletti che ha smentito anche le voci, incorse in queste ultime ore, di una presunta perquisizione dell’Antimafia nella sua abitazione: “È tutto falso, non c’è stata nessuna perquisizione nella mia abitazione. Nessuna notifica delle forze dell’ordine, nulla di nulla. Del resto era tutto facilmente verificabile e riscontrabile”. La notizia è arrivata come “un fulmine a ciel sereno“, hanno dichiarato i redattori che erano al lavoro per la puntata di questa domenica sera.

Il mistero, comunque, continua ad avvolgere la decisione dell’emittente di Urbano Cairo. Negli ultimi giorni, si erano diffuse altre voci, questa volta che riguardavano un potenziale cambio di casacca di Giletti, pronto ad abbandonare l’emittente di Urbano Cairo alla volta della Rai, segnando quindi un riallineamento della tv pubblica che il governo di centrodestra vorrebbe compiere. Queste voci non sono state né confermate, né smentite. Ancora, secondo le ultime indiscrezioni, dietro la sospensione del programma ci potrebbero essere problemi in relazione ai costi e alla raccolta pubblicitaria della trasmissione.

Nel frattempo, la Rai presenterà la sua programmazione autunnale a giugno e le decisioni arriveranno proprio in settimana. A quel punto, molti nodi potranno avere risposta.

Legale Berlusconi, intollerabili le accuse infondate di mafia. (ANSA il 15 aprile 2023) -  "Sono accuse infondate e offese gravissime che calpestano la storia di un uomo che, oltre ad essere uno dei più grandi imprenditori italiani, ha ricoperto per ben quattro volte il ruolo di Presidente del Consiglio" secondo Giorgio Perroni, avvocato di Silvio Berlusconi, quelle pubblicate oggi da diverse testate quanto detto da Massimo Giletti ai magistrati di Firenze, che lo hanno sentito, sul fatto che Salvatore Baiardo gli mostrò una foto di Berlusconi, allora non ancora sceso in politica, il generale dei carabinieri Francesco Delfino e il boss Giuseppe Graviano.

"Da almeno un quarto di secolo tutte le più assurde accuse di presunta mafiosità contro Silvio Berlusconi si sono sempre dimostrate false e strumentali, tant'è vero - ha sottolineato il legale - che ogni volta gli stessi inquirenti hanno dovuto ammettere che erano infondate, disponendo l'archiviazione di tutti i vari procedimenti penali. Ora viene riattivato il circo mediatico, questa volta attorno a una foto spuntata all'improvviso dopo trent'anni, la cui esistenza è smentita dal diretto interessato". "

 Tutto questo avviene perché la stampa ha in mano documenti che non potrebbero circolare in quanto coperti da segreto istruttorio, senza che peraltro la magistratura si attivi in modo deciso per mettere fine a una fuga di notizie che va avanti da troppo tempo. A tal proposito - ha annunciato Perroni -, ci riserviamo di adire in tutte le competenti sedi giudiziarie contro questo uso indegno di informazioni riservate". "Va poi detto che questa fuga di notizie e il clamore mediatico che ne consegue sono ancor più intollerabili, e lo dico in questo caso non solo da avvocato di Silvio Berlusconi, ma anche da cittadino, perché si verificano proprio nei giorni in cui il Presidente è ricoverato e sta combattendo una battaglia molto delicata. Quanto dovremo continuare a tollerare- ha concluso - un sistema in cui i processi si fanno prima sui giornali che nei tribunali, in violazione della legge e senza alcun rispetto per le persone?". (ANSA).

Estratto dell’articolo di Giuseppe Pipitone per ilfattoquotidiano.it il 15 aprile 2023

 Il giovane boss di Cosa nostra, l’imprenditore rampante e il generale dei carabinieri che si occupava di rapimenti nella Milano degli anni ’70. Graviano, Silvio Berlusconi e Francesco Delfino ritratti nella stessa fotografia. È uno scatto fantomatico quello che si allunga sullo sfondo della chiusura del programma di Massimo Giletti decisa a sorpresa da La7.

 […] a tenere banco nel day after dello stop alla trasmissione è ancora una volta l’ospite più controverso delle 194 puntate di Non è l’Arena: Salvatore Baiardo, l’uomo che ha curato la latitanza dei fratelli Graviano e che dagli schermi di La7 ha “profetizzato” l’arresto di Matteo Messina Denaro.

 […] Contattato dal quotidiano Domani, Baiardo ha alzato la posta sul tavolo, raccontando il contenuto del suo incontro col procuratore aggiunto Luca Tescaroli. “Lunedì scorso sono stato ascoltato dalla procura dal dottor Tescaroli, e mi ha riferito che Giletti ha detto che gli avrei mostrato delle fotografie che ritraggono Berlusconi con Graviano e il generale Delfino“.

Un episodio che, se confermato, sarebbe esplosivo. Baiardo, però, non è un collaboratore di giustizia ma un favoreggiatore dei boss che hanno fatto le stragi: dice e non dice, annuncia rivelazioni che poi smentisce. E infatti subito dopo nega tutto: “Non è vero, è falso, non gli ho mai fatto vedere queste foto. Loro dicevano: Giletti le ha viste, Giletti le ha viste, ma non è vero. Io sono stato anche perquisito, ma non hanno trovato niente“.

 […] In tutta questa storia di sicuro c’è solo che Giletti è stato effettivamente sentito come teste per ben due volte dalla procura di Firenze: pochi giorni prima di Natale e poi di nuovo il 23 febbraio scorso. Nello stesso periodo gli è stata rafforzata la protezione, che gli era stata assegnata nel 2020 per le minacce pronunciate in carcere da Filippo Graviano, il cervello economico del clan di Brancaccio, fratello maggiore di Giuseppe, che invece era l’uomo d’azione della famiglia.

 Fino a questo momento Giletti non ha smentito quanto sostenuto da Baiardo, cioè di aver raccontato ai pm di aver visto queste foto con un giovanissimo Graviano (non è chiaro se fosse Filippo o Giuseppe), Berlusconi e il generale Francesco Delfino. È opportuno sottolineare ancora una volta che fino a prova contraria questi scatti non esistono.

È facile però intuire perché una vicenda del genere abbia catalizzato l’interesse della procura di Firenze, che sta ancora indagando su Berlusconi e Marcello Dell’Utri per le stragi del ’93. Intanto perché nel 1996, molti anni prima di “predire” l’arresto di Messina Denaro, Baiardo è stata la prima persona a parlare di rapporti economici tra il braccio destro dell’uomo di Arcore e i fratelli Graviano.

[...] Accusa tutte da dimostrare e che i legali del leader di Forza Italia hanno sempre smentito. È un fatto, però, che i boss di Brancaccio hanno trascorso parte della loro latitanza nella stessa zona in cui dimorava proprio il generale Delfino, il terzo personaggio immortalata nella fantomatica fotografia citata dai racconti di Baiardo e Giletti.

 Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, infatti, i Graviano si muovevano tra Milano e Omegna, sul lago d’Orta. È lì, di fronte all’Isola di san Giulio, che li accoglie Baiardo, gestore della storica Nuova Gelateria Pastore, nel centro della cittadina del Verbano- Cusio-Ossola.

[…] Nei primi anni ’90 Baiardo diventa il gestore della latitanza dei fratelli siciliani: li presenta come suoi amici industriali, gli apre il conto corrente in una banca della zona, li porta in giro con la sua Mercedes 190. A Milano, ad Alessandria, ma pure a Orta, all’Hotel San Giulio, dove il boss avrebbe incontrato Berlusconi, secondo quanto sostenuto dall’ex gelataio davanti alle telecamere di Report. A venti chilometri di distanza […] dimorava Delfino, proprietario di una splendida villa a Meina, sul lago Maggiore.

 [...] Delfino era a Brescia ai tempi della strage di piazza della Loggia, per la quale fu processato e assolto. Poi, nel 1977, va a lavorare a Milano: indaga sui sequestri di persona, che in quel periodo spaventano a morte gli imprenditori lombardi.

Compreso Silvio Berlusconi, che nel 1974 aveva assunto come fattore nella sua villa di Arcore un siciliano di nome Vittorio Mangano. “Eravamo negli anni 70, e la faccia di Mangano poteva tenere lontani i malintenzionati in un periodo violentissimo della storia di questo paese. C’erano i rapimenti allora“, ha ammesso di recente al Foglio Dell’Utri: pure lui in quel periodo lascia Arcore per andare a lavorare agli ordini di Filippo Alberto Rapisarda, un finanziere siciliano trapiantato a Milano, amico di molti boss di primo piano di Cosa nostra.

Sui metodi seguiti per risolvere i sequestri di persona, spesso organizzati da altri calabresi, il generale Delfino finirà sotto inchiesta due volte: archiviato nel 1994, nel 2001 sarà condannato per truffa ai danni della famiglia di Giuseppe Soffiantini. Tra le sue varie e misteriose avventure c’è anche quella di essere stato l’unico agente segreto italiano presente a Londra dopo la morte di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano trovato impiccato sotto al ponte dei Frati Neri nel 1982.

Nel 1992, quando i Graviano si muovono da mesi tra Milano e Omegna, Delfino viene mandato a comandare i carabinieri in Piemonte. Sarà una casualità, ma all’epoca si trova in Piemonte pure Balduccio Di Maggio, un mafioso di San Giuseppe Jato che a Riina faceva da autista, ma che era fuggito dalla Sicilia perché temeva di essere ucciso da Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci.

 Di Maggio si ripara a Borgomanero, provincia di Novara, 15 chilometri dalla villa di Delfino a Meina, poco più di venti dalla gelateria di Baiardo a Omegna, dove spesso si vedono i Graviano. L’8 gennaio del 1992 arriva una soffiata ai carabinieri, che si fiondano in una carrozzeria e arrestano Di Maggio.

Il mafioso chiede subito di parlare col generale Delfino, dice di conoscerlo bene. A lui racconta subito una cosa molto interessante: sa come arrivare a Riina, il capo dei capi di Cosa nostra che ha appena ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Una vera fortuna per Delfino, che solo pochi mesi prima, subito dopo la strage di via d’Amelio, aveva chiesto d’incontrare l’allora guardasigilli, Claudio Martelli, per fargli una promessa: “Glielo faccio io un regalo di Natale, lei vedrà che le portiamo Totò Riina”. Passano cinque mesi e Riina viene arrestato dopo 25 anni di latitanza, venti giorni dopo Natale. Un’altra profezia, trent’anni prima di quella di Baiardo.

Salvatore Baiardo, l'uomo dei Graviano: la rottura con Giletti e il giallo della foto di Berlusconi. Lara  Sirignano su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2023

Lo scatto non è mai stato mandato in onda. Ma ora l'uomo che predisse la cattura di Messina Denaro a Non è l'Arena ne smentisce l'esistenza

Da qualche mese è approdato pure su Tik Tok, il social dei giovani. Trentamila followers, qualche migliaio di like e dirette interminabili in cui alterna l’annuncio di rivelazioni esplosive sui grandi misteri della Repubbica a teneri siparietti sul nipotino. Fac totum- «spiccia faccende» si direbbe in Sicilia- dei fratelli Graviano, i boss che vollero la morte di don Pino Puglisi, di mestiere ufficiale ha sempre fatto il gelataio. Ma la condanna a 4 anni per il favoreggiamento dei capimafia di Brancaccio, che avrebbe ospitato durante la latitanza, racconta l’altra faccia di Salvatore Baiardo, il giocatore d’azzardo con la passione per il poker, che non vuole essere chiamato pentito.

 Siciliano di Trabia, una vita passata in Piemonte, dalle sponde del lago D’Orta, mesi fa, «predisse», al giornalista Massimo Giletti, davanti alle telecamere di Non è l’Arena, l’arresto di Matteo Messina Denaro che, stanco e malato, di lì a poco si sarebbe arreso. Anzi, dirà dopo la cattura del padrino, «sarebbe stato consegnato» in cambio di un regalo dello Stato, l’abolizione dell’ergastolo ostativo ai boss di Brancaccio, seppelliti al 41 bis da decine di condanne al carcere a vita. Un legame rivendicato quello con i due stragisti mafiosi definiti con indulgenza «due bravi ragazzi che hanno fatto delle fesserie da giovani». 

Per alcuni una sorta di veggente riuscito a profetizzare l’arresto del superlatitante, per altri un impostore a caccia di soldi (dalla trasmissione di Giletti avrebbe intascato 32mila euro), Baiardo in tv c’è andato più di una volta. Ad alternare silenzi e ammiccamenti a rivelazioni mai riscontrate (una per tutte: «Ho visto il passaggio di mano dell’agenda rossa di Paolo Borsellino»), tutto detto o non detto con l’aria di chi la sa lunga. Il non pentito Baiardo si trincera però dietro un totale mutismo quando si entra nei particolari o gli si chiede chi sia la sua fonte. E rinvia la risposta a tempi migliori. 

Nonostante le sue fortune televisive siano nate con le apparizioni a Non è l’Arena, Baiardo con Giletti e la sua trasmissione (poi sospesa da la 7) ha rotto da settimane. Su Tik Tok spiega di aver abbandonato la rete «per nuove iniziative» che gli consentiranno di dire davvero quel che pensa. E sempre su Tik Tok, nell’annunciare l’imminente presentazione di un suo libro a Torino, fa intendere di ingaggi ormai certi sulle reti Mediaset, che però hanno prontamente smentito. Sempre sulla piattaforma social è stato il gelataio di Omegna a rendere noto che il procuratore di Firenze Luca Tescaroli, che indaga sulle stragi mafiose del ’93, è volato a Palermo per interrogarlo (l’ultimo di una lunga serie di verbali compilati). 

Tra le (tante) questioni di cui i magistrati chiedono conto a Baiardo c’è una foto della primavera del ’92, prima del tritolo di Capaci e Via D’Amelio: un’istantanea che l’ex favoreggiatore dei boss di Brancaccio avrebbe mostrato a Giletti e che immortalerebbe, dice lui stesso al giornalista non sapendo di essere intercettato, Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. 

Lo scatto sarebbe stato mostrato al conduttore come prova che, nonostante la fama di baro, quando dice di sapere dei rapporti tra il leader di FI e Cosa nostra Baiardo non bluffa. Giletti l’istantanea (che risalirebbe agli anni ’90 e sarebbe stata «rubata» forse con l’intenzione di farci su un po’ di soldi) l’ha vista, riconoscendo nell’immagine l’ex premier insieme a due uomini. Alla fine però non è mai stata mandata in onda perché il giornalista pretendeva ben altri riscontri. Per darla a La7 Baiardo almeno in principio non avrebbe preteso nulla, «ma non escludo che volesse denaro», ha detto ai pm lo stesso conduttore. Interrogato però il gelataio ha negato tutto, a dispetto delle intercettazioni. E dal suo rifugio di Trabia annuncia nuove scottanti rivelazioni. 

Un giallo, insomma. Su cui è intervenuto il legale dell’ex premier, l’avvocato Giorgio Perroni, che ha parlato di «assurde accuse di presunta mafiosità contro Berlusconi, sempre dimostratesi false e strumentali. Tant’è vero che ogni volta gli stessi inquirenti hanno dovuto ammettere che erano infondate».

Le chat di Messina Denaro vendute da Fabrizio Corona a “Non è l’ arena” di Giletti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Aprile 2023

I retroscena non mancano : la procura Antimafia di Firenze ha avviato un’indagine sulle ospitate televisive a pagamento di Salvatore Baiardo, "fedelissimo" dei mafiosi Graviano, mentre secondo un quotidiano romano Fabrizio Corona avrebbe venduto all’amico Giletti le chat del boss stragista Matteo Messina Denaro

Ventiquattr’ore dopo l’annuncio dello stop alla produzione del programma “Non è l’Arena“, decisa da La7, emergono nuove rivelazioni sulla discussa messa in onda dello “speciale” su Matteo Messina Denaro. Secondo fonti aziendali dell’emittente televisiva sarebbe stato l’ex agente fotografico Fabrizio Corona a vendere, tramite un’agenzia, alla trasmissione di Massimo Giletti le chat audio tra il boss mafioso e due pazienti conosciute durante la chemioterapia.

I motivi della sospensione non sono stati rivelati né dai vertici aziendali, né dal giornalista che alla consegna del Tapiro d’oro di “Striscia la Notizia” ha risposto con un laconico “Bisogna chiedere a Urbano Cairo il perché mi abbiano mandato via, forse l’ha fatto perché sono juventino. Magari vengo a Mediaset.

A rompere il silenzio è stato Urbano Cairo, editore di “La7” e del “Corriere della Sera” che si è sentito tradito da Massimo Giletti e senza tanti giri di parole o mezze frasi ha parlato chiaro e tondo in una dichiarazione all’agenzia Ansa: “Ha condotto in 6 anni 194 puntate di Non è l’Arena dove ha potuto trattare in totale libertà tutti gli argomenti che ha voluto inclusi quelli relativi alla mafia sulla quale ha fatto molte puntate, con tutti gli ospiti che ha voluto invitare. Gli auguro di trovare la stessa libertà incondizionata nella sua prossima esperienza televisiva o di altro genere”.

L’editore torinese si riferisce alla presunta trattativa intercorrente tra il giornalista e la Rai (o chi ne fa le veci) per un suo ritorno a Viale Mazzini, nonostante Massimo Giletti abbia smentito la circostanza all’ agenzia Adnkronos: “A proposito di presunti contatti con i dirigenti Rai relativi al mio futuro, smentisco in modo categorico di aver avuto incontri sia con dirigenti che con funzionari della televisione pubblica aventi per oggetto questo tema“. L’eventuale ritorno di Giletti alla tv pubblica, sarebbe legato anche al previsto cambio dei vertici di Viale Mazzini, che secondo le indiscrezioni potrebbe realizzarsi entro fine aprile con la nomina di Roberto Sergio attuale direttore di Radio Rai ad amministratore delegato e quella dell’ex consigliere di amministrazione Giampaolo Rossi a direttore generale della RAI. Entrambi, però, contattati, smentiscono di aver avuto incontri con il conduttore.

I retroscena non mancano : la procura Antimafia di Firenze ha avviato un’indagine sulle ospitate televisive a pagamento di Salvatore Baiardo, “fedelissimo” dei mafiosi Graviano, mentre secondo il quotidiano “La Repubblica” Fabrizio Corona avrebbe venduto all’amico Giletti le chat del boss stragista Matteo Messina Denaro, arrestato a gennaio dopo 30 anni di latitanza. Corona era stato contattato dal conoscente di una delle donne divenute amiche del capomafia durante le cure alla clinica La Maddalena di Palermo. Le pazienti non conoscevano la vera identità del padrino che aveva detto di chiamarsi Andrea Bonafede. Corona ha poi incontrato in Sicilia il suo tramite per avere gli audio poi venduti a Non è l’Arena. Il contenuto era stato anticipato dal sito mowmag.com.

In relazione alle voci circolate di eventuali pagamenti in nero però, sono arrivate smentite sia dal giornalista che dall’intervistato, che in un video sui social ha assicurato che le somme pattuite sono state fatturate. “È falso che io abbia pagato personalmente e di nascosto il signor Baiardo. È stato compensato per le proprie apparizioni in maniera trasparente e tracciabile” assicura Giletti che ai magistrati avrebbe parlato di un cachet di 10 e 5 mila euro.

In difesa di Massimo Giletti sono intervenuti l’ex magistrato Antonio Ingroia secondo cui il giornalista si “sarebbe spinto troppo in avanti nelle inchieste sulla mafia” danneggiando quelle in corso della magistratura e delle forze dell’ ordine, e la giornalista Sandra Amurri (ex Fatto Quotidiano, collaboratrice di Giletti) secondo la quale la “sospensione del programma sarebbe scaturita da inchieste in cantiere su intoccabili“.

Redazione CdG 1947

Tutte le bufale sulla cacciata di Giletti da La7. Chiuso il programma Non è l’Arena. Tanti misteri e una secchiata di bufale. di Nicola Porro il 15 Aprile 2023

La cosa di questi giorni che più mi sta divertendo è questa vicenda di Giletti. Dietro alla chiusura di Non è l’arena si nasconde infatti il doppio standard secondo cui esistono alcuni giornalisti intoccabili, mentre altri che possono essere cacciati da un giorno all’altro. Non credo sia un mistero e i fatti di queste ore non fanno altro che confermarci che la chiusura dei programmi di alcuni giornalisti come Giletti e il sottoscritto non fa scomporre nessuno.

L’altro elemento emerso è il fatto che, intorno a Giletti, è nata tutta una grandissima letteratura di fake news che i giornali “per bene” hanno scritto. Ovviamente tutti zitti e muti e nessuno ne parla, tranne il mitico Filippo Facci su Libero che, quando serve, fa telefonate, legge le carte e chiama i soggetti interessati. Insomma, Facci cerca di fare quello che ha fatto per una vita, cioè il giornalista.

Le fake news a cui mi riferisco riguardano le motivazioni della chiusura. Se ne sono dette tante, compresa la perquisizione mai avvenuta a casa del conduttore o i soldi in nero che avrebbe dato a Baiardo. Ovviamente tutto falso. Poi c’è da considerare anche la caccia alla fantomatica foto del 1992 di Berlusconi con Graviano e Delfino, che Baiardo avrebbe fatto vedere a Giletti. Già qui ci sarebbe da discutere: pur di gettare fango su Berlusconi si riesce a credere a Baiardo. Su questa foto sta indagando la procura di Firenze che ha già ascoltato Giletti due volte, per capire meglio di cosa si trattino queste foto, considerato che non sono emerse in nessuna perquisizione.

Alla procura, l’ormai ex conduttore di La7 ha detto che Baiardo gli aveva fatto vedere delle foto in cui ci sarebbero Berlusconi e il generale Delfino insieme ad una terza persona che potrebbe essere Graviano. Tuttavia, dice che quella foto non l’ha potuta nemmeno toccare quindi non sa se sia vera o meno.

Peccato però che quella foto sia diventata immediatamente la prova regina di questo complotto contro Giletti: il non detto dei giornali è che sia stato censurato per evitare che facesse una grande inchiesta contro Berlusconi e Dell’Utri.

Vedete, questi giornali sono straordinari: come scrive giustamente Facci, l’unico aspetto di questa vicenda che gli interessa è usare la storia di un collaboratore di giustizia come “un pezzettino di fango che potrebbe nascere da questa foto”. Insomma, questa roba è incredibile: nessuno si preoccupa del fatto che sia stato fatto fuori e ignorano il fatto che lo stesso Giletti, l’unico ad aver visto quelle foto, ai procuratori ha fatto intendere che non si può escludere che si tratti di fotomontaggi. Per di più, si parla di polaroid in cui non si riconoscono bene le persone.

Per capire quanto fantasiosa sia l’ipotesi di questi geni, provate ad immaginarvi Berlusconi ed un generale dei carabinieri che, nel ’92, si mettono in posa per farsi una foto con un mafioso e mandante di stragi. Quanto si deve essere coglioni per fare una cosa del genere? Ragazzi, queste sono stronzate alla Ciancimino. Ve lo ricordate? Per anni siamo stati dietro a Repubblica, a Santoro, e al giornalismo investigativo italiano per la trattative stato mafia. La conclusione? Erano tutte minchiate e tutti furono assolti. Nonostante ciò, oggi basta questa vicenda per credere che ci sia una polaroid di Berlusconi con Graviano.

Nicola Porro, 15 aprile 2023

 Foto fantasma col boss, solo fango sul Cavaliere "Accuse false e gravi". Felice Manti il 16 Aprile 2023 su Il Giornale

Pm di Firenze a caccia di uno scatto negato dallo stesso "pentito". I legali: "Ricorreremo"

Succede sempre così. Ci sono teoremi costruiti su tesi traballanti che dovrebbero schiantarsi già davanti al gip. E invece no, passano anni e le stesse tesi inconsistenti naufragano clamorosamente durante i processi, con innocenti alla sbarra marchiati a fuoco per sempre, soldi pubblici gettati al vento e magistrati impuniti nonostante continuino a inseguire fantasmi giudiziari. Mentre fantasmi veri come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non trovano giustizia piena perché i loro colleghi si innamorano di facili suggestioni dal sapore politico e sono troppo distratti per comprendere i depistaggi che si consumano sotto i loro occhi.

L'ennesimo corto circuito mediatico-giudiziario ruota intorno a una foto fantasma, che ritrarrebbe insieme Silvio Berlusconi, l'allora generale dei carabinieri Francesco Delfino e Giuseppe Graviano. Una vecchia istantanea degli anni Novanta, che secondo la Procura di Firenze «ove esistesse» dimostrerebbe i rapporti tra il Cavaliere e il boss di Brancaccio e il loro indicibile accordo per spartirsi l'Italia a suon di bombe già a partire dal 1992. Le indagini sulle stragi a carico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri nascono da colossali balle e sono già state sepolte quattro volte dagli anni Novanta a oggi, ci sono milioni di pagine di sentenze che per le stragi del 1992-1993 portano altrove, ad altri pupari, ma tant'è. Stavolta c'è il fumus commissi delicti, e il fuoco lo ha acceso a Non è l'Arena Salvatore Baiardo, manutengolo della famiglia Graviano. C'è Massimo Giletti che - sentito come persona informata sui fatti il 19 dicembre e il 23 febbraio scorsi - davanti ai pm fiorentini avrebbe riconosciuto Berlusconi in una foto mostratagli da Baiardo ma «da lontano e in un luogo scuro». I soliti quotidiani forcaioli da giorni costruiscono l'ennesimo capitolo di letteratura giudiziaria, come avvenne tanti anni fa con il bacio tra Totò Riina e Giulio Andreotti. Baiardo che dice, conferma? Macché, ai magistrati giura che la foto non esiste, anche se a Giletti l'avrebbe promessa perché sarebbe collegata a un'evoluzione della situazione sull'ergastolo ostativo. «Se le cose non dovessero andare in un certo modo (quale?, ndr) - dice il giornalista cacciato da La7 - Baiardo me la potrebbe dare. Ha anche detto che con tale foto si potrebbe fare un sacco di soldi, ma che non gli interessava la circostanza». Certo, come non credergli. Tanto basta per far scattare una perquisizione a Baiardo, come riportava ieri il Fatto citando il decreto di sequestro numero 16249/2022 R.G.N.R. eseguito il 27 marzo scorso su ordine della Dda di Firenze, con una violazione plateale del segreto istruttorio e della riservatezza degli atti su cui il Guardasigilli Carlo Nordio non si è ancora mosso. Ci sarebbe anche un documento potrebbe «fare chiarezza» sulla presunta trattativa Stato-mafia ma Baiardo l'avrebbe strappato. Ovvio, no?

Berlusconi sta lottando con un problema di salute serio e non può difendersi dall'ennesima fucilata giudiziaria, per lui parla il suo legale, Giorgio Perroni, che annuncia azioni legali contro l'uso indegno di informazioni riservate da parte di alcuni giornali: «Accuse infondate e offese gravissime calpestano la storia di uno dei più grandi imprenditori italiani e del quattro volte presidente del Consiglio, tutte le più assurde accuse di presunta mafiosità si sono sempre dimostrate false e strumentali. Ora viene riattivato il circo mediatico, questa volta attorno a una foto spuntata all'improvviso dopo trent'anni, la cui esistenza è smentita dal diretto interessato, la stampa ha in mano documenti coperti da segreto istruttorio per una fuga di notizie che va avanti da troppo tempo. L'intollerabile clamore mediatico che ne consegue si verifica mentre Berlusconi è ricoverato. Quanto dovremo tollerare un sistema in cui i processi si fanno prima sui giornali che nei tribunali, in violazione della legge e senza alcun rispetto per le persone?».

Massimo Giletti, complottismo e querele: cosa c'è dietro allo stop. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 15 aprile 2023

Ci sono 35 giornalisti a spasso di cui non frega niente a nessuno, dopodiché le notizie restano due e non più di due, ben separate tra loro e non prive di misteri: 1) L’inspiegabile chiusura anticipata della trasmissione Non è l’Arena su La7, programma che andava benissimo; 2) L’indagine fiorentina sulla triplice presenza in trasmissione del favoreggiatore mafioso Salvatore Baiardo, improbabile profeta dell’arresto di Matteo Messina Denaro e possibile dispensatore di messaggi che l’Antimafia vorrebbe decodificare.

Il resto è farina del diavolo macinata da vari giornalisti che hanno azionato il mulino secondo la loro linea editoriale, ma con qualche malizia di troppo: piccole vendette per vecchi trascorsi personali contro Massimo Giletti, patologici tentativi di vederci sempre lo zampino di Dell’Utri o Berlusconi e un’ennesima indagine su di loro, invenzioni su esplosive puntate del programma che il patron di La7, Urbano Cairo, avrebbe voluto bloccare, poi ancora la sciocchezza secondo la quale a sospendere il programma abbia contribuito l’Antimafia di Firenze, la quale, unica cosa vera, ha interrogato per due volte Giletti (19 e 23 febbraio scorsi) sul suo reclutamento di Baiardo come ospite. Più generale, resta la sensazione che l’antimafia giornalistica stia un po’ infierendo su Giletti dopo averlo vissuto come un corpo estraneo rispetto al loro navigato vassallaggio da pigri topi di procura, diffidenti come lo furono le truppe della carta stampata verso le tv del Biscione all’inizio di Mani pulite.

Corona: «Il problema di Giletti non sono gli audio del boss, ma la foto di Berlusconi». GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 15 aprile 2023

Parla Fabrizio Corona. Difende l’amico Massimo Giletti silurato da La7, risponde alle domande sugli audio con la voce di Matteo Messina Denaro andati in onda nella trasmissione Non è l’Arena comprati da una società per cui lavora Corona.

E accusa Salvatore Baiardo, l’amico dei boss stragisti Graviano, di bluff sulla presunta foto con Silvio Berlusconi e il mafioso Graviano sulle cui tracce la procura antimafia di Firenze si è messa grazie all’indicazione di Giletti. Che è stato ascoltato dai pm che indagano su Berlusconi e Marcello Dell’Utri per le stragi del 1993. 

«La foto? Se esistesse l’avrei venduta io a Giletti», esordisce Corona.

Parla Fabrizio Corona. Difende l’amico Massimo Giletti silurato da La7, risponde alle domande sugli audio con la voce di Matteo Messina Denaro andati in onda nella trasmissione Non è l’Arena comprati da una società per cui lavora Corona.

E accusa Salvatore Baiardo, l’amico dei boss stragisti Graviano, di bluff sulla presunta foto con Silvio Berlusconi e il mafioso Graviano sulle cui tracce la procura antimafia di Firenze si è messa grazie all’indicazione di Giletti. Che è stato ascoltato dai pm che indagano su Berlusconi e Marcello Dell’Utri per le stragi del 1993. «La foto? Se esistesse l’avrei venduta io a Giletti», esordisce Corona.

Sul caso Giletti-La7, con la decisione della rete di chiudere in anticipo la trasmissione Non è l’Arena, oltre al formale e scarno comunicato dell’editore Urbano Cairo, che non è entrato nel merito della sua scelta, c’è ben poco di ufficiale sui reali motivi che hanno portato alla scelta drastica.

Domani ha riportato le informazioni fornite da qualche altra fonte ben informata dentro l’azienda di Cairo secondo cui la gestione delle ospitate di Salvatore Baiardo (l’amico, favoreggiatore, dei boss stragisti Graviano, che ha predetto l’arresto di Matteo Messina Denaro in un’intervista con Giletti un mese prima della cattura) sarebbe solo parallela alle altre motivazioni che avrebbero spinto la reta a sospendere Giletti: il programma sarebbe in forte perdita, i gettoni pagati a Baiardo per le ospitate non sarebbero stati ritenuti “opportuni”, così come i rapporti con Fabrizio Corona, mentre la trattativa per il rinnovo del contratto portata avanti da Cairo con l’agente del conduttore Gianmarco Mazzi (attuale sottosegretario del governo Meloni alla Cultura) non sarebbe decollata.

LA VOCE DI MESSINA DENARO

I rapporti con Corona avrebbero avuto al centro la consegna degli audio tra il padrino Messina Denaro e due pazienti della clinica in cui era ricoverato il mafioso latitante per 30 anni. Gli audio sono stati mandati in onda in alcune puntate della trasmissione. «Se così fosse, se gli audio fossero arrivati tramite me qual è il problema?», dice Corona a Domani.

Il tutto sarebbe stato gestito da una società con la quale collabora Corona, un tempo Re dei paparazzi, legatissimo all’agente dei Vip Lele Mora, al centro di numerosi processi con diverse condanne alle spalle. «Ma cosa c’entrano gli audio e chi li ha portati a Giletti con la chiusura del programma? Credo che il problema sia altro e lo dico a voi che avete fatto l’unico scoop che c’è su questa storia, quello della foto», aggiunge.

Il riferimento è all’articolo pubblicato nei giorni scorsi sulla testimonianza di Giletti in procura antimafia a Firenze sull’esistenza di una foto che ritrarrebbe Silvio Berlusconi, Graviano e il generale Francesco Delfino. Documento che esisterebbe, secondo il conduttore, e lo ha visto da Baiardo, il quale nega l’esistenza dell’immagine, ma lo confermerebbe negli incontri con il conduttore registrati dagli inquirenti.

La procura di Firenze è molto interessata allo scatto perché proverebbe un patto sporco su cui sta indagando da due anni e mezzo: si tratta dell’inchiesta sulle stragi del 1993 per la quale sono indagati pure Berlusconi e Dell’Utri. 

A cedere gli audio a Non è l’Arena «con l’interessamento di Corona» sarebbe stata la società Athena. «Basta guardare i contratti della società Athena, con cui lavoro io, collabora con Non è l’Arena da sette anni», spiega Corona. Vorremmo capire di più sul metodo con cui sono stati ottenuti. Su come la società è entrata in contatto con i proprietari dei messaggi scambiati con Messina Denaro. 

«Questo non è un problema, noi facciamo un lavoro giornalistico, noi diamo anche tanti scoop alle Iene, a Mediaset, alla Rai, vendiamo contenuti giornalistici. In questo ufficio si lavora su contenuti giornalistici, facciamo documentari, facciamo testi, facciamo tutto. Che lavoro facevo prima? Lo ricordi? Perché tu da dove le prendi le notizie?», controbatte.

Per capire però, a Corona chiediamo se il cellulare con gli audio è stato proposto da Athena o richiesto dalla produzione di Non è l’Arena: «Ci manca che rilascio un’intervista su sta roba in questo momento, te lo dico per rispetto di Massimo».

Corona critica i giornalisti che sono alla ricerca di risposte sul modo in cui gli audio sono finiti a Giletti. «Un giornalista non dovrebbe cercare notizie tipo Corona ha venduto gli audio». D’accordo, ma qui parliamo di Messina Denaro, il cui arresto è stato predetto da Baiardo in trasmissione. 

«Parliamo di Matteo Messina Denaro che ha avuto delle relazioni con cinquemila persone. E allora chiediti perché Matteo Messina Denaro aveva il mio libro sul comodino. Aveva venti libri. Ve lo siete chiesti perché?». Sinceramente no, non ci siamo posti questa domanda cruciale. «Perché lui è un narcisista malato e voleva capire come funzionava».

Corona si definisce molto amico di Giletti, «uno che stava cercando la verità e si è fatto abbindolare da Baiardo, un giocatore di poker, uno che bluffa e manda messaggi ai suoi amici».

Perciò secondo lui «bisogna essere solidali in questo momento, lasciare da parte il becero gossip». Detto da lui, che di gossip ha campato per una vita, c’è da fidarsi. «Chi ha dato gli audio?  Basta chiedere a Non è L’Arena, se vi han detto che sono stati venduti da una società che lavora con me sarà così. Punto. Che cosa cambia? Non è uno dei motivi per cui hanno mandato via Giletti».

Facciamo notare a Corona che fonti interne all’azienda hanno riferito di questo interessamento suo per ottenere gli audio del boss. Quanto sono costati gli audio?, chiediamo. «Lo vengo a dire a voi? ma va!». Ma quanto può essere costato, mica 100 mila euro? «Questo non lo posso dire. Non ti dico assolutamente neanche che sono stati pagati, se lo scrivete, scrivete una cazzata. Ma non credo che sia questo il problema». 

BAIARDO E LA FOTO DI BERLUSCONI

Corona non ritiene che il suo eventuale interessamento per ottenere gli audio di Messina Denaro possa aver contribuito alla chiusura del programma, elemento indicato da fonti aziendali come uno dei punti di rottura del rapporto con Giletti, anche se quei rapporti sono noti da tempo. «L’ultima cosa che ha fatto Giletti era, lo avete scritto voi, riportare in televisione un mondo stragista legato a Berlusconi, non lo puoi fare».

Domani ha ricostruito per primo la storia della foto di cui ha parlato Baiardo a Giletti che ritrae assieme Berlusconi, il mafioso stragista Graviano e il generale dei carabinieri Delfino (nome affiorato in diversi casi e misteri d’Italia). Corona su questo ha una sua idea: «Secondo voi quella foto esiste veramente? L’unica cosa che vi dico è una battuta: se esistesse quella fotografia lì, l’avrei venduta io a Giletti? Questo è il titolo».

In pratica, secondo Corona, Baiardo ha sfruttato Non è l’arena. Per parlare a chi? «Solo per prendere i soldi, ora esce col libro e va a Mediaset». In quale programma?, chiediamo. «Ma figurarsi, è sempre una provocazione di Baiardo, lo dice lui che va a Mediaset perché in teoria ha fatto il gioco di Berlusconi….Baiardo è legato a Graviano. Graviano a Berlusconi. Lui (Baiardo) non arriva a fine mese perché i soldi non bastano mai perché ha fatto vita di mafia».

Dunque poi ha trovato nella televisione un’opportunità? «Ha visto Giletti e se l’è giocato, gli ha raccontato tutto una serie di cose. Ora esce stranamente con un libro, ora. Annuncia un arrivo a Mediaset, la televisione di Berlusconi, che in questo momento non gli interessi nulla, perché sta veramente male. In quale programma? Chi glieli dà i soldi? A Mediaset non hanno un euro?  È un bluff, è un giocatore di poker, capite? È stato bravo a giocare con l’informazione. Massimo, a prescindere dal rapporto lavorativo che ho con lui da anni, è uno dei miei più cari amici».

Corona dice di averlo sentito dopo la notizia della chiusura: «Ha sbagliato, si è fatto utilizzare da un grandissimo pezzo di merda, un giocatore di poker». Baiardo, secondo Fabrizio Corona. 

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 16 aprile 2023. 

«Giletti è solo la pedina meno importante. Questa è una grande storia italiana. Ed è tutta qui». Ed Enrico Deaglio sbatte sul tavolo il suo libro, Qualcuno visse più a lungo (Feltrinelli), la bibbia sui fratelli Graviano.

Come ci sei arrivato?

«Dei Graviano mi ha sempre colpito che nel 1991 si erano trasferiti a Omegna, sul lago d’Orta. Godendo, ha detto, di una “favolosa protezione”». 

Da parte di chi?

«Dallo Stato - politica, apparati investigativi, magistrati - per averlo aiutato a catturare Riina». 

[…] Però nel ’94 sono stati arrestati.

«Potrebbe esserci lo zampino di Berlusconi. Gli stavano addosso. Volevano uscire dal ruolo di soci occulti». 

Congetture.

«Graviano ha parlato di una “colletta tra palermitani” per finanziare Berlusconi con 20 miliardi di lire. Fininvest ha sempre smentito». 

Dove comincia questa storia?

«A Borgomanero, dieci chilometri da Orta, con l’arresto di Balduccio Di Maggio, l’autista di Riina, gestito dal generale del Sismi Delfino. L’uomo più corrotto d’Italia». 

Che sarebbe nella foto con Berlusconi e Graviano.

«Verosimile, ma non ne avevo mai sentito parlare. Quella piazza, a Orta, si presterebbe. Baiardo sarebbe il fotografo». 

Berlusconi con un superboss latitante? Mah.

«Dipende dal periodo. All’epoca Graviano non era considerato un superboss. Nel ’94 il suo arresto a Milano fu quasi ignorato dai giornali». 

Chi è Baiardo?

«Un trafficone di paese, figlio dello stimato capostazione di Omegna, siciliano […] Portavoce dei Graviano. Che in una trattativa lunga trent’anni ora rivendicano il secondo regalo allo Stato: l’arresto di Messina Denaro, di cui hanno rivelato la malattia, dopo quello di Riina». 

Chi ha cercato chi?

«Baiardo contatta Report e Giletti. Per soldi, ma non solo. Giletti fa lo scoop. Poi lo porta in trasmissione, dopo l’arresto di Messina Denaro. E mi invita. Quando parlo, Baiardo reagisce male». 

E Giletti?

«Manda la pubblicità. Poi parlo più». 

[…] Hai più sentito Giletti?

«No. In compenso mi ha cercato Cairo. Voleva parlarmi. Di queste storie. Sono andato a Milano. Era spaventato». 

Perché?

«Lui è in mezzo. Ci teneva a farmi sapere che quando era assistente personale di Berlusconi, fu messo in guardia: “Attento, Dell’Utri vuole farti fuori”».

In che senso?

«Figurato. Credo». 

Perché scoppia il caso Giletti?

«La mia impressione è che volesse fare il grande colpo: la foto di Graviano e Berlusconi. Mentre Berlusconi è in ospedale e si riparla di Mediaset in vendita. Un incubo. Per tutti».

Dagospia il 16 aprile 2023.

Riceviamo e pubblichiamo:

Caro Dago, in merito all’intervista di oggi alla Stampa rilasciata da Enrico Deaglio e rilanciata dal tuo sito, ci tengo a precisare quanto segue. 

Deaglio sostiene che durante un nostro incontro, avvenuto a gennaio di quest’anno, mi trovò spaventato per la trasmissione di Massimo Giletti alla quale aveva partecipato con Baiardo in studio.

Non ero per nulla spaventato, lo dimostra il fatto che Giletti è andato in onda tranquillamente per molte puntate dopo il nostro incontro, affrontando lo stesso argomento in totale libertà. 

Ricordo anche che lo stesso Deaglio partecipò subito dopo, ospite in studio, ad una puntata di Atlantide con Andrea Purgatori, sulla cattura di Messina Denaro. 

In merito alla battuta su Dell’Utri, ovviamente si parlava di questioni legate a dinamiche e rivalità tutte aziendali, di tempi passati e lontani. Urbano Cairo

Il circo e la giustizia. Il meccanismo perverso che sovrintende al circuito mediatico-giudiziario che ha ridotto ai minimi termini il garantismo in questo Paese non conosce limiti. Augusto Minzolini su Il Giornale il 16 Aprile 2023  

Il meccanismo perverso che sovrintende al circuito mediatico-giudiziario che ha ridotto ai minimi termini il garantismo in questo Paese non conosce limiti. Mentre Silvio Berlusconi è ricoverato in terapia intensiva - come tutti sanno - spunta l'ultima trovata del cantastorie Salvatore Baiardo, che avrebbe parlato con Massimo Giletti di una foto del '92 che ritrarrebbe il Cav con un boss mafioso, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Naturalmente Baiardo - che non è né un «pentito», né un informatore - ne ha smentito successivamente l'esistenza, ma intanto la pseudonotizia, in barba a ogni simulacro di segreto istruttorio, è finita nel frullatore mediatico alla vigilia della sentenza in Cassazione del processo sulla trattativa Stato-mafia nel quale il pg ha smontato le accuse contro gli imputati a cominciare da Dell'Utri.

Cose del genere possono avvenire solo in un Paese che ha trasformato la lotta alla mafia in un'ideologia, in lotta politica e in una sorgente inesauribile di sceneggiature per serie televisive in cui l'immaginifico sostituisce il rigore dell'indagine. La foto in questione in fondo fa il paio con il bacio tra Andreotti e Riina. Insomma, parodie da romanzo di scarsa qualità, tutto meno qualcosa di serio. Un approccio e uno stile che farebbero rigirare nella tomba sia Leonardo Sciascia, sia Giovanni Falcone, e che spesso hanno ridotto la giustizia ad un circo.

Questa è sicuramente una di quelle. Per anni si è dato un palcoscenico, televisivo e non, a Baiardo, che da anni lancia allusioni per ricattare e guadagnare popolarità. Per alimentare il proprio personaggio, il cantastorie ne spara una sempre più grossa, seguendo le regole del gioco al rilancio. L'assurdo è che tutti sanno che non è credibile. Gli inquirenti che lo hanno interrogato lo hanno definito «un cazzaro» - espressione letterale - fin dal primo colloquio dopo il suo arresto. Il personaggio aveva fatto sapere che aveva molte cose da dire e Giancarlo Caselli lo fece sentire. Per sondarne l'attendibilità nel primo interrogatorio lo misero alla prova chiedendogli notizie su fatti di mafia che millantava di conoscere: non tirarono fuori un ragno dal buco. Baiardo pregò di essere riascoltato. Caselli lo fece reinterrogare e alla seconda domanda chiese soldi (un miliardo di lire) per parlare di Berlusconi.

La cosa con Caselli finì lì, ma il personaggio - per quello che millantava - poteva esser ghiotto per qualche toga che puntava al bersaglio grosso, cioè al Cav. Allora, per renderlo «credibile», per anni ci sono stati magistrati che hanno tentato di farlo passare per l'uomo a cui si deve l'arresto dei Graviano. Solo che malgrado le insistenze non era vero: gli autori della cattura hanno sempre dato un'altra versione. La soffiata era arrivata da una donna di facili costumi. C'è chi dice - quelli che debbono difendere il fatto di avergli creduto - che il personaggio mescoli bugie e verità. In realtà si tratta di bugie e ovvietà. Nel circo fa sempre comodo avere il pappagallo che ripete ciò che si vuole sentire. Il punto è che non si tratta di giustizia o di giornalismo d'inchiesta, semmai, dispiace dirlo, della loro negazione.

Giletti sospeso, "non è di sinistra, quindi...". Bomba Fagnani: cosa c'è dietro. Libero Quotidiano il 16 aprile 2023

Il suo compagno Enrico Mentana aveva commentato la sospensione di Non è l'arena su La7 e il congelamento di Massimo Giletti con un laconico ma esaustivo "no comment". Francesca Fagnani, conduttrice di Belve su Rai 2, sceglie invece un lungo intervento sulla Stampa per comunicare la propria solidarietà a Giletti e avvertire tutti, non solo il mondo dell'informazione in tv, che la stop imposto dall'editore Urbano Cairo è "un brutto signale, da tanti punti di vista". 

"Per le persone che ci lavorano e non solo per lo stipendio alla fine del mese, che per quanto prioritario sia, non vale più della dignità e dell'orgoglio professionale di chi ci collaborava", scrive la Fagnani sul quotidiano torinese diretto da Massimo Giannini. In ballo perà c'è anche "la difesa della libertà di stampa per cui in tante altre occasioni (e giustamente!) ci si è stracciati le vesti. Qui, invece, la libertà di stampa finisce dove inizia quella di uno che ci sta antipatico, verrebbe da dire, parafrasando il noto detto".

A indignare la Fagnani il silenzio generalizzato del mondo del giornalismo, che ha preferito scatenarsi fin da subito in "un profluvio di illazioni. Alcune palesemente false, altre fuorvianti, altre screditanti verso lo stesso Giletti". Il riferimento è alle voci di perquisizioni della Dia in casa di Giletti, a cui accennava su Twitter Selvaggia Lucarelli (che per inciso ha pessimi rapporti sia con Giletti sia con Fagnani) poche ore dopo l'annuncio della sospensione del talk.

Alla Fagnani non convince nemmeno la versione ufficiale di una rottura per via del possibile ritorno di Giletti in Rai: "Si chiude una trasmissione di peso per questo, due mesi prima della fine già prevista?". Tanto più che la rete non ha fatto alcun riferimento né ad "ascolti bassi" né "costi alti", argomenti spuntati solo in alcuni retroscena. I 30mila euro pagati al pentito di mafia Baiardo per andare in trasmissione? Roba vecchia, sottolinea la conduttrice di Belve, che non giustifica una scelta così improvvisa.

"Colpisce - prosegue - che non ci sia stata da parte del mondo dell'informazione, salvo poche eccezioni, quella forte e partecipata levata di scudi che abbiamo visto quando chiusero, per esempio, la trasmissione di Sabina Guzzanti Raiot, un atto di evidente censura, fu considerato da tutti. Senza dire per citare i casi più clamorosi dell'indignazione e della mobilitazione provocate vent'anni fa dall'editto bulgaro, pronunciato da Sofia dall'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nei confronti di Michele Santoro, Enzo Biagi e Daniele Luttazzi, estromessi dalla Rai. Cosa ha di diverso Giletti da loro? Non è di sinistra, anzi mostra confidenza con i leader della destra, ammicca da piacione alla telecamera e piace più alla pancia del suo pubblico che ai critici e ai colleghi. Ma allora come funziona la difesa dell'informazione? Vale solo per chi ci piace? Non dovremmo difenderla sempre e a prescindere dai nostri gusti personali?". No, qualcosa decisamente non torna.

 Giletti, spunta anche Sigfrido Ranucci: "Cos'hanno offerto a Report". Libero Quotidiano il 16 aprile 2023

Oggi sarebbe stato il giorno della messa in onda per Non è l'Arena, che però in onda non andrà: come è noto il programma di Massimo Giletti è stato sospeso da Urbano Cairo con un provvedimento immediato e dirompente. Da quel momento, circolano diverse teorie sulla vicenda.

A corredo, il caso di Salvatore Baiardo, più volte ospite di Giletti, il quale avrebbe affermato di avere una foto di Silvio Berlusconi al fianco di Giuseppe Graviano, boss di Cosa Nostra. Illazioni "indegne", secondo il legali del Cavaliere, che hanno già fatto sapere di voler rispondere per via giudiziaria alle voci. Di quella foto, Baiardo, ne avrebbe parlato con Giletti. Ma non solo: secondo quanto scrive La Stampa, il ventriloquo dei boss di quella foto ne avrebbe parlato anche con Report, il programma di Sigfrido Ranucci in onda su Rai 3.

E ancora, si legge sul quotidiano di Torino: "Ha detto di averla, l'ha fatta vedere da lontano, ma non l'ha consegnata a nessuno". Insomma, c'è puzza di patacca. Interpellato dalla Stampa, Ranucci spiega: "C'è un'indagine in corso e non posso scendere nei dettagli. Posso solo dire che noi non abbiamo mai pagato una fonte in 25 anni di storia".

Per inciso, fonti investigative fanno trapelare che quello di Baiardo potrebbe essere un ricatto, anche se non è ancora semplice capire nei confronti di chi. Anche perché la foto, ammesso e non concesso che esista, secondo quanto si apprende potrebbe anche essere un banale e velenosissimo fotomontaggio.

 Dagonews il 13 aprile 2023.

Gli avvocati penalisti querelano Sigfrido Ranucci per la puntata realizzata sul 41 bis e a rappresentarli contro il conduttore di Report scelgono l'avvocato di Renzi. "Il Direttivo della Camera Penale di Roma all'unanimità ha deciso di proporre denuncia querela nei confronti del giornalista Sigfrido Ranucci" perché "Nella trasmissione Report del 3 aprile scorso sono andate in scena gravissime insinuazioni e gratuite diffamazioni che sfociano persino nella calunnia nei confronti di alcuni dei più apprezzati componenti della nostra associazione, incredibilmente additati a sospetto come possibili veicoli per la diffusione al di fuori del carcere di ordini criminali provenienti dai detenuti posti in regime di 41 bis". 

L'auspicio è che i vertici della Rai "avviino una seria riflessione al riguardo". La speranza è che anche i magistrati Di Matteo ed Ardita, "a loro volta apparsi nella puntata di Report con brevi interviste sul punto, vogliano prendere fermamente le distanze dal taglio diffamatorio che ha contraddistinto la puntata andata in onda".

 I penalisti hanno indicato a rappresentarli Giandomenico Caiazza, avvocato di Renzi e Boschi nei processi di Firenze sulla vicenda Open. Caiazza aveva posto la questione dell'inviolabilità delle prerogative parlamentari ha spazio fisso su Riformista, l'Opinione e il Dubbio. Se ha tutti gli avvocati penalisti contro, con in testa l'avvocato di Renzi, ce ne sarà uno disponibile a tutelare il povero Ranucci ? nel frattempo si difende da solo sui social.

La difesa dei diritti non è una maglietta che si indossa di giorno per poi riporla in un cassetto la sera'. "Nessuna diffamazione o insinuazione. Solo fatti documentati. La puntata di 'Report' oggetto di contestazione aveva come unica finalità evidenziare le falle del 41 bis in un contesto di estrema attualità partendo dalla ricostruzione del caso Cospito.

 Ho chiarito all'inizio della trasmissione che il 41 bis è uno strumento che è al limite della violazione dei diritti umani e che si regge esclusivamente sul presupposto di tutelare la sicurezza della collettività e che per questo va gestito con estrema cautela.

Il documento pubblicato da 'Report' denunciava che i casi di oltre 100 mafiosi al 41 bis fossero gestiti da un solo avvocato: è un fatto e non era assolutamente secretato, sottolinea il giornalista. "Che sia un'anomalia è l'idea, non di 'Report', ma della commissione parlamentare antimafia che ha approfondito la vicenda proprio per valutare la portata. 'Report' ha correttamente riportato la notizia sottolineando il rischio che comporta un'anomalia del genere, coadiuvato anche dal parere di esperti magistrati antimafia, sottolineando la buona fede e professionalità degli avvocati".

Per Ranucci, "aver mostrato tale anomalia rappresenta, come detto in trasmissione, una tutela per gli stessi avvocati". La difesa dei diritti non è una maglietta che si indossa di giorno per poi riporla in un cassetto la sera. Chi accusa 'Report' di non avere cura per i diritti dei detenuti e la possibilità di un loro reinserimento nella società, non ricorda le numerose puntate realizzate negli anni, l'ultima appena due anni fa in pieno Covid.

 Report da sempre si batte per la difesa dei diritti dell'uomo e della libertà di espressione. Ma Report ha anche il culto per la memoria: quello di ricordare il dolore dei familiari delle vittime delle stragi di mafia e del terrorismo e che il 41 bis è un'architrave della lotta alla mafia che Totò Riina voleva far abolire inserendolo nel papello. Sigfrido Ranucci

Vietato informare: gli effetti della legge Cartabia sul giornalismo in un report. Stefano Baudino su L'Indipendente il 13 aprile 2023.

Notizie di uccisioni e accoltellamenti non trattate in tempo reale dagli organi di stampa perché le forze dell’ordine si rifiutano di comunicarle. Cronisti che finiscono sotto inchiesta solo per aver svolto il loro lavoro. Procuratori-dominus chiamati a valutare l’interesse pubblico di un fatto al posto dei giornalisti, diramando comunicati spesso così scarni da non dire praticamente nulla. Sono questi i devastanti effetti della riforma Cartabia sulla “presunzione d’innocenza”, denunciati dal Press Report 2023 del Gruppo cronisti lombardi, quest’anno coadiuvati anche da giornalisti provenienti da altre regioni.

La riforma Cartabia è entrata in vigore il 14 dicembre 2021. Al suo interno, è stata recepita la Direttiva Europea 2016/343, che indica la necessità di non esprimere giudizi e affermazioni di colpevolezza nei confronti degli indagati e degli imputati non condannati in via definitiva, per non recare danno alla loro immagine e onorabilità. A tal fine, si dunque stabilito che la diffusione di notizie sugli atti di indagine compete solo al Procuratore della Repubblica (che può eventualmente “autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria”) e che possa avvenire “esclusivamente tramite comunicati ufficiali o, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa“, a cui si può procedere solo “con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse” che possano giustificarle. Inoltre, si vieta alle autorità pubbliche “di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”.

Le ingessature partorite da questa legge si traducono in un vero e proprio bavaglio per l’informazione. Afferma Daniele De Salvo nella relazione: “Con il pretesto della legge Cartabia, molti procuratori hanno chiuso tutti i canali informativi. Non viene data più comunicazione degli arresti effettuati, nemmeno dopo le udienze di convalida: gli indagati sottoposti a misure di custodia cautelare semplicemente ‘spariscono’, come se fossimo in un Paese sudamericano. Nulla neppure delle risultanze di indagini che coinvolgono personaggi con incarico pubblico o in settori che riguardano tutti i cittadini, come la salute, le società, il fisco, i contributi statali. Nulla su omicidi, aggressioni, rapine, furti, truffe e altri reati che rivestono interesse pubblico, specie in comunità medio-piccole. I comunicati, le poche volte che vengono diramati, sono senza nomi né cognomi, né età, quasi si riferissero a fantasmi o personaggi di fantasia“. Su questo versante, l’apice è stato raggiunto lo scorso marzo, al momento della chiusura delle indagini sull’inchiesta Covid, quando la Procura di Bergamo diramò soltanto un brevissimo comunicato in cui mancavano i nomi degli indagati (tra cui l’ex premier Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza e il governatore lombardo Attilio Fontana) e le fattispecie dei reati di cui risultano accusati.

Il risultato è dunque, su più livelli, la mancata diffusione ai cittadini di notizie di pubblico interesse. Il report cita molti casi concreti di cronaca nera: l’uccisione di due turiste belghe dello scorso ottobre, travolte da un’auto pirata a Roma, che divenne di dominio pubblico solo dopo alcuni giorni, quando i parenti ne parlarono sui social network; a Milano, l’omicidio di un ragazzo algerino, di cui i carabinieri seguirono le tracce di sangue arrivando fino all’abitazione dell’aggressore, non consentendo però ai cronisti di conoscerne il nome (sebbene il killer fosse stato fermato praticamente in flagranza di reato); la violenta aggressione di stampo razzista ai danni di un’impiegato di un fast food di Piazza Navona, nella Capitale, appresa dai giornalisti solo tre giorni dopo i fatti. E si potrebbe continuare a lungo.

Addirittura, Daniele De Salvo è stato indagato per aver scritto che una persona trovata morta all’interno della sua auto, ripescata nel lago di Como, non era stata uccisa (come si ipotizzava) ma si era suicidata: a confermarlo erano l’autopsia e la presenza di acqua nei polmoni. Il cronista è stato convocato dai carabinieri di Merate (Lecco) per la notifica dell’apertura di indagini preliminari nei suoi confronti per la “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”.

Un colpo pesantissimo al diritto di cronaca è stato dato dalla Riforma Cartabia – si legge nella relazione -. Molti avvenimenti vengono divulgati quando ormai sono terminati o risolti, creando una evidente distorsione della realtà sociale, dove tutto sembra che vada bene. Una narrazione falsata verso la quale si stanno allineando molti editori, capistruttura e giornalisti”. Questi ultimi, in particolare, non avrebbero più “la forza di ribellarsi a causa di una precarietà economica e contrattuale ormai generalizzate, ma anche di una non piena consapevolezza del ruolo”, essendo “convinti, probabilmente, che non disturbando i manovratori e stando lontani da ogni contrattazione collettiva e rappresentanza professionale si verrà trattati con benevolenza, finendo invece per mettersi nelle mani dei poteri forti”. Il Gruppo cronisti lombardi lancia un appello: “Senza una presa di coscienza dei giovani colleghi e senza il coinvolgimento dei cittadini sarà difficile far fronte alle circostanze e agli attori che schiacciano l’informazione”. [di Stefano Baudino]

Le tre P. Storia della mia tigna da Oscar e di come ho fatto condannare Le Iene (anche in Cassazione). Guia Soncini su L’Inkiesta il 14 Aprile 2023

Nessuno mi credeva quando sostenevo che è un reato entrare senza permesso in casa di sconosciuti, solo perché si ha una telecamera. Ora che la condanna di Luigi Pelazza per violenza privata è definitiva, qualcuno mi dirà: «Avevi ragione e sono un pirla»

Nel 2018 Allison Janney vinse l’Oscar per l’interpretazione della madre cattiva in Tonya. Salì sul palco e, come battuta sul cliché del discorso da Oscar, quello nel quale ringrazi una sleppa di persone senza le quali non ce l’avresti mai fatta, esordì con la frase «I did it all by myself», ho fatto tutto da me.

Era cinque anni fa, ed erano a quel punto due anni e mezzo che un inviato delle Iene era entrato a forza in casa mia, e aveva usato le immagini del mio inseguimento e del mio rifiuto di partecipare al suo varietà per movimentare un servizio inutile e alzare lo share; erano due anni e mezzo che non cominciava un processo in cui credevo solo io.

Non ci credevano i poliziotti che, quando nel 2015 ero andata a sporgere denuncia, mi avevano detto che le scale di casa mia, il cortile di casa mia, l’ascensore di casa mia, tutte le parti di casa mia per le quali pagavo delle spese condominiali e per accedere alle quali c’erano due portoni con relative serrature, tutti quei posti lì mica erano proprietà privata (l’avvocato mi aveva suggerito di dir loro che però se ci avessero trovato un eroinomane, invece che un malvivente televisivo, l’avrebbero condotto via in ceppi; io pensavo solo: come sarebbe non è proprietà privata, allora ditelo che rivolete il comunismo).

Non ci credeva Ezio Mauro (all’epoca direttore di Repubblica, giornale con cui in quegli anni collaboravo), che aveva risposto «Non ci convince» al pezzo che gli avevo proposto, pezzo in cui raccontavo la curiosa esperienza di venire linciata dai social perché un varietà televisivo coi balletti ha deciso di dire che sei colpevole d’un reato per il quale non sei ancora stata processata (e del quale sei innocente, ma questo all’epoca non era ancora ufficiale). Nessuno, tra i giornalisti che conosco, si meravigliò: nelle redazioni, mi spiegarono, c’è il terrore che, se scrivi qualcosa contro Le iene, poi il tizio che ne è a capo (Davide Parenti) ti manderà qualche inviato a casa sputtanandoti. Giornali che hanno paura d’un varietà: cosa potrà mai andar storto.

Non ci credeva Dino Giarrusso, allora non ancora dei Cinque stelle o del Pd o di dove diavolo è ora, ma inviato proprio delle Iene, fucina di brava gente. Un autore televisivo aveva linkato la mia cronaca dello snuff movie di cui ero stata vittima (la cronaca era quella rifiutata da Repubblica, che avevo pubblicato su un blog che tenevo allora; lo snuff movie è una forma illegale di porno in cui la non volontaria protagonista viene uccisa davanti alla macchina da presa).

Giarrusso aveva commentato che figurarsi se un professionista come Pelazza (il malvivente che aveva violato il mio domicilio) aveva infranto qualche legge: «irrimediabilmente penoso, oltre che lontano anni luce dalla realtà, è il racconto che ne fa Soncini. Pelazza non ha aggredito nessuno, e immagino tu lo sappia bene. Se uno di noi aggredisse qualcuno, scoppierebbe un tale caos che questo “uno” dovrebbe trovarsi un altro lavoro».

Era sette anni prima che un altro tizio, anche lui per nulla aggredito dalle Iene, invece di aspettare per otto anni che gli dessero ragione i tribunali, si suicidasse, circostanza in seguito alla quale nessuno – incredibilmente – si è dovuto trovare un altro lavoro (saranno finiti i posti da deputati europei). Ma torniamo all’elenco di coloro che non credevano in un processo che dalla denuncia del 2015 non sarebbe cominciato per altri cinque anni.

Non ci credeva il pubblico ministero, che inizialmente aveva richiesto l’archiviazione della mia denuncia, e se la tigna che ho impiegato per far diventare quell’archiviazione un’imputazione, quell’imputazione un processo, quel processo tre gradi di condanna, se quella tigna l’avessi impiegata in lezioni di balletto classico a quest’ora interpreterei senza sforzo la morte del cigno.

Non ci credeva il primo avvocato cui avevo affidato la mia determinazione a far passare la linea «non ti possono, contro la tua volontà, entrare in casa con una telecamera, esattamente come non ti possono entrare in casa con un piede di porco: mi pare lunare che non sia una nozione condivisa». Non ci credeva al punto che non aveva mai consegnato il video del servizio al pubblico ministero, e quello non capendo di che stessimo parlando aveva chiesto l’archiviazione.

Non ci credevano i carabinieri ai quali – nel maggio 2019, dopo che finalmente ero riuscita a far mutare la richiesta d’archiviazione in rinvio a giudizio – ho dovuto raccontare cosa fosse successo tre anni e mezzo prima. Ricostruzione a memoria della conversazione con loro, gente abituata ad avere a che fare con gente che ha ragione di mentire: «io il servizio non l’ho mai visto», «sta mentendo, nella denuncia ha dichiarato d’averlo visto», «non posso averlo dichiarato, non avendolo mai visto e non prendendomi io mai l’incomodo di mentire».

(Poi il carabiniere ha controllato e in effetti non avevo dichiarato niente del genere, non avendolo fino a quel giorno mai visto; m’ero fin lì risparmiata le immagini di una che torna a casa con un pacco di cartigienica sotto braccio e finisce in tv. A margine: una nota opinionista notoriamente solidale con le donne, la sera della messinonda, aveva scritto su Facebook: «Essere associata a Guia Soncini, […] che si difende prendendo a calci nelle palle un inviato senza neanche farsi prima uno shampoo secco, mi addolora molto»).

Non ci credeva il secondo avvocato, quello al quale affidai il processo visto che il primo non ne aveva voglia, e che si preparò così bene da dire per tutta l’arringa “Striscia la notizia” invece di “Le iene”, e da dire che Cuccia era rimasto muto allorché inseguito da Chiambretti. (Però in seguito ha dato svariate interviste spiegando come aveva vinto il processo. Un processo che è una buca keynesiana per la celebrità di chi c’è passato vicino).

Per fortuna aveva nel frattempo cominciato a crederci il pm, che aveva fatto persino lo storyboard della porta che non riuscivo a chiudere a causa del piede di Pelazza messo in mezzo, ed era abbastanza preparato in storia della tv da sapere che quello di Cuccia era Staffelli.

Per fortuna ci credeva la giudice, che – nonostante i Chiambretti e le Striscia a casaccio – nelle motivazioni della sentenza di primo grado scrisse che «le dichiarazioni di Soncini Guia oltre ad apparire, a questo giudicante, per intrinseca coerenza logica, attendibili e veritiere, risultano – vieppiù – suffragate da ulteriori elementi di prova», condannando l’ovvio e sancendo che no, una telecamera non è un’immunità per fare come cazzo ti pare.

E più di tutti – di tutti tranne me – ci credeva l’avvocato di Pelazza che, consapevole di doversi arrabattare a difendere un malvivente e con la disperazione di chi non può che perdere, ha continuato a ricorrere in appello, in cassazione, e perché non ad Amnesty, in modo da poter fino all’altroieri, durante ognuno dei numerosi altri processi intentati al suo assistito convinto che tutto gli sia concesso, dire che sì, era stato condannato per quella bazzecola a casa Soncini, però mica in via definitiva.

Due mesi fa Jamie Lee Curtis ha detto, ricevendo l’Oscar, che doveva ringraziare tutti quelli che avevano lavorato con lei e che sul palco c’erano idealmente tutti e che l’Oscar l’avevano vinto tutti insieme. Jamie, scusa: io sono della scuola filosofica solinga di Allison.

Mercoledì la cassazione ha confermato la condanna di Luigi Pelazza per violenza privata, e poiché è un po’ il mio Oscar io ringrazio molto il terzo avvocato – la quale per fortuna, nella grande divisione dell’umanità tra chi lavora e chi si promuove, appartiene al primo gruppo, e senza dare mezza intervista ha vinto in appello e in cassazione, stabilendo un incredibile precedente: si può fare causa ai prepotenti che violano la legge, persino se questi prepotenti hanno una telecamera con cui chissà come potranno sputtanarti.

E quindi tutto questo era per dire che non ho proprio fatto tutto da me, ma quasi, e che sono ragionevolmente certa che nessuno dei molti che non ci hanno creduto mi dirà «ma sai che avevi ragione e sono un pirla», ma io sono generosa: la mia tigna è sì servita a far riflettere Parenti e Pelazza e Piersilvio (le tre P della cafonaggine televisiva) sulle spese legali, i danni civili, e le molte buone ragioni per non venire a rompere i coglioni a casa mia, ma pure per fargli passar la voglia di molestare voialtri a casa vostra.

La condanna di Luigi Pelazza e perché volevamo parlare delle foto sottratte a Elisabetta Canalis. Le Iene il 23 febbraio 2021

Dopo la condanna del nostro Luigi Pelazza per l’intervista a Guia Soncini, ci teniamo a raccontarvi perché volevamo parlare della sottrazione delle fotografie di Elisabetta Canalis e George Clooney per cui erano imputati Gianluca Neri, Selvaggia Lucarelli e Guia Soncini. I tre sono stati poi assolti: vogliamo spiegarvi che cosa è successo.

“Pochi giorni fa il Tribunale di Milano mi ha condannato per aver tentato di intervistare la giornalista Guia Soncini nel cortile del palazzo dove vive impedendole secondo l’accusa di rientrare in casa sua. Secondo il giudice avrei usato violenza di fronte a una persona in evidente stato di timore”.

Luigi Pelazza ci parla della sentenza che prevede per lui due mesi di carcere convertiti alla pena pecuniaria di 15.000 euro per violenza privata. Noi la rispettiamo, ma faremo Appello. Intanto ci piacerebbe chiarire perché eravamo lì per parlare con quella giornalista. Ve lo raccontiamo in onda riproponendovi anche parte di quanto accaduto nel 2015.

Nel servizio, Luigi Pelazza raccontava del processo per l’ipotesi di accesso abusivo a sistema informatico, intercettazione illecita di comunicazioni e violazione di corrispondenza contestati a Gianluca Neri, Selvaggia Lucarelli e Guia Soncini, per la sottrazione di diverse fotografie di Elisabetta Canalis e l’ex fidanzato George Clooney in occasione del compleanno della showgirl del 2010 nella villa di lui sul lago di Como. 

I tre sono stati poi assolti perché, si legge nella sentenza, manca la “pistola fumante”, la prova che Gianluca Neri si sia collegato all’account dove si trovavano le foto e che due email che offrivano quelle stesse foto alla rivista “Chi” siano state inviate da lui. Nonostante Neri avesse le credenziali per effettuare entrambe le operazioni. Inoltre per tre reati su cinque il giudice, pur scrivendo che li avrebbe assolti comunque, ha riqualificato il fatto in altri reati per cui si poteva procedere solo in presenza di querela (che sarebbe stata persa durante le indagini).

Luigi Pelazza, ecco perché l’inviato de «Le Iene» è stato condannato per l’intervista a Guia Soncini. Aveva tenuto bloccato il portone del condominio e poi le porte dell’ascensore, e la giornalista aveva chiamato i carabinieri. Per il Tribunale non si può invocare il diritto di cronaca. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 14 marzo 2021

Dall’esercizio della libertà di stampa alla violenza privata il passo può essere breve. Ora un freno alla ricerca di interviste forzate per strada, un po’ troppo aggressive nei confronti di chi non voglia accettarle, arriva dalle motivazioni della sentenza di primo grado con la quale un mese fa il Tribunale di Milano ha condannato a due mesi, convertiti in 15.000 euro di pena pecuniaria, appunto per il reato di «violenza privata» il giornalista Luigi Pelazza che, per la trasmissione «Le Iene», il 19 settembre 2015 aveva pressantemente inseguito con microfono e cameraman la giornalista Guia Soncini mentre le rivolgeva, prima sul portone della palazzina all’interno del condominio e poi sulla porta dell’ascensore, insistenti domande su un processo: quello nel quale all’epoca Soncini era imputata (con Selvaggia Lucarelli e Gianluca Neri, poi tutti assolti) di accesso abusivo a sistema informatico, intercettazione illecita di comunicazioni e violazione di corrispondenza per le presunte «foto rubate» di Elisabetta Canalis e dell’allora suo fidanzato George Clooney in occasione del compleanno della showgirl nel 2010 nella villa dell’attore sul lago di Como.

All’esito dell’istruttoria svolta dal pm Francesco Cajani, la giudice della VII sezione penale Maria Angela Vita ha infatti ritenuto che il giornalista, «frapponendo il piede tra il montante e il portone d’ingresso» del condominio di Soncini, mentre «continuava a porle domande e a farla riprendere dal cameraman, abbia impedito di fatto» alla persona inseguita «di chiudere la porta d’ingresso, frustrando in tal modo la sua libera determinazione di bloccare l’accesso al giornalista e al cameraman, non gradendo di essere né intervistata né ripresa dalle telecamere». Allo stesso modo, «frapponendosi con il proprio corpo tra la soglia e la porta dell’ascensore, ha impedito insistentemente» a Soncini, «anche con la mano, di chiudere le porte dell’ascensore», sicché l’inseguita, per non portarsi a casa gli inseguitori, si era seduta per terra e da lì aveva chiamato i carabinieri.

Questo comportamento del giornalista, ad avviso del Tribunale, ha costituito un «mezzo anomalo diretto a esercitare pressione sulla volontà altrui», e così ha «ancora una volta coartato la libertà di movimento e la capacità di autodeterminazione» della persona oggetto del tentativo di intervista, «avendole impedito di raggiungere casa» e «costringendola a tollerare di essere ripresa per tutto il tempo dell’intervista contro la propria volontà».

La difesa, con l’avvocato Stefano Toniolo, invocava l’esimente del diritto di cronaca. Ma il Tribunale non la ritiene accoglibile, aderendo non a «una isolata pronuncia della Cassazione nel 2019», ma all’orientamento giurisprudenziale per cui «il diritto di cronaca può certamente» sterilizzare «gli eventuali reati commessi con la diffusione della notizia, ma non quelli compiuti al fine di procacciarsi la notizia», come nel caso in questione: «Se così non fosse — scrive la giudice — sarebbe paradossale che anche reati gravi come furto o rapina o reati contro l’integrità fisica potessero essere scriminati se compiuti al fine di procacciarsi notizie utili e rilevanti».

In più, nel bilanciamento tra contrapposti diritti della persona e dell’informazione, per la sentenza il piatto della bilancia non può pendere dal lato del servizio giornalistico perché esso, «per modalità e natura delle domande e toni anticipatamente ed eccessivamente colpevolizzanti in spregio del principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza», si sarebbe risolto in «un attacco sul piano personale» a Soncini, «teso a screditarne la figura professionale prima ancora di un accertamento processuale». L’aver così «determinato una concreta limitazione della autodeterminazione» di Soncini «sia in senso fisico che psichico», induce il Tribunale anche a non ritenere la condotta assorbibile dall’istituto della «tenuità del fatto», e a infliggere invece una condanna che ora sarà sicuramente oggetto di impugnazione da parte del giornalista.

Le Iene, "la violenza che ho subito": altro tsunami sul programma di Italia 1. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 10 novembre 2022

«È proprio il metodo de Le Iene ad essere sbagliato. Nei loro servizi il fatto di cronaca diventa la reazione scomposta del soggetto che vogliono intervistare e che, per questo, quasi braccano in strada o sotto casa o dove riescono. Facendo così finiscono per "crearlo", però, il fatto. E non si limitano a riferirlo come dovrebbe fare il giornalismo d'inchiesta».

Davide Steccanella è un avvocato di Milano che conosce bene quello che lui definisce «il metodo Le Iene» perché neanche un anno fa ha vinto una causa contro una di loro, Luigi Pelazza. Pelazza era stato condannato a due mesi di carcere (pena successivamente commutata in una multa di 15mila euro) per essersi introdotto nel cortile del palazzo della giornalista Guia Soncini tempestandola di domande e impedendole pure di entrare in casa sua. Parlantina veloce e precisa, Steccanella lo ammette subito: «Non si è trattato né del primo processo né dell'unico del suo genere. Sintomo che non abbiamo davanti un'eccezione, ma un metodo consolidato».

Avvocato Steccanella, era il 2010. C'entravano delle fotografie private scattate durante una festa a casa della showgirl Elisabetta Canalis, c'erano diversi vip coinvolti, un procedimento ancora aperto a Milano. Cosa avvenne?

«Le Iene fecero il loro classico servizio. Braccarono Guia Soncini, che all'epoca era la mia assistita, fingendosi dei corrieri e introducendosi nel cortile del suo palazzo. A questo punto, quando lei entrò, poveretta, si chiuse la porta dietro le spalle e rimase bloccata. Non poteva né uscire sulla strada né entrare nel suo appartamento.

Fu costretta a subire l'intervista finché non chiamò la polizia».

Urca, addirittura "subire"...

«È proprio questo il punto. Non si può obbligare una persona a farsi sottoporre a un'intervista se non ne ha voglia. Va bene il diritto di informare, ci mancherebbe altro. Ma la libertà di un cittadino è inviolabile. Lo sa cosa scrisse il giudice su quella condanna?».

Cosa?

«Contestò la violenza privata. Non la diffamazione che è un reato, diciamo così, più affine al mondo del giornalismo. Ma la violenza privata. Disse, in pratica, che non si può costringere qualcuno a rilasciare un'intervista e che è un diritto anche il non voler rispondere a certe domande. Tra l'altro in quell'occasione c'era un processo ancora in corso, era legittimo che Soncini decidesse altrimenti. Guardi che l'alternativa è solo fingere».

Prego? In che senso?

«In una situazione così uno non sa più cosa fare. Vedi che arrivano e pensi: "Cribbio, preferirei non parlare, ma se non lo faccio mi sbertucciano in qualche modo in televisione" e allora fingi e fai il gentile. No, non può funzionare in questo modo. È un sistema molto furbo, d'accordo. Ma non può funzionare così. E inaccettabile».

Perché?

«Il loro è un modo di fare tivù che ha sempre avuto un notevole successo, e questo è indubbio. Ma è un metodo spregiudicato e che deve essere regolato, altrimenti di cosa stiamo parlando? Provocano così perdi le staffe e sembri un isterico. Poi quello che va in onda è solo una parte».

La classica punta dell'iceberg?

«In quel caso il servizio non faceva vedere tutta la fase provocatoria e impedente, quella era stata tagliata. E il risultato fu che la mia cliente passava per quella che si voleva sottrarre alla volontà di fare chiarezza col pubblico. Non era vero».

Ha visto l'ultima bufera che si è sollevata? Roberto Zaccaria, il signore di 64 anni di Forlì che si è suicidato la settimana scorsa?

«Si tratta di un episodio avvilente e che ho trovato proprio brutto. Il problema è che quell'insistenza, quel voler "stalkerizzare" fino all'inverosimile, può indurre chi è debole a commettere gesti anche estremi. Ora però io non voglio incolpare nessuno e men che meno Le Iene, per la morte tragica di due persone, come quelle che abbiamo letto in questi giorni».

Certo, la procura dell'Emilia Romagna ha aperto un'inchiesta, al momento contro ignoti. Ci penseranno i magistrati a fare chiarezza...

«È il loro lavoro. Io mi limito ad aggiungere che questo modo di spettacolizzare le notizie è anche significativo del momento culturale che stiamo vivendo. Però il dovere di chi fa televisione è anche "educare", o comunque di non lasciare spazio agli istinti più voyeuristici del pubblico. Sennò è la fine».

Insomma, quello che gli americani chiamano "infotainment", l'informazione che fa spettacolo, ha un limite?

«Ovviamente. Immortalare il vip o la persona più o meno famosa in un momento di difficoltà, in una situazione di imbarazzo in modo che reagisca e magari risponda male solo per dimostrare che è un maleducato non ha niente a che vedere con la cronaca».

Ma lei lo guarda Le Iene?

«Lo guardavo. Mi piaceva anche. Però dopo l'esperienza in tribunale con questo caso ho capito che il metodo che usano è proprio quello e no, adesso non mi piace più». 

Perché Selvaggia Lucarelli, Guia Soncini e Gianluca Neri sono stati assolti. Il Fatto e Il Giornale parlano della sentenza di assoluzione nei confronti dei tre accusati di aver rubato le ormai famose foto del compleanno di Elisabetta Canalis. Con interpretazioni opposte. NeXtQuotidiano il 18 Luglio 2017

Ieri il giudice Stefano Corbetta, della XI sezione del Tribunale di Milano, ha assolto Gianluca Neri, Selvaggia Lucarelli e Guia Soncini, accusati di aver “rubato” foto ed e-mail alle showgirl Elisabetta Canalis, Mara Venier, Federica Fontana e al marito di quest’ultima, Felice Rusconi, con presunti hackeraggi nella loro posta elettronica. Oggi la sentenza è l’argomento del giorno sul Fatto e sul Giornale. Marco Travaglio riepiloga la vicenda e segnala i due punti importanti della sentenza:

1) Non fu Neri ad hackerare le e-mail della Canalis: il giudice ha derubricato il reato di accesso abusivo a sistema informatico in rivelazione di corrispondenza segreta abusivamente posseduta. E anche qui ha assolto, forse perché il possesso non era abusivo o perché la corrispondenza non era segreta. Probabile che Neri si approvvigionasse di materiali top secret da siti internazionali di hacker, simili alla galassia Wikileaks. Ma, mancandola querela delle vittime, né le indagini né la sentenza potranno dire chi abbia “succhiato”foto e messaggi dalle caselle di posta.

2) La Lucarelli disse la verità, quando raccontò di aver ricevuto lecitamente da Neri le foto della festa (e mai una sola e-mail) e le mostrò a Parpiglia e Signorini, senz’alcun fine di lucro. Infatti non violò né il segreto sulla corrispondenza altrui (“il fatto non sussiste”: forse perché ormai le foto scaricate da altri non erano più segrete); né la privacy delle persone immortalate nelle foto (“il fatto non sussiste”: forse perché i protagonisti delle foto, mai pubblicate, non subirono alcun danno). Se qualcuno –com’è evidente –si è introdotto nella corrispondenza privata di Canalis, Fontana & C., è rimasto fuori dal processo, che ha portato alla sbarra gli imputati sbagliati. Resta la curiosità dei tre per quelle foto del tutto innocue, ma non è reato.

Elisabetta Canalis

Il “patriota” Luca Fazzo, invece, sul Giornale concentra l’attenzione sul fatto che il giudice Corbetta ha riqualificato il reato  in«rivelazione del contenuto di corrispondenza», che colpisce chi «essendo abusivamente venuto a cognizione del contenuto di una corrispondenza a lui non diretta, che doveva rimanere segreta, senza giusta causa lo rivela». Per  procedere su questo reato serve la querela e la “mancanza di una firma” ha portato all’assoluzione:

Ora la sentenza – le cui motivazioni si conosceranno tra novanta giorni – dice che qualcosa di illecito avvenne, ma dà una lettura dei fatti che consente agli imputati di uscire indenni dal processo. Fuori dal capo di imputazione, ma utili secondo l’accusa a capire quanto davvero avvenne, sono restate le intercettazioni colorite tra la Lucarelli e Neri, in cui la brillante corsivista incita il maghetto del computer a frugare nella privacy di questo o quel vip. «Vojo tutti i suoi scheletri», esulta la Lucarelli quando apprende che Neri è finalmente riuscito a entrare nella casella di posta elettronica di Mara Venier, colpevole di essere entrata in collisione con lei.

In realtà è vero che per procedere serviva una querela e quindi il giudice ha dichiarato l’impossibilità di procedere. Ma è anche vero che proprio perché non ha deciso, non è detto che il giudice avrebbe giudicato colpevoli i tre. Ma per il Giornale le sentenze sono come le leggi: con i nemici si applicano, con gli amici si interpretano.

 Il microfono non può essere un lasciapassare. La lezione del processo che Guia Soncini ha vinto con Le Iene. Federica Olivo

huffingtonpost il 14 Aprile 2023

"Non si è trattato - sostiene l'avvocato di Soncini - solo di un inseguimento per ottenere delle informazioni, ma di una effettiva limitazione alla libertà personale della mia assistita". Si è chiusa pochi giorni fa, con una condanna definitiva, la vicenda nella quale era imputato per violenza privata l'inviato de Le Iene Luigi Pelazza. Era andato a processo per aver seguito, con insistenza - attendendola nel cortile del palazzo e impendendole di fatto l'accesso a casa - la giornalista Guia Soncini. La storia risale al 2015 e il video di questo inseguimento, culminato in una chiamata ai Carabinieri da parte di Soncini, che era bloccata nell'androne del palazzo dall'inviato de Le Iene, è andato in onda due volte in trasmissione.

Sentenza contro le querele temerarie: una buona notizia per l’informazione italiana. di Stefano Baudino su L'Indipendente il 10 Marzo 2023.

Dalle aule di giustizia arriva, finalmente, un’ottima notizia per la libertà di informazione e la tutela dei giornalisti in Italia. Si tratta, nello specifico, di una sentenza emessa dal Tribunale di Spoleto, che sembra costituire un importante precedente contro le “querele temerarie” cui ogni giorno validi cronisti si ritrovano a dover rispondere in sede processuale. I giudici della città umbra hanno infatti condannato Leodino Galli, ex componente del consiglio di amministrazione della Banca popolare di Spoleto, alla pena di un anno e quattro mesi di carcere (sospesa) per calunnia nei confronti del cronista del giornale online “Tuttoggi” Carlo Ceraso. Per la prima volta, però, hanno agito d’ufficio, senza una formale denuncia da parte dei legali del giornalista.

La vicenda giudiziaria ha avuto origine nel 2017, quando l’ex consigliere querelò Ceraso per diffamazione. L'”oggetto del contendere” erano i contenuti di un’inchiesta in cui il cronista sottolineava una serie di “ombre” nella ventennale storia di Galli come consigliere della Banca Popolare Spoleto. La denuncia finì sul tavolo del Sostituto Procuratore Gennaro Iannarone, che iscrisse il giornalista nel registro degli indagati. Poi, però, lo scenario si è completamente ribaltato: avendo Ceraso pubblicato fatti veri, già di pubblico dominio e ampiamente verificati, la Procura ha deciso di chiedere il suo proscioglimento – confermato dal giudice – ma anche di aprire d’ufficio un fascicolo per calunnia a carico di Galli. Il pm ha infatti ritenuto temeraria e pretestuosa la querela sporta nei confronti di Ceraso, della cui innocenza il querelante sarebbe stato pienamente consapevole. Dopo una rapida Camera di consiglio il Gip Amodeo, che ha condiviso i risultati dell’indagine, ha disposto il rinvio a giudizio per Galli.

Il processo di primo grado si è dunque concluso il 25 febbraio con la condanna di Galli, tenuto anche al pagamento delle spese legali di tutte le parti civili, nonché a una provvisionale di 10mila euro da definire in sede civile e a 5mila euro ciascuno di danni per l’Ordine dei Giornalisti e la Federazione nazionale stampa italiana e Associazione stampa umbra.

Niente di simile era mai accaduto prima. L’avvocato difensore di Ceraso ha dichiarato: «È questo il primo caso  del genere registrato in Italia, nel quale una cosiddetta querela temeraria si ritorce contro chi l’ha presentata. È significativo che il pubblico ministero abbia aperto d’iniziativa il procedimento per calunnia e non dopo una nostra denuncia». Grande soddisfazione è stata espressa anche dalla Federazione nazionale della Stampa italiana, dall’Associazione Stampa Umbra e dall’Ordine dei giornalisti dell’Umbria, che hanno commentato così il caso: «Un importante precedente a tutela dell’articolo 21 della Costituzione, del diritto dei cittadini a essere informati. Per la prima volta il procedimento per calunnia nei confronti di chi aveva querelato ingiustamente un giornalista è partito su iniziativa diretta della Procura e il Tribunale ha emesso la condanna».

Parole e punti di vista che ci sentiamo di condividere, augurandoci che questo passaggio storico possa costituire un deterrente al diffuso malvezzo, proprio di molti “potenti”, di sporgere querele per diffamazione con il solo obiettivo di intimorire i professionisti dell’informazione. Spesso molto meno ricchi e influenti dei querelanti. [di Stefano Baudino]

Una Repubblica fondata sulle querele contro i giornalisti. Il giornalismo e la libertà di stampa in Italia è sotto costante attacco giudiziario, con querele quasi sempre pretestuose da parte dei potenti. Un problema per tutta la democrazia: Europa in allarme. SIELKE BEATA KELNER su Il Domani il 04 marzo 2023

Se il rapporto tra politica e querele è tanto radicato nel panorama italiano, perché preoccuparsi Perché le querele pretestuose rappresentano un abuso di diritto.

Si presta alla strategia del querelante la proverbiale lentezza del sistema di giustizia italiano.

Nel 2017, il 67 per cento dei procedimenti penali per diffamazione sono stati archiviati dal giudice per le indagini preliminari perché manifestamente infondati, segnale evidente dell’intenzione pretestuosa dei querelanti. 

Negli ultimi mesi l’Italia ha attirato l’attenzione di numerose organizzazioni internazionali che si occupano di libertà di stampa.

Nel rapporto Mapping Media Freedom 2022 dedicato al monitoraggio della libertà di stampa nel continente europeo, l’Italia figura tra i dieci paesi Ue in cui, durante lo scorso anno, si sono registrate più minacce rivolte a media e giornalisti.

Il caso italiano ha attirato l’attenzione di Mfr un consorzio di organizzazioni che monitorano la libertà di stampa in Europa tra cui Obct, e di Case, la coalizione europea anti-Slapp (le slapp sono azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica), come anche del suo principale promotore, la Daphne Caruana Galizia Foundation.

A destare preoccupazione, la rapida successione di querele per diffamazione  e conseguenti procedimenti giudiziari nei confronti di giornalisti ed intellettuali italiani intentate da politici e figure pubbliche di alto livello.

IL POTERE CONTRO I GIORNALISTI

A partire dallo scorso settembre, si sono susseguiti nell’ordine: nel quadro del procedimento penale per diffamazione avviato nel 2014 dall’ex ministra per il Lavoro e attuale presidente di Italia Viva Teresa Bellanova; la richiesta di un procuratore di Lecce di infliggere sei mesi di carcere ai giornalisti Mary Tota, Danilo Lupo e Francesca Pizzolante; la minaccia di querela formulata dall’attuale ministro della Difesa Guido Crosetto nei confronti di Domani; la querela per diffamazione nei confronti del direttore di Domani Stefano Feltri e del giornalista Emiliano Fittipaldi formalizzata dall’attuale premier Giorgia Meloni; le prime tre udienze della causa penale per diffamazione avviata da quest’ultima nei confronti di Roberto Saviano; la prima udienza del processo per diffamazione a seguito di una querela dell’allora direttore del Tg2, attuale Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, nei confronti di Roberto Saviano; la minaccia di querela da parte del leader di Italia Viva Matteo Renzi nei confronti di Marco Travaglio; la prima udienza del procedimento penale per diffamazione avviato dall’attuale Ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini nei confronti di Roberto Saviano.

Ci sono poi quelle meno note, ma ugualmente problematiche, avviate da amministrazioni locali: è il caso della querela per diffamazione formulata dal comune di Abbiategrasso, in provincia di Milano, nei confronti della reporter indipendente Sara Manisera.

UNA TRADIZIONE DI BAVAGLI

In Italia, il legame tra politica e media è stato spesso scandito dal ricorso alle querele bavaglio - in campo internazionale identificate con l'acronimo Slapp - un fenomeno che coinvolge l’intero spettro partitico.

A dimostrazione che il ricorso alle liti pretestuose non riguarda solo l’attuale compagine governativa, e nemmeno solo il passato recente, basti ricordare alcuni casi illustri di figure pubbliche che hanno cercato di mettere a tacere il diritto di cronaca e satira.

Limitandosi solo a esempi che hanno coinvolto le cariche più alte dello stato, si possono evocare il caso dell’allora presidente del consiglio ed esponente della Democrazia Cristiana, Ciriaco De Mita, il quale nel dicembre del 1988 querelò l’allora direttore dell’Unità Massimo D’Alema per un articolo che titolava “De Mita s’è arricchito col terremoto”. Il terremoto era quello che colpì l’Irpinia nel 1980.

La vicenda si concluse con un chiarimento tra i due, che vide D’Alema ammettere di aver omesso un punto interrogativo a conclusione del titolo e De Mita ritirare la querela.

Pochi anni più tardi, nell’ottobre del 1999, fu Massimo D’Alema, premier in carica, a querelare. D’Alema contestava a Giorgio Forattini una vignetta satirica - divenuta celebre - quella della lista Mitrokhin, firmata per Repubblica; querela cui seguì una richiesta di risarcimento danni di tre miliardi di lire.

Solo dopo una dichiarazione del disegnatore circa la natura meramente satirica e non storicamente attendibile della sua vignetta, D’Alema ritirò la querela, nella primavera del 2001, quando non era più premier in carica.

Nella primavera del 2009, l’allora capo di governo Silvio Berlusconi querelò la Repubblica per l’articolo a firma Giuseppe D’Avanzo “Incoerenze di un caso politico: dieci domande a Berlusconi” circa le imbarazzanti frequentazioni del Cavaliere, danni quantificati dai legali di Berlusconi per un milione di euro.

Una causa che si è conclusa nel 2016 con la pronuncia della Corte d’appello di Roma a favore del giornale.

Infine, vale la pena ricordare un caso che, seppure interessò la politica locale, cambiò la storia della repubblica. Era il 1992 ed il giornalista Nino Leoni venne querelato da Mario Chiesa, allora presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, per una serie di articoli che questi firmò per Il Giorno e che diedero il via a Mani Pulite.

ABUSO DI DIRITTO

Se il rapporto tra politica e querele è tanto radicato nel panorama italiano, perché preoccuparsi Perché le querele pretestuose rappresentano un abuso di diritto. Si presta alla strategia del querelante la proverbiale lentezza del sistema di giustizia italiano.

Per quel che riguarda i procedimenti civili, i dati Istat, che svelano questa “finzione” dei querelanti: nel 2017, il 67 per cento dei procedimenti penali per diffamazione sono stati archiviati dal giudice per le indagini preliminari perché manifestamente infondati, segnale evidente dell’intenzione pretestuosa dei querelanti. 

In secondo luogo, perché gli attori che ricorrono a questo strumento vessatorio sono molto più potenti dei soggetti querelati ed impiegano le querele per silenziare le voci scomode.

L'obiettivo ultimo perseguito dai potenti attraverso le liti pretestuose non è far valere un proprio diritto, ma mettere a tacere le critiche attraverso l’intimidazione ed il prosciugamento delle risorse del querelato.

Questo potere censorio ha una ripercussione sulle informazioni cui i lettori hanno accesso ed infine sulla partecipazione pubblica.

Trasferendo il dibattito dalla sfera pubblica a quella giudiziaria, le cause vessatorie inibiscono il dibattito su questioni di pubblico interesse.

Come ricordato in un recente contributo scritto da alcuni membri del gruppo anti-Slapp del Regno Unito, per comprendere l’impatto del fenomeno sulla società - aldilà dei singoli casi - basta interrogarsi sugli articoli che per timore di incorrere in una querela per diffamazione non sono mai stati scritti, o pubblicati; sugli abusi di potere che non sono mai stati esposti al pubblico.

Questo è il costo delle Slapp che pesa sul dibattito pubblico, e, per estensione, sulla democrazia. 

In terzo luogo, perché i querelanti svolgono un ruolo pubblico. Quando ad essere protagonisti di questo fenomeno sono le più alte cariche di governo, ci si deve preoccupare ancora di più, sia in virtù di quello sbilanciamento di potere che caratterizza le Slapp sia perché proprio l’esercizio di un ruolo pubblico richiederebbe una maggior accettazione della critica. 

Se è vero che l’istituto della diffamazione permette di salvaguardare la reputazione degli individui da false dichiarazioni, è necessario che questa garanzia sia bilanciata da misure che garantiscano la libertà d’espressione in caso di liti pretestuose e - nella richiesta di risarcimenti - da una proporzionalità rispetto al danno subito.

L’attuale quadro giuridico che disciplina l'istituto della diffamazione non offre misure di tutela ai querelati in caso di procedimenti infondati e di richieste di risarcimento danni spropositate. La Corte Costituzionale si è ripetutamente espressa negli ultimi anni a favore di una riforma legislativa di ampio respiro delle norme sulla diffamazione.

POLITICI E NON CITTADINI

In Italia tanto la giurisprudenza nazionale, quanto quella europea, hanno più volte ribadito che i politici di professione non possono considerarsi comuni cittadini, quando entra in gioco il dibattito pubblico. L’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 costituisce la fonte normativa europea principale.

Quanto alla giurisprudenza, già nel 1986, la Corte europea per i diritti dell’uomo aveva espresso un principio chiave per la giurisprudenza successiva: nel suo esercizio di critica relativo al dibattito politico, la stampa gode di limiti «più ampi per un politico in quanto tale rispetto ad un privato».

Ancora, per la Corte di Strasburgo, le figure pubbliche sono tenute a tollerare una critica politica espressa in maniera virulenta, ammettendo «una certa dose di esagerazione e provocazione», proprio in virtù del fatto che questi godono di forum mediatici e politici per rispondere ad eventuali attacchi ingiustificati. 

In una pronuncia emblematica ed illuminante anche per i casi della cronaca diffamatoria più recente, nel 1997 la Corte europea venne chiamata a dirimere un contenzioso tra Gerhard Oberschlick, giornalista austriaco, e il noto politico di estrema destra Jörg Haider.

Nel 1990 quest’ultimo, all’epoca dei fatti governatore della Carinzia, nel corso di un comizio aveva decantato il ruolo dei soldati austriaci, inclusi quelli che avevano combattuto nella Wehrmacht hitleriana.

In risposta, il giornalista viennese gli dedicò un articolo titolato “P.S.: ‘Idiota’ Piuttosto che ‘Nazista’”. Nel ribaltare la sentenza austriaca, la corte di Strasburgo tenne conto sia del profilo pubblico di Haider, sia della sua retorica intenzionalmente provocatoria.

La corte europea concluse che, sebbene il termine “idiota” potesse essere considerato polemico, l’articolo non costituiva un attacco personale.

Al contrario, l’impiego di un termine offensivo, idiota appunto, era da considerarsi proporzionale all’indignazione causata dall’intervento di Haider.

BERLUSCONI “BUFFONE”

Se è vero che la Corte di Strasburgo costituisce un alleato fondamentale quando parliamo di libertà di stampa, anche i giudici nazionali hanno accolto l’evoluzione della giurisprudenza europea in tema di critica politica e figure pubbliche.

Caso esemplare quello che nel 2003 vide coinvolti l’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi ed il giornalista indipendente Piero Ricca.

A margine di un’udienza milanese che vedeva Berlusconi imputato, il giornalista manifestò il proprio dissenso dandogli del “buffone”.

Ne seguì una querela e una richiesta di risarcimento di 50.000 euro. All’ultimo grado di giudizio, la Corte di Cassazione assolse Ricca, evidenziando come l’epiteto fosse da intendersi nel contesto di critica politica mossa nei confronti di una personalità di altissimo livello, ribadendo che: «La critica può esplicarsi in forma tanto più incisiva e penetrante, quanto più elevata è la posizione pubblica della persona che ne è destinataria».

Infine, difficile non citare il più recente caso del cardinale Angelo Becciu. Il cardinale aveva avanzato una richiesta di 10 milioni di euro in risarcimento danni per le inchieste pubblicate dall’Espresso il cui contenuto faceva luce sui fondi vaticani spesi dal porporato.

Lo scorso novembre, il tribunale di Sassari ha dato ragione al settimanale, accogliendo la tesi della difesa, secondo cui, sebbene il tono della critica impiegata negli articoli pubblicati fosse «duro, aspro e polemico», questo era da considerarsi «direttamente proporzionale al ruolo di altissimo  livello ricoperto dall’autore».

COME DIFENDERSI

Che strumenti ha la società civile per difendersi da questo uso vessatorio del diritto? Il fenomeno delle cause vessatorie varca i confini italiani, come dimostrato dall’attivismo di Case, espressione della mobilitazione della società civile europea.

La consapevolezza dell’estensione del fenomeno e dell'impatto che questo ha sulla democrazia ha persuaso la Commissione europea ad avanzare una proposta di direttiva, l’equivalente di un disegno di legge, diretta a stabilire standard minimi di protezione contro le Slapp a favore di tutti quegli attori, non solo i giornalisti, che svolgono un ruolo di cani da guardia a servizio della democrazia.

Tra le misure proposte volte a fornire ai giudici strumenti per contrastare le cause pretestuose di carattere civile, il rigetto anticipato dei procedimenti giudiziari manifestamente infondati, così come in Italia già si procede nel quadro di procedimenti penali; l’istituzione di misure di rimedio che garantiscano al querelato di richiedere un risarcimento dei danni materiali e immateriali; la possibilità di infliggere sanzioni deterrenti alla parte che ha avviato un procedimento giudiziario abusivo teso a bloccare la partecipazione pubblica.

Tornando alla criticità del fenomeno italiano, in cui i querelanti troppo spesso ricoprono ruoli politici e pubblici, l’adozione di misure anti-Slapp permetterebbe la promozione di una cultura politica in cui la partecipazione pubblica sia concretamente esercitabile da tutti senza timore. In cui gli attori politici, invece di trasferire il dibattito politico alla sfera giudiziaria, rispondano alle critiche e al dissenso nel contesto della dialettica politica stessa nei tanti forum che hanno a disposizione.

A noi, società civile, spetta il dovere di continuare ad attirare l’attenzione ed informare sui casi italiani ed europei di Slapp, e spronare il parlamento ed il governo italiano affinché la proposta di direttiva della Commissione europea venga sostenuta attraverso il suo iter legislativo in sede di parlamento europeo e Consiglio dell’Ue, iter la cui conclusione è prevista per la fine del 2023.

LE PROPOSTE DI RIFORMA 

Le più recenti proposte di riforma del quadro normativo italiano, come il rilancio del disegno di legge che era stato promosso dall’ex senatore Giacomo Caliendo, rifuggono da un confronto con il dibattito attualmente in atto a Bruxelles, il quale verte intorno alle querele vessatorie.

Non a caso, l’Italia figura al 58esimo posto degli indicatori per la libertà di stampa non tanto per la possibilità di incorrere in una pena detentiva, ma per altri fattori che minacciano la professione giornalistica: il crimine organizzato (ricordiamo i 22 giornalisti sotto scorta) e l’autocensura cui si ricorre per evitare di incorrere in azioni legali.

Il disegno di legge 812, seppure sancendo l’eliminazione della pena detentiva per i reati di diffamazione, già ritenuta incostituzionale dalla Consulta, indica poche ed edulcorate misure dirette ad arginare le liti pretestuose.

SIELKE BEATA KELNER. Ricercatrice e attivista, Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropea 

Con la rettifica il giornalista denunciato non è punibile. "Una rivoluzione". Così il senatore Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, ha definito il ddl sulla riforma della diffamazione a mezzo stampa. Lanfranco Palazzolo il 2 Marzo 2023 su Il Giornale.

«Una rivoluzione». Così il senatore Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, ha definito il ddl sulla riforma della diffamazione a mezzo stampa che ha presentato, come primo firmatario, con Giacomo Caliendo e Lucio Malan (insieme nella foto), capogruppo dei senatori di FdI. Sono anni che il Parlamento cerca di cambiare la famigerata legge 47 del 1948 senza riuscirci. L'ultima volta la scorsa legislatura, quando proprio al Senato un Comitato ristretto nella Commissione Giustizia, del quale facevano parte l'ex senatore azzurro Caliendo, in qualità di presidente, e lo stesso Balboni avevano già elaborato il ddl che ora viene riproposto. Caliendo, che da magistrato ha seguito almeno 600 processi contro giornalisti, è stato chiaro: «Vogliamo evitare che siano previste condanne penali per il giornalista. Ci siamo mossi prima del pronunciamento del Consiglio d'Europa contro il carcere per i giornalisti. Ed è la quinta legislatura che ci proviamo». Ma perché il provvedimento è una «rivoluzione»? Basta leggere l'articolo uno del ddl che prevede il diritto alla rettifica. Caliendo spiega che «se la rettifica viene fatta nei termini previsti dalla legge, nella medesima collocazione dell'articolo che riguarda il diffamato, questa rende non punibile il giornalista». Quello che è importante resta «la previsione di non punibilità con una pena detentiva per il giornalista visto che si tratta di un reato di opinione», spiega Balboni. Il senatore di Fratelli d'Italia sottolinea che «la pena pecuniaria per il giornalista viene adeguata dal ddl. Ma già oggi, per i reati perseguibili con querela, se si risarcisce il danno prima dell'apertura del dibattimento, scatta una causa di non punibilità. Il giudice dichiara il reato estinto perché il danno è riparato». «La stampa - conclude il senatore di FdI - è un pilastro importante della nostra democrazia. Per questo il giornalista deve svolgere il suo lavoro senza il timore di dover avere delle conseguenze anche gravi sul piano personale». Il ddl prevede il diritto all'oblio che permette di non far circolare contenuti diffamatori nel tempo.

Durigon è ossessionato da Domani e fa sequestrare un articolo. REDAZIONE su Il Domani il 05 marzo 2023

Durigon ha denunciato Domani per un articolo su fatti acclarati, e la procura ha ordinato il sequestro dell’articolo sulla base della querela presentata dal sottosegretario.

Metodo originale, prima di tutto perché è chi denuncia che dovrebbe allegare alla querela l’articolo che ritiene diffamatorio.

Evidentemente Durigon non lo ha fatto. Così la procura di Roma ha pensato bene di sequestrarlo inviando due carabinieri in redazione per recuperare il corpo del reato, cioè l’articolo.

Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro, prosegue la sua campagna contro Domani, contro i nostri articoli e le inchieste pubblicate da quando esiste questo quotidiano. L’ultima in ordine di tempo è la più inaspettata e ha assunto contorni inquietanti.

Venerdì scorso due carabinieri hanno bussato alla porta della redazione del giornale. Hanno esibito un provvedimento di sequestro di un articolo scritto da Giovanni Tizian e Nello Trocchia sulla condanna di Simone Di Marcantonio per estorsione.

Di Marcantonio, era segnalato nel servizio pubblicato qualche mese fa, è stato un dirigente del sindacato Ugl quando Durigon era vicesegretario.

Fu proprio Durigon a portare Di Marcantonio nell’organizzazione sindacale. Del rapporto tra i due ne avevamo scritto nel 2022 e successivamente quando è arrivata la condanna per Di Marcantonio, processato insieme a personaggi affiliati al famigerato clan Di Silvio di Latina. 

Durigon ha denunciato Domani per quest’ultimo articolo di cronaca. Il fatto curioso è che la procura ha ordinato il sequestro dell’articolo sulla base della querela presentata dal sottosegretario.

Metodo originale, prima di tutto perché è chi denuncia che dovrebbe allegare alla querela l’articolo che ritiene diffamatorio.

Evidentemente Durigon non lo ha fatto. Così la procura di Roma ha pensato bene di sequestrarlo inviando due carabinieri in redazione per recuperare il corpo del reato, cioè l’articolo.

Una storia paradossale, e viene da chiedersi da cosa si sia sentito diffamato il sottosegretario se non ha neppure presentato ai magistrati “il corpo del reato”.

Il magistrato, invece di chiedere al querelante di produrre il materiale, ha preferito firmare un atto invasivo nei confronti di Domani. 

LA GUERRA DI DURIGON

Il sottosegretario non è la prima volta che denuncia Domani. Lo aveva fatto in occasione di una nostra inchiesta sui rapporti opachi tra Durigon e alcuni uomini legati ai clan di Latina. In quell’occasione abbiamo raccontato con molti documenti e chat ottenute dai cronisti la relazione con imprenditori e professionisti che vantavano connessioni e indagini insieme a uomini dei Di Silvio.

Tra questi c’era Natan Altomare, che aveva sostenuto la campagna elettorale nel 2018 di Durigon. Fatti che emergono dalle chat tra i due. 

Il sottosegretario aveva querelato, la procura di Roma ha chiesto l’archiviazione. Il politico si è opposto e ora sarà un giudice per le indagini preliminari a decidere se accogliere la richiesta di archiviazione del pm o l’opposizione dei legali di Durigon.

Non è finita qui. Nelle settimane scorse Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian hanno svelato l’affare delle case vendute a prezzi scontati dalla fondazione Enpaia. Una di queste è stata acquistata da Durigon. Lui era inquilino dal 2017 grazie a un contratto d’affitto stipulato da Ugl, che aveva fornito al suo vicesegretario l’alloggio. La permanenza da oltre 36 mesi in quell’appartamento di lusso ha garantito a Durigon lo sconto di Enpai per l’acquisto.

In questa vicenda però c’è un ulteriore elemento anomalo. Quando Durigon è stato eletto nel 2018 e poi è diventato sottosegretario, il contratto di locazione è rimasto in capo al sindacato. E ha continuato a pagare Ugl, come confermato da Enpaia. Il sindacato e il politico hanno confermato tutto, salvo spiegare che da quando Durigon è stato eletto ha versato l’affitto a Ugl senza effettuare la voltura del contratto.

Abbiamo chiesto a Ugl e Durigon di mostrarci i bonifici per fare chiarezza. La risposta del sottosegretario è stata sempre la stessa: «Li allegherò alla querela che farò contro Domani». Così il conto, semmai verrà presentata anche questa, salirà a tre denunce in due anni.

Durigon è un rappresentante delle istituzioni, che preferisce minacciare e fare denunce piuttosto che rispondere alle domande e confrontarsi con i giornali. 

Addio libertà di espressione. Murale della Meloni che stringe la mano a Messina Denaro, indagato per vilipendio writer. Francesca Sabella su Il Riformista il 17 Febbraio 2023

Vilipendio delle istituzioni. È l’accusa mossa al writer Evyrein, reo di aver realizzato, in Via Marsala a Padova, un murale che ritrae Giorgia Meloni e Matteo Messina Denaro mentre si stringono la mano. Sopra di loro campeggia la scritta: in Bonafede (nome e cognome utilizzato dal super boss di Cosa Nostra negli ultimi anni della sua latitanza). Ovviamente il disegno e il titolo dell’opera vogliono sostenere che ci sia stata una trattativa Stato-Mafia dietro la cattura dell’ultima primula rossa. Una provocazione per smontare gli entusiasmi di quanti avevano gioito per l’operazione lunga e difficile dei Ros che aveva portato il 16 gennaio mattina alla cattura di Messina Denaro.

Qualche giorno dopo, nella notte tra il 22 e il 23 gennaio era apparsa l’opera, cancellata subito dopo. O meglio, il disegno era stato rimosso ma non la scritta ancora ben leggibile. Disegno che non è passato inosservato e sul quale la Procura ha deciso di aprire un’inchiesta. Ora il writer rischia una multa da 1.000 a 5.000 euro, ma la macchina investigativa è già partita e i Carabinieri hanno già perquisito la sua abitazione. “Mi è sembrato tutto un po’ esagerato. La perquisizione a quell’ora, poi mi hanno condotto in Questura quando erano le 7 e mi hanno fatto le foto segnaletiche e uno screening che neppure in ospedale. Non che siano stati scortesi o altro, però è tutto surreale, esagerato”, ha commentato l’artista, come riporta il sito PadovaOggi.

E un po’ esagerato pare pure a noi, era un’opera di street artist, e se non ricordiamo male in Italia c’è ancora libertà di pensiero, di stampa e di espressione. Il writer, come pure molti esponenti politici, opinionisti e giornalisti ha solo voluto dire la sua, ovvero: lo Stato ha trattato con la mafia. Si può non essere d’accordo con questa teoria, prontamente smentita da Giorgia Meloni il giorno dell’arresto del boss, ma non si può essere d’accordo con la censura e limitazione della libertà di espressione.

Mi hanno sequestrato un iPad, i vestiti usati la notte del 22 gennaio, delle tag e degli stencil. Poi mi hanno portato in Questura. Non mi era mai successo” ha aggiunto l’artista, dicendosi stupito dell’accusa di vilipendio. “Non so neppure pronunciarla quella parola, mi sembra tutto assurdo. È stato anche chiesto al proprietario del muro dove era apparso lo stencil se voleva denunciarmi. Non ne ha voluto sapere“. Non ne ha voluto sapere perché forse ha avuto un po’ di buon senso, lo stesso che è mancato ai magistrati quando hanno deciso di indagare un artista che esprimeva un’idea.

Francesca Sabella. Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

La Spezia, artista scrive “Demilitarizzare il mondo”: condannato a 3 mesi di carcere. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 13 febbraio 2023.

Condannato a tre mesi di carcere (successivamente convertiti in pena pecuniaria di 3375 euro) per un’installazione artistica: questo è quanto accaduto a La Spezia all’artivista (acronimo delle parole artista e attivista) Alessandro Giannetti, a seguito di una performance messa in atto nel corso della mostra dedicata allo sperimentatore Giacomo Verde, ospitata dal Centro Arte Moderna e Contemporanea (CAMeC).

Durante la giornata inaugurale della mostra, infatti, alcuni collettivi di artisti hanno messo in atto una performance volta a criticare duramente la militarizzazione serrata della città di La Spezia. Si tratta di realtà quali il Collettivo Suppurazione e il Collettivo Dada Boom, che intendono investire nuovamente l’arte di una valenza politica, sfruttandola per la valorizzazione di tematiche “oscurate” dal mondo dell’informazione e dell’arte, tra le quali le lotte sociali, ambientali, di genere e delle minoranze culturali. Nel caso specifico, nella giornata di inaugurazione della mostra gli artisti hanno scritto su una parete  dedicata loro dal museo, con i pugni intrisi di vernice rossa lavabile, le parole “demilitarizzare La Spezia”.

«Noi non spieghiamo mai le performance prima di farle, non le diciamo mai a nessuno, ma abbiamo detto che su quel muro avremmo fatto un sacco di azioni e performance per una certa durata, ovvero dal 25 giugno al 2 settembre, periodo dedicato all’Artivismo» racconta a L’Indipendente Alessandro Giannetti. «Alla performance è seguita immediatamente la delibera del Comune di La Spezia e del CAMeC – nella quale si richiedeva “l’esclusione del Collettivo Dada Boom e di tutti i suoi componenti dai successivi eventi programmati nell’ambito della mostra” e il ripristino tempestivo “delle sale espositive così come consegnate prima dell’allestimento” – nonostante noi avessimo detto che avremmo ripristinato il muro al termine della performance». Secondo quanto riferito da Giannetti, nel prendere la propria decisione l’amministrazione si è appellata ad alcune macchie di vernice lavabile sul pavimento e allo «sporco che ha creato la performance». «Qui si entra nel discorso della libertà di espressione nei luoghi deputati all’arte: c’è ostracismo riguardo determinate tematiche e qua la curatela sta mettendo in mostra una faccia molto brutta, assimilabile al baronato» commenta Giannetti.

La decisione di cancellare l’opera in atto, e quindi la scritta che mandava un messaggio molto forte alla militarizzatissima La Spezia, e l’esclusione di uno dei collettivi organizzatori della mostra erano un atto di censura” hanno scritto i Collettivi in un comunicato. A seguito di tentativi di mediazione con l’amministrazione comunale non andati a buon fine, gli artisti hanno deciso di recarsi al museo il 17 luglio per ritirare tutte le proprie installazioni. In quell’occasione, Giannetti ha improvvisato una performance, scrivendo sul muro bianco con il proprio sangue le parole “demilitarizzare il mondo”. All’azione è seguito il decreto penale di condanna, poi convertito in pena pecuniaria, notificato all’artista lo scorso 2 febbraio. «Io, tramite i miei legali, ho già fatto opposizione al decreto di condanna, voglio potermi difendere in un regolare processo» fa sapere Giannetti.

«Ci tengo a precisare che questa arroganza non mi sconvolge per niente – dichiara Giannetti sui propri social – da anni insieme a numerose collettività mi spendo per la libertà di espressione e per portare nell’arte le tematiche che il dominio culturale del ceto politico guerrafondaio e delle istituzioni colluse cancellano, oscurano e censurano fino a reprimere qualsiasi spiraglio di pensiero critico. A rattristarmi è invece il fatto che questi episodi, di censura e oscurantismo prima, e di repressione poi, sono avvenuti in una mostra riguardante Giacomo Verde, che fino al suo ultimo respiro ha sempre preso le distanze, combattendo, da queste dinamiche di cui le istituzioni sono intrise. Istituzioni che hanno sempre ignorato e escluso Giacomo in vita e che ora che è morto, solo e povero, lavorano per appropriarsi del suo genio o meglio di ciò che riescono a capire del suo genio». [di Valeria Casolaro]

Crescono le minacce e le querele temerarie contro i giornalisti. ALBERTO SPAMPINATO, presidente dell'Osservatorio per l'informazione, su Il Domani il 27 dicembre 2022

Quest’anno le minacce sono aumentate, sono addirittura raddoppiate, secondo l’osservatorio Ossigeno per l’Informazione che in nove mesi ne ha contate 564 rispetto ai 288 dello stesso periodo dell’anno scorso.

Le minacce ai giornalisti sono dovute in massima parte a una legislazione italiana arcaica, punitiva, contestata perfino dalle Nazioni unite.

Da decenni il governo e il parlamento ne discutono, fingono di voler adeguare la legge e le procedure agli standard internazionali e poi lasciano tutto com’è.

Erano moltissime (384 nel 2021) le minacce ai giornalisti scomodi, ovvero a quei cronisti che hanno il torto di pubblicare anche notizie spiacevoli, che non piacciono alle persone di cui si parla. Proprio per questo l’Italia è da anni il paese dell’Unione europea con più cronisti minacciati.

Quest’anno le minacce sono aumentate, sono addirittura raddoppiate, secondo l’osservatorio Ossigeno per l’Informazione che in nove mesi ne ha contate 564 rispetto alle 288 dello stesso periodo dell’anno scorso. Il 100 per cento in più. L’osservatorio ha notato anche altri segnali poco rassicuranti: un aumento delle querele e delle cause per risarcimento intimidatorie e una diminuzione delle denunce dei minacciati. Rispetto alla necessità di intervenire per fermare questo massacro della libertà di stampa il 2022 appare come un altro anno sprecato.

Nei mesi scorsi i giornalisti italiani hanno subìto intimidazioni, minacce, aggressioni, danni, scritte murali ingiuriose, ondate di insulti sui social e soprattutto querele pretestuose e cause intimidatorie con richieste di danni spesso esagerate o inesistenti che li hanno costretti a spendere tempo e denaro, a dimostrare in tribunale di essere innocenti per evitare pesanti condanne, anche a pene detentive.

Perché molti querelati rischiano ancora di subire condanne in carcere (fino a sei anni, anche se hanno agito senza dolo specifico). Accade ancora, nonostante la Cassazione nel 2021 abbia ridotto i casi in cui si possono applicare pene detentive per diffamazione a mezzo stampa, invitando il parlamento a modificare il codice penale perché il carcere per diffamazione ha un effetto dissuasivo su tutti i giornalisti impegnati a raccontare fatti di cronaca.

Gli esempi si sprecano, sul sito di Ossigeno per l’Informazione per l’Informazione sono illustrati 34 diversi tipi di intimidazione e fanno vedere chi minaccia i cronisti: persone disposte a difendere con ogni mezzo l’immagine, la carriera o affari più o meno puliti.

La maggior parte sono imprenditori, amministratori pubblici, politici incoraggiati a querelare dal fatto che non rischiano nulla a gonfiare le accuse e comunque finisca il processo frenano per lungo tempo il giornalista scomodo e il suo giornale. Gli esempi concreti comprendono anche gli attacchi a questo giornale con esose richieste di danni da presunta diffamazione.

Le minacce ai giornalisti sono dovute in massima parte a una legislazione italiana arcaica, punitiva, contestata perfino dalle Nazioni unite. Bisognerebbe rispettare le prerogative dei giornalisti, filtrare le querele come in altri paesi, pretendere le prove della diffamazione a mezzo stampa e dei danni subiti, scoraggiare chi chiede risarcimenti esosi e gonfiati.

LO STALLO NORMATIVO

Da decenni il governo e il parlamento ne discutono, fingono di voler adeguare la legge e le procedure agli standard internazionali e poi lasciano tutto com’è. Lo hanno fatto anche nel 2022. Perché? Fa comodo a politici, imprenditori, amministratori pubblici, a coloro che hanno la coscienza sporca e vogliono che i giornali non parlino di loro. A forza di rinviare le cure, il problema si è aggravato. Si vede dai dati pubblicati oggi sulle intimidazioni e minacce rilevate da Ossigeno nei primi nove mesi del 2022.

Le azioni legali intimidatorie (cioè le querele e le cause per diffamazione a mezzo stampa temerarie e strumentali) guadagnano ulteriore terreno. Erano circa diecimila l’anno secondo gli ultimi dati e nel 90 per cento dei casi non ottenevano la condanna degli accusati.

Nell’ultimo anno sono aumentate notevolmente rispetto agli avvertimenti e alle aggressioni. E non si deve sottovalutare un altro aspetto: le denunce dei giornalisti minacciati sono diminuite sensibilmente, come ha segnalato il centro di Osservazione sulle minacce ai giornalisti che opera al ministero dell’Interno.

Questo centro tiene sotto osservazione proprio la parte violenta delle intimidazioni, quella di cui le forze dell’ordine vengono a conoscenza perché qualcuno si rivolge a loro per chiedere aiuto. Che cosa si nasconde dietro questo comportamento? Di solito paura, rassegnazione, assuefazione, diminuita fiducia negli interventi delle autorità. Quindi il calo delle denunce non è una buona notizia, è un ulteriore segnale di allarme.

Ossigeno ritiene che questi segnali siano presi nella dovuta considerazione innanzitutto dal mondo del giornalismo e che si riesca a convincere le forze politiche, il parlamento, il governo a varare finalmente le contromisure necessarie, quelle già oggetto di numerose proposte di legge. Occorre trovare il coraggio e la volontà politica per procedere, come si è fatto in altri paesi.

Ossigeno per l'Informazione ha fatto crollare il tabù che impediva di dire che in Italia si abusa della giustizia per imbavagliare i giornalisti. Quest’anno, con il sostegno dall’Unesco e dell’Ordine dei giornalisti vedi e ha erogato centinaia di azioni di supporto diretto a giornalisti difficoltà e ha fornito assistenza legale gratuita.

ALBERTO SPAMPINATO, presidente dell'Osservatorio per l'informazione, Giornalista, è il fondatore e il presidente di Ossigeno per l'informazione, l'osservatorio sui cronisti italiani minacciati e sulle notizie oscurate con la violenza. Ha iniziato la professione giornalistica nel 1973 al quotidiano L'Ora di Palermo

Anche i pm si possono criticare: il reporter Duda assolto a Roma. L’oltraggio «non sussiste»: il giornalista americano fu accusato per aver commentato l’operato di un magistrato dopo aver testimoniato in aula. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 26 dicembre 2022

Il giornalista statunitense Kelly Duda è stato assolto dal Tribunale di Roma con formula piena dall’accusa di oltraggio ad un magistrato in udienza perché “il fatto non costituisce reato”. Le tesi difensive dell’avvocato Andrea Di Pietro, dell’ufficio di assistenza legale gratuita di “Ossigeno per l’Informazione” e Media Defence, sono state accolte dal giudice Dionisio Pantano.

La vicenda giudiziaria del reporter originario dell’Arkansas è iniziata il 4 dicembre 2017, quando, recatosi a Napoli per testimoniare in un processo sullo scandalo degli emoderivati, al termine dell’udienza criticò il pubblico ministero. Una frase pronunciata in inglese da Duda mentre cercava di avvicinarsi al Sostituto procuratore Lucio Giuliano provocò le ire di quest’ultimo, il quale chiese alla polizia giudiziaria di fermare il giornalista e farsi consegnare il suo passaporto. Il pm si spinse oltre: chiese di trattenere Kelly Duda per il comportamento assunto. Le accuse però non furono ritenute idonee per una misura così restrittiva. E comunque da quel momento ebbe inizio per Duda la sua esperienza diretta con la giustizia italiana, conclusasi con l’assoluzione del Tribunale di Roma del 22 dicembre.

Kelly Duda ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale lo scandalo del sangue infetto utilizzato per produrre emoderivati. Il suo documentario risalente al 2006, intitolato “Factor 8” (il nome non è casuale e si riferisce ad un elemento essenziale per la coagulazione del sangue), ha portato alla luce la pericolosa pratica di utilizzare il sangue dei detenuti delle carceri statunitensi, malati di epatite B, per ottenere i prodotti destinati alle persone affette da emofilia. Per molti emofiliaci il contagio è stato inevitabile, così come il calvario di lunghe e costose cure. Molti di loro sono morti e in tanti paesi, Italia compresa, si sono aperti processi per fare luce sulle modalità di produzione degli emoderivati.

Duda si è confrontato con la nostra giustizia (si veda anche l’intervista esclusiva rilasciata al Dubbio il 6 maggio 2020) ed è stato ascoltato nel 2017 davanti al Tribunale di Napoli come testimone nel processo contro Duilio Poggiolini, ex capo del dipartimento farmaceutico del ministero della Sanità, ed alcuni rappresentanti del Gruppo Marcucci. Il procedimento, che tra numerose traversie è durato ben ventitré anni, si è concluso con l’assoluzione di Poggiolini e di nove dirigenti e tecnici del gruppo farmaceutico Marcucci, tutti accusati di omicidio colposo plurimo per via delle morti che sarebbero state causate da trasfusioni di sangue infetto su cui né le case farmaceutiche né il ministero competente avrebbero vigilato a sufficienza.

Nel documentario realizzato da Duda fu intervistato il medico Francis Henderson, impegnato nella raccolta di sangue in un penitenziario dell’Arkansas, che nel 1982 si recò in Italia per sensibilizzare alcuni imprenditori del settore degli emoderivati sulla necessità di richiamare i prodotti con sangue di cittadini americani. Le inchieste del giornalista americano hanno permesso di accendere negli anni scorsi i riflettori su uno scandalo tenuto nascosto per troppo tempo da alcune aziende farmaceutiche.

Le difficoltà incontrate durante le riprese del documentario sullo scandalo del sangue infetto non sono state poche. Duda è originario di Little Rock, nell’Arkansas, e ha fatto i conti, da un lato, con l’ostilità delle aziende farmaceutiche tirate in ballo e, dall’altro, con una indifferenza costruita a tavolino per ostacolare la diffusione delle notizie. Una campagna stampa, a tratti esplicitamente ostile e a tratti sussurrata, contro il suo lavoro. Ma non solo questo. Kelly Duda ha subito controlli personali, pedinamenti, atti intimidatori. La sua casa è stata distrutta. Negli Stati Uniti non ci sono state condanne penali per i responsabili della diffusione di farmaci prodotti con sangue infetto. Si sono avuti, invece, molti procedimenti in ambito civile conclusisi con successo per i contagiati e con una serie di risarcimenti danni.

In merito alla sentenza del Tribunale di Roma di pochi giorni fa, l’avvocato Andrea Di Pietro sottolinea alcuni elementi della vicenda giudiziaria.

«Dopo un processo del genere – dice -, con un esito così positivo, non posso che esprimere la mia piena soddisfazione professionale e gioia per il mio assistito Kelly Duda, che in questi anni ha patito non poco il peso di questa accusa di oltraggio. Non era semplice per lui confrontarsi con una cultura giuridica molto diversa da quella del suo paese. Voglio anche esprimere la mia stima per il Giudice, il dottor Pantano del Tribunale di Roma, per aver deciso con equidistanza, senza farsi condizionare minimamente dalle comprensibili ragioni di colleganza con la persona offesa, anche lui magistrato».

Kelly Duda esprime parole di ringraziamento per il suo difensore e mette in guardia rispetto a certi tentativi di imbavagliare i giornalisti. «Con la sentenza del Tribunale di Roma – commenta - è fallito l'abuso del sistema giudiziario per attaccare la libertà di espressione. Grazie al mio team legale di Ossigeno per l'informazione e al meraviglioso lavoro del mio avvocato, Andrea Di Pietro, sono stato dichiarato non colpevole rispetto a tutte le accuse. Vorrei anche ringraziare Media Defense e Free Press Unlimited. Senza l'aiuto di queste importanti organizzazioni per i diritti dei giornalisti, non so cosa mi sarebbe successo. Inizialmente, ho dovuto affrontare due processi penali. Rischiavo una condanna a tre anni di carcere per reati che non ho commesso. La sentenza è stata giusta e sono grato al giudice per la sua decisione». Il reporter riflette pure sulle difficoltà che affrontano ogni giorno gli operatori dell’informazione. «Oggi – evidenzia -, in tutto il mondo, i giornalisti sono sempre più sotto attacco solo perché fanno il loro lavoro. In questo momento, 21 giornalisti italiani sono sotto sorveglianza 24 ore su 24, perché minacciati di morte. Nel mio caso, un articolo del Codice penale, il 343 (Oltraggio a un magistrato in udienza, ndr), è stato usato contro di me nel tentativo di impedirmi di parlare. La mia esperienza mi consente di esortare il legislatore italiano a rivedere alcune cose del Codice penale. Li esorto anche a depenalizzare la diffamazione. L'uso disinvolto della diffamazione e delle Slapp (Strategic lawsuit against public participation, ndr), per mettere a tacere le voci critiche e sottoporre a controllo anche la stampa, sono una minaccia diretta alla libertà e alla giustizia per tutti. Non ci può essere libertà senza libertà di stampa e libertà di parola».

Il caso di Maurizio Costanzo e i colpi al diritto di critica. Storia di Luciano Fontana su Il Corriere della Sera il 18 Dicembre 2022.  

Caro direttore, non tutte le democrazie muoiono con marce su Roma. Alcune hanno morti lente con l’impercettibile erosione delle norme democratiche nell’indifferenza generale. L’erosione era percettibile leggendo nei giorni scorsi sul Corriere la notizia della condanna di Maurizio Costanzo a un anno di carcere (con pena sospesa) e 40.000€ di multa per aver «diffamato» un magistrato. La «diffamazione» consisterebbe nell’aver complimentato sarcasticamente il magistrato che aveva deciso di lasciare in libertà l’uomo che avrebbe poi sfregiato il volto di Gessica Notaro con dell’acido. La sentenza è preoccupante per le sue implicazioni per il diritto di critica e la libertà di stampa. È dovere della stampa e dei giornalisti monitorare i detentori del potere — giudiziario incluso — e criticarli quando falliscono nei loro incarichi, come in questo caso nella protezione dei cittadini. Non vedo come sarà possibile svolgere tale dovere se criticare un magistrato vuol dire rischiare la prigione o la bancarotta. Come impediamo che questa sentenza diventi la nuova norma ? Come fermiamo l’erosione del diritto di critica? Emmanuel Carlo Mahieux

Caro signor Mahieux, Ha ragione a preoccuparsi e dovremmo farlo tutti, non solo noi giornalisti. Le querele sono spesso diventate uno strumento non per ottenere giustizia rispetto a un torto subito ma per intimidire ed esercitare pressioni. Le sentenze nei tribunali sono spesso molto variabili e la certezza del diritto alcune volte è aleatoria. Una situazione che spinge a cattivi pensieri: quando le cause riguardano poteri costituiti le difficoltà tendono a moltiplicarsi. Nel caso di Maurizio Costanzo spero che ci sia un «giudice a Berlino» nei gradi successivi del processo e che possa essere ripristinato il diritto di dire che siamo sconcertati se un uomo violento viene rimesso in libertà e poi sfregia una donna. In generale dovrebbe essere un meccanismo stringente che blocchi le querele temerarie e senza fondamento. Perché se le critiche diventano automaticamente diffamazione i diritti di chi scrive e di chi legge, e forse anche la democrazia, sono in grave pericolo.

LIBERTÀ DI INFORMAZIONE. “Troppe cause contro i giornalisti”. L’Unesco: depenalizzare la diffamazione. Redazione il 14 Dicembre 2022 su l’Espresso.

Per l’Agenzia delle Nazioni unite è in corso una preoccupante escalation punitiva che ricalca il trend di liti temerarie. «Ignorate le raccomandazioni internazionali sul diritto all’informazione». Il rapporto pubblicato in esclusiva da Ossigeno

Aumenta l’abuso di leggi che producono querele che comprimono la libertà di espressione. Lo certifica una ricerca dell’Unesco, pubblicata in esclusiva da Ossigeno per l’informazione (www.ossigeno.it, con i commenti di studiosi e esperti) che dal suo osservatorio monitora l’uso distorto e talvolta intimidatorio di cause penali e civili contro i mezzi di informazione e conferma il trend certificato dall’organismo Onu per l'educazione, la scienza e la cultura.

Il dato è che non solo in Italia, ma praticamente ovunque nel mondo «si fa un uso scorretto del sistema giudiziario», instaurando contenziosi che hanno il solo effetto di inibire il libero esercizio del diritto di cronaca e la libertà di espressione.

Il dossier Unesco, pubblicato nella collana “World Trends Report on Freedom of Expression and Media Development” denuncia: anziché adeguare le leggi agli standard richiesti dalle organizzazioni internazionali che stilano periodicamente le classifiche sulla librertà di stampa, si compiono significativi passi contrari, ricorrendo a modifiche legislative che autorizzano «procedure punitive».

L’Unesco entra nel merito citando esplicitamente la diffamazione che, configurata come reato nell’80 per cento dei Paesi, apre le porte del carcere ai giornalisti. In questo, l’agenzia delle Nazioni unite individua non solo un limite all’autonomia degli operatori dell’informazione ma una minaccia alla difesa dei diritti umani. E per dare una dimensione del fenomeno, la diffamazione come reato ha conosciuto una significativa espansione in 44 Paesi. Elevando così a 160, 15 in Europa, il numero complessivo degli Stati in cui vige questa norma.

Per converso, proliferano cause e querele temerarie per diffamazione a mezzo stampa e per altri reati utilizzate come «schiaffi» a chi pubblica notizie scomode.

La ricerca internazionale indica anche una strada per ricondurre a equilibrio il sistema: governi, giornali, giornalisti, editori, difensori dei diritti devono prestare maggiore ascolto alle raccomandazioni degli organismi sovranazionali. In definitiva, depenalizzando la diffamazione, ovvero «a regolarla con il codice civile e a punirla senza il carcere».

Un percorso vecchio di almeno un decennio che ha segnato improvvisamente una battuta d’arresto se non una vera inversione di tendenza dal momento che in Europa solo dieci Paesi hanno abolito tutte le disposizioni generali contro la diffamazione e l'insulto e altri quattro hanno attuato una parziale depenalizzazione.

«In questi anni, diversi Paesi hanno imboccato la strada opposta: hanno reintrodotto o inasprito le norme sulla diffamazione semplice e a mezzo stampa e sull’ingiuria, hanno promulgato nuove leggi per rafforzare la sicurezza informatica e a combattere le "notizie false" e l'incitamento all'odio, hanno visto aumentare le cause civili per diffamazione, di solito preferibili, ma spesso tali da “turbare” la libertà di espressione e il lavoro dei giornali e dei giornalisti, per le richieste di risarcimento sproporzionate e i costi legali proibitivi», sintetizza Ossigeno.

E la ricerca Unesco individua anche nuove forme di compressione del diritto d’espressione legate al cosiddetto "forum shopping", ovvero la pratica di selezionare il tribunale in cui intentare un'azione legale.

In sintesi: la diffamazione è ancora un reato in 39 dei 47 Paesi africani. In Asia e Pacifico, 38 Stati su 44 mantengono il reato, sei l'hanno abrogato e uno ne ha proposto l'abrogazione parziale. Nell'Europa centrale e orientale la maggior parte dei 15 Paesi che prevedono la diffamazione come reato è previsto il carcere. Dieci Paesi hanno abolito tutte le disposizioni generali contro la diffamazione a mezzo stampa e l'ingiuria e altri quattro hanno attuato una parziale depenalizzazione.

I reati di diffamazione persistono in 29 dei 33 Stati dell'America Latina e dei Caraibi e continuano ad essere come formidabile arma contro giornalisti e blogger.

In Europa occidentale e Nord America, la diffamazione penale rimane negli statuti di 20 dei 25 Stati, la maggior parte mantenendo le sanzioni detentive. Tra il 2003 e il 2018, cinque Paesi hanno abolito le leggi penali sulla diffamazione a mezzo stampa e l'ingiuria e un altro le ha parzialmente abrogate.

«È un documento autorevole. Fra l’altro, fa sapere che i problemi italiani documentati da tempo da Ossigeno, quelli che hanno conferito all’Italia il titolo di paese europeo con più giornalisti minacciati, in realtà si manifestano in molti altri paesi, anche se non sono documentati pubblicamente come da noi. Anche altri aspetti fanno pensare all’Italia. Ad esempio il nuovo appello alla depenalizzazione della diffamazione, considerata da Unesco il primo passo da fare e invece per le forze politiche italiane è il male assoluto da evitare, un tabù. Un fatto su cui riflettere», commenta il presidente di Ossigeno.

Il processo a Saviano e l'attacco a "Ristretti orizzonti". Libertà di parola per Roberto Saviano e per i detenuti al 41bis. Alberto Cisterna su Il Riformista il 20 Novembre 2022

È un pendolo curioso quello che oscilla tra la rivendicazione di un famoso e prestigioso scrittore anticamorra di poter esprimere liberamente il proprio pensiero e la richiesta, proveniente da un’associazione privata e diretta alla polizia antimafia, di accendere un faro sulla gestione di una pubblicazione curata da detenuti. Roberto Saviano viaggia verso un processo penale con l’accusa di aver pesantemente insultato una donna in politica; Ristretti Orizzonti viene tacciata di essere una sorta di enclave mediatica finita in mano a carcerati di alto criminale e adoperata per veicolare opinioni contro l’ergastolo ostativo e i rigori sulle misure alternative.

Lo scrittore rivendica, dal suo punto di vista non senza un qualche fondamento, la propria libertà di poter esprimere giudizi anche aspri su chi accetta di esporsi, nell’agone politico, alle opinioni dei giornalisti. La rivista, c’è da immaginare, parta da un punto di vista quasi simmetrico: il carcere può e deve limitare la libertà personale, ma da nessuna parte è scritto che possa limitare la libertà di opinione e la manifestazione pubblica delle proprie idee. Non è necessario scorrere in questi giorni in tv il cupo ricordo del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro per ricordare la piena libertà che gli irriducibili delle Br o di Prima Linea, da detenuti, avevano di fare proclami, interventi e leggere comunicati pur violenti nei toni, se non addirittura istigatori. Lo Stato ha il pieno diritto di recludere chi ha commesso reati, ma non è mai giunto a vietare di esprimere opinioni su temi generali e questioni di interesse collettivo.

Certo esiste la censura sulla corrispondenza, i colloqui con i parenti possono essere intercettati, persino lo scambio epistolare con i difensori non sfuggiva a controllo per i detenuti a 41-bis e c’è voluta la Corte costituzionale – con parole esemplari – per ricordare che le esigenze di sicurezza non possono spingersi sino a ficcare il naso nelle comunicazioni tra i carcerati a regime duro e i loro avvocati (sentenza 18 del 2022). Non è neppure da discutere che legittimamente dei cittadini si sentano minacciati dalla gestione di una rivista curata da detenuti; c’è chi ha paura degli immigrati, chi dei fantasmi, che dei marziani, chi dei vaccini, chi degli acari. Ciascuno ha diritto di esporre all’autorità pubblica tutte le proprie preoccupazioni. Lo Stato è lì per questo. Tuttavia, occorre stare attenti a non creare distanze siderali tra la libertà sacrosanta che compete alla stampa, e alla cultura in generale, e la libertà di cui ciascun cittadino non può essere espropriato anche se detenuto. La decisione della Consulta di rinviare alla Corte di cassazione il procedimento in cui doveva decidere della legittimità dell’ergastolo ostativo (e non solo) è probabilmente ineccepibile, soprattutto in presenza di una norma approvata con un decreto legge che ha appena iniziato il suo iter parlamentare. Ma il problema resta sul tappeto.

Non si pretende che la collaborazione con la giustizia sia l’unica via per accedere ai benefici penitenziari, ma il legislatore ha posto una serie di paletti che renderanno davvero ardua la mitigazione reale del regime duro. Ci può stare, sia chiaro, il Parlamento deciderà quale sia la strada migliore. Ma nel frattempo nessuno può pensare di silenziare (o peggio di censurare) la voce dei detenuti su queste questioni. È importante sapere quali siano le proposte che vengono da quel mondo frastagliato, disomogeneo, frastornato e anche disperato che sta sotto i rigori del carcere duro, del cosiddetto “fine pena mai”. Lo Stato non ha alcun interesse ad accreditare un gruppo di detenuti che hanno rifiutato la collaborazione pur dopo decenni di carcere di massimo rigore come un manipolo di eroici “irriducibili”. Perché questa è la percezione che – all’esterno delle mura, fuori dalle carceri, nelle periferie palermitane o napoletane o nei paesi dirupati dell’Aspromonte – si finirà per avere di quei carcerati tra le giovani leve della criminalità mafiosa.

L’intransigenza penitenziaria sta lentamente trasformando un gruppo di violenti mafiosi in una sorta di élite carceraria, di supereroi delle celle che non si sono piegati alla durezza della detenzione e al “ricatto” della collaborazione di giustizia. Un gioco pericoloso e perverso in cui la legge ha il dovere di porre nuove condizioni e indicare nuove strade per stanare quella parte della popolazione carceraria dalla “nobile” enclave in cui si è trincerata e in cui è stata anche sospinta dai furori della pena. Una via potrebbe essere quella di invitarli a dichiararsi vinti una volta per tutte; ad ammettere di aver bruciato le proprie vite nel falò della violenza e della sopraffazione; di dichiararsi sconfitti per la tenace lotta che lo Stato gli ha fatto facendoli condannare e braccandoli nei loro nascondigli. La resa come percorso di rieducazione e come messaggio definitivo alle giovani generazioni che possono cadere nel medesimo errore e perdersi nella stessa spirale di dolore.

Una terza via tra un ergastolo ostativo chiaramente incostituzionale e una prova di cambiamento difficile, se non impossibile come quella tracciata dal nuovo decreto legge. La conversione del decreto avverrà senza modifica alcuna probabilmente. Nessuno è disposto a farsi carico di una posizione diversa da quella dell’intransigenza a tutti i costi. Eppure. Eppure non si può negare che la voce proveniente dalle celle più oscure e severe, dagli anfratti più duri del pianeta carcerario debba essere ascoltata e compresa perché lo Stato è il primo ad avere interesse a una vera rieducazione, a un riscatto e a una rinascita. Che parlino e che scrivano pure, finché lo fanno riconoscono che la Repubblica esiste e che ha una dignità che nessuno delitto può scalfire. Il silenzio è la madre di ogni odio e il crogiolo di ogni cattiveria. Alberto Cisterna

Teleguerra.

Ivano Tolettini su L’Identità il 30 Dicembre 2022 

È il potere della libertà di stampa, bellezza! Succede quando il media, in questo caso televisivo, è usato anche come una clava al limite ritorsiva, per una campagna faziosa e ostile, ma ugualmente legittima perché non viene calpestato il codice penale ed è rispettosa del diritto di cronaca, disciplinato dall’articolo 21 della Costituzione e dall’articolo 10 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. È la storia del più importante editore televisivo privato veneto, Giovanni Jannacopulos (nella foto), che quando capisce che il proprio peso politico, inteso come la capacità di condizionare le scelte sanitarie nell’Alto Vicentino all’ospedale della “sua” Bassano del Grappa, non sortisce più gli effetti sperati perché il direttore generale dell’Ulss 7, Carlo Bramezza, è sordo alle sue richieste, gli scatena contro una campagna mediatica con Rete Veneta e Telenordest. In 14 mesi di “battaglia” la redazione confeziona la bellezza di 400 servizi assai critici, una media di 2 al giorno, per mettere pressione sui vertici politici locali e regionali – come il governatore Luca Zaia al quale Jannacopulos fa le sue rimostranze per chiedere la rimozione del dg -, ma ugualmente non è un abuso del diritto. Perché i servizi giornalistici rivestono un indubbio interesse pubblico.

RIESAME

Sono i giudici del tribunale del Riesame di Venezia ad annullare il pesante provvedimento cautelare del gip di Vicenza dell’11 ottobre scorso con cui impediva per dodici mesi a Jannacopulos, 81 anni, di esercitare l’attività di editore. La vicenda giudiziaria travalica i confini veneti perché in ballo ci sono diritti fondamentali in una democrazia come la libertà di stampa. Jannacopulos, di origini greche ma da una vita in Veneto, imprenditore televisivo di successo, finisce sotto inchiesta dopo che Bramezza si rivolge alla magistratura. L’ipotesi della Procura di Vicenza è la minaccia indiretta aggravata commessa dal patron, presidente anche di una onlus che fa beneficenza all’ospedale, per costringere il manager pubblico a compiere atti contrari ai propri doveri. Come? Mediante “servizi televisivi denigratori contro Bramezza e la sua gestione” e nel dire al segretario del dg che se le sue aspettative non fossero state esaudite “avrebbe provveduto ad iniziare gli attacchi”. Circostanza che avvenne. Per il gip il quadro indiziario è pesante perché oltre alle testimonianze di Bramezza e del collaboratore Volpato ci sono le intercettazioni telefoniche della Guardia di Finanza. Di qui la sospensione cautelare.

CRONACA E CRITICA

L’avvocato Maurizio Paniz, che difende l’editore, presenta subito ricorso contro la misura interdittiva sostenendo, tra le altre cose, che i servizi televisivi poggiano su un indubbio interesse pubblico e non hanno carattere diffamatorio, rientrando nel pieno esercizio del diritto di critica giornalistica. Il nocciolo della questione, al di là dei rilievi formali che hanno la loro importanza ma che tralasciamo perché al lettore interessano meno, è proprio questo. Che cosa riguarda il profluvio di servizi Tv? La guida di automediche da parte degli infermieri; l’efficienza della gestione del punto tamponi dell’ospedale di Bassano durante la terza ondata della pandemia nell’autunno 2021 e la chiusura del reparto di senologia nello stesso nosocomio. Che i servizi messi in onda siano “faziosi e ostili, ma non diffamatori” lo scrive il collegio presieduto da Licia Consuelo Marino; che non vi sia bilanciamento tra le posizioni col diritto di replica è altrettanto vero; che Jannacopulos chieda per la cardiologa Maria Stella Baccilieri più autonomia e indipendenza funzionale rispetto al primario Fabio Chirillo e per il collega Federico Simonetto un’aspettativa di un anno per avere vinto una borsa di studio alla Sorbona di Parigi è altrettanto fondato. Piuttosto, scrivono i giudici, la linea editoriale adottata è “una condotta ritorsiva di Jannacopulos per avere visto disattese le sue richieste”. Anche il governatore Zaia quando l’editore lo chiama per chiedergli di rimuovere Bramezza gli replica un secco rifiuto. Tra l’altro, i giornalisti delle due reti televisive vengono platealmente esclusi dalla conferenza stampa di fine 2021 aprendo un conflitto. Insomma, questa battaglia televisiva è configurabile come un reato? I giudici d’appello sposano la linea dell’avvocato Paniz perché “è del tutto evidente l’interesse pubblico alle notizie trasmesse trattandosi di questioni attinenti alla gestione dell’Ulss 7 Pedemontana ed a questioni relative al diritto alla salute”. Certo, ci dev’essere un equilibrio tra libertà di stampa e di critica giornalistica e la protezione della reputazione degli individui contro la diffamazione sulla quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è espressa. L’interesse pubblico, non certo quello di sputtanare le persone – cosa che le due reti private non fanno, anche quando parlano dei debiti milionari di Bramezza allorché gestì una società insolvente -, è prevalente nell’ambito del diritto alla salute. Il giornalismo, scrive il Riesame, è pieno di campagne mediatiche ostili ai personaggi pubblici. Ciò è consentito quando i fatti narrati non sono disgiunti dalla realtà. “Le accuse infamanti sono state scardinate”, afferma deciso Paniz. Faziosa e ostile, ma è la liberta di stampa, bellezza!

Politicamente corretto.

Estratto dell'articolo di leggo.it domenica 12 novembre 2023.

Alda D'Eusanio non sopporta «i moralisti e i bacchettoni. Quelli che vogliono fare i maestrini». La conduttrice, in un'intervista al quotidiano Libero, se la prende con Pierluigi Diaco, con cui ha avuto un acceso dibattito qualche giorno fa nel pomeriggio di "BellaMa" su Rai 2. 

Ma cosa è successo? «All’interno di un ragionamento che si faceva sulle ragazze di facili costumi, ho usato i termini “mignotta” e “puttana”». Parole che non sono piaciute al conduttore che l'ha ripresa più volte. «Diaco - racconta la giornalista al quotidiano Libero - mi ha subito ripresa dicendo che non accettava che all’interno della sua trasmissione, in una rete del servizio pubblico, venissero usati termini così volgari e parolacce».

Ma Alda non ha accettato di buon grado il rimprovero: «Ho ribadito quello che penso da sempre, ovvero che la volgarità o l’offesa stanno nell’intento di come uno pronuncia la parola e non nella parola stessa. Un termine usato in contesti diversi, con toni diversi, assume significati completamente diversi. Non sopporto quando fanno i bacchettoni».

Poi ancora contro Diaco e la difesa del sevizio pubblico: «Nel servizio pubblico non si dicono parolacce ma non si dovrebbero neppure dire stronzate.

La buona educazione non dovrebbe aleggiare solo nel servizio pubblico ma ovunque. Io mi reputo una persona educata che può usare espressioni colorite ma senza l’intenzione di offendere».

E a proposito di Rai, Alda D'Eusanio è stata vittima di censura: «Ho subito censure di ogni genere perché sono una persona libera e dico sempre quello che penso. Non sono nota per essere una che dice parolacce. In Rai sono stata tagliata fuori per tre anni […]

Censurare la lingua non cambia la realtà delle cose. Gli esponenti del politicamente corretto usano le parole come un manganello, per tappare la bocca a chi dissente dalle loro idee. Alessandro Gnocchi il 28 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Diceva Robert Hughes, il primo a denunciare il politicamente corretto, che la battaglia per l'eliminazione della parola «frocio» aveva ottenuto un grande (si fa per dire) risultato: d'ora in avanti, i teppisti avrebbero menato i gay. Esempio paradossale ma calzante: edulcorare il linguaggio non modifica la realtà. Naturalmente frocio è in effetti una parola offensiva, meglio usarne altre. Ad esempio, Paolo Isotta, grande musicologo e caro amico, preferiva farsi chiamare «ricchione» come si usava nella sua città (Napoli). Ma lui aveva il senso dell'umorismo.

Scherzi a parte, la gentilezza, tra persone educate, non dà mai fastidio, e anche un minimo di ipocrisia spesso è utile a smussare gli angoli. Però siamo andati oltre, come si evince dal saggio di Vittorio Feltri, intitolato "Fascisti della parola. Da negro a vecchio, da frocio a zingaro, tutte le parole che il politically correct ci ha tolto di bocca" (in uscita martedì 31 per Rizzoli, pagg. 200, euro 18). Perché gli esponenti del politicamente corretto si comportano, come spiega il titolo, da fascisti della parola? Perché usano il linguaggio come un manganello per tappare la bocca a chi dissente dalle loro idee. Se hai dubbi sull'immigrazione clandestina, anzi, se usi la parola clandestino, sei un mezzo criminale e devi stare zitto.

Il direttore, per inciso: una delle migliori penne italiane, si intende di parole. Ricordiamo un episodio da «redazione». Qualche anno fa, ci furono gli scontri in Calabria tra clandestini sfruttati e caporali sfruttatori. Feltri titolò così la prima pagina del Giornale: «Ma questa volta... hanno ragione i negri». L'editoriale era una difesa a spada tratta del diritto dei clandestini di non essere trattati come animali. Si notava, inoltre, che era una penosa contraddizione fare entrare chiunque in Italia, per dargli una seconda possibilità, e poi mandarlo a morire sotto il sole estivo, raccogliendo pomodori. Quel giorno, Feltri fu profetico: «Vedrete, disse, che tutti si fisseranno sulla parola negri senza nemmeno considerare che stiamo prendendo apertamente le loro difese». E andò proprio così, addirittura scoppiò un putiferio. Va bene stare attenti alle parole, ma bisogna anche capirle.

Da clandestino a patria: dizionario delle parole vietate dalla sinistra ipocrita e tragicomica. Ecco un estratto del nuovo saggio di Vittorio Feltri In cui racconta come i sacerdoti del politicamente corretto abbiano vinto: ormai termini dal valore giuridico, affettivo e identitario sono condannati come «razzisti» e «fascisti». Vittorio Feltri il 28 Ottobre 2023 su Il Giornale.

A volte quasi mi persuado che la guerra al dizionario della nostra ricca lingua sia stata vinta dai sacerdoti del politically correct e che per noi, poveri tapini, non ci sia verso: siamo stati sconfitti e ci tocca adeguarci al nuovo misero lessico o tacere. Dovremmo rassegnarci. Oppure insorgere con irriverenza e menefreghismo, ossia senza temere l'inevitabile condanna sociale. Sarebbe opportuno, ai fini di questa rivoluzione, sdoganare quei sostantivi e aggettivi oggigiorno censurati, manovrando i quali, soprattutto noi giornalisti, rischiamo di essere perseguiti e pure perseguitati. Mi riferisco, ad esempio, al termine clandestino.

Nell'ottobre del 2019 Andrea Manfrin, giornalista e consigliere regionale nonché capogruppo leghista della Valle d'Aosta, ha digitato tale termine riferendosi ai migranti che raggiungono illegalmente l'Italia, e il Consiglio di disciplina territoriale dell'Ordine dei giornalisti della Valle d'Aosta gli ha comminato la pena di tre mesi di sospensione dall'esercizio della professione, in quanto egli avrebbe violato la Carta di Roma, recepita nel testo unico dei doveri del giornalista, secondo cui questi «nei confronti delle persone straniere adotta termini giuridicamente appropriati» evitando «la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte riguardo a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti». Tuttavia, clandestino non è voce offensiva. Si legge sul vocabolario: «Clandestino è colui che si trova o opera in una situazione irregolare, senza l'approvazione dell'autorità o contro il divieto delle leggi vigenti». Quindi, Manfrin era ricorso a una voce della lingua italiana priva di intenzione denigratoria ma che descrive la condizione giuridica di chi, in violazione delle norme in vigore, varca le frontiere di uno Stato scegliendo vie non legali che gli consentano di aggirare ogni regola. Del resto, non esiste alcuna norma che autorizzi i cittadini di altri Paesi a mettersi in mare per trasferirsi in Italia, addirittura senza documenti. Di contro, semmai esiste il reato di clandestinità, cioè il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, ed esistono altresì i clandestini, che dalle nostre parti sono parecchi. Peraltro, preme sottolineare che il post incriminato in quanto contenente la parola vietata clandestino era stato pubblicato da Manfrin su un profilo Facebook personale e non in un articolo, quindi non si capisce perché l'Ordine sia intervenuto decidendo addirittura di punire il consigliere, forse colpevole di essere leghista.

È grave sintomo di superficialità guerreggiare contro le parole. Ed è disonesto strumentalizzarle per sguazzare in un vittimismo bieco e inutile, atteggiamento che appare molto in voga negli ultimi anni, o per compiere attacchi ideologici nei confronti di chi non riusciamo a digerire. La lingua non è qualcosa di statico, bensì di vitale: essa è organismo che muta in continuazione. Tuttavia, adesso è il politicamente corretto a determinare una distinzione manichea tra ciò che è ammesso proferire e ciò che è severamente vietato pronunciare, pena lo stigma (a vita) di intollerante. Nell'epoca della libertà tracimata in dissolutezza e libertinaggio possiamo essere disinvolti nei costumi ma guai a esserlo tanto più se rivesti un ruolo politico o sei iscritto all'Ordine dei giornalisti nell'uso del vocabolario, il quale richiede l'osservanza di rigide norme sociali, stando bene attenti a non inciampare in aggettivi o sostantivi che fanno perdere la faccia e danneggiano la reputazione. Si dia il caso appunto che coloro i quali adoperano la parola clandestino, nonostante si tratti di un termine prettamente giuridico, siano per ciò stesso fascisti, razzisti, estremisti di destra, ignoranti e incivili.

La guerra al dizionario si fa sempre più aspra. E questo è sintomo della nostra superficialità nonché di un perbenismo di facciata, sterile, finto. Ecco perché non si tratta di un progresso. Ci siamo convinti che le sillabe possano veicolare dei giudizi morali e non semplicemente indicare o descrivere qualcosa. Ecco dunque che dire clandestino equivale, almeno per i seguaci del politicamente corretto, a esprimere una valutazione personale negativa, di inferiorità, riferita pure all'origine etnica, dal momento che clandestino non può essere un italiano o un altro cittadino europeo e lo è soprattutto chi giunge dal continente africano, ovvero chi è di colore. È una schizofrenia, questa pretesa di epurare il linguaggio da quelle voci a cui da sempre ricorriamo e alle quali non abbiamo mai attribuito alcuna funzione insultante. Dunque clandestino non si può più scrivere, eppure tale vocabolo descrive efficacemente una condizione giuridica e non è mica una ingiuria. Siccome adesso abbiamo tanti neri in Italia è bene non chiamarli negri e siccome abbiamo tanti immigrati illegali è bene non chiamarli clandestini. Peccato che codesti assunti siano privi di logicità e si fondino su considerazioni fondamentalmente di tipo razzistico. Noi che adoperiamo il termine clandestino intendiamo con chiarezza e incisività descrivere lo status della persona a cui ci riferiamo, ossia indicare che tale persona, la quale non ci permettiamo di giudicare dal punto di vista morale, semplicemente si è insinuata e insediata in maniera non regolare, quindi illegale, sul territorio dello Stato italiano, cioè clandestinamente. E la constatazione, così come l'affermazione, di questo stato di fatto non può rappresentare una discriminazione o un delitto. Essa costituisce una mera e oggettiva informazione priva di qualsiasi contenuto valoriale o giudicante.

Ecco la ragione per la quale è inaccettabile che un giornalista venga condannato dall'Ordine che dovrebbe tutelarlo in quanto ha fatto ricorso alla parola clandestino. Il cronista non è scivolato in alcun errore o delitto, essendosi limitato a spiegare con poche sillabe una situazione de facto. Per quanto mi riguarda, io seguiterò ad adoperare codesto termine proprio del lessico giurisprudenziale, con la consapevolezza di non arrecare danno né ai clandestini né alla lingua italiana. Dannoso sarebbe semmai affermare che un clandestino non sia clandestino, ovvero negare la verità soltanto perché ci appare poco carina. La verità non deve essere carina, piuttosto meglio che faccia schifo. Se ci tocca renderla graziosa, la trasformiamo in menzogna.

Oggigiorno se dichiari di coltivare il valore della patria, vieni guardato come se fossi Matteo Messina Denaro, o anche con maggiore disgusto e disprezzo. Ami la patria? Benissimo, sei un criminale. Punto. Patria è una parolaccia. Patriota un insulto. Patriottismo, invece, una sorta di spirito fascista o nazista, sebbene il concetto di patria sia molto antico, ovvero di matrice greca, e non certamente ascrivibile alla nascita dei totalitarismi, semmai alla nascita della democrazia. Insomma, ci ritroveremo presto a parlare di nascosto di patria, dichiarandole amore, come i carbonari prima dell'Unità d'Italia. Patria è padre, ma anche madre, soprattutto nella lingua italiana, infatti si dice madrepatria. E la mamma è il nostro primo amore, per tutti, maschi e femmine, colei che non ci tradirebbe mai. Quindi, patria è famiglia. E si sa che le famiglie, purtroppo, possono pure fare tanto schifo, i parenti ci stanno spesso sulle scatole, fratelli, sorelle, cugini, zii, persino i genitori, o i figli, chi di noi non vorrebbe talvolta mandarli al diavolo e quanti di noi lo hanno fatto o lo fanno non di rado e volentieri? Eppure non possiamo fare a meno di amarli, di perdonarli, di tornare da loro, di rincasare. Così facciamo nei confronti della patria, la denigriamo, ce ne lamentiamo, poi andiamo in vacanza negli Stati Uniti, ci mettono davanti la pizza con l'ananas e rimpiangiamo le lasagne della nonna, divorate nel corso di quei lunghi e tediosi e chiassosi pranzi domenicali quando avremmo tanto voluto levarci dalle balle per non subire ancora i familiari di primo, secondo e terzo grado. E all'improvviso ci sentiamo più italiani che mai e più fieri che mai di esserlo.

Essendo quello di patria un concetto assolutamente politico riferito a una entità statale, ossia a una Nazione, a uno Stato con precisi confini, un popolo, una sovranità, va da sé che ai progressisti globalisti genera una sorta di voltastomaco. Se dici patria si rivoltano contro di te, pronti ad attaccare come bestie rabbiose, in quanto patria rimanda a un noi, popolo, che esclude un loro, immigrati, a dei limiti geopolitici che non possono essere travalicati o annullati, a un popolo che non è quella comunità globale, tutta omologata e appiattita, che vorrebbe la sinistra, a una sovranità nazionale che la sinistra medesima pretende di cedere per intero a organismi sovranazionali, lasciando al popolo sovrano le briciole. Eppure non esiste cittadino europeo che, rientrando in Europa, affermi di stare facendo ritorno in patria, patria è ancora per ciascun cittadino europeo, francese, spagnolo, danese o tedesco che sia, il proprio Stato, quello in cui è nato. E questo senso di identità, che è anche un sentimento di amore oltre che di appartenenza, nessuno potrà mai strapparcelo dal petto. Cosa diavolo c'è di malato, di insano, di pericoloso, di controproducente, di dannoso, di minaccioso nell'amor di patria? Un bel niente. Si tratta piuttosto di un valore che eleva il cittadino, che lo nobilita, che lo induce a integrarsi nella società di cui è parte contribuendo al suo progresso, che lo fa sentire parte di una famiglia, la famiglia-patria o la patria-famiglia, conducendolo altresì a porsi al servizio della società stessa. Non è un caso, infatti, che all'interno delle forze dell'ordine tutte tale valore venga protetto.

Ma alla sinistra tutto ciò non va bene. Vorrebbe che la patria venisse odiata, il concetto di patria demolito, il patriottismo avversato, allo scopo, appunto, di dare luogo a un mondo utopistico e mostruoso, senza confini, senza barriere, senza identità, senza storia (ecco perché si mira a cancellarla o a riscriverla), senza maschi e senza femmine, un mondo dove tutto è genere neutro, nulla ha una propria identità e l'individuo è numero senza opinioni dissonanti rispetto a quelle della maggioranza. Invece a noi piacciono le radici, poiché se queste non attecchiscono, se non sono avvinghiate al terreno, l'albero non cresce, non produce frutti, bensì deperisce e infine muore. Essere patrioti non significa odiare chi proviene da fuori o chi è diverso. Essere patrioti significa semplicemente amare ciò che si è. Vittorio Feltri il 28 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Dagospia mercoledì 4 ottobre 2023. Riceviamo e pubblichiamo: Dichiarazione di Paola Malanga, Direttrice Artistica della Festa del Cinema di Roma, sul film Gianni Versace. L’imperatore dei sogni di Mimmo Calopresti: 

“Il docufilm di Mimmo Calopresti non sarà alla Festa perché ad oggi, per quanto attiene alla valutazione artistica, non risulta idoneo a una proiezione ufficiale, come è emerso anche nel confronto avvenuto con la produzione del film, che nella fase di presentazione della proposta rimane l’unico interlocutore. L’invito precedentemente inviato è stato di conseguenza ritirato per decisione della Direzione Artistica che ne ha piena facoltà”.

Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per ilfoglio.it mercoledì 4 ottobre 2023.

“È la prima volta che mi succede una cosa del genere”. Il regista Domenico – per tutti Mimmo – Calopresti qualche giorno fa ha ricevuto la telefonata surreale di Paola Malanga, direttrice della Festa del cinema di Roma, scuola Rai Cinema. 

“Mi ha detto che il mio docufilm non sarebbe stato proiettato, ma senza un apparente motivo, solo perché la famiglia non voleva. In particolare Santo, che di Malanga è amico”.  La famiglia in questione è quella di Gianni Versace, […] ucciso nella sua villa di Miami nel 1997 da due colpi di pistola sparati da Andrew Cunanan.

Il docufilm “L’imperatore dei sogni” doveva essere l’evento di chiusura della festa dell’Auditorium, il 29 ottobre. Sul red carpet romano erano attese – per provare a uscire da una kermesse molto Grande Raccordo Anulare – Carla Bruni, Naomi Campbell e tutte le top model che considerano ancora oggi Versace “un padre, il primo che ha rivoluzionato il nostro mondo”, come racconta  Bruni in Sarkozy nell’opera censurata o comunque cassata all’improvviso dopo l’iniziale via libera. 

“Non vorrei che un rifiuto così strano fosse figlio dei tempi, del clima che si respira nel paese”, dice Calopresti, senza crederci troppo, senza voler passare da martire. […]  

È un regista engagé, Calopresti, ma l’opera in questione oltre a una zoomata sui moti di Reggio Calabria e un’intervista al compagno di Versace, Antonio D’Amico, non avrebbe turbato i patrioti entrati anche nell’ultimo bunker del Pd romano.

Gianluca Farinelli, presidente della Festa del cinema di Roma con ambizioni che guardano a Venezia, a fine settembre aveva rassicurato Calopresti: il suo docufilm era piaciuto, tanto da essere la coccarda su questa edizione, il gran finale. 

“Poi la direttrice mi ha raccontato della richiesta di Santo Versace che era contrario alla proiezione ed essendo suo amico ha dovuto assecondarlo. Così mi ha detto. E per la prima volta […] mi sono trovato davanti a una scelta incomprensibile: prima sì, tutti entusiasti; poi no, tutti imbarazzati”.

La biondissima Donatella Versace […] qualche giorno fa ha anche attaccato il governo Meloni perché “sta cercando di togliere i diritti delle persone di vivere come desiderano”.  Santo Versace, […]  dopo aver lasciato il mondo del fashion si è dato alla filantropia e al cinema, tanto che guida la Minerva Pictures. Era uno dei coproduttori del docufilm. E’ stato anche a Montecitorio, eletto con il Popolo delle libertà, finì con l’Api di Rutelli prima di chiudere con la politica oscillando tra “Fare per il fermare il declino” di Oscar Giannino e “Italia Unica” di Corrado Passera.

Della sorella Donatella non parla quasi mai, di Gianni sempre. A lui ha dedicato anche un libro (“Fratelli, una famiglia italiana”). Ma adesso è soprattutto un produttore cinematografico.

Ma insomma perché, Calopresti, la sua opera è stata cassata così all’improvviso? Se non è stata la “cinecommissione Colle Oppio” a giudicarla non idonea, cosa può essere accaduto? “Non riesco a spiegarmelo […]”. 

[…] Il tributo dura un’ora e dieci da bersi tutti di un fiato come quella Milano versaciana. E prima o poi sarà proiettato da qualche parte. Magari quando il caso di questo docufilm sarà stato risolto. Unica storia di una proiezione durata in cartellone come “Un gatto in tangenziale” (per citare il film interpretato da Paola Cortellesi che aprirà la festa di Roma con la sua opera prima da regista). Ma niente Naomi né Carlà.  

L'assurdo salto logico che vuole farci cadere dalla storia alla morale. Anzi, al moralismo. Dai romanzi censurati alle favole e alle serie tv corrette. Il "decolonizing classics" dilaga. Francesco Giubilei il 6 Settembre 2023 su Il Giornale.

Il timore per il diffondersi del politicamente corretto e della cancel culture nella nostra società, in particolare nel mondo accademico, porta sempre più figure autorevoli in ambito culturale a prendere le distanze dalla pericolosa deriva ideologica a cui stiamo assistendo.

L'ultimo caso è quello di Maurizio Bettini, classicista e scrittore, Direttore del Centro Antropologia e Mondo antico dell'Università di Siena e prolifico studioso della classicità che ha da poco pubblicato per Einaudi il libro Chi ha paura dei Greci e dei Romani? Dialogo e «cancel culture».

Bettini si interroga sul rapporto tra i contemporanei e i classici sostenendo che, nel corso della sua decennale carriera, difficilmente avrebbe «pensato che i classici potessero essere considerati non soggetti con cui identificarsi, o da cui distaccarsi, ovvero tutte e due le cose insieme, ma addirittura soggetti di cui aver paura».

Come spiega riferendosi alla cancel culture, «non era facile prevedere che un giorno qualcuno avrebbe messo in guardia i giovani dalla lettura delle opere greche e romane, cospargendole di avvisi di pericolo o addirittura escludendone direttamente alcune dal canone; gli stessi che avrebbero accusato i classici di aver contaminato la nostra cultura con il razzismo, il sessismo, il suprematismo bianco, arrivando al punto di auspicare addirittura l'abolizione del loro insegnamento».

Eppure oggi ci troviamo in questa situazione, con una deriva che in Italia non ha raggiunto i livelli degli Stati Uniti ma è arrivata anche dalle nostre parti attraverso un fenomeno chiamato «decolonizing classics». Bettini nel suo libro racconta episodi e momenti in cui cancel culture e decolonizing classics sono avvenute nelle università, nel mondo della cultura, nelle istituzioni: «non solo mettendo a tacere i documenti e le memorie che sono giunte fino a noi, cancellandone la storia, ma direttamente riscrivendola, ispirandosi a modelli etici che si ritengono più conformi alla cultura di oggi. In altre parole la storia viene sostituita dalla morale».

Il passaggio da storia a morale è un punto centrale per comprendere come si sia arrivati al punto in cui siamo oggi. Bettini cita la serie tv Netflix Bridgerton, tratta dal romanzo di Jane Austen Persuasion, in cui sono introdotti personaggi aristocratici neri mentre nella Londra del Settecento, pur essendoci numerosi neri, essi si trovavano nella condizione di servi.

È un esempio perfetto non soltanto di un utilizzo strumentale della storia, ma anche della volontà di riscriverla secondo i canoni contemporanei, come avvenuto in numerosi casi, dalla Sirenetta a Cleopatra, passando per la nuova Biancaneve mulatta in cui, in nome dell'inclusione, sono stati cancellati i sette nani sostituiti dalle «creature magiche».

Si agisce «riscrivendo la memoria delle culture passate, cercando così di addomesticarla, di renderla più buona» leggendo fatti avvenuti duemila anni fa con gli occhi contemporanei. Una forma insopportabile di presunzione culturale che testimonia una chiusura verso il passato tipica della contemporaneità. Una società «presentista» in cui «cancel culture e decolonizing classics, nello zelo con cui intendono rimuovere, purificare, correggere la cultura o le culture che ci vengono dal passato, contengono qualcosa di missionario». Il carattere messianico e dogmatico (tipico delle religioni tradizionali e che perciò non può essere messo in discussione) della cancel culture è un aspetto che emerge nel corso del libro di Bettini: «gli apostoli dei moderni movimenti anglosassoni ritengono non solo legittimo, ma necessario cancellare la cultura precedente al loro avvento, eliminandone eventi o personaggi che suonano oggi sgraditi; ovvero riadattarla ai propri convincimenti, modificando o purificando le testimonianze che ce ne sono rimaste».

Chi ha paura dei Greci e dei Romani? Dialogo e cancel culture è una lettura necessaria anche per scardinare il tentativo di una parte del mondo liberal di ridurre il contrasto alla cancel culture e al politicamente corretto a una battaglia cara solo al mondo conservatore, quando in realtà si tratta di un fenomeno che accomuna tutte le persone di buonsenso.

Bettini ha un approccio molto più oggettivo rispetto al libro , sempre edito da Einaudi - di Davide Piacenza La correzione del mondo. Cancel culture, politicamente corretto e i nuovi fantasmi della società frammentata, in cui si tende a sminuire questi fenomeni definendoli «complottismo vittimista» da parte dei «reazionari» e liquidando la cancel culture a un «mantra distorsivo». Continuare a negare o derubricare come un'esagerazione un problema che esiste e che Bettini definisce un «attacco alla cultura classica, così vigoroso da giungere talora a reclamare la soppressione del suo insegnamento» è sintomatico di un'ideologizzazione della cultura che alcuni vorrebbero normalizzare anche in Italia, tradendo una forma di sudditanza culturale verso alcune frange radicali del mondo americano che andrebbero rigettate, non imitate.

La guerra Ue alle fake news e i rischi di censura. Approvato il "Digital Service Act" sulle piattaforme online. La Lega: "Legge bavaglio". Francesco Giubilei il 27 Agosto 2023 su Il Giornale.

Dietro la lotta alle fake news e alla disinformazione spesso si nasconde il rischio di censure che colpiscono la libertà di espressione. L'ultimo caso è il Digital Service Act, il nuovo regolamento sulla responsabilità delle piattaforme per i contenuti online approvato dall'Ue. Il Dsa, entrato in vigore venerdì, si applica a social network, motori di ricerca, marketplace, servizi di hosting. Ad essere interessate in un primo momento saranno le cosiddette Big Tech individuate dalla Commissione europea in un elenco che raccoglie le piattaforme e i motori di ricerca che superano i 45 milioni di utenti mensili in Europa, il 10% della popolazione. Tra le aziende interessate Alibaba, Amazon, Apple, Booking, Facebook, Google, Instagram, LinkedIn, Pinterest, Snapchat, TikTok, Twitter, Wikipedia, YouTube, Zalando. Rispetto alla precedente norma, il Digital Services Act introduce alcune novità. Se fino ad oggi le piattaforme erano ritenute responsabili per i contenuti illegali pubblicati solo se, dopo esserne venute a conoscenza, non avessero provveduto a rimuoverli, ora la normativa è molto più stringente. Oltre a doversi dotare di un team per le segnalazioni provenienti da Autorità e utenti, le piattaforme potranno sospendere gli utenti ritenuti colpevoli di aver pubblicato contenuti non ammessi. Allo stesso tempo, in aggiunta al controllo dei contenuti social, i siti dovranno verificare che non sia venduta merce illegale nei loro negozi online.

Tra le novità più rilevanti c'è il cosiddetto rischio sistemico secondo cui le piattaforme dovranno ogni anno inviare alla Commissione Ue un report in cui segnalare eventuali rischi per i diritti fondamentali presentando soluzioni per mitigarne l'impatto come la moderazione dei post o l'utilizzo di algoritmi per raccomandare certi contenuti invece di altri. Ma non è finita qui: nel caso di contenuti ritenuti una minaccia alla salute o alla sicurezza delle persone, le piattaforme, insieme alla Commissione Ue, potranno avviare protocolli di crisi e misure di emergenza, si tratta dell'articolo 91 con cui la Commissione può chiedere in situazioni particolari la promozione di informazioni affidabili. Se lo scopo dichiarato del nuovo regolamento è creare un ambiente digitale sicuro e affidabile, è evidente che il DSA presenta notevoli criticità.

Non a caso gli europarlamentari della Lega Marco Campomenosi e Alessandra Basso non usano giri di parole per definire il regolamento come una legge bavaglio Ue: qualcuno sarà autorizzato a far cancellare il contenuto dei pensieri dei cittadini, magari con il pretesto della lotta alle fake news', magari con l'obiettivo di giungere alla campagna elettorale per le europee con l'anestetizzazione dei pensieri alternativi che saranno messi ai margini. L'applicazione della legge in vista delle elezioni europee, con tutto ciò che comporta, è stata confermata anche dal Commissario per il mercato interno Thierry Breton. Non rimane che tenere gli occhi aperti su come verrà utilizzato il nuovo regolamento che da febbraio 2024 diventerà vincolante non solo per le big tech ma anche per tutte le piattaforme digitali.

Perché il Digital Service Act è un rischio per la libertà di parola su internet. Giorgia Audiello su L'Indipendente venerdì 25 agosto 2023.

È fissata per oggi, 25 agosto, la prima scadenza per le piattaforme digitali sottoposte al Digital Service Act (DSA), la nuova legge sui servizi digitali dell’Unione Europea entrata in vigore nel novembre 2022. Mentre da parte europea e sul mainstream si sottolineano i lati positivi della norma (che prevede maggior tutela dei dati personali e limiti alla profilazione e alla riservatezza delle chat), ben poco si parla dei rischi connessi alla limitazione del diritto alla libera espressione previsto dai punti che prevedono il controllo della “disinformazione” e in particolare di quanto previsto al punto 91 della legge, che prevede meccanismi per ridurre i confini della libertà di parola attuabili “in presenza di circostanze eccezionali che comportino una minaccia grave per la sicurezza pubblica o per la salute”.

Cos’è il DSA

La legge per ora interessa 15 grandi corporation tra motori di ricerca e piattaforme e nel prossimo futuro sarà allargata. Le piattaforme in questione sono state identificate dalla Commissione come dominanti dello spazio online e tra le altre, compaiono Bing, Google, Facebook, Instagram, Twitter, Amazon Store e Wikipedia. Il DSA è entrato in vigore il 16 novembre 2022 per tutti gli intermediari online che forniscono servizi sul territorio comunitario, con un livello di obblighi crescente e proporzionato al numero di utenti raggiunti. Le grandi piattaforme online saranno soggette a requisiti sulla valutazione indipendente e annuale dei rischi sistemici di disinformazione, contenuti ingannevoli, violazione dei diritti fondamentali dei cittadini e violenza di genere e minorile. Le violazioni del regolamento comporteranno multe fino al sei per cento del fatturato globale e saranno sorvegliate dalle autorità nazionali (le piattaforme più piccole) e dalla Commissione Ue che ha potere esclusivo su quelle più grandi.

Il regolamento pone particolare attenzione al fenomeno della “disinformazione” restando però sul vago, non definendo nel dettaglio ciò che può essere considerato come tale. Di conseguenza, anche eventuali opinioni o studi difformi dalla linea “istituzionale” potrebbero venire etichettati come disinformazione. In particolare, al punto 84 del DSA si legge che «Nel valutare i rischi sistemici individuati nel presente regolamento, tali fornitori dovrebbero concentrarsi anche sulle informazioni che non sono illegali ma contribuiscono ai rischi sistemici individuati nel presente regolamento. Tali fornitori dovrebbero pertanto prestare particolare attenzione al modo in cui i loro servizi sono utilizzati per diffondere o amplificare contenuti fuorvianti o ingannevoli, compresa la disinformazione. Qualora l’amplificazione algoritmica delle informazioni contribuisca ai rischi sistemici, tali fornitori dovrebbero tenerne debitamente conto nelle loro valutazioni del rischio».

Il testo risulta ancora più esplicito per quanto riguarda eventuali situazioni di crisi, quali una minaccia per la sicurezza o la salute pubblica, calamità naturali o atti di terrorismo: in questi casi, al punto 91 si legge che «La Commissione dovrebbe poter chiedere ai prestatori di piattaforme online di dimensioni molto grandi e ai prestatori di motori di ricerca online di dimensioni molto grandi, su raccomandazione del comitato europeo per i servizi digitali («comitato»), di avviare con urgenza una risposta alle crisi. Le misure che tali prestatori possono individuare e considerare di applicare possono includere, ad esempio, l’adeguamento dei processi di moderazione dei contenuti e l’aumento delle risorse destinate alla moderazione dei contenuti […]». Tutte le eventuali future emergenze potrebbero, dunque, fornire il pretesto per limitare la libertà d’informazione censurando opinioni, dati e studi non allineati.

La reale portata della legge sulla libertà d’informazione

Per questi motivi, una parte dell’opinione pubblica identifica la legge come un modo per imporre una sorta di censura mascherata finalizzata ad evitare che si possano esprimere tesi e opinioni divergenti da quelle “dominanti”. La facoltà di vigilare sulla correttezza delle informazioni e dei contenuti, stabilendo, dunque, ciò che è vero e ciò che è falso è stata attribuita in primo luogo ad un organo politico: la Commissione Europea e, nello specifico, al Comitato europeo per i servizi digitali che vigilerà strettamente sulle società e sui contenuti. Un’architettura di controllo che ha portato diversi rappresentanti politici e dell’informazione a parlare di una minaccia per la democrazia.

Non si tratta di perplessità e critiche che giungono solo dal mondo dell’attivismo o della contro-informazione. Alcune preoccupazioni sono state espresse anche dal Garante per la privacy italiano che ha spiegato che «il Regolamento sembrerebbe intenzionato a riconoscere – come, peraltro, ormai avviene diffusamente – ai gestori delle piattaforme il diritto-dovere di decidere in autonomia e sulla base semplicemente delle proprie condizioni generali quale contenuto lasciare online e quale rimuovere e quale utente lasciar libero di pubblicare e quale condannare all’ostracismo digitale», concludendo senza giri di parole che «il rischio è che anziché ridimensionare le big tech, si accresca il loro impatto sulle nostre società e democrazie». Il tutto senza tralasciare che, grazie ai cosiddetti Twitter Files, è emerso che dietro alle grandi piattaforme vi sia la pressione dei governi che dettano ai colossi del digitale la linea politica e ideologica da seguire. Il giornalista David Zweig, che ha potuto visionare i documenti del social di San Francisco dopo essersi recato personalmente presso la sede di Twitter, infatti, ha fatto sapere che «Le e-mail interne che ho visto su Twitter hanno mostrato che entrambe le amministrazioni Trump e Biden hanno sollecitato direttamente i dirigenti di Twitter a moderare i contenuti della piattaforma secondo i loro desideri».

Infine, si sottolinea come il potere di decidere sulla correttezza e sulla legittimità dei contenuti sia eccessivamente sbilanciato verso la Commissione europea che avrà anche accesso agli algoritmi, assumendo così un ruolo “plenipotenziario”. Secondo il Garante, infatti, sia che si tratti della questione della pubblicità targettizzata, sia che si tratti della moderazione dei contenuti pubblicati dagli utenti, «è indispensabile che ogni competenza faccia capo o a un Giudice o a un’Autorità indipendente mentre potrebbe essere un grave errore attribuirla a un soggetto politico come la Commissione». In altre parole, vi è il rischio concreto che le opinioni, gli studi scientifici, le analisi politiche e sociali dei cittadini europei siano sottoposte al controllo stringente di un organo politico, con il rischio non trascurabile della messa al bando dal discorso pubblico di ogni opinione classificata come “disinformazione” con criteri oscuri e potenzialmente restrittivi. Una mossa che dietro una presunta tutela degli interessi degli utenti nasconde un rischio democratico evidente. [di Giorgia Audiello]

Le interviste politicamente scorrette. Redazione CulturaIdentità il 16 Agosto 2023 

Dalla Venezi a Enrico Ruggeri, chi è il più politicamente scorretto? Buona lettura e buon Ferragosto – Redazione  

Beatrice Venezi: “Dirigo l’orchestra con i tacchi…mi slanciano!”

“Il mio mestiere ha un nome preciso: direttore d’orchestra, quindi…” 

Claudia Cardinale: “Pasquale Squitieri mi ha cambiato la vita”

“Pasquale è stato ed è il mio grande amore. L’uomo che ho scelto e che…” 

Evelina Manna: “Giorgia con quel suo biondo pop può fare…”

“…Non è il biondo “pariolo” da radical chic di destra!”

 Giancarlo Giannini: “Vi racconto la mia prima volta…”

“Pasqualino Settebellezze nasce per caso con l’acquaiolo che in cambio di…” 

Alessio di Mauro: “Oggi Peppone sarebbe incazzatissimo…”

“Anche gli ex-compagni si sono evoluti. Oggi non hanno più le tre narici….” 

Alessandro Sallusti: “Travaglio un attore, fa quello di sinistra ma…”

Gli Agnelli? “Erano molto padroni, gli editori più bruschi…” 

Enrico Manera: “Ci divertiamo a dipingere massi…”

“Gli intellettuali di sinistra non mi piacciono, a eccezione però di…” 

Massimiliano Lenzi: “Le follie del politicamente corretto…”

“Si può dire negro e non di colore senza essere etichettati come razzisti?” 

Enrico Ruggeri: “Il mio volo ribelle tra sberleffi e sorrisi”

“I gesti geniali stroncati dalle masse bercianti del web: io ne so qualcosa…”

Il silenzio unico. Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente sabato 12 agosto 2023.

Dopo il pensiero unico è arrivato il silenzio unico. Sembra impossibile che non ci sia un parlamentare che esige e ottiene spiegazioni a proposito di vere o presunte scie chimiche, che rilasciano filamenti, di manipolazioni del clima ottenute con vari mezzi e di tutti gli allarmi da cui, a ragione o no, siamo circondati. Ci troviamo nelle condizioni di non potere né credere né non credere, dovendo accettare che la cronaca dei media martelli sempre in un’unica direzione non facendo mai emergere posizioni alternative o interlocuzioni autorevoli da parti opposte, con eguale dignità, come ad esempio prevederebbe il servizio pubblico televisivo. Ne deriva che, o ci asteniamo e pensiamo ad altro, o ci incazziamo ma non si sa bene con chi.

Gli interventi non conformisti, non obbedienti vengono qualificati come casi di aggressione, chi non si adegua alla musichetta passa da ignorante. E il governo di destra, a sua volta, passa da alibi per convogliare contro di esso una opposizione preconcetta, raramente nel merito, allo scopo di legittimare una sinistra senza idee. Col risultato che sentiamo mancare una rappresentanza delle varie opinioni realmente e logicamente possibili e soprattutto una presa di posizione  sulle minacce incombenti.

Non è più soltanto omologazione, repressione, è annullamento di alternative, di regole logiche, del pensiero in sé. Ora l’agenda del conflitto sociale e ideologico passerebbe esclusivamente per i problemi di genere se non ci fossero le alluvioni e la guerra in Ucraina che comunque ricevono spiegazioni a senso, quasi, unico.

La televisione certifica, nel fragore degli scontri sceneggiati, che il silenzio della ragione è alle porte. Dopo il partito unico, prima del fascismo poi della televisione bonacciona, dopo il pensiero unico della postmodernità, prima saccente poi ignorante e presuntuosa, è in arrivo il silenzio a senso unico, quello a cui saremmo prima o poi costretti.

Occorre insistere nella assunzione forte, indispensabile, del ruolo di denuncia del giornalismo vero!!

Sui social, certi lodevoli, rari, coraggiosi, intraprendenti e tenaci,  documentano e denunciano, ma sono sovrastati purtroppo da insulsi ingiustificati attacchi di nervi.

E incalzano quei commenti risentiti, fuori luogo, che hanno il sapore dell’ora d’aria dei carcerati e anche un po’ della vittoria, in ultima analisi compiacente, degli imbecilli.

«Questo però no». Le imbecillità a mezzo social, le censure della sinistra e la libertà d’espressione che non piace più a nessuno. Guia Soncini su L'Inkiesta il 24 Luglio 2023.

Essendo scemi, negli ultimi quindici anni abbiamo messo i proprietari delle piattaforme a custodire il diritto di parola. E abbiamo reso la cosa più fascista che esista, i reati d’opinione, un pilastro del progressismo

Il più importante lascito della pandemia è che nessuno è a favore della libertà d’espressione. Nessuno. Neanche quelli che se ne dicono difensori. Specialmente quelli che se ne dicono difensori.

La libertà d’espressione, l’ho già scritto circa duecento volte, o è assoluta o non è, o è estrema o non è, o è libertà d’espressione di quelli che vorremmo azzittire infilando loro una patata in bocca o non è. Vi vedo che annuite dicendo ma certo, mi farei ammazzare per difendere il tuo diritto a pensarla diversamente: state mentendo.

Meno male che state mentendo, perché proprio non si capisce con che logica balzana uno si debba far ammazzare, perdipiù per difendere una cosa astratta come il diritto di qualcun altro a dire qualcosa, e oltretutto qualcosa che il martire neanche condivide. Massù, per favore.

State mentendo perché avete, come tutti, il vostro «questo però no». Libertà d’espressione però le battute sugli ebrei no. Libertà d’espressione però i dubbi sui vaccini no. Ognuno ha messo il suo paletto, ma la cosa più grave non è mica questa. La cosa più grave è la solita: che siamo scemi.

Essendo scemi, abbiamo messo a custodire i paletti i miliardari in dollari proprietari dei social network. Quelli che peraltro consideriamo colpevoli di averci rimbecillito, violato la privacy, e chissà quali altri misfatti. A loro, però, abbiamo deciso di appaltare la regolamentazione della libertà d’espressione.

Occorre ricostruire brevemente cos’è successo negli ultimi quindici anni (Twitter c’è dal 2007, ma direi che possiamo serenamente stabilire come data d’inizio del rincoglionimento di massa di 2008, quando Facebook diviene d’uso comune).

Come vogliamo chiamare la fascia di popolazione di cui stiamo parlando? Élite? Classe dirigente? Privilegiati depressi? Facciamo: noialtri. Noialtri fino al 2008 non sapevamo che esistessero gli imbecilli. Cioè, lo sapevamo, ma era un concetto astratto. Se nostro cognato al pranzo di Natale diceva di sapere per certo che nelle fogne di New York c’erano gli alligatori, noi tornavamo a casa sghignazzando, convinti che quel cognato fosse rappresentativo di sé stesso e d’una propria speciale imbecillità.

Non so come sia andata che Elio e le storie tese abbiano scritto “Mio cuggino”, ma me lo immagino così: con la convinzione d’aver incrociato un cretino particolarmente cretino e la scoperta – prima, o magari solo di fronte alla popolarità della canzone – che quella fosse ordinaria cretineria. Tuttavia, la seconda parte dell’equazione non la svolgevamo mai.

Che se ognuno ha almeno un cognato cretino il mondo sia pieno di cretini era un sillogismo che sfuggiva alle nostre menti sebbene apertissime dall’aver frequentato il classico. Avevamo una fortuna sfacciata della quale eravamo del tutto inconsapevoli: ci sceglievamo le frequentazioni. Poi, appunto, sono arrivati i social.

La più gran balla che è stata raccontata in questi anni da sedicenti esperti di social (geni della truffa che sono riusciti a farsi pagare dalle aziende per spiegar loro meccanismi che non avevano capito: Wanna Marchi, perdonaci) è il concetto di echo chamber.

Il social ti fa vedere solo ciò che ti somiglia, ti isola rimandandoti rifrazioni delle tue opinioni, non ti allena alla dialettica perché t’illude che tutti la pensino come te. Ma quando mai. I social ci hanno, ogni giorno degli ultimi quindici anni, fatto vedere imbecilli che non avremmo mai incrociato.

Dalle quasi spose il cui gravissimo problema, dibattuto per centinaia di commenti, è che i vestiti col velo non sono di loro gusto ma il marito ci tiene tantissimo al gesto di sollevare il velo; agli antivaccinari che a ogni morto che abbia meno di novant’anni scrivono ah!, morte inspiegabile!, come mai!, certo non c’entra il siero; ai proprietari di cani che si ritengono genitori del loro animale domestico e si offendono se qualcuno dice loro che le parole «mamma» e «papà» servono a indicare altro; alle disperate che taggano tutto, dalle gomme da masticare alla pensione Miramare nella cui piscina si tuffano, pur di non pagare: lo zoo di vetro di esseri umani dalle disperazioni diversissime dalla mia che mai avrei incrociato e che rimiro grazie ai social è sterminato.

No, scusate. Non è vero che senza i social sarei rimasta ignara. Perché all’esistenza dei social va aggiunto un danno collaterale che possiamo catalogare nel faldone «disperazione dei giornali». È accaduto infatti che i giornali, vecchie pittate di Pirandello, abbiano pensato che la loro salvezza stesse nel rilanciare qualunque puttanata Vongola75 scrivesse sulla propria pagina: se alla gente piace Facebook, copincolliamole Facebook, vuoi che non si abbonino per leggere a pagamento ciò che possono guardare gratis sui loro social?

E quindi è successo l’impensabile: che l’élite, la classe dirigente, i presunti intelligenti, i privilegiati depressi sempre meno privilegiati e sempre più depressi si sono convinti che il cognato che una volta avrebbe detto la sua imbecillità a tavola diventi rilevante nel momento in cui la dice sull’internet. E che quindi l’imbecillità vada regolamentata.

La strada che conduce all’ultima idiozia, il deputato che propone il reato di negazionismo climatico, è lastricata di difensori della libertà d’espressione che hanno preteso che i social si facessero polizia morale rispetto ai penzierini degli antivaccinari, e poi rispetto a Trump, è lastricata della Zan (non so se ve la ricordate) e di tutte le altre imbecillità per mezzo delle quali abbiamo stabilito che la cosa più fascista che esista, i reati d’opinione, fosse un pilastro della sinistra contemporanea.

Ed è lastricata di milioni di titoli, di milioni di elemosine di clic, che riferiscono indignati che Brocco81 ha detto ai suoi tredici (ma pure fossero centotrentamila) follower che Tizio Famoso Prematuramente Morto l’ha di certo ammazzato il siero. È uno schifo, è una vergogna, clicca qui e chiedi anche tu che Zuckerberg lo mandi in castigo.

Oltre a non avere a cuore la libertà d’espressione, non abbiamo neanche imparato da Andreotti quella storia della smentita che è una notizia data due volte. E quindi se il marito della Meloni sbuffa che è estate e fa caldo – cosa che in privato facciamo tutti quando qualcuno ci annoia coi discorsi sul meteo, ma sappiamo come non venire espulsi dalla società civile e quindi mai la faremmo in pubblico – la nostra idea di censura è rilanciare la frase in ogni dove, farne un titolo che non sfugga anche a chi quel programma televisivo non l’avrebbe mai guardato, e infine chiedere che dire «fa caldo, sai che notizia» diventi reato.

Se avessimo avuto i social cent’anni fa, e una classe dirigente di sinistra altrettanto imbecille di quella alla quale siamo coevi, avremmo preteso da Instagram un bel divieto di fotografarsi con bluse nere o anche blu scuro, e poi vedi se non prevenivamo efficacemente una certa deriva politica.

Vignette sessiste e provocazioni alle deputate: tutte le volgarità di M5S e Fatto Quotidiano. Un excursus tra istigazioni, offese e doppi sensi di grillini e del quotidiano di Marco Travaglio. Luca Sablone su Il Riformista il 19 Luglio 2023 

L’uscita infelice di Filippo Facci ha sollevato da subito un’ondata di indignazione, tanto forte da essergli costata un contratto pronto per lui in Rai. A Viale Mazzini invece – così dicono le voci – potrebbe guadagnare un posto Peter Gomez, direttore del sito de Il Fatto Quotidiano.

Al coro degli stizziti nei confronti della firma di Libero si è aggiunto in tempo zero il Movimento 5 Stelle, che però in passato è finito al centro di aspre polemiche in seguito a dichiarazioni deplorevoli di alcuni esponenti grillini. Ora i 5S sono esattamente in prima linea a pontificare e a battere i pugni indossando i panni da adirati. Davvero possono vantare coerenza? È doveroso rinfrescare loro la memoria, con la speranza che sia utile per prendere coscienza di quanto detto e fatto dalla galassia gialla. Così come è doveroso ricordare che anche Il Fatto Quotidiano, e non solo Libero, abbia tenuto in passato certe posizioni.

L’esempio più recente è la vignetta di pessimo gusto sparata in prima pagina dal quotidiano di Marco Travaglio. Quello che doveva essere un attacco diretto a Francesco Lollobrigida si è trasformato in un’immagine che da molti è stata bollata come «volgare e sessista». Il tutto iniziava con un cappello introduttivo: «Obiettivo incentivare la natalità. Intanto, in casa Lollobrigida…». Il disegno vedeva ritratti al letto una donna e un uomo di colore con un relativo dialogo: «E tuo marito?»; «Tranquillo, sta tutto il giorno a combattere la sostituzione etnica».

Il Fatto voleva ironizzare sulle parole pronunciate dal ministro dell’Agricoltura, ma a chi ha visto bene la vignetta non è sfuggito come sia stata tirata in ballo sua moglie Arianna (tra l’altro sorella del presidente Giorgia Meloni). In quel caso non era passata inosservato un silenzio assordante da parte del M5S, sintomo di forte imbarazzo per l’«opera» firmata da Natangelo. Va menzionata anche la vignetta – sempre de Il Fatto Quotidiano, sempre spiattellata in prima pagina – su Maria Elena Boschi: «Lo stato delle cos(c)e». Travaglio e l’autore Mannelli avevano respinto al mittente il polverone di critiche. «Ma poi ci vorrebbero pure tre lingue come le sue per leccarli tutti e tre». 

Nel 2020 aveva fatto discutere l’editoriale di Marco Travaglio. Dal suo canto Annalisa Chirico sosteneva la necessità di una triade Salvini-Draghi-Renzi. Una tesi che, piaccia o meno, non meritava affatto di essere volgarizzata con quella che la giornalista aveva etichettato come un vero e proprio «insulto sessista».

Per non dimenticare la valanga di odio scatenata contro Laura Boldrini in seguito a un post di Beppe Grillo. Il 31 gennaio 2014 il comico genovese sul suo profilo Facebook si era rivolto agli utenti del web ponendo loro una domanda: «Cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina?». C’è chi ne aveva approfittato, cogliendo la palla al balzo per scaraventarsi contro l’ex presidente della Camera. E così messaggi carichi di sessismo, di violenza e addirittura di inneggiamento allo stupro si erano susseguiti l’uno dietro l’altro nei commenti. Poi il Movimento si era attivato prendendo le distanze e cancellando le volgarità più spietate, ma niente potrà rimuovere l’offensiva irricevibile di cui si sono macchiati diversi sostenitori pentastellati.

Nel 2001 Grillo aveva definito Rita Levi Montalcini «vecchia putt…» nel corso di uno spettacolo a Fossano nel Cuneese. Non contento, più tardi aveva rincarato la dose: «Quella che c’ha lo zucchero filato in testa. Mi fa una denuncia penale a 94 anni, in Italia un processo penale dura mediamente dai 10 ai 15 anni. Io cosa devo fare? Aspetto con ansia. Vaff…».

Altri esempi non mancano. Il video di Casalino che nel 2004 affermava: «Dico sempre che a me i vecchi fanno schifo. Tutti quei ragazzi down a me dà fastidio. Non mi va di stare dietro a uno che è down». Anche se lui aveva spiegato che la situazione andava contestualizzata perché si trattava di un corso in cui si sviluppava lo studio dei personaggi forzandone i caratteri. Ma comunque non era stata una bella scena.

Nel 2018, a pochi giorni dalla Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, Matilde Siracusano di Forza Italia era stata coperta da insulti sessisti e pesanti invettive. La sua «colpa» che aveva scatenato un’aggressione verbale via social del genere? Aver preso le difese di Silvio Berlusconi. Tanto era bastato per attaccarla in maniera vile sotto il video del suo intervento in Aula rilanciato sui social dai grillini.

Nel 2014 le parlamentari del Partito democratico avevano denunciato un’espressione volgare di Massimo De Rosa. «Offende pesantemente le deputate Pd: ‘Siete qui solo perché avete fatto pomp…’. Linguaggio maschilista, sessista e fascista», aveva riportato Alessandra Moretti.

Da anni va avanti la lotta per combattere la visione di una società maschilista e un atteggiamento generale sessista che talvolta prendono campo in diversi settori. Ecco perché occorre affrontare questo tema senza ambiguità e senza sminuire delle uscite volgari come se fossero semplici battute da bar. Proprio questo apre le porte a irripetibili epiteti e a rigurgiti misogini di cui l’Italia certamente non ha bisogno. Così come non ha bisogno della doppia morale: il sessismo va condannato sempre, non solo quando a praticarlo sono gli avversari.

Luca Sablone

GIUSTA LA SOSPENSIONE DEI DUE GIORNALISTI SPORTIVI RAI? Si & No

No alla rappresentazione “tossica” delle donne. Giornalisti sospesi dopo frasi sessiste: la Rai è servizio pubblico, serve un tuffo nella responsabilità. Daniele Macheda su Il Riformista il 19 Luglio 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio al caso dei due giornalisti Rai sospesi dopo i commenti sessisti intercettati in un fuori onda al termine della diretta: è giusto il provvedimento di viale Mazzini? Favorevole Daniele Macheda, segretario Usigrai, secondo cui “la Rai è un servizio pubblico, serve un tuffo nella responsabilità”. Contraria Hoara Borselli. “Nel fuori onda siamo liberi di dire tutte le idiozie, troppa rigidità finirà per limitare la libertà di espressione” commenta. 

Qui l’articolo di Daniele Macheda: Quanto accaduto ai mondiali di nuoto conferma la responsabilità che va tenuta presente da chi fa informazione e dal Servizio pubblico della Rai. Durante una diretta va prestata la massima attenzione da parte di chi commenta e di chi coordina il lavoro dei telecronisti ad ogni aspetto della produzione. Come sindacato abbiamo accolto positivamente la scelta della Rai di far rientrare giornalista e commentatore delle gare dei tuffi. L’apertura di un procedimento disciplinare deve avere l’obiettivo di individuare le responsabilità dei singoli nell’intera linea di comando e coordinamento.

La Fnsi lo ha detto con una nota della sua Commissione Pari Opportunità: “Adesso basta. Linguaggio volgare, espressioni fortemente sessiste, e anche razziste nella telecronaca trasmessa su Rai Play2. E il fatto che i due cronisti pensassero di essere a microfono spento è soltanto un’aggravante”.

Bene hanno fatto le Commissioni pari opportunità di Fnsi, Odg e Usigrai e Giulia Giornaliste a denunciare le espressioni utilizzate dal telecronista Lorenzo Leonarduzzi e dal commentatore tecnico Massimiliano Mazzucchi, “intrise di body shaming e stereotipi contro le tuffatrici olandesi e una atleta azzurra, che costituiscono violazioni al Manifesto di Venezia e all’articolo 5 bis del testo unico deontologico, nonché della Policy di genere della Rai e sono figlie di una cultura maschilista e denigratoria nei confronti dello sport femminile e delle donne».

La nota della Federazione nazionale della stampa si chiude con l’annuncio del prossimo passo: «Le Cpo Fnsi Odg Usigrai e Giulia Giornaliste presenteranno esposto al Consiglio di Disciplina dell’ordine di appartenenza di Leonarduzzi, già segnalato per commento razzista durante la gara maschile e, in passato, non nuovo a telecronache intrise di violenza verbale, incapace di contenere il commento tecnico»

Segnalo tra l’altro che tra gli obblighi della Rai previsti dal Contratto di Servizio c’è anche quello di “Sensibilizzare i conduttori, dipendenti e collaboratori, ad attenersi scrupolosamente nella loro attività al rispetto dell’integrità della dignità della persona e al principio di non discriminazione” . C’è poi in azienda una Policy di Genere approvata dal consiglio di amministrazione e che di fatto è “legge” aziendale” a cui tutti devono attenersi. Ne consegue che i commenti dei telecronisti devono essere sempre rispettosi del pubblico e delle persone coinvolte nelle notizie che ci si trova a raccontare.

Le Cpo dell’Usigrai e della Rai hanno chiesto un confronto urgente, all’AD Roberto Sergio, sulla selezione e valutazione dei colleghi chiamati a rappresentare l’Azienda on air/on screen, in particolare per le dirette e acor più in ambito sportivo. Le Cpo hanno ricordato all’Ad della Rai come da tempo chiedano di varare un corso di “Gender Etiquette” legato alla messa in onda e che vararlo in tempi brevi sarebbe la riscosta migliore dopo quanto accaduto.

L’Usigrai, da pare sua, per ribadire valori e principi che devono ispirare il lavoro dei giornalisti della Rai ha ottenuto di inserire nel contratto, insieme alla Carta dei diritti e dei doveri del giornalista del Servizio pubblico anche le carte deontologiche della professione con particolare riferimento, tra l’altro, al Testo unico dei doveri del giornalista, con particolare riguardo al dovere fondamentale di rispettare la persona e la sua dignità e di non discriminare in base alla razza, al paese di origine, alla religione , al sesso , all’identità sessuale alle condizioni fisiche e mentali e alle opinioni politiche.

Nel contratto Rai-Usigrai c’e anche il Manifesto di Venezia il cui rispetto testimonia l’impegno del sindacato dei giornalisti contro una rappresentazione “tossica” delle donne che è alla base della violenza di genere. Per tutte queste ragioni deve essere chiaro che quando un collega si trova davanti a un microfono della Rai, inviato a un evento internazionale, non può permettersi di proferire le frasi sessiste che in molti hanno ascoltato; nemmeno come battuta. Così come non fa nessuna differenza che la telecronaca non sia andata in onda sul canale, ma sul sito; o che i commentatori credessero di non essere ascoltati. Daniele Macheda

Troppa rigidità finirà per limitare la libertà di espressione. Sbagliato sospendere i giornalisti Rai per le frasi sessiste: nel fuori onda siamo liberi di dire tutte le idiozie. Hoara Borselli su Il Riformista il 19 Luglio 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio al caso dei due giornalisti Rai sospesi dopo i commenti sessisti intercettati in un fuori onda al termine della diretta: è giusto il provvedimento di viale Mazzini? Favorevole Daniele Macheda, segretario Usigrai, secondo cui “la Rai è un servizio pubblico, serve un tuffo nella responsabilità”. Contraria Hoara Borselli. “Nel fuori onda siamo liberi di dire tutte le idiozie, troppa rigidità finirà per limitare la libertà di espressione” commenta. 

Qui l’articolo di Hoara Borselli:

Potremmo chiamarla l’estate delle censure in Rai. Non bastava la cacciata di Facci, censurato per una frase scritta in un articolo – una frase – sbagliata. Censurato e cacciato via. Ora è toccato ai due cronisti sportivi della Rai Lorenzo Leonarduzzi e Massimiliano Mazzucchi che in un fuori onda, convinti che i microfoni fossero spenti, con linguaggio confidenziale si sono raccontati una barzelletta – così hanno detto -, bollata come sessista. Ora si beccano un processo dall’azienda. Non voglio stare a commentare il contenuto della barzelletta perché lo trovo un esercizio stupido e inutile, piuttosto voglio soffermarmi su quanto possa essere giusto punire per ciò che viene detto fuori dal contesto lavorativo. Mi spiego meglio.

Una volta finito un servizio che mi sembra i due cronisti abbiano diligentemente offerto al servizio pubblico, due persone saranno o meno libere di dire ciò che gli pare? O dobbiamo iniziare a fare i processi su ciò che confidenzialmente ognuno di noi si dice nei momenti di svago? Saremo censurati tutti, probabilmente tutti disoccupati perché se al capoufficio arrivasse ciò che viene detto durante la pausa caffè fra amici e colleghi credo non la scamperebbe nessuno.

Il contenuto della barzelletta non è stato di gradimento al telespettatore Rai che si è prontamente messo al pc perché indignato da quelle frasi sessiste che ha ascoltato?

Forse la Rai piuttosto che sollevare i due cronisti dall’incarico avrebbe dovuto sì scusarsi per l’accaduto ma spiegare che nell’esercizio delle loro funzioni non avevano commesso nulla di sbagliato. Forse se c’è da ravvisare uno sbagli, assolutamente innocente, è di chi non ha spento i microfoni ai cronisti una volta finita la cronaca.

Se poi mi chiedete se mi sono piaciute le frasi che hanno detto sulle donne? No e se devo essere sincera, come barzelletta l’ho trovata orrenda.

Però una volta contestualizzato il tutto non trovate eccessivo il provvedimento? Non si rischia una deriva di libertà di parola nel tempo libero? Censuriamo tutte le barzellette a sfondo sessuale? Tutti i film, le canzoni. Non pensate si stia esagerando?

Nel fuori onda i due cronisti sostenevano che le donne a letto sono tutte uguali. Non credo che ci sia bisogno che spieghi quanta banalità e se vogliamo volgarità ci sia in questa frase. Ma ripeto, non è stata pronunciata durante il lavoro cui erano chiamati a svolgere. Sulla donna “grossa” hanno spiegato che è stata una frase usata come parallelismo rispetto alla longevità di nuotatrici più esili per puntualizzarne il vantaggio. Non può essere considerato un commento tecnico? Dire che una donna è grossa rispetto ad una piccola è un’offesa?

Allora eliminiamo gli aggettivi di paragone a scuola perché sono le prime parole che insegnano ai bambini delle elementari. Grasso magro, alto basso, bello brutto, si trova in tutti i libri delle primarie. Due sono le questioni di questo caso politico.

La prima riguarda il microfono aperto. Perché è stato lasciato un microfono per sbaglio aperto a provocare il clamoroso incidente. E cioè a mandare in onda le chiacchiere dissennate di due cronisti, del tutto ignari che le loro balordaggini stavano espandendosi via etere. Perché quel microfono era aperto? È certo che se il microfono fosse stato chiuso, come doveva essere, l’incidente non sarebbe mai avvenuto. I due cronisti sarebbero restati al loro posto e oggi noi non avremmo mai saputo che due cronisti sportivi della Rai sono due maschi ancora parecchio ignorantelli.

La seconda questione è quella più scottante. La punizione. La censura. La Rai che trovandosi in imbarazzo reagisce sempre allo stesso modo. Tacendo e cacciando. È successo tante volte in passato. Anche in situazioni molto, molto più nobili. All’alba dei tempi successe a Dario Fo e Franca Rame, se non ricordo male successe anche a Raimondo Vianello e Tognazzi, più recentemente addirittura a Gad Lerner, per un errore di valutazione sulle immagini trasmesse dal Tg1. La Rai quando sente di essere finita sotto la critica di qualche giornale chiude l’incidente licenziando, o censurando, o mettendo a tacere. Ecco questo a me non piace. L’idea liberale è una idea complessa, difficile da capire. Ma molto bella. Si basa sul concetto che io sono libero, io sono libera, tu sei libero, tu sei libera. Libera o libero anche di dire una quantità industriale di idiozie. Certo sarebbe meglio che queste idiozie non fossero diffuse via radio. Ma di questo, mi pare di capire, la colpa non è loro.

Hoara Borselli. Inizio la mia carriera artistica come una delle protagoniste della fortunata "soap opera" CENTOVETRINE per essere poi chiamata dal Cinema a rivestire il ruolo di protagonista nel film PANAREA. Il grande successo è arrivato con la trasmissione BALLANDO CON LE STELLE, vincendo la prima edizione. Ho proseguito partecipando alle tre edizioni successive. Da lì il ruolo da protagonista nella tournèe teatrale la febbre del sabato sera, dove ho calcato, a ritmo di "sold out", tutti i più grandi teatri italiani. A seguire sono stata chiamata come co-conduttrice e prima ballerina nel programma CASA SALEMME SHOW, quattro prime serate su Rai1. In seguito ho affiancato Fabrizio Frizzi nella conduzione della NOTTE DEGLI OSCAR, poi Massimo Giletti nella conduzione di GUARDA CHE LUNA sempre su Rai1. Poi ho condotto il Reportage di MISS ITALIA. Sono stata protagonista della fiction televisiva PROVACI ANCORA PROF, otto puntate in prima serata su Rai1 e TESTIMONIAL di importanti aziende di vari settori.

Estratto da notizie.virgilio.it il 19 luglio 2023.  

Giulia Vittorioso, la tuffatrice italiana di 21 anni offesa in diretta durante la finale mondiale del trampolino tre metri sincronizzato donne, si è sfogata in una lunga intervista. 

In un’intervista a ‘La Gazzetta dello Sport’, Giulia Vittorioso ha detto: “Non so se essere più arrabbiata o incredula. L’ho sentito con le mie orecchie. Mi ero appena collegata, saranno state le 8.30, si capiva chiaramente che i due telecronisti non sapevano di essere in onda”. 

La tuffatrice ha aggiunto: “Hanno fatto il mio nome, non ci volevo credere. Poi come nulla fosse hanno continuato a dire cose sessiste su tutti, frasi irripetibili che non stanno né in cielo né in terra”. 

Giulia Vittorioso ha spiegato: “Conosco Massimiliano Mazzucchi da quando ho 7 anni, fino a un paio di anni fa ci vedevamo in piscina tutti i giorni e non mi ha mai detto niente di simile. A parte questo, è toccato a me, ma se fosse successo a un’altra tuffatrice una simile offesa sessista non sarebbe stata giusta lo stesso”. 

Su Lorenzo Leonarduzzi ha invece detto: “Mai sentito, le volte che le mie gare sono andate in onda sulla Rai la telecronaca era di Bizzotto e Bertone. Ha detto che siamo parenti? Non siamo parenti in alcun modo, a meno che non abbia dei parenti nascosti”.

La tuffatrice ha poi precisato di non aver ricevuto le scuse da parte dei due: “Assolutamente no, è assurdo. Nemmeno Massimiliano (Mazzucchi, ndr) che mi conosce bene. La punizione mi pare davvero il minimo“. 

Giulia Vittorioso potrebbe presentare una denuncia per quanto accaduto: “Non lo escludo, deciderò cosa fare assieme ai miei genitori che sono molto arrabbiati

Estratto dell'articolo di Selvaggia Lucarelli per il Fatto Quotidiano il 19 luglio 2023.  

Ma abbiamo due nuovi geni dell’harakiri giornalistico. Questa volta si tratta del giornalista di Rai Sport Lorenzo Leonarduzzi e del tecnico Massimiliano Mazzucchi i quali, in diretta martedì mattina su Rai Play 2, durante i Mondiali di nuoto a Fukuoka, nel commentare alcune tuffatrici hanno pronunciato frasi quali: “Le olandesi sono grosse. 

Ma tanto a letto sono tutte uguali”, “Questa è una suonatrice d’arpa, come si suona l’arpa? La si tocca, la si pizzica. Si La Do. Gli uomini devono suonare sette note, le donne soltanto tre”. E poi: “Fuma sano, fuma bene, fuma solo pakistano”, “Liccaldo, i cinesi direbbero Liccaldo” (non Riccardo). 

La Rai ha deciso di farli rientrare subito in Italia dal Giappone prima che, durante la loro telecronaca, si chiedano anche come mai le nuotatrici africane non stingano nell’acqua e se è vero che il nuoto fa bene alla linea, esistano le balene.

Perché prima di indignarci per il sessismo e tutto il resto, non so voi, ma io mi preoccupo per il livello delle battute. Roba da rivalutare Berlusconi e il pullman di troie ma anche Angelo Duro a Sanremo e Daniela Santanchè in Senato sul caso Report. Sì, lo so che Leonarduzzi si è giustificato dicendo che ovviamente pensavano di non essere in onda, che si erano tolti le cuffie e doveva rimanere una chiacchierata privata, ma questo, per rimanere in tema “tuffi”, è un avvitamento piuttosto mediocre. 

Primo perché se hai sessant’anni e lavori da decenni in Rai dovresti sapere molto bene che i microfoni e le telecamere non sono mai certamente spenti. Per dire, io durante “Ballando con le stelle” mi guardo bene dal commentare le battute fuori onda di Mariotto perché so che se per caso i microfoni rimanessero accesi, il giorno dopo ci ritroveremmo entrambi a fare i giudici al festival della mazurka per gli anziani all’idroscalo “Corpo di mille balere”.

(...) 

Tornando al fattaccio, quello che è davvero deprimente non è unicamente ciò che è stato detto, ma come lo si è detto. Non solo si parlava delle atlete come di oggetti sessuali commentandone il fisico e la presunta facilità nel concedersi, ma si scomodavano battute che sembrerebbero vecchie e sceme pure a Martufello. 

Ogni volta che qualcuno dice che una donna è brava a suonare solo tre note, e cioè “si la do”, un Valerio Lundini muore da qualche parte nel mondo. A proposito invece di quello che hanno detto, trovo che l’accaduto sia un bene. In un periodo in cui si tende a far credere che ci sia un’esasperazione del politicamente corretto e che la lagna femminista cerchi appigli nel linguaggio con accuse strumentali ed eccessive, ecco che quel microfono casualmente acceso spiega bene in quale Medioevo culturale galleggi ancora buona parte del Paese. E non uso il verbo “galleggiare” a caso.

Quando Leonarduzzi dice che non sapeva di essere ascoltato, pensa di essere una nuotatrice di nuoto sincronizzato: non conta quello che fai sott’acqua, tanto non si vede.  

(...)

E pure sui suoi precedenti (si diceva che avesse augurato Buon compleanno a Hitler dalla sua bacheca fb) afferma: “Le accuse sui presunti auguri a Hitler sono false”. Che a ben vedere è un lapsus niente male. Non sono i suoi auguri a essere falsi, ma le accuse (che invece erano verissime). Insomma, abbiamo capito perché il giornalista Leonarduzzi si è specializzato nel commentare i tuffi: ha una passione smodata per il carpiato. Peccato che non gli venga benissimo.

Rai, i precedenti del telecronista nella bufera: non solo la battutaccia del 2020. Il Tempo il 18 luglio 2023

L'ultima bufera in Rai è quella legata a un fuori-onda clamoroso trasmesso durante la finale dei tuffi dei Mondiali di nuoto in corso a Fukuoka, in Giappone. A causa di un microfono che avrebbe dovuto essere spento - ma ovviamente non lo era - i telespettatori hanno sentito i telecronisti Lorenzo Leonarduzzi, giornalista di RaiSport, e il collaboratore tecnico Massimiliano Mazzucchi pronunciare frasi considerate sessiste e razziste. Eravamo al mattino presto, e un telespettatore di RaiPlay ha mandato una Pec con le frasi incriminate facendo scoppiare il caso. Qualche esempio di quanto andato in onda: "Fuma sano, fuma bene, fuma solo pakistano", "Le olandesi sono grosse"; "Come la nostra Vittorioso;" "Ma tanto a letto sono tutte uguali" via dicendo. In onda è andata anche una barzelletta volgare, nella pausa del telegiornale, carpita dal microfono che doveva essere spento.

L’ad della Rai Roberto Sergio ha preteso il rientro immediato di giornalista e commentatore e annunciato un'indagine interna. Il presidente del Coni Giovanni Malagò ha definito "sacrosanta" la presa di posizione da parte della dirigenza dell’azienda. 

Il Corriere della sera intanto ricorda che Leonarduzzi è stato protagonista di almeno due casi controverso, uno dei quali molto simile a quanto accaduto in Giappone. "Nel 2020, commentando una gara di rally con il pilota estone Ott Tanak pronunciò un’altra frase sessista: «Mi hanno detto una battutaccia, mi vogliono far vincere 100 euro se la dico… Donna nanak, tutta Tanak». La Rai si scusò e sospese il telecronista", si legge sul quotidiano .Che ricorda un altra polemica, nata dopo un post sui social. Il 20 aprile del 2018, giorno del 129° anniversario dalla nascita di Adolf Hitler, "aveva scritto su Facebook: «Alles Gute zum Geburtstag», cioè «Buon compleanno» in tedesco, costringendo Viale Mazzini sulla difensiva: «Non può essere certo un post su un social a mettere in discussione il ruolo svolto quotidianamente dal servizio pubblico nel contrasto all’apologia del nazifascismo»". 

Estratto dell'articolo di A.Rav. per il “Corriere della Sera” il 18 luglio 2023.

Prima domanda: ma come è potuto succedere? «Aspetti, erano tutti fuori onda. Prendo le distanze da tutto quello che è stato captato da un microfono rimasto acceso per esigenze tecniche e lontano un metro e mezzo da me. 

Alcune di queste frasi che mi sono state attribuite poi non le ho proprio dette, si sente una parola su tre», la risposta di Lorenzo Leonarduzzi arriva pronta dal Giappone. 

(...) 

Eppure un incidente simile era già capitato: «No aspetti: l’altra volta ho sbagliato, ma proprio perché sono già stato vittima un paio di anni fa di un incidente increscioso, a maggior ragione ora sto particolarmente attento a quello che dico, anche quando devo descrivere gli esercizi delle tuffatrici. Ho parlato di corporatura grossa? Ma quello lo dico anche degli uomini, non è sessismo. Non voglio che la mia professionalità venga macchiata da queste situazioni, si sta creando un polverone, si vuole colpire qualcuno tramite me...».

Paolo de Laurentiis per corrieredellosport.it il 18 luglio 2023.

"Liccaldo, i cinesi direbbero Liccaldo". Il commento della gara mondiale dei tuffi regala un’altra bufera alla Rai, appena uscita dal caso Facci. 

La segnalazione, molto circostanziata arriva, come spesso accade di questi tempi, dal web, dove un anonimo @defrogging sottolinea gli sfondoni del telecronista Lorenzo Leonarduzzi, che a Fukuoka fa coppia con Massimiliano Mazzucchi, o meglio faceva, perché l’a.d. della Rai, Roberto Sergio, già ieri mattina - d’accordo con il neodirettore di RaiSport, Jacopo Volpi, che ha ereditato la scelta della coppia Leonarduzzi- Mazzucchi - ha diramato un comunicato di fuoco richiamandoli in Italia, “avviando una procedura di contestazione disciplinare nei confronti del giornalista e chiedendo tutti i provvedimenti necessari per il collaboratore tecnico”. 

Le frasi

Il “Liccaldo”, che si riferiva alla storpiatura del nome di uno dei tuffatori azzurro, Riccardo Giovannini, è andato in onda quando Leonarduzzi sapeva di essere ascoltato, perché in diretta. Poi c’è stato il resto: 

"Fuma sano, fuma bene, fuma solo pakistano", "Le olandesi sono grosse" "Come la nostra Vittorioso" (una tuffatrice italiana; ndr), "Grande eh", "Ma tanto a letto sono tutte uguali", "Questa si chiama Harper, è una suonatrice d’arpa. Come si suona l’arpa? La si...?", "La si tocca?", "La si pizzica", "Si, La, Do", "È questo il vantaggio, gli uomini devono studiare sette note, le donne soltanto tre". Questo blocco di perle è un fuori onda andato sul web con la coppia Leonarduzzi-Mazzucchi che non sapeva che il microfono fosse ancora aperto e di cui, al contrario del “Liccaldo” tutt’ora consultabile, non c’è traccia. 

Una volta esploso il caso, il rientro è stato inevitabile. Leonarduzzi, che ha già un provvedimento disciplinare nel suo curriculum a causa di un "Donna nanak, tutta Tanak" detto per scommessa (!) giocando sul cognome di un pilota, rischia il licenziamento. Si è difeso rilasciando una dichiarazione all’Ansa: "Prendo le distanze da quello che mi viene contestato, non si è trattato di una telecronaca. 

Il microfono era rimasto aperto per avere le indicazioni su quando si poteva tornare in onda e la cuffia era appoggiata sul tavolo, ma avevo avuto indicazioni che in onda c’era il tg e non era previsto che andassimo in onda su Rai Play 2. Non c’era nessun intento di body shaming da parte nostra. Nel 2020 feci una stupidaggine clamorosa (quella del “Donna nanak...”; ndr) che pagai con 5 giorni di sospensione e l’allontanamento per un anno e mezzo dalle telecronache. Le accuse sui presunti auguri a Hitler su Facebook (perché in giro si legge anche questo; ndr) invece sono totalmente false. È un fuori onda rubato per un errore tecnico".

Dall’audio a sua insaputa al complotto è un attimo: "La persona che ha denunciato queste cose gestisce il blog nazionale di Nicola Marconi, che era stato proposto per il commento del Mondiale di tuffi al posto di Mazzucchi. C’è del dolo, è un complotto. Ora sono costretto a lasciare il Giappone, ma appena arrivo in Italia vado dai miei avvocati e intendo reagire per salvaguardare la mia dignità. Non contro l’azienda che capisce bene che si tratta di un fuori onda rubato, ma contro chi mi accusa". 

L’a.d. della Rai, Sergio, non sembra comunque conciliante: "Un giornalista del Servizio Pubblico non può giustificarsi relegando a una “battuta da bar” quanto andato in onda". Al di là di audio rubati, fuori onda o altro, la sintesi perfetta la offre - sempre sul web - Riccardo Cucchi, storica voce Rai oggi in pensione: "Rispettare il microfono significa rispettare i telespettatori. E soprattutto sessismo e body shaming non possono far parte del bagaglio di un giornalista del servizio pubblico. Anche a microfono spento". Da oggi le telecronache dei tuffi sono affidate a Nicola Sangiorgio con il commento tecnico di Oscar Bertone. Ieri la coppia Bertocchi-Pellacani ha vinto un bronzo mondiale. 

Estratto da fanpage.it il 18 luglio 2023.

La procedura disciplinare nei confronti di Lorenzo Leonarduzzi e Massimiliano Mazzucchi ormai è cosa fatta. I due, dopo il caso delle frasi razziste (accertate attraverso un video) e sessiste (segnalate da un telespettatore ma senza video a supporto per dimostrarle) sono stati sollevati dal loro incarico per il commento delle gare di tuffi ai Mondiali di nuoto in Giappone. 

(...) Parlando a Repubblica, Leonarduzzi ha ricostruito così l'accaduto così: "In quel momento io non ero in telecronaca. O meglio, non sapevo di esserlo e non voglio pagare per un sistema tecnologico non efficiente […] 

A corredo Repubblica riporta anche le parole del commentatore, Massimiliano Mazzucchi, che si tira fuori, di fatto, attribuendo le responsabilità delle frasi al collega, ma anche rimarcando quanto l'assenza di immagini pesi nell'aver fatto ricadere la colpa anche su di lui: "Nella lista che gira ci sono frasi una accanto all’altra, ma non si sa chi dice cosa. Sono tutte di Leonarduzzi, parole da cui prendo le distanze. Lavoro da quattro anni al fianco di Stefano Bizzotto e non ho mai avuto problemi. Io ho solo detto che le olandesi sono ‘grosse’, e non ‘grasse’, e lo ribadisco. È un giudizio tecnico per rimarcare la differenza con i corpi meno muscolosi delle altre atlete». Un duo poco sincronizzato, che ha finito la gara con zero punti".

Perché Leonarduzzi e Mazzucchi sono stati sospesi dalla Rai dopo essere stati messi alla gogna. Perché Leonarduzzi e Mazzucchi sono stati sospesi dalla Rai. Il giornalista e il commentatore finiti nella bufera dopo i commenti ritenuti sessisti. Per entrambi è scattata la gogna mediatica, soprattutto sui social. Andrea Aversa su L'Unità il 18 Luglio 2023

Partiamo dall’inizio. Ad aver scatenato il putiferio è stata una pec inviata alla Rai e resa pubblica da un profilo Twitter anonimo (@defrogging). All’interno di quella comunicazione sono stati riportati gli estratti della telecronaca che ha causato la crocifissione, senza ‘processo’, di Lorenzo Leonarduzzi e Massimiliano Mazzucchi. Giornalista, il primo, ed ex tuffatore ed oggi commentatore televisivo, il secondo, entrambi sono stati sospesi dalla tv di Stato per alcuni commenti ritenuti sessisti e razzisti. Parole pronunciate durante la messa in onda su Rai Play 2 dei mondiali di nuoto in corso in Giappone.

Perché Leonarduzzi e Mazzucchi sono stati sospesi dalla Rai: i fatti

Leonarduzzi, a sua difesa, ha detto di aver raccontato una barzelletta sessista senza rendersi conto che i microfoni fossero aperti. Il giornalista si è dissociato dall’episodio affermando di aver utilizzato un linguaggio che non gli appartiene. Mazzucchi ha invece confermato di aver apostrofato le atlete olandesi come “grosse” ma di averlo fatto senza alcuna intenzione di offenderle. Anzi, secondo quanto spiegato in un’intervista rilasciata a La Repubblica, l’ex atleta ne avrebbe semplicemente evidenziato una caratteristica fisica che le differenzierebbe dalle altre donne in gara. Mazzucchi ha anche assicurato che presto potrà dimostrare la sua innocenza riuscendo a presentare l’audio ‘incriminato’ in versione integrale.

La gogna mediatica

Ma ormai è tardi, il dado è tratto. Leonarduzzi e Mazzucchi sono colpevoli, il popolo dei social li ha già condannati. Magari la maggior parte degli utenti non ne ha manco ascoltato le parole ma solo letto le notizie riportate e gli audio parziali pubblicati dai vari canali di informazione. I due sono sessisti, maschilisti e persino razzisti (facendo riferimento all’ennesima battuta fatta da Leonarduzzi). Invece, la coppia è stata ingenua e fuori luogo. Questo si. Ingenui nel non comprendere quanto sia forte oggi la cassa di risonanza dei media. Fuori luogo nell’utilizzare un ‘linguaggio da bar’ in un contesto lavorativo. Ma possono essere queste le motivazioni che hanno giustificato uno ‘sputtanamento globale’ (che di sicuro avrà forti ripercussioni sulla vita privata e lavorativa di entrambi)?

La difesa

Nel frattempo, mentre la Rai li ha sospesi costringendoli a fare ritorno in Italia, contro Leonarduzzi si è scatenata la macchina del fango che ha portato a galla un suo post pro-Hitler di qualche anno fa (così da poterlo apostrofare anche come nazista). Mazzucchi, invece, si è dissociato dalle parole pronunciate dal collega e in effetti sarebbe ‘alla sbarra’ solo per quel commento (pare esclusivamente di natura tecnica) fatto nei confronti delle atlete olandesi. Perché la pec di un anonimo che non ha avuto il coraggio, la sensibilità o la volontà di metterci la faccia, avrebbe più valore delle intenzioni di un qualsiasi Mazzucchi? Quest’ultimo, tra l’altro, ha lasciato intendere che sarebbe a conoscenza della vera identità di @defrogging ammettendo che dietro tale account potrebbe esserci una persona che avrebbe validi motivi per screditarlo.

Insomma, siamo stati immersi in una delle classiche vicende di cattivo gusto made in Italy: da una parte i due protagonisti che hanno peccato di scarsa professionalità, dall’altro i buonisti-giustizialisti pronti a sguazzare nel sangue lasciato dallo scalpo tagliato alle loro vittime. Non sarebbe meglio aspettare l’evoluzione e la conclusione di una vicenda del genere o quantomeno di documentarsi al meglio, prima di esprimere giudizi? No, a quanto pare in molti preferiscono “giudicare e non essere giudicati“. Non è proprio il messaggio che ha tramandato un certo Gesù. Andrea Aversa 18 Luglio 2023 

RAI: PROCEDURA DISPLINARE PER TELECRONISTA RAI SPORT

Da rai.it il 17 luglio 2023.

La Rai ha avviato una procedura di contestazione disciplinare nei confronti del giornalista di Rai Sport Lorenzo Leonarduzzi e tutti i provvedimenti necessari per il collaboratore tecnico Massimiliano Mazzucchi. 

L’Amministratore Delegato Roberto Sergio nel commentare quanto avvenuto questa mattina ha dichiarato: “ Un giornalista del Servizio Pubblico non può giustificarsi relegando ad una ‘battuta da bar’ quanto andato in onda. 

Ho dato mandato agli uffici preposti di avviare la procedura di contestazione disciplinare e ho chiesto al Direttore di Rai Sport Iacopo Volpi che faccia rientrare dal Giappone immediatamente il telecronista e il commentatore tecnico”. Da domani le telecronache dei Mondiali di nuoto, categoria tuffi, saranno curate da Nicola Sangiorgio

Marco Zonetti per Dagospia il 17 luglio 2023.  

In un lunedì mattina già caldo per l'afa, la temperatura a Viale Mazzini è divenuta presto rovente quando, su Twitter, è spuntato il post di un anonimo commentatore che annunciava di aver inviato una Pec a Viale Mazzini per denunciare presunti commenti sessisti pronunciati questa mattina, 17 luglio, durante la telecronaca delle gare di tuffi ai campionati mondiali in Giappone su RaiPlay2. 

Tra i commenti riportati sulla denuncia: «Le olandesi sono grosse». «Come la nostra Vittorioso». «Ma tanto a letto sono tutte alte uguali». «Questa si chiama Harper, è una suonatrice d'arpa. Come si suona l'arpa? La si...». «La si tocca?». «La si pizzica "Si la do”».  

E ancora, durante la gara della coppia cinese, la (solita) battuta sulla "erre" pronunciata come una "elle", ovvero «Liccaldo, i cinesi direbbero Liccaldo». Unico commento citato di cui, su RaiPlay, è presente il video a documentarlo, pubblicato su Twitter dallo stesso denunciante. 

Ma al tutto, durante la telecronaca, si sarebbero aggiunti altre amenità quali "fuma bene, fuma sano, fuma solo pakistano" e così via. Battute sessiste e razziste denunciate per l'appunto via Pec a Viale Mazzini dall'account Twitter @defrogging, che punta il dito sui due telecronisti Lorenzo Leonarduzzi e Massimiliano Mazzucchi. 

Effettuando una minuziosa ricerca su RaiPlay, tuttavia, i commenti di cui sopra non compaiono nella telecronaca, scandita invece da argomentazioni del tutto asettiche e meramente tecniche da parte dei due cronisti accusati. 

Il mistero viene in parte spiegato dallo stesso denunciante, il quale sempre su Twitter asserisce che "forse, i commentatori si erano dimenticati di essere in diretta in onda su RaiPlay 2 perché aspettavano la diretta sulla rete tv che invece è arrivata soltanto alla fine della prima rotazione". 

E lo stesso enigmatico @defrogging illustra altresì che la battuta sui cinesi "è avvenuta alla sesta rotazione della piatta maschile, più o meno 7 e qualcosa, è ancora disponibile su raiplay", mentre quelle sulle donne "sono avvenute tra 15 minuti prima la finale e la prima rotazione (che non è su raiplay, la gara parte dalla 2a)". 

In ogni modo, tempistiche a parte, sta di fatto che alcune parti della cronaca sembrerebbero state cancellate da RaiPlay; tanto per infittire ulteriormente il mistero.

In attesa che Viale Mazzini faccia chiarezza con un'indagine sul caso che finirà senz'altro al vaglio della Commissione di Vigilanza Rai, c'è da sottolineare che il giornalista Lorenzo Leonarduzzi, che per ora senza prove documentali risulta innocente, ha un passato di gaffeur. 

Nel dicembre 2020, durante la cronaca del rally di Monza, pronunciò la battuta: "Donna nanak tutta Tänak", sottolineando di essere stato sfidato a farlo per vincere una scommessa da cento euro. L'allora Capogruppo Pd in Commissione di Vigilanza Rai Valeria Fedeli pubblicò il frammento video con il seguente commento: "Possibile che su ?@RaiSport? un giornalista si lasci andare a battute di pessimo gusto, volgari, sessiste, diseducative, vantandosi anche di averci vinto una scommessa da 100 euro? Mi auguro che la #Rai avvii subito un procedimento disciplinare" .

Quindi Valeria Fedeli rincarò in una nota: “Grave, assurdo, diseducativo. Ma questa è la Rai, l’informazione sportiva offerta dal servizio pubblico, o uno spazio franco per sparate grevi e un linguaggio da bulli?”. 

Nel 2018, poi, lo stesso Leonarduzzi aveva scatenato un altro putiferio mediatico, facendo su Facebook gli auguri ad Adolf Hitler nel giorno del suo compleanno. L'allora segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi fotografò il post e lo denunciò pubblicamente. 

(…)

Stasera mi butto. I telecronisti Rai, la pec di Carneade e il sottile confine tra cancel culture e coglionaggine. Guia Soncini su L'Inkiesta il 18 Luglio 2023

Ancora una volta, l’internet ha chiesto la testa d’un pesce piccolo e l’ha ottenuta. Ma nessuno ha sentito le frasi sessiste dei giornalisti del servizio pubblico

Qualche settimana fa, in un luogo pubblico, mi si è avvicinata una signora. Mi ha detto: non mi riconosci, vero? Ho riso e ho detto le solite cose, peraltro vere, che dico in questi casi: non riconosco mai nessuno, faccio sempre figuracce, eccetera. La signora a quel punto mi ha detto il suo nome.

Ho pensato: figlia mia, per forza non ti riconoscevo, l’ultima volta che ti ho visto avevi quarant’anni, adesso ne hai settanta e sembri tua nonna. Non gliel’ho detto. Non perché sia una personcina beneducata: perché mi picco di non essere una conversatrice noiosa, e dire a una persona una cosa che sa già – che in trent’anni è invecchiata trent’anni – non ti rende la più brillante conversatrice del codice postale in cui ti trovi.

Lei, che evidentemente pretende meno da sé stessa in termini di civiltà della conversazione, subito dopo essersi presentata, senza neanche passare per lo svincolo d’un «come stai, quanto tempo», è andata dritta a dire quel che le premeva dire: hai ancora la stessa faccia bellissima, però devi dimagrire.

Mi sembrava disutile farle presente che, come lei sa d’essere invecchiata trent’anni, io so d’essere invecchiata quaranta chili: se un’adulta non ci arriva da sola, a una simile ovvietà, mica la puoi rieducare. Mi sarebbe però dispiaciuto vederla linciata su qualche mezzo di comunicazione se frasi così improvvide le avesse rivolte a un’altra.

Ho quindi proceduto a spiegarle che questo in cui ci reincontravamo è un altro secolo, che non puoi dire alla gente «devi dimagrire», che non è socialmente accettato. Lei – che è di Bologna, una città ferma al Novecento in un modo che andrebbe studiato dagli autori di fantascienza – insisteva: ma io voglio che tu sia ancora bella come una volta. Neanche quel minimo di finzione scenica e salvataggio in corner che sarebbe stato costituito da «ma lo dico per la tua salute». Ho lasciato perdere (a Bologna si dice: ho mollato il colpo): certe persone sono irredimibili nel loro non aver capito in che secolo si trovano.

Qualche sera fa nel programma di Piers Morgan era ospite Brian Cox, il Logan Roy di “Succession”. La mia regola è che bisogna intervistare solo gente che abbia superato i settant’anni, perché è l’unica che si salvi dal dualismo «tremebondi perché poi l’internet si offende» vs «la sparo grossissima per far vedere che non ho paura dell’internet che si offende»: la gente che è per età più vicina alla morte che alla nascita si permette il lusso di dire quel che le pare non per provocazione ma perché sì.

(E anche di rifiutarsi di dire: a fine intervista parlavano di non so che attore che si offende se un non gallese fa un personaggio gallese, e Cox ha detto ma figuriamoci, io sono scozzese e il gallese l’ho fatto benissimo, e Morgan gli ha chiesto di fargli l’accento gallese, e quello l’ha guardato con tutto l’educato disprezzo possibile e ha detto «mica sono una scimmietta ammaestrata»).

Comunque. A un certo punto Cox racconta che non è mai stato famoso come ora, mai l’hanno riconosciuto di frequente e in maniera sfinente come gli accade da quando ha fatto “Succession” (la fama è un inferno, il che rende particolarmente lunare quest’epoca in cui tutti bramano la riconoscibilità). Dice che in Cina pensava di poter stare tranquillo, e invece anche lì, a un certo punto, «Logan Loy!». E a quel punto c’è un impagabile mezzo secondo in cui sulla faccia di Cox si vede passare il pensiero «oddio ora chi li sente che ho fatto l’accento cinese», subito seguìto dal pensiero «peggio per loro».

Ecco, il «peggio per loro» è il lusso che fa la differenza, questo avrei dovuto spiegare alla tizia che va in giro a dire «ma come sei ingrassata»: tu sei certa che se io armo uno scandalo tu poi sei nella posizione di fregartene? Perché, se non lo sei, è meglio adeguarti al secolo in cui ti trovi. È tutto lì: non è che non si possa più dire niente, è che si ha il dovere d’essere abbastanza svegli da sapere quali conseguenze ti tocchino, e se hai le spalle abbastanza larghe per affrontarle.

Ieri, durante una competizione sportiva (quella forma di teatro inventata per chi è troppo analfabeta per andare a teatro), i commentatori della Rai hanno detto delle cose che l’internet si è affrettata a riportare come se fossero state il massimo dell’impresentabilità possibile. Una di queste era «Liccaldo», ovvero come secondo loro i cinesi chiamerebbero un atleta di nome Riccardo. I commentatori sportivi sono Brian Cox? Certo che no.

E infatti, quando un carneade dell’internet ha detto ai suoi follower che aveva mandato una pec alla Rai (una pec! Se questi tempi non esistessero, non sapremmo inventarli), l’internet (e i giornali che pigramente la copincollano) si è precipitata a dargli ragione, a indignarsi, e il direttore generale della Rai ha dovuto diramare il suo bravo comunicato.

«Un giornalista del servizio pubblico non può giustificarsi relegando ad una “battuta da bar” quanto andato in onda. Ho dato mandato agli uffici preposti di avviare la procedura di contestazione disciplinare e ho chiesto al direttore di Rai Sport Iacopo Volpi che faccia rientrare dal Giappone immediatamente il cronista e il commentatore tecnico» (a parte «relegare» usato come significasse «declassare», a parte le eufoniche, a parte la bruttezza delle costruzioni verbali, nell’originale «servizio pubblico» è scritto con le maiuscole, e insomma possiamo occuparci dei comunicati analfabeti almeno quanto dello spirito di patate dei cronisti?).

Le leggende su RaiSport sono meravigliose, gente che torna dalle trasferte con interi blocchetti di ricevute in bianco dello stesso ristorante, e per carità sono di certo solo leggende (a nessuno di noi è mai, il primo giorno in una redazione, stato insegnato come rubare sui rimborsi spese, mai e poi mai). Però, se invece di dire «resti lì e fai solo servizi chiusi in cui possa controllare che tu non dia delle culone alle atlete e dei musi gialli ai cinesi, visto che in diretta di te non ci si può fidare», il provvedimento è «allora torni subito dalla gita premio», ecco, poi diventa difficile non credere alle leggende.

Ancora una volta, l’internet ha chiesto la testa d’un pesce piccolo e l’ha ottenuta, illudendo Carneade di contare qualcosa, e noialtri che esista l’accountability (un concetto per cui in italiano neppure c’è la parola). Carneade a un certo punto ha twittato «immagino che si fossero dimenticati di essere in onda su Raiplay 2 perché aspettavano la diretta sulla rete tv che invece è arrivata soltanto alla fine della prima rotazione di finale. Il punto è che comunque non sono cose da dirsi», perché la meraviglia è questa: un’epoca che ha i libri di Orwell sul comodino epperò ambisce a regolamentare non solo i discorsi che le persone fanno in onda, ma quel che dicono in privato, anzi addirittura i pensieri che è consentito avere.

Tutto questo per una cosa che nessuno di noi ha visto: di «Liccaldo» (nella pec di Carneade: «commento stereotipato sinofono») esiste un video, ma le parti in cui i due con lo spirito di patate a pie’ di lista avrebbero detto che le olandesi sono grosse, «ma tanto a letto sono tutte alte uguali», non stanno neppure su RaiPlay. «Se lo avessi lo avrei già messo perché sto tremando», risponde Carneade, reuccio del prenderla bassa, a una richiesta di prova. L’indignazione sulla fiducia.

Sottile è il confine tra cancel culture e coglionaggine, per chi si rifiuta di prendere atto del secolo in cui si muove e di misurare il proprio potere personale e chiedersi se gli sia consentito dire cose che scandalizzeranno i carneadi con uso di wifi. Il problema non è la libertà d’espressione, o la censura, o il politicamente corretto. Il problema è: vale la pena rinunciare al pie’ di lista, in cambio dello spirito di patate?

  Estratto da corriere.it il 17 luglio 2023.

Nessuna telefonata dalla Rai, che gli preannunciasse la cancellazione del suo programma, “I Facci vostri”, striscia quotidiana di attualità che avrebbe dovuto debuttare a settembre, prima del Tg2 dell’una. 

Anche se la decisione era nell’aria da giorni, il giornalista - stando a quanto appreso dal Corriere - non è stato preavvertito. La decisione dell’ad Rai Roberto Sergio è stata poi annunciata lunedì mattina.

Del resto, la collaborazione fra l’azienda e l’editorialista di Libero non si era ancora formalizzata in un contratto. 

E’ stato proprio un contestatissimo fondo pubblicato su Libero sul caso La Russa jr a causare la cancellazione preventiva. Tuttavia, da qualche parte si sostiene che Facci potrebbe rientrare in palinsesto, magari più avanti, con un programma diverso, a tema, magari registrato e non in diretta. 

Qualche giorno fa, in un’intervista al Corriere , aveva chiarito che le parole sulla vicenda di La Russa jr («La ragazza era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache») erano state «[…] un errore stilistico, un fallimento professionale […]» [...]

Lettera di un lettore a “Repubblica” il 19 luglio 2023.

Caro Merlo, “Facci vostri” non si farà. L’esclusione di Facci le pare una vittoria?

Loretta Manzoni — Sassari 

Risposta di Francesco Merlo

No. Mi pare una soperchieria. Nella Rai caserma di Fratelli d’Italia, Filippo Facci avrebbe almeno portato un pensiero “pericoloso”. E comunque non mi piacciono mai le epurazioni.

 Indagato l'ex re dei paparazzi. Offrirono a Fabrizio Corona file riservati sull’arresto di Matteo Messina Denaro: arrestati un maresciallo dei Carabinieri e un consigliere comunale della provincia di Trapani. Documenti ancora coperti da segreto istruttorio erano stati trafugati e offerti, a scopo di lucro, al noto giornalista milanese. Gli arresti nella notte. Redazione su Il Riformista il 20 Luglio 2023 

Un maresciallo dei Carabinieri e un consigliere comunale della provincia di Trapani sono stati arrestati per il tentativo di vendere a Fabrizio Corona documenti ancora coperti da segreto investigativo sulle fasi immediatamente successive all’arresto del boss Matteo Messina Denaro.

Nella stessa inchiesta sono state eseguite perquisizioni a Milano, in luoghi nella disponibilità dell’ex re dei paparazzi che è indagato per questa vicenda.

I documenti riservati erano stati verosimilmente carpiti dal maresciallo dei Carabinieri e ceduti al consigliere comunale il quale, probabilmente a scopo di lucro, li avrebbe proposti in vendita al noto giornalista milanese, che avrebbe poi realizzato degli scoop.

L’operazione è scattata nella notte in provincia di Trapani e a Milano, dove militari dei Comandi Provinciali di Palermo e Trapani, supportati dai Carabinieri del Comando Provinciale di Milano, hanno dato esecuzione a 2 ordinanze di custodia cautelare agli arresti domiciliari, disposte dal Gip del Tribunale di Palermo su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia, per i reati di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, aggravato dalla funzione di pubblico ufficiale, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio e ricettazione.

Dagospia il 19 luglio 2023.  Da La Zanzara - Radio 24

Il giornalista Filippo Facci, cacciato dalla Rai dopo il suo articolo sul caso La Russa Jr., è intervenuto a La Zanzara su Radio 24 parlando degli ultimi avvenimenti che gli sono successi. 

“Rai? Ci ho messo una grossa croce sopra, adesso mi occupo dell’aria condizionata dove sto traslocando. In modo diverso preoccupando della qualità della mia vita. Sono stati poco gentili, se la Rai per uno che scrive un articolo, che non c’entra un cazzo con la Rai, sono nelle condizioni di mandarlo via, lo possono fare con altri. 

“Non ho nessuna sponsorizzazione politica per avere quel posto lì in Rai. Ho percepito interesse vero, non lo voglio sporcare pensando che ci sia la politica dietro. Meloni? Mai votata. L’ho sostenuta dieci anni fa quando aveva la storia delle primarie col Popolo della Libertà, sostenni lei e un certo Cattaneo”.

“Pretesto per attaccare il Governo? Se non riescono a difendere me per una frasettina del cazzo… immaginati altri. La Rai - continua Facci - è un mondo che va verso l’estinzione, avrei accettato perchè sarei stato scemo a non farlo? Mi faceva comodo per i soldi. Non sono rovinato come mi hanno dipinto, sopravvivo ovviamente ma mi facevano comodo per una serie di ragioni. 

“Stalking tra lui e la moglie? Una persona non ha capito che guadagnando di più sarebbero andati ai miei figli. L’articolo? Vi rendete conto che quella frase era una cosa vera anche se non piace esteticamente. Io non ho la mentalità di quello che si pente”.

Caccia all'uomo. Tira una brutta aria. E non è colpa di Caronte. Non solo, almeno. Perché c'è una temperatura dello scontro che temiamo non accennerà a scendere neppure con la fine dell'estate. Francesco Maria Del Vigo il 18 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tira una brutta aria. E non è colpa di Caronte. Non solo, almeno. Perché c'è una temperatura dello scontro che temiamo non accennerà a scendere neppure con la fine dell'estate. Il tribunale dell'inquisizione del politicamente corretto è più attivo che mai. La sinistra ha armato il suo plotone di esecuzione morale che ha nel mirino tutto quello che si muove fuori dal proprio perimetro. Non è neppure necessario appartenere organicamente all'area dei conservatori, basta non essere di stretta osservanza progressista per trovarsi cucita addosso la lettera scarlatta.

Non è un episodio singolo. Se mettiamo insieme le censure ad personam delle ultime settimane ci accorgiamo di quanto la situazione stia sfuggendo di mano. L'esempio più recente è quello di Filippo Facci: nei suoi confronti è stata applicata una cancel culture preventiva. Un caso da manuale. Il suo programma - una striscia quotidiana di 5 minuti sulla seconda rete nazionale - è stato annullato ancora prima di partire con la scusa dell'infelice frase sul caso La Russa jr. Pd e femministe sono saliti sulle barricate e sui giornali sono state spiattellate intercettazioni di messaggi privati del giornalista e dell'ex moglie. Sputtanato come se fosse un boss mafioso.

Ma c'è una vera e propria Internazionale che vuole conservare lo status quo, cioè l'egemonia culturale della sinistra: pochi giorni dopo Beatrice Venezi - direttore d'orchestra di fama mondiale - viene boicottata a Nizza in quanto «neofascista». Il delirio continua: il maestro Alberto Veronesi viene cacciato in malo modo dal Festival Pucciniano per aver diretto con una benda sugli occhi una Bohème brutalizzata in chiave sessantottina; Paolo Petrecca, numero uno di Rainews 24, finisce nel mirino del soviet di redazione fondamentalmente per aver fatto il suo lavoro e soprattutto perché non fa parte della casta rossa; Alessandro Giuli - a capo del Maxxi - viene attaccato per aver invitato nel museo capitolino Vittorio Sgarbi, a sua volta finito sulla graticola del politicamente corretto per aver fatto semplicemente il Vittorio Sgarbi che conosciamo da quasi 40 anni e la lista potrebbe continuare e, purtroppo, continuerà a lungo. Perché quella ingaggiata dalla sinistra è una caccia all'uomo che non conosce differenze: un intellettuale o un presentatore di destra valgono quanto i cronisti che hanno pronunciato frasi stupide e fuori luogo ai mondiali di tuffi. Vanno eliminati.

Chi non fa parte del circolino rosso può avere anche referenze, curricula chilometrici e anni di esperienza sul campo, ma ai loro occhi rimane sempre un usurpatore. Tuttavia alla maggioranza degli italiani è ben chiaro un concetto: né la Rai, né la cultura in generale sono cosa loro. Se ne facciano una ragione.

Rai, censura è fatta: cancellato il programma di Filippo Facci. La Rai non manderà in onda la striscia quotidiana "I facci vostri". Ecco perché è un gravissimo errore. Andrea Indini il 17 Luglio 2023 su Il Giornale.

Cala il sipario. Censura è fatta. Oggi l'amministratore delegato della Rai, Roberto Sergio, ha deciso di cancellare la striscia quotidiana affidata a Filippo Facci, I Facci vostri, inizialmente annunciata per settembre e poi finita nel tritacarne mediatico per un articolo del giornalista considerato eccessivo dai censori rossi. Si chiude così la telenovela estiva dei palinsesti di viale Mazzini. Una soap indigesta, segnata dallo starnazzare delle opposizioni che prima hanno gridato all'occupazione della tv pubblica da parte degli uomini della Meloni e poi hanno finito per pretendere la testa di Facci.

Ma Facci può essere epurato per una frase di troppo? È bastato davvero così poco? O ha pesato di più la campagna dei soliti progressisti alla Selvaggia Lucarelli su quanto scritto (su Libero e sui social) in passato? Perché nel primo caso una frase di troppo può scappare a tutti. E Facci se ne è scusato subito. Nel secondo caso, invece, tutti gli articoli, i post e i commenti erano già lì da leggere e valutare prima che in Rai decidessero di affidargli una striscia quotidiana. Se non è per quelle quattro parole indigeste sul caso La Russa jr ma per il suo cv, basta dunque che i censori rossi facciano partire una campagna contro qualcuno che non la pensa come loro, perché questo finisca sul patibolo? Basta qualche indice puntato per farsi dettare la linea editoriale?

Se, poi, stiamo a guardare il passato dei giornalisti, allora i palinsesti rischierebbero di finire svuotati. Perché dovremmo "sbianchettare" anche altri nomi. Prendiamo un esempio su tutti, uno di quelli che la sinistra venera: Roberto Saviano. Chi più duro di lui? Serve per caso ricordare gli insulti con cui ha ricoperto il centrodestra? Per esempio che andava in giro a dire (e a scrivere) che la Meloni è una "bastarda" e Salvini "il ministro della malavita"? Solo il fatto che i leader di Fratelli d'Italia e Lega lo avessero querelato, era bastato alla sinistra per gridare alla censura. Ricordate Michela Murgia? Lo scorso ottobre scriveva questo: "Il primo gesto di Meloni da presidente del Consiglio potrebbe dunque essere quello di portare alla sbarra un intellettuale di fama internazionale che le ha espresso dissenso. A quell'udienza ci sarò anche io. Voglio vederla in faccia questa destra che appena sente la parola cultura mette mano alla querela". Bene. A distanza di un anno Saviano avrà il suo programma, Insider, mentre Facci no. Dove sta, dunque, la censura?

Intanto nel Pd già esultano. In prima linea (tutto tronfio) Sandro Ruotolo, l'ex inviato di Michele Santoro oggi responsabile Informazione di Elly Schlein. "La Rai è l'industria culturale e informativa più importante del nostro Paese - ha pontificato - è un bene di tutti". Ma la sinistra, che oggi stappa lo spumante per l'epurazione di Facci, è la stessa che non più di un mese fa urlava all'occupazione della Rai da parte delle destre, usava il dimissionario d'oro Fabio Fazio per attaccare il governo e preparava, cavalcando l'addio di Lucia Annunziata, l'ennesimo assalto alla diligenza. Ecco, ora guardate i palinsesti, scorrete i nomi (Roberto Saviano, Marco Damilano, Sigfrido Ranucci, Geppi Cucciari e così via...) e chiedetevi un po': ma dov'è la TeleMeloni tanto odiata dai censori rossi?

Saviano e il suo tweet su Salvini. Il centrodestra reagisce: “Adesso cancellate il suo programma dalla Rai, come con Facci”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Luglio 2023

Bocche cucite in casa Rai sono rimaste cucite. In occasione delle polemiche su Facci, l’ad Roberto Sergio aveva detto che non avrebbe deciso sull’onda delle polemiche. Adesso bisognerà attendere. Martedì è previsto l’ultimo CdA prima della pausa estiva.

Esplode in Rai dopo il caso Facci,  quello di Roberto Saviano. Un duro scontro a colpi di tweet tra il vicepremier Matteo Salvini e lo scrittore, titolare da novembre di una trasmissione su Rai3, che ha scatenato le reazioni  delle forze della maggioranza di centrodestra che hanno chiesto ai vertici Rai di sospendere il programma di Saviano, applicando lo stesso criterio con il quale è stato cancellato quello di Filippo Facci editorialista del quotidiano Libero . Parlamentari di Forza Italia hanno già depositato un’interrogazione in commissione Vigilanza mentre Salvini ha annunciato querela nei confronti di Saviano. La Rai per il momento tace.

Lo scontro è iniziato giovedì, quando Saviano ha attaccato su Twitter il leader della Lega che aveva così commentato la candidatura alle Europee di Rackete: “Dallo sperone alle motovedette italiane della Guardia di Finanza alla candidatura con la sinistra è un attimo. Auguri, viva la democrazia!” così commentato da Roberto Saviano:  “Salvini mente come respira” definendolo ancora una volta “ministro della Mala Vita“, sostenendo che la Rackete “non ha mai compiuto nessun atto ostile e che anzi ha reagito nel rispetto della vita umana” e sostenendo che il ministro Salvini, accusato di diffamazione aggravata nei confronti di Rackete, “è stato protetto dai suoi sodali in Parlamento“, dalle “bande parlamentari che sono la forza delle sue menzogne“. 

Saviano infine ricorda che il vicepremier lo ha querelato sostenendo che “non si è mai presentato in tribunale, tenendolo così “in ostaggio dal 2018“, dimenticando che l’imputato è lui, obbligato alla presenza in aula, e non il vicepremier Salvini.

Il centrodestra ha reagisto chiedendo alla Rai di intervenire, applicando lo stesso metodo del «caso Facci». Ha replicato anche Salvini: ” Per il Signor Saviano io sarei il “ministro della Mala Vita”… Altro insulto e altro odio? Altra querela”. Ma Saviano immediatamente rincarava la dose sempre su twitter:.

Questa volta il caso è quello di Feliciana Chimenti, la donna morta dopo il parto per un tumore. Salvini aveva pubblicato un tweet in cui aveva ricostruito la vicenda, esprimendo ammirazione per una mamma che, pur essendo malata, non aveva voluto sottoporsi al percorso terapeutico “per non mettere a rischio la gravidanza“. 

Al commento di Salvini aveva risposto il marito della Chimenti, chiarendo che la moglie non si era negata le cure, avendo scoperto la malattia dopo il parto, ma soprattutto respingendo la solidarietà di Salvini, perché “siamo il tuo opposto” rivelando che sua figlia si chiamerà Carola, proprio in onore della Rackete.

Sulla questione, il tweet di Saviano accusa Salvini di aver “diffuso sui social notizie false per ottenere qualche like” aggiungendo ” Lo sciacallaggio sui social è un fenomeno radicato con cui fare i conti, genera o acuisce sofferenze. Quando lo sciacallo è un ministro, tutto diventa ancora più intollerabile”. Affermazioni pesanti che hanno suscitato la reazione: “La figura di Saviano è di certo incompatibile con la tv pubblica: o a Saviano è tutto permesso?” osserva Giorgio Maria Bergesio, capogruppo della Lega in Commissione di Vigilanza Rai. Reagisce anche Forza Italia che ha presenta l’interrogazione in Vigilanza chiedendo “se Saviano goda di una sorta di impunità, a differenza di altre persone, che gli consente di offendere le persone e di poter svolgere una funzione importante di conduzione di programmi del servizio pubblico“. E FdI manifesta il suo sostegno a Salvini: “Saviano è incompatibile con la tv pubblica. Le parole di Saviano contro il governo vanno ben oltre la critica. Si tratta di insulti con parole inaccettabili nel merito e nei toni”.

Ieri le bocche in casa Rai sono rimaste cucite. In occasione delle polemiche su Facci, l’ad Roberto Sergio aveva detto che non avrebbe deciso sull’onda delle polemiche. Adesso bisognerà attendere. Martedì è previsto l’ultimo CdA prima della pausa estiva. Redazione CdG 1947

"Quando lo sciacallo è un ministro, tutto diventa ancora più intollerabile". Saviano contro Salvini “ministro della Mala Vita”: è bufera. FI e Fdl: “Rai cancelli programma Insider” e chiarisca favoritismi. Licenza poetica vale per Saviano e non per Facci? Redazione su Il Riformista il 22 Luglio 2023

All’indomani di un tweet in cui ha definito il leader della Lega Matteo Salvini “ministro della malavita”, attaccandolo sul caso di Carola Rackete, è bufera su Roberto Saviano. Il giornalista finisce al centro delle critiche soprattutto dei parlamentari di Fratelli d’Italia e Forza Italia membri della Vigilanza Rai, che chiedono che venga cancellato dalla tv di Stato il suo programma ‘Insider’.

Ed è quasi automatico, dal punto di vista della maggioranza, il paragone con la vicenda di Filippo Facci, escluso dalla Rai per una frase in un suo articolo sulla vicenda che coinvolge il figlio del presidente del Senato, Ignazio La Russa. Ora FdI afferma che anche il ‘caso Saviano’ sarà portato in Vigilanza, mentre Salvini annuncia querela: “Per il signor Saviano io sarei il ‘Ministro della Mala Vita’… Altro insulto e altro odio? Altra querela”, scrive su Twitter, rispondendo dunque attraverso lo stesso canale social utilizzato dal giornalista.

Negli stessi minuti Saviano rincara la dose, parlando, ancora su Twitter, del caso di Gabriele Bottone, che “risponde a Matteo Salvini che, nei giorni scorsi, aveva strumentalizzato la vicenda di Feliciana Chimenti, moglie di Gabriele, che ha lasciato marito e figli a causa di un tumore. Salvini ha diffuso sui social notizie false per ottenere qualche like. Lo sciacallaggio sui social è un fenomeno radicato con cui fare i conti, genera o acuisce sofferenze. Quando lo sciacallo è un ministro, tutto diventa ancora più intollerabile”.

Mentre la sfida a colpi di tweet sembra destinata a proseguire, i membri di Forza Italia della Commissione di Vigilanza Rai Maurizio Gasparri, Roberto Rosso, Rita dalla Chiesa e Andrea Orsini hanno presentato una interrogazione chiedendo “come i vertici della Rai valutino le offese di Saviano ad esponenti politici e se Saviano goda di una sorta di impunità, a differenza di altre persone, che gli consente di offendere le persone e di poter svolgere una funzione importante di conduzione di programmi del servizio pubblico”.

I parlamentari azzurri sottolineano che a fronte della cancellazione del programma di Facci, “non risulta che la Rai abbia cancellato per la prossima stagione il programma che sarà affidato a Roberto Saviano, il quale non soltanto in passato diede della ‘bastarda’ al presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ma che ieri ha rincarato la dose contro il ministro Matteo Salvini e l’intera maggioranza”.

Da FI proseguono: “Fateci capire: o il codice deontologico della Rai ritiene corretto dare della bastarda al primo ministro, malavitoso a un importante ministro e definire ‘bande’ i partiti di governo, cioè i suoi azionisti pro tempore, oppure significa che qualcuno, ma solo qualcuno, nel paese e nella televisione di Stato ha libertà di insulto e di politicamente scorretto in nome di una non specificata superiorità morale e culturale, una sorta di licenza poetica che vale per Saviano ma non per Facci“.

Anche FdI è sulla stessa linea, con diversi parlamentari, e in particolare tutti quelli che fanno parte della Vigilanza Rai, che sottolineano come “definire un ministro della Repubblica italiana ‘ministro della mala vita’” equivalga “a disprezzare le istituzioni italiane, e rende un personaggio come Saviano incompatibile con la tv pubblica. Le parole di Saviano contro il Governo vanno ben oltre la critica. Si tratta di insulti con parole inaccettabili nel merito e nei toni gravissime, incompatibili con il servizio pubblico”. Mentre il capogruppo del partito alla Camera, Tommaso Foti, si dice “certo” di una presa di posizione dei vertici Rai sulla vicenda.

Ultima trovata politically correct: il "diversity editor" in redazione. La Stampa di Giannini annuncia una nuova figura professionale per "informare in modo sempre più inclusivo". Il direttore: "In Italia diritti sotto attacco". Ecco i rischi dell'operazione progressista. Marco Leardi il 18 Giugno 2023 su Il Giornale.

In nome del politicamente corretto si aprono nuove e curiose frontiere professionali. Al quotidiano La Stampa, ad esempio, arriva il "diversity editor". Già di per sé, l'inglesismo non promette nulla di buono e anzi desta qualche perplessità sul ruolo in questione. Domanda legittima: di che si tratta? A spiegarlo con orgoglio è stata la stessa testata diretta da Massimo Giannini. "È una figura nuova nel panorama giornalistico italiano, con l'obiettivo di informare in modo sempre più inclusivo". Il che, significa tutto e niente. Nello specifico - si legge sul sito del quotidiano - il nuovo addetto avrà il compito di "sensibilizzare la redazione e il pubblico creando contenuti inclusivi e rappresentativi che riflettano l’ampia gamma di punti di vista ed esperienze in modo accurato e rispettoso". Chi ci ha capito qualcosa, alzi la mano.

Per carità, non intendiamo mettere il becco nelle scelte editoriali altrui: ognuno, nel proprio giornale, ha il sacrosanto diritto di fare ciò che vuole. Ci permettiamo però di sollevare dubbi sulla reale utilità della figura in questione, presentata ai lettori con argomentazioni che sembrano nascondere una connotazione politica. "Nel nostro Paese i diritti della comunità Lgbtqia+ sono sotto attacco, ma i diritti vanno ampliati perché contribuiscono a rendere più equa la nostra democrazia", ha affermato Massimo Giannini in un video. Vorremmo capire, di grazia, dove sarebbe il presunto pericolo denunciato dal giornalista, visto che il nuovo governo non ha adottato alcun provvedimento restrittivo in materia. E considerando che, fino a otto mesi fa, alla guida del Paese c'era pure la sinistra arcobaleno.

Non vorremmo che il "diversity editor" fosse piuttosto l'ennesima trovata progressista destinata a produrre un'informazione omologata, monocorde nella narrazione e assoggettata agli assurdi diktat della cossidetta cultura woke. Il rischio, a nostro avviso, è infatti che simili figure finiscano con l'impoverire la capacità di racconto di una testata, imponendo ai giornalisti un nuovo linguaggio ritenuto più inclusivo e rispettoso di tutti. Anzi, di tutt*. Tale eventualità - che speriamo non si verifichi - sarebbe persino irrispettosa nei confronti di una professione che, tra le proprie prerogative di libertà, ha proprio quella di utilizzare le parole e le loro sfumature per offrire punti di vista alternativi e polifonici. L'operazione non è esente da criticità e quindi ci auguriamo non ottenga l'effetto opposto a quello desiderato.

"Ci concentreremo su quelle differenze tra le persone – come il genere, l'identità di genere, l’orientamento sessuale, la disabilità, l'etnia, l'età, solo per citarne alcune – che sono ancora oggi oggetto di pregiudizi e discriminazioni", hanno fatto sapere dal quotidiano torinese. E ancora: "Ci occuperemo di persone Lgbtqia+ (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali, asessuali) e di corpi non conformi, di persone con disabilità, di migranti, di terza età e nuove generazioni, di intersezionalità e della rappresentazione di queste realtà nei media". Concordiamo sul fatto che la realtà vada raccontata nel suo insieme e nelle sue sfaccettature anche sottorappresentate, ma c'è davvero bisogno di una figura che spieghi e suggerisca come farlo?

"Diteci quali termini secondo voi sono scorretti, inappropriati o, peggio ancora, offensivi", hanno chiesto dalla Stampa, invitando i lettori a inviare le loro segnalazioni. Peggio ci sentiamo: sembrano così lontani i tempi in cui le principali testate (tra le quali rientra il prestigioso quotidiano torinese) avevano il compito di offrire una chiave di lettura al pubblico. Ora, per qualcuno, dovrebbe avvenire il contrario. Cultura e informazione devono passare per le forche caudine del politicamente corretto.

Se il politicamente corretto spazza via anche l'Oktoberfest. Storia di Roberto Vivaldelli su Il Giornale il 18 maggio 2023.

"O'zapft is! ("È stappata"), afferma il sindaco di Monaco di Baviera inaugurando ogni anno l'Oktoberfest dopo lo stappo della prima botte. Da un po' di tempo sulla celebre festa popolare tedesca che si tiene ogni anno dal 1810 dove scorrono fiumi di birra aleggia l'ombra del politically correct. Nulla di grave al momento, ma ogni anno le polemiche s'intensificano e di questi tempi è difficilmente prevedere dove possano condurre. Mancano quattro mesi all'inizio della festa, che prende il via il penultimo fine settimana di settembre, ma qualcuno comincia già a chiedersi - come scrivono sulla Süddeutsche Zeitung, citato da Italia Oggi - se prossimamente vedremo i "talebani" della correttezza politica aggirarsi per i padiglioni e per proibire alle cameriere di indossare i loro tradizionali costumi scollatissimi.

Nel mirino dei censori il décolleté

"Una donna con un décolleté chiaramente riconoscibile è raffigurata sul boccale di birra per l'Oktoberfest. Dovresti essere arrabbiato per questo?", si chiedeva il Frankfurter Allgemeine non più tardi di qualche mese fa mentre nello stesso periodo esplodeva il dibattito sulla canzone "Layla" e sul sessismo all'Oktoberfest. Non si tratta del celebre brano del 1970 di Derek and the Dominos, scritto da Eric Clapton e Jim Gordon, ma di una canzone di Robin Leutner, alias DJ Robin, incentrata sulla storia di una prostituta.

La polemica è iniziata quando un portavoce della città di Würzburg, in Baviera, ha annunciato che "si sarebbero assicurati che la canzone non venisse suonata in futuro" durante il suo festival, il Kiliani-Volksfest, dichiarando che il successo di Schlager era sessista. Un dibattito sul sessismo che ha poi investito e si è esteso sullo stesso "Wiesn" (il nome che i bavaresi danno all'Oktoberfest) e sull'immagine della donna. "A volte le persone nella tenda della birra vogliono esagerare un po'", spiega il celebre locandiere e imprenditore della famiglia Inselkammer, Peter Inselkammer.

Alcol, estasi di massa, erotismo: l'Oktoberfest è in fondo una "festa inebriante, dionisiaca" fatta di riti arcaici e crea una sorta di trance nei partecipanti, osservava qualche tempo fa, citata dalla stampa tedesca, la psicologa Brigitte Veiz. Modificare la festa significherebbe snaturarla completamente.

La nuova morale della correttezza politica

Anche all'Oktoberfest, dunque, ciò che un tempo era considerato accettabile oggi non lo è più. Come il già citato boccale della birra, che raffigura donne formose - oggi diremmo "curvy?" - con un vistoso décolleté. Ma come spiega l'organizzatore dell'Oktoberfest, il festival non è né sessista né omofobo o "esclusivo".

"I regolamenti- afferma -vietano il razzismo, l'antisemitismo, il simbolismo nazista e l'esaltazione della violenza. Se ammorbidisci completamente l'Oktoberfest, non è più l'Oktoberfest". Come nota Roberto Giardina su Italia Oggi dopotutto come si possono imporre le buone maniere e il buon gusto a chi si vuol divertire a una festa popolare che ha oltre due secoli di vita?

Dovremmo cancellare Picasso?" Cancel culture, i nuovi Talebani sono arrivati fra noi. Benedetta Frucci su Il Riformista il 3 Maggio 2023 

È il 12 marzo 2001 quando la furia ideologica dei Talebani si scaglia contro le statue dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, costruite nel terzo secolo dopo Cristo. Il verdetto? Colpevoli di incarnare idoli preislamici, da abbattere.

19 anni dopo, negli Stati Uniti d’America, gruppi di attivisti del movimento Black Lives Matters distruggono le statue raffiguranti Cristoforo Colombo a Richmond, in Virginia, e a Minneapolis, in Minnesota. La sua colpa? Il razzismo verso i nativi americani. Poco dopo, il 7 luglio 2020, appare su Harper’s Magazine un appello firmato da 150 fra i più celebri intellettuali del mondo che condanna la cancel culture.

Fra questi, Salman Rushdie, Francis Fukuyama e le scrittrici femministe J. K. Rowling, Margaret Atwood, l’editorialista del New York Times Bari Weiss. Qualche giorno dopo, Bari Weiss annuncia il suo addio alla testata americana, costretta a licenziarsi. Nella lettera pubblicata sul suo sito, scrive: “Twitter non è nella gerenza del New York Times. Ma è diventato il suo vero direttore”. Denuncia un clima di caccia alle streghe in redazione, le accuse di razzismo da parte dei colleghi, le minacce di morte che arrivano da giornalisti e utenti sui social network.

Soprattutto, mette allo scoperto il nuovo metodo usato nella redazione: se un articolo rischia di provocare indignazione, è cestinato. Se un giornalista osa raccontare una realtà che non piace agli utenti, licenziato.

J.K. Rowling, la creatrice di Harry Potter, non è certo un brillante esempio di conservatrice: femminista convinta, è stata sottoposta a quella che è forse la storia di gogna mediatica più violenta degli ultimi anni perché accusata di aver affermato l’esistenza del sesso biologico. Nella neolingua, reato di transfobia.

Per queste sue posizioni, la Rowling è oggetto non solo di insulti, ma anche di vere e proprie minacce di morte fino alla creazione di un hashtag virale su Twitter, #RIProwling, Il New York Times in un video promozionale di lancio della campagna di abbonamenti sprona a cancellarla chiedendo ai suoi lettori di immaginare Harry Potter senza la sua creatrice, la Warner Bros, nello spin off Animali Fantastici, cancella il suo nome, relegandolo in piccolo, alla fine dell’elenco di citazioni.

Ma J.K. Rowling non è la sola femminista finita vittima della cancel culture. Kathleen Stock, docente di filosofia dell’Università del Sussex, lesbica, è costretta a licenziarsi in seguito a una feroce campagna di odio organizzata contro di lei. La sua colpa, aver ribadito la differenza fra identità di genere e sesso biologico e sostenere che il cambio sesso non dovrebbe essere permesso ai minori.

Di qui, l’inizio della gogna: una lettera di 600 accademici che chiede la revoca del titolo di Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico, il sindacato dei docenti che ne chiede le dimissioni, ronde di studenti con passamontagna ne chiedono il licenziamento con l’accusa di transfobia, fino a costringerla alle dimissioni.

Ma se la gogna investe le persone, sorte migliore non tocca alla letteratura, alle opere d’arte, ai film.

Via col vento, il capolavoro cinematografico di Victor Fleming, è ambientato in una società schiavista che fortunamente non è più la nostra. Eppure, anziché contestualizzarlo storicamente, per i nuovi censori merita il bollino rosso. E così, HBO lo rimuove dal catalogo.

Ho avvertito i miei editori che se cambieranno anche solo una virgola in uno dei miei libri, non vedranno mai più una mia parola. Mai! Mai!”. Disse Roald Dahl. Chissà come reagirebbe ora, scoprendo che le sue opere sono state riscritte da una casa editrice inglese, che le ha epurate da parole “offensive” quali grasso, brutto.

Agatha Christie ha subito lo stesso destino: la sua colpa, utilizzare personaggi troppo caratterizzati dall’etnia. Ma se in Gran Bretagna si censurano libri, in Canada si estirpa il problema alla radice.

Una scuola dell’ Ontario ha organizzato un rogo dove sono stati bruciati 30 libri a causa di presunti contenuti razzisti nei confronti dei nativi americani, fra cui il pericolosissimo “Asterix e gli indiani”.

Le opere d’arte non vengono risparmiate: il Guardian si è scagliato contro Picasso, colpevole di misoginia, con un articolo dal titolo “dovremmo cancellare Picasso?”.

La Tate Gallery di Londra ha rinominato il quadro di Cezanne The Negro Scipio. Si chiamerà solo Scipio.

Neppure i cartoni animati sono esenti dalla scure: la Disney negli anni si è resa grande interprete della cancel culture, bollinando con un’avvertenza speciale titoli come gli Aristogatti, Lilli e il vagabondo, Il libro della giungla: razzisti.

E ancora, opere teatrali, codici di linguaggio fra i dipendenti imposti dalle aziende: il meccanismo illiberale si ripete sempre uguale. Una nuova religione, la cancel culture, ha contagiato intere università, giornali, aziende e artisti. Per chi non è allineato, la pena è la cancellazione. Si negano la storia, la libertà d’opinione, finanche la biologia. Si processa l’arte, si abbattono le statue, si censurano i libri. I nuovi Talebani insomma, sono arrivati fra noi. Benedetta Frucci

Dal “Corriere della Sera” 10 marzo 2023.

È un atto di «discriminazione» che deve essere punito con il licenziamento dire «lesbica» a una collega. Lo ha stabilito la Corte di cassazione che ha confermato la «giusta causa» con cui la Tper, società del trasporto pubblico bolognese aveva mandato via un’autista che si era rivolto a una collega affermando: «Come sei incinta tu? non sei lesbica?».

 Secondo i giudici «l’intrusione nella sfera intima e assolutamente riservata della persona con modalità di scherno» non può essere considerata solo «una condotta inurbana». La Corte di Appello di Bologna, nel 2020, aveva ritenuto eccessivo il licenziamento trasformandolo in recesso unilaterale da parte del datore condannato a versare all’autista venti mensilità. La suprema Corte ha invece stabilito che si tratta di un comportamento «non conforme ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell’ordinamento».

Anche perché il codice di Pari opportunità tra uomo e donna considera come «discriminazioni» anche le «molestie», ovvero «quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo» soprattutto «se subiti nell’ambito del rapporto di lavoro».

Dice “lesbica” a una collega. La Cassazione: giusto licenziare il dipendente. Per la Suprema corte il comportamento del lavoratore è da considerarsi “discriminatorio” e in contrasto con “i valori presenti nella realtà sociale”. Il Dubbio il 10 marzo 2023

Dire “lesbica” a una collega con tono di scherno è un atto “discriminatorio” punibile con il licenziamento. A stabilirlo è la Corte di Cassazione, che ribaltando il giudizio della Corte d’Appello di Bologna ha confermo la decisione di Tper Spa, la società del trasporto pubblico emiliano che aveva interrotto il rapporto lavorativo di un autista per “giusta causa” senza riconoscergli diritto all’indennità. L’uomo si era rivolto alla una collega che aveva appena avuto un figlio, dicendole: “Ma perché sei incinta pure tu? Ma non sei lesbica?”.

La donna aveva quindi segnalato l’episodio all’azienda, che a sua volta aveva mandato via il dipendente ritenendo il suo comportamento “gravemente lesivo dei principi del Codice etico aziendale e delle regole di civile convivenza”. Nel 2020 però i giudici della Corte d’Appello hanno ritenuto licenziamento in tronco “sproporzionato” rispetto alla “obiettiva entità” degli “addebiti” e condannato la società a versare venti mensilità all’autista. Il cui comportamento, per la Corte, era da considerarsi solamente “inurbano”.

Diverso il giudizio della Cassazione. Che con il verdetto 7029 della Sezione lavoro ha ordinato alla Corte di appello di rivedere la sua decisione verificando “la sussistenza della giusta causa di licenziamento alla luce della corretta scala valoriale di riferimento”. Per la Suprema Corte, infatti, “l’intrusione nella sfera intima e assolutamente riservata della persona con modalità di scherno”, non può considerarsi semplicemente un comportamento “inurbano”. Perché la condotta del dipendente “non è conforme ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell’ordinamento”, e appare “in contrasto con valori ben più pregnanti, ormai radicati nella coscienza generale ed espressione di principi generali dell'ordinamento”. Ciò anche alla luce del codice di Pari opportunità tra uomo e donna, che considera come “discriminazioni” anche le “molestie”, ovvero “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”. Soprattutto se subite “nell'ambito del rapporto di lavoro”.

I social sollevano il «divieto dei capezzoli». Francesca Catino su Panorama il 23 Gennaio 2023

Facebook e Instagram hanno deciso di revocare il loro controverso divieto sui capezzoli, almeno per i corpi trans e non binari

I social sollevano il «divieto dei capezzoli»

Il consiglio di sorveglianza del colosso digitale Meta, che possiede piattaforme social come Facebook e Instagram, ha incaricato i social media di revocare il divieto di immagini di persone in topless per chiunque si identifichi come transgender o non binario. A riferirlo è Hypebae, un giornale online che tra argomenti di attualità su fashion e lifestyle si impegna a mettere al centro le donne di oggi.

La decisione è arrivata dopo anni di polemiche, che si sono rafforzate di recente dopo che Facebook aveva rimosso le foto di una coppia formata da una persona transgender e da una nonbinary che mostravano il loro petto nudo, anche se coi capezzoli coperti. Il post era stato rimosso e ripubblicato dopo le polemiche, che nel frattempo erano aumentate sempre di più. Da anni, infatti, i social network di Mark Zuckerberg sono estremamente rigidi sulla nudità del seno femminile, censurando qualsiasi tipo di immagine che mostri le donne a seno scoperto, mentre nessun tipo di misura analoga è presa per il petto maschile. In risposta alla rimozione del posto della coppia LGTBQ+, il consiglio di Meta ha dichiarato nella sua decisione: «La stessa immagine di capezzoli femminili sarebbe vietata se pubblicata da una donna cisgender, ma consentita se pubblicata da un individuo che si auto identifica come non binario». Nel tentativo di essere inclusivo, Meta ha inavvertitamente continuato a sorvegliare i corpi delle donne e a perpetuare nozioni transfobiche. Consentendo alle donne trans di mostrare il petto piuttosto che alle donne cisgender. Significa che il conglomerato mediatico sta essenzialmente ammettendo di non vedere le donne trans e non binarie come donne reali. Il consiglio, tuttavia, ritiene che stia influenzando la difesa della comunità LGBTQ+ poiché ha condiviso: «Valutiamo costantemente le nostre politiche per contribuire a rendere le nostre piattaforme più sicure per tutti. Sappiamo che si può fare di più per supportare la comunità e ciò significa lavorare con esperti e organizzazioni di difesa LGBTQ+ su una serie di problemi e miglioramenti del prodotto». Non è chiaro se il consiglio di sorveglianza di Meta revocherà il divieto per tutti i capezzoli.

Lo "shadowban" dei social: cos'è e come "censurano" questi contenuti. Una tecnica usata dalle piattaforme social e che è tornato alla ribalta grazie a Twitter, ma lo shadowban è tipico di molti social. Giuditta Mosca su Il Giornale il 2 Gennaio 2023

Lo scorso 9 dicembre la giornalista Bari Weiss ha pubblicato la seconda parte di quelli che sono stati definiti "Twitter files", ossia le prove che la piattaforma avrebbe "nascosto", durante i primi mesi della pandemia, account e contenuti giudicati in grado di turbare la comunità.

Contenuti veri, non fake news, ma giudicati inadatti alla pubblicazione. Un fenomeno che non riguarda soltanto Twitter ma che è ritornato d'attualità perché preso di petto da Elon Musk.

Lo shadowban

Si tratta di una sorta di censura selettiva che può interessare tutti gli utenti e tutti i contenuti i quali, pure non andando a ledere le politiche delle piattaforme, vengono pubblicati e resi meno visibili perché potrebbero turbare il dibattito collettivo.

Contenuti e account che vengono tenuti nell'ombra (shadow) e che sono difficilmente rintracciabili pure facendo ricerche sulle piattaforme o usando hashtag appropriati.

A differenza di un veto vero e proprio (un ban), chi ha pubblicato i contenuti non viene messo a conoscenza del fatto che sono stati sottoposti alla tecnica dello shadowban. Mentre gli algoritmi delle piattaforme social tendono a premiare i contenuti più condivisi penalizzando in termini di visibilità quelli ritenuti a bassa qualità o di clickbaiting, nel caso dello shadowban la qualità e la veridicità di ciò che è stato pubblicato non viene ripagata, anzi, diventa il motivo per il quale si ritiene necessario declassare i post.

Elon Musk e la gestione precedente

Il patron di Twitter ha voluto portare alla luce questa pratica, sostenendo di essere impegnato nel creare una funzionalità capace di mettere ogni utente in condizione di sapere se i contenuti postati sono stati posti sotto shadowban, politica che risale alla gestione precedente e che non gli si può imputare. Da quando ha acquistato Twitter, Musk si è trovato confrontato con problemi ormai strutturali che riguardano la sicurezza, la privacy ma anche la necessità di mantenere viva la piattaforma e, anche da questo punto di vista, oggi a Musk si possono muovere poche critiche, perché Twitter le cifre nere le ha viste soltanto di rado.

Quello dello shadowbanning è un problema reale che sta smuovendo molte piattaforme social. Twitter ha creato un contatore che consente agli utenti di sapere quante volte è stato consultato un contenuto ma è una misura blanda senza una reale praticità. Instagram sta allestendo una sezione all'interno della quale ogni utente può controllare se i propri contenuti sono premiati o penalizzati.

Il rumore fatto da Musk ha attirato l'attenzione delle altre piattaforma e dei media in generale, su tutti quella del Washington Post che ha tolto ossigeno all'ipotesi - sollevata da più parti - che lo shadowban non esista.

Questione di trasparenza: o le piattaforme social hanno, tra i rispettivi obiettivi, quello di rendere democratici i dibattiti, oppure no. Giusto depubblicare contenuti falsi, fuorvianti o illegali ma non ha senso che siano le piattaforme a decidere cosa può turbare la comunità e cosa no.

Da libertari a censori. Così negli anni Novanta la sinistra ha inseguito le sirene del politicamente corretto. Luca Ricolfi su L’Inkiesta il 6 Gennaio 2023.

Come spiega Luca Ricolfi in “La mutazione” (Rizzoli), i dirigenti del PDS-DS-PD costruirono la loro identità essenzialmente su basi etico-morali, in contrapposizione a una supposta grettezza e amoralità dell’elettorato della destra

Gli anni di Moravia e Pasolini, di Visconti e Antonioni, con gli intellettuali e gli artisti compattamente schierati contro la censura e a difesa della libertà di espressione, sono un ricordo lontano. Ormai la mutazione è avvenuta: difendere la libertà di espressione non fa più parte del DNA della sinistra, limitare quella libertà per far valere le ragioni del politicamente corretto è diventata un’opzione possibile.

Ma quando si è prodotta quella mutazione? Quando è accaduto che la sinistra smarrisse la sua vocazione libertaria, e incominciasse a inseguire le sirene del politicamente corretto?

Difficile indicare un momento preciso, ma a me pare che il periodo critico siano stati gli anni Novanta. È in quegli anni, infatti, che la globalizzazione falcidia i ranghi della classe operaia, tradizionale base di consenso della sinistra. È in quegli anni che nella sinistra riformista matura l’illusione che il mercato sia in grado di promuovere equità e merito, e forse pure la credenza che, tutto sommato, agli operai superstiti non sia necessaria una speciale protezione. È in quegli anni, infine, che la presenza e gli arrivi degli immigrati diventano massicci, e offrono alla sinistra una nuova opportunità di definire sé stessa.

È da questi cambiamenti epocali che, verosimilmente, ha preso le mosse il lungo percorso che – complice l’arrivo sulla scena del male assoluto Berlusconi – ha indotto i dirigenti della sinistra ufficiale a costruire l’identità del nuovo soggetto PDS-DS-PD essenzialmente su basi etico-morali, in contrapposizione a una supposta grettezza e amoralità dell’elettorato della destra.

Anziché cercare di darsi una base elettorale a partire da un programma economico-sociale, la sinistra ha provato a ridefinirsi come paladina dei nuovi ultimi (gli immigrati) e dei nuovi diversi (LGBT) e, al tempo stesso, come rappresentante della «parte migliore del Paese». Insomma come custode del Bene, argine insostituibile all’avanzata delle destre, fonte perenne di autostima per i propri elettori, sempre più reclutati fra i ceti medi istruiti e urbanizzati.

E come poteva, una sinistra siffatta, non entrare in sintonia con le istanze del politicamente corretto? Come non aderire a un movimento che proclama rispetto delle minoranze, difesa dei deboli, apertura ai diversi, lotta alle discriminazioni, antirazzismo, antisessismo, giustizia sociale, cultura dei diritti? L’antico riflesso condizionato, che per tanto tempo ha portato la cultura di sinistra a giudicare il comunismo per i suoi (nobili) fini, anziché per gli (ignobili) mezzi con cui ha tentato di imporli, ha condotto e conduce la sinistra attuale a giudicare il politicamente corretto per gli obiettivi di giustizia che proclama, anziché per gli strumenti illiberali che adotta.

(…)

Il vero pericolo che corre la sinistra è che la sua ostinazione nel difendere il politicamente corretto e le sue pulsioni censorie offrano alla destra una insperata occasione di intestarsi la difesa della libertà di espressione: una battaglia storicamente non sua, ma che potrebbe benissimo diventarlo in futuro. Sarebbe un esito paradossale, una sorta di secondo swap dopo quello delle basi sociali di destra e sinistra. Se questo dovesse accadere, ci troveremmo di fronte a un inedito assoluto: una destra che difende la libertà di espressione e raccoglie il voto dei ceti popolari, contro una sinistra che difende la censura e attira il voto dei ceti istruiti e delle élite.

Da “La mutazione – Come le idee di sinistra sono migrate a destra” di Luca Ricolfi (Rizzoli), 256 pagine, 18 euro

Così Cristina D'Avena ha smascherato la sinistra. La solita sinistra che vuole imbavagliare gli artisti che si esibiscono su palchi a loro non graditi ha fatto ancora una volta una pessima figura. Francesca Galici il 19 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Ma quanto è bella la democrazia di sinistra, che considera tale solo quello che le piace? Questi sono quelli che a ogni parola del centrodestra si ergono sul fragile piedistallo della loro superiorità morale, quelli che urlano ai quattro venti di essere i difensori della Costituzione (ma solo delle parti che li aggradano maggiormente). E sono gli stessi che minacciano di boicottare i Puffi, solo perché Cristina D'Avena è stata invitata a cantare su palco della festa per il decennale di Fratelli d'Italia.

Cristina d'Avena dà una lezione alla sinistra

No, seriamente. La sinistra italiana è davvero riuscita a montare una polemica imbarazzante sulla presenza dell'interprete delle più famose sigle dei cartoni animati trasformando Pollon e Magica Emy in una questione politica. Ci vuole coraggio ma soprattutto ci vuole una gran bella faccia tosta. Al di là del fatto che ancora una volta la sinistra ha cercato deliberatamente di calpestare la libertà di espressione di chiunque sia, stavolta era Cristina D'Avena ma è una prassi comune per loro, ma addirittura trasformare la musica in un mero fatto politico, è vergognoso.

Che poi, ci sono anche pseudo artisti che totalmente ignari della portata reale di questa polemica, che sono riusciti a politicizzare una canzone dello Zecchino d'oro del 1969, attribuendola a Cristina D'Avena solo per prendere qualche like in pi sui social e cavalcando la polemica per dimostrare di essere ancora una volta dalla parte dei "buoni". Ma vi diamo una notizia: "Volevo un gatto nero", sulla quale si è fatta così tanta ironia, non la cantava Cristina D'Avena.

Poi, la cantante si è presentata sul palco della festa di Fratelli d'Italia con indosso una gonna rainbow per cantare Lady Oscar, brano che da sempre viene associato alle lotte per il riconoscimento di genere. Lo avrebbe fatto comunque senza tutte le polemiche? Chi lo sa. Quel che è certo è che dal pubblico di Fratelli d'Italia, davanti a quella che forse era una provocazione o forse era una toppa, nessuno ha fatto una piega e tutti hanno cantato Lady Oscar prendendola per quello che è: la canzone di un cartone animato. A quanto pare, con buona pace dell'intellighenzia, la sinistra dovrebbe iniziare a prendere lezioni di realismo e di libertà da destra.

Il Potere.

Antonio Giangrande: LA DITTATURA DELLA CENSURA.

Gli Stati Uniti impongono la loro economia, le loro regole e la loro cultura. Tenuto conto che negli Stati Uniti la fazione LGBTI detta i comportamenti a loro congeniali, il cui contrasto lede il politicamente corretto, i pappagalli europei emulano e scimmiottano tali scelte di vita, facendoli passare per normali.

Non fa più scandalo, anzi è politicamente corretto adottare ogni comportamento deviante, ma fatto passare per normale e progressista, adottato nelle trame dei film.

Coppie gay o multietniche o relazioni poliamorose non devono mancare nelle serie televisive americane, affinchè la cultura LGBTI statunitense prenda largo oltreoceano.

Ecco perché in Italia ci sono polemiche ideologiche sulla fiera dell’ovvietà.

Ci sono cose che tutti pensano, ma che sono vietate dire.

A Crotone i giovani della Lega pubblicano un manifesto per l’8 marzo in onore della donna.

Una manifestazione di stima per la donna ed una denuncia contro i comunisti ipocriti.

I sinistri, sentendosi toccati, hanno reagito, facendo una questione di Stato. Qualcuno, addirittura, facendone questione territoriale retrograda. Sì, ma le offese ai meridionali, per i sinistri non contano.

Anche il buon Salvini, da buon comunista, ha rinnegato l’ovvietà.

Tutti rinnegano le loro idee. I comunisti, invece, rimangono sempre fedeli alla loro ideologia di potere: usando ed abusando di tutte le minoranze, assoggettandole e strumentalizzandole ai loro fini.

Quasi la totalità dei media si è parata contro il manifesto, del quale ognuno ha dato una sua personalissima interpretazione femministica, senza, peraltro, quasi nessuno di loro, aver pubblicato pari pari il volantino stesso.

Antonio Giangrande: INVITO ALL’APPROFONDIMENTO: LA RAI, YOUTUBE E LA CENSURA.

Può la Rai, servizio pubblico di un’azienda di Stato, finanziata con il canone e le tasse dei cittadini, vantare diritti esclusivi di diritto d'autore su fatti di cronaca ed impedire la divulgazione di notizie di interesse pubblico e violare le norme internazionali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright?

Tutto inizia e finisce con una E-mail.

Venerdì 18/05/2018 19:40 da YouTube <accounts-noreply@youtube.com> ad ANTONIO GIANGRANDE <presidente@ingiustizia.info>: [Avviso di rimozione per violazione del copyright] Il tuo account YouTube verrà disattivato tra 7 giorni.

Salve ANTONIO GIANGRANDE, In seguito a una richiesta di rimozione per violazione del copyright siamo stati costretti a rimuovere il tuo video da YouTube: Titolo del video: Sarah Scazzi. Il processo. 1ª parte. La scomparsa.

Rimozione richiesta da: RAI. Questo significa che non sarà più possibile riprodurre il video su YouTube. Hai ricevuto un avvertimento sul copyright. Al momento hai 3 avvertimenti sul copyright. Per questo motivo, è prevista la disattivazione del tuo account tra 7 giorni. Il tuo canale rimarrà pubblicato per i prossimi 7 giorni per consentirti di cercare una soluzione e mantenerlo attivo. Se ritieni di non essere in torto in uno o più casi sopra descritti, puoi fare ricorso inviando una contronotifica. Durante l'elaborazione della contronotifica, il tuo account non verrà disattivato. Tieni presente che l'invio di una contronotifica con informazioni false può comportare gravi conseguenze legali. Puoi inoltre contattare l'utente che ha rimosso il tuo video e chiedergli di ritirare la richiesta di rimozione. Durante questo periodo, non potrai caricare nuovi video e gli avvertimenti sul tuo account non scadranno.

Risposta: Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa. In ogni caso le immagini sono di utilizzo pubblico così come stabilito dal tribunale di Taranto in virtù del decreto dell’autorizzazione esclusiva alle telecamere di “Un Giorno in Pretura” con obbligo di condividere i filmati con gli altri media. Su questo filmato altre rivendicazioni analoghe sono state ritirate in seguito alla stessa contestazione. E comunque, stante che il filmato è già stato rimosso da youtube, si chiede alla signoria vostra di ritirare l’avvertimento, affinchè l’intero canale “Antonio Giangrande” con 387 video di Pubblico Interesse non venga disattivato.

Insomma non si presenta la contronotifica, per minaccia di azioni legali del colosso Rai e si genuflette per un diritto.

Ma Youtube non si ferma qua. Già, sul portale di informazione ed approfondimento in oggetto, pagava solo 1 decimo di tutti i video di cui si era chiesto la monetizzazione. E non solo a quel portale.

California, a sparare una youtuber: «Era arrabbiata perché la società le aveva sospeso i pagamenti». Il padre della donna che ha aperto il fuoco, Nasim Aghdam: «Odiava la società». Aghdam, 39 anni scriveva: «Non c'è libertà di parola», scrive Marta Serafini il 4 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Era arrabbiata perché «YouTube aveva smesso di pagarla per i video che pubblicava sulla piattaforma». Gli investigatori scavano nel passato di Nasim Aghdam, 39 anni, attivista vegana e animalista residente a San Diego, che ha fatto fuoco nel campus di San Bruno ferendo tre persone per poi togliersi la vita. A confermare l’ipotesi che la donna fosse furibonda con YouTube, il padre Ismail Aghdam che in un’intervista ad un giornale locale ha spiegato come la figlia fosse sparita lunedì e non rispondesse al telefono da due giorni. «Era arrabbiata perché YouTube aveva sospeso tutto, li odiava», ha dichiarato l’uomo. L’ipotesi è la società avesse sospeso i pagamenti o a causa dei contenuti inappropriati dei filmati postati dalla donna o a causa di un calo dei follower. Secondo la Nbc un suo filmato era stato censurato da YouTube e secondo il New York Times tutti i suoi canali erano stati rimossi martedì notte. Il 20 febbraio YouTube ha stabilito nuove regole che escludono dalla monetizzazione i canali con meno di 10.000 abbonati e meno di 4.000 ore di visualizzazione e probabilmente i filmati di Aghdam sono rientrati in questo giro di vite.

Cos'è accaduto e chi era la donna. Aghdam, di origini iraniane, aveva una presenza sul web «rilevante», un sito internete postava video dal 2011 con il nickname di Nasim Wonderl e sul suo sito. Il contenuto variava: dalle ricette vegane, passando per le parodie musicali, fino ai commenti contro la violenza sugli animali e gli esercizi di bodybuilding. «Tutti i miei video sono autoprodotti senza l'aiuto di nessuno», scriveva orgogliosa. Aghdam si sarebbe lamentata più volte pubblicamente perché alcuni suoi post erano stati vietati ai minori, un trattamento che la stessa youtuber aveva denunciato non essere applicato a filmati dai contenuti più espliciti come i video clip di Miley Cyrus. «Non c’è libertà di parola nel mondo e verrai perseguitata per aver detto la verità», scriveva. Su Instagram il 18 marzo si lamentava di nuovo della censura di YouTube. La donna era anche un’attivista della Peta e manifestava a favore dei diritti degli animali. «Per me gli animali devono avere gli stessi diritti degli esseri umani», diceva a Los Angeles Times nel 2009.

YouTube sta rendendo più restrittive le regole che consentono agli iscritti di inserire pubblicità nei propri video e di guadagnare soldi. Lo scopo principale dell’iniziativa è quello garantire agli inserzionisti che i propri spot non finiscano all’interno di contenuti inappropriati o con immagini disturbanti, come avvenuto in passato.

La novità è stata annunciata dalla stessa azienda con un post sul blog “YouTube creators”: a partire da ieri, per iscriversi al “Programma partner” sono necessari almeno 1000 iscritti al proprio canale e 4000 ore di visualizzazione nell’arco degli ultimi 12 mesi.

“Le nuove regole ci permetteranno di migliorare in maniera significativa la nostra capacità di individuare i canali che contribuiscono positivamente alla nostra community e ci aiuteranno a generare maggiori entrate pubblicitarie per loro (e a tenerci lontano dai "cattivi attori"). Questi standard più elevati ci aiuteranno anche a evitare che i video potenzialmente inappropriati possano monetizzare, danneggiando i ricavi per tutti”, hanno spiegato Neal Mohan, chief product officer e Robert Kyncl, chief business officer. In precedenza, il requisito minimo per accedere al programma era quello delle 10mila visualizzazioni complessive. La differenza sembra sostanziale: a pagarne le conseguenze saranno sicuramente i canali più piccoli, che non attraggono un pubblico vasto ma che fino due giorni fa potevano guadagnare e perlomeno sostenere la realizzazione dei propri video. Prima di diventare famosi e raggiungere i requisiti richiesti, adesso gli aspiranti Youtuber dovranno trovare delle strade alternative per finanziare i propri progetti. YouTube pensa ovviamente ai propri interessi: un paio di mesi fa, aveva perso milioni di dollari di ricavi, in seguito alla decisione di alcuni inserzionisti – tra i quali Adidas, Mars, Deutsche Bank – di lasciare la piattaforma dopo essersi ritrovati la propria pubblicità sui dei video disseminati di commenti pedofili.

Come sottolinea il sito d’informazione The Next Web, l’approccio sembra contraddittorio: i nuovi criteri rendono la vita più difficile ai canali con pochi iscritti e visualizzazioni, lasciando tuttavia uno spiraglio ai trasgressori che distribuiscono contenuti inappropriati, ma che hanno successo. YouTube pensa di risolvere la questione affidandosi non solo alla metrica quantitativa, ma anche alle segnalazioni che arrivano dalla community e a metodologie di rilevazione di spam o altri abusi più efficaci.

L’annuncio arriva a distanza di una settimana della vicenda che ha coinvolto Logan Paul: il famoso Youtuber, apprezzatissimo tra i teenager, aveva condiviso il video di un suicidio avvenuto in Giappone. A rimuovere il contenuto però non era stato YouTube, bensì il suo stesso creatore. Con le identiche modalità era scomparso il video caricato qualche mese fa da PewPewDie – che con i suoi 12 milioni di dollari è tra le 10 star più pagate del Tubo nel 2017 – nel quale comparivano due uomini a petto nudo che avevano in mano un cartello con la scritta “Death to All Jews”. I due episodi, in particolare, hanno spinto YouTube a modificare anche le regole di Google Preferred, la soluzione di advertising dedicata ai canali più popolari (circa il 5% del totale): tutti i contenuti del programma saranno valutati da un moderatore e approvati manualmente. Se da un lato le mosse appaiono logiche e sensate, soprattutto per non perdere la fiducia degli inserzionisti e milioni di ricavi dalla pubblicità, dall’altro non si può fare a meno di notare che che la nuova policy, rischia di stroncare sul nascere i sogni di migliaia aspiranti youtuber e di rendere esclusiva una piattaforma che ha fatto invece dell’inclusività uno dei fattori chiave del suo successo.

Le migliori alternative a YouTube, scrive "1and1". YouTube è il campione indiscusso tra i portali video e può tranquillamente essere definito come il leader del settore. Con oltre un miliardo di utenti, secondo i dati forniti dalla compagnia stessa, quasi un terzo di tutta l’utenza Internet naviga su YouTube. È indubbio che la piattaforma da tempo sia stata riconosciuta anche come un efficace strumento di marketing. I video sono caricabili con pochi click e tramite la generazione automatica di un codice HTML sono facilmente postabili su siti web esterni. Inoltre, dal 2010, quando YouTube e SIAE hanno firmato un accordo riguardo ai video musicali e ai proventi generati dalle visualizzazioni di questi, è diventato ancora più difficile per la concorrenza. Dunque è lecito porsi la seguente domanda: quali alternative ci sono a YouTube?

Le alternative attive a YouTube presentate in questo articolo sono cinque e sono Vimeo, Dailymotion, Veoh, Vevo e Flickr. Questi quattro servizi offrono agli utenti privati ed a coloro che li utilizzano per lavoro molte possibilità diverse, come guardare e mettere a disposizione contenuti eccezionali.

Dailymotion è un portale video di origine francese, che rappresenta una delle migliori alternative a YouTube in termine di numero utenti, soprattutto nel suo paese di origine. Nel 2015 il servizio ha registrato una utenza attiva del 23%. Comparando a livello internazionale, nessun altro servizio raggiunge un valore simile. In Francia infatti Dailymotion si trova secondo solo a YouTube, che ha una utenza attiva del 57%. Ad ogni modo, anche in altri paesi Dailymotion si trova al secondo posto dietro a YouTube. La compagnia calcola i suoi utenti in giro per il globo attorno ai 300 milioni. Mensilmente vengono visualizzati 3,5 miliardi di video su Dailymotion. In Italia Dailymotion riceve 6 milioni di unique viewers al mese, registrando un totale di circa 65 milioni di visualizzazioni tra tutti i tipi di dispositivi. Dailymotion punta principalmente sulle specifiche di upload: con file video fino a 2GB e 60 minuti di durata. Vengono supportati numerosi formati video e audio, così che è possibile scegliere tra file con estensione .mov, .mpeg4, .mp4, .avi e .wmv. Come codec video e audio vengono consigliati rispettivamente H.264 e AAC con un frame rate di 25FPS. La risoluzione massima possibile è 1080p (Full HD). In questo modo il portale si confà anche agli uploader più esigenti; i file di grandi dimensioni sono ben accetti tanto quanto lo è una qualità convincente dell’immagine. Il layout, di colore blu e bianco, è semplice e comodo da utilizzare. L’ordine degli elementi è decisamente orientato a quello di YouTube, che ha il vantaggio, che anche i principianti riescono a raccapezzarci qualcosa sin da subito. Anche l’integrazione e la condivisione dei video su piattaforme esterne è semplice; con un click il codice HTML corretto viene automaticamente generato. Ci sono inoltre ulteriori funzioni per i cosiddetti partner, i quali hanno la possibilità di guadagnare soldi con Dailymotion esattamente come su YouTube. Anche con Dailymotion si può monetizzare con i video, personalizzare il player e controllare i proventi attraverso il tool di analisi. Perciò Dailymotion è una delle migliori alternative a YouTube particolarmente per i blogger, che vogliono mettere i propri contenuti a disposizione solo a pagamento o che vogliono offrire dei contenuti premium separati. Chi ad esempio vuole usufruire della monetizzazione offerta da Dailymotion per un sito web, può sia attivare il proprio sito sia incorporare un dispositivo speciale del provider. Alcuni partner rinomati hanno già preso parte a questo programma, e tra questi vi sono ad esempio la CNN, la Süddeutsche Zeitung e la Deutsche Welle. Anche la vasta scelta di App di Dailymotion risulta piacevole. L’alternativa a YouTube è presente con apposite App su molte Smart TV, set-top box o sulla Playstation 4 della Sony, e può essere guardata comodamente dal divano di casa. Il servizio può essere utilizzato anche da dispositivo mobile con applicazioni iOS, Android o Windows.  

Antonio Giangrande: Vorrei comunicare agli amici che il 19 aprile 2016 ed il 19 maggio 2016, in due distinti procedimenti penali contro il sottoscritto promossi da un sostituto procuratore presso il Tribunale di Taranto, il primo, e da un giudice monocratico, il secondo, il Tribunale di Potenza mi ha assolto. Processato per aver pubblicato fatti di ingiustizia a Taranto e per aver ricusato un giudice che voleva giudicarmi a Taranto in tre processi pur da me denunciato. Processi promossi da avvocati e periti la cui condotta è stata da me criticata. Assoluzioni a Potenza che si assommano a quelle decine su Taranto. Manco fossi Riina o Berlusconi. Ma questo non fa notizia, perché non sono comunista. Mica sono Saviano. Decine di processi per reati di opinione a mio carico è il costo di essere Liberi, ossia non amico di “Libera” e di questa antimafia, non amico dei magistrati che delinquono, non amico dei politici corrotti. Se fossi diverso, forse, sarei amico dei giornalisti…

Antonio Giangrande: LECCE E CAGLIARI: AVVOCATI CON LE PALLE

Lecce e Cagliari: avvocati con le palle. Gli avvocati protestano, credi che non ti riguardi?

«Per una volta sorvolo sull’abilitazione truccata nell’avvocatura. E per quanto ne parli, tanto me la fanno pagare. Ciononostante per la prima volta posso osannare le gesta delle toghe leccesi e cagliaritane che si differenziano dalla massa succube della politica e della magistratura».

Esordisce così, senza giri di parole il dr Antonio Giangrande.

«Da mesi gli avvocati cagliaritani e leccesi sono impegnati in un'azione di astensione dalle udienze, nel silenzio dei media nazionali. Azione a carattere generale che non attiene battaglie di bottega, come per esempio la chiusura della sede distaccata di quel Tribunale o di quel Giudice di Pace. Qui trattasi dei tagli e dell’aumento dei costi ad una giustizia allo sfascio che genera ingiustizia. Lotta che ha lasciato indifferenti e silenziosi sia il presidente del Consiglio Renzi che il ministro della giustizia Orlando». Continua Giangrande, noto autore di saggi con il suffisso opoli (per denotare una disfunzione) letti in tutto il mondo. «Le coraggiose toghe hanno promosso una raccolta fondi tra gli avvocati di Lecce e Cagliari per acquistare una mezza pagina pubblicitaria sul Corriere della Sera e spiegare, ancora una volta, le ragioni che hanno portato negli ultimi mesi a scioperare e protestare. I media se non li paghi non informano. E’ ammirabile il gesto se si tiene conto che la protesta, questa volta, è mirata non solo a difesa della lobby, ma anche alla tutela dei diritti del cittadino.»

Sul giornale leggi.

GLI AVVOCATI PROTESTANO:CREDI CHE NON TI RIGUARDI?

Lo sai che i tempi di un processo sono aumentati mediamente di 2 anni? E che, invece, dal 2002 al 2012 il costo di ciò che tu paghi allo Stato per un processo è aumentato fino al 182,67%? Lo Stato ha aumentato le tasse che tu paghi per difendere i tuoi diritti e ha imposto la mediazione obbligatoria, con costi a tuo carico prima di poter andare davanti a un giudice.

Lo sai che il Governo sta pensando di chiederti una tassa per sapere i motivi delle sentenze? E i soldi che hai versato per la tassa non te li restituirà in nessun caso?

Lo sai che in appello la tassa che hai pagato in primo grado viene aumentata del 50%. E in Cassazione si raddoppia? E che se perdi la devi pagare di nuovo?

Lo sai che se per esempio devi impugnare un’espropriazione al TAR la Tassa costa almeno 650 euro (ma per gli appalti può arrivare fino a 6.000!), ed altri 650 (o 6.000) se successivamente dovrai impugnare altri atti e che al Consiglio di Stato quella tassa viene aumentata del 50%? Perdi? Rischi di pagare di nuovo.

Lo sai che se hai ricevuto un accertamento fiscale o un fermo amministrativo illegittimo e vuoi ricorrere in Commissione Tributaria devi pagare una tassa per ogni accertamento impugnato e se siete in due (ad es. tu e tua moglie) dovete pagare due volte? E che se vuoi impugnare in Commissione Tributaria Regionale quella tassa viene aumentata del 50%?

Lo sai che se sei povero la Costituzione ti garantisce che l'avvocato te lo paga lo Stato, ma che lo stesso Stato ha introdotto delle norme che lo rendono di fatto impossibile?

Lo sai che lo Stato è talmente lento nel perseguire i reati che in media la prima udienza dei processi si tiene quando già è trascorso il 70% del tempo utile per la prescrizione del reato?

Lo sai che lo Stato nel settore penale minaccia di elevare fino a € 10.000,00 la sanzione pecuniaria in caso di inammissibilità del ricorso?

Lo sai che, a causa della chiusura dei Tribunali periferici, i tempi e i costi delle esecuzioni nei confronti del tuo debitore si sono allungati a dismisura?

Lo sai che senza l’avvocato la tua domanda di giustizia non sarebbe ascoltata?

Lo sai che è grazie al coraggio degli avvocati che sono andati contro la giurisprudenza dominante se, ad esempio, oggi puoi fare causa alla banca per l’anatocismo sui conti correnti? O se puoi fare causa al datore di lavoro che ti ha licenziato ingiustamente? O se puoi lottare affinché tuo figlio non sia allontanato dalla tua famiglia? O se puoi difenderti dall’accusa di un reato che non hai commesso?

Per questo, e molto altro, gli Avvocati di Lecce e Cagliari sono in astensione ad oltranza dalle udienze. Lo Stato sta smantellando la Giustizia. Sei ancora convinto che se la giustizia non funziona è tutta colpa degli avvocati?

Per la Commissione di garanzia pare proprio di sì. La Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero ha aperto un procedimento nei confronti dell’Ordine degli avvocati di Lecce, in particolare, nella persona del suo presidente, Raffaele Fatano. Due sono le contestazioni mosse: violazione dell’obbligo di preavviso minimo e della determinazione della durata dello sciopero, e violazione della norma sulla durata massima dell’astensione. Le toghe salentine hanno deciso di astenersi dalle udienze nel corso dell’assemblea straordinaria riunitasi il 18 febbraio scorso. Decisione confermata il 14 aprile in un successivo appuntamento assembleare laddove si decise di portare avanti lo sciopero a oltranza fino al 3 giugno, anticipata al 28 maggio, giorno in cui gli avvocati si riuniranno nuovamente per stabilire se continuare o meno a disertare le aule dei tribunali. Un invito a sospendere l’astensione dalle udienze era stato rivolto agli avvocati dall’Anm attraverso un documento stilato nel corso dell’assemblea degli iscritti tenutasi lo scorso 23 aprile. Molto probabilmente la Giustizia non è un sentire comune.

Le case discografiche dichiarano guerra all’archivio della musica su internet. Walter Ferri su L'Indipendente giovedì 17 agosto 2023.

Internet Archive, organizzazione no-profit che da sempre è sinonimo di archiviazione dei dati online, si trova nuovamente alle prese con dei guai giudiziari. A lanciare il guanto della sfida è questa volta la lobby musicale: Sony Music Entertainment, Universal Music Group e altre etichette minori accusano infatti l’organizzazione di aver violato i diritti d’autore su brani musicali da loro custoditi, una colpa per cui le imprese chiedono un risarcimento finanziario di circa 372 milioni di dollari.

Il caso portato in tribunale fa riferimento al Progetto Gran 78, un programma di archiviazione attraverso il quale Internet Archive, George Blood LP e l’Archive of Contemporary Music si sono impegnate a digitalizzare e mettere a disposizione online i contenuti di dischi a 78 giri distribuiti tra il 1898 e gli anni Cinquanta. Poco sorprendentemente, questa iniziativa non è stata accolta positivamente dalle case discografiche, le quali hanno denunciato vocalmente la «sfacciata violazione» del copyright mirata a «fornire a tutti accesso gratuito e illimitato ai brani musicali».

I dischi tradotti in formato digitale dall’Internet Archive presentano nomi illustri quali Frank Sinatra, Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Miles Davis e Louis Armstrong, inoltre figurano tracce iconiche come White Christmas, Sing, Sing, Sing e The Christmas Song. L’organizzazione no-profit giustifica la propria iniziativa sostenendo che, nonostante non sia conferme al diritto d’autore, la conversione dei vinili rappresenti un atto di preservazione nei confronti di questi preziosi artefatti storici, una posizione non condivisa dalle aziende, le quali ritengono che i brani non «siano a rischio di essere persi, dimenticati o distrutti».

Sony Music Entertainment, Universal Music Group e i gruppi aggregati chiedono ai giudici un’ingiunzione che possa sospendere il controverso progetto, ma anche un risarcimento di 150.000 dollari per ogni singolo brano musicale distribuito in violazione delle leggi sul copyright. Tenendo conto di situazioni pregresse, è facile che il sistema giudiziario statunitense finisca col dar ragione alla lobby, la quale sta dimostrando negli ultimi mesi di essere particolarmente aggressiva e battagliera.

Per quanto riguarda Internet Archive, è già al centro di una precedente causa legale che riguarda proprio la violazione dei diritti d’autore. Il portale offre infatti un servizio di “prestito” di ebook che, in occasione del periodo delle quarantene legate alla pandemia, si è liberato delle limitazioni di erogazione così da permettere a chiunque di accedere ai contenuti. Questa decisione è stata comprensibilmente oggetto di aspre critiche da parte degli editori, i quali l’hanno interpretata come una forma di distribuzione illegale. Il caso ha trovato una prima risoluzione lo scorso aprile, con il giudice che ha riconosciuto il comportamento illegittimo dell’organizzazione, tuttavia la situazione non può ancora dirsi conclusa, poiché la no-profit ha immediatamente presentato una richiesta d’appello.

Le scelte strategiche dell’Internet Archive non mancano certo di suscitare dibattiti nell’opinione pubblica. Mentre è innegabile che la distribuzione gratuita dei contenuti possa comportare danni economici per i legittimi proprietari, bisogna considerare anche che nell’era della digitalizzazione è sempre più frequente che un patrimonio culturale subisca alterazioni fino a distanziarsi dalla sua forma originale.

Limitandosi alla storia recente, la Penguin Random House ha deciso di modificare il testo di alcuni capolavori di Roald Dahl al fine di smussarne i contenuti, la Walt Disney Corporation ha ritoccato alcune delle sue proprietà intellettuali perché fossero più in linea con le scelte strategiche dell’azienda e l’industria videoludica ha addirittura coniato il termine abandonware per etichettare tutti quei prodotti che non sono praticamente più reperibili se non intraprendendo vie traverse. L’aspirazione a conservare copie delle opere intellettuali al di fuori degli archivi delle aziende proprietarie deriva da una necessità oggettiva, tuttavia trovare un compromesso che bilanci gli aspetti culturali e capitalistici della questione è tutto meno che semplice. [di Walter Ferri]

Il complesso industriale della censura: come i governi democratici manipolano l’informazione. L'Indipendente il 17 maggio 2023.

Alcuni giornalisti a cui sono stati affidati i cosiddetti Twitter Files – i documenti riservati interni del celebre social network – approfondendo le indagini sulla gestione dell’informazione nei sistemi considerati democratici, hanno scoperchiato un vero e proprio vaso di pandora, rivelando come l’informazione nei sistemi liberali non sia affatto libera, bensì pesantemente manipolata e alterata da quello che hanno definito niente di meno che il «complesso industriale della censura», un complesso apparato teso ad avere un controllo pressoché assoluto sulla comunicazione. Quest’ultima, infatti,...

Mattia Feltri per “la Stampa” il 4 maggio 2023.

Ieri, nella Giornata mondiale della libertà di stampa, Roberto Saviano ha consegnato a un'intervista col nostro giornale tutta la sua preoccupazione per un governo che, secondo lui, quella libertà se la sta mettendo sotto ai tacchi. Ne sono testimonianza le querele a suo carico di Giorgia Meloni e Matteo Salvini e, alla domanda se l'andazzo non fosse cominciato con la causa intentata da Massimo D'Alema a Giorgio Forattini, Saviano ha risposto di no, perché "D'Alema quando andò al governo la ritirò". Non è proprio così. 

D'Alema era presidente del Consiglio quando, nel novembre del '99, chiamò Forattini in giudizio civile. Per una vignetta, gli chiese un risarcimento di tre miliardi di lire. Tre miliardi. Per una vignetta. Mica male come intimidazione da parte del potere. Poi il processo cominciò sempre con D'Alema a Palazzo Chigi e soltanto mesi dopo la questione fu chiusa con un biglietto di scuse di Forattini.

Non lo dico per il gusto di correggere una piccola inesattezza, sebbene sostanziale, ma perché ieri è uscita l'annuale graduatoria sulla libertà di stampa di Reporter sans frontières. Come da tradizione, non siamo messi bene: 44esimi, dieci posizioni più in su di un anno fa, ma tre più in basso rispetto al 2021. Come è noto (e forse non abbastanza) la nostra grama classifica dipende in buona quota dalle pene detentive previste dalla diffamazione, caso pressoché unico nell'occidente liberaldemocratico, e dall'abnorme quantità di querele mosse a scopo intimidatorio. Quindi sì, ha ragione Saviano: la libertà di stampa in Italia è incompiuta. Con Giorgia Meloni, e da molto prima di Giorgia Meloni.

Il rapporto sulla libertà di stampa di RSF è basato su criteri del tutto parziali. Michele Manfrin su L'Indipendente il 4 Maggio 2023.

Reporters sans frontières, conosciuta anche come Reporter Without Borders, in italiano Reporter Senza Frontiere, ha aggiornato la sua classifica riguardo la libertà d’informazione di tutti i Paesi del mondo. Come ogni anno, l’organizzazione, ONG francese con lo scopo dichiarato di salvaguardare il diritto alla libertà di informazione, pubblica una classifica sulla libertà di stampa, oltre a monitorare in tempo reale gli abusi commessi nel mondo a danno di giornalisti. Leggendo bene quanto pubblicato dall’organizzazione, emergono elementi interessanti che fanno riflettere sull’accuratezza e l’obiettività di tali indici.

Partiamo dal nostro Paese. L’Italia, nel 2023, registra un punteggio di 41/180, dove lo 0 è il punteggio migliore, pari a 72,05. Rispetto allo scorso anno saremmo in miglioramento, visto che il punteggio era di 58/180, ovvero 68,16.  Nell’incipit possiamo leggere: “La libertà di stampa in Italia continua ad essere minacciata dalla criminalità organizzata, in particolare nel sud del Paese, nonché da vari gruppi estremisti violenti. Questi sono aumentati significativamente durante la pandemia e continuano a ostacolare il lavoro dei professionisti dell’informazione, specialmente durante le manifestazioni”. Sebbene a livello locale le organizzazioni criminali siano senz’altro un nemico della libertà di stampa, Reporters sans frontières (RSF) sottolinea la minaccia portata da “gruppi estremisti violenti” i quali sarebbero aumentati durante la pandemia; tradotto, i famigerati no-vax o no-greenpass sono una minaccia alla libertà di stampa e “continuano a ostacolare il lavoro dei professionisti dell’informazione”. Gli stessi professionisti dell’informazione che proprio durate l’emergenza pandemica, così come adesso con il conflitto in Ucraina, si sono limitati a riportare le veline governative e delle multinazionali del farmaco come fossero i depositari della scienza. D’altronde, se nel report viene riconosciuta la pluralità dei mezzi d’informazione che “garantiscono una diversità di opinioni”, sappiamo molto bene che i quasi 20 quotidiani e i 50 settimanali sono per la stragrande maggioranza di proprietà di aziende o gruppi che fanno capo a un numero di persone che si conta con una mano. E, ancora una volta, lo abbiamo visto con l’emergenza pandemica e lo vediamo adesso con la guerra.

Proprio su questo aspetto, per quanto concerne il “contesto socioculturale”, viene riconosciuta una polarizzazione su certi temi e che questa avrebbe colpito i giornalisti “che sono stati vittime di attacchi sia verbali che fisici durante le proteste contro le misure sanitarie”. Insomma, la libertà di stampa non è a rischio se pressoché ogni media riporta ciò che il governo vuole sia riportato, se non si possono esprimere posizioni diverse senza essere deriso, attaccato o censurato, ma se qualche giornalista si prende qualche insulto. Ricordiamo anche che, in quei tempi, proprio dalle pagine di giornale e dagli schermi televisivi si spargeva odio nei confronti dei non vaccinati e di coloro che non volevano sottostare alla politica del green pass. La cosa è curiosa visto anche come viene spiegata la metodologia con cui si attribuiscono gli indici. Per quanto concerne il “contesto socioculturale” si tiene conto di due aspetti. Il primo sono i “vincoli sociali” e riguardano questioni legate a genere, classe, etnia, religione etc. Il secondo invece riguarda i “vincoli culturali” intesa come la “pressione sui giornalisti affinché non mettano in discussione certi bastioni di potere o influenza o non coprano determinate questioni perché andrebbero contro la cultura prevalente nel paese o nel territorio”. Nel caso del periodo pandemico, come adesso per quanto riguarda la guerra, i giornalisti che hanno ricevuto insulti non li hanno ricevuti perché mettevano in discussione “certi bastioni di potere” bensì perché li stavano difendendo.

Altra cosa curiosa. Quando si parla di “contesto politico” nella metodologia per la costruzione dell’indice ci si riferisce a tre categorie. La prima riguarda “il livello di accettazione di una varietà di approcci giornalistici che soddisfino standard professionali, compresi approcci politicamente allineati e approcci indipendenti” e vediamo quale sia il livello di appiattimento di pensiero e come gli standard professionali siano molto spesso oltrepassati. Dopodiché abbiamo “il grado di sostegno ai media nel loro ruolo di chiedere conto ai politici e al governo nell’interesse pubblico” il quale viene costantemente ignorato, sia dalla classe politica sia quella giornalistica. Il terzo elemento di cui si tiene conto è “il grado di sostegno e rispetto dell’autonomia dei media di fronte alle pressioni politiche dello Stato o di altri attori politici” ed abbiamo visto come, tanto in epoca pandemica, quanto in quella di guerra, le pressioni dirette e indirette portino ad una visione unica degli eventi. Senza tener conto degli stessi interessi di quelle poche persone che detengono la maggior parte della carta stampata e le maggiori emittenti del Paese. Eppure nel report, alla voce “contesto politico” si dice: “Per la maggior parte, i giornalisti italiani godono di un clima di libertà. Ma a volte cedono alla tentazione di censurarsi, o per conformarsi alla linea editoriale della loro testata giornalistica, o per evitare una causa per diffamazione o altra forma di azione legale, o per paura di rappresaglie da parte di gruppi estremisti o criminalità organizzata”. Niente viene detto, se non in minima parte e in maniera blanda, rispetto ai parametri forniti dalla stessa organizzazione francese circa la metodologia per i criteri di valutazione.

Un’altra curiosità è la Gran Bretagna. Sebbene Reporters sans frontières risulti essere abbastanza dura contro la situazione della stampa e dell’informazione nel Paese, la Gran Bretagna ottiene un punteggio migliore dell’Italia, 26/180, ovvero 78,51, in lieve peggioramento dallo scorso anno. Per quanto concerne l’incarcerazione di Julian Assange, l’unica cosa scritta è la seguente: “L’approvazione da parte del ministro dell’Interno di una richiesta statunitense di estradizione di Julian Assange è un’ulteriore fonte di allarme”. Allo stesso tempo, se si accede alla sezione “abusi in tutto il mondo in tempo reale”, il “barometro”, nel menù della Gran Bretagna non risulta nessun giornalista attualmente incarcerato.

Insomma, il report lascia molti dubbi circa la metodologia applicata rispetto ai risultati forniti, e quindi anche l’obiettività del report stesso. D’altronde, Reporters sans frontières nella sua storia è già stata oggetto di accuse e attacchi da parte di organizzazioni che hanno sostenuto la parzialità dell’organizzazione, la quale avrebbe ricevuto anche finanziamenti dal governo degli Stati Uniti, così come li riceve da grosse società con grossi interessi, nonché da enti statali.

[di Michele Manfrin]

Così Julian Assange e WikiLeaks hanno salvato la libertà di informazione. Storia di Andrea Muratore su Il Giornale il 30 aprile 2023. 

Su gentile concessione dell'editore pubblichiamo un estratto del saggio di Nils Melzer, "Il processo a Julian Assange - Storia di una persecuzione", pubblicato da Fazi. Nel libro l'ex relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti parla della sfida lanciata dal fondatore di WikiLeaks con le sue rivelazioni a partire del 2010 e sul suo ruolo per la trasparenza e l'informazione occidentale. Ma anche del conseguente calvario che ha dovuto affrontare per le sue coraggiose rivelazioni e che è ancora in corso. Buona lettura!

Per come la vedo, WikiLeaks si può assimilare a una valvola di sicurezza per la società. Se un impiegato che lavora per un governo o per un’azienda diventa testimone di irregolarità, magari la prima cosa che fa è voltarsi dall’altra parte; ma se l’illecito è abbastanza serio, alla fine il suo silenzio lo porterà a un dilemma morale insopportabile che gli farà dire: «Non ce la faccio più, non posso tenere solo per me quello che sono venuto a sapere, devo trovare un modo per liberarmi di questo onere morale».

Se però quel governo o quell’azienda non riescono a offrire al loro interno strutture e procedure per poter ovviare in maniera adeguata a quei problemi legali e morali, alla fine la pressione diventa eccessiva e la valvola di sicurezza comincia a fischiare per dare l’allarme: l’impiegato diventa letteralmente uno che fa un fischio, appunto un whistleblower, come si dice in inglese. A costoro, WikiLeaks mette a disposizione un meccanismo che garantisce il massimo anonimato possibile.

Quindi, grazie alla valvola di sicurezza di WikiLeaks, le informazioni trovano il modo di raggiungere l’opinione pubblica, ma, al contrario di quello che avviene nel giornalismo tradizionale, sono sottoposte a un processo redazionale minimo. Diversamente da quanto spesso si sostiene, WikiLeaks oscura le informazioni che possono mettere in pericolo singoli individui e che non sono ancora accessibili pubblicamente per altre vie, mentre tutto il resto viene sostanzialmente reso disponibile nella versione originale sulla quale non è stato effettuato alcun intervento.

Nel 2010 i media che collaboravano con WikiLeaks hanno dato un valido contributo nel separare le informazioni di interesse pubblico dalle banalità. Allo stesso tempo, però, si è visto che evidentemente il giornalismo tradizionale non soddisfaceva più le funzioni sociali indispensabili del “quarto potere dello Stato”: verificare i pesi e contrappesi tra i vari settori dello Stato e informare l’opinione pubblica dei difetti a livello di sistema e di ciò che comportano per il cittadino medio, affinché quest’ultimo possa intraprendere l’azione necessaria a porvi rimedio attraverso il processo democratico.

Ovviamente, anche un’organizzazione che punta alla trasparenza assoluta deve muoversi in maniera responsabile. Va però sottolineato che il governo statunitense non ha mai dimostrato le sue affermazioni, ovvero che delle persone sarebbero state danneggiate dalle rivelazioni fatte da WikiLeaks. In realtà, nel 2010, in una sessione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’allora vicepresidente americano Joe Biden ammise addirittura che le pubblicazioni di WikiLeaks non avevano causato «danni sostanziali» al suo governo, a parte un certo «imbarazzo». Ma chiaramente le informazioni che trapelavano erano

ben più che imbarazzanti: mettevano in pericolo l’impunità di ufficiali a tutti i livelli della catena di comando riguardo a crimini di guerra, torture e corruzione.

Come per ogni valvola di sicurezza, WikiLeaks non è il problema, ma soltanto un sintomo visibile di difetti che hanno radici più profonde: il vero problema sono sempre i crimini commessi e non il fatto che vengano svelati. Eppure all’opinione pubblica viene comunicato proprio il contrario. Già solamente per il fatto di esistere, WikiLeaks mette in questione tutto un sistema di gestione basato sulla segretezza, un modo di fare affari che si è radicato in profondità: note diplomatiche segrete, confini cancellati tra interessi pubblici e privati, corruzione all’ordine del giorno, clientelismo, abuso di potere.

La lettera scritta da Assange a re Carlo III contiene probabili messaggi in codice. L'Indipendente il 22 maggio 2023.

La lettera che Julian Assange ha scritto il 5 maggio 2023 al re Carlo III per la sua incoronazione solleva molteplici domande.   

Formalmente, la lettera, oltre ad essere un invito al re a visitare la prigione di Belmarsh, costituisce una richiesta di grazia. Bisogna precisare che Julian non può adoperare la parola “grazia” (in inglese, “pardon”) in quanto è un termine giuridico usato per indicare l’annullamento di una condanna passata in giudicato, mentre non pende su Julian nessuna sentenza di condanna. Quindi per aggirare l’impasse, Julian ricorre alla parola comune “mercy”, che possiamo tradurre con “clemenza”.  Purtroppo nelle traduzioni italiane della lettera di Julian diffuse su tutti i mass media e prodotte dagli inaffidabili traduttori automatici come Google Translate, DeepL o ChatGPT, appare la parola “misericordia”, termine religioso che dà un fuorviante tono pietistico ad un discorso che, in inglese, è tutt’altro che pietistico.  

In sostanza, dunque, Julian sta semplicemente chiedendo, com’è nel suo diritto, un atto di clemenza reale in concomitanza con l’ascesa di Carlo al trono: “Vi supplico…, mentre salite sul trono, di ricordare le parole riportate da Matteo (5:7): «Beati i clementi, perché troveranno clemenza». E possa la clemenza essere la stella polare del Vostro Regno, sia all’interno che all’esterno delle mura di Belmarsh.”

“Clemenza” significa, in concreto, che Julian sta chiedendo al re di liberarlo dal carcere e, contestualmente, di revocare l’ordine di estradizione negli Stati Uniti già firmato il 17 giugno 2022 dall’allora Ministra degli Interni Pritti Patel. 

A pensarci bene, poi, re Carlo avrebbe anche due buoni motivi per concedere la grazia a Julian. Anzitutto, toglierebbe in tal modo le proverbiali castagne dal fuoco ai giudici dell’Alta Corte britannica.  Infatti, se l’ordine di estradare Julian non è stato ancora eseguito, è perché i suoi avvocati l’hanno impugnato per ben 16 vizi formali e sostanziali – per esempio, la natura politica della richiesta statunitense di sottoporre Julian a processo, in barba al relativo trattato UK/USA che invece proibisce le estradizioni politiche. La grazia concessa dal re,  dunque, dispenserebbe l’Alta Corte dal dover riaprire il processo di primo grado ed affrontare le imbarazzanti e spinose questioni giuridiche sulle quali, a suo tempo, la giudice di primo grado, Vanessa Baraitser, aveva sorvolato.

In secondo luogo, il re avrebbe anche un interesse personale a fare un “gesto regale” di clemenza in quanto, per via dei suoi molteplici scandali in passato, Carlo ha molto da fare per crescere in statura presso la popolazione sulla quale vuole regnare. Ed è proprio per ribadire la necessità di riabilitarsi che Julian cita alcuni versi del dramma shakespeariano Il Mercante di Venezia, laddove la protagonista Porzia cerca di convincere l’usuraio Shylock – come Julian cerca di convincere re Carlo – che, “con un atto di clemenza, ti farai grande; quindi non stare a calcolare i presunti torti subiti in passato o i risarcimenti dovuti; non si è clementi per calcolo o costrizione; fa’ un atto generoso e sarai compensato anche tu perché il popolo considererà nobile quel gesto e te un uomo (sovrano) da rispettare”. 

Ecco i versi:

“Non s’è clementi per calcolo o costrizione:

la clemenza è una dolce pioggia spontanea

che si sparge su ogni terreno, e, dandosi,

valorizza sia quel terreno che se stessa.”

NOTA: Julian cita soltanto due versi del testo shakespeariano ma un buon traduttore umano sa che, per un italiano anche colto, occorrerebbe citarli tutti e quattro. Infatti, un lettore inglese sente in testa il terzo e il quarto verso non appena legge i primi due. Ma non un lettore italiano – il quale, tuttavia, non appena legge “Nel mezzo del cammin di nostra vita…”, sente subito in testa “mi ritrovai per una selva oscura”. Tutto questo, gli inaffidabili traduttori automatici non possono saperlo e quindi si limitano a riprodurre i primi due versi e basta. Versi che essi traducono, poi, atrocemente: “La qualità della misericordia non è tesa; cade come una dolce pioggia dal cielo sul luogo sottostante” (Google Translate, DeepL, ChatGPT). Che vuol dire? Non granché.

Perciò, nel chiedere al re la clemenza, Julian non doveva far altro che scrivere una richiesta di poche righe, fare le sue belle citazioni bibliche e shakespeariane e, tutt’al più, ricordare al re che, oltre ai quattro anni passati a Belmarsh in una alienante cella di isolamento, egli era già stato privato della sua libertà dalle autorità britanniche nei sette anni precedenti, confinato com’era in una stanza dell’ambasciata ecuadoriana a Londra con un cordone di poliziotti intorno 24/7 pronti ad arrestarlo qualora mettesse piede fuori. Pertanto anche se, a giudizio del re, Assange dovrebbe comunque scontare una pena detentiva per aver rivelato documenti segretati, egli l’ha già scontata – da ben undici anni!  “Enough is enough!”, come ama ripetere il primo ministro australiano Anthony Albanese, ovvero “Ora basta!”, il momento è venuto per un atto di clemenza. Atto che Julian aveva ogni interesse a chiedere nei termini appena indicati.

Ma non è questa la lettera che Julian ha scritto al re.  

Inspiegabilmente Julian ha colto l’occasione per scrivere, non una semplice richiesta di clemenza, ma una lunga tirata che racconta peste e corna del sistema carcerario di Sua Maestà. In faccia a Sua Maestà stessa! Nelle 44 frasi che compongono la lettera di Julian, ritroviamo ben 35 (sic) battute sarcastiche contro la prigione di Belmarsh, con qualche frecciata ironica indirizzata persino contro la persona di Carlo – cioè contro la persona alla quale Julian stava chiedendo un favore!

Che senso ha un comportamento del genere?

Ma ancora più incredibile è il permesso concesso dalle autorità carcerarie per la diffusione di quella lettera, per loro chiaramente infamante. È noto, infatti, che Belmarsh esercita un rigoroso controllo su ogni comunicazione che entra e che esce; pertanto, aver lasciato trapelare la lettera di Julian al re non poteva essere un “errore”.  Del resto, sin dall’inizio, la scelta di gettare Julian in una cella di isolamento di un carcere di massima sicurezza – ovvero, di sottoporlo ad un regime equivalente al 41bis italiano – aveva e ha presumibilmente lo scopo principale di impedire ogni comunicazione tra Julian e il mondo esterno. Solo i suoi avvocati (poche volte in quattro anni) e la moglie e i bambini (in teoria una volta alla settimana, in pratica una o due volte al mese) possono avvicinarsi a Julian. Non solo, ma per potersi incontrare con lui, tutti i visitatori devono subire umilianti ispezioni anche nelle parti intime, ispezioni inflitte persino ai due figli di Julian, di 4 e di 6 anni. Ma da Belmarsh, sembrano dire le autorità, non deve uscire nessuna comunicazione da parte di un detenuto. E nemmeno per il tramite di un’intervista giornalistica. Lo scorso 4 aprile, ai capi dell’ONG Reporters senza Frontiere è stato impedito di entrare nella prigione per avere un colloquio con Julian proprio in quanto… giornalisti! Perché tanta severità?

Possiamo ipotizzare che le autorità abbiano paura che Julian possa far uscire dalla prigione certi codici da lui memorizzati che diano accesso ad (ipotetiche) cartelle ancora nascoste sul sito WikiLeaks e così far emergere altre rivelazioni imbarazzanti per il Potere. Inoltre, le autorità presumibilmente non vogliono che Julian possa “aizzare” i suoi sostenitori attraverso messaggi d’incoraggiamento, scritti o registrati – come quelli da lui pronunciati regolarmente dal balcone dell’ambasciata ecuadoriana. Signornò, niente deve trapelare da dietro i grigi muri della prigione di Belmarsh! E allora perché le autorità hanno permesso a Stella Moris Assange di portare via e di pubblicare sul sito declassifieduk.org una copia della lettera di Julian al re? In un tweet dell’8 maggio, la partner di Julian ha addirittura chiesto esplicitamente a tutti gli attivisti pro-Assange nel mondo di fornirle traduzioni della lettera di Julian nelle loro lingue madre, ed è stata inondata di risposte, tutte visibili in rete. 

Cosa sta succedendo?

Per quanto restii alle teorie complottiste e, in genere, alla dietrologia, riteniamo che una possibile spiegazione di tutte queste anomalie sia la seguente: la lettera di Julian a Carlo sarebbe in realtà un messaggio in codice per iniziare una trattativa per la sua liberazione. Una trattativa in cui le richieste e le concessioni fatte da entrambe le parti in questa trattativa vanno messe per iscritto, seppure in codice, e rese pubbliche per essere moralmente vincolanti in quanto di pubblico dominio.  

Le parole chiave, secondo questa ipotesi, nella lettera di Julian a Carlo del 5 maggio 2023, potrebbero essere “my liege” (“mio Sire, Signore, Sovrano”, appellativo usato da un vassallo), nonché termini come “your noble government” (“il Vostro nobile governo”), non importa se l’attuale compagine governativa non è affatto composto dai soli nobili o Lord.  

In pratica, dire “my liege” significherebbe riconoscere la supremazia della Monarchia e dichiararvi la propria sottomissione. Durante l’incoronazione di Carlo a Westminster, persino suo figlio William gli ha dovuto giurare fedeltà promettendo di essere “Your liege man of life and limb”, il “Vostro fedele suddito, pronto a morire per Voi”. Con la sua lettera, dunque, Julian starebbe promettendo sottomissione totale alla Corona e alle future decisioni del re – e anche del suo governo, in quanto come lui “nobile”.

Come mai questo fustigatore dei Potenti avrebbe voluto abbassarsi così davanti alla Monarchia?  

Da una parte, essendo australiano (e quindi facendo parte della Commonwealth che ha, a capo, il monarca inglese) Julian è stato abituato sin dalla scuola a ripetere frasi come our liege; quindi, in un certo senso, dirlo è per lui una cosa normale. Anche se – bisogna riconoscerlo – frasi come my liege vengono usate sempre meno oggi come oggi, persino da molti alti funzionari della Corona. Lo dice l’autorevole Economist (9 maggio 2023), commentando il comportamento di molti alti funzionari britannici durante l’incoronazione avvenuta il 6 giugno: “imbarazzati, hanno discretamente (e giustamente) eliminato le parti dei loro discorsi pubblici in cui avrebbero dovuto esprimere fedeltà al re” [corsivo nostro].

Perché Julian ha dichiarato esplicitamente quella fedeltà, allora? 

Ritengo del tutto possibile che:

le autorità carcerarie abbiano permesso a Julian di scrivere la sua lettera e di trasmetterla al re, proprio a condizione che essa contenesse frasi che, in occasione della incoronazione di Carlo III, esprimessero sottomissione al volere del sovrano.

fare ciò costituisca l’apertura formale di un negoziato per chiudere il caso. Anzi, il negoziato è probabilmente già iniziato. 

Sappiamo, infatti, che lo scorso 4 aprile, l’Alto Rappresentante del governo australiano ha fatto visita a Julian – la prima visita a Belmarsh di un funzionario di alto rango da quando Julian è stato incarcerato quattro anni fa. Inoltre, sappiamo, dalle indiscrezioni dell’Alto Rappresentante prima del suo lungo colloquio con Julian, che egli auspica un serie di visite. Ora, parlare di “serie” fa pensare, appunto, ad una trattativa, per esempio sulle condizioni di rilascio. E al centro di questa trattativa non potrebbe non esserci la spinosa questione di base, apparentemente irrisolvibile, ovverosia: una volta liberato, Julian ricomincerà a far funzionare il sito WikiLeaks e a rilasciare documenti scottanti ottenuti attraverso quel canale ingegnoso? O accetterà invece di fare il padre di famiglia e basta? O vorrà invece cercare una via di mezzo: fare il giornalista, sì, ma scrivendo articoli che si basano solo su documenti già rivelati, senza sollecitare o pubblicare nuove rivelazioni?

Ora, trattare le condizioni per il rilascio di Julian significa stabilire delle regole. Significa anche riconoscere un’autorità, accettata da entrambi le parti, abilitata a far osservare quelle regole. Perciò la parte britannica potrebbe aver suggerito all’Alto Rappresentante australiano di far scrivere a Julian una lettera di sottomissione alla Corona come riconoscimento dei propri limiti e pertanto come apertura delle trattative. Dal canto suo, Julian potrebbe essere riuscito a far accettare dalle autorità britanniche la stesura di una lettera – da diffondere pubblicamente – che contenga critiche impietose sulle condizioni di vita a Belmarsh. In tal modo, la parte britannica, anche se detiene l’ultima parola, riconosce anch’essa i propri limiti. Così, Julian avrebbe pareggiato i conti e le trattative potranno proseguire su un piano di parità.  

Ma attenzione: le critiche impietose che Julian fa, riguardano soltanto le sue scandalose condizioni di vita in carcere. Non riguardano il fatto, ancora più scandaloso, che egli sia ancora in carcere dal momento che la sua detenzione è stata giudicata arbitraria dall’ONU, l’approvazione della richiesta di estradarlo risulta stra-viziata e l’extraterritorialità pretesa dalla giustizia statunitense è un chiaro abuso di potere. Le critiche impietose che Julian fa nella sua lettera non riguardano nemmeno i suoi ben noti cavalli di battaglia: i crimini di guerra USA/UK ancora impuniti o l’illecito spionaggio di massa della CIA/NSA o le devastazioni ambientali da parte delle multinazionali petrolifere, per esempio. Evidentemente questi cavalli sono stati messi al pascolo mentre Julian componeva la sua lettera al re. In fondo, se si vuole davvero negoziare, bisogna accettare di interrompere le ostilità: l’Ucraina insegna. E questa sembra essere stata la scelta del co-fondatore di WikiLeaks – una scelta saggia che non si può non approvare:

“Per tutto c’è il suo tempo… 

un tempo per strappare e un tempo per cucire,

un tempo per parlare e un tempo per tacere…”  (Ecclesiaste 3, 7)

Che dire, infine, dello strano paragrafo in cui Julian cita i versi di Proverbi 22:6 – in verità, poco attinenti al suo discorso – e accenna al “big day out” (letteralmente, “grande giorno fuori” ma il riferimento potrebbe essere ai concerti rock “Big Day Out” che si tenevano in molte città australiane). Chissà cosa potrebbero veicolare le cifre 22:6 e quei riferimenti al mondo di fuori downunder? Ma, a questo punto, siamo a due passi dalla divinazione. Perciò, dal momento che divini non siamo, tronchiamo le speculazioni e attendiamo altri indizi.

Rimane ferma, però, la possibilità che la lettera al re Carlo rappresenti il primo passo concreto e documentale verso la liberazione di Julian Assange. Per ora, una ipotesi soltanto. Dita incrociate.

[di Patrick Boylan – docente di teoria e pratica della traduzione all’Università Roma Tre, autore del libro Free Assange e co-fondatore del gruppo “Free Assange Italia”]

Lombardia, la regione mette il bavaglio ai giornalisti: stop al portale di interventi del 118. Stefano Baudino su L'Indipendente il 25 aprile 2023.

Da una decina di giorni, i cronisti lombardi non hanno la possibilità di informare i cittadini sulle emergenze mediche. Infatti, il nuovo assessore regionale al Welfare Guido Bertolaso – fedelissimo del governatore Attilio Fontana – ha deciso di bloccare la sezione dedicata alla stampa del sito internet di Areu, l’Agenzia regionale per l’emergenza urgenza gestita dalla Regione, attraverso cui giornalisti avevano accesso alle informazioni relative agli interventi del 118, come quelli di ambulanze, auto mediche ed elisoccorso.

Lo spazio web riservato ai reporter di Real time – Areu, attivo dal 2012, ha offerto ai giornalisti la possibilità di consultare i primi dettagli su episodi riguardanti eventi violenti, malori o incidenti che abbia coinvolto auto, moto, biciclette, monopattini o pedoni in luoghi pubblici, consentendogli di arrivare in loco ed esaminare la situazione nell’immediatezza dei fatti, per poi raccontarli ai cittadini. Nello specifico, i cronisti potevano reperire sul portale – cui accedevano con username e password dopo essersi registrati – informazioni su sesso, età e indirizzi dei coinvolti, nonché sulle motivazioni dell’intervento dei mezzi di soccorso, sugli ospedali di destinazione e sull’eventuale partecipazione della polizia. Eppure, venerdì 14 aprile, la sezione del sito è stata chiusa di punto in bianco, senza alcun preavviso, scatenando le proteste del Gruppo Cronisti Lombardi e dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia e Nazionale.

La scorsa settimana, una delegazione di giornalisti è riuscita a incontrare Bertolaso, ma la situazione non si è sbloccata. “Guido Bertolaso – hanno riferito Alg, cronisti, Ordine regionale e nazionale – durante l’incontro non ha accettato di riaprire il servizio, ma ha parlato di valutare col ministero della Salute e il Garante della Privacy la funzionalità del portale, prima di decidere se e come riaprirlo. Una risposta inaccettabile, che a nostro avviso mostra la volontà di non riaprire”. All’inizio, la chiusura del servizio era stata imputata a non ben precisate esigenze di manutenzione. Ma le parole utilizzate da Bertolaso dopo l’incontro con i giornalisti lasciano spazio a molti punti interrogativi: in una nota, l’assessore ha parlato di una “decisione maturata dall’esigenza di rimodulare il servizio alla luce dei mutamenti che anche l’informazione ha subito dal 2012”, dal momento che “purtroppo con l’avvento dei siti di informazione online, nei quali troppo spesso lavorano giornalisti senza il dovuto riconoscimento contrattuale previsto dalla categoria, oggi abbiamo rilevato che i tempi per elaborare le notizie si sono ridotti drasticamente compromettendo, in taluni casi, di accertare la realtà dei fatti e la completezza dell’informazione”.

Gli operatori dell’informazione sono allora passati al contrattacco, mettendo in scena una protesta sotto la sede della Regione Lombardia, cui hanno aderito sia l’ordine Lombardo che quello nazionale dei giornalisti. «I cronisti non hanno più accesso alle informazioni del 118, di conseguenza l’informazione è monca. Parliamo di incidenti, di eventi diciamo problematici dal punto di vista sanitario, sia individuale che collettivo – ha riferito il presidente dell’associazione lombarda dei giornalisti Paolo Perucchini. Fa specie che l’assessore al Welfare abbia iniziato da poco il suo impegno e di fronte all’emergenza sanitaria che questa regione sta vivendo il primo intervento che fa è quello di spegnere l’informazione, come se non facendo sapere che cosa accade si risolva il problema dell’assistenza o della sanità lombarda». Perucchini ha evidenziato che Regione Lombardia non ha «attivato servizi alternativi a questo sistema», e che, nonostante la promessa di «attivare un numero regionale sostitutivo», sono stati soltanto aperti «quattro numeri di telefono sulle quattro aree regionali a disposizione dei giornalisti per sole tre ore al giorno».

A margine dell’incontro avuto con i giornalisti, Bertolaso aveva dichiarato di aver chiesto ai suoi interlocutori di “attendere due settimane” per poter usufruire di “un servizio più coerente con tutto il sistema dell’emergenza, dal soccorso sul posto fino alla presa in carico nei Pronto Soccorso, proprio per fornire una comunicazione più attendibile ed esaustiva“. A giorni si capirà dunque se l’assessore sarà effettivamente stato di parola e, soprattutto, quali modifiche subirà il servizio rispetto alla sua attuale versione. [di Stefano Baudino]

La Casa Bianca ha costretto Facebook a censurare notizie vere sui vaccini. Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 13 Gennaio 2023.

Dopo i Twitter Files, che attestano come Twitter abbia influenzato il dibattito sul Covid, manipolandolo secondo le direttive della Casa Bianca e dell’FBI e censurando i contenuti divergenti rispetto alla narrazione pandemica, il Wall Street Journal ha pubblicato un’inchiesta su quelli che potremmo definire i Facebook Files. Si tratta di documenti appena rilasciati che mostrano come la Casa Bianca abbia, ancora una volta, svolto un ruolo chiave nella censura sui social media. 

L’esecutivo democratico avrebbe fatto pressioni sui social di Mark Zuckerberg, per oscurare post relativi a contenuti «spesso veri», che potevano però essere percepiti come materiale «sensazionalistico, allarmistico o scioccante». In parole povere, per censurare quelle notizie “vere” ma scomode al governo democratico, che potevano generare incertezza, paure ed esitazioni sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini anti-Covid. 

I documenti sono stati pubblicati il 6 gennaio, nell’ambito del processo Missouri vs Biden, un caso contro presunte violazioni della libertà di parola da parte dell’amministrazione democratica, che vede coinvolti i procuratori generali del Missouri, della Louisiana, oltre a quattro querelanti della New Civil Liberties Alliance. 

Dalle carte del processo sono emersi alcuni scambi di e-mail tra Rob Flaherty, il direttore dei media digitali della Casa Bianca, e un dirigente di Facebook, il cui nome non è stato reso noto. 

Il 14 marzo 2021, Flaherty ha inviato un’e-mail al dirigente di Facebook, mostrando come il social partecipasse alla «diffusione di idee che contribuiscono all’esitazione vaccinale». Alla risposta imbarazzata del dirigente («Credo ci sia un malinteso»), il funzionario governativo ha reagito con fermezza, esigendo un cambio nella policy del social: «Non credo si tratti di un malinteso. Siamo seriamente preoccupati dal fatto che il vostro servizio sia uno dei principali motivi che spingono all’esitazione vaccinale, punto… Vogliamo sapere che ci state lavorando, vogliamo sapere come possiamo aiutarvi e vogliamo sapere che non state facendo il gioco delle tre carte…». Tanto è bastato affinché la piattaforma corresse ai ripari, cedendo alle imposizioni della Casa Bianca.

Il 21 marzo, il dirigente di Facebook inviava una mail in cui illustrava i cambiamenti di policy per «eliminare la disinformazione sui vaccini» e ridurre la «viralità dei contenuti che scoraggiano la vaccinazione», ma che non contenevano forme di «disinformazione perseguibile». Facebook si è inoltre impegnato a «rimuovere gruppi, pagine e account, quando promuovono in modo sproporzionato» questo genere di contenuti.

L’interesse della Casa Bianca non si è limitato “solo” a Facebook, ma si è esteso anche a Whatsapp e a YouTube. L’Inquisitore digitale della Casa Bianca ha interpellato Meta per sapere che cosa stesse facendo per «limitare la diffusione di contenuti virali» sulla app di messaggistica privata, «data la sua portata nelle comunità di immigrati e nelle comunità di colore». La società ha risposto tre settimane dopo con un lungo elenco di promesse.

Come se non bastasse, il 9 aprile, il rappresentante di Washington ha incolpato la società per la mancanza di zelo nel “controllare” il discorso politico (senza specificare a quale “contesto elettorale” si riferisse), esigendo rassicurazioni che tale negligenza non si sarebbe verificata nuovamente sul fronte vaccinale. Il funzionario ha accusato Meta di aver sviluppato tardivamente un algoritmo in grado di privilegiare le «notizie di qualità» per poi accantonarlo. La Big Tech si è limitata a chinare il capo: «Capito», è stata la risposta. 

Pochi giorni dopo, il 14 aprile, Flaherty è tornato alla carica chiedendo conto del perché il «post più visto sui vaccini» in quella data fosse quello del conduttore conservatore di Fox, Tucker Carlson, «che dice che non funzionano».

Il 10 maggio la piattaforma inviava un elenco delle misure che Facebook aveva provveduto ad adottare per assecondare le richieste della Casa Bianca. In risposta, uno stizzito Flaherty infieriva sull’interlocutore, replicando che risultava «difficile prendere sul serio» le misure censorie di Meta.

Come rileva il Wall Street Journal, da queste e-mail emerge come il social di Zuckerberg abbia assecondato le ripetute pressioni della Casa Bianca e per questo migliaia di americani siano stati silenziati «per aver espresso opinioni scientificamente fondate ma divergenti dalla linea del governo».  [di Enrica Perucchietti]

Nel mondo gli arresti e le uccisioni dei giornalisti indipendenti sono in aumento. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 17 Dicembre 2022

Nel 2022 il numero di reporter in prigione per via del loro lavoro ha raggiunto quota 533, il 13,4% in più rispetto al 2021. Un numero da record che emerge dal rapporto annuale di Reporter senza frontiere. 110 di loro si trovano in Cina, ma nella lista dei Paesi che incarcerano i giornalisti non mancano sorprese. Sono 65 i giornalisti tenuti in ostaggio da rapitori e di 49 di loro non si sa più nulla. Mentre quelli uccisi sono 57, anche questo un numero in aumento rispetto agli scorsi anni. Il Paese più pericoloso per la vita dei giornalisti si conferma il Messico.

I giornalisti detenuti in Cina sono 110. La censura e la sorveglianza, che ha raggiunto altissimi livelli soprattutto durante e dopo la pandemia, continua ad essere un grosso ostacolo per chi per mestiere racconta ciò che succede all’interno dello Stato. Tra quelle centinaia di persone c’è anche Huang Xueqin, una giornalista freelance nota per aver denunciato in Cina corruzione, inquinamento industriale e molestie nei confronti delle donne. Sono 47 invece i reporter detenuti in Iran (l’anno scorso non compariva nella “lista nera”), che dopo lo scoppio delle proteste per la morte di Mahsa Amini è diventato il terzo più grande “carceriere di giornalisti” al mondo, subito dopo il Myanmar (con 62 arresti), dove di fatto fare  giornalismo è proibito, soprattutto dopo il colpo di stato militare del 2021. Tornando all’Iran, del caso della giovane donna curda, deceduta mentre era in custodia dalla polizia per non aver indossato correttamente il velo, se ne erano occupate fin da subito Nilufar Hamedi ed Elahe Mohammadi, due giornaliste che ora rischiano la pena di morte per aver acceso i riflettori sulla vicenda, chiedendo verità e giustizia. Oltre a loro, ci sono altre 76 reporter attualmente detenute, un aumento vertiginoso rispetto al 2021, con un +30%. In generale, le donne rappresentano quasi il 15% dei giornalisti detenuti, più del doppio rispetto a cinque anni fa, quanto la percentuale si fermava al 7%.

Oltre a Cina, Birmania e Iran, mettono a repentaglio la propria vita anche i reporter che decidono di raccontare il Vietnam (al momento sono 39 i giornalisti detenuti nel Paese) e la Bielorussia (che ne ha incarcerati 31). In generale, i tre quarti dei giornalisti incarcerati nel mondo sono per il 45% in Asia e per più del 30% nel Maghreb e nel Medio Oriente.

A tutti questi numeri ne vanno aggiunti altri tre, altrettanto rilevanti. Nel mondo ci sono 65 giornalisti tenuti in ostaggio – tra cui Austin Tice, giornalista americano rapito in Siria nel 2012 e Olivier Dubois, reporter francese rapito nel 2021 da un gruppo armato in Mali, affiliato ad al-Qaeda – e 49 invece di cui non si sa più nulla. Potrebbero essere vivi oppure no: al momento il rapporto dice che il numero di reporter uccisi è salito a 57, anche questo in aumento rispetto all’anno scorso (+19%), complice lo scoppio a febbraio scorso della guerra in Ucraina. Basti pensare che nei primi 6 mesi di conflitto sono stati uccisi 8 giornalisti, tra cui Frédéric Leclerc-Imhoff , un videoreporter francese colpito dalle schegge di un proiettile mentre documentava l’evacuazione dei civili e Maks levin, fotografo ucraino scomparso il 13 marzo e ritrovato morto in una foresta ad aprile.

Tuttavia, a conti fatti, più della metà dei giornalisti uccisi quest’anno si trovavano in Paesi considerati “in pace”. Undici di loro, ad esempio, sono stati assassinati in Messico (il 20% del numero complessivo di giornalisti uccisi in tutto il mondo), 6 ad Haiti e 3 in Brasile. Il rapporto considera infatti le Americhe come “la regione più pericolosa del mondo per i media, con quasi la metà (47,4%) del numero totale di giornalisti uccisi in tutto il mondo nel 2022”.

Si tratta di giornalisti detenuti o uccisi in gran parte per aver fatto lavori scomodi ai governi o a forti interessi economici privati. Tra i primi rientra ad esempio Ivan Safronov, giornalista investigativo russi, condannato a 22 anni di carcere per l’accusa di aver rivelato “segreti di stato”. Tra i secondi rientra il caso di Dom Phillips, giornalista britannico, il cui corpo fatto a pezzi è stato ritrovato in una zona remota dell’Amazzonia brasiliana, dove il reporter si era recato documentare e raccontare il modo in cui i gruppi indigeni locali tentano di combattere attività illegali come il bracconaggio, l’estrazione dell’oro e la deforestazione.

Quello di RSF è ovviamente un lavoro prodotto da una organizzazione privata, il cui curriculum non è esente da punti oscuri, tra i quali spicca quello di essere particolarmente vicina agli interessi americani. Tuttavia il rapporto in questione è ben documentato e certamente il più dettagliato tra quelli che annualmente vengono presentati sulla questione. [di Gloria Ferrari]

Estratto dell’articolo di Andrea Rossi per “La Stampa” il 27 Novembre 2023

Il rumore non concede mai tregua. Dieci chilometri di nastri trasportatori che viaggiano senza sosta. Un rullare incessante che ti corre sopra la testa. Le casse trasmettono musica. Suoni, led, monitor. E poi oggetti ovunque: scatoloni, pacchi, confezioni, pile. 

Giovedì mattina, Novara Ovest, l'ultimo dei tre stabilimenti che Amazon ha aperto in Piemonte, due anni fa. Quattro piani, 60 mila metri quadrati ciascuno. Ci lavorano circa mille persone ma questa settimana sono raddoppiati, assunti attraverso agenzie interinali per gestire il "picco", così lo chiamano: il Black Friday (la settimana dei prodotti a prezzi scontati) e la marcia di avvicinamento al Natale.

Per un giorno ci siamo anche noi. Abbiamo bruciato le tappe: un'ora di formazione sulla sicurezza – per i neo assunti sono previsti due giorni – e via sulle linee dove ogni giorno si confezionano centinaia di migliaia di pacchi. Tre turni da otto ore, chi ha famiglia può chiedere l'orario centrale, 8,30-16,30, il nostro. In questo periodo si lavora sei giorni su sette. Anche parcheggiare all'esterno non è semplicissimo ma avremmo potuto venire in treno: Amazon ha fatto costruire a sue spese una fermata ad hoc sulla linea Novara-Biella. 

All'ingresso c'è un muro di armadietti dove lasciare giacche, zaini, oggetti vari. Poi si passa al controllo del telefono, una targhetta da applicare per identificarlo come nostro: i furti di merce in vendita, in particolare smartphone, a quanto pare sono piuttosto frequenti. A questo punto possiamo entrare.

L'ingranaggio composto di quattro attività: ricezione della merce (receive), stoccaggio (stow), prelievo (pick), e infine impacchettamento per la spedizione (pack). Le merci entrano nel grande capannone accanto all'autostrada Torino-Milano, scaricano tonnellate di prodotti. Un reticolo di nastri convoglia i pacchi verso un'ala del piano terra. Metri e metri di pile di scatoloni e confezioni. 

Lì incontriamo i primi addetti: il loro compito è estrarre i pacchi dalle maxi confezioni e adagiarli sul nastro che li invia al secondo gruppo di lavoro, una serie di linee con una postazione ogni tre metri circa. Il pacco arriva, viene aperto e il contenuto rimesso sul nastro che prosegue la sua corsa.

Il lungo serpentone di prodotti […]comincia una tumultuosa ascesa. Il piano terra è l'area in cui le merci arrivano in magazzino e poi, alla fine della catena, ripartono per arrivare nelle case di milioni di persone. Ma il cuore di questo ingranaggio sta fra il secondo e il terzo piano: 180 mila metri quadrati di magazzino, dove i prodotti arrivati vengono stoccati e poi,in base agli ordini, prelevati, impacchettati e inviati nuovamente al piano terra, stavolta ciascuno con l'etichetta del destinatario. 

Ogni piano è uguale a se stesso, un enorme rettangolo diviso in due aree: un piccolo perimetro dove si trovano le postazioni di lavoro e un gigantesco centro dove dischi azzurri sollevano e muovono i "pod" , torri gialle alte circa tre metri. Ciascuna ha quattro lati aperti con 40 scaffali per lato: ogni scaffale può contenere a seconda del volume da uno a quindici-venti oggetti, quasi sempre tutti diversi tra loro.

Lo stoccaggio è casuale, ogni oggetto finisce nel primo posto libero, ed è l'unica cosa casuale qua dentro: ha una logica ferrea, permette di ricaricare immediatamente gli spazi vuoti senza averne in "letargo" ma soprattutto non richiede personale addestrato perché nessuno deve memorizzare dove sono collocati i vari tipi di prodotto.

Le torri sono decine di migliaia per piano. Gli oggetti milioni. Lì c'è tutto quel che compriamo. Un sistema completamente automatizzato ferma le torri davanti alle postazioni. Anche qui l'attività è duplice: c'è chi deve inserire gli oggetti da stoccare nelle torri e chi li preleva per chi poi li farà impacchettare. A noi tocca il secondo compito. 

[…]  Si passa il badge al lettore ottico e si comincia. Arriva la prima torre: sul monitor compare il codice dello scaffale dal quale dobbiamo prelevare il prodotto, il nome, la descrizione e un'immagine dell'oggetto. Un gioco per bambini, in questo caso. Un faro illumina lo scaffale giusto. Se è ad altezza uomo non resta che afferrare la confezione, altrimenti c'è una piccola scaletta. L'oggetto va passato sullo scanner: luce verde e suono armonioso, vuol dire che è quello giusto.

Un'altra luce verde illumina in quale dei cinque contenitori neri posarlo; a quel punto si schiaccia un bottone e la torre gialla riprende la sua corsa. Nemmeno il tempo di distrarsi, ecco un'altra torre e si riprende da capo. Stavolta lo scanner accende la spia rossa e il suono cambia. Abbiamo sbagliato: nello scaffale c'erano quattro caricabatterie, sembrano uguali ma non lo sono. Prendiamo quello giusto. 

[…] Dopo dieci minuti in postazione siamo già un po' storditi: il rullare dei nastri trasportatori, i robottini che muovono le torri, la musica, i suoni degli scanner e dei macchinari, i fari che illuminano gli scaffali. E poi il ritmo: guarda il monitor, individua l'oggetto, scansionalo, gettalo nel contenitore e premi il pulsante, poi ricomincia. Chi è bravo impiega non più di sei-sette secondi. Logicamente più si è svelti più il ritmo cresce perché il sistema non dà tregua: prelevato un oggetto il faro illumina subito un nuovo scaffale.

La nostra postazione, come tutte, è costellata di avvisi e immagini con suggerimenti e istruzioni per lavorare in sicurezza. Lo stesso accade in tutti gli ambienti dello stabilimento. L'attenzione è massima. Tutti i servizi, in generale, sono di ottimo livello: molti bagni, distributori d'acqua, di guanti. Il problema è staccarsi dalla propria postazione, spezzare il ritmo. Uno dei cinque contenitori è pieno, gli altri per metà: una luce gialla ci avverte che quello pieno va spinto via verso il reparto pack.

In ogni piano ce n'è uno. A metà hanno creato un'area sperimentale, due linee parallele: la prima preleva gli oggetti dalle torri, la seconda li impacchetta. Noi siamo addetti ai pacchi. Ogni scaffale equivale a un cliente che può avere ordinato uno, due o più prodotti. Il monitor indica per prima cosa il formato del pacco necessario: per facilitarci gli assegna un colore, basta alzare lo sguardo e pescare quello giusto. 

Subito dopo un bocchettone sputa una striscia di nastro adesivo dell'esatta misura del nostro pacco. Poi ci giriamo verso gli scaffali: una luce ci dice qual è il nostro, preleviamo gli oggetti, li scansioniamo e li inseriamo nel pacco. Se il cliente ha chiesto la ricevuta una macchina la emette; se il pacco contiene batterie o simili serve un'altra etichetta.

Ma il monitor ci dice tutto: niente è lasciato alla nostra valutazione; solo la scelta se aggiungere un po' di carta se la confezione è troppo grande. Il bocchettone sputa dell'altro nastro per chiudere il pacco, sempre della lunghezza giusta, poi l'etichetta, si passa la confezione sotto lo scanner e via sul nastro verso i tir che aspettano al piano terra. 

Anche qui chi è svelto in trenta secondi può confezionare un pacco. E anche qui il sistema incalza: spedito un imballaggio appare subito il prossimo da confezionare.

Non a caso chi può cambia spesso mansione: ricezione, stoccaggio, prelievo, impacchettamento. «Altrimenti diventerei pazza», ci racconta una collega senza interrompere la sua attività.

A seguire il ritmo del reparto ci sono i responsabili di area. La nostra si chiama Alessia: è gentile ma sempre allerta. I tir partono all'ora prestabilita e devono avere l'esatto carico. Se ne manca qualcosa il mezzo parte comunque e la consegna salta. Alessia ha due compiti: verificare che non manchi nulla e nel caso recuperarlo; e controllare che tutte le postazioni lavorino senza sosta. Come dice lei, «che tutti gli addetti spingano per raggiungere l'obiettivo». La pressione si sente: già un'ora prima della partenza dal piano terra cominciano a segnalare cosa manca. 

Il segreto che permette a un pacco di arrivare a casa il giorno dopo averlo ordinato è tutto qui: un maniacale controllo del processo ma anche un'incessante pressione ambientale sul lavoratore. Ecco perché qui sono quasi tutti molto giovani. Ed ecco perché il turnover è altissimo: tanti nuovi assunti e altri che lasciano usurati da ritmi alienanti e massacranti.

Non a caso venerdì – il giorno dopo il nostro arrivo – in tutti gli stabilimenti Amazon d'Europa si è scioperato. In quelli piemontesi alcuni sindacati hanno rallentato i ritmi per protesta: chiedono retribuzioni equiparate alle mansioni, meno controlli sui dipendenti (dalle pause alle uscite alle performance), ambienti meno rumorosi, una policy sull'uso dei telefoni. Ogni turno dura sette ore e mezza più 30 minuti di pausa, circa a metà. La mensa è al piano terra, accanto c'è un'area relax.

Per raggiungerla bisogna avviarsi verso l'uscita e passare dal metal detector, come quando si finisce il turno (sistema contestato dai lavoratori per la sistematicità dei controlli). Chi lavora al piano terra impiega non più di tre-quattro minuti per arrivare in mensa ma per chi è al quarto piano, magari dal lato opposto dell'edificio, la mezz'ora per metà se ne va in spostamenti. Che ci sia uno stato di allerta è testimoniato dalla premura con cui Amazon chiede – tra bacheche, lavagne e maxischermi – ai dipendenti di suggerire miglioramenti o idee.

[…] Fine turno. Se avessimo mantenuto sempre lo stesso ritmo avremmo maneggiato di sicuro oltre 500 oggetti. Moltiplicati per le circa 2 mila persone che lavoravano giovedì si supera comodamente il milione in una interazione totale tra uomo e macchina. […] E questo connubio risponde a una logica nitida: ottimizzare la prestazione umana, avvicinarla il più possibile a quella di una macchina.

La battaglia per il diritto d’autore nell’arte generata con l’IA. Walter Ferri su  L'Indipendente giovedì 24 agosto 2023

Le più fini menti del mondo accademico si stanno ancora scervellando nel tentativo di definire se ciò che viene generato attraverso l’uso della cosiddetta “intelligenza artificiale” possa o meno essere considerato Arte. Nel frattempo, il Mercato cerca di risolvere un dubbio ben più pragmatico, ovvero tenta di comprendere se i diritti d’autore dell’oggetto creato dall’IA possano essere effettivamente registrati per garantire un uso profittevole del prodotto finale. Sebbene recenti decisioni giuridiche suggeriscano una risposta negativa, il quadro normativo rimane ancora estremamente ambiguo.

Stephen Thaler, scienziato informatico, ha passato una parte considerevole della sua vita a testare i limiti burocratici dei contenuti autogenerati. Da metà degli anni Novanta, l’uomo ha bussato agli uffici dei Governi di tutto il mondo nella speranza di registrare dei brevetti derivati da alcuni algoritmi da lui sviluppati. Per farlo ha affrontato le giurisdizioni di Stati Uniti, Australia, Brasile, Canada, Cina, India, Israele, Germania, Giappone, Nuova Zelanda, Repubblica di Corea, Arabia Saudita, Singapore, Svizzera, Taiwan, Corte Suprema britannica e Ufficio Brevetti Europeo (EPO), ottenendo sempre risultati molto altalenanti.

L’ultima sfida di Thaler è stata quella di far autenticare attraverso la registrazione del diritto d’autore a un’opera bidimensionale partorita dalla sua Creativity Machine, seppur con scarso successo. Thaler ha presentato una richiesta all’Ufficio del Copyright statunitense l’anno scorso, ma ha ricevuto un rifiuto così categorico che ha citato l’ufficio stesso in tribunale, accusandolo di aver respinto arbitrariamente il suo progetto. Venerdì 18 agosto, il giudice Beryl Howell del tribunale distrettuale degli Stati Uniti ha però sostenuto la ragionevolezza del rifiuto, affermando senza mezzi termini che «l’autorialità umana è un requisito fondamentale del copyright».

La decisione costituisce un importante precedente giuridico nel campo dell’IA, eppure un simile esito era tutto meno che scontato. Nel contesto delle intelligenze artificiali, l’Amministrazione USA fa spesso riferimento a un caso del 2014 in cui la People for the Ethical Treatment of Animals (PETA) aveva contestato al fotografo David J. Slater l’autorialità di alcune immagini scattate da macachi che si erano inavvertitamente fatte dei “selfie” con le sue attrezzature. Secondo PETA, il diritto d’autore e i ricavi derivanti sarebbero dovuti cadere in seno alle scimmie.

All’epoca, i primati non avevano ottenuto la vittoria, tuttavia una serie di cause satellite ha definitivamente sancito che un’opera d’arte debba in ogni caso prevedere un coinvolgimento autoriale umano. Una posizione che peraltro si riflette anche nelle politiche dell’EPO, la quale sostiene che, almeno nel caso dei brevetti, l’autore non solo debba essere una persona fisica, ma che questi debba anche presentarsi come un soggetto con capacità giuridica secondo i canoni stabiliti dall’ordinamento.

Sussistono allo stesso tempo delle sottigliezze fondamentali che possono influenzare non poco la sopracitata decisione legale. Le critiche mosse a Thaler sono per esempio state applicate anche a Zarya of the Dawn, fumetto le cui immagini sono state generate dalla IA del programma Midjourney. In questo caso, l’Ufficio per il Copyright statunitense ha respinto la registrazione dei disegni, ma ha riconosciuto all’autrice Kris Kashtanova un intervento editoriale che le permette di rivendicare un certo grado di autorialità.

Una situazione affine si è presentata a ben vedere anche in Italia. Nel 2016, la RAI ha utilizzato l’immagine di un fiore reperita dal web senza però avere l’accortezza di riconoscere alcun compenso all’autrice, l’architetta nota come Lindelokse. Questo ha scatenato una controversia legale che ha portato l’emittente italiana a difendersi in Cassazione sostenendo che l’opera – The Scent of the Night – fosse stata generata da un software e che quindi non poteva essere soggetta a diritti d’autore. La legge italiana ha dato ragione alla professionista per ben tre volte, ricordando nel gennaio del 2023 che «un’opera dell’ingegno riceve protezione a condizione che sia riscontrabile in essa un atto creativo, seppur minimo, suscettibile di manifestazione nel mondo esteriore». [di Walter Ferri]

Si pubblicano sempre più libri, se ne leggono sempre meno. Storia di Paolo Di Stefano  su Il Corriere della Sera mercoledì 9 agosto 2023.

Caro Corriere, Il 30 per cento dei libri pubblicati nel nostro Paese non vende nemmeno una copia. Siamo un popolo di grafomani che però legge poco. Si trova il tempo per scrivere, ma non per leggere. Dovrebbe essere il contrario. Senza contare il livello qualitativo. Gabriele Salini

Caro signor Salini, A quanto pare, quel 30 per cento è un dato non del tutto attendibile, ma resta vero che il mercato dei libri è il più perverso che si possa immaginare, specie in Italia dove se leggono sempre di più i pochi lettori forti, la quota percentuale generale scende al 40 per cento secondo gli ultimi dati Istat (cioè neanche un italiano su due legge un libro l’anno). Si pubblicano 60 mila nuovi titoli l’anno, ben sapendo che per lo più saranno in perdita. Il motto degli editori è: pubblicare di più per sopravvivere, perché questo richiede il meccanismo di distribuzione e di vendita. Il livello dell’editoria italiana è tra i più alti in assoluto. Ma la qualità è schiacciata dalla necessità di buttare sul mercato sempre più titoli nuovi. Con questi numeri il turn over è forsennato e i libri “perduti” nel nulla sono tantissimi. Anche quando riesce ad apparire in libreria, un titolo che non sia baciato subito dalla fortuna scompare dopo un mese, e si passa al prossimo. In un’intervista pubblicata la scorsa settimana sul «Corriere», Romano Montroni, il maestro dei librai italiani, diceva che gli editori producono libri a ripetizione, ma pochi in Italia si occupano di far crescere la lettura. La smania di eventi e festival evidentemente non basta. E la quantità indiscriminata non aiuta.

(ANSA mercoledì 9 agosto 2023) - La nuova frontiera delle truffe sui viaggi sono le guide realizzate con l'aiuto dell'intelligenza artificiale. Secondo quanto riporta il New York Times, negli ultimi mesi sono proliferati su Amazon libri di viaggi generati dall'intelligenza artificiale generativa, che sono il risultato di un mix di strumenti: app di IA in grado di produrre testi e ritratti falsi, siti web con una serie apparentemente infinita di foto d'archivio, piattaforme di autopubblicazione con poche barriere contro l'uso dell'intelligenza artificiale, e la capacità di acquistare e pubblicare recensioni online fasulle (che va contro le politiche di Amazon e potrebbe presto essere sottoposta ad una maggiore regolamentazione da parte della Federal Trade Commission).

L'uso di questi strumenti ha permesso a diversi testi di salire in cima ai risultati di ricerca di Amazon, e talvolta di ottenere riconoscimenti dalla piattaforma come ad esempio la 'Guida di viaggio n. 1 in Alaska'. Numerosi utenti che hanno ordinato una delle guide, tuttavia, si sono accorti che mancano ulteriori informazioni sull'autore o sull'editore, le mappe, e spesso hanno un linguaggio ripetitivo e pieno di errori grammaticali. Amy Kolsky, 53enne della Pennsylvania con la passione dei viaggi, ha raccontato ad esempio al New York Times di aver acquistato una guida mentre pianificava un viaggio in Francia scelta per le recensioni entusiastiche, il buon prezzo e la descrizione dell'autore che secondo Amazon era un rinomato scrittore di viaggi. 

Quando è arrivata, però, Kolsky è rimasta delusa dalle descrizioni vaghe, dal testo ripetitivo e dalla mancanza di itinerari: "Sembrava che l'autore fosse andato su Internet, avesse preso informazioni da Wikipedia e fatto copia-incolla", ha detto, precisando di aver subito mandato indietro il libro. E il New York Times ha trovato guide simili su una gamma ancora più ampia di argomenti tra cui cucina, giardinaggio, artigianato, medicina, religione e matematica.

(ANSA mercoledì 9 agosto 2023) - "Amazon è costantemente impegnata a valutare le tecnologie emergenti e a innovare per offrire la migliore esperienza di acquisto ai propri clienti" e ha "tolleranza zero per le recensioni false e vogliamo che i nostri clienti possano acquistare con fiducia, sapendo che le recensioni che leggono sono autentiche e affidabili". Lo afferma Amazon in merito all'articolo del New York Times sulle guide generate dall'intelligenza artificiale divenute la nuova frontiera delle truffe sui viaggi.

"Tutti gli editori presenti nello store devono attenersi alle nostre linee guida sui contenuti, compresa la conformità ai diritti di proprietà intellettuale e a tutte le altre leggi applicabili. Investiamo molto tempo e risorse per garantire il rispetto delle nostre linee guida e per rimuovere i libri che non risultano conformi ad esse", aggiunge Amazon. "Abbiamo politiche chiare che vietano l'abuso delle recensioni e sospendiamo, blocchiamo e intraprendiamo azioni legali contro coloro che violano queste politiche, oltre a rimuovere le recensioni non autentiche".

Michele Bovi per Dagospia l'11 luglio 2023. 

Simone Cristicchi è un ingrato. Parola di Biagio Antonacci.

Nel 2005 Cristicchi incise “Vorrei cantare come Biagio” e fu subito successo. All’epoca lui faceva pianobar e venne a chiedermi il permesso a un concerto a Roma – ha raccontato Antonacci a Renato Franco del Corriere della sera - Gli dissi: se vai sul palco stasera davanti a ottomila persone potrai farla. Da quel momento non ho più sentito da parte sua un gesto carino, per una canzone che è tuttora il suo più grande successo. Io vivo di gesti, di empatia umana, il riconoscimento che sta in una parola: uno deve dire grazie, sempre”. 

Sembra lo sfogo, inquieto ma legittimo, di un artista celebre verso un brano-tormentone che sfrutta la sua popolarità. 

La sorpresa arriva quando, a seguito di una ricerca nell’archivio delle opere musicali della SIAE, si scopre che gli autori di “Vorrei cantare come Biagio” risultano essere tre: Simone Cristicchi, il musicista e produttore discografico Leo Pari e …Biagio Antonacci che firma come compositore della musica e come autore del testo. 

Una realtà sconosciuta finora a tutti, visto che sulle etichette dei supporti musicali sono sempre e soltanto apparsi i nomi di Cristicchi e Pari.

Due le plausibili spiegazioni:

Antonacci è davvero coautore del brano che lo cita a ripetizione e per una forma di pudore ha preferito mantenere il riserbo;

Cristicchi per incidere il brano ha dovuto riconoscere il credito a colui che egli stesso ha voluto eleggere a protagonista del testo. 

Resta tuttavia indecifrabile l’astio di Antonacci verso quella canzone, visto che ogni volta che viene eseguita è lui a incassarne buona parte dei profitti. 

Il quesito fondamentale è un altro e riguarda la necessità di un’autorizzazione quando si vuole intitolare a un personaggio celebre un’opera dell’ingegno. 

Non c’è bisogno di permessi se l’uso di un nome non rappresenta un’usurpazione – spiega Giorgio Assumma, luminare del diritto d’autore – ovvero se non viola quattro requisiti: l’onore, il decoro, la reputazione e la riservatezza del soggetto invocato.

In realtà nell’invocare altri artisti nelle proprie canzoni c’è già stato chi rasentava i margini segnalati dall’avvocato Assumma.

Nella “Venerdì 17” pubblicata nel 2004 dal rapper Fabri Fibra si ascolta Ultimamente fumo eroina tabasco e ti assicuro è buona: ce la vende Vasco. E Fedez nella sua “Jet Set” del 2011 canta Quando Vasco si faceva era l’idolo del mondo. 

Senza dubbio Vasco Rossi rappresenta il totem di innumerevoli artisti. Sono 48 le canzoni depositate alla SIAE che lo citano nel titolo.

A comporre la “Vasco” più famosa fu Jovanotti nel 1989 con la musica firmata da Claudio Cecchetto e Luca Cersosimo. Ma ci sono anche “Vasco non Vasco” di Dino Moroni alias Arcano, “L’ha detto Vasco” di Giuseppe Carella, “Colpa di Vasco” di Ka Bizzarro con Giacomo Fusari. Seguono la tangibile “Tale e quale a Vasco” di Alfonso Di Bernardino, l’esitante “Non sono mica Vasco” dell’arrangiatore milanese Lorenzo Magnaghi, l’oggettiva “Non mi chiamo Vasco Rossi” di Fabio Gasparini, le due conviviali “Al bar di Vasco” del cantautore torinese Enzo Maolucci e “Quando Vasco mise piede in questo bar” del cantautore bresciano Marco Franzoni e l’angelica “Il paradiso è solo Vasco Rossi” del cantautore romano Fabio Criseo.

Si accodano le comparative “Come Vasco” di Fabri Fibra, “Come il grande Vasco” del cantautore siciliano Salvatore Tornitore e l’hit del 2007 “Come Vasco Rossi” eseguita dal duo trentino Gaia & Luna con un’altra sorpresa nell’archivio della SIAE: la canzone è accreditata al dj e discografico Agostino Carollo, al compianto Alan Taylor produttore dei primi tre dischi di Vasco Rossi e - seppure non menzionato nell’etichetta - allo stesso Vasco Rossi, musica e testo. Blasco come Biagio. 

L’invocazione di artisti celebri è abitudine diffusa e vantaggiosa nella cosiddetta musica leggera. Cominciò la regina dello swing Ella Fitzgerald nel 1936 con “Mister Paganini” scritta da Sam Coslow che adattata in italiano dall’editore Alberto Curci divenne un cavallo di battaglia per Natalino Otto e per il Quartetto Cetra. Il principe dei violinisti Niccolò Paganini è stato ricordato anche dal cantautore molisano Enzo Guarini per “Io e Paganini” e dal chitarrista classico sardo Ivo Zoncu per l’esoterica “Io, Paganini e il diavolo”. Forse nell’intento di smentire l’aforisma Paganini non ripete è nata “Clone Paganini” composta da Guido Gavazzi, direttore della scuola di musica toscana Amadeus.

E proprio Wolfang Amadeus Mozart è il primo della classe. Nell’archivio della SIAE il suo nome compare nil titoli di 2300 opere. Molte classiche, numerose pop come “Caro Mozart” scritta da Lilli Greco e Paolo Dossena nel 1971 per Sylvie Vartan, “A sud di Mozart” di Edoardo Bennato, le sibilline “Mozart acquatico” del maestro Pinuccio Pirazzoli e “Scappa Mozart” del direttore d’orchestra emiliano Paolo Gattolin, le immancabili ricreative “Addio Caffè Mozart” di Renato Rascel con il testo della coppia Garinei & Giovannini e “Al bar del piccolo Mozart” di Enrico Gasparotto. Di più ampio respiro stilistico ed epocale “Mozart e i Beatles” composta dal più acclamato dei direttori d’orchestra pop Beppe Vessicchio. 

Dopo Mozart c’è Johann Sebastian Bach con 2031 titoli dedicati: il più famoso è “Ho scelto Bach” scritto da Roberto Vecchioni e Iller Pattacini nel 1967 per Andrea Lo Vecchio e l’archivio della società degli autori ed editori ospita ben tre diversi depositi con lo stesso titolo “Ascoltando Bach” e un quarto “Ascoltando un disco di Bach”. Sul nome del compositore tedesco sono stati in molti anche a sbizzarrirsi in parafrasi: dal compositore bresciano Luigi Stanga con “Bach is Back” al fisarmonicista emiliano Fabio Magnoli con “Bachata dalla fortuna”. 

Segue Frédéric Chopin a quota 1740 : nel 1971 Franco Migliacci e Dario Farina scrissero “A quel concerto di Chopin” per Gianni Morandi; vent’anni dopo, Marco Masini ha pubblicato “Un piccolo Chopin”.

In quarta posizione c’è Ludwig van Beethoven citato in 1664 titoli. Il primo a trascinarlo in un brano rock fu Chuck Berry con “Roll Over Beethoven” del 1956, riproposto in seguito da altri giganti, Beatles e Rolling Stones su tutti. Scrisse “Le scarpe di Beethoven” Giovanni Fusco, tra i primi compositori italiani di musica cinematografica.  Allo Zecchino d’oro del 1993 entrò in finale “La nonna di Beethoven” composta dal maestro Augusto Martelli con il testo di Pipolo, pseudonimo dello sceneggiatore Giuseppe Moccia. 

Enrico Caruso è l’interprete lirico più citato, con 124 titoli. In testa per popolarità la “Caruso” del 1986 di Lucio Dalla, ma prima di lui un’altra “Caruso” aveva fatto il giro del mondo, scritta e cantata nel 1976 da Joan Baez. 

78 sono i titoli che invocano Maria Callas. Due riguardano colonne sonore di film: “Callas Forever” del 2002 di Franco Zeffirelli con la musica di Alessio Vlad e “Callas e Onassis” del 2005 di Giorgio Capitani con la musica di monsignor Marco Frisina.

Anche Luciano Pavarotti è ricordato nei titoli del pop (28 volte). Il polistrumentista vicentino Sergio Brugnone ha composto “Ho cento dischi di Pavarotti”, il cantautore Roberto Cavalcante ha depositato l’intrigante “Dal Boss a Pavarotti”, mentre Raul Casadei titolò “Pavarotti” una delle sue mazurche.

Il re del rock Elvis Presley fa anche in questo campo la parte del leone: 1535 titoli lo ricordano. Tra gli italiani, lo scrittore padovano Romy Genovese ha registrato alla SIAE “Più famosi di Elvis Presley”. Il rapper statunitense Dante Cimadamore gioca sui confronti: “Michael Jackson VS Elvis Presley” e “Frank Sinatra VS Freddy Mercury” sono i suoi pezzi forti. 

Frank Sinatra (246 titoli) fu ricordato già nel 1950 dal Quartetto Cetra con il brano “Dimmi un po’ Sinatra” scritto da Tata Giacobetti sulla musica di Armando Trovajoli e nel 1972 Fred Bongusto incise “La canzone di Frank Sinatra”. 

Fabio Concato nel 1977 ha ricordato Dean Martin, partner abituale di Sinatra, nella spassosa “A Dean Martin”.

Dalla British Invasion scaturirono altri soggetti. 421 titoli citano i Beatles, 117 i Rolling Stones. Il paroliere Franco Migliacci coinvolse entrambe le band nel 1967 per la storica “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones” di Mauro Lusini e Gianni Morandi. Il poeta Roberto Roversi scrisse per gli Stadio nel 1984 “Chiedi chi erano i Beatles”. Ha scelto i secondi con “Non siamo i Rolling Stones” Marco Scanavilli, voce della tribute band lodigiana consacrata a Luciano Ligabue. Elio e le Storie Tese nel 1999 triplicarono con “Beatles, Rolling Stones e Bob Dylan”. 

I quattro Beatles sono anche citati singolarmente. 120 volte John Lennon. Tra i titoli più incisivi “Ci vorrebbe John Lennon” di Simone Giorgi, “Hanno sparato a John Lennon” di Andrea De Luca, “John Lennon sa chi sono” di Franco Marcello Murro e Fabrizio Gatti, il liturgico “La salvezza di John Lennon” di Natale Plebani, il cutaneo “La forfora di John Lennon” di Emiliano Ballarini.

“L’Agresti è morto come Paul McCartney” è stata depositata dal comico toscano Andrea Agresti e “I sandali di Paul McCartney” dal cantautore milanese Marco Levi. In tutto 37 titoli con Paul McCartney, di cui cinque cofirmati dallo stesso Paul. 

Restano George Harrison e Ringo Starr.

Un “George Harrison” (su 17 titoli in totale) è firmato dal pianista Mauro Pagliarino.

Anche il batterista dei Beatles è a quota 17: da “Non piange Ringo Starr” di Paolo Limiti e Umberto Napolitano per i Nuovi Angeli del 1978 a “Ringo Starr” dei Pinguini Tattici Nucleari per Sanremo 2020. 

Nome e cognome di Adriano Celentano compaiono in 54 titoli. Due sono diventati importanti successi stranieri: il primo del musicista svedese Joakim Åhlund, il secondo della cantautrice tedesca Suzie Kerstgens. 

Nel 1966 quando ancora era considerato il luogotenente del Molleggiato, Don Backy scrisse “Come Adriano”. Mentre “Adriano Celentano” è uno dei titoli dell’album di Francesco Baccini del 1992 “Nomi e cognomi”, in compagnia di “Antonello Venditti”, “Giulio Andreotti”, “Diego Armando Maradona”, “Renato Curcio” e “Jack lo Squartatore”. 

Il nome di Lucio Battisti compare in 46 titoli: dall’azzardato “Ammazzando Battisti” del duo folignate Tommaso Trastulli e Federico Bocchini, al percussivo “Battisti” (Battisti dove sei? Battisti non esisti) del 1995 dei B-Nario, fino alla “Mogol-Battisti” del 2006 interpretata dall’autore Andrea Mingardi con Mina. Merita menzione il titolo remissivo confezionato dal cantautore napoletano Massimiliano Ambrosino: “Siamo tutti figli di Battisti”.

Nell’archivio della SIAE si trova di tutto: “Auguri Mina” del pianista Fabio Gangi, “Claudio Villa dispettoso” del direttore d’orchestra Ovidio Sarra assieme al clarinettista Astro Mari e sette diverse “Amanda Lear”, l’ultima del 2017 firmata da Diego Palazzo e Francesco Bianconi per i Baustelle. 

E tornando al titolo di apertura scopriamo che “Vorrei cantare come Biagio” di Antonacci-Cristicchi-Pari ha dato origine a due gemelli: il primo è “Abbiaggio Antonacci” di Andrea Sambucco, alias Ruggero de I Timidi, assieme a Salvo Spoto, coppia di comici con all’attivo partecipazioni in programmi tv come Zelig e Quelli che il calcio. Il secondo è “Vorrei cantare come quello che vuole cantare come Biagio Antonacci” enigmatica controproposta di Francesco Recchia, alias Keccorè, cantautore pugliese residente a Londra. È un brano che ho composto 17 anni fa in omaggio a Simone Cristicchi, uno dei miei artisti preferiti – rivela Recchia – L’ho depositato alla SIAE ma non l’ho ancora inciso. Penso di farlo nei prossimi giorni. Senza nemmeno chiedere il permesso a Biagio Antonacci.

DA RAPAGNETTA A VATE. Gabriele D'Annunzio fortunato dalla nascita: suo papà cambiò cognome, quello vero non era tanto poetico. Attilio Mazza su L’Arena il 04 febbraio 2014

Gabriele D'Annunzio: il primo cognome di suo padre era Rapagnetta

Gabriele d'Annunzio fu perseguitato dalla fortuna, sin dalla nascita. Si sarebbe dovuto chiamare Rapagnetta, come suo nonno Camillo, come suo padre Francesco Paolo: un cognome capace di strioncare sul nascere la carriera di un Vate. Se non che il padre, adottato dall'Antonio zio per parte di madre, con le ricchezze ne ereditò anche il cognome: D'Annunzio. Il quale avrebbe dovuto, tuttavia, appaiarsi con Rapagnetta, trasformando il cognome in Rapagnetta-D'Annunzio; ma non si conosce un solo documento, né d'ufficio, né privato, in cui Francesco Paolo d'Annunzio figuri solo Rapagnetta. E unicamente il cognome d'Annunzio compare sul certificato di nascita di Gabriele.

Franco Di Tizio — medico e studioso abruzzese fra i più interessanti e feraci, direttore della collana Saggi e carteggi dannunziani, edita a Pescara da Ianieri — nel suo ultimo impegnativo lavoro va ben oltre la ghiotta aneddotica. Nel volume Gabriele d'Annunzio e la famiglia d'origine (Ianieri, 38 euro), ricostruisce, infatti, in oltre 500 pagine, l'intera cerchia parentale del grande poeta e scrittore del quale si concluderanno il primo marzo le celebrazioni a 150 anni dalla nascita. Nel libro c'è, per iniziare, l'inventario delle lettere e dei telegrammi — molte centinaia, numerosi gli inediti — che il poeta scambiò tra i componenti della stretta cerchia familiare.

I sette capitoli sono suddivisi tematicamente: l'infanzia, il padre, la madre, le tre sorelle — Anna (di cui a Parigi il poeta presentì la morte avvenuta a Pescara nell'agosto 1914), Elvira, Ernestina — e il fratello Antonio, forse il meno amato; difficoltà ebbe anche con la sorella Elvira; dovette, inoltre, far fronte, in diversi modi, alle costanti richieste d'aiuto di tutti i congiunti più stretti e anche di altri.

IL FRATELLO Antonio emigrò in America a 33 anni per sfuggire al carcere a causa di cambiali firmate con il nome di Gabriele, sopravvivendo dando lezioni di musica e suonando l'oboe. Tornò in Italia nei primi mesi del 1934, gravemente ammalato e in disastrosa situazione economica, cercando la protezione del fratello, che lo aveva soccorso già ben nove volte. Ma non gli vennero aperti i cancelli del Vittoriale. Si accommiatò con queste righe: «Partirò col Rex col tuo nome nel mio cuore e con l'animo straziato per non averti potuto rivedere per l'ultima volta».

Lacerante anche l'ultima lettera al celebre cognato di Adele, moglie di Antonio: «Tu non mi crederesti ma non riusciresti neppure lontanamente a fartene un'idea con tutta la tua potenza divinatrice» dei sacrifici, delle rinunce, del doppio lavoro «anche per tener alto il prestigio del nostro nome. Sembrerebbe come se la signora fortuna, per gioco, largendo a te ogni soddisfazione e conforto detraesse, per equilibrio, a tuo fratello anche la più legittima necessità».

È impossibile offrire, nell'ambito di una succinta nota, un'idea compiuta dell'accurata ed esaustiva ricostruzione di Franco Di Tizio dei molteplici legami domestici di Gabriele d'Annunzio, tutte storie che meriterebbero d'essere raccontate, alcune veri e propri romanzi. Ecco, quindi, solo alcuni accenni.

I GENITORI. La madre, Luisa de Benedictis, donna riservata, di famiglia benestante e di tradizioni signorili, alla quale Gabriele fu assai legato, andò in sposa a don Francesco Paolo D'Annunzio il 3 maggio 1858 a Ortona; lei aveva 25 anni, lui 26. La casa dei giovani e abbienti coniugi fu allietata dalla nascita di cinque eredi: Anna (1859), Elvira (1861); Gabriele (1863), Ernestina (1865) e Antonio (1867).

Il poeta trasse i segni del destino già dai casati della madre, de Benedictis, dal proprio nome e dal cognome del padre: «Se io porto il nome dell'Arcangelo, ho nella mia mente il suggello sovrano dell'Arcangelo. Platone direbbe di me che sono una natura regale». Gli piacque ritenere che la madre fosse imparentata con Jacopo de Benedictis (o de' Benedetti), il grande poeta francescano Jacopone da Todi; e tra i suoi avi ricordò anche un antico tipografo: «Ho ritrovato un documento che dimostra come mia madre discenda da uno dei più insigni stampatori del primo rinascimento: Plato de Benedictis».

Curioso, per molte ragioni, l'episodio riportato da Franco Di Tizio, riguardante il padre, testimoniato dalla sorella Elvira nel 1923: «Gabriele aveva solo tre anni e una notte che dormiva nel letto di mia madre d'un tratto si svegliò, pretendendo che mia madre accendesse una candela. “Perché figlio mio vuoi che accenda, se stavamo dormendo?”, domandò mia madre. “Perché ho sognato – rispose testardo Gabriele – che piangevi in silenzio e perciò io devo assolutamente asciugarti le lacrime!” La candela fu accesa. Il bambino aveva indovinato». La madre aveva litigato, infatti, con il marito, impenitente e sfrontato dongiovanni che per le donne sperperò larga parte del patrimonio regalando anche case e terreni alle amanti che gli diedero figli di cui non fece mistero.

Ecco delineati due caratteri del poeta: il suo dichiararsi «sensitivo», come ribadirà ripetutamente durante la vita, e la natura del padre, al quale assomigliò per via di femmine e di sperperi.

È stato ribadito dai biografi «che Gabriele ereditò dalla madre la fine sensibilità mentre dal padre il temperamento sanguigno, la passione per le donne e la disinvoltura nel contrarre debiti. Si racconta che il padre gioisse immensamente nel rimirarlo da bambino. Non perseguiva in sé i propri pensieri, ma quelli di lui. Spesso lo stringeva tra le sue ginocchia tenendolo per le braccia, fermamente, come un artista usa osservare la sua opera».

Gabriele da piccolo non seppe rinunciare né voler male a questo padre. Gli sarà violentemente ostile solo da uomo maturo, soprattutto per difendere la madre.

Ben diverso fu il legame con la madre. Su un tavolino della Stanza del Lebbroso, una delle più misteriose, e per lui più sacre nella Prioria del Vittoriale, pose la fotografia della genitrice sulla quale scrisse di proprio pugno i versi del Poema paradisiaco: «Non pianger più. Torna il diletto figlio alla tua casa». Ma fu solo un desiderio.

Attilio Mazza

Quando D’Annunzio accusò Scarpetta di plagio: la guerra al tribunale di Napoli. Serena Palumbo su Vesuviolive.it il 21 Gennaio 2022

Tra fine Ottocento e inizi Novecento il panorama teatrale napoletano era ricco di attori-autori la cui fama artistica ancora oggi viene ricordata. Tra questi va annoverato senza alcun dubbio Eduardo Scarpetta, padre di Titina, Eduardo e Peppino De Filippo.

EDUARDO SCARPETTA, IL MARADONA DEL TEATRO

Scarpetta conquistò il pubblico napoletano soprattutto con l’interpretazione dell’emblematico personaggio Felice Sciosciammocca: un borghese ingenuo e opportunista, che scatenava costantemente il riso nei suoi spettatori, ironizzando i vizi e i peccati della società. I guadagni dei botteghini erano infiniti quando Scarpetta recitava, tanto che Giuseppina Scognamiglio, studiosa e docente di Letteratura Teatrale all’Università di Napoli Federico II, l’ha definito “Il Maradona del teatro”. 

La bravura artistica di questo leone da palcoscenico si è poi trasferita anche nei figli, riconosciuti e non, come Vincenzino Scarpetta, l’indimenticabile trio De Filippo ed Ernesto Murolo, a sua volta padre del cantautore Roberto Murolo. L’innovazione teatrale di Scarpetta risedeva nella riscrittura di testi del teatro leggero francese: questa tipologia di teatro oltralpe gli appariva come una strada maestra per rinnovare il repertorio tradizionale del teatro dialettale partenopeo. Il teatro scarpettiano, dunque, adattava temi e motivi del teatro francese al pubblico napoletano, servendosi della parodia e dell’immancabile lingua del popolo.

In opposizione al suo teatro innovativo, accusato di camuffare gli originali francesi in una patina meridionale, insorse un gruppo di antiscarpettiani, tra i quali Salvatore Di Giacomo. Ma Scarpetta non si fece mai piegare dalle feroci critiche, continuando il suo lavoro di gran successo, finché non venne accusato da un intellettuale che molto stimava: Gabriele D’Annunzio.

LA POLEMICA TRA SCARPETTA E D’ANNUNZIO: DAL TEATRO AL TRIBUNALE

Tutto ebbe inizio nel 1904, quando Eduardo lavorava a Roma. Come riportato nel libro “E’ il teatro, bellezza!” di Giuseppina Scognamiglio e Massimiliano Mottola, una sera decise di voler mettere in scena la parodia della tragedia pastorale dannunziana La Figlia di Jorio. L’idea non lo abbandonò neanche i giorni seguenti, tanto da divenire una vera ossessione per lui. Decise allora di recarsi al cospetto di D’Annunzio, perché come scrive nella sua autobiografia: “Desideravo di rappresentare la mia parodia col gentile permesso dell’autore attaccato al mio manifesto”. 

Durante questo incontro D’Annunzio lesse il copione e acconsentì verbalmente alla messa in scena, notando anche la riduzione dell’autore-attore da tre a due atti. Ma il celebre poeta non fu di parola: nel momento in cui furono annunciate le date di debutto della parodia, la prefettura di Napoli fu sommersa da numerose lettere di protesta inviate da D’Annunzio stesso e da molti suoi compagni. Ciò nonostante il prefetto non proibì l’imminente messa in scena, che però fu sabotata da un pubblico istruito e comandato ai fischi dalla schiera dannunziana.

Poco dopo D’Annunzio ufficializzò la querela per plagio contro Scarpetta, accusandolo di aver contraffatto e non parodizzato la tragedia pastorale da lui scritta. Da questo momento iniziò quella che lo stesso Eduardo definì “Una Via Crucis”: la lotta si spostò nel 1908 in un’aula del tribunale penale di Napoli. Il pubblico di Scarpetta che, come in teatro, così in tribunale lo sosteneva con il fido amico Benedetto Croce, potette assistere a una disputa combattuta a suon di aspre dichiarazioni. 

Il processo si concluse a favore di Scarpetta: La Figlia di Jorio venne ufficialmente dichiarata una parodia e non un plagio, come sosteneva D’Annunzio. Nonostante la vittoria, Eduardo non era più lo stesso, era distrutto ed estenuato dal lungo processo, nonché mortificato per l’umiliazione che gli oppositori, schierati con l’intellettuale, gli avevano inflitto. La via crucis porta così Scarpetta alla crocifissione, non legale, bensì professionale: Eduardo Scarpetta, il Maradona del teatro, decide di ritirasi dalle scene.  

Serena Palumbo

Laureata in Filologia all'Università di Napoli Federico II e appassionata di Social Media Marketing e giornalismo. Sono un misto tra antiche culture e nuove conoscenze: il Latino e le strategie comunicative trovano una perfetta sintonia nel mio lavoro.

D’Annunzio, inedito su Scarpetta e la «questione sciosciammocchesca». Natascia Festa su Il Correre della Sera il 17 maggio 2022 2022

Alla Biblioteca Nazionale di Napoli mostra sugli archivi teatrali: c’è lo studio di Nino Taranto, il primo frac di Viviani, cimeli e foto anche delle Nemesiache e Patroni Griffi 

Dopo tanto snobismo intellettuale, il lungamente esecrato Scarpetta è dunque tornato al centro della scena culturale con un revival di alto profilo. Dopo i bei film Qui rido io di Mario Martone e I fratelli De Filippo di Sergio Rubini, riguarda ancora una volta la «questione sciosciammocchesca» uno dei pezzi più interessanti della mostra Napoli in scena. Documenti e immagini dalle raccolte della Biblioteca Nazionale di Napoli, a cura di Francesco Cotticelli e Gennaro Alifuoco,che si inaugura oggi alle 16. Un inciso: si assiste a un ritorno non a Scarpetta ma «agli Scarpetta» come testimonia la mini-rassegna del Trianon con due belle regie di Francesco Saponaro, una su Titina e l’altra su Vincenzo Scarpetta, con compagnie da far davvero onore alla suddetta schiatta. 

La lettera con cui D’Annunzio cerca di bloccare la parodia di Scarpetta

In mostra alla Nazionale ci sono alcuni documenti che preludono alla causa intentata da Gabriele D’Annunzio contro Eduardo Scarpetta per la parodia de La figlia di Iorio che divenne per man partenopea Il figlio di Iorio (3 dicembre 1904 al Mercadante). Nonostante la contesa sarà vinta dal comico che si giovava di un patrocinatore come Benedetto Croce, la vicenda segnò profondamente il commediografo che dopo poco si ritirò dalle scene, lasciando la «premiata ditta» nelle mani di Vincenzo, di cui peraltro si espongono da oggi documenti e foto. Prima di ricorrere alla legge, il poeta cercò di dissuadere Scarpetta. «Alla Lucchesi Palli — raccontano i curatori — sono conservate le lettere autografe con le quali il vate sollecita il divieto. In particolare lo fa con quella del 27 ottobre scritta al drammaturgo Gaspare Di Martino».

Ecco una parte del testo dannunziano: «Il nostro amico Marco Praga mi scrive che la tutela dell’opera mia — in proposito dell’incresciosa questione sciosciammochesca - è affidata a lei [...] È necessario - penso - operare con energica prontezza. E io desidero che Ella mi dica quale atto - da parte mia -possa riuscire più efficace per ottenere che il divieto parta dalla Prefettura. La quale, per fortuna, è retta da un gentiluomo “ornato di tutte le lettere”, a cui parrà onorevole officio la difesa della poesia minacciata da una profanazione… Come dire? Escrementizia. Ella forse avrà veduto [...] che non si tratta d’una semplice parodia buffonesca, ma di una vera e propria contraffazione con traduzione quasi letterale di interi versi e anche di scene intere. Don Felice mi dichiarava - con un lampo di orgoglio letterario - ch’egli si era proposto di rivelare alle turbe il significato recondito della mia tragedia, troppo oscuro sotto il velame dei versi!!! Com’Ella sa, anche dopo la visita di Don Felice, anche dopo il riso e dopo le lacrime e dopo l’invocazione della vecchia madre aspettante con ansia etc. etc., e dopo l’intromissione di amici autorevoli, io mantenni il divieto...».

Il Vate sprezzante si guarda bene dal nominare Scarpetta indicandolo con il nome del suo personaggio, non uno qualsiasi, quello che aveva operato all’interno del sistema teatrale napoletano una rivoluzione copernicano-sciosciammocchesca, mettendo in un angolo il Pulcinella di Petito. Di questa storia la mostra rende conto nei suoi vari passaggi, attingendo ai formidabili archivi con foto, locandine, copioni, cimeli e arredi che gli eredi delle tante famiglie teatrali hanno donato alla sezione Lucchesi Palli della Biblioteca, un vero scrigno della scena. 

Titina De Filippo soubrette al Teatro Nuovo, con la compagnia del varietà

«La mostra, realizzata con il contributo della Regione — ricorda la direttrice Maria Iannotti - è la prima complessiva ricognizione del patrimonio di interesse teatrale della Nazionale, un giacimento immenso di cui per la prima volta si espongono insieme le opere più preziose e rare, oltre a fonti indispensabili a chi tenti l’arduo compito di descrivere la storia del teatro partenopeo. L’Arte dello Spettacolo a Napoli affonda le sue radici in testi antichi, come il manoscritto seicentesco di Francesco Antonio Nigrone (in mostra) dove si può individuare una delle prime rappresentazioni iconografiche della maschera di Pulcinella». 

Lo studio di Nino Taranto

Tra i cimeli esposti c’è lo studio di Nino Taranto, il piccolo frac indossato da Viviani a quattro anni per il suo debutto, tanti copioni pieni di annotazioni, bozzetti, scenografie, costumi, contratti, mandati di pagamento e appalti perché il teatro è sempre stato un’impresa inserita nel tessuto economico della città.

Si va dall’epoca d’oro del Fiorentini ai fasti San Carlino «tra proposte - dicono i curatori - che testimoniano il coesistere fra colto e popolare in una tradizione che ha trovato nuove forme di affermazione attraverso grandi attori-autori, come Altavilla, Petito, De Filippo fino ai contemporanei».

Ancora una volta è un progetto multimediale di Stefano Gargiulo per Kaos a trasformare il mero documento in oggetto evocativo e feticcio narrante.

Rivista e Sceneggiata

Un meritato spazio occupano le compagnie di rivista e la sceneggiata «fucina di talenti — continuano i curatori — con nomi che fecero la storia della comicità e del teatro popolare partenopeo: Agostino Salvietti, Raffaele Di Napoli, Totò, Nino Taranto, Tecla Scarano, Franco Sportelli, Ugo D’Alessio, Dante e Beniamino Maggio, Titina De Filippo, Tina Pica per ricordarne solo alcuni». E di Titina sono esposte foto inedite degli anni che la videro apprezzata soubrette. Tra i più importanti lasciti, c’è l’Archivio di Raffaele Viviani per il quale nel marzo del 2020, Giuliano Longone, figlio di Luciana Viviani e nipote di Raffaele, ha formalizzato l’atto di donazione, e che documenta in maniera quasi esaustiva la sua attività, attraverso manoscritti e dattiloscritti, foto di scena e private.

Assai ampio, dunque, l’arco cronologico indagato dal Seicento a Gilda Mignonette e Nicola Maldacea, al Novecento protestatario delle Nemesiache e Peppino Patroni Griffi (il cui archivio è stato donato da Fausto Nicolini). Fino al tratto riconoscibile di Lino Fiorito di cui la Nazionale conserva ben 500 bozzetti.

Processo Scarpetta e D’Annunzio, al Mercadante va in scena la giustizia. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Dicembre 2021 

Una rievocazione, una messa in scena, proprio come fa il teatro che racconta la vita. A distanza di oltre un secolo, rivive il processo che vide contrapposti Eduardo Scarpetta e Gabriele D’Annunzio. Era il 1908 e nel Tribunale di Castel Capuano si celebrò la causa tra il grande autore napoletano e il vate. L’attore e commediografo era accusato di aver rappresentato al Real Teatro Mercadante, il 3 dicembre 1904, la commedia Il figlio di Iorio, parodia della tragedia pastorale di D’Annunzio, La figlia di Iorio, e di averlo fatto arbitrariamente perché su quell’opera il vate aveva il diritto esclusivo. Fu la prima causa per plagio della storia. Eppure, le due opere erano diverse.

La figlia di Iorio era un dramma, Il figlio di Iorio, invece, ne era la parodia. Scarpetta, nelle sue pagine, sbeffeggiava D’Annunzio e la sua ridondanza, stravolgendo trama e senso dell’opera che divenne esilarante. Il commediografo voleva a tutti costi portare in scena Il figlio di Iorio, anche a dispetto delle critiche della moglie Rosa che lo invitava a non abbandonare il personaggio di Felice Sciosciammocca. Niente da fare: Scarpetta andò dritto per la sua strada, arrivando persino a incontrare D’Annunzio per ottenere la benedizione come già capitato quando incontrò Giacomo Puccini in occasione della versione parodistica de La bohème. L’autore e il poeta si incontrarono a Marina di Pisa. D’Annunzio lesse e rise di gusto leggendo l’opera. ma alla fine disse no. Nessun permesso, nessuna benedizione. Lo fece anche formalmente con un telegramma, ma era troppo tardi. Il figlio di Iorio andò in scena il 3 dicembre del 1904 e il pubblico sembrò apprezzare, ma una probabile claque dannunziana organizzò in platea una tale protesa da costringere Scarpetta a interrompere lo spettacolo. Fu solo l’inizio. Pochi giorni dopo, infatti, il direttore generale della Siae, Marco Praga, a nome della società e per conto del poeta, querelò Scarpetta per plagio e contraffazione. La vicenda toccò le corde dell’intellighenzia nazionale ed estera.

Molti gli intellettuali che si espressero a favore di uno o dell’altro contendente: Salvatore di Giacomo per D’Annunzio, Benedetto Croce a favore di Scarpetta. Era il primo processo che si teneva in Italia sul diritto d’autore e la fama dei personaggi, l’interesse dell’opinione pubblica e la consapevolezza che la sentenza avrebbe generato un precedente consistente portarono un grande impegno. Come quello dell’avvocato Carlo Fioravante, difensore di Scarpetta, che nella sua arringa, sottolineò l’importanza della parodia, definendola «Il bisogno imprescrittibile di ridere, il bisogno di chiedere un’ora di conforto e di tregua lungi dalle miserie e dalle amarezze ond’è stata, e sarà sempre, travagliata la vita».

La sentenza arrivò nel 1908, quando il Tribunale dichiarò il non luogo a procedere nei confronti di Scarpetta perché il fatto non costituiva reato. Un verdetto epocale che cambiò la storia dello spettacolo per sempre. Felice Sciosciammocca aveva vinto. «A querela, ‘o pruciesso, ‘a parudia, / tutt’ ‘e magagne e tutt’ ‘e nfamità… / veramente me l’avesse sunnato / e che mò, miez’a buie, me so scetato?», recitava il sonetto con cui Eduardo Scarpetta commentò la sentenza nel modo a lui più congeniale. Ieri, su iniziativa del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Napoli, della Camera penale, del Teatro di Napoli e dei Teatri Uniti quel processo è tornato a vivere sul palco del Teatro Mercadante,

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Chi ha vinto nella realtà la causa tra Eduardo Scarpetta e Gabriele D’Annunzio? La verità. Nicoletta Cerone su amalfinotizie.it il 21 Maggio 2023 

La storia della controversia legale tra Eduardo Scarpetta e Gabriele D’Annunzio è parte della storia del nostro paese. Scopriamo cos’è successo nella realtà.

L’inizio della controversia

La controversia tra Eduardo Scarpetta e Gabriele D’Annunzio ebbe inizio nel 1904, quando Scarpetta, allora a Roma, decise di realizzare una parodia della tragedia pastorale di D’Annunzio, “La Figlia di Jorio”. Come riportato nel libro “E’ il teatro, bellezza!” di Giuseppina Scognamiglio e Massimiliano Mottola, Scarpetta era ossessionato dall’idea di portare in scena la sua versione dell’opera di D’Annunzio.

Per ottenere il permesso di rappresentare la sua parodia, Scarpetta si recò personalmente da D’Annunzio. Durante l’incontro, il celebre poeta lesse il copione di Scarpetta e, secondo quanto riportato da Scarpetta nella sua autobiografia, acconsentì verbalmente alla messa in scena della parodia.

La protesta e la querela di D’Annunzio

Nonostante l’apparente assenso di D’Annunzio, quando furono annunciate le date del debutto della parodia, il poeta e molti dei suoi compagni iniziarono a inviare numerose lettere di protesta alla prefettura di Napoli. Nonostante le proteste, il prefetto non proibì la messa in scena dell’opera, che tuttavia fu sabotata da un pubblico ostile, istruito a fischiare dalla fazione di D’Annunzio.

Poco dopo, D’Annunzio presentò una querela formale per plagio contro Scarpetta, accusandolo di aver contraffatto, e non parodiato, la sua tragedia pastorale.

Il processo e il verdetto

La disputa si trasformò in una lunga e aspra battaglia legale, che si concluse nel 1908 in un’aula del tribunale penale di Napoli. La sentenza, tuttavia, fu a favore di Scarpetta: la sua versione de “La Figlia di Jorio” fu ufficialmente riconosciuta come una parodia, e non un plagio come sosteneva D’Annunzio.

Nonostante la vittoria legale, Scarpetta ne uscì profondamente segnato. Era estenuato dalla lunga causa legale e mortificato dall’umiliazione che gli era stata inflitta dagli oppositori schierati con D’Annunzio.

Le conseguenze per Eduardo Scarpetta

Nonostante la vittoria in tribunale, la disputa con D’Annunzio ebbe ripercussioni significative sulla carriera e sulla vita di Eduardo Scarpetta. L’esperienza del processo influenzò profondamente la vita e la carriera di Scarpetta. L’umiliazione pubblica e la pressione del processo lo portarono a decidere di ritirarsi dalle scene. Il fatto che una vittoria in tribunale potesse causare tanta angoscia personale è una testimonianza del peso emotivo della controversia.

Sebbene Eduardo Scarpetta abbia vinto la causa legale contro Gabriele D’Annunzio, le conseguenze personali e professionali della disputa furono devastanti per il celebre attore e commediografo. Poco tempo, infatti, il genio partenopeo si ritirò dalle scene.

 Eduardo Scarpetta e la storica vittoria nella causa contro D'Annunzio e la Siae Da napoliateatro.it il 16 ottobre 2016.

Eduardo Scarpetta e la storica vittoria nella causa contro D’Annunzio e la Siae Il 2 marzo 1904, al Teatro Lirico di Milano, viene rappresentata, per la prima volta, una tragedia in 3 atti di Gabriele D’Annunzio. Dal titolo ‘La figlia di Iorio’. Facendo un passo indietro nel tempo di neanche un mese, precisamente al 6 febbraio dello stesso anno, al Teatro Valle di Roma, veniva messa in scena ‘La geisha’, parodia di un’opera di Sidney Jones firmata da Eduardo Scarpetta. Nelle parodie di Scarpetta presente anche un giovanissimo Eduardo De Filippo In cui si ironizzava sull’ormai eccessivo gusto borghese per l’Oriente e tutto ciò che lo riguardasse. Come protagonista, un bravissimo Vincenzo Scarpetta, nel ruolo della geisha Mimosa-San. Ma va sottolineato come, in una scena del coro finale, apparisse un giovanissimo Eduardo De Filippo, che all’epoca aveva solo 4 anni. Il successo ottenuto, portò Scarpetta a pensare di scrivere un’altra parodia, ovvero ‘Il figlio di Iorio’, che prendesse spunto proprio dall’opera di D’Annunzio, senza dubbio ritenuta eccessivamente drammatica. Per far ciò, la trama venne completamente stravolta. E, come il titolo lascia già presagire, tutti gli interpreti femminili divennero maschili e viceversa. D’Annunzio negò il consenso per La figlia di Iorio con un telegramma Dopo aver quasi del tutto allestito la parodia, Scarpetta si recò a Marina di Pisa da D’Annunzio per ottenere il suo consenso. L’incontro fu piacevole e divertente. Lo stesso “Vate” rise molto all’ascolto dell’opera, ma si sentì costretto a negare il sopracitato consenso, per paura di ripercussioni negative sulla sua rappresentazione. Il problema è che questo rifiuto arrivò solo tramite telegramma e quando era ormai troppo tardi per fermare tutto. Fu così che, il 1 dicembre 1904, al Teatro Mercadante di Napoli, andò in scena ‘Il figlio di Iorio’. Inizialmente il pubblico sembrò anche gradire molto, sottolineando ciò con importanti risate e applausi. All’inizio del secondo atto, però, la situazione cambiò drasticamente. A causa, pare, di alcune persone in platea che, forse manovrati da qualcuno, in difesa dell’opera dannunziana cominciarono a creare confusione, fischiare e urlare. Costringendo Scarpetta, appena entrato in scena con abiti femminili, a far calare il sipario.

Al danno, si aggiunse anche la beffa, quando qualche giorno dopo venne querelato per plagio dalla Siae e per conto di Gabriele D’Annunzio, amministratore privato della stessa. Al Tribunale di Napoli, Scarpetta si esibì come fosse a teatro L’apice dello “scontro” avvenne al Tribunale di Napoli, durante un’udienza. Quando Scarpetta, neanche si fosse trovato al centro della scena di uno dei suoi spettacoli, tenne un dialogo con il Presidente, che avrebbe tranquillamente potuto mettere in uno di essi. Come riportarono gli stessi giornali dell’epoca. «Scarpetta: Ecco, Signor Presidente , io non sono un oratore, farò del mio meglio…(ricominciando , con tono solenne) Signor Presidente, signori della Corte (scoppio di risa) Presidente: Scarpetta, questa non è Corte, è Tribunale. Scarpetta: me credevo che stevo facenno o’ terz’atto d’ O Scarfalietto…» Abilmente mise in rilievo la spocchia del Vate quando raccontò del suo incontro con D’Annunzio: «…gli feci scrivere dall’amico Gaetano Miranda, sollecitando il permesso. Ma non ebbi alcuna risposta. Mi si disse che il Poeta aveva l’abitudine di non rispondere a nessuno. Tante grazie!». «Presidente: È vero che D’Annunzio vi promise una sua fotografia? Scarpetta: Si, volle anche la mia, ma non mi mandò più la sua.» Infine dopo aver recitato in tribunale alcuni versi de Il figlio di Iorio rivendicò orgogliosamente la sua autentica dignità di autore teatrale dialettale pari a quella di chi componeva opere in lingua letteraria e avanzava il sospetto che l’insuccesso della rappresentazione fosse stato preordinato: «Era questa una parodia da meritare quei fischi della prima sera? Durante il baccano che si fece, ricordo che Ferdinando Russo gridò “Abbasso Scarpetta, Viva l’arte italiana”. Ma scrivo io, forse, per il teatro turco o cinese? Io non feci una contraffazione, ma una parodia.» Quello tra D’Annunzio e Scarpetta fu il primo processo per diritto d’autore in Italia La causa andò avanti fino al 1908 e si concluse con la piena assoluzione di Scarpetta, in quanto il fatto non costituiva reato. Sentenza fondamentale, nel primo processo per diritto d’autore in Italia, per legittimare tutte le parodie che successivamente avrebbero contraddistinto la storia dello spettacolo. Anni dopo, come riporta il sito eduardoscarpetta.it, Gabriellino D’Annunzio, figlio del poeta, rivelò a Maria Scarpetta, figlia di Eduardo, che la vicenda fu incitata e sospinta da Marco Praga, fondatore della Siae, nella speranza di ottenere una sentenza di condanna con tutte le conseguenze morali ed economiche.

D'Annunzio e Scarpetta: la storia del processo del secolo. Paolo Speranza su La Repubblica il 7 settembre 2021 e su lavocedellevoci.it il 9 settembre 2021

Toni Servillo interpreta Eduardo Scarpetta in "Qui rido io" di Mario Martone 

E' l'evento al centro di "Qui rido io", il film di Mario Martone sulla vita del commediografo napoletano. Che nel 1906 sconfisse il Vate in tribunale

"A querela, 'o pruciesso, 'a parudia, / tutt' 'e magagne e tutt' 'e nfamità... / veramente me l'avesse sunnato / e che mò, miez'a buie, me so scetato?". All'indomani della sentenza sulla parodia teatrale di "La figlia di Iorio", che nel marzo del 1906 lo aveva visto prevalere su Gabriele D'Annunzio, Eduardo Scarpetta la commentò nel modo a lui congeniale: un divertente sonetto intitolato 'A causa mia, che declamò agli invitati del banchetto nel Caffè Calzona.

 “’A querela,’o pruciesso, ‘a parudia, / tutt’ ’e magagne e tutt’ ‘e nfamità… / veramente me l’avesse sunnato / e che mò, miez’a buie, me so scetato?”....

All’indomani della sentenza sulla parodia teatrale di La figlia di Iorio, che nel marzo del 1906 lo aveva visto prevalere su Gabriele D’Annunzio, Eduardo Scarpetta la commentò nel modo a lui congeniale: un divertente sonetto d’occasione intitolato ‘A causa mia, che il commediografo declamò agli invitati del banchetto nel Caffè Calzona.

“Qui rido io”, poteva finalmente rivendicare, come nella frase incisa sulla sua villa di campagna, scelta da Mario Martone per il titolo del film che oggi viene presentato in anteprima mondiale a Venezia. Del resto il presidente del Tribunale di Napoli, Adolfo Giaquinto, nella sobria e lucida motivazione della sentenza lo aveva sottolineato: “D’Annunzio vuol destare sentimenti di dolore e di terrore; Scarpetta giovialità e riso”, per cui risultava del tutto infondata l’accusa di riproduzione abusiva della tragedia dannunziana La figlia di Iorio da parte di Scarpetta. Il figlio di Iorio era nient’altro che una parodia, forse mal riuscita, come riconobbero anche i suoi sostenitori, ma legittima, come le precedenti parodie scarpettiane: quella della Boheme, che aveva fatto divertire lo stesso Puccini, e di La geisha, di Sidney Jones, accolta trionfalmente alla “prima” del 6 febbraio 1904 al Teatro Valle di Roma (oggi chiuso, in cui Martone ha girato molte scene di Qui rido io), dove aveva fatto il suo esordio un “giapponesino” di quattro anni, Eduardo De Filippo, uno dei numerosi figli naturali di Scarpetta.

Questa volta, però, c’era di mezzo il Vate, per molti italiani (e lo stesso Scarpetta) il più grande poeta nazionale vivente, e a nulla erano valse le sostanziose modifiche al testo originale, come attesta Mario Corsi su “L’Illustrazione italiana” del 24 ottobre 1943: la scena era stata spostata dall’Abruzzo a Pozzuoli, tutti i personaggi avevano cambiato sesso (lo stesso Scarpetta interpretò il ruolo di Cornelio in abiti femminili) e il terzo atto, il più carico di pathos, era stato soppresso. Né era servito il gesto di cortesia da parte di Scarpetta, che per ottenere l’autorizzazione di D’Annunzio (e prevenirne il temuto anatema) si era recato nell’agosto del 1904 nella villa del Vate a Marina di Pisa, in una giornata buia e tempestosa, in compagnia del comune amico Gaetano Miranda. Il poeta, in realtà, si era mostrato piuttosto tiepido ma non ostile al progetto teatrale di Scarpetta, come rievoca quest’ultimo nel 1922 nel libro di memorie Cinquant’anni di palcoscenico; ma più realisti del re furono gli esagitati fan di D’Annunzio (i “patuti”, li ribattezzò Scarpetta), che alla “prima” del Figlio di Iorio, il 3 dicembre 1904 al “Mercadante” di Napoli, inscenarono all’inizio del secondo atto un’indegna gazzarra, che indusse la direzione del teatro a sospendere le repliche. Per Scarpetta, abituato a platee osannanti, fu uno choc, ma il peggio doveva ancora venire. Una settimana dopo la “prima”, il direttore della Società Generale degli Autori, Marco Praga, sporse querela contro Scarpetta, a nome della SGA e dello stesso D’Annunzio, rivelando una strategia preordinata, e nominò come periti di parte tre prestigiosi artisti napoletani: “i miei cari e buoni amici”, come li definirà ironicamente Scarpetta nelle sue memorie, Salvatore Di Giacomo, Roberto Bracco e Giulio Massimo Scalinger.

A difesa di Scarpetta si schierarono un agguerrito collegio di avvocati e, come periti di parte, due intellettuali altrettanto illustri: Benedetto Croce e il critico siciliano Giorgio Arcoleo, l’allevo più brillante di Francesco De Sanctis. Con questo parterre di esperti il processo ebbe un’eco planetaria (con la stampa italiana più favorevole a D’Annunzio, quella americana e il francese “Le Figaro” pro-Scarpetta) e una valenza epocale: per la prima volta un tribunale era chiamato a esprimersi su temi, ancora oggi stringenti, come la libertà dell’artista, il diritto d’autore, il limite della satira. “Delitto di parodia”, come il titolo dello spettacolo su questo processo andato in scena con successo nel 2008, per la regia di Francesco Saponaro, da un soggetto di Antonio Vladimir Marino. E come non ricordare la geniale trovata di Ugo Gregoretti, che nel 1985 mise in scena sia La figlia di Iorio che la parodia di Scarpetta, affidando agli spettatori l’”ardua sentenza”?

Il processo vero, sovvertendo i pronostici, lo vinse Scarpetta, grazie soprattutto agli interventi di Croce e Arcoleo e alla determinazione dei suoi legali, uno dei quali, Francesco Spirito, non esitò a definire D’Annunzio “vate dell’incesto” e “inventore di lascivie”. La sentenza, scrive un giornale dell’epoca, “fu accolta da fragorosi applausi e il comico napoletano fu sollevato di peso dai suoi amici e trasportato fuori dall’aula fra acclamazioni”. Ma la gioia più grande la regalò a Scarpetta il napoletano più famoso nel mondo, Enrico Caruso, che in una lettera molto cordiale gli chiedeva due copie del Figlio di Iorio, per poter “ammirare questo lavoro che tanto chiasso suscitò sui giornali del mondo intero”. Anni dopo, persino la stampa fascista finì per ammetterlo: “Don Felice Sciosciammocca aveva vinto…”.

«Qui rido io» strizza troppo l’occhio al pettegolezzo. Fausto Nicolini il 31 Maggio 2023 su quartapareteroma.it

Domenica 21 maggio RaiUno ha trasmesso, in prima serata, Qui rido io, film di Mario Martone del 2021 su Eduardo Scarpetta. All’epoca, quando uscì nelle sale, qualcuno urlò al capolavoro; unanimi i giudizi positivi sia per l’autore e regista, sia per l’attore protagonista e per l’intero cast. Ancora oggi, non posso che associarmi al coro di chi lo aveva lodato, tuttavia con sempre maggior parsimonia. Non si tratta, infatti, di un soggetto frutto della fantasia, ma, abbracciando il genere biografico, rientra nella condizione di film storico, e pertanto andrebbe riesaminato al setaccio con l’attenzione che merita la materia. Non fosse altro per il rispetto del personaggio risolutore della questione giudiziaria che coinvolse Scarpetta, sulla quale, nella seconda parte, si concentra la trama: quel Benedetto Croce che fece della storia argomento fondamentale dei suoi eruditi studi.

Premetto che quando la pellicola uscì nelle sale cinematografiche, già evidenziai l’ombra commerciale che incombeva sulla realizzazione dell’opera: il ritratto che Martone fa dello Scarpetta soddisfa certamente i tanti palati rozzi di chi s’ingozza ogni giorno di quella scialba cronaca rosa che riempie le pagine d’informazione sempre più scadente; ergo, è ovvio che l’entusiasmo di costoro si ravvivi di fronte a certi affari privati che fino a qualche anno fa regalavano brividi esclusivamente alle portinaie, poi alle sciampiste, oggi a tutti coloro che navigano per social in cerca di «cofecchie», direbbe Totò. E che Martone abbia voluto costruire un film, appunto, sulle «cofecchie» più che sulla biografia artistica di un uomo di teatro, lo dimostra l’incongruenza storica di alcune scene.

L’intervento di Croce nella causa tra Gabriele D’Annunzio e Eduardo Scarpetta apre il complicato paragrafo delle discordanze delle date. Da questo episodio sappiamo con certezza che la sua relazione giudiziaria (redatta con il senatore Giorgio Arcoleo) è dell’ottobre del 1907; sappiamo altresì che il processo fu avviato nel dicembre 1904 e che la sentenza definitiva è del gennaio 1908. Dunque si presume che la sceneggiatura di Martone cominci, quando l’affaire dannunziana era ancora lontana, in un anno compreso tra il principio del 1902 e la metà del 1903. Sin dall’apertura vediamo, però, un giovanissimo Eduardo De Filippo che già recita, legge e scrive, ma tutto ciò è improbabile perché Eduardo è nato il 24 maggio 1900; dunque, all’inizio del film avrebbe poco più di due anni. Nella parte di Peppiniello, il bambino di 8 anni di «Miseria e nobiltà», si riconosce prima Titina e poi lo stesso Eduardo, ma quest’ultimo incarnò quel ruolo non prima del 1910 (forse 1911), cioè due o tre anni dopo la fine del processo D’Annunzio-Scarpetta; invece, nel periodo della causa, Martone addirittura veste il più piccolo dei De Filippo con quei panni, e Peppino fu Peppiniello soltanto nel 1913 (a dieci anni), quando Scarpetta già s’era ritirato dalle scene e Vincenzo (figlio legittimo del patriarca) aveva preso il suo posto. Ma la più grossa imprecisione riguarda proprio Peppino, il quale, nato il 24 agosto 1903, fu affidato (come pure si vede) alle cure di una balia in campagna per ben cinque anni. Tornò ad abitare a Napoli, con la mamma e i fratelli, nel 1908, dopo la sentenza definitiva che assolse Scarpetta. Invece, per Martone, quando si svolge il processo (1904-1908), Peppino già corre per il palcoscenico e sembra avere un’età molto maggiore dell’effettiva. Insomma, nella realtà, quando scoppia il caso del Figlio di Iorio, Peppino è ancora in campagna dalla balia e Eduardo ha appena mosso i primi passi sul palcoscenico del Valle di Roma (anzi, fu portato in braccio!), e non può certamente ricopiare i testi del padre naturale. Altro particolare che non corrisponde al vero riguarda il maialino con cui giocava Peppino in campagna e che invece Martone trasforma, non si sa per quale motivo, in una capretta.

Eduardo Scarpetta jr. (nel film, Vincenzo Scarpetta) e Alessandro Manna (Eduardo De Filippo) © ph Mario Spada

Per quanto riguarda le musiche d’accompagnamento, anch’esse fuori dal contesto temporale, il discorso è diverso. Si capisce che il commento musicale spazia dall’inizio del ‘900 fino agli anni Settanta: è una scelta ben precisa quella di uscire dal tempo. Piuttosto la selezione è molto ardita: si tratta spesso di brani eccessivamente famosi che potrebbero indurre lo spettatore a seguire la canzone distraendosi dal film. Sono poesie struggenti, musicate con note che ubriacano di malinconie, di passioni, di dolcezze ed è difficile non essere risucchiati dal trasporto canoro di versi assai conosciuti. Si odono i pezzi classici della canzone partenopea: Voce ‘e notte di Nicolardi (del 1904), ma anche brani di epoca molto più recente, come Indifferentemente del 1963, e Carmela di Salvatore Palomba che è, addirittura, del 1976. Anche le voci straordinarie di Sergio Bruni e Roberto Murolo incantano, malgrado all’epoca della causa giudiziaria non fossero ancora nati.

Torniamo, però, al nocciolo della questione. Pur appartenendo al genere storico e restando un film ben curato a livello artistico, Qui rido io strizza troppo l’occhio al mero pettegolezzo. Del protagonista si è preferito ispezionare esclusivamente il torbido, il pruriginoso, il lato oggi più facilmente vendibile al botteghino, soffocando la luce di una ribalta che invece fu molto illuminata. Chi non conosce l’opera di Eduardo Scarpetta, e soprattutto la trasformazione che egli attuò al repertorio napoletano del teatro comico popolare, dopo la visione, ne trarrà certamente un’idea confusa del commediografo partenopeo.

Foto a sin: Scarpetta con Luisa De Filippo e suoi figli, Eduardo, Peppino e Titina. Foto a des: Eduardo Scarpetta

La morbosità dell’argomento riproduttivo ha tenuto ben distante la curiosità sullo spirito popolare artistico e letterario dell’uomo. Anche la scena iniziale di Scarpetta che in camerino addenta una pizza, sottolineata da alcuni critici «come simbolo della semplicità geniale di cui si nutre l’arte popolare a Napoli», assume un valore tradizionale soltanto se rientra nell’analisi della totale dedizione di un artista per il palcoscenico; ma se il frugale e folcloristico pasto fa da contorno a una carrellata di notizie a sfondo sessuale, allora il senso cambia e il gesto potrebbe essere confuso per sbrigativa superficialità di chi abbia necessità di recuperare il tempo speso negli anfratti del teatro per aver soddisfatto le sue smanie focose.

Non sta a me raccontare la storia di Eduardo Scarpetta, né la sua ascesa teatrale, né il suo successo e nemmeno la sua geniale intuizione, ma, a tal proposito, basta ricordare la scena che ha meglio riassunto, con garbo e sensibilità, la rilevanza artistica del creatore di Felice Sciosciammocca. Sciosciammocca, nella tradizione del teatro comico napoletano, rappresenta l’erede di Pulcinella. Pulcinella, nel periodo antecedente a Scarpetta, si chiamava, in realtà, Antonio Petito. Antonio Petito, per uno di quei casi imprevedibili che, quando accade, subito è pronto a diventar leggenda, scelse di morire dietro le quinte del palcoscenico del San Carlino durante una rappresentazione. Ora si dovrebbe spiegare cos’era, in quel periodo, il Teatro San Carlino a Napoli, ma sarebbe troppo lungo: basterà dire che fu per oltre cinquant’anni la casa di Pulcinella, dove Eduardo Scarpetta apprese l’arte della commedia. La sera del 24 marzo 1876 si recitava «La dama bianca», farsa di Giacomo Marulli. Il giovane Scarpetta comprese sin da subito che il suo maestro non era al meglio delle forze, e quando, in scena, sentì le battute prive di verve, intuì che la serata non sarebbe stata come le solite. Altre volte accadde che in quinta l’umore di Pulcinella non fosse frizzante, ma poi, di fronte al pubblico, l’adrenalina saliva e il coinvolgimento della platea era assicurato. Quella sera non fu così: Petito riuscì con un filo di voce a terminare il terzo atto. Il sipario si chiuse e a fatica l’attore raggiunse una sedia in quinta sulla quale si accasciò. Sì sfilò la maschera nera e un attimo dopo crollò a terra. Scrive Scarpetta: «E mentre tutti i comici del San Carlino accorrevano intorno a lui, sua sorella Adelaide proruppe in un grido disperato: “È muorto Totonno”». Al di là del sipario gli spettatori, in attesa del quarto atto, concitatamente compresero la tragica notizia. Il corpo senza vita di Antonio Petito, con la maschera poggiata sul viso, fu adagiato su un materasso e portato al centro della ribalta. Il sipario si riaprì, per l’ultimo saluto al più grande dei Pulcinella. 

Martone rende un rispettoso e doveroso omaggio alla maschera di Petito riproponendo la scena dell’attore morto adagiato in ribalta. È forse l’attimo più toccante e significativo del film, durante il quale, in un momento in cui si tirano le somme di una lunga carriera, la coscienza di Scarpetta gli suggerisce che potrebbe essere stato lui ad aver ucciso Pulcinella, e quindi di aver affossato il teatro popolare napoletano. Dopo la morte del maestro, infatti, la più famosa maschera partenopea, cedette lentamente il posto a un altro personaggio, un tipo assai curioso, un fessacchiotto allampanato, un po’ rincitrullito, insomma uno che di Pulcinella poteva essere il fratello o il cugino, ma in abiti borghesi. Era Felice Sciosciammocca, l’erede di Pulcinella, il personaggio inventato da Eduardo Scarpetta.

Tuttavia questa scena, senza alcun sostegno storico, senza alcun accenno alla nascita di don Feliciello, senza alcuna spiegazione che chiarifichi il motivo per cui Scarpetta sentì la necessità di togliere a Pulcinella il suo abito bianco e soprattutto la maschera, diventa comprensibile soltanto a coloro che conoscono la storia dell’attore e commediografo che, famoso che sia, non è certo attore di cui si parli quotidianamente. E allora chi ignora il lato artistico di Eduardo Scarpetta cosa dirà dopo aver visto il film di Martone? Chi è stato incuriosito dal richiamo pubblicitario della produzione cinematografica, cosa ha appreso di costui? Che Scarpetta è un fetentone, molto più fetentone di Pulcinella; che è uno che andava a letto con la moglie, con la sorella della moglie, con la cameriera, con la governante, con la vicina di casa e con la comparsa appena scritturata; insomma, uno sciampagnone senza né arte né parte che usava il palcoscenico per dar sfogo alle sue primitive polluzioni. Eh no, caro Martone, non è così! Scarpetta non è questo, e tu lo sai bene.

Se il film voleva essere un omaggio a cotanto attore, avrebbe dovuto contenere qualcosa che facesse vedere come e cosa avesse prodotto il suo genio. Non basta riproporre la scena, vista e rivista in tv, con Totò che in piedi sul tavolo, s’infila gli spaghetti in tasca. Quel pezzo, oggi, per l’opinione pubblica, appartiene più a Totò che a Scarpetta, più all’interprete che all’ideatore, il quale non merita di essere confuso nemmeno con il principe De Curtis. Trascrivo qui di seguito Salvatore Di Giacomo, e non a caso (ché nel film anche la sua figura è stata ben travisata!): «… ecco infine Scarpetta che adatta alla modernità la sua linea e le sue trovate ridicole, non mirando ad altro se non che a risollevare lo spirito del suo pubblico e a lasciar dimenticare a quest’ultimo tutte le noie della vita…». Salvatore Di Giacomo, poeta stimato da Croce, suo amico e collaboratore sodale di storia patria, avrebbe mai potuto sentirsi in tal competizione con Scarpetta così come ci è stato presentato nel film tanto da malignare alle sue spalle con Libero Bovio, Ferdinando Russo e con lo stesso Ernesto Murolo (altro figlio naturale dell’attore)? Se così fosse, Croce, o non si sarebbe mai esposto in prima persona; o avrebbe osato un’ardita tirata d’orecchie ai suoi discepoli.

Don Benedetto non era personalità da far passare sotto silenzio una simile e sciocca presa di posizione nei confronti di un artista degno della sua attenzione. Leggete qui come redarguisce pubblicamente proprio il Di Giacomo in occasione di una pubblicazione nata senza il suo consenso: «Perché mai quel finissimo artista ch’è Salvatore Di Giacomo si è dato a comporre libri di storia, irti di citazioni e di documenti? E come gli è ora saltato in mente di scegliere una materia [la prostituzione in Napoli, ndr], della quale può sembrare imbarazzante, in pubblico, perfino ripetere il nome?». In breve, Croce rimprovera Di Giacomo per aver pubblicato uno studio erudito su una materia fin troppo realistica, eseguito con il suo solito «temperamento lirico e di sognatore», che lo ha spinto ad appagare la sua fantasia più che la curiosità storica. Insomma, lo ha ben servito per quanto riguarda le cose concrete della vita!

Ora, è vero che Di Giacomo fu invitato da alcuni poeti e scrittori (Bracco e Scalinger ne furono i promotori) a promuovere in tribunale l’arte di D’Annunzio contro quella di Scarpetta per sostenere il plagio della «Figlia di Iorio» del quale il napoletano era accusato, ma è pur vero che trattò l’argomento con molta delicatezza, proprio con quel suo «temperamento lirico e di sognatore», tanto che a don Benedetto bastò davvero poco per scioglierle come polvere d’Idrolitina nell’acqua. Nella sequenza che vede Scarpetta in visita al Croce sarebbe dovuta venir fuori l’attestata grandezza artistica di Scarpetta; un particolare che, purtroppo, viene offuscato da una inspiegabile commozione del protagonista troppo impegnato a esibire imbarazzi e timidezze al cospetto dello storico. Scarpetta non avrebbe mai pianto di fronte a Croce che già conosceva: qualche anno prima, nel 1899, per esempio, gli chiese personalmente «due parole di prefazione» al volume delle sue memorie. E Croce non si tirò indietro. Il filosofo stimava il teatro di Scarpetta, tanto da scrivere: «L’importanza che Napoli non ha avuta nel teatro letterario, l’ha avuta invece grandissima nella commedia popolare e dialettale…»; considerando per «teatro letterario» quello del Di Giacomo e soprattutto quello di Roberto Bracco.

E naturalmente stimava la poesia di D’Annunzio. Qualche anno prima prese le difese del Vate, proprio come poi prese quelle di Scarpetta: a seconda delle accuse rivolte all’uno o all’altro. Croce sosteneva che molti artisti di genio erano facilmente vittime di antipatie da parte di chi era afflitto da «angustia mentale, … una ripugnanza verso la vita e verso la pienezza e varietà della vita». Costoro – spiega Croce – da sempre, provano un fastidioso ribrezzo per tutto ciò che intorno a loro cambia senza la loro partecipazione. Non la chiama propriamente invidia, ma si ferma a constatare che si tratta comunque di una «forma di malattia» di cui prima D’Annunzio e poi Scarpetta furono nobili bersagli prescelti.

____________________

Qui rido io, un film di Mario Martone del 2021; con Toni Servillo (Eduardo Scarpetta), Maria Nazionale (Rosa De Filippo), Cristiana Dell’Anna (Luisa De Filippo), Eduardo Scarpetta (Vincenzo Scarpetta), Roberto De Francesco (Salvatore Di Giacomo), Lino Musella (Benedetto Croce), Paolo Pierobon (Gabriele D’Annunzio), Giovanni Mauriello (Mirone), Chiara Baffi (Nennella De Filippo), Roberto Caccioppoli (Domenico “Mimì” Scarpetta), Gigio Morra (presidente del tribunale), Gianfelice Imparato (Gennaro Pantalena), Iaia Forte (Rosa Gagliardi), Greta Esposito (Maria Scarpetta), Alessandro Manna (Eduardo De Filippo), Marzia Onorato (Titina De Filippo), Salvatore Battista (Peppino De Filippo), Paolo Aguzzi (Ernesto Murolo), Tommaso Bianco (zio Pasqualino), Benedetto Casillo (Luca), Giovanni Ludeno (Ferdinando Russo), Giuseppe Brunetti (Libero Bovio), Nello Mascia (giudice istruttore). Soggetto e sceneggiatura, Mario Martone, Ippolita Di Majo. Costumi, Ursula Patzak. Regia di Mario Martone. RaiUno, il 21 maggio 2023 

Fausto Nicolini

Antonio Giangrande: Se questi son giornalisti...

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In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra è , pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.

La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.

La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.

A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti. Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.

Ho appena saputo che tre dei miei articoli pubblicati per "Articolo 21" e "Antimafia Duemila" sono stati citati nel libro del sociologo Antonio Giangrande che ringrazio.

Gli articoli in questione sono, uno sulla riabilitazione dei cognomi infangati dalle mafie (ripreso giusto oggi da AM2000), uno sulla precarietà nel giornalismo e il terzo, ultimo pubblicato in ordine di tempo, intitolato alla legalità e contro ogni sistema criminale.

Chi era Luigi Amicone morto di Covid. Un anno fa si è impegnato a censurarmi. Ha fatto in modo che nessuno pubblicasse le mie opere. Ha inoltrato l’esposto infondato contro di me ad Amazon, Google Libri e Lulu, costringendoli a cancellare il mio account di pubblicazione e di fatto censurandomi. L’unico a farlo rispetto a centinaia di migliaia di autori e di citazioni e in riferimento a un suo articolo marginale, doverosamente citato, pubblicato su Il Giornale.it, posto in discussione ed in contraddittorio rispetto ad altri articoli sullo stesso argomento. Mi ha posto temporaneamente sul lastrico, ledendo, oltretutto, la mia onorabilità e reputazione. Questa la mia risposta:

Dr Luigi Amicone, sono il dr Antonio Giangrande. Il soggetto da lei indicato a Google Libri come colui che viola il copyright di “Qualcun Altro”. Così come si evince dalla traduzione inviatami da Google. “Un sacco di libri pubblicati da Antonio Giangrande, che sono anche leggibile da Google Libri, sembrano violare il copyright di qualcun altro. Se si controlla, si potrebbe scoprire che  sono fatti da articoli e testi di diversi giornalisti. Ha messo nei suoi libri opere mie, pubblicate su giornali o riviste o siti web. Per esempio, l'articolo pubblicato da Il Giornale il 29 maggio 2018 "Il serial Killer Zodiac ... ". Sembra che abbia copiato l'intero articolo e incollato sul "suo" libro. Sembra che abbia pubblicato tutti i suoi libri in questo modo. Puoi chiedergli di cambiare il suo modo di "scrivere"? Grazie”.

Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”

Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.

E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto.

Mi vogliono censurare su Google.

Premessa: Ho scritto centinaia di saggi e centinaia di migliaia di pagine, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Reclamo: Non si chiede solo di non usare i suoi articoli, ma si pretende di farmi cambiare il mio modo di scrivere. E questa è censura.

Censura da Amazon libri. Del Coronavirus vietato scrivere.

"Salve, abbiamo rivisto le informazioni che ci hai fornito e confermiamo la nostra precedente decisione di chiudere il tuo account e di rimuovere tutti i tuoi libri dalla vendita su Amazon. Tieni presente che, come previsto dai nostri Termini e condizioni, non ti è consentito di aprire nuovi account e non riceverai futuri pagamenti royalty provenienti dagli account aggiuntivi creati. Tieni presente che questa è la nostra decisione definitiva e che non ti forniremo altre informazioni o suggeriremo ulteriori azioni relativamente alla questione. Amazon.de".

Amazon chiude l’account del saggista Antonio Giangrande, colpevole di aver rendicontato sul Coronavirus in 10 parti.

La chiusura dell’account comporta la cancellazione di oltre 200 opere riguardante ogni tema ed ogni territorio d’Italia.

Opere pubblicate in E-book ed in cartaceo.

La pretestuosa motivazione della chiusura dell’account: “Non abbiamo ricevuto nessuna prova del fatto che tu sia il titolare esclusivo dei diritti di copyright per il libro seguente: Il Coglionavirus. Prima parte. Il Virus.”

A loro non è bastato dichiarare di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon.

A loro non è bastato dichiarare che sul mio account Amazon non sono pubblicate opere con Kdp Select con diritto di esclusiva Amazon.

A loro non è bastato dichiarare altresì di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Google, ove si potrebbero trovare le medesime opere pubblicate su Amazon, ma solo in versione e-book.

A loro interessava solo chiudere l’account per non parlare del Coronavirus.

A loro interessava solo chiudere la bocca ad Antonio Giangrande.

Che tutto ciò sia solo farina del loro sacco è difficile credere.

Il fatto è che ci si rivolge ad Amazon nel momento in cui è impossibile trovare un editore che sia disposto a pubblicare le tue opere.

Opere che, comunque, sono apprezzate dai lettori.

Ergo: Amazon, sembra scagliare la pietra, altri nascondono la mano.

Antonio Giangrande: Sono un saggista, autore indipendente. Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, giudicato ed informato, educato ed istruito da coglioni.

Estratto dell’articolo di F.Sem. per “la Stampa” giovedì 17 agosto 2023.

Serrano le file editori, autori, piccoli rivenditori e attivisti, che sollecitano il governo a indagare sulla presunta posizione dominante di Amazon sul mercato dei libri, mentre aumentano i segnali secondo cui la Federal Trade Commission (Ftc) sta per intentare una causa contro del colosso di Jeff Bezos per far luce su eventuali violazioni delle leggi antitrust. 

Mercoledì l'osservatorio Open Markets Institute insieme alla Authors Guild and American Booksellers Association (una importante rappresentanza di categoria) ha inviato una lettera al dipartimento di Giustizia e alla Ftc, chiedendo al governo di porre freni al "monopolio" di Amazon nel ruolo di venditore di libri al pubblico.

I gruppi stanno facendo pressioni sul dicastero affinché indaghi non solo sulle dimensioni di Amazon come "libreria", ma anche sulla sua influenza sul mercato dei libri. In particolare, sulla capacità del gigante dell'e-commerce di promuovere determinati titoli sul suo sito e "seppellirne" altri, come spiega Barry Lynn, direttore esecutivo di Open Markets Institute, un gruppo di ricerca e difesa focalizzato sul rafforzamento delle politiche antimonopolio.

«Abbiamo una situazione in cui il potere dominante di una singola società sta deformando, nel complesso, il tipo di libri che stiamo leggendo - ha detto Lynn al New York Times -. Questa concentrazione di potere in una democrazia non è accettabile». 

[…] Anche se i libri sono diventati una porzione marginale nel suo enorme giro d'affari, Amazon è diventata una forza schiacciante nel mercato dei libri. Rappresenta almeno il 40% dei libri fisici venduti negli Stati Uniti e oltre l'80% degli e-book venduti, secondo un'analisi pubblicata da WordsRated, un gruppo di analisi e dati di ricerca. Con l'acquisto di Audible nel 2008, Amazon è diventata anche uno dei maggiori produttori e rivenditori di audiolibri. 

[…] Secondo le accuse mosse dagli attivisti, spiega il New York Times, c'è anche quella secondo cui Amazon ha influenzato la sensibilità dei lettori a certi libri più visibili aumentandone le vendite. Ciò ha reso più difficile per gli autori meno noti guadagnare visibilità sul sito, mentre gli autori di successo e le celebrità rimangono in primo piano. Amazon è già stato obiettivo degli sforzi normativi dell'amministrazione di Joe Biden. […]

Antonio Giangrande: Il vizio di Amazon.

Con la scusa della tutela del cliente: arricchirsi sulle spalle dei venditori.

Metodo:

Pagamento a tre mesi dei prodotti venduti.

Se arriva una segnalazione truffaldina ed artificiosa inesistente o di uno stalker, ti blocca l’intero account e non il prodotto de quo.

Di conseguenza si intasca indebitamente tutti gli utili dei prodotti fin lì venduti.

E’ inibito ogni diritto di difesa, salvo che non li sputtani con le Iene o Striscia La Notizia.

Antonio Giangrande: Censura da Amazon libri. Del Coronavirus vietato scrivere.

"Salve, abbiamo rivisto le informazioni che ci hai fornito e confermiamo la nostra precedente decisione di chiudere il tuo account e di rimuovere tutti i tuoi libri dalla vendita su Amazon. Tieni presente che, come previsto dai nostri Termini e condizioni, non ti è consentito di aprire nuovi account e non riceverai futuri pagamenti royalty provenienti dagli account aggiuntivi creati. Tieni presente che questa è la nostra decisione definitiva e che non ti forniremo altre informazioni o suggeriremo ulteriori azioni relativamente alla questione. Amazon.de".

Amazon chiude l’account del saggista Antonio Giangrande, colpevole di aver rendicontato sul Coronavirus in 10 parti.

La chiusura dell’account comporta la cancellazione di oltre 200 opere riguardante ogni tema ed ogni territorio d’Italia.

Opere pubblicate in E-book ed in cartaceo.

La pretestuosa motivazione della chiusura dell’account: “Non abbiamo ricevuto nessuna prova del fatto che tu sia il titolare esclusivo dei diritti di copyright per il libro seguente: Il Coglionavirus. Prima parte. Il Virus.”

A loro non è bastato dichiarare di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon.

A loro non è bastato dichiarare che sul mio account Amazon non sono pubblicate opere con Kdp Select con diritto di esclusiva Amazon.

A loro non è bastato dichiarare altresì di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Google, ove si potrebbero trovare le medesime opere pubblicate su Amazon, ma solo in versione e-book.

A loro interessava solo chiudere l’account per non parlare del Coronavirus.

A loro interessava solo chiudere la bocca ad Antonio Giangrande.

Che tutto ciò sia solo farina del loro sacco è difficile credere.

Il fatto è che ci si rivolge ad Amazon nel momento in cui è impossibile trovare un editore che sia disposto a pubblicare le tue opere.

Opere che, comunque, sono apprezzate dai lettori.

Ergo: Amazon, sembra scagliare la pietra, altri nascondono la mano.

Dr Antonio Giangrande 

Il Diritto di Citazione e la Censura dei giornalisti. Il Commento di Antonio Giangrande.

Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri. Su uno di questi “L’Italia dei Misteri” di centinaia di pagine, veniva riportato, con citazione dell’autore e senza manipolazione e commenti, l’articolo del giornalista Francesco Amicone, collaboratore de “Il Giornale” e direttore di Tempi. Articolo di un paio di pagine che parlava del Mostro di Firenze ed inserito in una più ampia discussione in contraddittorio. L’Amicone, pur riconoscendo che non vi era plagio, criticava l’uso del copia incolla dell’opera altrui. Per questo motivo ha chiesto ed ottenuto la sospensione dell’account dello scrittore Antonio Giangrande su Amazon, su Lulu e su Google libri. L’intero account con centinai di libri non interessati alla vicenda. Google ed Amazon, dopo aver verificato la contronotifica hanno ripristinato la pubblicazione dei libri, compreso il libro oggetto di contestazione, del quale era stata l’opera citata e contestata. Lulu, invece, ha confermato la sospensione.

L’autore ed editore Antonio Giangrande si avvale del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Nei libri di Antonio Giangrande, per il rispetto della pluralità delle fonti in contraddittorio per una corretta discussione, non vi è plagio ma Diritto di Citazione.

Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.

Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.

Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”

Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.

E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto.

Vasco Rossi e il paradosso di Facebook: “Mi hanno bloccato il video di prima del Tg2 perché c’era un pezzo della canzone Dillo alla Luna e avrei violato i diritti d’autore”. Il rocker ha postato un video con colonna sonora una sua canzone e il team di Meta ha pensato di rimuoverlo. Il Fatto Quotidiano il 30 giugno 2023. 

Metti una situazione paradossale: Vasco Rossi posta su Facebook il video di un servizio andato in onda al Tg2 sul suo tour negli stati e con colonna sonora la sua Dillo alla Luna. Facebook/Meta intercetta una violazione del diritto d’autore e rimuove il video. “Mi hanno bloccato il video di prima del Tg2 perché essendoci un pezzo della canzone Dillo alla Luna dicono che ho violato i diritti d’autore, ma l’autore sono io…”, le parole del rocker. Perché sì, la cosa incredibile è che è successo per davvero. “Queste multinazionali oltre ad essere fuori dalla legge sono anche fuori di testa“, ha aggiunto Vasco. Ora, trattandosi di Facebook viene abbastanza facile andare sulla pagina della policy sul diritto d’autore per vedere cosa c’è scritto e al primo punto si legge: “Ai sensi delle Condizioni d’uso e degli Standard della community di Facebook, puoi pubblicare contenuti su Facebook solo se questi non violano i diritti di proprietà intellettuale di terzi. Il modo migliore per assicurarti che quanto pubblichi su Facebook non violi le leggi sul diritto d’autore è pubblicare solo contenuti creati da te“, e qui abbiamo a che fare con l’autore del pezzo quindi pare abbastanza chiaro che stiamo navigando nel “modo migliore”. Ci sono poi diverse specifiche sui modi in cui si può violare il diritto d’autore: in quale di questi sarà incappato Vasco secondo Facebook? Chissà.

Piano d’Azione: unico rimedio per il blocco account di Amazon. Da albertocaschili.it il 30/03/2022 

Le disattivazioni Account Amazon o i blocchi ASIN e Marketplace sono all’ordine del giorno. Inoltre con l’aumento delle persone che acquistano online sono aumentate notevolmente, di riflesso, anche le garanzie dalla a alla z (AZ claims) aperte nei confronti dei seller. A tutto questo si è anche aggiunta una maggiore severità nell’applicazione delle regole da parte di Amazon. Infatti gli ultimi aggiornamenti dell’algoritmo A10 sono proprio volti a combattere la manipolazione del mercato punendo, ancor più severamente, le violazioni della Policy Amazon.

Al momento del blocco dell’Account Seller Central, segue la comunicazione delle motivazioni a sostegno che, rispetto al passato, sono più complete e specifiche. Questo è dovuto all’adeguamento di Amazon alle normative europee a tutela di chi opera nel mercato online tramite marketplace, motori di ricerca o comunque luoghi virtuali che favoriscono l’incontro tra venditori e acquirenti.

Precedente, si riceveva un vero e proprio messaggio preimpostato, scelto a seconda della (macro)categoria di violazione realizzata e anche solo individuare il problema era molto complesso poichè si avevano a disposizione poche informazioni.

Ad esempio in caso di correlazione tra account non veniva mai specificato il nome dell’altro nonostante fosse un elemento rilevante per capire come difendersi. In questi casi, individuare quale fosse l’account in questione, senza alcun elemento aggiuntivo, era assai complesso e comportava degli sforzi di memoria importanti.

Oggi è diverso e quando ci sono delle correlazioni tra account viene indicato il nome di quello che è stato rilevato, seppur con degli asterischi per non mostrarlo completamente (ad es: il suo account è correlato con un altro di nome Ve**otuttoS***), in modo da poter agire per ripristinare i privilegi di vendita.

Nonostante questi cambiamenti riattivare un account Seller Central comporta dei processi macchinosi, lunghi e complessi per il venditore, che deve far fronte a diverse problematiche.

Piano d’Azione Amazon: come scriverlo

Individuare il motivo della sospensione 

Il primo aspetto su cui ci si deve focalizzare è individuare il motivo per il quale l’account è stato disattivato. Amazon vuole che sia il venditore a individuare qual è stata la violazione. Questo aspetto è tutt’altro che banale. 

Infatti, se è vero che, a differenza di ciò che accadeva in passato, ora Amazon indica il motivo della disattivazione, questa non sarà mai specifica e precisa poichè il processo di ripristino dei privilegi di vendita prevede che sia il venditore ad “autodenunciarsi” indicando specificamente quale sia stata la violazione così da verificare l’effettiva conoscenza della Policy.

Ecco alcuni esempi del testo contenuto nelle notifiche di disattivazione:

il suo account è stato correlato ad altro che non può essere usato per la vendita su Amazon

il suo account è stato disattivato per sospetta violazione della proprietà intellettuale

abbiamo deciso di rimuovere i suoi privilegi di vendita perché la percentuale di Ordini difettosi (ODR) è superiore all’1%

il suo account è disattivato perché ha manipolato le recensioni i feedback

abbiamo rimosso i suoi privilegi di vendita perché la sua percentuale di annullamenti prima della spedizione supera il 2,5%

il suo account resterà disattivato per sospetta violazione del design

i suoi privilegi di vendita sono stati rimossi perchè ha alterato la documentazione inviata ad Amazon

il suo account è stato momentaneamente sospeso perchè le sue vendite non sono supportate da un numero sufficiente di feedback

non potrà più gestire le vendite con gestione FBM

il suo account è stato disattivato perchè la percentuale di spedizioni in ritardo supera il 4%

il suo ASIN è stato disattivato a causa della scarsa opinione dei clienti

Si capisce che individuare quale sia stata la condotta che ha portato al problema è compito esclusivo del seller. Parlare di “violazione della proprietà intellettuale” apre a molte ipotetiche attività specifiche che posso rientrare in questa categoria come la violazione del diritto d’autore, violazione del marchio, del design, utilizzo di immagini e via dicendo.

È compito del Seller individuare concretamente quale sia stata l’attività che ha determinato violazione.

Questo è il primo punto da inserire nel Piano d’Azione (PdA).

La prima è quindi una fase di studio e ricerca volta a scoprire quale sia stata la violazione e da cosa essa sia dipesa.

Tipi di violazione che portano al blocco account Amazon

La sospensione, o disattivazione, dell’account Amazon si verifica a seguito di tre tipi di cause: violazione della policy, violazione della legge, violazione di entrambe.

Nel primo caso è necessario verificare la politica di vendita di Amazon per capire quale sia stato il comportamento che l’algoritmo abbia punito con il blocco dell’account o la disattivazione dell’ASIN.

Il caso di violazione della legge è più complesso da affrontare perché la moltitudine di normative coinvolte, nazionali ed Europee, non agevolano la ricerca. Basti pensare al codice della privacy, al codice della proprietà intellettuale, al codice del consumo e al codice civile solo per citarne alcuni. In questi casi l’unica soluzione è ripercorrere i fatti precedenti alla sospensione e cercare di individuare quale sia stata la violazione.

L’ultima motivazione riguarda la violazione di entrambe, policy e legge. Questa duplice violazione si verifica quando si aggancia ad una pagina prodotto listando un bene di marca differente. La violazione della legge si verifica con la contraffazione del marchio (anche involontaria) mentre la violazione della policy consiste nell’aver agganciato una pagina prodotto mettendo in vendita un prodotto diverso.

Rimuovere la violazione

Dopo aver individuato la problematica il passo successivo è quello di rimuovere la violazione o limitarne i danni. Questa attività, se effettuata con l’account seller central ancora attivo, è essenziale per evitare di subire la sospensione. Se posta in essere successivamente è invece necessaria per ottenere più facilmente i privilegi di vendita. Ad esempio se siamo a conoscenza della presenza di un lotto di ordini difettoso possiamo effettuare l’ordine di rimozione, oppure nel caso di prodotti già spediti possiamo contattare tramite la piattaforma gli acquirenti, per spiegargli l’accaduto e proporgli delle soluzioni.

Queste informazioni vanno inserite nel Piano d’Azione perché dimostrano che si è a conoscenza dell’errore e si abbia agito per limitarlo o eliminarlo.

Precauzioni per evitare future violazioni

Un altro aspetto da inserire nel piano sono invece le precauzioni adottate per evitare che si verifichi la medesima violazione in futuro. Anche questo aspetto è di fondamentale importanza. Amazon non concede infatti troppe chance per questo bisogna adoperarsi concretamente per far sì che non ci siano più violazioni, ancor più in riferimento se già accadute in passato.

È possibile che le violazioni della policy debbano essere ricercate in fattori esterni alla piattaforma e solo agendo al di fuori di essa possano essere risolte. Uno degli esempi più frequenti può essere il ritardo nella consegna delle spedizioni che può essere risolto cambiando corriere o, nel caso sia possibile, facendo gestire la logistica ad Amazon.

Tuttavia bisogna evitare di fare promesse che non sono realizzabili o che non possono essere mantenute.

Come riattivare il proprio account seller central. Il Piano d’Azione Amazon 

L’unico modo per riattivare l’account Amazon bloccato o disattivato è preparare un piano d’azione completo e persuasivo, che sia specifico in alcune sezioni e conciso in altre. 

Amazon vuole che il venditore elabori il PdA. Solo dopo averlo valutato deciderà se ripristinare i privilegi di vendita e ciò avviene se si è riusciti ad individuare correttamente l’attività che ha dato luogo alla violazione, se si è dato prova di conoscere la policy e si è manifestata la volontà, sulla base di procedure e attività specifiche per il futuro, di voler lavorare in modo conforme.

Il piano d’azione così suddiviso sarà composto da 3 parti principali:

· Cause della violazione

· Attività svolte dopo la violazione

· Precauzioni intraprese per il futuro

Non tutte le sezioni devono essere trattate allo stesso modo. 

La prima sarà lineare, chiara e completa. Potrebbe essere necessario offrire informazioni relative a singoli ASIN che siano stati individuati quali cause del blocco. 

La seconda sarà più schematica e concisa.

Nella terza invece si gioca buona parte della riattivazione poiché è in questa che ci sarà il vero e proprio piano d’azione (POA) volto ad indicare il processo e le attività che svolgeremo per il futuro al fine che il problema appena rilevato non si verificherà più.

Questo è il “modello” che deve essere presentato per lo sblocco dell’account Seller Central e che gli operatori di Performance si aspettano di ricevere.

Solo compilandolo correttamente, in modo completo, lineare e non contraddittorio si potranno riottenere i privilegi ma non è tutto…

Il miglior piano d’azione, quello perfetto in tutto e per tutto, nella sostanze e nella forma non avrà efficacia se le operazioni che devono essere necessariamente effettuate sull’account non saranno implementate. E’ molto importante quindi valutare nel complesso la situazione ed effettuare le attività necessarie, ad esempio sull’inventario rimuovendo dei prodotti o sul listing o suggerendo delle modifiche alle pagine, prima di inviare il piano d’azione.

Queste attività preventive sono necessarie per lo scopo e senza le stesse l’account potrebbe non essere mai sbloccato. Ecco perché prima va individuato il problema, lo si deve correggere e solo dopo va presentato il ricorso.

Paradossalmente è più facile ottenere la riattivazione con un PdA non ottimizzato, ma avendo effettuato tutto ciò che era necessario sull’account seller central, che il contrario.

Anche a livello strutturale è importante scrivere in modo corretto un PdA. E’ infatti molto importante curare la punteggiatura e formulare frasi il più possibile brevi e chiare. Dobbiamo infatti ricordarci che di fronte avremo delle persone che hanno un tempo molto limitato per decidere sul nostro caso, che non perdono tempo a cercare di capire ciò che abbiamo scritto, semplicemente perché non possono. Conseguentemente è fondamentale essere chiari e non dilungarsi oltre il necessario. 

Bisogna considerare che l’operatore che legge il PdA potrebbe essere di diversa nazionalità rispetto alla nostra e dovrà ricostruire l’accaduto da quanto gli stiamo riportando, prima di effettuare varie verificare dalle informazioni contenute nei suoi database. Conseguentemente, si devono evitare paragrafi troppo lunghi e fitti e prediligere frasi brevi e concise. Una ottima opzione è quella di utilizzare l’elenco puntato.

Un altro aspetto da tener presente è che quando Amazon chiede maggiori informazioni, la persona che ha chiesto le informazioni probabilmente non sarà la stessa che leggerà la nostra risposta. Questo ci impone di dover rendere il più facile possibile, per Performance, di ricostruire la vicenda.

L’obiettivo di ogni piano d’azione è quello di convincere il Team di Performance a ripristinare il proprio account. 

Come essere persuasivi

È molto importante avere una scrittura persuasiva che convinca chi sta leggendo. Questo aspetto non è secondario ma spesso non viene preso in considerazione.

Il medesimo concetto può essere espresso diversamente e la differenza tra un PdA “corretto” e uno “ottimo” sta anche in questi particolari. 

Prendiamo ad esempio una violazione di proprietà intellettuale. In un PdA persuasivo non scriverò mai che si tratta di una “violazione accertata” ma dovrà essere lasciato un margine di dubbio. Scrivere “in merito alla violazione della proprietà intellettuale rilevata” è ben diverso dal formulare la frase in questo modo: “in merito alla sospetta violazione di proprietà intellettuale notificata”.

Nel primo caso, non si lascia spazio ad incertezze affermando che la violazione sia certa, nel secondo caso, invece, si lascia il dubbio semplicemente modificando due parole nella frase.

Ancora, formulare una domanda in questi termini “alla luce di quanto sopra affermato è possibile riattivare il mio account? “ è ben diverso che farlo in questo modo “avendo chiarito nel dettaglio la situazione chiedo la riattivazione dell’Account in oggetto che dovrà essere effettuata poiché è stata rimossa ogni sospetta violazione”. 

La riattivazione dell’account seller central dipende anche dalla capacità di persuadere il lettore ed è quindi una componente fondamentale per il buon esito dell’operazione.

Come inoltrare la richiesta di riattivazione e come comunicare coi Team Amazon

Il PdA deve essere inoltrato tramite il Seller Central. In passato si poteva comunicare via mail con il Team di Performance ma, questo canale comunicativo non è più attivo.

Conseguentemente sarà possibile comunicare con chi ha il potere di riattivare l’account solo dall’apposita sezione del seller central e non tramite altri canali.

Infatti, chi risponde al telefono per questo argomento è il Team di Account Health o di Stato dell’account che può dare consigli in merito alla procedura, verificare lo stato di avanzamento e indicare la presenza di note interne da parte di Performance.

Va specificato che questo reparto non ha alcun potere di riattivare l’account e che le indicazioni fornite sono frutto di opinioni soggettive non potendo far altro che dare dei suggerimenti per risolvere il problema specifico.

Oltre questo il Team di Stato dell’account può chiedere una Escalation interna se ritiene che il PdA sia ottimizzato e completo di tutte le informazioni. Spesso questa è risolutiva perchè consente di avere una maggiore attenzione verso il ricorso inviato.

Tuttavia gli stessi operatori dello Stato dell’Account non possono abusare di questo strumento perchè anche loro hanno delle performance da mantenere alte per cui la precisione e l’effettiva risoluzione dei casi per i quali richiedono una Escalation si ripercuote anche sulle loro valutazioni.

Ed è per questo che non tutti possono richiedere una Escalation e che questa verrà richiesta solo quando l’operatore è realmente convinto della bontà del Piano d’Azione e delle argomentazioni inserite.

Cosa non deve mai contenere un ottimo Piano d’Azione 

Ma oltre ad avere delle componenti che non possono mancare ci sono altri aspetti che invece non devono mai essere inseriti in un Piano d’Azione

In particolare si deve evitare di:

– dare la colpa ai clienti. Amazon è una piattaforma customer centrica, non ha interesse ad andare contro i suoi clienti, anzi ha tutto l’interesse a preservarli in ogni aspetto. Non porta ad alcun risultato scaricare la responsabilità su altri se non quella di non farci ottenere quanto stiamo chiedendo;

– includere fatti esterni ad Amazon non inerenti al caso. Come abbiamo detto, il tempo per la decisione sul nostro caso è limitato, per questo è bene rimanere focalizzati su ciò che serve senza dilungarsi su aspetti ininfluenti;

– inventare fatti non accaduti. Raccontare falsità ci impedirà definitivamente di riottenere i privilegi di vendita. Amazon sa che a causa del suo rigido regolamento ci saranno errori da parte dei seller, ciò che è importante è rimediare e non ripetere l’errore per il futuro;

– documentazione alterata o cotraffatta. Amazon ha dei sistemi molto sofisticati per esaminare la documentazione e, oltre agli stessi, essendo ormai tutto telematico, p molto facile verificare se una fattura sia autentica o meno. Fornire documentazione di questo tipo riduce esponenzialmente le probabilità di ripristino dell’Account;

– non promettere azioni che non puoi (o vuoi) mantenere. Fare questo porta o all’insuccesso del piano d’azione oppure alla nuova sospensione dopo breve tempo;

– non aprire più casi se non è necessario. Aprire più casi significa più materiale da dover visionare per l’operatore. Più materiale significa più tempo, più possibilità di commettere errori e, probabilmente, più persone che prenderanno visione del tuo caso. In queste circostanze Amazon ti potrebbe notificare che, se continuerai ad aprire altri casi, potresti non essere più in grado di comunicare con loro (perché verrai bloccato), oppure procederà a riunire tutti i casi in uno;

– non inviare lo stesso piano d’azione più volte. I piani d’azione devono essere sempre modificati nel testo, anche in minima parte, questo perchè ci siamo accorti che, a differenza del passato, se si invia esattamente lo stesso piano è molto probabile venga rigettato, spesso senza essere letto.

– non chiedere continuamente aggiornamenti sulla lavorazione della pratica. Come spiegato sopra, le comunicazioni vengono lette da operatori diversi che dovranno ricominciare dall’inizio a ricostruire l’accaduto. Se non ottieni risposta dopo 1 settimana le opzioni sono sostanzialmente 2: o nessuno ha ancora preso una decisione oppure il PdA non è redatto in modo corretto e viene ignorato. In questo caso ha senso inviare un nuovo PdA, strutturandolo correttamente e completandolo in tutte le sue parti;

– non minacciare l’assistenza. Farsi travolgere dall’ira, inveire e minacciare non è mai una buona soluzione. Nei casi più gravi può portare alla definitiva impossibilità di riottenere i privilegi di vendita.

Nel caso in cui Amazon decidesse di respingere l’appello è di fondamentale importanza leggere le motivazioni, se presenti, e, lavorando sulle stesse, aggiornare il piano rispondendo in modo dettagliato. Solitamente infatti, quando Amazon rifiuta i ricorsi è perché necessita di maggiori informazioni.

Evitare la sospensione dell’account a tutti i costi: Piano d’azione preventivo 

Il processo così descritto è complesso. Richiede conoscenze approfondite della policy di Amazon, precisione nel descrivere i fatti accaduti e nell’individuare le informazioni da fornire. Inoltre dover sopportare la pressione emotiva derivante dalla sospensione dell’account, che può rappresentare una fonte importante dei propri ricavi, se non l’unica, è un’ulteriore componente da non sottovalutare.

Scrivere tante mail incomplete, confusionarie, con informazioni non necessarie, aprire più casi identici, senza motivo alcuno, minacciare o peggio insultare l’assistenza non fa che peggiorare la situazione, contribuendo a complicarla e, talvolta, compromettendola definitivamente. 

Proprio alla luce della complessità della redazione di un PdA efficace e per il tempo d’attesa necessario alla riattivazione, è importante evitare il più possibile di subire la sospensione dell’account.

C’è anche da dire che spesso Amazon contatta il venditore prima di procedere alla disattivazione, inviando una notifica nella quale comunica che l’account si trovi a rischio disattivazione. 

E’ la stessa legislazione Europea che impone ad Amazon di avvertire il seller prima di procedere alla sospensione del servizio o interruzione dei privilegi di vendita e questo accade sempre più di frequente.

Infatti prima di sospendere l’account, Amazon può procedere a notificare l’irregolarità al seller e concedere un “periodo di grazia”, solitamente dalle 72h, in cui è possibile inviare un Piano d’Azione al fine di rimuovere la violazione, limitarne la portata ed evitare la disattivazione dell’account.

In questa fase è determinante non ignorare le comunicazioni inviate da Amazon, rispondere entro i termini e adoperarsi per risolvere la situazione.

Infatti, la disattivazione dell’account è un evento critico per il seller che può comportare un danno economico di migliaia di euro giornaliere di mancati ricavi, perdita della buy box, perdita di ranking e di posizionamento e, conseguentemente, un ulteriore sforzo economico per ripristinare la situazione esistente prima della disattivazione.

È importante agire in fretta e correttamente. In queste circostanze può essere necessario l’invio di un ricorso che potremmo definire Piano d’azione preventivo ossia un elaborato che venga inoltrato in un momento precedente rispetto alla disattivazione dell’account allo scopo di prevenirla.

Agire in questa fase è molto efficace e infatti su un campione di oltre 1000 pratiche da me lavorate, quasi nella totalità dei casi, agire preventivamente ha evitato la rimozione dei privilegi di vendita.

Ovviamente, per far sì che ciò accada, è necessario individuare nel concreto il problema e intervenire per eliminarlo. Ad esempio nel caso in cui ci sia un alto numero di ordini difettosi è necessario parlare col proprio fornitore per risolvere la problematica o ad esempio farsi spedire a casa la merce procedere all’ispezione e consegnare solo quella realmente adatta alla distribuzione. 

Nel caso di ordini consegnati in ritardo può essere risolutivo cambiare spedizioniere o, ove possibile, lasciar gestire per un periodo la logistica ad Amazon, in modo da ripristinare un valore buono delle metriche venditore. Questi accorgimenti dimostrano ad Amazon che si fa sul serio e che si è seriamente intenzionati a risolvere il problema.

La routine quotidiana dell’Amazon seller deve comprendere:

· monitorare costantemente i propri annunci, crearli in modo conforme scrivendo in essi solo caratteristiche vere nel rispetto della policy per evitare dapprima la chiusura dell’offerta e, se reiterata, la sospensione dell’account;

· rispondere a tutte le comunicazioni da parte dei clienti per evitare feedback e recensioni negative;

· rispondere alle notifiche inviate da Amazon in merito ai reclami sulla qualità degli articoli;

· tenere sotto controllo il quadro complessivo delle proprie metriche.

Questa è la chiave per mantenere in vita il proprio account!

Chi può realizzare un Piano d’Azione Amazon davvero incisivo?

Solamente un Piano d’Azione davvero pensato e realizzato per le tue esigenze, preciso, completo e persuasivo può essere la soluzione alla sospensione o alla disattivazione dell’account.

Spesso ci capita di assistere dei seller che si sono precedentemente affidati ad agenzie che si occupano di vendita su Amazon o Avvocati senza ottenere dei risultati. Questo perché il processo di riattivazione di un account venditore Amazon è assai specifico e peculiare e non può che essere trattato da chi è realmente specializzato sul tema.

C’è da dire che Amazon è anche immune alle diffide o ai metodi convenzionali che si usano per le altre aziende proprio perché risponde esclusivamente ai processi creati per la risoluzione delle controversie. Conseguentemente è importante affidarsi a chi conosce nello specifico le procedure interne per poter essere davvero efficaci.

Doppia morale ad Amazon, autocensura nell'islam e censura in occidente. GIULIO MEOTTI  il 7 luglio 2023 su Il Foglio 

Niente contenuti Lgbt negli Emirati Arabi. Intanto il bestseller di Ryan Anderson “Quando Harry divenne Sally” critico dell’ideologia gender è stato eliminato dalla piattaforma di Bezos

Amazon ha deciso di limitare gli articoli e i risultati di ricerca relativi all’Lgbt sul suo portale negli Emirati Arabi Uniti dopo aver ricevuto pressioni dal governo emiratino, secondo i documenti dell’azienda visualizzati dal New York Times. L’omosessualità è criminalizzata negli Emirati, punibile con multe e reclusione. I termini di ricerca oscurati sono “lgbtq”, “orgoglio” e “gay”, mentre altri indicano ricerche intenzionali di prodotti, tra cui “bandiera transgender”, “spilla queer” e “custodia per iphone lgbtq”. Diversi titoli di libri specifici sono stati bloccati, tra cui “La mia esperienza lesbica con la solitudine” di Nagata Kabi e “Cattiva femminista” di Roxane Gay. “Come azienda, rimaniamo impegnati per la diversità, l’equità e l’inclusione e crediamo che i diritti delle persone LGBTQ+ debbano essere protetti”, ha dichiarato Nicole Pampe, una portavoce di Amazon. “Ma dobbiamo anche rispettare le leggi e i regolamenti locali dei paesi in cui operiamo”. 

Giusto, i diritti non sono universali e dipendono dal fuso orario. E la censura ha la doppia morale. Il bestseller di Ryan Anderson “Quando Harry divenne Sally” critico dell’ideologia gender è stato eliminato da Amazon. Il libro critica le idee progressiste sul gender e in particolare sulle procedure di cambio di sesso nei bambini. Presidente dell’Ethics and Public Policy Center, Anderson nel 2018 aveva raggiunto il primo posto in ben due classifiche dei best seller di Amazon prima ancora che fosse pubblicato. Amazon è il principale rivenditore di libri d’America, con il 53 per cento di tutti i libri venduti negli Stati Uniti e l’80 per cento di tutti gli ebook. Un portavoce di Encounter Books, la casa editrice di New York che ha pubblicato il libro, ha rivelato al Wall Street Journal di essere stata informata dal suo distributore che il libro è stato rimosso per “violazione delle linee guida sui contenuti di Amazon”. Un portavoce di Amazon ha detto alla Catholic News Agency in una email: “Come venditore di libri, forniamo ai nostri clienti l’accesso a una varietà di punti di vista, compresi i libri che alcuni clienti possono trovare discutibili. Detto questo, ci riserviamo il diritto di non vendere certi contenuti come descritto nelle nostre linee guida sui contenuti dei libri. Tutti i rivenditori prendono decisioni sulla selezione che scelgono di offrire e noi non prendiamo le decisioni di selezione alla leggera”. 

Dunque Amazon ha fatto il passaggio da negozio a censore. “Non importa come lo dici, o quanto sia rigoroso il tuo ragionamento, o con quanta generosità lo presenti, importa solo se confermi o dissenti dalla nuova ortodossia dell’ideologia gender”, ha scritto su First Things Ryan Anderson.  

Va da sé che i dipendenti di Amazon abbiano lanciato una campagna per far rimuovere dal sito di vendite un altro libro critico del gender, “Irreversible Damage” di Abigail Shrier (elogiato anche dall’Economist), ma che a oggi non risulti alcuna campagna contro la censura negli Emirati. Se il regista americano Roland Emmerich ha tagliato una scena sulla distruzione della Mecca dal suo film “2012” (in compenso la fine del mondo distrugge il Vaticano) perché aveva paura di una fatwa, il gigante dello streaming Netflix si è autocensurato su uno show per gli abbonati in Arabia Saudita (ma non quello sul Gesù gay).  

Il woke è un abito colorato fatto su misura per l’occidente e non può essere indossato nel mondo islamico. 

Il libro del generale Vannacci e le policies di Amazon sui «materiali controversi». L'e-commerce ha delle regole molto precise per quanto riguarda la compatibilità dei prodotti con le operazioni di compravendita sul proprio store online. 18/08/2023 di Gianmichele Laino il 18 agosto 2023 su giornalettismo.com 

Si può vendere proprio tutto su Amazon? No. Questo è il frutto di anni di affinamento del business della principale piattaforma di e-commerce del mondo occidentale. Ed è anche indicato in maniera abbastanza chiara nel regolamento e nelle policies di utilizzo delle vetrine commerciali di Amazon che sono pubbliche. Ci siamo fatti, dunque, una domanda a proposito del libro del generale Roberto Vannacci – Il mondo al contrario – che è diventato un caso, dopo l’articolo scritto da Repubblica in proposito. Dopo l’effetto echo chamber garantito dalla lettura del pezzo uscito su uno dei principali quotidiani italiani, il libro autoprodotto è schizzato in alto nelle classifiche di Amazon che, però, funzionano in maniera diversa rispetto all’esclusivo criterio dei libri venduti. Visto che, comunque, Amazon viene citata spesso in tutte le discussioni che sono state fatte a proposito di questa controversa pubblicazione (dove si dice che i «cari omosessuali non sono normali»), ci siamo chiesti se un libro che contiene queste affermazioni possa essere in linea con le policies dell’e-commerce.

Una domanda simile l’avevamo fatta in passato, a proposito di alcuni gadget no-vax (come ad esempio delle magliette) messe a disposizione da rivenditori di terze parti su una piattaforma come Amazon. In quella fattispecie, Giornalettismo aveva contattato l’azienda, che aveva ribadito le sue politiche e le sue responsabilità limitate sui rivenditori di terze parti, preferendo non commentare nello specifico la vicenda. Tuttavia, era abbastanza evidente che quegli articoli stonassero con le policies di Amazon.

Un libro, che al suo interno contiene affermazioni che specificano che gli omosessuali non sono normali e che Paola Egonu ha tratti somatici che non rappresenterebbero l’italianità, rientra nelle policies di Amazon? Sicuramente, Amazon sta iniziando a rivedere la possibilità di recensire l’articolo, dal momento che ha ravvisato un’attività anomala sul libro del generale Vannacci. Segno inequivocabile che, visto il traffico particolare per un articolo autoprodotto, la sezione italiana del colosso dell’e-commerce stia monitorando l’episodio (ben guardandosi, per il momento, dal rimuovere l’articolo dal suo store, onde evitare polemiche su una presunta caccia alle streghe e sulla libertà d’espressione).

Tuttavia, nella sezione di Amazon che riguarda i materiali offensivi e controversi, l’azienda specifica il divieto per la vendita di «prodotti che promuovano, incitino o esaltino l’odio, la violenza, l’intolleranza razziale, sessuale o religiosa, o che pubblicizzino organizzazioni che sostengono queste posizioni». Allo stesso tempo, Amazon specifica che questo tipo di limitazione non è prevista per alcuni articoli, tra cui i libri. Per i libri, il colosso dell’e-commerce ha delle ulteriori regole, che – però – sembrano applicabili soltanto agli articoli in formato e-book.

Le policies di Amazon sui libri

«In quanto librai – si legge nella sezione -, riteniamo che l’accesso ai testi scritti sia importante, anche nel caso di contenuti che potrebbero essere considerati sgradevoli. Valutiamo con attenzione i contenuti che mettiamo a disposizione nei nostri negozi e rivediamo regolarmente il nostro approccio sulla base dei feedback e dei dubbi espressi dai nostri clienti. Ci riserviamo il diritto di escludere dalla vendita i contenuti che a nostro parere generano un’esperienza deludente per i clienti». Al momento, come detto, le recensioni su questo libro sono state disabilitate da Amazon. Nella giornata di ieri, 7 giorni dopo la pubblicazione del libro, sono arrivati i primi feedback degli utenti, in maggioranza negativi, ma – sempre in maggioranza – basati esclusivamente su quello che si leggeva nell’articolo di Repubblica. Insomma, in tanti stavano commentando senza aver letto nemmeno una riga del testo di Vannacci. E – forse – anche per questo motivo Amazon ha sospeso le recensioni.

Tuttavia, arriviamo a un vicolo cieco: se gli utenti non possono (più) dare feedback, come farà Amazon a valutare eventuali estremi per l’esclusione dalla vendita di questi contenuti? Inoltre, se un libro viene venduto solo in formato cartaceo, quali politiche di Amazon deve seguire? E – infine – le frasi contenute all’interno del libro di Vannacci sono davvero così “controverse” da configurare una possibile esclusione dell’articolo dall’e-commerce di Amazon? In base a quanto analizzato, la risposta potrebbe essere negativa: non ci sono gli estremi per escludere Il mondo al contrario dai libri in catalogo. Se non si è d’accordo con la visione di Vannacci, basterà semplicemente non leggere il libro. E – per evitare che quest’ultimo resti in classifica su Amazon – basterà non cercarlo su internet e non favorire la sua indicizzazione e la sua esposizione verso l’algoritmo di Amazon.

PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA? Antonio Giangrande: “stavolta io sto con Roberto Saviano”.

Intervento di Antonio Giangrande, scrittore tarantino, autore di decine di saggi d’inchiesta.

Lo scrittore napoletano, autore di “Gomorra” e “Zerozerozero”, è accusato di aver inserito delle frasi altrui nei suoi libri, tratte da fonti non citate. Saviano si difende: “è cronaca…e la cronaca appartiene a tutti”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Come far sì che si parli di questioni delicate e pericolose che gli scribacchini non fanno? Come si fa a far conoscere situazioni locali e temporali su tutto il territorio nazionale e raccontate da autori poco conosciuti?

Quello che succede quotidianamente davanti ai nostri occhi è quello che vedono tutti e non ci sono parole diverse per raccontarlo. I racconti sono coincidenti. Possono cambiare i termini, ma i fattori non cambiano. Gli scribacchini, poi, nel formare i loro pezzi, spesso e volentieri si riportano alle veline dei magistrati e delle forze dell’Ordine.

Ergo: E’ una bestialità parlare di plagio.

E poi, l’informazione di regime dei professionisti abilitati alla conformità non è tutta un copia ed incolla?

Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Come per esempio: si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Quegli stessi mussulmani che in casa loro i cristiani li trucidano. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi.

A proposito dell’invasione dei mussulmani senza colpo ferire….diamo proposte e non proteste. Se lo sbarco incontrollato dei clandestini è dovuto alla guerra fratricida nei loro paesi: fermiamo quella guerra con una guerra giusta sostenendo la ragione. Per molto meno si è bombardato l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia, senza aver un interesse generale europeo, se non quello di assecondare le mire americane. E poi, dalla patria in fiamme non si scappa, ma si combatte per la sua liberazione. Gli italiani non sono scappati in Africa dalla occupazione tedesca. O i comunisti hanno combattuto non per liberare l’Italia ma per consegnarla all’URSS? Se il motivo dello sbarco incontrollato dei clandestini è quello economico, evitiamo di farci espropriare il nostro benessere ottenuto con sacrifici. Per la sinistra è un sistema che vale in termini elettorali, ma è ingiusto. Difendiamoci dall'invasione in pace. Apriamo aziende nei luoghi di espatrio dei clandestini. Imprese finanziate da quei fondi destinati a mantenere gli immigrati a poltrire in Italia. In alternativa tratteniamo i più giovani di loro per dargli una preparazione ed una istruzione specialistica, affinchè siano loro stessi ad aprire le aziende.

E comunque, senza parer razzista…In Italia basterebbe far rispettare la legge a tutti, compreso i clandestini, iniziando dalla loro identificazione, e se bisogna mantenere qualcuno, lo si faccia anche con gli italiani indigenti. Per inciso. Non sono di nessun partito. Non voto da venti anni, proprio perché sono stufo dei quaquaraqua in Parlamento e di quei coglioni che li votano.

La sinistra usa la stessa solidarietà adottata con i migranti come nella lotta alla mafia: farsi assegnare i beni confiscati e farli gestire da associazioni o cooperative vicine a loro a alla CGIL o a Libera, che è la setta cosa.

Io ho trovato un sistema affinchè non sia tacciato di mitomania, pazzia o calunnia: faccio parlare chi sul territorio la verità scomoda la fa diventare cronaca ed io quella realtà contemporanea la trasformo in storia affinchè non si dimentichi.

Io generalmente non sto con Saviano: per il suo essere di sinistra con quello che comporta in termini di difetti ed appoggi. La sinistra, per esempio, non dice che mafia ed antimafia, spesso, sono la stessa cosa, sol perché l’antimafia è da loro incarnata. Ma stavolta io sto con Saviano perché la verità appartiene a tutti e noi abbiamo l’obbligo di conoscerla e divulgarla. Saviano ha raccontato una realtà conosciuta, ma taciuta. Verità enfatizzata e strumentalizzata dalla sinistra tanto da renderla nociva. Può aver appreso da scritti altrui? Può darsi. Basta che sia verità. Se qualche autore vuol speculare sulla verità raccontata, allora la sua dignità vale quanto la moneta pretesa. Se poi chi critica ed aizza mesta nel fango, questi vuol distogliere l’attenzione sulla sostanza del contenuto, anteponendo artatamente la forma. Ed i lettori, in questa diatriba, non guardino il dito, ma notino la luna.

Io, da parte mia, le fonti le cito, (eccome se le cito), per dare credibilità alle mie asserzioni e per dare onore a chi, nelle ritorsioni, è disposto con coraggio a perdere nel nome della verità in un mare di viltà. I miei non sono romanzi, ma saggi da conoscere e divulgare. Perché noi dobbiamo essere quello che noi avremmo voluto che diventassimo. E delle critiche: me ne fotto. Dr Antonio Giangrande

Da Panorama del 25 ottobre 2005 C'è qualcosa di folle nel meccanismo della privacy. Se io sto male e vengo improvvisamente ricoverato, mia moglie telefona disperata in diversi ospedali per sapere dove sono, ma nessuno glielo può dire. Altro caso: se ho urgentissimo bisogno di conoscere i risultati delle mie analisi, ma sono lontano dall’ospedale dove le ho fatte, anche se lascio detto che li chiederò per telefono dando loro il numero del mio cellulare e indicando il giorno e l’ora, non possono darmeli. Però, se io o mia moglie andiamo in quello stesso ospedale per fare delle analisi, ci fanno sedere in uno stanzone pieno di gente e una impiegata ci domanda ad alta voce, in modo che tutti sentano: «Come si chiama? Quando è stata operata? Quanti anni ha? Dove abita? Numero di telefono?». Inoltre mettono i risultati delle analisi in una busta su cui è scritto il mio nome e la data di nascita in modo che, uscendo, tutti possano vederli. Un professore d’università che vuol avere il cognome degli allievi che frequentano il suo corso per conoscerli, per chiamarli per nome, per fare loro domande personalizzate, può sentirsi rispondere dai funzionari che hanno in mano l’elenco che non può farlo: privacy. Tutti i pedagogisti sostengono che il migliore insegnamento si ottiene quando si instaura un dialogo approfondito fra maestro e allievo. Ma non tengono conto della privacy.

DIRITTO ALL’OBLIO. FINE DELLA STORIA!

Per gente indegna. Umanità senza vergogna e con la memoria corta. Nata, ma per i posteri mai vissuta.

Voi umani, dimenticate il passato. Hitler, Stalin ed ogni piccolo e grande criminale innominabile dai giudici avrà la facoltà di essere innominato.

Intervista al dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Cosa c’entra Lei che non è giornalista con il Diritto all’Oblio?

«Io della Cronaca faccio Storia. Ciononostante personalmente sono destinatario degli strali ritorsivi dei magistrati. A loro non piace che si vada oltre la verità giudiziaria. La loro Verità. Oggi però sono intere categorie ad essere colpite: dai giornalisti ai saggisti. Dagli storici ai sociologi. Perché oggi in tema di Diritto all'Oblio e Libertà di espressione, la Cassazione tutela meno del Regolamento Privacy. Una recente sentenza della Cassazione colpisce un giornale (Prima Da Noi) con una interpretazione inedita e pericolosa del diritto all'oblio. Superando le previsioni dei Garanti Privacy e della Corte europea dei Diritti dell'Uomo».

Cosa dice la legge sulla Privacy?

«La nuova normativa, concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca, è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti, o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;

può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;

può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;

non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili».

Cosa prevedeva la Legge e la Giurisprudenza?

«Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta, ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza. Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)"».

Con la novella di cosa si sta parlano?

«La sentenza 13161/16 del 24 giugno 2016 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) entrerà nella storia perché cancella la Storia. La Suprema Corte ha infatti allargato di parecchio la sfera del diritto all’oblio (right to be forgotten) secondo cui si può far valere il diritto ad essere dimenticati, ovvero a fare in modo che il nostro passato non ritorni a galla con una ricerca online anche dopo anni. La Cassazione, ha stabilito che “un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perché pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria”. Vicenda che, ai tempi della richiesta di rimozione dell’articolo, non si era ancora conclusa in giudizio. Spiega Vincenzo Tiani: “La Cassazione richiama la celebre sentenza Google Spain (C-131/12) che ha sancito per prima l’esistenza di un diritto ad essere dimenticati, e le linee guida dell’Art. 29 Data Protection Working Party (WP29) redatte dopo la sentenza (novembre 2014). Peccato che ciò che la Corte di Giustizia Europea (CJEU) ha sancito in quell’occasione è che ogni soggetto ha diritto sì alla de-indicizzazione dai motori di ricerca delle notizie che lo riguardano, qualora lesive della sua dignità, denigratorie, non più rilevanti per l’opinione pubblica, ma mai ha stabilito che tali informazioni dovessero essere rimosse dagli archivi dei giornali, soprattutto laddove tale pubblicazione fosse legale, come nel caso in specie. Ci si riferisce sempre alla lista di risultati che fornisce il motore di ricerca e mai alla notizia di per sé. Se poi andiamo a leggere le linee guida di WP29, al paragrafo 18 questo indirizzo viene confermato. Si dice infatti che la de-indicizzazione non riguarda i motori di ricerca di piccola portata come quelli dei giornali online. Ergo non vi è un obbligo per la testata non solo di rimuovere l’articolo ma neanche di de-indicizzarlo dal proprio motore di ricerca, cosa che avrebbe lo stesso effetto di rimuoverlo visto che lo renderebbe di fatto introvabile.”»

Cosa dice la sentenza Google Spain?

«La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea C-131/12 (Google Spain case, nda), del 13 maggio 2014, ha disposto che i singoli individui possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere specifici risultati che appaiono effettuando una ricerca con il proprio nome, qualora tali risultati siano relativi all’interessato e risultino obsoleti. Un risultato può essere considerato obsoleto quando la tutela dei dati personali dell’interessato prevale rispetto all’interesse pubblico alla conoscenza della notizia cui tale risultato rimanda. E su questo che si deve ragionare. I risultati della ricerca devono essere vagliati per verificare quale dei due diritti fondamentali, quello alla privacy e quello di cronaca, debba prevalere. Ciononostante con la nuova GDPR (General Data Protection Regulation, Reg. 2016/679), che entrerà in vigore nel 2018 sostituendo la ormai obsoleta direttiva 95/46/EC, il Diritto alla Cancellazione (o diritto all’Oblio) è stato introdotto dall’Art. 17. Secondo la nuova norma, qualora sussistano alcuni dei motivi previsti successivamente, l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali […] Tuttavia, al comma 3, si prevedono talune eccezioni. Chi detiene e fa uso dei dati dell’interessato (il titolare del trattamento, il giornale in questo caso) non dovrà dare seguito alla richiesta di cancellazione qualora tale uso sia stato lecitamente fatto:

a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione;

d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento».

Quali sono stati gli effetti?

«Google rende noti i dati relativi al diritto all'oblio fino al 2015 introdotto da una sentenza della corte di Giustizia Ue nel maggio 2014, che garantisce il diritto dei cittadini europei a veder cancellati sui motori di ricerca i link a notizie personali "inadeguate o non più pertinenti". I link rimossi sono 580mila».

Allora sembra essere tutto risolto!

«Per nulla! Siamo in Italia e per gli ermellini nostrani l’interesse pubblico cessa dopo due anni. Spiega Vincenzo Tiani: “Quello che la Cassazione ha pensato invece è che, scaduti 2 anni e 6 mesi, tale eccezione venga meno. Non solo questa interpretazione mette a repentaglio il diritto alla libera informazione, lasciando spazio a una censura della stampa approvata dalla Corte stessa, ma viola il diritto di difesa (artt. 24 e 25 Cost.) poiché si basa su una legge non scritta e su una interpretazione totalmente libera e priva di solide basi che la possano rendere condivisibile. Il termine di 2 anni e 6 mesi è totalmente arbitrario oltre che ingiustificato. Forse che la stampa sia destinata, in un prossimo futuro, a sopravvivere giusto il tempo di un like su facebook?”»

Cosa ha detto la vittima azzannata degli ermellini?

«"Confesso che ci abbiamo messo più di un giorno per comprendere che si trattava di una sentenza reale ed ufficiale del massimo organo giudiziario – scrive il direttore Alessandro Biancardi il 30 Giugno 2016 su “Prima Da Noi”. La cosa ci ha colpito ulteriormente perchè dopo le pessime esperienze nel piccolo tribunale di provincia riponevamo una certa fiducia nella inappellabile Cassazione. Ci siamo sbagliati ma almeno ora sappiamo di che morte dovremo morire noi, la libertà di stampa e soprattutto la libertà di informarsi. Non spenderemo più parole per esprimere il nostro sdegno ed il nostro disgusto per aver raccolto solo umiliazioni in una guerra che abbiamo deciso di combattere da soli contro tutti per la libertà e la dignità di un Paese quando nessuno sapeva cosa fosse il diritto all’oblio, una invenzione che nella nostra esperienza permette a lobby e pregiudicati di tornare nell’ombra indisturbati. Siamo di fronte ad una situazione più che assurda generata dal giudice dei giudici che condanna un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere ma che ha provocato un danno violando una norma che non esiste e che stabilisce la scadenza di un articolo. Assurdo perchè siamo stati condannati una prima volta perchè non avevamo cancellato l’articolo e pure una seconda volta pur avendolo cancellato ma non abbastanza in fretta. Assurdo perchè gli ermellini dicono in sostanza che i due che si sono accoltellati nel loro ristorante hanno avuto un danno all’immagine (loro e del ristorante) non dalla violenza del gesto di cui si spera siano responsabili ma dal suo racconto rimasto fruibile sul web. Assurdo perchè si stabilisce che in venti anni il Garante della Privacy non ci ha capito niente. La domanda però è: ora ci dite come avremmo dovuto e potuto fare per non incorrere in questa violazione? Dove avremmo dovuto leggere la data di scadenza dell’articolo? Sul retro, sul tappo, sul codice civile, penale, deontologico? A proposito ma un giornalista che cancella articoli siamo sicuri che rispetta le leggi della categoria (l’autocensura è condannata, la post censura no)? Ma sappiamo bene il perchè dopo sei anni siamo i primi ad essere stati condannati per questo: perché la maggior parte dei siti preferisce cancellare per non ‘avere problemi’ nonostante non ci sia una legge che impone il dovere di farlo. Dal canto nostro non riusciremo a far fronte alla mole di danni che abbiamo provocato con 800mila articoli in archivio esercitando correttamente il nostro lavoro di onesti giornalisti e per questo molto difficilmente il quotidiano potrà sopravvivere, schiacciato da superficialità, poteri forti e sentenze impossibili da immaginare in un Paese davvero serio. Ma noi siamo l’ultimo dei problemi, cercheremo giustizia fuori dall'Italia e con il tempo anche la gente capirà, ci volessero anche 20 anni ma alla fine capirà…".»

Ed allora, quali gli effetti sul suo operato?

«Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi internazionali vigenti sul copyright. Le norme internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore di oltre un centinaio di libri con centinaia di pagine che raccontano l'Italia per argomento e per territorio. A tal fine posso assemblare le notizie afferenti lo stesso tema per fare storia o per fare una rassegna stampa. Questo da oggi lo potrò fare nel resto del mondo, ma non in Italia: la patria dell'Omertà. Perchè se non c’è cronaca, non c’è storia. Ed i posteri, che non hanno seguito la notizia sfuggente, saranno ignari di cosa sono stati capaci di fare di ignobile ed atroce i loro antenati senza vergogna».

Adesso tocca al Senato. Oblio oncologico approvato alla Camera, Boschi: “Questa legge per ciascuno di noi ha un nome e un volto”. Redazione su Il Riformista il 3 Agosto 2023 

Prima fumata bianca per l’oblio oncologico in Italia. Primo ok unanime dell’Aula della Camera alle norme per la prevenzione delle discriminazioni e la tutela dei diritti delle persone che sono state affette da malattie oncologiche. Il testo è stato approvato a Montecitorio con 281 voti a favore e nessun contrario, e adesso passa in Senato. Introduce un “diritto all’oblio” per assicurare che alla guarigione clinica corrisponda la possibilità di esercitare i propri diritti in condizioni di uguaglianza rispetto al resto della popolazione, con riferimento all’accesso ai servizi finanziari, bancari e assicurativi, nonché alle procedure di adozione di minori.

La proposta di legge, lanciata da Maria Elena Boschi di Italia Viva con l’obiettivo di approvazione prima della fine del 2023, è stata sottoscritta da parlamentari di diverse forze politiche sia di maggioranza che di opposizione tra cui Lorenzo Guerini del Pd, Cristina Rossello di Fi, Vanessa Cattoi della Lega, Dieter Steger delle Autonomie. “Oggi si conclude una prima importante tappa di un lavoro che viene da lontano, condiviso dentro e fuori dal Parlamento, che serve a dare una risposta concreta per la vita delle persone” dichiara Boschi, relatrice del provvedimento sull’oblio oncologico.

“Ci sono oltre un milione di persone che sono guarite da una malattia oncologica per la scienza, eppure hanno un trattamento diverso quando devono chiedere un mutuo per comprare casa, un prestito per acquistare un’auto o addirittura se vogliono essere padre e madre chiedendo l’adozione di un bambino. Una vera e propria ingiustizia che la nostra legislazione ha tollerato. Ora abbiamo la possibilità di fare un passo in avanti. Questa legge per ciascuno di noi ha un nome e un volto, perché ogni famiglia ha fatto esperienza di una malattia oncologica. Una legge che è una speranza, che conferma che dalle malattie oncologiche si guarisce e che si può ricominciare una vita senza il peso di uno stato che sembra porre ostacoli”. “È stato il primo atto che ho presentato in questa legislatura, con le firme dei colleghi di maggioranza e opposizione. Durante l’esame del provvedimento – sottolinea – abbiamo lavorato in piena sintonia e condivisione con tutti i gruppi, arrivando all’unanimità di consenso. Un segnale positivo che spero possa avere lo stesso esito al Senato affinché la legge sia approvata rapidamente. Tutti noi cerchiamo di lavorare nell’interesse dei cittadini, perché il compito di chi fa politica non è migliorare la propria vita, ma quella degli altri. Oggi possiamo dimostrarlo concretamente”, conclude.

Soddisfazione anche da parte dell’associazione italiana di Oncologia Medica (AIOM) e della relativa Fondazione che esprimono gratitudine alla Camera dei Deputati per l’approvazione del disegno di legge: “Plaudiamo all’approvazione del disegno di legge sul diritto all’Oblio oncologico da parte della Camera dei Deputati. E’ il primo passo fondamentale per la tutela di oltre un milione di persone in Italia, che hanno superato il tumore ma continuano a essere considerate malate dalla società, con discriminazioni nell’accesso a servizi come la stipula di assicurazioni e di mutui, difficoltà nei processi di adozione e di assunzione sul lavoro. Ci auguriamo che quanto prima anche il Senato approvi la norma, perchè si tratta di una battaglia di civiltà, che vede da molto tempo in prima linea pazienti, società scientifiche e Istituzioni”.

“Questa norma può porre il nostro Paese all’avanguardia in Europa nella tutela delle persone colpite dal cancro che hanno superato la malattia – afferma Saverio Cinieri, Presidente AIOM -. A differenza dei provvedimenti adottati in altri Paesi, il disegno di legge approvato dalla Camera prevede specifiche disposizioni che riguardano non solo la possibilità di accedere a servizi finanziari come mutui e assicurazioni, ma anche i contratti di lavoro e le adozioni. Dopo l’approvazione definitiva da parte del Senato, i guariti dal cancro non saranno più discriminati nella vita sociale, professionale e familiare”.

“Oggi, grazie all’innovazione tecnologica e agli importanti risultati della ricerca scientifica, sono 3,6 milioni le persone che vivono in Italia dopo una diagnosi di tumore – spiega Giordano Beretta, Presidente di Fondazione AIOM -. Oltre un milione può essere considerato guarito. Per questo è indispensabile permettere ai pazienti di godere di una vita libera e completa dopo la fine delle cure. Negli ultimi due anni, Fondazione AIOM ha lanciato una campagna informativa importante ed efficace, #iononsonoilmiotumore, che ha visto la realizzazione della prima guida sul tema, un portale web (dirittoallobliotumori.org), due camminate a Pescara e Modena e una forte campagna social per promuovere una raccolta firme che ha superato le 107mila adesioni. Il costante dialogo con le Istituzioni sta finalmente portando a un importante risultato, cioè all’approvazione finale della legge. Dopo 10 anni dal termine delle cure per le neoplasie dell’adulto e dopo 5 per quelle dell’età pediatrica, i pazienti potranno essere ritenuti guariti non solo a livello clinico ma anche per la società”.

Oblio oncologico, la proposta di legge approvata all’unanimità alla Camera. «È di una battaglia di civiltà» affinché anche chi ha avuto un tumore possa accedere a prestiti, mutui, concorsi pubblici, adozioni. Proprio come tutti gli altri. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 3 Agosto 2023

Previene le discriminazioni e tutela i diritti delle persone che hanno avuto un cancro. La proposta di legge sul diritto all’oblio oncologico è stata approvata all’unanimità alla Camera: con 281 voti a favore e nessun contrario. L'approvazione è stata accolta con un applauso nell’Aula di Montecitorio. Così il testo ora passa al Senato.

Mentre ancora oggi in Italia è molto difficile richiedere mutui, prestiti, stipulare assicurazioni, partecipare ai concorsi, accedere all’iter per le adozioni per chi ha avuto un cancro - perché ogni volta che si compilano i vari moduli è necessario riferire la cartella clinica, anche dopo la guarigione -, secondo quanto c’è scritto nel testo della proposta di legge, chi ha avuto una malattia oncologica non dovrà più né fornire informazioni né essere oggetto di indagini sulla propria condizione patologica pregressa. Perché dai tumori si guarisce sempre con maggior successo. E per fare in modo che la guarigione clinica corrisponda a quella giuridica, come avviene già in altri cinque Paesi d’Europa: Francia, Lussemburgo, Olanda, Belgio,  Portogallo. Anche

(ansa)

«La legge per il diritto all’oblio oncologico punta a cambiare un paradigma: cancro non è sinonimo di morte. Si può guarire», spiega Giordano Beretta, il presidente della fondazione Aiom, in prima linea nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica sull’importanza di ottenere una legge che tuteli i pazienti che hanno raggiunto la stessa aspettativa di vita dei soggetti che non hanno avuto cancro. «Si tratta di una battaglia di civiltà. Affinché cessino quelle discriminazioni nascoste che segnano la vita di chi ha avuto un tumore».

Il testo è stato redatto sulla base di nove progetti di legge precedenti, presentati da diversi gruppi parlamentari e dal Cnel. Prevede due scaglioni temporali per accedere a determinati servizi senza dover fornire informazioni sul proprio stato di salute: 10 anni dopo il termine delle cure per chi ha avuto il cancro dopo i 20 anni, 5 per chi ha avuto il tumore prima. 

«È una conquista fondamentale per chi ha avuto il cancro. Elimina lo stigma della malattia e decostruisce gli stereotipi intorno. Un passo in avanti non solo giuridico ma soprattutto sociale». Che anche l’Unione europea chiede di fare agli Stati membri, entro il 2025, per garantire il diritto all’oblio oncologico a coloro che sono guariti: quasi un milione in Italia su 3,6 milioni di cittadini a cui è stato diagnosticato un tumore.

Oblio oncologico, la ex paziente: «Il mondo non era abituato alla nostra sopravvivenza, oggi siamo guariti per la legge». Storia di Laura Cuppini e Vera Martinella su Corriere della Sera il 4 Agosto 2023

Giulia Panizza aveva cinque mesi di vita quando le è stato diagnosticato un neuroblastoma, il tumore solido più comune nella prima infanzia: si sviluppa da cellule nervose immature e, nelle forme più aggressive, si associa a una sopravvivenza del 35%. Oggi Giulia ha 42 anni, lavora, si è sposata e ha avuto un figlio. Lei è tra coloro che beneficeranno della futura legge sull’oblio oncologico ( approvata dalla Camera all’unanimità, dovrà ora passare all’esame del Senato), che prevede — dopo dieci anni dall’ultima manifestazione di malattia o dall’ultimo trattamento — il pieno riconoscimento dei diritti di coloro che sono a tutti gli effetti «guariti». «Quando mi sono ammalata, nel 1981, la prospettiva della guarigione quasi non esisteva, addirittura non veniva nominata la parola “tumore” — racconta Giulia, che è consigliere della Federazione associazioni genitori e guariti oncoematologia pediatrica (Fiagop) onlus —. Il mondo non era preparato al fatto che io potessi sopravvivere al cancro. Ho proseguito i trattamenti fino ai due anni di età, ma poi ho dovuto fare i conti con problemi fisici (di postura e deambulazione) che sono stati conseguenza delle cure e dei vari interventi chirurgici. Nonostante questo né io né la mia famiglia facevamo cenno al tumore, a meno di un’effettiva necessità. Semplicemente non se parlava. Oggi una legge dello Stato (spero che presto sarà tale) ci considera “guariti”: è un cambiamento totale di paradigma rispetto a ciò che avveniva quando ero bambina».

«Sono nato dopo mio figlio»

Obiettivo del disegno di legge è «escludere qualsiasi forma di pregiudizio o disparità di trattamento» nei confronti delle «persone guarite da patologie oncologiche», per quanto riguarda «i contratti bancari, finanziari e assicurativi stipulati dopo la data di entrata in vigore della presente legge, i procedimenti in corso per l’adozione nazionale e internazionale, nonché i concorsi». «Non è ammessa — si legge — la richiesta di informazioni relative allo stato di salute della persona fisica contraente concernenti patologie oncologiche da cui la stessa sia stata precedentemente affetta e il cui trattamento attivo si sia concluso, senza episodi di recidiva, da più di dieci anni alla data della richiesta. Tale periodo è ridotto della metà (5 anni, ndr) nel caso in cui la patologia sia insorta prima del compimento del ventunesimo anno di età». Marco Dell’Acqua ha 57 anni. Quando ne aveva 38, ed era sposato da un anno, la diagnosi di mieloma ha sconvolto la sua esistenza e quella di sua moglie Ida. «I medici mi hanno detto che se volevamo un figlio c’erano due opzioni: concepirlo subito, prima che io iniziassi le terapie, oppure congelare lo sperma. Inoltre mi hanno fatto capire che dovevo preparami all’eventualità di non vederlo crescere». Le cose sono andate diversamente e Marco le ha raccontate nel libro «Sono nato dopo mio figlio». «Ida è rimasta subito incinta e due anni dopo la diagnosi è stato trovato un donatore per il trapianto di midollo osseo, che mi ha salvato la vita. Allora mio figlio aveva 6 mesi, adesso ha 18 anni». Oggi il mieloma non si cura più con trapianto da donatore (un intervento ad alto rischio), ma con un autotrapianto, seguito da una terapia di mantenimento basata su nuovi farmaci.

Pubblicazione di esami in Rete

Marco però, al contrario di Giulia, non è «guarito». «Per il mieloma (un tumore del sangue che recentemente ha colpito anche il musicista Giovanni Allevi) non esiste una data «ufficiale» di guarigione. Infatti Marco, nonostante siano passati 17 anni dal trapianto di midollo, si sottopone costantemente a controlli, anche se sta bene. «Una persona clinicamente guarita deve avere gli stessi diritti del resto della popolazione — afferma, commentando il disegno di legge approvato dalla Camera —. C’è però anche un problema “culturale”. Alcuni pazienti, che magari non ricevono risposte abbastanza esaurienti (o tranquillizzanti) da parte dei medici, postano i propri esami in vari gruppi su internet chiedendo pareri a persone che hanno la stessa patologia. In questo modo il diritto all’oblio viene “boicottato” dagli stessi malati, perché chiunque può fare una ricerca in Rete e trovare informazioni sulla loro salute presente o passata. Medici e associazioni di pazienti dovrebbero affermare con forza che questo atteggiamento è sbagliato».

Il lavoro e il senso di fragilità

Video correlato: Le difficoltà di una malata oncologica (Mediaset)

Marco non ha avuto grossi problemi con il lavoro. «Vivevo e vivo tuttora a Milano e quindi, mentre mi curavo all’Istituto Tumori sotto la guida di Vittorio Montefusco (oggi primario di Ematologia all’Ospedale San Carlo), uno dei massimi esperti di mieloma, potevo lavorare tra un ricovero e l’altro. Altri pazienti sono meno fortunati e devono cambiare città per seguire le terapie, rischiando così di esaurire i giorni di malattia e dover chiedere un’aspettativa non retribuita. Oltre a pagare magari un affitto». Oltre agli aspetti professionale e finanziario, i cosiddetti «lungosopravviventi» devono fare i conti con quello psicologico. «Il tumore ti lascia, anche a distanza di tempo, un senso di fragilità, di insicurezza — spiega Ida, moglie di Marco —, dovuto al fatto che hai investito tutte le tue energie e risorse nella lotta per sconfiggere la malattia. Gli ex pazienti devono convivere con la fatigue, una profonda e costante stanchezza». «Il sostegno psicologico è importantissimo per tutti i pazienti e gli ex pazienti — aggiunge Marco —, soprattutto quelli che non hanno strumenti culturali o che, per vari motivi, non riescono ad avere un dialogo anche “umano” con il proprio medico».

Ci può essere comunque un «dopo»

Per Giulia la «lungosopravvivenza» (iniziata subito dopo la nascita) è fatta di controlli (all’Ospedale Gaslini di Genova, dove è stata curata da bambina), ma anche di problemi fisici: «Sono guarita dalla malattia oncologica, ma sono rimasti dei disturbi di movimento per cui dovrò proseguire la fisioterapia a vita. L’importante è sapere che da un tumore si può uscire, ci può essere comunque un “dopo”, seppure con qualche limitazione. Ecco perché il disegno di legge sull’oblio oncologico è cruciale. Per esempio io e mio marito abbiamo aperto un mutuo, ma io da sola non avrei potuto farlo. E mi è stata negata un’assicurazione sulla vita perché tra i parametri richiesti c’era quello di non avere mai avuto un tumore. Inoltre avrei avuto grosse difficoltà ad adottare o prendere in affidamento un bambino: per fortuna, nonostante le cure che possono causare infertilità, sono rimasta incinta naturalmente. Ma il mondo sta cambiando. Lo dimostrano per esempio gli atleti paralimpici: tutti sappiamo che, anche con una disabilità, si possono fare cose incredibili. Una persona che ha avuto un tumore ha attraversato l’inferno: in inglese si parla di survivor, sopravvissuti (come se il tumore fosse una battaglia), mentre in italiano la parola “lungosopravviventi” è davvero brutta, andrebbe cambiata. Io per esempio dei miei primi due anni di vita ricordo i suoni dei macchinari e alcuni odori tipici dell’ospedale: risentirli oggi mi dà un senso di malessere».

Mutui e finanziamenti negati

Elisabetta Iannelli è avvocato, segretario generale della Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia (Favo) e vicepresidente di Aimac (Associazione italiana malati di cancro, parenti e amici). Se il disegno di legge sull’oblio oncologico è arrivato in Parlamento è anche al lavoro di advocacy svolto negli anni con Favo, che porta la voce dei pazienti alle istituzioni. «Dopo una diagnosi oncologica una persona desidera riprogettare la sua vita, trovando molti ostacoli sul proprio cammino — sottolinea —. Adesso la guarigione viene riconosciuta da una legge, è quasi una rivoluzione. Io mi sono ammalata 30 anni fa, avevo un tumore metastatico al quarto stadio. Alcuni problemi li ho vissuti sulla mia pelle: ho potuto avere un’assicurazione sanitaria privata, ma solo accettando molte limitazioni. Dai rimborsi erano esclusi la patologia oncologica e tutto ciò che poteva essere collegato. Ma, per fare un esempio, le terapie anticancro sono spesso cardiotossiche: se avessi avuto un problema cardiaco l’assicurazione avrebbe potuto affermare che era legato alle cure per il tumore, anche se ciò non era dimostrato. Le assicurazioni dovrebbero per esempio prevedere per gli ex pazienti non ancora guariti premi più alti, finché esistono fattori di rischio maggiori rispetto alla popolazione sana, per poi abbassarli gradualmente man mano che la guarigione “ufficiale” si avvicina (leggi “Aspetti sociali della malattia oncologica: per un ex malato di cancro è possibile accedere alle assicurazioni sulla vita? Ma a quali condizioni?” del Rapporto dell’Osservatorio Favo). Una decina di anni fa il mutuo è stato concesso a mio marito, non a me (nonostante avessi fatto richiesta). Ma so di ex pazienti che si sono visti negare anche finanziamenti più limitati, per esempio per l’acquisto di un’auto».

Molti pazienti oncologici guariscono

Il primo effetto della legge (se sarà approvata dal Senato) si vedrà proprio sui moduli per la richiesta di mutui, finanziamenti, coperture assicurative. Se sono trascorsi dieci anni dalla fine dei trattamenti (cinque per chi ha avuto il tumore prima dei 21 anni), non vi sarà alcun obbligo di fare cenno alla trascorsa patologia oncologica. «Tuttora mi capita di vedere online moduli in cui è scritto che chi ha avuto un tumore non può fare richiesta, senza alcuna indicazione temporale. In futuro questo non sarà più possibile — chiarisce Iannelli —. Di ostacoli per accedere a mutui, finanziamenti, assicurazioni, adozioni e lavoro ho parlato per la prima volta nel 2002 in occasione di un convegno al Senato: dopo vent’anni di impegno, vedere che la Camera ha approvato all’unanimità il disegno di legge mi riempie di soddisfazione ed emozione. Chi è tornato ad avere un’aspettativa di vita pari a quella della popolazione sana non sarà più contrassegnato da una “lettera scarlatta”. Poi i decreti attuativi, che saranno redatti in collaborazione con le Reti associative delle organizzazioni di pazienti (Favo in primis), indicheranno in modo analitico tutti i casi in cui il termine dei dieci anni può essere ridotto. Faccio un esempio: il tumore del testicolo è tipico dell’età giovanile e solitamente ha una risoluzione rapida. Non servono dieci anni per definire un paziente “guarito”. Abbiamo lavorato molto in questi anni, insieme alle associazioni di pazienti, con un impegno che è stato sempre più “martellante”. Il primo dato sui guariti dal tumore è stato reso pubblico una decina di anni fa, dopo una esplicita richiesta di Favo ad Airtum (Associazione italiana registri tumori): prima si parlava solo di nuovi casi di tumore e decessi. Ebbene, dieci anni fa un malato di tumore su quattro giungeva alla guarigione. E i numeri sono in miglioramento, grazie alla scoperta di nuove terapie».

Tutela del lavoro e adozioni

I punti forti del disegno di legge sull’oblio oncologico sono — oltre a quanto attiene le richieste di mutui, finanziamenti e coperture assicurative — la tutela del lavoro e la possibilità di adottare un bambino. «Per quanto riguarda il lavoro, la futura legge italiana, grazie al prezioso lavoro del Parlamento e in particolare delle relatrici Marrocco e Boschi, fa addirittura un passo avanti rispetto alle normative europee già esistenti e la Commissione europea sta guardando con interesse a quanto avviene nel nostro Paese: sono tutelati l’ingresso nel lavoro e il mantenimento dello stesso, con politiche attive, non solo per i guariti ma per chiunque abbia avuto un tumore. Nel campo dell’adozione, il disegno di legge afferma che per gli ex pazienti oncologici guariti da almeno dieci anni non deve essere menzionata la malattia. Ma, attenzione: non esiste un divieto legislativo all’adozione per coloro che non sono ancora guariti, ovvero che vivono una condizione di cronicità in attesa della guarigione. Come accaduto finora, di fronte alla richiesta di adozione da parte di un paziente oncologico, sarà il Tribunale dei minori a valutare la situazione caso per caso. Il testo di legge approvato dalla Camera ha purtroppo alcuni punti deboli, che sono relativi ai controlli e alle sanzioni: non esiste un organo di controllo in caso di inosservanza del dettato legislativo e l’apparato sanzionatorio non è del tutto sufficiente. Questa legge sancisce comunque un passaggio fondamentale, prima di tutto culturale, sia per la persona che ha avuto un cancro sia per l’intera collettività. Dobbiamo sdoganare il fatto che dal cancro si può guarire, come dice da tempo la scienza. Alla guarigione clinica deve corrispondere quella “sociale”. Non siamo ancora arrivati alla meta, ma abbiamo preso la strada giusta».

Che cos’è l’oblio oncologico, la legge proposta per una guarigione anche sociale. Elena De Rossi su Il Riformista il 22 Giugno 2023 

Una corsa ad ostacoli. È quella che devono affrontare gli oltre 900mila italiani che sono guariti da una patologia oncologica. Per loro non è garantita la parità di diritti rispetto al resto della popolazione. Parliamo di persone che possono essere considerate guarite e con un rischio per la propria salute, secondo la scienza, che è pari a quello di tutti gli altri. Guariti per la medicina, non per la legge, per le banche o gli istituti assicurativi.

“Ammalarsi di tumore è una delle cose peggiori che possano capitare nella vita. Sono stata molto arrabbiata, poi ho imparato a sorridere, ho pensato al mio dopo, a come riprendere la mia vita, a come comprare una casa e diventare madre. Ma proprio quando il mio dopo è arrivato ho scoperto che ero guarita per i medici, ma non per lo stato italiano”. Sono le parole di Carolina Marconi a testimoniare questa ingiustizia tutta italiana durante la conferenza stampa di presentazione della proposta di legge sull’oblio oncologico, di cui Maria Elena Boschi è prima firmataria.

È proprio dall’incontro con la showgirl italovenezuelana, durante l’evento Women for Women against Violence, che è nato l’impegno di Boschi a presentare, prima fra tutte a inizio legislatura, una proposta per la prevenzione delle discriminazioni e la tutela dei diritti delle persone che sono state affette da malattie oncologiche. Una legge trasversale “perché l’importante è raggiungere il risultato, non mettere bandierine di partito. Un lavoro condiviso – spiega la deputata di Italia Viva – per arrivare a un testo unico che probabilmente già domani potremo depositare in Commissione. Abbiamo presentato una proposta di legge per superare una ingiustizia. Oggi chi guarisce da un tumore, e la scienza ci dice che passato un certo numero di anni è guarito a tutti gli effetti, subisce ancora delle discriminazioni quando chiede un mutuo in banca, o deve stipulare una polizza sulla vita, una assicurazione. Questo, a nostro avviso, è una ingiustizia che deve essere superata attraverso una legge che vieti questo tipo di discriminazione”.

Una proposta trasversale, che ha viaggiato nell’iter parlamentare come iniziativa bipartisan: “Ho sottoscritto con entusiasmo la proposta di legge della collega Boschi – ha spiegato in conferenza stampa la deputata leghista Vanessa Cattoi, coordinatrice dell’intergruppo parlamentare Insieme per un impegno contro il cancro -. Fa piacere trovare in parlamento argomenti sui quali riusciamo a lavorare tutti insieme come parlamentari appartenenti a diversi gruppi politici”. Le ha fatto eco la parlamentare di Forza Italia Cristina Rossello: “Crediamo e sentiamo questo tema in tanti e la proposta di Maria Elena Boschi, cui vanno aggiunte le varie proposte avanzate in modo trasversale, vanno appoggiate con convinzione”.

Quella convinzione che si aspettano i tanti guariti e che continuano a vivere discriminazioni, barriere e ostacoli. “Il diritto all’oblio oncologico riguarda davvero tante persone – sottolinea il deputato Dem Lorenzo Guerini -. Una norma di civiltà che tra l’altro metterebbe l’Italia sulla scia di altri Paesi europei che già hanno affrontato questo tema così sentito e delicato”.

Una legge adottata già da Francia, Portogallo, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo e Spagna dopo l’approvazione da parte del Parlamento europeo di una risoluzione che invita tutti i paesi dell’unione europea ad intervenire entro il 2025 con norme adeguate. “A noi – ha spiegato Boschi – piacerebbe che in Italia fosse anticipata questa scadenza e prima della fine di quest’anno riuscire ad approvare sia alla Camera che al Senato un testo condiviso in modo ampio”.

Un auspicio a cui si è associato il deputato del Gruppo Misto Dieter Steger: “ll riconoscimento del diritto all’ oblio oncologico rappresenta la condizione essenziale per il ritorno a una vita dignitosa e permette a tutti i malati oncologici guariti di sentirsi pienamente appartenenti alla società, senza discriminazioni”.

Perché il tumore non è una condanna a morte e “la malattia è occasione di ripartenza”. A sottolinearlo è chi, come il direttore Uoc Chirurgia senologica della Fondazione Policlinico Gemelli Riccardo Masetti, è dalla parte della scienza. Oggi non resta che sanare in fretta una odiosa discriminazione fondata su pregiudizi e non su reali dati scientifici. E il Parlamento, con questa proposta di legge, sembra pronto a mettersi al fianco delle cittadine e dei cittadini affinché un vero nuovo inizio sia un diritto di tutti. Elena De Rossi

Diritto all'oblio: perché cancellare il passato dal web a volte è ingiusto. Ruben Razzante il 23 Giugno 2023 su Il Giornale.

Cancellare il passato dal web può essere talvolta ingiusto e diseducativo. Vediamo l'esempio del massacro di Novi Ligure e di Omar Favaro.

La spinosa questione del diritto all’oblio ritorna ciclicamente nel dibattito pubblico perché ci sono tante persone che delinquono, scontano la pena in carcere e, una volta uscite, tornano a compiere azioni turpi, ma nonostante tutto chiedono che dal web venga cancellato il loro passato. Sarebbe ingiusto rimuovere questi contenuti dallo spazio virtuale, perché la memoria in Rete dev’essere neutrale: occorre trattare allo stesso modo le cose belle e le cose brutte e non dare seguito a richieste pretestuose di chi cerca l’impunità nel web puntando a rifarsi una verginità dopo aver commesso gravi crimini.

Giornalismo e funzione rieducativa del carcere

Tuttavia, occorre declinare anche in ambito mediatico il principio della funzione rieducativa della pena, contenuto nell’art.27 della Costituzione, secondo cui le pene non devono essere volte unicamente alla punizione del reo ma devono in primo luogo mirare alla sua rieducazione, quale requisito fondamentale per il reinserimento nella società. I media non devono accanirsi nei confronti di persone che sono incappate in disavventure giudiziarie o hanno commesso reati e sono uscite dal carcere dopo aver scontato la pena. Se la società offre a questi soggetti una chance di riscatto in termini di reinserimento, anche i mezzi di informazione devono mostrarsi indulgenti nel non rivangare fatti del passato privi di attinenza con l’attualità. Questo è il diritto all’oblio come corretta ricostruzione della storia di una persona.

Il caso di Omar Favaro

Ventidue anni fa Omar Favaro, all’epoca minorenne, aiutò la fidanzata Erika De Nardo ad uccidere la madre e il fratellino. Il massacro di Novi Ligure fu punito con la condanna di Erika e Omar rispettivamente a 16 e 14 anni di carcere da parte del tribunale dei minori. Quando Omar tornò in libertà i suoi avvocati chiesero ai media di dimenticarlo e di non parlare più di lui. Giusta richiesta perché lui aveva fatto un percorso di recupero che sembrava aver dato buoni frutti. Non c’erano dunque motivi per continuare a occuparsi di lui. Oggi Omar ha quasi 40 anni ed è da poco indagato per reati in famiglia. Avrebbe più volte violentato la sua ex moglie, con la quale ha avuto peraltro una figlia. I maltrattamenti potrebbero aver riguardato anche la bimba e il nuovo compagno della donna. La vicenda è ancora poco chiara ma nel frattempo i giornalisti ne stanno parlando. Non potrebbero non farlo perché quando a commettere azioni del genere è un soggetto già salito agli onori della cronaca per un omicidio la rilevanza della notizia è maggiore. Questo è uno dei casi in cui il diritto all’oblio non può essere invocato. Chi si è già macchiato in passato di crimini efferati è inevitabilmente più esposto degli altri ai riflettori mediatici, che sono pronti a riaccendersi su di lui alla prima eclatante occasione. D’altronde va ribadito che diritto all’oblio non vuol dire diritto al colpo di spugna, quindi alla rimozione dallo spazio virtuale di qualsiasi contenuto sgradito. Cancellare il passato dal web può rivelarsi ingiusto e a volte anche diseducativo.

Diritto all’oblio, tutte le novità introdotte dalla riforma Cartabia. «Non si poteva ottenere di più», dichiara Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, che si è molto speso per questa norma. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 19 maggio 2023

La riforma Cartabia del processo penale ha introdotto importanti cambiamenti nell'applicazione del diritto all'oblio.

Il nuovo articolo 64-ter delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale prevede, infatti, che la persona nei cui confronti sono stati pronunciati una sentenza di proscioglimento, o di non luogo a procedere, ovvero un provvedimento di archiviazione, possa richiedere che sia preclusa l'indicizzazione o che sia disposta la deindicizzazione, in rete, dei dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento, ai sensi dell'articolo 17 del Regolamento generale per la protezione dei dati.

La procedura è semplice: la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento appone una annotazione che è quindi titolo esecutivo per la «sottrazione dell'indicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, di contenuti relativi al procedimento penale, rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell'istante».

La disposizione non deve generare, però, false illusioni in quanto «deindicizzare» non significa «cancellare».

In altre parole, il risultato che si ottiene è solo quello che i dati personali inseriti nei motori di ricerca non sono più in associazione a parole chiave relative al reato contestato.

È sufficiente, allora, effettuare una ricerca diversa, ad esempio inserendo il nome di un coimputato o quello del magistrato che ha condotto le indagini che il link della notizia che si pensava deindicizzata ricompare.

La nuova normativa ha creato un florido mercato di società che si offrono per “cancellare” dal web le notizie. Massima attenzione, quindi, ai servizi realmente offerti.

«Non si poteva ottenere di più», dichiara Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, che si è molto speso per questa norma. «È evidente - aggiunge Costa - che di un personaggio pubblico, coinvolto in una vicenda giudiziaria, anche se assolto, si troverà sempre traccia della notizia».

Da Google sono chiari: se la notizia è stata “aggiornata” ai più recenti sviluppi della vicenda giudiziaria, quindi all’assoluzione, difficilmente potrà essere “deindicizzata”.

E poi bisogna sempre valutare l’interesse alla reperibilità delle informazioni riportate riguardo il ruolo pubblico rivestito.

La Corte di Giustizia e Comitato europeo per la protezione dei dati hanno indicato «la prevalenza dell’interesse generale ad avere accesso alle informazioni quando l’interessato esercita un ruolo pubblico, anche per effetto della professione svolta o delle cariche ricoperte».

In particolare, alla domanda «Cosa rappresenta un ruolo nella vita pubblica?» il Comitato europeo per la protezione dei dati ha chiarito, tra l’altro, che «a titolo di esempio, politici, alti funzionari pubblici, uomini di affari e professionisti (iscritti agli albi) possono essere solitamente considerati come coloro che svolgono un ruolo nella vita pubblica. Vi è un argomento a favore del diritto del pubblico a ricercare le informazioni rilevanti rispetto al loro ruolo e alle attività pubbliche».

Da ultimo, infine, le Linee Guida del Comitato europeo per la protezione dei dati circa la natura giornalistica di un'informazione e il fatto stesso che sia stata pubblicata da un giornalista, la cui professione è informare il pubblico, «costituiscono elementi a conferma del sussistente interesse pubblico alla notizia».

Tutte le novità introdotte dalla riforma Cartabia sul diritto all’oblio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Maggio 2023  

La preclusione all'indicizzazione e/o la deindicizzazione dei propri dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento non determinano però la cancellazione della notizia, ma evitano che i dati personali siano inseriti nei motori di ricerca in associazione a parole chiave relative ad esempio al reato contestato. Per questo motivo è bene ricordare che indicizzazione e rimozione dei dati, sono due aspetti ben diversi.

Le modifiche apportate dalla riforma Cartabia del processo penale  attraverso il Dlgs del 10 ottobre 2022, n. 150 hanno introdotto dei significativi miglioramenti nell’applicazione giuridica del diritto all’oblio. Il nuovo articolo 64-ter delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, infatti, prevede che per la persona nei cui confronti sia stata emessa una richiesta di archiviazione o un provvedimento di proscioglimento, di non luogo a procedere, o una sentenza di assoluzione ha i diritto di richiedere che nel provvedimento del giudice sia indicata o disposta la deindicizzazione in rete (quindi sa siti o blog internet), dei dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento, ai sensi dell’articolo 17 del Regolamento generale per la protezione dei dati. Ma tale diritto con comprende le testate giornalistiche ed i loro archivi.

La procedura prevista dalla riforma è questa: la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento deve trascrive questa annotazione : “Il presente provvedimento costituisce titolo per ottenere, ai sensi e nei limiti dell’articolo 17 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, un provvedimento di sottrazione dell’indicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, di contenuti relativi al procedimento penale, rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell’istante“. 

Lo strumento congegnato dal Legislatore è rapido, semplice e privo di qualsivoglia discrezionalità: la preclusione all’indicizzazione o la deindicizzazione dei dati personali contenuti nei provvedimenti di cui all’art. 64 ter cod. proc. pen. diviene un mero adempimento del comportamento richiesto dal privato, demandato alla Cancelleria del giudice. Si discute in assenza di una normativa specifica, sulle modalità di tutela della parte richiedente in caso di inadempimento da parte della Cancelleria; c’è chi, in dottrina, suggerisce il ricorso al TAR in sede di giudizio di ottemperanza.

La preclusione all’indicizzazione e/o la deindicizzazione dei propri dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento non determinano però la cancellazione della notizia, ma evitano che i dati personali siano inseriti nei motori di ricerca in associazione a parole chiave relative ad esempio al reato contestato. Per questo motivo è bene ricordare che indicizzazione e rimozione dei dati, sono due aspetti ben diversi. 

Basta effettuare una ricerca con parole chiave differenti, ad esempio cercando il nome di un coimputato, o quello del magistrato che ha condotto le indagini, o il giudice che ha emesso una sentenza ed ecco che il link della notizia che si pensava scomparsa ricompare come per incanto, senza violare la Legge ! La nuova normativa in realtà ha creato un florido mercato di società (spesso di ciarlatani, anche con la toga, dei veri e proprio ignoranti, nel senso che ignorano i reali termini di Legge) i quali chiedono somme particolarmente per “cancellare” (ma come spiegato non viene cancellato nulla !) dal web le notizie. Quindi occorre prestare la dovuta attenzione, ai servizi realmente offerti, che spesso sono un diritto gratuito !

Infatti questa disposizione non deve comportare delle false illusioni, o arroganti richieste di legali a caccia di ulteriori laute parcelle dai propri assistiti in quanto “deindicizzare” un nome dai motori di ricerca presenti sulla rete internet, non consegue alcun diritto alla cancellazione. In poche parole, quello che si ottiene con la nuova normativa è soltanto che i dati personali presenti nei motori di ricerca non vengono più associati a parole chiave di ricerca relative al reato contestato alla persona in questione.

I legali di Google sono perentori spiegando che se la notizia è stata “aggiornata” con tutti gli sviluppi della vicenda giudiziaria, sino all’ eventuale assoluzione, sarò molto difficile che venga “deindicizzata” dal motore di ricerca. Inoltre bisogna sempre soppesare riguardo il ruolo pubblico rivestito, l’interesse alla reperibilità delle informazioni pubblicate . 

Dalla Corte di Giustizia e Comitato europeo per la protezione dei dati viene evidenziata “la prevalenza dell’interesse generale ad avere accesso alle informazioni quando l’interessato esercita un ruolo pubblico, anche per effetto della professione svolta o delle cariche ricoperte“, chiarendo che “a titolo di esempio, politici, alti funzionari pubblici, uomini di affari e professionisti (iscritti agli albi) possono essere solitamente considerati come coloro che svolgono un ruolo nella vita pubblica. Vi è un argomento a favore del diritto del pubblico a ricercare le informazioni rilevanti rispetto al loro ruolo e alle attività pubbliche“.

Inoltre le linee guida del Comitato europeo per la protezione dei dati hanno chiarito che la natura giornalistica di un’informazione e il fatto stesso che sia stata scritta o pubblicata da un giornalista, il cui dovere e professione è quella di informare il pubblico, “costituiscono elementi a conferma del sussistente interesse pubblico alla notizia”. Quindi addio al diritto all’ oblio dalle testate giornalistiche online. Redazione CdG 1947

Oblio e cancellazione dal web: le nuove regole in vigore. Con la riforma Cartabia i motori di ricerca dovranno dissociare i nomi di imputati e di persone sottoposte a indagini dalle notizie circolanti in Rete sulle inchieste che li hanno visti coinvolti. E' il diritto che prevale sull'anarchia del web. Ruben Razzante il 13 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Nella pubblicazione delle notizie in Rete la strada maestra dovrebbe essere quella di un equilibrio tra memoria storica e rispetto dei diritti dei protagonisti dei fatti. Le informazioni di interesse pubblico dovrebbero essere sempre rintracciabili nel web, mentre quelle che rischiano di danneggiare l’identità virtuale della persona potrebbero a volte essere rimosse o rese meno accessibili. Tuttavia, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Il cosiddetto diritto all’oblio, cioè a non rimanere perennemente esposti in Rete per fatti non più attuali, è stato riconosciuto a molti cittadini con sentenze che hanno fatto scuola, ma rimane più difficile da garantire quando le notizie hanno un interesse pubblico, cioè si tratta di notizie pubblicate dai mezzi di informazione.

Mentre i siti di informazione on-line, in quanto custodi della memoria storica, sono chiamati a conservare nei loro archivi anche le notizie del passato e l’unico obbligo è quello di aggiornarle affinché non contengano particolari datati e superati dagli eventi, i motori di ricerca sono spesso obbligati alla deindicizzazione, a garantire il cosiddetto diritto al delinking, cioè all’eliminazione di un link di un articolo, affinché esso non appaia più tra i risultati delle ricerche per parole chiave. In questo modo chi cerca informazioni su qualcuno digitando il suo nome e cognome non si imbatte più in articoli superati o non aggiornati, che rischierebbero di fornire una rappresentazione falsata della personalità di quel soggetto.

Dal primo gennaio, con l’entrata in vigore della legge Cartabia che ha riformato alcune norme sull’amministrazione della giustizia, gli imputati e i sottoposti ad indagini, che rischiavano la cosiddetta gogna mediatica perpetua, cioè la perenne esposizione in Rete per il loro coinvolgimento in vicende giudiziarie risoltesi con assoluzioni e archiviazioni, possono tirare un sospiro di sollievo. I motori di ricerca dovranno dissociare i loro nomi dalle notizie circolanti in Rete sulle inchieste che li hanno visti coinvolti. La nuova legge prevede che sia la cancelleria del giudice a provvedere affinché il diritto all’oblio venga garantito celermente.

Il fatto che, nei casi di archiviazione, proscioglimento o sentenza di non luogo a procedere, si possa finalmente chiedere ai motori di ricerca di precludere l'indicizzazione o di disporre la deindicizzazione dei propri dati personali -spiega Antonino La Lumia, Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Milano e membro del Direttivo della Scuola Forense- consentirà di eliminare dalla Rete notizie fuorvianti (perché non più attuali) e quindi potenzialmente dannose per il soggetto coinvolto. E' una disposizione fondamentale, perché rende concreto il principio di doverosa protezione del singolo da parte dell'ordinamento a fronte di una possibile lesione di diritti primari, come la reputazione, l'onore e l'immagine personale: è il diritto che prevale sull'anarchia del web.

Dr Antonio Giangrande: Deindicizzazione: cosa significa.

Il deindicizzare significa non rimuovere la pubblicazione, ma significa impedire che il contenuto venga trovato tramite motori di ricerca.

Quindi basta una lieve modifica al nome, affinché si impedisca la ricerca.

Spesso, però la deindicizzazione non è dovuta se il diritto di cronaca sovrasta il diritto alla privacy.

Se qualcosa ha modificato lo status del richiedente, in questo caso, il diritto di cronaca si modifica. Intervengono integrazioni, aggiornamenti o rettifiche.

Non far trovare qualcosa senza influire sulla pubblicazione. Spataro su civile.it.

Rispetto all'asserito diritto all'oblio la richiesta di deindicizzazione è una reazione ad una azione, quella di pubblicare, non un diritto assoluto da rivolgere a chiunque.

Il deindicizzare significa non rimuovere la pubblicazione (magari è un archivio giornalistico e può ivi restare anche contro la volontà dell'interessato) ma significa impedire che il contenuto venga trovato tramite motori di ricerca esterni, non tramite quello interno del servizio stesso.

La richiesta di deindicizzazione, come ogni contestazione, va precisata perchè sia lecita e proporzionata, altrimenti diventa una mera richiesta di oblio.

Vi è anche un problema temporale. Può essere facile deindicizzare un testo, ma non un video senza descrizione adeguata. Quindi se anche posso rimuovere facilmente contenuti testuali indicizzati nel passato e indicizzati nel futuro, non altrettanto potrebbe esserlo per i video senza testi allegati.

In ogni caso vi è anche un problema di opere derivate che possono far uso di parte di contenuti che si vogliano deindicizzati.

Per questi e altri problemi è evidente che la richiesta deve essere attuabile, alla luce del contesto e dello stato della tecnologia al momento della richiesta.

Deindicizzare un singolo link, è facile. Un intero sito non è apparentemente proporzionato. Tutto quello che riguarda una persona impossibile senza ledere i diritti degli omonimi.

Chi vuole esercitare un diritto deve quindi precisare cosa ritiene sia un suo diritto nel concreto, non in astratto, fornendo quindi tutto quello che può servire a chi riceve la richiesta di potervi adempiere.

Alcuni contenuti possono dover essere deindicizzati per legge. Nomi di minori, segreti di Stato. Vi è però la difficoltà di conoscere quello che si vuole resti segreto, e di distinguerlo dal resto.

Per questo molti affermano che il diritto ad essere ignorati, sul web, non esiste. Con strumenti che poi permettono di parlare di tutti, anche di chi non è sul web, la richiesta di deindicizzazione si presenta come qualcosa di diverso.

Deindicizzare un link su un motore di ricerca è una cosa. Deindicizzare un contenuto di un utenti su un social è un'altra cosa.

Facebook ancora una volta anticipa consentendo di bloccare singoli utenti: la deindicizzazione è quindi relativa a chi la richiede, che non vedrà più i contenuti di tizio, che però potrà continuare a esprimersi con gli altri.

Altri sistemi infine rimuovono la pubblicazione dopo poco, impedendo non solo l'indicizzazione ma proprio la pubblicazione.

Altri sistemi nascono per non essere indicizzati, salvo effettuare una ulteriore azione.

Diversa ancora è la possibilità di seguire qualcuno dall'indicizzare i contenuti di qualcuno. La richiesta di seguire (rss, follow, iscriviti, segui) è una azione personale. L'indicizzazione è rivolta ad un pubblico indiscriminato.

Infine tramite robots.txt i siti possono ottenere la non indicizzazione dei contenuti da uno o più spider, senza alimentare i relativi motori di ricerca

16.02.2017 Spataro

IP, IT E DATA PROTECTION. Il diritto all’oblio e la deindicizzazione: le nuove Linee guida dell’EDPB

L’European Data Protection Board il 5 luglio 2020 ha adottato la seconda versione delle Linee guida 5/2019 sui criteri del diritto all’oblio nei casi riguardanti i motori di ricerca.

Di Marco Martorana, Avvocato

Di Lucas Pinelli, Avvocato

Pubblicato il 21/09/2020 su altalex.com.

 Il diritto all’oblio nei casi riguardanti i motori di ricerca si concretizza con il concetto di deindicizzazione che “consente un’operazione sostanzialmente differente dalla rimozione/cancellazione di un contenuto: non lo elimina, ma lo rende non direttamente accessibile tramite motori di ricerca esterni all’archivio in cui quel contenuto si trova”1.

Così, nella sentenza della Corte di giustizia del 2014 nel caso Google e Google Spain c. Costeja, la Corte ha stabilito che un interessato può richiedere al fornitore di un motore di ricerca online di cancellare uno o più collegamenti a pagine web dall'elenco dei risultati visualizzati a seguito di una ricerca effettuata sulla base del suo nome2, diritto poi sancito formalmente nell’articolo 17 del Regolamento europeo sulla protezione dei dati (GDPR).

A settembre 2019, nel caso Google c. CNIL, la Corte ha inoltre avuto modo di definire lo scopo territoriale del diritto alla deindicizzazione, precisando che l’articolo 17 del GDPR deve essere interpretato “nel senso che il gestore di un motore di ricerca, quando accoglie una domanda di deindicizzazione in applicazione delle suddette disposizioni, è tenuto ad effettuare tale deindicizzazione non in tutte le versioni del suo motore di ricerca, ma nelle versioni di tale motore corrispondenti a tutti gli Stati membri, e ciò, se necessario, in combinazione con misure che, tenendo nel contempo conto delle prescrizioni di legge, permettono effettivamente di impedire agli utenti di Internet, che effettuano una ricerca sulla base del nome dell’interessato a partire da uno degli Stati membri, di avere accesso, attraverso l’elenco dei risultati visualizzato in seguito a tale ricerca, ai link oggetto di tale domanda, o quantomeno di scoraggiare seriamente tali utenti”3.

A seguito di queste sentenze della Corte di Lussemburgo, il comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB) ha avviato il processo di redazione di linee guida sui criteri del diritto all’oblio nei casi riguardanti i motori di ricerca. La prima versione, precedente rispetto alla consultazione pubblica, è stata adottata nel dicembre 2019. La consultazione si è poi conclusa nel febbraio 2020 e la seconda versione delle linee guida è stata pubblicata il 7 luglio 2020.

Le Linee guida 5/2019 sui criteri del diritto all’oblio nei casi riguardanti i motori di ricerca elencano i motivi per i quali un interessato può richiedere la deindicizzazione così come le eccezioni all’esercizio di questo diritto.

Sommario

I motivi per richiedere la cancellazione dall'elenco

Le eccezioni al diritto alla deindicizzazione

Conclusioni

I motivi per richiedere la cancellazione dall'elenco

L’articolo 17 del GDPR stabilisce che l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano in sei casi, elencati nel seguito del medesimo articolo. Le linee guida dell’EDPB si aprono quindi con una analisi di queste basi giuridiche, non senza prima chiarire che, comunque, l’interessato potrebbe fare una richiesta di deindicizzazione a un motore di ricerca basandosi su più di una base contemporaneamente. Ad esempio, un soggetto potrebbe chiedere la deindicizzazione perché non è più necessario che i suoi dati vengano trattati dal motore di ricerca (è il caso dell’articolo 17 par. 1 lettera a) e allo stesso tempo perché vuole esercitare il proprio diritto di opporsi al trattamento ai sensi dell’articolo 21 del GDPR (questa base si trova, invece, nella lettera c dell’articolo 17 par. 1). L’EDPB specifica inoltre che, nel momento in cui una Autorità garante si trovasse a dover decidere in merito a un reclamo che riguardasse il rifiuto da parte di un motore di ricerca a deindicizzare il dato, l’Autorità dovrebbe tenere in considerazione, nella sua analisi, la natura del contenuto pubblicato sul sito che si vuole deindicizzare.

Ai sensi dell'articolo 17, par. 1, a) GDPR, l'interessato può richiedere a un fornitore di motori di ricerca di rimuovere il contenuto dai propri risultati di ricerca, qualora i dati personali dell'interessato non siano più necessari in relazione alle finalità del trattamento da parte del motore di ricerca.

Questa disposizione consente all'interessato di richiedere la cancellazione dall'elenco delle informazioni personali che lo riguardano laddove le informazioni personali siano inesatte o non aggiornate a causa del trascorrere del tempo. Il comitato nota però che, poiché tale trattamento viene effettuato allo scopo di rendere le informazioni accessibili agli utenti di Internet, deve essere svolta un'analisi del bilanciamento tra la tutela della privacy di un interessato e gli interessi degli utenti ad accedere alle informazioni. In questa analisi sarà necessario tenere conto anche del periodo di conservazione dei dati, visto che si tratta spesso di stabilire, nei fatti, se queste informazioni siano obsolete.

Un altro motivo in teoria sarebbe la revoca del consenso da parte dell’interessato qualora non ci fossero altre basi legali al trattamento. A tal proposito, le linee guida sottolineano che è improbabile che un soggetto interessato presenti una richiesta di cancellazione dall'elenco sulla base del fatto che desidera revocare il consenso poiché il responsabile del trattamento che indicizza i dati in questo caso è l'editore e non l'operatore del motore di ricerca. Pertanto, le Linee guida specificano che nel caso in cui un soggetto interessato revocasse il proprio consenso per l'uso dei propri dati in una determinata pagina Web, l'editore originale di quella pagina dovrebbe informare i fornitori di motori di ricerca che avevano indicizzato i dati ai sensi dell'articolo 17, paragrafo 2, del GDPR. Successivamente, l'interessato potrebbe ottenere la cancellazione dall'elenco dei risultati del motore di ricerca ai sensi dell'articolo 17, paragrafo 1, lettera c).

Quest’ultima disposizione permette all'interessato di opporsi al trattamento dei dati per motivi relativi alla sua situazione particolare con riferimento all’articolo 21 GDPR, qualora non sussistano motivi legittimi prevalenti. L’articolo 21 ha modificato l'onere della prova, instaurando una presunzione a favore dell'interessato e obbligando al contrario il titolare del trattamento a dimostrare "motivi legittimi cogenti per procedere al trattamento". Di conseguenza, quando un fornitore di motori di ricerca riceve una richiesta di rimozione dall'elenco in base alla situazione particolare dell'interessato, deve ormai cancellare i dati personali, ai sensi dell'articolo 17.1.c GDPR, a meno che non possa dimostrare "motivi legittimi prevalenti" per l'inserimento nell'elenco del risultato di ricerca specifico, che sono "motivi legittimi convincenti (...) che prevalgono sugli interessi, i diritti e le libertà dell'interessato" ai sensi dell’articolo 21. Nel bilanciamento di interessi tra interessato e titolare verranno in aiuto i criteri già espressi dal Gruppo di lavoro ex articolo 29 nelle linee guida riguardanti la sentenza Google Spain; in particolare, dovrà essere tenuta in considerazione la situazione dell’interessato, ad esempio nel caso in cui il risultato del motore di ricerca rischi di ostacolarlo nella ricerca di un impiego o metta a rischio la sua reputazione. In ogni caso, nessuno di questi criteri dovrà essere esaminato dall’Autorità garante nei casi in cui il titolare non fornisse alcuna prova di motivi legittimi prevalenti per rifiutare la richiesta di deindicizzazione.

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L’EDPB ricorda poi che l’interessato può richiedere la deindicizzazione qualora i dati siano stati trattati in modo illecito. La nozione di trattamento illecito deve essere interpretata in modo ampio ma oggettivo. Così, se il trattamento lecito si riferisce in primis alle basi del trattamento elencate all’articolo 6 GDPR, il trattamento può essere considerato illegale e la deindicizzazione richiesta anche in caso di violazione di una disposizione legale diversa dal GDPR.

Ai sensi dell’articolo 17, par. 1, e) GDPR, la rimozione può essere richiesta per adempiere un obbligo legale previsto dal diritto dell'Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento. Ciò può derivare da un'ingiunzione, da un’applicazione espressa del diritto nazionale o dell'UE o da una semplice violazione del periodo di conservazione da parte del fornitore del motore di ricerca.

Infine, un interessato può richiedere a un motore di ricerca di rimuovere uno o più risultati se i dati personali sono stati raccolti in relazione all'offerta di servizi della società dell’informazione (ISS) a un minore di cui all'articolo 8.1 GDPR. Il regolamento non definisce la nozione di ISS ma l’EDPB nota che è probabile che le attività dei motori di ricerca rientrino nell'ambito di applicazione della ISS. In tali casi, deve essere considerato il contesto della raccolta di dati personali da parte del responsabile del trattamento originale. In particolare, sarà necessario tenere in considerazione la data di inizio del trattamento da parte del sito su cui si trova la notizia originale.

Le eccezioni al diritto alla deindicizzazione

La prima eccezione riguarda una situazione in cui il trattamento è necessario per esercitare il diritto alla libertà di espressione e di informazione. In tal caso, è possibile rifiutare di rimuovere un contenuto qualora il motore di ricerca sia in grado di dimostrare che la sua inclusione nell'elenco dei risultati è strettamente necessaria per proteggere la libertà di informazione degli utenti di Internet.

La seconda eccezione riguarda le situazioni in cui il trattamento è necessario per l'adempimento di un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento. Le Linee guida però sottolineano che la valutazione della richiesta di cancellazione non deve presumere che l'obbligo legale di pubblicazione implichi necessariamente che non sia possibile accettare la richiesta di cancellazione da parte del motore di ricerca. In questo caso, la decisione sulla richiesta di cancellazione dovrebbe essere presa ancora una volta al fine di trovare un equilibrio tra i diritti dell'interessato e l'interesse degli utenti di Internet ad accedere alle informazioni.

La terza e la quarta eccezione riguardano motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica e gli scopi di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o scopi statistici, nella misura in cui ciò potrebbe rendere impossibile o compromettere gravemente il raggiungimento degli obiettivi di tale trattamento. Secondo quanto riportato dall’EDPB, gli effetti della cancellazione devono essere intesi solo come l'eliminazione di alcuni risultati dalla pagina dei risultati che si ottiene quando viene inserito un nome come criterio di ricerca, e non che le informazioni siano completamente cancellate dall’indice dei motori di ricerca. Inoltre, le finalità devono essere oggettivamente ricercate dal motore di ricerca, senza che sia necessario un collegamento tra il nome dell'interessato e i risultati della ricerca.

L’ultima eccezione infine riguarda l'accertamento, l’esercizio o la difesa di rivendicazioni legali. Le Linee guida ricordano però che, in un processo di rimozione dall'elenco, le informazioni rimangono accessibili quando si utilizzano altri termini di ricerca.

Così, l’EDPB evidenzia che la maggior parte delle eccezioni ai sensi dell'articolo 17.3 GDPR non sembrano idonee in caso di richiesta di cancellazione. Di conseguenza, per quanto riguarda la deindicizzazione, il comitato sostiene l'applicazione dell'articolo 21, par. 1 GDPR che recita:

L'interessato ha il diritto di opporsi in qualsiasi momento, per motivi connessi alla sua situazione particolare, al trattamento dei dati personali che lo riguardano ai sensi dell'articolo 6, paragrafo 1, lettere e) o f), compresa la profilazione sulla base di tali disposizioni. Il titolare del trattamento si astiene dal trattare ulteriormente i dati personali salvo che egli dimostri l'esistenza di motivi legittimi cogenti per procedere al trattamento che prevalgono sugli interessi, sui diritti e sulle libertà dell'interessato oppure per l'accertamento, l'esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria”.

In ogni caso, ricorda l’EDPB, le eccezioni previste dall'articolo 17, par. 3 GDPR possono essere invocate come motivi legittimi impellenti ai sensi dell'articolo 17, par. 1, c) GDPR.

Conclusioni

Come emerso dalle sentenze della Corte di giustizia, il diritto all’oblio, particolarmente nei casi riguardanti i motori di ricerca, non è da intendersi in senso assoluto. Pertanto, nel diritto all'oblio, deve essere raggiunto un giusto equilibrio tra, da un lato, il diritto del pubblico di accedere alle informazioni e, dall'altro, i diritti e gli interessi della persona interessata.

Così, con queste Linee guida, il comitato europeo per la protezione dei dati cerca di fornire alle autorità di controllo nazionali degli elementi utili nella ricerca di un tale equilibrio.

IP, IT E DATA PROTECTION. Diritto all’oblio: che cos’è e come si tutela

Il "diritto di essere dimenticati": la normativa, la giurisprudenza nazionale e sovranazionale, i rapporti con la libertà di informazione. Di Nicola Virdis. Professionista – Avvocato, 15/12/2020 su altalex.com.

In un suo famoso racconto Jose Luis Bòrges narra la storia di Ireneo Funes, uomo dalla prodigiosa capacità di ricordare ogni minimo dettaglio della sua vita. La straordinaria dote di “Funes el memorioso" ricorda la capacità pressoché smisurata del web di immagazzinare e conservare dati e informazioni su fatti e persone. Basta digitare una parola o un nome e la rete restituisce un’infinità di informazioni riguardanti quella parola e quel nome, spesso associati a eventi perduti nel tempo. Si può dire che per la rete, come per Funes, è impossibile “dimenticare”.

È proprio con la nascita e lo sviluppo di Internet che si è posto il problema del diritto all’oblio, cioè di come tutelare l’interesse dell’individuo a che non vengano riproposte vicende ormai superate dal tempo; in altre parole, il diritto di essere dimenticato, a non essere più ricordato per fatti che in passato furono oggetto di cronaca.

Il diritto all'oblio è uno dei molteplici aspetti sotto i quali si manifesta il diritto alla riservatezza e alla protezione dei dati personali.

Diritto all'oblio e diritto di cronaca sono speculari: il presupposto del primo è che l’interesse pubblico alla conoscenza di un fatto è circoscritto in quello spazio di tempo necessario a informarne la collettività, e con il trascorrere del tempo si affievolisce fino a scomparire.

Sommario

Diritto all’oblio e GDPR

Diritto all’oblio vs libertà di informazione e diritto di cronaca

Esercizio del diritto all’oblio: a chi ci si può rivolgere?

Diritto all’oblio e GDPR

Frutto di elaborazione giurisprudenziale prima ancora che normativa, il diritto all’oblio è oggi regolato dall'art. 17 del GDPR (Regolamento UE n. 679/2016 sulla protezione dei dati personali), il quale stabilisce una serie di criteri generali e di eccezioni, che non risultano però di facile comprensione.

L’art. 17 elenca una serie di motivi in presenza dei quali l'interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo (e il titolare del trattamento ha l'obbligo di cancellarli senza ingiustificato ritardo); fra le varie ipotesi, l'interessato può chiedere la cancellazione quando i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o trattati, o quando abbia revocato il consenso al trattamento o i dati siano stati trattati illecitamente.

Tuttavia, sempre l'art. 17 stabilisce che il diritto alla cancellazione non sussiste quando il trattamento dei dati è necessario per soddisfare alcune esigenze; fra queste, per l'esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione oppure a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica.

Al di là di questi principi generali, resta il problema di stabilire quando il trattamento dei dati personali risulta in concreto "necessario" per esercitare la libertà di espressione e informazione o di archiviazione nel pubblico interesse.

L’ultima parola spetta sempre all'interprete, cioè all'autorità (garante privacy o giudice) chiamata a decidere se in una certa vicenda sottoposta al suo esame la persona possa legittimamente pretendere che una notizia che lo riguarda, pur legittimamente diffusa in passato, non resti esposta a tempo indeterminato alla possibilità di nuova divulgazione.

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Diritto all’oblio vs libertà di informazione e diritto di cronaca

Alcune importanti decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte di giustizia dell'Unione europea e della nostra Corte di cassazione hanno contribuito a definire meglio le caratteristiche e le forme di tutela del diritto all'oblio in rapporto al diritto di cronaca e di informazione giornalistica.

Il bilanciamento tra questi due diritti incide sul modo stesso di intendere la democrazia; il pluralismo delle informazioni e della loro conoscenza critica è un pilastro fondamentale della nostra società, la quale d'altro canto non può fare a meno di tutelare i diritti fondamentali della persona umana nelle sue molteplici espressioni.

La giurisprudenza ha da tempo affermato che il diritto di cronaca è legittimo quando ricorrono tre condizioni:

utilità sociale dell'informazione; 

la verità dei fatti esposti (verità oggettiva o anche soltanto putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca);

la forma "civile" dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione, cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire.

Con una sentenza del 26 giugno 2018 la Corte europea dei diritti dell'uomo ha affermato che il diritto all'oblio rientra nell'ambito del diritto alla tutela della vita privata previsto dall'art. 8 CEDU (Convenzione europea dei diritti dell'uomo), mentre la libertà di espressione è garantita dall’art. 10 CEDU.

Il caso riguardava il rifiuto dell'autorità giudiziaria tedesca di imporre a tre testate editoriali telematiche di rendere anonimi le informazioni in rete riguardanti la condanna dei ricorrenti menzionati con il loro nome completo per l’omicidio di un attore conosciuto.

Secondo la Corte dei diritti dell'uomo il rifiuto dell'autorità non contrasta con il diritto alla tutela della vita privata qualora il contenuto delle informazioni online sia di interesse pubblico e purché i media abbiano agito in conformità alla loro etica e deontologia professionale. 

In questi casi nel bilanciamento tra le due opposte esigenze il diritto alla libertà di espressione e alla formazione e conservazione della memoria collettiva devono prevalere sul “desiderio di essere dimenticati” dei ricorrenti.

Nella sentenza del 13 maggio 2014 (caso Google Spain), la Corte di giustizia dell’Unione europea  ha affermato che il gestore di un motore di ricerca su Internet è responsabile del trattamento dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi; così, se a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona l'elenco di risultati mostra un link verso una pagina web che contiene informazioni sulla persona in questione, questa può rivolgersi direttamente al gestore oppure, qualora il gestore non dia seguito alla sua domanda, rivolgersi alle autorità competenti per ottenere, in presenza di certe condizioni, la soppressione di tale link dall’elenco di risultati.

Per l’applicazione dei principi affermati dalla sentenza Google Spain il Gruppo di lavoro “Articolo 29” (WP29 - organismo indipendente con funzioni consultive, oggi sostituito dal Comitato europeo per la protezione dei dati - EDPB), il 26 novembre 2014 ha pubblicato delle Linee guida  (disponibili solo in lingua inglese), nelle quali sono elencati una serie di criteri orientativi per le autorità garanti nazionali chiamate a gestire i reclami riguardanti richieste di deindicizzazione; fra questi criteri (in tutto sono 13), il fatto che il richiedente sia o meno un personaggio pubblico, la minore età dell’interessato, il riferimento alla vita professionale o personale, il collegamento del risultato di ricerca con informazioni che recano pregiudizio o alla persona o alla sua sicurezza ecc.

Nella sentenza del 24 settembre 2019 (caso C-507/17), la Corte UE ha affermato che il gestore di un motore di ricerca non è obbligato a effettuare la deindicizzazione in tutte le versioni del suo motore di ricerca, ma è obbligato a effettuarla nelle versioni del motore di ricerca corrispondenti agli Stati membri; il gestore deve inoltre attuare misure che scoraggino gli utenti di Internet dall’avere accesso, a partire da uno degli Stati membri, ai link contenuti nelle versioni extra UE del motore. In questa occasione la Corte ha ribadito che spetta alle autorità nazionali degli Stati membri (giudici e garanti privacy):

operare il bilanciamento tra il diritto individuale alla tutela della vita privata e alla protezione dei dati personali, da un lato, e il diritto alla libertà d’informazione, dall'altro;

al termine di tale bilanciamento, richiedere se necessario al gestore del motore di ricerca di effettuare una deindicizzazione su tutte le sue versioni.

Sui rapporti tra diritto all'oblio e diritto all'informazione è intervenuta una recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (n. 19681 del 22 luglio 2019); il caso riguardava la rievocazione della notizia di un omicidio avvenuto oltre 25 anni prima, commesso da un individuo che nel frattempo aveva scontato la pena in carcere e si era reinserito positivamente nel contesto sociale.

Secondo la Cassazione, nel contrasto tra questi due opposti diritti, il giudice deve valutare l'interesse pubblico, concreto e attuale alla menzione degli elementi identificativi delle persone che furono protagonisti di quelle vicende. 

La rievocazione di questi elementi è lecita solo se si riferisce a personaggi che suscitino nel presente l'interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà sia per il ruolo pubblico rivestito; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell'onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva.

Esercizio del diritto all’oblio: a chi ci si può rivolgere?

Sul piano operativo, chiunque intenda esercitare il diritto all'oblio può chiedere al gestore del motore di ricerca, quale titolare del trattamento, di rimuovere dai risultati di ricerca associati al suo nominativo le URL che rinviano alle fonti che riportano informazioni ritenute per lui pregiudizievoli.

In caso di mancata risposta o di risposta negativa, il successivo rimedio è il reclamo al Garante Privacy ai sensi dell'art. 77 del GDPR o in alternativa il ricorso dinanzi all'autorità giudiziaria.

Se si sceglie la via del reclamo al Garante, contro la decisione è poi possibile ricorrere all'autorità giudiziaria.

Sono ormai numerose le decisioni nelle quali il Garante Privacy ha preso posizione sul rifiuto da parte dei motori di ricerca di rimuovere dai risultati di ricerca gli URL che rinviano ad articoli online su vicende giudiziarie o di cronaca, del passato più o meno remoto.

Nei suoi provvedimenti il Garante afferma costantemente che, per valutare se il diritto all’oblio sia stato esercitato in modo legittimo o meno, occorre considerare non solo il fattore "tempo trascorso", ma anche gli altri criteri individuati dal Gruppo Articolo 29 nelle Linee Guida che abbiamo appena ricordato.

Il Censurigno.

Il Femminismo.

Le Università.

Il Caso Banfi.

Il Caso Concita De Gregorio.

Il Caso Vannacci.

Il caso Rubiales.

Gli epurati di Hollywood.

La glorificazione dell'ignoranza.

Il Censurigno.

Ecco il romanzo "scorretto" che ispira Papa Francesco. Nel 1907 Robert Hugh Benson descrisse la deriva conformista che si sta materializzando ai giorni nostri. Matteo Sacchi il 15 Novembre 2023 su Il Giornale.

L'ideologia woke, nei suoi aspetti deteriori, e la cancel culture possono sembrare uno sviluppo molto recente della modernità, quasi un'involuzione imprevedibile della cultura occidentale, sacrosanta, dei diritti. Eppure un romanzo edito nel 1907, molto difficile da incasellare in un genere, ma sicuramente con un nocciolo duro di fantascienza distopica, è riuscito a prevedere molti degli aspetti deteriori della cultura omologante e del «bene a tutti i costi» in cui siamo immersi. Si tratta di Il padrone del mondo di Robert Hugh Benson. Un libro balzato all'onore della cronaca qualche anno fa quando venne ripetutamente citato da Papa Francesco. Il Pontefice identificò nel libro di Benson un potente monito contro l'omologazione: «Lo scrittore ha visto questo dramma della colonizzazione ideologica e lo descrive in quel libro».

Allora vale la pena compulsare le pagine di Benson per capire quanto siano profonde le radici dello sgretolamento culturale in cui ci troviamo e come fossero tutt'altro che imprevedibili.

Ma partiamo dall'autore e da quel minimo di biografia che consente di spiegare l'opera. Robert Hugh Benson (1871-1914) era il quarto e ultimo figlio di Edward White Benson, pastore anglicano e Cancelliere della Cattedrale di Lincoln e in seguito arcivescovo di Canterbury, massima autorità della Chiesa d'Inghilterra. Veniva quindi dal livello più alto dell'élite britannica e da una famiglia di ampi interessi culturali. Uno dei suoi fratelli fu un celebre archeologo e scrittore umoristico. Robert studiò a Eton e, dopo aver cercato di entrare, un po' per finta a dir la verità, nell'Indian Civil Service, si laureò al Trinity College di Cambridge dove, a sorpresa, maturò un interesse per la teologia finendo per diventare presbitero della Chiesa anglicana. Ma la vocazione religiosa di Benson non riusciva a trovare nell'orizzonte della Chiesa d'Inghilterra la sua misura. Nel 1903 avvenne una sofferta conversione al cattolicesimo, motivata dal fatto che la Chiesa di Roma era maggiormente universale e molto meno universalista. E nell'universalismo Benson vedeva proprio la scelta di cedere ai valori caratterizzati da una sorta di buonismo vuoto e generico. Insomma, uno svuotamento di senso ammantato di finto umanesimo che se ai primi del Novecento era sotto traccia oggi si vede bene.

E allora cosa c'è nel Padrone del mondo ambientato all'inizio del Ventunesimo secolo? C'è un futuro che in Europa e in Gran Bretagna è diventato molto ovattato. Appartamenti dotati di ogni comfort, politici che mantengono una pace sociale senza scossoni. Le religioni ridotte a un ricordo del passato e sostituite da una sorta di credo civile dove al centro di tutto c'è l'uomo e il suo mero benessere. Tutto è ridotto a unità di produzione e il meglio che ci si possa aspettare dalla fine della vita è una bella eutanasia. Gli spigoli dell'esistenza, quindi, sono stati tutti limati, si parla tutti felicemente in esperanto, quel che conta è non dare mai seguito a convinzioni forti che possano spaccare la società. Tanto più se sono convinzioni religiose.

Ma fuori dall'Europa è cresciuto un Impero d'Oriente di terribile forza militare dove le convinzioni religiose sono tutt'altro che tiepide, anzi danno il via a feroci scontri. In quest'Europa tiepida e perbenino che è cosa ben diversa da per bene, restano due speranze: l'aiuto dell'America e Julian Felsenburgh. Un individuo misterioso che dovunque arrivi riesce a portare la pace, un'adorante concordia materialista. A tutto questo sono sostanzialmente capaci di ribellarsi solo i cristiani, forti della loro tradizione. Verranno spazzati via da Felsenburgh che si rivelerà né più né meno che l'Anticristo. Un finale cupissimo in cui si respira una certa dose di millenarismo cattolico.

Ma al di là della nettissima contrapposizione tra fede e materialismo che anima Benson, quella di cui Papa Francesco ha colto tutti gli echi - è bizzarro che Bergoglio venga sempre sbrigativamente etichettato come un «modernista» - nel romanzo esistono suggestioni che possono far riflettere anche qualsiasi ateo o agnostico (come lo scrivente). Benson con più di cento anni di anticipo ci ha avvisato che se si cancella il passato (nel libro ci sono statue e pezzi di storia rimossi) non si capisce più il presente. Benson ci ha avvisato con cent'anni di anticipo che un'unità europea che non salvaguardi le differenze è solo fragilità. Benson ci ha avvisato che non si può medicalizzare tutto, riducendo l'esistenza a un'insostenibile salutismo che sfocia nella bella morte. Se lo si fa si va incontro al disastro. Soprattutto se ci si trova ad affrontare un pezzo di mondo in cui il radicalismo trionfa o, peggio, se ci si trova ad affrontare dei «profeti» che possono raccontare qualunque cosa perché non c'è riflessione e non c'è memoria, ma solo conformismo ideologico. Anche senza scomodare l'Anticristo, possono essere molto pericolosi. E Benson di ciò ci aveva avvisato in modo più che chiaro. Matteo Sacchi 

Estratto da rivistastudio.com mercoledì 8 novembre 2023.

Nel terzo episodio della trentacinquesima stagione dei Simpson, Homer incontra il nuovo vicino di casa: lo saluta, si presenta e gli stringe la mano. Il vicino gli fa i complimenti per il vigore della sua stretta e Homer, visibilmente inorgoglito, si rivolge alla moglie Marge dicendole: «Visto, Marge, strangolare il ragazzo è servito». Di fronte allo stupore del vicino davanti a una così spontanea ammissione di violenza ai danni di un minore, Homer precisa che strangolare il ragazzo – Bart – è una cosa che ormai non fa più da tanto. «I tempi sono cambiati».

E, in effetti, è da quattro anni che Homer non strangola più Bart, ma il pubblico se ne è accorto soltanto adesso e solo perché lui lo ha fatto presente. Cosa che non ha impedito a quello stesso pubblico – che i Simpson ha smesso di seguirli da un bel pezzo, dati di ascolto alla mano – di scatenare una shitstorm attorno a questa precisazione di Homer.

Gli argomenti sono i soliti: pubblico e commentatori che si lamentano della fine della civiltà occidentale, dell’avvento della “dittatura del politicamente corretto”, della piovra woke che avvolge con i suoi tentacoli ormai il mondo intero, persino Springfield. Una delle gag più vecchie e amate dai fan dei Simpson cancellata per evitare di urtare le fragili sensibilità della Generazione Z, dicono i critici. Peccato che la Generazione Z non guardi i Simpson e peccato che le uniche fragili sensibilità urtate dallo show siano le loro. Come scrive Stuart Heritage sul Guardian, è impensabile che una serie tv che va in onda ininterrottamente da 35 anni non cambi, si adatti, si corregga. […]

Estratto dell'articolo di Luigi Mascheroni per ilgiornale.it mercoledì 8 novembre 2023.

Esiste la finzione, dove ad esempio in un cartone animato un padre strangola il figlio per scherzo; fa ridere e si chiama gag. Poi c'è la realtà, dove qualcuno pensa che se in un cartone un padre smette di strangolare il figlio allora finisce la violenza domestica; anche qui la cosa fa ridere e si chiama stupidità. E poi esistono i Simpson, una serie tv ideata da Matt Groening nel 1987 che è una satira della società americana e dove può capitare che il padre - Homer prenda per il collo il figlio Bart che strabuzza gli occhi in modo grottesco. Scena diventata di culto. Si chiama parodia.

Peccato. Da oggi non la vedremo più. […] Si chiama politicamente corretto. Che, come ha detto una volta un noto filosofo - accademico di chiara fama e di dottrina progressista - «ha rotto i coglioni». 

Adesso papà Homer non scherzerà più con Bart-figlio, facendo finta di strozzarlo. Lo prenderà da parte e gli spiegherà come le nuove generazioni debbano salvare l'ambiente. O tutelare le minoranze. O partecipare a un Gay pride. O scegliere il sesso che preferiscono.

[…]

Le buone maniere. Così il costume diventa uno strumento (sbagliato) della politica. Alain Deneault l'8 Ottobre 2023 su L'Inkiesta.

In un mondo in cui le dispute morali e delle istituzioni anziché studiare le idee, le strumentalizzano. Alain Deneault nel libro “Costumi” (Neri Pozza) ci parla dell’importanza di non subordinare la trattazione dei codici distintivi della società al discorso pubblico di partiti e rappresentanti delle istituzioni 

Al giorno d’oggi le condizioni di possibilità dei costumi, di un mondo comune, di abitudini condivise, di discussioni strutturate sono ormai compromesse. Lo dimostra il numero crescente di dispute ideologiche, identitarie e morali che fin troppo spesso, anziché studiare le idee, le strumentalizzano. I dibattiti morali che attualmente ci agitano condividono un’intelligenza collettiva. Facendo parte dell’evoluzione generale della società, ne rielaborano i costumi. Occuparsi di questi ultimi significa collocarsi in una comunità in quanto possiede pratiche comuni. Significa adeguarsi al modo con cui ci costituisce, cercando a nostra volta di contribuire alla sua evoluzione.

Interessarsene comporta anche distinguere i costumi dalla questione più generale della politica. I costumi riguardano i rapporti sociali immediati, come l’abbigliamento, il modo di essere, il linguaggio quotidiano… La modernità si è costruita su un’elaborazione di questi codici spesso distintivi, anche se non sempre edificanti. La politica ha invece a che fare con questioni globali mediate da concetti e simboli che tengono conto dell’economia complessa delle relazioni comuni. La prima dunque regola le relazioni grezze che abbiamo gli uni con gli altri negli spazi comuni, la seconda le istituzioni, la legge e l’assetto generale delle relazioni sociali.

Pertanto, non si può subordinare la trattazione dei costumi all’affermazione che tutto è politico. Assimilare costumi e politica significa inevitabilmente, con una certa pigrizia, sussumere la seconda sotto i primi: a quel punto, confuse le due cose, la complessa operazione di elaborazione politica consisterà in qualcosa che pensa solo a relazioni immediate, rischiando di cadere nell’aneddoto, misurando ogni cosa in base a rapporti di forza immediati e strumentalizzando il pensiero all’interno di queste congiunture.

Se tutto è politico, non c’è piú politica, ma ritorsioni immediate, di quelle che oggi si subiscono nel mondo digitale e in forma accelerata. Quando diventano scontri, i nostri dibattiti scadono nel moralismo, nella concitazione e nella disinformazione, e questi eccessi, da sinistra come da destra, concorrono a sviluppare un ambiente nocivo. Con la scusa di farli evolvere, si usano i costumi come un vero e proprio vettore di opposizione. Cosí pervertite, le buone maniere non rappresentano piú un modo abituale e consueto di moderare le comunità, ma una legittimazione che i puristi e gli impostori si arrogano per sferrare i loro attacchi. 

Da “Costumi – Dalla sinistra cannibale alla destra vandalica” di Alain Deneault, Neri Pozza, 224 pagine, 20 euro

Quel subdolo tranello in cui sta cadendo il mondo occidentale. Le multinazionali ingrassano nel nome dell'inclusione e dei diritti delle minoranze. E così alimentano un sistema illiberale. Luigi Iannone il 10 Settembre 2023 su Il Giornale.

Le multinazionali, nel nome dell'inclusione e dei diritti delle minoranze stanno attuando la campagna propagandistica più conveniente di tutta la storia recente del capitalismo e imponendo codici di comportamento e regole morali.

Solo qualche giorno fa, Alice Cooper, la 75enne trasgressiva star del rock, aveva espresso contrarietà alla transizione di genere per bambini. In meno di 24 ore l'azienda con la quale aveva un remunerativo accordo di partnership gli ha rescisso il contratto. Non è la prima volta che si verifica un accadimento del genere. Da qualche tempo, infatti, i criteri con cui si giudicano le imprese iniziano ad essere non più solo i profitti e la qualità dei prodotti, ma la credibilità guadagnata dopo aver cooptato e dirottato la missione aziendale sulle cause woke (e dunque: identità di genere, Schwa, bagni gender neutral, teorie queer, intersezionalità, transfemminismo).

Si tratta di una nuova declinazione del capitalismo che non coglie più di sorpresa. Molte di esse sono aziende trasformatesi in vere e proprie concentrazioni di potere politico con l'obbligo esclusivo di incidere nella organizzazione della società e nell'immaginario. Carl Rhodes in Capitalismo woke (Fazi, pagg. 314, euro 20) ricostruisce la storia di questo fenomeno esaminando in maniera minuziosa una cospicua serie di strategie aziendali che avanzano nel solco del politicamente corretto e di un dogmatismo intollerante e che impegnano ogni forza in campagne pubblicitarie strategicamente «orientate».

Ormai, terrorizzati dai danni di reputazione causati da dichiarazioni «incaute» o da posizioni politiche non allineate, si contano a decine i casi di proprietari che organizzano rappresaglie verso chi si muove in ostinata direzione contraria, siano essi operai o manager di primissimo piano. Rhodes li cita uno ad uno. Goldman Sachs che adotta la neolingua obbligando i dipendenti ad usare un linguaggio neutro, gli spot di Gillette contro la mascolinità tossica, la durissima battaglia della Disney contro la legge della Florida che ostacolava l'insegnamento sull'identità di genere nelle scuole, i miliardi di dollari donati da Jeff Bezos (Amazon) per la lotta al cambiamento climatico, le cospicue sponsorizzazioni a movimenti di massa come Me Too e Black Lives Matter, le ingenti donazioni filantropiche scaltramente progettate per attrarre i millennial e migliorare il brand dell'impresa.

Ma dove nasce questo fervore giacobino? Innanzitutto, da calcolo utilitario e quindi ipocrita, in modo da favorire un forte e positivo effetto di immagine e di ricadute in termini di consenso e di introiti. Inoltre, da presupposti storici. Rhodes fa derivare l'odierna deviazione woke da radici antiche: dalla filantropia del primo novecento e dalla idea di «responsabilità sociale delle imprese», tema di dibattito nell'America di metà Novecento. Solo che, negli ultimi anni, dalla responsabilità si è passati all'ossessione furbesca per l'egemonia culturale e la giustizia sociale si è convertita in moralismo. Non sono dettagli di poco conto perché, oltre ciò, entra anche in gioco la finzione pubblica e le evidenti ricadute sui processi democratici (il sottotitolo del libro è: Come la moralità aziendale minaccia la democrazia). Siamo infatti di fronte ad accadimenti inconsueti e di portata radicale. L'azione legislativa non tende più a presupporre preventive discussioni da parte dei cittadini, e quindi dei parlamenti nazionali, ma è sempre più frequentemente istigata da questo mondo a cavallo tra grandi imprese e finanza che, grazie ad immense risorse, indirizza il dibattito (spesso contro la dichiarata volontà popolare della maggioranza) ed espone al pubblico ludibrio chi la pensa in modo diverso.

Per Rhodes, il capitalismo woke non è null'altro che una strategia di conservazione dello status quo. Le aziende, dando per scontato che lo Stato abbia fallito il proprio compito storico e che i governi paiono quasi del tutto privi di forza nell'affrontare queste sfide, valuterebbero corretto surrogare la politica e, al contempo, adottare una comunicazione con l'obiettivo unico di inculcare determinati valori. L'impressione è che però egli legga solo una parte del problema e, come nota anche Carlo Galli nella prefazione, critichi il capitalismo woke non perché le campagne che sponsorizza siano sbagliate, o perché faccia politica invece che profitti, né perché sia poco coerente, ma perché rappresenti una funesta degenerazione delle forme politiche occidentali e la fine della distinzione tra politica, società e terzo settore; di conseguenza, quasi incorrendo in una malcelata nostalgia del bel tempo andato che andrebbe solo emendato da qualche abbaglio.

Rhodes, infatti, non è pregiudizialmente contro il capitalismo woke perché non ne coglie la potenza simbolica e la pericolosità sociale, e perché lega le eventuali soluzioni ad azioni di carattere partitico e legislativo come l'aumento delle tasse sulle grandi imprese. Ma proprio in questo senso resta impantanato (e lo dichiara apertamente!) nell'alveo di quel fronte progressista che, pur rimasto spiazzato dal nuovo modello cultural-economico, identifica se stesso come soluzione.

Perde dunque completamente di vista il fatto che siamo di fronte a un inedito e ad una mistura di fenomeni. Il Pensiero Unico, di cui il wokeismo è il presupposto, è in realtà un'ideologia radicale capace di attrarre consensi a destra e a sinistra in maniera indiscriminata e di soprintendere sia al progressismo che alla versione 2.0 del capitalismo, dal momento che entrambi si rafforzano reciprocamente, senza perdere di significato e autorevolezza.

Un conformismo nichilista che riesce a saldare ogni cosa all'interno di un inedito sistema di credenze e di valori di cui il progressismo culturale aspira a reggere le sorti e a indirizzarne l'agenda. Il wokeismo è decollato come una rivendicazione positiva - «essere all'erta sulle ingiustizie» - ed è diventato un movimento illiberale nel cui tranello sta cadendo l'intero Occidente.

Estratto dell’articolo di Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” sabato 30 settembre 2023.

Il fatto stesso che noi si debba riferire la notizia indica irreversibilmente che questa paranoia delle élite nota come Cancel Culture ha vinto, si è fatta discorso comune. Proprio per questo, non ci resta che […]  la compilazione di una cronaca che è comica e grottesca in sé, avendo la realtà da tempo stracciato la fantasia in nome della sur-realtà quotidiana. 

Ultimo serissimo dibattito che sta turbando la comunità scientifica internazionale, ospitato sull’ autorevolissima rivista Focus, che per l’occasione pare trasformarsi in un inserto satirico del gruppo Gedi: «È giusto cambiare i nomi politicamente scorretti di certi animali?».

[…] la notizia l’aveva riportata qualche giorno prima anche l’iper-autorevolissima Science. Quindi, tocca soffocare ogni residuo orrore di sé, e riferirvela. […] Una pletora di scienziati (zoologi, biologi, tassonomisti) si è preso l’ultimo numero dello Zoological Journal della Linnean Society, la maggiore associazione mondiale di storia naturale fondata nel 1788 con prestigiosa sede londinese a Piccadilly, per inaugurare la caccia agli insetti nazifascisti. 

No, non a un ricostituendo gruppo di Ss, proprio a organismi invertebrati a forte sospetto di deviazione ideologica. L’Anophthalmus hitleri, ad esempio. Trattasi di rarissimo coleottero delle caverne, che vive solamente in alcune grotte della Slovenia centrale (perlomeno dalla sconfitta del 1945 in poi, immaginiamo). 

L’animaletto venne identificato negli anni Trenta dal naturalista austriaco Oscar Scheibel, evidentemente ammiratore incontenibile del conterraneo dittatore, tanto da dedicargli la scoperta. Il Fuhrer apprezzò, addirittura inviò allo scienziato estimatore una lettera di gratitudine.

Pare che il coleottero non si sia nemmeno dissociato da essa, per cui urgono davvero provvedimenti riparatori. Un’altra specie di insetto, nota come Rochlingia hitleri per analoghi motivi biografici dei suoi studiosi, non può invece dissociarsi nemmeno volendo, essendo vissuta circa 300 milioni di anni fa e quindi ampiamente estinta, probabilmente in un bunker nei pressi di Berlino. 

I censori della natura, coerentemente con la propria impostazione orwelliana, vorrebbero in ogni caso cambiarle nome (parecchio) retroattivamente: la biologia, come la storia in 1984, è «un un palinsesto che può essere raschiato e riscritto tutte le volte che si vuole». 

Ma nella coraggiosa denuncia di questi sciroccat... pardon, scienziati, c’è anche del materiale che smuove la nostra coscienza nazionale. È infatti tutt’ora prevista nella classificazione la Hypopta mussolinii, una specie di farfalla libica (chiaramente squadrista e colonialista) scoperta ai tempi dell’occupazione italiana da qualche studioso non particolarmente critico col regime.

Dopo l’articolo di Focus, ci aspettiamo un’intemerata a tutta pagina di Saviano sul lepidottero che dimostra la perenne “vocazione” nera degli italiani, una raccolta firme di Micromega contro la tassonomia fascista (ché sarebbe anche una buona idea per provare a salvare la rivista della gauche a rischio chiusura), quantomeno un’assemblea permanente del Pd presieduta da Elly in persona per valutare le opportune iniziative contro la deriva zoologico-autoritaria (non si esclude nulla, Aventino compreso). 

[…]  Noi scherziamo, i dotti psicopoliziotti del linguaggio scientifico purtroppo no, come ha spiegato uno dei più agguerriti, tal Kevin Thiele, professore della University of Western Australia […]: «Crediamo che la scienza debba essere socialmente responsabile e responsiva» […]. Spiegone: «La scienza è inserita nella cultura piuttosto che essere ospitata in torri d’avorio e gli scienziati dovrebbero lavorare per il bene comune piuttosto che seguire ciecamente la tradizione».

Ci ha convinto, aspettiamo da un momento all’altro il Manifesto degli Entomologi Antifascisti, con tanto di lista di proscrizione partigiana delle specie da mettere al bando in nome del “bene comune”. Dopodiché, possiamo pure spegnere le luci dello Zelig politicamente corretto, fare di meglio sarà difficile.

Non si può più dire niente: come funziona la dittatura del politically correct nei media.  Martina Piumatti il 28 agosto 2023 su Inside Over. 

Abbatte statue, censura favole, riscrive la Storia. Epura scrittori, professori, scienziati, comici non in linea con i suoi dettami. La mannaia del politically correct non risparmia nessuno. Nemmeno i giornalisti. Alfieri della nuova “religione” laica o vittime sacrificali, e sacrificabili, quando osano non essere conformi.

L’autocensura politicamente corretta che ha travolto i media progressisti americani culmina nel 2020, dopo l’omicidio dell’afroamericano George Floyd per mano della polizia. E non si ferma. Quello – dice Ruy Teixeira, politologo e fondatore di “The Liberal Patriot” – è servito solo come esempio del “razzismo strutturale” dell’America a “supremazia bianca”. “Le élite progressiste e le loro istituzioni si sono affrettate ad abbracciare l’idea che la razza sia il motore principale della disuguaglianza sociale e che tutti i bianchi debbano essere visti come privilegiati e tutte le “persone di colore” come oppresse”. Da risarcire per secoli di soprusi. Anche quando delinquono. Una narrazione con cui è vietato dissentire, altrimenti si è fuori. 

Le teste che cadono sono tante e sono tutte illustri. A cominciare da James Bennet, capo della sezione “opinioni” del New York Times, costretto a dimettersi per aver pubblicato un editoriale del senatore Tom Cotton, favorevole all’impiego dell’esercito contro le frange violente delle rivolte pro neri che stavano devastando mezza America. Ad essere fatale a Stan Wischnowski, caporedattore del Philadelphia Inquirer, è un titolo: “Buildings Matter, Too” (anche gli edifici contano, ndr), che fa il verso a “Black Lives Matter”, vessillo delle rivendicazioni antirazziste.

Una lettera contro la cancel culture, firmata dalla giornalista del NYT Bari Weiss, segna la sua condanna. Assunta nel tempio del progressismo per riequilibrarne gli eccessi perché di centro-sinistra, si è dimessa stremata dal “clima tossico” di una redazione che per essere “inclusiva” bullizza a colpi di tweet (“razzista”, “nazista”) chi non si prostra alla “nuova ortodossia” liberal. Donald G. McNeil, giornalista scientifico di punta, sempre del New York Times, viene linciato per una parola detta (l’epiteto tabù per eccellenza “nigger”), ignorando contesto e intenzioni dell’”oltraggio”. Si dimette. E questi sono soltanto i casi che hanno fatto più rumore riguardanti la questione razziale, sentita negli States più che altrove.

Autocensura ed epurazione dell’’”eretico” sono la norma anche quando si toccano le altre categorie “santificate” dall’ideologia woke (propria di chi si è risvegliato, woke in inglese, ed è consapevole dei propri privilegi e pregiudizi razziali da espiare): donne, appartenenti alla comunità LBGTQ+, disabili, migranti. Il punto di vista deve essere uno solo: a favore, incondizionato e acritico. Pena: la gogna. Che addita e fa terra bruciata attorno ai dissidenti, dall’ondata di purghe inflitte dalla dittatura del politically correct.

In un panorama mediatico in cui “il dibattito – dice Michael Lind, giornalista e cofondatore del think tank New America – è stato sostituito dall’assenso obbligatorio e le idee sono state sostituite da slogan che possono essere recitati ma non messi in discussione”, ad essere via via sacrificata è l’obiettività giornalistica. Al punto che un fatto diventa notizia se avvalora la narrazione woke, altrimenti viene bannato.

È il caso, sollevato da Federico Rampini in “Suicidio occidentale”, del giovane ricercatore piemontese Davide Giri, ucciso a New York da un pregiudicato afroamericano appartenente a Ebk, una delle gang più feroci del Queens. La notizia, nonostante la rilevanza, viene censurata dal New York Times perché stona con la retorica antirazzista sposata dalla testata. “L’interesse del quotidiano e il vigore investigativo messo in campo – scrive Rampini – sarebbero stati diversi se le parti fossero state rovesciate. Se cioè la vittima fosse stata afroamericana e l’omicida un bianco; […]. La tragedia sarebbe finita in prima pagina”.

Anche il principio dell’obiettività alla base di ogni giornalismo credibile si immola in nome del “grande risveglio” e diventa “un concetto problematico che ha contribuito a emarginare i giornalisti non bianchi, escludendo le comunità di colore e nascondendo strutture di potere che giustificano lo status quo”.

Ora, però, la dittatura del politically correct sembrerebbe mostrare qualche crepa. Molti si sono resi conto che gran parte di ciò che facevano per compiacere l’ideologia woke non aveva senso, o era dettato più dalla paura di essere epurati che da una reale convinzione. Non solo. “È diventato sempre più ovvio – nota Teixeira – che le persone che dovrebbero beneficiare del “risveglio” collettivo non sono d’accordo con alcune delle iniziative correlate”. Dalla campagna “Defund the police” per tagliare i fondi stanziati per la polizia (non apprezzata dagli elettori neri delle comunità infestate dalla criminalità) all’appello del giornalista afroamericano del Wall street journal Jason Riley, che ci ha scritto un libro: “Per favore, smettetela di aiutarci: come i liberali rendono più difficile il successo dei neri”.

Se il “picco del wokismo” pare passato almeno nella società, qualcosa si muove anche nel contesto di “morte cerebrale” del giornalismo Usa, polarizzato tra woke a tutti i costi e no woke a prescindere. “Ciò che sopravvive – rileva Lind – oggi è costituito da un numero crescente di esiliati su Substack dal wokismo dell’establishment e da un numero crescente di dissidenti di sinistra, conservatori e populisti, alcuni dei quali si sono riuniti in nuove pubblicazioni come American Affairs, Compact, The Bellows, o più stravaganti come Tablet”.

Il cambio di passo si avverte anche negli avamposti della battaglia progressista. La Cnn, per smarcarsi dalle accuse di essere di parte e tornare a un approccio più obiettivo, si sta ricalibrando con programmi e conduttori spostati più al centro. Mentre The Atlantic ha pubblicato un articolo che mette in crisi uno dei dogmi della crociata liberal contro le parole: non ci sono prove – si legge – che un termine considerato “equo” o “offensivo” lo sia anche per quelle categorie che si vogliono tutelare. La conferma arriva da Ruben Gallego, membro democratico del Congresso: “Quando noi politici latini usiamo il termine “latinx” (scelto dai liberal per definire gli americani di origini latine, ndr) è in gran parte per compiacere i progressisti ricchi e bianchi convinti che lo usiamo anche tra di noi”. 

Se il fervore politically correct sembra perdere i colpi, la guerra alla cultura woke non tira più neanche a destra, dove è chi punta sul tema sicurezza a guidare i sondaggi. Tutti segnali che in America, con la campagna per le presidenziali in corso, ci penserà la paura di perdere consenso a smorzare l’ideologia. Della politica, e dei media. MARTINA PIUMATTI

«Come non parlare di stupro in televisione: la mia esperienza di ospite in un programma Rai». Valentina Mira è una giornalista e scrittrice. È stata intervistata da Filorosso su Rai 3 per parlare del suo libro sulla violenza sessuale. E spiega come si sia cercato di manipolare il suo intervento per giustificare una narrazione centrata sulla pornografia del dolore. Valentina Mira su L'Espresso l'8 settembre 2023.

Questo intervento è stato pubblicato in origine su Valigia Blu, che ringraziamo.

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Se si parla di giornalisti e stupro, la prima cosa da dire è che i giornalisti stuprano. FNSI, Federazione Nazionale Stampa Italiana, 2019: esce un rapporto che rileva che l’85% delle giornaliste aventi contratto (senza contare dunque le precarie, più ricattabili ancora) ha subito molestie da capi o da colleghi. Non solo il dato è fuori scala, anche in rapporto agli altri ambiti lavorativi (che contano il 50% di molestie), ma alla presentazione dello studio all’ordine dei giornalisti di Roma, in presenza del responsabile di uno sportello creato ad hoc, Stefano Romita, e di colleghe come Tiziana Ferrario, si menzionano tra le testimonianze anonime anche dei casi di stupri veri e propri avvenuti nelle redazioni. Ero presente, e in quel momento lavoravo per un giornale in cui i ricatti sessuali e la manipolazione erano all’ordine del giorno, anche nei confronti di persone con disabilità - che, tuttavia, hanno saputo difendersi meglio di altre, compresa me, fuor di stereotipo. 

Questa introduzione per dire che, se i giornalisti sono i primi a molestare e stuprare, non possiamo sorprenderci per le modalità sessiste che vengono scelte di continuo per parlare di violenza di genere. Se i 7 denunciati per stupro di Palermo si riferivano a sé stessi come a dei “cani”, il first lady Andrea Giambruno parla di “lupi”: ne riprende le parole e le nobilita. 

Dire che quella è una metafora da stupratori è un fatto. Dire che se una donna beve non può sorprendersi se viene violentata è un ragionamento violento. Come tante, anch’io in queste settimane ho provato del dolore fisico (Tlon ha parlato, non a torto, proprio di “corpo di dolore”) nel sentire come venivano raccontati svariati casi di violenza di genere. Con eminenti eccezioni, tra cui proprio Valigia Blu. Tante le cose che non vanno bene nella narrazione della vicenda di Palermo e di quella di Caivano, così differenti, così accumunate dalla voglia di capri espiatori. La mostrificazione dei protagonisti e del loro contesto, l’antimeridionalismo (una forma di razzismo, niente di nuovo dal modo di trattare gli omicidi di Pamela Mastropietro e Desirée Mariottini), l’idea che siano eccezioni. Il Bronx. I lupi. 

La bonifica. La scelta di Giorgia Meloni di presentarsi a Caivano usando proprio questa parola d’ordine, “bonificheremo”, lei che è erede dell’MSI (Movimento Sociale Italiano), che a sua volta fu erede del PNF (Partito Nazionale Fascista), è un ammiccamento molto chiaro a una parte politica che vorrebbe poter fare saluti romani en plein air. Il problema? Li fa già, e se li chiami fascisti ti fa anche causa, vincendo. È successo all’editore Mattia Tombolini, di Momo edizioni, una casa editrice che chi ha avuto la fortuna di conoscere sa che perla rara sia nel sistema librario italiano: lo ha denunciato un sindaco che appartiene esattamente a quella parte politica, che i saluti romani li postava perfino sui social. 

La scelta della parola “bonifica” da parte del Presidente Meloni non è solo un ammiccamento a ciò che non vogliono che si nomini, ma ha un altro leggerissimo problema: se Mussolini la usava per parlare di paludi, lei la usa per parlare di persone. Che la violenza di genere intersecata ad altri problemi (in termini di lavoro, di possibilità, di trovare forme di aggregazione che non siano la chiesa o le cose da cui si propone di salvarti, compreso PornHub) si affronti militarizzando a favor di telecamere i posti e non con cura e intelligenza, con dei piani a tutto tondo che nascono dalle esigenze dei cittadini, senza sovradeterminarli come fossero dei bambini cattivi da punire, è uno dei tanti danni che questo governo sta facendo. 

È in questo contesto che ho deciso di dire di sì all’invito fattomi dalla trasmissione Filorosso su Rai3, con il tramite di un autore della stessa casa editrice con cui è uscito il mio primo libro, X. Carmine Gazzanni si sarebbe dovuto occupare di un servizio in cui intervistava chi con le persone uscite da situazioni di violenza lavora, e anche alcune di loro. Lo ha fatto, e conoscendo il suo tipo di giornalismo, l’ha fatto magistralmente. Il servizio non è mai andato in onda. Mentre veniva deciso che la voce delle donne vittime di violenza non era quella che interessava, come donna vittima di violenza intervistavano me. Il modo in cui è andata questa esperienza - che annovero nella top ten delle cose più spiacevoli che mi sono capitate nella vita - grida vendetta, per cui, invitata da Valigia Blu, di cui da sempre apprezzo puntualità e professionalità, ho pensato che fosse una buona occasione per parlare liberamente, senza tentativi di mettermi a tacere (di nuovo). 

La condizione che avevo posto alla trasmissione, anche sentendo la mia agente letteraria, era di non essere presentata come una vittima ma come una scrittrice. Avevo inoltre informato - e visto che sono malfidata, ribadito direttamente alla conduttrice in sala trucco - che sono una collega. Anch’io lavoro nel giornalismo, peraltro proprio per un’emittente pubblica, come lei: nel mio caso si tratta della Radiotelevisione svizzera. Oltre a scrivere per il Fatto Quotidiano, e averlo fatto per 14 anni su una quantità gigantesca di giornali (tra i più noti, Manifesto e Corriere della Sera). La famosa gavetta, che sembra evitabile a chi punta sull’assecondare giochi di potere, io l’ho fatta tutta. Mentre lavoravo mi laureavo in Giurisprudenza. Questa premessa per dire che io e Manuela Moreno siamo colleghe. Che sono una professionista che lavora nel suo stesso settore. Quindi le modalità con cui si è svolto qualcosa che avevamo concordato non sarebbe avvenuto (pornografia del dolore e rivittimizzazione, infantilizzazione) sono ancora più spiacevoli. 

Ora vi racconto la Rai che prova a costringere, stavolta non riuscendoci, una professionista a entrare in uno stampino a forma di vittima. A che pro? Assurgere al suo ruolo nel teatrino presepico di una puntata interamente ambientata a Caivano, in cui ognuno doveva servire a legittimare le politiche di governo. C’erano varie attrici, vari giornalisti, Vittorio Sgarbi a piedi nudi, Elsa Fornero, il prete più famoso d’Italia, e una decina di liceali di Caivano (a differenza di Sgarbi, erano vestiti eleganti, peccato che li abbiano fatti sedere per terra, più funzionali a una coreografia non decisa da loro, che prevedeva anche che la conduttrice li raggiungesse a più riprese, maternalistica, sedendosi al loro fianco e strumentalizzandone le parole quando interpellati). 

Prima del mio turno ha parlato Francesco, uno di loro. Ha detto cose giuste: si è rifiutato - con grande maturità - di rispondere alla domanda sulla sua “storia difficile” (in sostanza ha schivato la pornografia del dolore), e ha detto che tende a non fidarsi. Questo è diventato qualcosa che “lo rende unico” (parole della conduttrice): un ragazzo che dice di non fidarsi di nessuno, “unico”. Certo, la narrazione dell’eccezionalità. Sempre funzionale alla mostrificazione. Francesco faceva bene a fidarsi ancora meno. E anche io. Dopo di lui è arrivato il mio turno. La coreografia prevedeva che io fossi seduta su una panchina rossa, perché se dall’altra parte ci sono i lupi era importante sottolineare che questa - io - doveva essere Cappuccetto Rosso. Sono stata presentata come “Valentina”. Solo Valentina. Nessun cognome. Nessuna identità. X. 

“Voglio introdurre Valentina” - pausa a effetto - “Valentina è una ragazza molto timida, quindi cercheremo di parlare insieme, ma datemi una mano anche a supportarla”. In un colpo ero diventata: Valentina (priva del cognome, una per rappresentarle tutte, una per rappresentare la vittima perfetta, lacrimevole e funzionale, speravano). Una ragazza (ho quasi 33 anni, qualche ruga, qualche capello bianco che copro tingendoli, sono una donna). Molto timida e bisognosa di supporto dal pubblico. E sì che timida lo sono, ma non pensavo potesse sostituire il mio cognome e la mia professione. Nemmeno pensavo di avere bisogno di supporto per parlare, visto che ho fatto un centinaio di presentazioni del mio libro nei contesti più disparati, non solo in Italia ma anche in Svizzera e in Germania. 

La conduttrice continua: “Per la prima volta in esclusiva con noi racconta la sua storia”. Io non ho mai detto che avrei raccontato la mia storia. E non c’è alcuna esclusiva. Il libro è uscito due anni fa. La mia storia pubblicamente l’ho raccontata lì, quello era lo spazio che ritenevo degno della complessità che riguarda la violenza di genere, non un quarto d’ora in televisione. Quarto d’ora che si ridurrà della metà (8 minuti, per l’esattezza). La conduttrice vede poi il libro sulla panchina e ricorda magicamente che ho un cognome. Non dice comunque il titolo del libro. Dice tuttavia che “ci torneremo tra un attimo”. Spoiler: non lo farà mai. Non si parlerà di libri. È sangue che vogliono: il mio. Nel documento che mi ha mandato la persona della Rai che ha letto il libro in quella redazione per preparare le domande, ci sono persino dei suggerimenti per le risposte. Una di queste? Si legge: sangue. 

Non gliene darò neanche una goccia. 

Nella trasmissione si dimostrano più interessati a scoprire se scopo oppure no (“è stato difficile amare dopo?”) che a fare informazione. Come se fosse rilevante ai fini del racconto di più di 40mila stupri l’anno, solo qui in Italia. Ma non sono andata impreparata. Sapevo che avrebbero provato a rendermi Cappuccetto Rosso (l’aveva già fatto due anni fa, a Cartabianca, Bianca Berlinguer con Luce Scheggi, dal vivo persona straordinaria, la cui presenza è stata sprecata e vessata con domande rivittimizzanti, inutili, poste in modo aggressivo). Se proprio mi tocca fare Cappuccetto Rosso, mi ero detta sapendo, meglio fare come quella della storia di Roald Dahl, che tira fuori la pistola e si difende da sé.

Insomma, per farla breve. L’intervista prevede domande come: 

Qual è il ricordo più difficile di quella sera? (La sera dello stupro, chiaro).

Voglio sapere cosa è rimasto dentro di te a distanza di tempo: è una ferita ancora aperta?

È stato difficile amare dopo? 

Visibili online sono anche i due tentativi di invadere perfino il mio spazio fisico. Vengo invitata a mostrare la mano dove ho un tatuaggio, e dalla mia faccia stavolta emerge tutto l’imbarazzo conto terzi del suo trattarmi come una bestia allo zoo. La telecamera indugia sulle mie mani - cosa che avevo, anche questa, posto come condizione di ciò che non doveva succedere, e l’avevo fatto proprio parlando del trattamento che era stato riservato a Luce Scheggi. Il fatto che io abbia frequentato per qualche tempo proprio la Scuola di giornalismo della Rai, quella di Perugia, prima di abbandonarla un anno prima, fa sì che io sia stata edotta su queste tecniche. Anche il pubblico dovrebbe esserlo, quindi ecco qui cosa insegnano: inquadrare le mani della “vittima”, della persona che sta raccontando una storia “toccante”, zoomare sul viso in caso di lacrima. Il problema è che io non stavo raccontando nessuna storia “toccante”. Stavo portando dati, statistiche, parlando di sentenze, di leggi. Ho rifiutato ogni domanda personale con gentilezza ferma. Avrei voluto poter parlare senza essere interrotta con aggressività ogni tre secondi, ma sono rimasta su quella strada, quella del fare informazione: lo vedi, nonna, Cappuccetto Rosso non si perde mica. Va a vedere che il lupo sei proprio tu, nonna. La vecchia Rai che prova a condurti dove non vuoi. 

Verso la fine di questi pochi minuti a trattenere il fiato per dire più cose possibile, perché ogni parola che sfonda la barriera televisiva arriva a più gente e a quelle come me non è mai dato rompere il silenzio senza rischi, la conduttrice mette la sua mano sulla mia. La tolgo evitando moti di stizza troppo evidenti: ho scelto di essere elegante, oggi. Cerca un innecessario contatto fisico dopo che, alla fine di questa apnea, dico che “sono un po’ agitata in questo momento”. Quello che intendo - e dai messaggi ricevuti in privato, direi che il pubblico l’ha capito molto bene - è che mi rode il culo. Nessuno vorrebbe essere trattato così, e far pensare che è questo il modo in cui trattare una persona a cui, ieri o dieci anni fa, qualcuno ha fatto violenza, è il peggior disservizio che si possa dare alla collettività che, ahinoi, è obbligata anche a pagare per vedere una delle sue tante rappresentanti trattate in questo modo. Da una donna. Sembra che il marchio della Rai voluta da questa maggioranza sia regalarci un bel po’ di violenza, ma mascherandola con affettazione materna. Peccato che io una madre ce l’abbia già, e che anche lei sia disgustata dal trattamento riservato a sua figlia. 

Invito tuttavia a guardare il video voi stessi, valutando ogni domanda per quella che è, ogni interruzione, il tono aggressivo, la rimozione del mio cognome e della mia professione, della mia identità, l’impreparazione della conduttrice che ho dovuto correggere un attimo dopo rispetto a un commento ignorante sui dati, l’uso invadente delle telecamere. Tacerò della trasmissione nel suo complesso, sperando che una volta cresciuti, o prima, i ragazzi strumentalizzati abbiano la fortuna di incrociare persone che non hanno nessuna intenzione di farli passare per “eroi” o per dei poveretti con una storia “unica”. Quando la conduttrice ha detto che magari Francesco, uno di loro, poteva aver ragione a non fidarsi degli adulti: quello è stato un raro attimo di verità. Se gli adulti osano trattare così altri adulti, dai minori dovrebbero essere solo tenuti a distanza.

Il Bestiario. Lo Shockigno. Lo Shockigno è un animale leggendario che si scandalizza se sente dire da un famoso musicista che “un uomo è uomo e una donna è una donna”. Giovanni Zola il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.

Lo Shockigno è un animale leggendario che si scandalizza se sente dire da un famoso musicista che “un uomo è uomo e una donna è una donna”.

La frase incriminata che ha scioccato lo Shockigno e tacciata di violenza inaudita è stata pronunciata da Carlos Santana durante un suo concerto: “Quando Dio ha creato me e te, prima che uscissimo dal grembo materno, sapevamo chi e cosa eravamo. Poi, quando cresci, vedi le cose del mondo e inizi a credere che potresti essere qualcosa di diverso che ti suona bene, ma sai che non è giusto, perché una donna è una donna e un uomo è un uomo. Ed è tutto. Poi qualunque cosa tu voglia fare a casa tua, sono affari tuoi, a me sta bene”.

Si sa, lo Shockigno è un essere mitologico che nega l’evidenza dando prova di grave instabilità mentale. Ne è dimostrazione il fatto che alcune specie di Shockigno si possono avvistare nella stagione degli accoppiamenti in branchi numerosi agghindati con costumi pittoreschi, avvolti da piume o travestiti da animali domestici senza targhetta al collo per rivendicare lo spirito ribelle.

Allo Shockigno vengono le bolle cutanee anche solo all’idea che dal punto di vista squisitamente anatomico uomo e donna siano diversamente unici e con attributi specifici. Questo accade anche nel mondo animale più evoluto e l’unica eccezione la si può trovare nella rappresentazione umana della Barbie e il Ken che infatti, per le loro caratteristiche fisiche, sono costretti a rimanere amici.

Lo Shockigno rabbrividisce al solo pensiero che un figlio possa nascere unicamente da un uomo e da una donna, sebbene perfino la scienza degli esperti non riesca a dimostrare il contrario pur avendo fatto scontrare al Cern di Ginevra ovuli contro ovuli e spermatozoi contro spermatozoi alla velocità della luce. Niente, neanche davanti all’evidenza scientifica lo Shockigno si converte all’evidenza. Eppure crede che siamo prossimi alla fine del mondo a causa del cambiamento climatico causato dai peti delle mucche d’allevamento (quelli degli ippopotami invece sono salubri).

La vita dello Shockigno è davvero difficile. Privatosi della logica elementare, va in panico al ristorante quando gli chiedono di scegliere tra un’acqua liscia o gasata, se utilizzare la doccia o la vasca da bagno, se decidere tra le vacanze al mare o in montagna. Non lo invidiamo proprio lo Shockigno, noi retrogradi medioevali che preferiamo il bene al male, il vero al falso e il calcio maschile a quello femminile.

Il Bestiario, il Censurigno. Il Censurigno è un animale leggendario che, se fosse riuscito ad approvare la “Legge Zan”, avrebbe condannato all’ergastolo il Generale Vannacci. Giovanni Zola il 24 Agosto 2023 su Il Giornale.

Il Censurigno è un animale leggendario che, se fosse riuscito ad approvare la “Legge Zan”, avrebbe condannato all’ergastolo il Generale Vannacci.

Il Censurigno è un essere mitologico di cui si sottovaluta la pericolosità in quanto il suo veleno può essere potenzialmente letale. Non tutti ricordano il dibattito sul Censurigno che fece il possibile per avviare una legge che introduceva il "reato di opinione" se ritenuta discriminatoria nei confronti delle scelte sul sesso, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. Per quanto riguarda le pene, il Censurigno prevedeva, con la “Legge Zan”, la reclusione fino 18 mesi o una multa fino a 6.000 euro per chi avesse commesso o istigato a commettere atti di discriminazione, il carcere da 6 mesi a 4 anni per chi avesse istigato a commettere violenza. All’epoca del dibattito sulla “legge Zan”, forse in pochi compresero la portata devastante della norma se fosse stata approvata, ma le polemiche sul libro “Un mondo al contrario” del Generale Vannacci gettano luce su una legge liberticida.

Immaginiamo che le affermazioni del Generale vengano ritenute la causa di atti discriminatori e dunque perseguibili. L’opinione del Generale che l’omosessualità debba essere del tutto lecita, ma rimanere relegata alla sfera della sessualità e non entrare in quella della famiglia gli potrebbe costare un bel 6mila euro di multa di avvertimento. Ma il Generale non ci sente e rincara la dose e si interroga sul carattere di “normalità” e “naturalità” dell’omosessualità. Afferma che per calcolo statistico si possa appurare che l’omosessualità non sia la norma, ma che costituisca una eccezione ed inoltre che l’omosessualità, pur essendo presente in natura, è assente come modello familiare. Il Censurigno, che lo aveva avvertito con la precedente multa, questa volta decide di punirlo con 18 mesi di galera. Il Generale, che è un duro, non si piega e dalla sua cella, descrive l’azione di una lobby per diffondere e normalizzare le pratiche omosessuali, con obiettivo finale i matrimoni e la genitorialità. Il Censurigno perde la pazienza, decide che tali affermazioni siano state la causa di un atto di violenza di un balordo nei confronti di una coppia di omosessuali e condanna ad altri 6 anni il Generale Vannacci che si è permesso di esprimere, giusta o sbagliata che sia, la propria opinione.

Quindi non fidatevi del Censurigno e quando un giorno tornerà a proporre leggi Zan, non pensate che siano innocue, perché l’opinione che non piace al Censurigno potrebbe essere la vostra.

Enrico Mentana, schiaffo ai buonisti: "Chi sono i migliori alleati del generale Vannacci". Libero Quotidiano il 05 settembre 2023

Enrico Mentana inchioda i "buonisti" che il direttore del TgLa7 definisce "ultras". "I migliori alleati di tutti i generali Vannacci del mondo sono gli ultras che vorrebbero impedire a Polanski, Woody Allen e Luc Besson di presentare i loro film alla mostra di Venezia", ha scritto Mentana sui suoi canali social. Il direttore ha quindi proseguito con dei parallelismi: "Come era stato vietato ai ministri di parlare nelle fiere dei libri, alle televisioni di mandare in onda Via col vento, alle statue di Cristoforo Colombo di rimanere dritte sui loro monumenti, e tutti gli spropositi inscenati in questi mesi".

Insomma, Enrico Mentana svela le contraddizioni di chi si batte per la libertà di espressione e poi però vuole toglierla a chi non la pensa come loro. "La storia, le arti visive e la letteratura si occultavano e camuffavano a fini politici solo nei regimi. Oggi vorrebbero imporlo anche dove c'è la libertà, epuratori in nome della purezza. No pasaran", ha concluso il direttore del tgLa7 

A Venezia infatti un gruppo di manifestanti, che contavano circa 20 persone, quasi tutte donne, ha gridato slogan tra cui "nessuna cultura dello stupro" e "parliamo per coloro che non hanno voce contro i registi stupratori". "Spegnete i riflettori sugli stupratori" e "Lo stupratore non è malato, è figlio del patriarcato", sono stati alcuni degli slogan gridati dai manifestanti prima di essere allontanati dalla sicurezza. Il motivo della protesta si legge in un volantino è legato alla presenza alla Mostra di tre registi accusati di violenze sessuali: Roman Polanski, Woody Allen e Luc Besson. "Quest’anno la Biennale del Cinema di Venezia ha scelto di dare spazio a registi coinvolti in vicende di violenze sessuali contro donne, anche minorenni. Denunciamo oggi la condotta di luoghi come la Mostra di Venezia, che dovrebbe veicolare la cultura del consenso, del rispetto e del credere a chi subisce la violenza ma che di fatto scelgono di continuare a legittimare la cultura dello stupro". 

Woody Allen, Besson e Polanski nel mirino dei nuovi talebani. Polemiche per la partecipazione dei registi al festival di Venezia: «Sono dei predatori sessuali». Francesca Spasiano su Il Dubbio il 31 agosto 2023

Qui non si tratta nemmeno di distinguere “l’uomo dall’artista” citando per la milionesima volta Caravaggio, pittore sublime nonché violento omicida oppure l’antisemita Céline, il razzista Conrad e così via. Il livello è persino più sconfortante.

Stiamo parlando del Festival del cinema di Venezia, del suo direttore Alberto Barbera e di tre cineasti: Woddy Allen, Roman Polansky e Luc Besson ospiti con le loro ultime opere nella rassegna lagunare. Il giornalista Scott Roxborough, firma di punta e responsabile della redazione europea di The Hollywood reporter, attacca frontalmente Barbera, ritenendo inopportuno aver invitato «tre uomini problematici». In un articolo di fine luglio era stato ancora più esplicito, definendo i registi «tre predatori sessuali».

Roxborough cita le parole della francese Ursula Le Menn, attivista del gruppo Oser le feminisme, che lo scorso maggio aveva lanciato appelli per boicottare il festival di Cannes a causa della presenza di Johnny Depp, anche lui accusato di abusi sessuali. «Solo il fatto di averli invitati sembra una celebrazione dei colpevoli!», tuona Le Menn per poi scagliarsi contro i giornalisti: «Sembrano degli avvocati difensori e fanno di tutto per mettere questi figuri in una buona luce». Ma colpevoli di cosa? Sarebbe il caso di riavvolgere il nastro dell’indignazione pavoloviana e tornare ai fatti.

Cominciamo da Woody Allen, accusato dall’ex moglie Mia Farrow di molestie sessuali nei confronti della figlia Dylan quando lei aveva sette anni. Due diverse inchieste hanno stabilito la completa estraneità del regista newyorkese che non è mai stato nemmeno indagato. L’indagine dei servizi sociali infantili dello Stato di New York concluse al contrario che la bambina avrebbe vissuto in un ambiente «disturbato», subendo l’influenza della madre che l’ha spinta ad accusare Allen. Ma la macchia di “pedofilo” è rimasta appiccicata al regista che negli scorsi anni ha avuto serie difficoltà per la distribuzione dei suoi film.

Anche Besson è stato prosciolto lo scorso giugno dalle dalla giustizia francese per le accuse di violenza sessuale lanciate dall'attrice belga-olandese Sand Van Roy. Un fatto che non è andato giù alla signora Le Mann il cui fervore accusatorio è pari solo all’ignoranza dello Stato di diritto: «Si dice che Besson è stato dichiarato non colpevole nel caso di stupro, il che semplicemente non è vero. Non è mai stato processato, quindi come potrebbe essere ritenuto colpevole o non colpevole?». Presunzione di innocenza questa sconosciuta.

Diverso il caso di Polansky il quale ha effettivamente ammesso di aver avuto rapporti sessuali sotto l’effetto di droga con la 13enne Samantha Geimer nel 1977 (lui ne aveva 44) ed è attualmente un ricercato per giustizia degli Stati Uniti. Ma è stata la stessa Geimer, che negli anni ha costruito persino un rapporto epistolare con Polansky a voler spegnere i riflettori sulla vicenda intimando ai giornalisti di smetterla di rimestare nel torbido.

Eppure per i corifei del processo mediatico permanente, le sentenze di tribunale e gli stessi sentimenti delle loro amate vittime non contano nulla: «È necessario distinguere tra giustizia e persecuzione» ha ricordato Barbera in una bella intervista a Le Monde in cui ha rivendicato tutte le sue scelte.

Ancora ieri però sul quotidiano Libération è apparsa una disarmante petizione a firma ADA, un’associazione di attrici e attori dal titolo “No alla cultura dello stupro” che chiede l’isolamento di chiunque sia finito nell’obiettivo del #metoo criticando aspramente i direttori dei festival e tutta l’industria cinematografica, colpevole di offrire loro una immeritata vetrina.

Estratto dell’articolo di Pierluigi Battista per “Il Foglio” lunedì 28 agosto 2023

La nuova Nikolay Bucharin si chiama Barbie. L’ultima stella nel capiente firmamento dei riabilitati: quelli che un tempo erano i paria, gli espulsi, i messi al bando, i disprezzati, i controrivoluzionari, i non allineati, i buzzurri, gli screanzati, i nemici del popolo e che poi i sacerdoti del dogma e della giusta linea decidono di risollevare dall’abisso per riconsacrarli nell’empireo dei “nostri”. 

Barbie, la nuova Bucharin, non ha certo sofferto la tragedia dei processi di Mosca con cui Stalin, con un bagno di sangue, aveva messo sotto chiave il paradiso della rivoluzione e spinto nel Gulag i suoi stessi compagni. Figurarsi, paragonarli sarebbe la solita solfa della prima volta tragedia e della seconda farsa. 

Ma Barbie è stata additata e messa alla berlina come il simbolo di ciò che non si deve fare, la mercificazione del corpo della donna, la dittatura estetica del maschio prevaricatore (...)

E invece ora è (...) Una Barbie portabandiera del femminismo con la stessa generosità idealistica della Marianne dal cappello frigio della tradizione rivoluzionaria francese. Una Barbie che addirittura si è trasformata in una mina sotto il potere ottuso del patriarcato. 

La reietta diventata regina. I sacerdoti e le sacerdotesse che stabiliscono ciò che è giusto cambiano abito e lessico e mettono sul piedistallo della buona reputazione la vittima dei loro passati pregiudizi. Non si stracciano le vesti per la loro ottusità spocchiosa. No, riabilitano: è più semplice e meno impegnativo perché ci esime dal ricordo di tutte le sciocchezze demolitorie che abbiamo detto. Abbiamo scherzato quando insultavamo Bucharin. 

Aveva ragione lui. Però, sai, noi avevamo ragione a stare dalla parte del torto e ce ne vantiamo anche. Sai, le circostanze cambiano. Oramai è strapieno l’empireo dei riabilitati che in Italia hanno versato sudore e fatica, canzoni e film, libri e spettacoli per fuggire dall’inferno della delegittimazione ed entrare trionfalmente nel severo Salotto della Riabilitazione.

Ne sa qualcosa, tanto per cominciare, Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti, a cui Michele Serra, presenza sempre molto autorevole nell’ufficio preposto alla vidimazione della buona condotta artistica, dispensò nel lontano 1999 queste amichevoli note critiche: “Jovanotti, idolo dell’estate danzerina, è pura lobotomia musicale. Dal demenziale alla demenza il salto non è di poco conto, si veste da scemo, canta in modo scemo canzoni sceme, incarna perfettamente quel giovanilismo da gelateria, superficiale e incolto, già santificato dal pubblico di Drive in”. 

Per risalire la china delle estati danzerine e del giovanilismo da gelateria (?) Jovanotti ha dovuto faticare come un dannato, ma a furia di appelli per l’Africa affamata, persino nel regno del nazional-popolare (“cancella il debito oh oh oh oh”, cantava e ondeggiava sul palco di Sanremo), l’ascesa verso la sommità della montagna dei riabilitati ha avuto successo: Jovanotti può entrare nell’ambiente che lo aveva accolto con tanto malanimo, come la Barbie ha infranto il soffitto di vetro della rispettabilità. Come la Barbie, e come Fiorello.

Fiorello, che già non gli si potevano perdonare gli esordi pseudo-artistici nei palcoscenici di serie B come animatore dei villaggi turistici (“l’orrore! L’orrore!”, a detta dei Kurtz nostrani), era diventato con i suoi capelli raccolti a coda di cavallo un pericoloso sabotatore della morale politica pubblica, l’avanguardia dei barbari, la sottile arma di distrazione di massa inventata da un nemico subdolo: l’orrore del karaoke. Oggi può sembrare uno scherzo, ma davvero nell’atmosfera della discesa in campo di Berlusconi Fiorello con il suo karaoke (e anche un po’ la povera Ambra Angiolini con il suo auricolare) era diventato la bandiera che il perbenismo respingeva con un certo ribrezzo. “Forza Italia, la politica karaoke” era uno dei titoli più frequentati nei giornali di sinistra.

Gianni Vattimo scriveva arcigni saggi su “la sinistra nell’èra del karaoke”, dove si parlava dell’“industria della persuasione e della comunicazione”. L’allora sindaco di Roma Francesco Rutelli venne veementemente contestato perché si era permesso di concedere piazza San Giovanni (sì, proprio quella dei concertoni del Primo Maggio e prima ancora meta delle grandi manifestazioni sindacali) al karaoke itinerante di Fiorello, che era uno showman formidabile già allora, non è cambiato lui, sono cambiati loro. Si alzò solenne anche la voce di Renato Nicolini, il geniale ex assessore del comune di Roma dei tempi di Argan che aveva inventato una cosa rivoluzionaria e sorprendente come l’Estate romana, scandalizzando conservatori e parrucconi. Ma stavolta il parruccone e il conservatore era proprio lui che tuonava contro “il rischio di regressione della città nella grande provincia”. 

Ha vinto Fiorello. A lui spetta la palma della riabilitazione. Oggi nessun riabilitatore oserebbe scrivere nemmeno un quarto delle invettive del tempo contro Fiorello, perché Fiorello è più grande dei suoi detrattori, come la Barbie e come Jovanotti. O come lo stesso Festival di Sanremo, schifato dall’establishment rinomato (che peraltro non esitò a scagliarsi a suo tempo anche contro l’introduzione della tv a colori: riabilitatissima) quando il Festival della canzone italiana emanava l’aroma inebriante della grande novità e lacrime di commozione bagnavano i volti delle italiane e degli italiani sulle note di “Nel blu dipinto di blu” (o “Volare”, a scelta) di Domenico Modugno. Una condanna ben riassunta dalle parole colme di disprezzo come quelle di Alberto Moravia, che lo considerava un’accozzaglia di “canzoni imbecilli”.

(...)

L’aria era quella (e con i cinepattoni, oggi finalmente in odore di riabilitazione, l’inquisizione raggiunse vette quasi isteriche) e il bacchettonismo progressista, che non è un’invenzione dei nostri giorni, colpiva duro chi non si adeguava ai canoni santificati dall’ideologia e addirittura si permetteva di far divertire gli spettatori. Sul nome di Alberto Sordi, oggi super-riabilitato, stagnava del resto un’atmosfera un po’ mefitica di sospetto e di non accettazione. Ma Totò, come è noto e come è stato ampiamente documentato da un libro come “Totò, l’uomo e la maschera” di Franca Faldini e Goffredo Fofi, fu il denigrato per eccellenza.

Le sue smorfie insospettivano, quei movimenti da burattino insospettivano, quei doppi sensi così espliciti (“Troia, Troia, questo nome non mi è nuovo”) insospettivano, quei siparietti qualunquisti e anche se vogliamo un po’ colonialisti (“Come ti chiami?”, “Alì”, “Mortè?”, “No, Babà”, “E mammà come sta”) insospettivano. “Una farsa grossolana”, ed era “Totò, Peppino… e la malafemmina”. “Fumetto della peggior qualità”, ed era sempre un capolavoro come “Totò, Peppino… e la malafemmina” per la regia di Camillo Mastrocinque con aiuto regista Ettore Scola (quanto ci manca) che solo per quel “noio volovan savuar l’indiriss” davanti al Duomo con due meridionali in colbacco avrebbe meritato la nomination agli Oscar. Ce n’è voluto di tempo nell’Ufficio preposto alla Riabilitazione per accorgersi di aver preso un granchio gigantesco.

C’è voluto “Uccellacci e uccellini” di Pier Paolo Pasolini (peraltro anche lui al tempo sotto esame per via di qualche sbavatura eretica prima della trionfale riabilitazione post mortem) per fare di Totò il Grande Riabilitato. Renzo Arbore ha detto che “la sinistra snobbava Totò e ha cercato poi di riappropriarsene abusivamente”. Come che sia: chi oggi potrebbe permettersi di attaccarlo in quel modo becero e sussiegoso? Una riabilitazione che non dovette attendere la conclusione fisica e artistica in questa valle di lacrime. Per Guido Morselli (anche per Anna Maria Ortese è accaduto qualcosa di simile) è stato diverso: quando era in vita mandava i manoscritti alle case editrici più blasonate che regolarmente li rifiutavano non senza una punta di disprezzo, come “Il comunista” liquidato da Italo Calvino alla stregua di un libretto in cui “ogni accento di verità si perde”. Lo recupererà l’elegantissima casa editrice Adelphi, e il centro di riabilitazione intellettuale ha così trovato il modo di cambiare idea, ignorando tutto ciò che era stato decretato prima.

Di Lucio Battisti la verità di una diffidenza politica (forse quei “boschi di braccia tese” erano la spia di una sua simpatia per il fascismo?) si mescolava a leggende metropolitane secondo le quali a sinistra si poteva ascoltare Battisti solo clandestinamente: falso, fake news. Ma la riabilitazione post mortem di Battisti-Mogol è arrivata piena, corale, incontrastata. 

(...) E POI Checco Zalone, accolto come il simbolo della volgarità pure un po’ destrorsa, che però si è dimostrato aperto ed accogliente trattando il tema dei migranti: in corso di verifica. Ma per lui il percorso della riabilitazione completa è scandito dalla stessa lentezza delle nuove carte di identità a Roma: bisogna pazientare e attendere tempi biblici. Ma per finire, ecco la cerimonia solenne di riabilitazione di tutti i riabilitati, così simile a Ognissanti che è la festa di ciascun santo: è arrivato il tempo di Mediaset, il tempio del Male, la fucina di tutti i mostri antropologici, da accostare adesso alla compagnia rivalutata di Totò e della Barbie.

Ora Mediaset è stata compiutamente riabilitata da Berlinguer, tendenza Bianca. Sebbene molto prima di lei fosse già arrivato un combattivo e patentato riabilitatore di nome Michele. Michele chi? Ma Michele Santoro, che domande.

Sgarbi contro la dittatura, della diversità. Vittorio Sgarbi su Panorama il 27 Agosto 2023

È diventata dominante la teoria «woke» che impone l’inclusività, una tutela acritica delle minoranze, il senso di colpa occidentale verso la propria storia, il superamento dei valori tradizionali. Ma senza la libertà di pensiero muore la stessa ragione.

Facebook. Vittorio Sgarbi 

E’ diventata dominante la teoria «woke» che impone l’inclusività, una tutela acritica delle minoranze, il senso di colpa occidentale verso la propria storia, il superamento dei valori tradizionali…

L’essere maschi, l’essere bianchi, essere cristiani sarà una colpa.

A chi lo è sono suggeriti l’impotenza e il silenzio.

Si vuole sostituire la nostra cultura con un’altra nel segno della dittatura della minoranza.

…Ciò che soprattutto inquieta è la dittatura della minoranza, il rimorso del diverso. Nel senso che la collettività deve sentire rimorso nei confronti dei diversi, come se la diversità o la fragilità fosse colpa dell’umanità…

(Alcuni passaggi del mio articolo per il settimanale «Panorama» in edicola da oggi)

UN GENERALE CONTRO LA DITTATURA DEL POLITICALLY CORRECT. Maurizio Guaitoli il 29 agosto 2023 su opinione.it.

Imputato Roberto Vannacci, in piedi! Già: ma in base a quale accusa penalmente rilevante? Per ora, nessuna. Allora, si rimetta pure comodo, Signor Generale. Lei, al momento, è solo un caso umano o, al limite, un caso ridicolo. Perché, in buona sostanza, sul suo conto, a proposito del pamphlet “Il Mondo al contrario” da Lei autoprodotto, manca l’analisi, come direbbero i vetero-marxisti. Quindi, meglio precisare, scanso equivoci, quali siano gli ambiti “oggettivi” della discussione relativa, prendendo in esame le possibili vere (e non presunte) violazioni da parte del suo autore di norme formali e/o di comportamenti deontologici che regolano la vita degli apparati pubblici nel nostro Paese.

La prima delle questioni fondamentali che riguardano il caso Vannacci è di capire (e di perimetrare conseguentemente) quali siano, all’interno di un’istituzione dello Stato, i margini di libertà d’opinione dei suoi “clerk”, ovvero dei suoi pubblici funzionari civili e militari. La risposta è ovvia: in termini di comportamenti e di libertà di opinione è ammissibile tutto ciò che non è espressamente vietato da leggi e regolamenti (fatta salva la questione accessoria della opportunità), che sovrintendono giuridicamente al corretto funzionamento dell’istituzione di appartenenza. Non si può, quindi, ad esempio, mettere in discussione il rapporto gerarchico; denigrare all’esterno la propria istituzione, né calunniarne i suoi membri; rendere pubblica una documentazione riservata, e così via. Ora, che cosa succede quando la questione si sposta sul piano etico e politico?

Facile rispondere sul secondo aspetto: per definizione, istituzioni pubbliche (e, in particolare, gli apparati militari e di sicurezza) devono comportarsi in modo assolutamente imparziale, senza mai quindi prendere posizione all’interno del confronto tra le forze politiche, le sole legittimate alla rappresentanza degli interessi dei cittadini elettori. Possono però, in seno alla produzione legislativa parlamentare e all’iniziativa governativa di proposta di legge, avere diritto a esprimere un loro parere tecnico all’interno dei lavori delle commissioni parlamentari competenti.

Che cosa accade sul piano etico e della libertà di opinione per tutte quelle materie non soggette a sanzioni di legge espressamente previste?

Per esaminare l’attuale epifenomeno mediatico del caso Vannacci si deve in primis decidere se il suo libro, per il merito trattato, coinvolga l’istituzione di appartenenza e fino a che punto. Occorre, quindi, accertare se vi sia stata violazione grave del codice deontologico, e se l’iniziativa personale e del tutto privata del Generale abbia creato pregiudizio all’immagine esterna dell’amministrazione di appartenenza. Di certo, qualora nel testo de “Il Mondo al contrario” si affermasse che alle minoranze sessuali (o alle donne) deve essere impedito l’accesso alle carriere militari, allora si andrebbe contro la norma costituzionale che sancisce la non discriminazione dei cittadini italiani per razza, sesso, religione e convinzioni politiche. E se, preliminarmente, com’è già accaduto, il ministro (laico) di tutela e la gerarchia decidono in senso positivo in merito alla possibile lesione di immagine, allora la sospensione dall’incarico è un atto dovuto, in attesa che gli organi interni disciplinari, o la magistratura civile, istruiscano un procedimento ad hoc sul caso.

Il secondo, ma non secondario elemento problematico riguarda la questione di opportunità. Infatti, a priori erano ben noti all’autore i rischi di sollevare a livello nazionale un caso politico rilevante, firmandosi con il proprio nome e cognome e grado ricoperto, dato l’argomento estremamente controverso della pubblicazione di cui, correttezza vuole, si sarebbe dovuto richiedere anche informalmente un parere gerarchico prima di dare alle stampe “Il Mondo alla rovescia”. In questo caso, infatti, l’appartenenza in servizio dell’autore all’amministrazione militare non poteva non coinvolgerne gli interessi diretti, in quanto a esprimersi pubblicamente su argomenti altamente sensibili sul piano politico e sociale era un suo funzionario di grado elevato, anche se la pubblicazione ha avuto luogo a titolo strettamente privato.

Per evitare la guerra politica mediatica e del tutto strumentale che si sta svolgendo sulla figura del Generale Vannacci, sarebbe stato sufficiente che la firma in calce all’opera avesse riportato un nome diverso: quello cioè di un cittadino comune, libero di esprimersi come meglio crede, rispondendo esclusivamente di persona a eventuali calunnie e diffamazioni contenute nel testo.

Se questo fosse stato il caso, allora si poteva prendere parte alla battaglia per la libertà d’opinione senza alcun complesso di “golpe strisciante”, che invece può essere sostenuto da chi strumentalizza (in particolare a sinistra) la vicenda del Generale Vannacci.

Allora, facciamo così: fingiamo che il pamphlet l’abbia scritto tale e quale un’altra persona, in modo da dire chiaramente le seguenti cose sul piano generale. Innanzitutto: che cosa dice la Costituzione italiana a proposito di “dittatura del pensiero unico” che, poi, è il politicamente corretto? Che risulta, di fatto, una forma di fascismo, per cui è un mainstream mediatico e senza volto a decidere che cosa è corretto dire, i vocaboli ammissibili da utilizzare, e quali invece da esecrare e condannare. Marginalizzando così i loro autori, condannati senza l’adozione di alcun provvedimento formale che ne dimostri la colpevolezza, in modo da escluderli da incarichi pubblici, dalle cattedre di insegnamento e dalle redazioni di giornali e periodici di stampa e della radiotelevisione, come oggi avviene in tutto l’Occidente.

La protezione delle minoranze non può essere argomento di discussione, e per questo basta e avanza la tutela aspecifica e generale dei diritti della persona che, qualora li si ritenga in qualche modo lesi, sono soggetti a tutela da parte del giudice naturale.

Diverso, molto diverso, invece, è quando determinate minoranze (in particolare quelle Lgbtq+) si costituiscano in lobby per la conquista dell’influenza e del potere mediatico e politico di una società, avverso le quali a questo punto è lecita la contendibilità assoluta della rappresentanza dal punto di vista della lotta politica. Solo in tale, preciso contesto, allora, certi argomenti della tesi socio-politica di Vannacci possono essere ripresi anche in toni accesi, come si farebbe con un ritorno del Movimento Futurista alla Marinetti che, per fortuna, agli inizi del XX secolo, poté veicolare il suo dirompente messaggio rivoluzionario senza problemi e ritorsioni penali di sorta.

Perché, meglio dirlo francamente: esiste e non può essere soppressa una maggioranza silenziosa che la pensa su certi temi “esattamente” come il Generale. E, per questo, gode degli stessi diritti di quelli che la pensano all’opposto, come i politically correct.

Lo dice la Costituzione, che non vale mai a senso unico.

Da Vannacci a “clandestino”, è la dittatura del pensiero unico. In questa puntata ci concentriamo su un caso che ha fatto tanto discutere: il generale Vannacci. Con il commento di Daniele Capezzone. Michel Dessì il 25 Agosto 2023 su Il Giornale.

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Vietato parlare, vietato pensare. Contare prima di aprire bocca. Fino a 10? Di più! Anzi, è consigliato arrivare fino a 100 se non si vuole finire nel tritacarne mediatico o, peggio ancora, in quello giudiziario. O, banalmente, giudicato dagli amici. Anche da quelli più fidati. Oggi, anno Domini 2023, parlare, esprimere un pensiero, un concetto è un’impresa ardua. Difficile. È necessario fare uno slalom tra le parole.

Ce lo raccontano i casi di cronaca di questi giorni: dal generale Roberto Vannacci (silurato dall’esercito per il suo libro choc) che rivendica il diritto di pensare fino alla Corte di Cassazione che, ha condannato la Lega, (sì, il partito del Vicepremier Matteo Salvini) per aver usato la parola “clandestino” su alcuni manifesti elettorali. Non si può più dire, per i giudici lede la dignità delle persone. E così i togati ci impongono le parole, il linguaggio da usare: “richiedenti asilo” è questo il termine da utilizzare da oggi in poi per indicare i migranti che, illegalmente, raggiungono le nostre coste. Alla faccia dell’italiano.

Abbiamo chiesto un opinione a Daniele Capezzone, ormai di famiglia qui a La Buvette. “Difendere sempre la libertà di parola, senza alcuna eccezione ma, politicamente e culturalmente, evitare di offrire bersagli facili ai censori di sinistra. Eviterei, però, di fare di Vannacci il filosofo di riferimento del centrodestra”.

Ma c’è di più! Esiste addirittura un glossario delle parole da usare senza offendere nessuno. Occhio persino a dire “grasso”, “magro”, “brutto”, “basso”. Anche “sciupato”. Per carità! È subito “body shaming”. La nonna del sud deve tacere, soprattutto, in presenza di ospiti. C’è pure chi sostituisce le lettere con l’asterisco per definire una persona.

Già, perché nel 2023 non bisogna fare distinzione tra uomo e donna, è necessario rispettare il genere dicono. Ed è subito la dittatura delle parole, i fasci della penna e calamaio, i balilla della rivoluzione letteraria. I combattenti della “ə” (schwa ndr). Ma non è mica finita qui, perché in questa calda estate è spuntato un altro dilemma: fare o non fare le treccine afro? Sotto l’ombrellone centinaia di donne si sono poste il dubbio amletico. Già, perché anche in Italia è arrivata la cosiddetta “appropriazione culturale”. Guai a prendersi ciò che non è tuo. Così, in tante, per evitare di essere giudicate male hanno evitato di farsi intrecciare i capelli come le donne d’Africa. “Essere o non essere” si chiedeva William Shakespeare, noi, così, abbiamo deciso di non essere.

Vannacci, gay e migranti. Il sondaggio: cosa pensano gli italiani. Il 40 per cento degli italiani si definisce preoccupato e talvolta impaurito dai migranti. Ecco il sondaggio. Redazione su Nicolaporro.it il 25 Agosto 2023.

L’Italia è un Paese razzista? Rimane una delle domande che il mondo progressista, soprattutto in tempi in cui è il centrodestra ad essere al governo, pone al centro della sua agenda. Questa volta, secondo un sondaggio pubblicato su La Repubblica, sono tre i temi analizzati per valutare il “livello di xenofobia” presente in Italia: il libro del generale Vannacci, gli omosessuali e i migranti.

Vannacci e adozioni gay

Ebbene, queste ultime settimane sono state a dir poco infuocate, dopo la pubblicazione del libro “Il mondo al contrario” del militare, sia da destra che da sinistra accusato di contenere frasi e concetti omofobi. Il quotidiano di De Benedetti si è quindi spinto oltre, andando ad analizzare gli orientamenti degli elettori e ponendo una formula su tutte: “Si dicono in disaccordo col prevedere le cosiddette adozioni gay, cioè la possibilità di adottare un figlio da parte delle coppie omosessuali”.

Al quesito, sono il 70 per cento dei votanti di Fratelli d’Italia a esprimere il proprio dissenso alle adozioni omosessuali, seguito dal 57 per cento degli elettori di Forza Italia. La percentuali tra i leghisti, invece, è al 52 per cento, mentre scende al 41 tra quelli del Movimenti 5 Stelle. Chiude il sondaggio il Partito Democratico al 27 per cento. Insomma, nonostante lo spruzzo di progressismo radicale che la Schlein ha impartito al Nazareno, più di un elettore piddino su 4 è contrario alle adozioni gay.

Migranti

Rimane quindi una buona fetta di sinistra ad essere restia sul tema delle coppie omosessuali. Un orientamento che quindi non si può solo sminuire al concetto di “omofobia” ventilato contro Roberto Vannacci, ma che piuttosto – come ribadito anche da Marino Sinibaldi – si traduce in un “pensiero spaventato verso la modernità”, fuori quindi da una logica di colori politici.

Per approfondire:

Ciò che davvero deve preoccupare del libro di Vannacci

Tutte le bufale contro il libro di Vannacci (smontate pezzo per pezzo)

Migranti, ruoli invertiti: la destra accoglie, il Pd no

Sul lato migranti, si mostra un’ulteriore polarizzazione. Al quesito “Si dicono moltissimo o molto d’accordo con l’affermazione gli immigrati sono un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone”, rispondono positivamente il 79 per cento dei leghisti ed il 56 per cento degli elettori di Giorgia Meloni. La percentuale scende al 51 di Forza Italia, per poi passare al 44 tra le fila pentastellate. Chiude ancora il Pd al 17 per cento. A ciò, però si aggiunge un altro dato rilevante, ovvero che il 40 per cento degli italiani si dice preoccupato e, talvolta, impaurito dai migranti.

Estratto da leggo.it il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.

La nuova stagione televisiva è ormai iniziata e Bianca Berlinguer ha debuttato sulle reti Mediaset. In diretta su Rete 4 con il suo nuovo "È sempre Cartabianca", la conduttrice si è ritrovata alle prese con una serie di parolacce e termini offensivi letti durante la sua intervista faccia a faccia con Giuseppe Conte. 

«Immaginatevi Pier Silvio Berlusconi con i figli e Silvia Toffanin che cambiano canale su Rete 4 e si ritrovano questo», ha commentato sui social un utente, riferendosi alla "pulizia" nei programmi che l'AD di Mediaset ha cercato di fare, proprio per evitare linguaggi scurrili e contenuti trash. […]

 Estratto da “Il mondo al contrario” di Roberto Vannacci

[…] Dobbiamo ricorrere ad un idioma straniero e chiamarli gay perché i vocaboli esistenti sino a pochi anni fa nei dizionari, che sfogliavamo girandone le sottili pagine con la punta dell’indice inumidita, sono tutti considerati inappropriati, se non addirittura volgari ed offensivi. 

Pederasta, invertito, sodomita, finocchio, frocio, ricchione, buliccio, femminiello, bardassa, caghineri, cupio, buggerone, checca, omofilo, uranista, culattone sono ormai termini da tribunale, da hate speech, da incitazione all’odio e alla discriminazione e classificati dalla popolarissima enciclopedia multimediale Wikipedia come “lessico dell’omofobia”. […]

La stiratura del seno e l’ennesimo tentativo di cancellare il genere. Il maschile e il femminile sono profondamente radicati nei corpi, ma non basta: la campagna per una civiltà di mutanti sta prendendo il sopravvento. Massimo Balsamo il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.

Oggigiorno chi utilizza termini come “uomo” e “donna” è un rivoluzionario, figurarsi chi osa spingersi sul terreno di “madre” e “padre”. Gli integralisti a tinte arcobaleno vogliono – o meglio pretendono – follie collettive, come i bagni no gender o la possibilità di identificarsi con una autocertificazione. O ancora, c’è chi pensa che sia normale parlare di uomini con le mestruazioni. L’ideologia woke sta prendendo il sopravvento e la comunità Lgbt vuole dettare le regole del gioco, pena piogge di accuse di transfobia, omofobia e stupidaggini simili. Il disegno è chiaro: cancellare il genere.

Il maschile e il femminile sono profondamente radicati nei nostri corpi, eppure nel nome dell’inclusione prosegue la battaglia per eliminare le differenze. Un’idea di libertà alquanto buffa, che rischia di rendere il pianeta come un semplice assembramento di mutanti. I cromosomi parlano chiaro, ma c’è chi guarda oltre. L’ennesimo tentativo di mettere un segno “x” sul genere è legato alla stiratura del seno, brutale fenomeno di determinate regioni africane ma anche primo step della rimozione chirurgica delle tette.

Da Elliot (ex Ellen) Page in avanti, un trionfo di cancellazione del seno. Come rimarcato dal Foglio, la maggior parte delle “top surgery” viene praticata negli Stati Uniti, con un giro d’affari esorbitante. Le mastectomie sono praticate già negli ospedali pediatrici a partire dall’età di 12 anni – non è necessaria un’età minima – i dati sono impressionanti: lo studio pubblicato dal Journal of the American Medical Association rivela che dal 2016 al 2019 sono stati eseguiti oltre 48 mila interventi chirurgici di “affermazione del genere” (GAS, Gender Affirmation Surgery). Il 52,3% delle operazioni ha riguardato persone di età compresa tra 19 e 30 anni, mentre il 7,7% ha tra i 12 e i 18 anni.

“È chiaro che i corpi dei bambini vengono alterati chirurgicamente”, l’analisi del The National Review, che ha acceso i riflettori sulla crescita esponenziale dell’isteria transgender: “Un numero spaventoso di bambini viene sottoposto a transizione chirurgica (…) quando gli studi mostrano che la confusione di genere nei bambini e negli adolescenti è spesso transitoria e la detransizione è in crescita”. Il giornale statunitense ha anche citato i dati dello studio della Vanderbilt University, secondo cui 489 minori – di età compresa tra 12 e 17 anni – hanno subito mastectomie nel 2019. Numeri che dovrebbero portare a una riflessione anche tra i talebani del settore, pronti a tutto per archiviare il genere in nome di una libertà che rischia di costare parecchio in termini di salute ma non solo.

La libertà negata dal politicamente corretto. Emanuele Mastrangelo su culturaidentita.it il 10 Ottobre 2023

“Se usi parole che fino a un certo tempo fa si usavano, anche col massimo rispetto e ironia, vieni accusato di omofobia”. Lo afferma Edoardo Sylos Labini a “Chesarà”, il talk di RaiTre in onda ogni domenica sera alle 20.00. La risposta della conduttrice, Serena Bortone, è interessante, perché pone il nodo della questione: “ma se una persona si sente offesa, perché usare certe frasi?”. Un nodo andato irrisolto, perché coi tempi televisivi, la risposta di Sveva Casati Modignani – che pure fa sponda alla critica al politicamente corretto –, lascia cadere l’alzata di palla della Bortone.

Iniziamo da qua: la Casati Modignani ha perfettamente ragione nell’evidenziare uno dei tanti paradossi del politicamente corretto, questa ideologia che per creare un mondo meno spigoloso lo sta trasformando in un manicomio: “Con il #MeToo se un uomo e una donna entrano in ascensore credo che lui si incatenerebbe per la paura di sfiorare inavvertitamente la signora”. Del resto, oramai specialmente negli USA ci sono uomini che prendono le scale pur di non salire in ascensore con una donna senza testimoni. Altri uomini girano con penne-telecamera nel taschino, per poter eventualmente sempre provare la loro correttezza nel caso di denuncia di “molestie” da parte di femministe isteriche o cacciatrici seriali di risarcimenti in tribunale. Negli USA, l’ideologia del “trust women” – “credi alle donne” – è talmente radicata nelle aule giudiziarie che la maggior parte degli uomini querelati da una donna a qualunque titolo, preferisce patteggiare una pena e riconoscersi colpevole piuttosto che affrontare un calvario giudiziario in cui l’accusato già parte come colpevole fino a prova contraria. Il primo principio dello Stato di Diritto, la presunzione di innocenza, strappato e messo sotto i tacchi. A spillo.

Ma il problema sollevato dalla Casati Modignani, come detto, svia involontariamente dalla questione aperta da Serena Bortone. È la questione del “linguaggio appropriato”, questa nuova forma di conformismo con cui l’ideologia del politicamente corretto sta puntellando il proprio potere e il proprio braccio armato, quella cancel culture con cui colpire ogni reprobo, martellare ogni chiodo che sporge. La teoria del “linguaggio appropriato”, sostenuta dagli intellettuali più allineati alle ultime tendenze da campus americano, butta la palla nel campo della gente normale: non è il politicamente corretto a imporre una censura, è chi non usa con “responsabilità” le parole che sbaglia e deve correggersi. Chi non si corregge spontaneamente e non si allinea a una “responsabilità” decisa da altri deve essere investito dall’indignazione della gente per bene (definizione che usualmente corrisponde alle “minoranze oppresse” delle teorie wokeiste) e sottoposto a cancel culture. Peggio per lui, doveva pensarci prima. Non lo sentite anche voi questo odore di maoismo?

Un approccio che ha due gravi vulnera: il primo è l’assoluto soggettivismo. Il secondo la sua natura marxista-culturale, per il quale comunque il soggettivismo della “minoranza” che si è auto-proclamata come “oppressa” ha più diritto del soggettivismo dell’interlocutore a essere rappresentato. In soldoni, se sei un maschio bianco etero non hai diritto a offenderti, mentre dall’altra parte, le “minoranze” hanno il diritto di sentirsi offese per qualsiasi azione, parola, gesto, perfino comportamento (le cosiddette “microaggressioni”, fra cui è compresa l’occhiata non gradita o lo sfioramento involontario o scherzoso). Ammettere che esista un arbitrario diritto individuale di poter decidere cosa sia “offensivo” e cosa no, anziché una norma generalmente ammessa e tarata sulla media della sensibilità dell’intera cittadinanza, significa lasciare nelle mani della gente col sistema nervoso più fragile il diritto di essere giudice, giuria e boia dei comportamenti e della libera espressione altrui. Come fa giustamente notare Sylos Labini, un conto è un’ingiuria (fattispecie già prevista dal codice penale) un conto è una libera espressione del pensiero percepita come offensiva da una sensibilità iper-irritabile oltre il limite dell’isterismo. Qualunque persona sana di mente considera un bene infinitamente superiore quello della libertà d’espressione piuttosto che il capriccioso risentimento di chiunque si sia alzato storto al mattino. 

Sfortunatamente l’ideologia del politicamente corretto non ragiona così. Per chi segue la religione wokeista, i sentimenti contano più dei fatti, e l’indignazione di un membro di una “minoranza oppressa” conta più di tremilacinquecento anni di Diritto. La libertà di parola? Un fastidioso retaggio del passato. Chi ha tempo, vada a leggersi la risposta dei wokeisti alla famosa “Lettera aperta contro la cancel culture” (“A Letter on Justice and Open Debate”) dei centocinquanta intellettuali pubblicata su “Harper’s Magazine” del 7 luglio 2020, testo fondamentale nel dibattito sulla cultura della cancellazione. Ebbene, la risposta wokeista cita una sola volta il Primo Emendamento della costituzione statunitense, che sancisce la libertà di parola e di stampa, e lo fa perfino con fastidio se non con disprezzo. La libertà di parola viene vista non come un diritto universale, ma come un “privilegio” della “maggioranza” nei confronti delle “minoranze”.  

Chiamare “cultura della responsabilità” la cancel culture e cercare di addossare sulle spalle di chi parla un presunto dovere a star attento a non offendere anche la più urticabile delle sensibilità, significa inchiodare il coperchio della bara della libertà di parola. Ma mentre l’offesa è perfettamente soggettiva, il danno che tutti noi subiamo da questa ondata di conformismo, censura e puritanesimo linguistico è oggettiva, palpabile e quantificabile. Un esempio? Roald Dahl, Agatha Christie e Ian Fleming riscritti dai loro editori perché “non inclusivi” e quindi “offensivi” per alcuni lettori. Tenetevi strette le vecchie edizioni, fra poco varranno tant’oro quanto pesano. Ma al mercato clandestino, beninteso.

Michele Pavese per tuttomercatoweb.com venerdì 27 ottobre 2023.

L'incredibile gaffe di Alejandro Garnacho tiene banco in Inghilterra due giorni dopo la vittoria del Manchester United sul Copenaghen. L'argentino è finito nel mirino della FA per aver associato André Onana a un gorilla sui social network. Un accostamento che non ha dato fastidio al diretto interessato, che ha difeso il compagno dalle critiche: "La gente non può scegliere cosa mi offende.

So esattamente cosa voleva dire Garnacho: potere e forza. Questa faccenda non dovrebbe andare oltre". ha scritto il camerunese. Tuttavia, i precedenti non giocano a favore di Garnacho. Edinson Cavani è stato sanzionato con una squalifica di tre partite e una multa di 100.000 sterline (130.000 euro) per aver risposto "Grazie, negretto" al commento di un amico, mentre Bernardo Silva ha ricevuto una squalifica di una partita e una multa di 50.000 sterline per aver associato Benjamin Mendy al logo dei cioccolatini "Conguitos".

Il Femminismo.

Il Bestiario, il Divorzigno. Il Divorzigno è un animale leggendario che non vuole ammettere che i figli possano soffrire per la separazione dei genitori. Giovanni Zola il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.

Il Divorzigno è un animale leggendario che non vuole ammettere che i figli possano soffrire per la separazione dei genitori.

Il Divorzigno è un essere mitologico che nasce alla fine degli anni Sessanta dalle ceneri della cultura cattolica e che protesta per la raffigurazione di figli che desiderano vedere i genitori stare insieme. Così il Divorzigno salta sulla sedia quando si imbatte in uno spot che non solo rappresenta la famiglia come una coppia tra un uomo e una donna, ma li induce a sentirsi in colpa di fronte alla loro bambina che li vorrebbe ancora insieme. Sia ben chiaro: per Divorzigno non s’intende colui e colei che si separano tout court, ma chi afferma che sia una scelta normale e senza conseguenze per i più piccoli.

D’altra parte sono cinquanta anni che il Divorzigno finanzia studi e ricerche di mediocri psicologi e sociologi per far dire loro che la “felicità” dell’adulto viene prima di ogni cosa, anche prima dei figli. L’ombra del patriarcato aleggia su tutti noi come il male assoluto. Così gli scienziati esperti si sono sforzati così tanto di dimostrare che l’”amore” passa e se ne va e che sia giusto inseguire l’emozione del momento, che hanno deciso che i figli non hanno diritto di soffrire. I sociologi, amici del Divorzigno, ci hanno insistentemente spiegato che non siamo responsabili delle nostre azioni perché siamo il prodotto di circostanze che non abbiamo scelto. Il Divorzigno, quando si separa, si giustifica, per alleggerire il peso a sé stesso, dicendo che i suoi figli non sono né i primi, né gli ultimi ad essere figli di divorziati, come se l’alto numero di separati dimostrasse che il dolore procurato alla propria progenie sia cosa normale e facilmente superabile. Così fan tutti!

Il grande senso di libertà che il Divorzigno esercita nel perseguire i propri “desideri”, parola chiave per comprendere la riduzione della ragione nell’epoca contemporanea, pretendendo che le sue scelte non rechino danno a coloro che lo circondano, non riesce a nascondere un enorme egoismo. Così crescono e sono cresciute generazioni di figli, poi divenuti adulti, di una fragilità straordinaria grazie a genitori che per non colpevolizzarsi hanno fatto sentire in colpa i propri figli convinti di essere la causa della separazione dei genitori. Il Divorzigno è il re dei nichilisti, il principe del relativismo, toglie le certezze a chi dovrebbe proteggere con conseguenze devastanti.

Il Divorzigno se ne faccia una ragione. Se i genitori si separano, sentirsi in colpa per i figli è assolutamente normale perché è umano. Giovanni Zola

L’invidia della pèsca. Pillon, lo spot dell’Esselunga e l’isteria del ceto medio divorzista. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Settembre 2023

Volevo parlarvi di Martin Scorsese, ma ho visto gente infuriarsi per la trama di uno spot di un supermercato (e non per la dizione sbagliata dell’attrice che interpreta la mamma)

Quest’estate più o meno la metà delle coppie che conosco si sono separate. Se fosse statistica invece che aneddotica, ci sarebbe già un allarme famiglie in disfacimento nei nostri televisori; invece, c’è solo uno spot dell’Esselunga.

Quest’estate l’ho passata a ridere in faccia a quel luogo comune che è «i bambini sono più felici se i genitori sono separati e sereni», ripetuto come fosse il rosario da gente che ha appena finito di dire «tua madre è una stronza» o «tuo padre è un puttaniere» a piccini finalmente sereni in transito tra una casa genitoriale e l’altra. 

La conversazione è sempre finita con «certo, non diremmo mai in pubblico che i bambini preferiscono che i genitori stiano comunque insieme, mica vogliamo passare per retrogradi». Mica siamo l’Esselunga, avremmo dovuto dire. 

Le separazioni dell’estate 2023 tra i miei conoscenti hanno caratteri diversi (alcuni erano primi matrimoni, altri erano già al secondo giro); caratteri sovrapponibili (tutti hanno degli screenshot dell’ex da farti vedere: l’interpretazione dello screenshot speravamo di averla scansata non avendo vent’anni in questo secolo, ma poi sono arrivate le separazioni senili); e tutte sono foriere di ciò di cui da sempre sono foriere le separazioni: la grande domanda «ma come ho fatto a starci insieme finora?».

Forse anche gli amici di Pillon si sono lasciati, e anche lui come me non riesce a essere consolatorio: a ogni «ma come ho fatto», io non riesco a trattenermi e confesso che io me lo chiedo ancora rispetto a tizi che mi sono scopata una volta trent’anni fa, figuriamoci se penso che tu ci possa mettere meno di centodue anni a smettere di pentirti del tizio che hai sposato.

Forse Pillon era esasperato dagli screenshot, dai «ma secondo te cosa intendeva quando mi ha detto che», allorché, due settimane fa, ha spiegato che «il divorzio facile è la prima ragione che tiene i giovani lontani dal matrimonio» e che «lo stato dovrebbe prevedere, per chi lo vuole, una forma di matrimonio indissolubile».

Io l’avevo sentito fratello, Simone Pillon, che all’ennesimo separato che si lamenta perché l’ex gli chiede troppi soldi, all’ennesima divorzianda che gli dice non sai, quello dice ai bambini che sono una zoccola, all’ennesimo guarda qui gli ho trovato delle foto di tette sul telefono, all’ennesima banalità di coppia spacciata per insormontabile tragedia, io l’avevo capito, Pillon, che sbottava auspicando l’abolizione delle separazioni, o almeno una multa che poi lo stato girerà a noialtri amici di famiglia costretti a sorbirci le recriminazioni dei separandi.

Quel che non avevo capito era che Pillon costituiva una prova tecnica di trasmissione. Cosa succede, si era domandato il grande algoritmo che ci governa, se usiamo la separazione per verificare ciò che già sappiamo, ovvero che non esiste più il gusto, il giudizio contestuale, il merito delle cose, ma esiste solo una gigantesca sindrome paranoide applicabile a tutto?

Poiché Pillon è un politico di destra col farfallino che nessuno di noi – noi del cinquanta per cento di separazioni in un’estate sola, noi del ceto medio divorzista, noi che abbiamo molto tempo libero e lo usiamo per gli screenshot – ha mai votato, le reazioni alla sua uscita erano state tutto sommato pacate.

Ma l’Esselunga. L’Esselunga non si deve permettere. Con tutto quel che abbiamo speso in focaccine. Con tutti i punti fragola che abbiamo raccolto. Con tutta la fedeltà che le abbiamo riservato, che se fossimo monogami con le persone come lo siamo con un supermercato allora altro che indissolubilità. E lei, l’Esselunga, ci tradisce così.

Quando, lunedì sera sul tardi, ho ripreso il telefono mollato ore prima, avevo i social pieni di «ah, quindi l’Esselunga è contro il divorzio». Ohibò, cosa sarà mai successo: ti chiedono di controfirmare i desideri di Pillon prima di passare la Fìdaty sul lettore? Macché: era andato in onda uno spot.

Lo spot è fatto così. Dentro al supermercato, una madre cerca la figlia. È uno spot del supermercato, quindi è improbabile che finirà con la bambina rapita da un bruto: il messaggio è forse che i supermercati sono luoghi sicuri? Non so, andiamo avanti a guardare.

Finalmente la trova: è vicina alle pesche (ma siamo a fine settembre: vi era avanzato lo spot girato per l’estate?). La madre pronuncia «pésca», sembra un dettaglio da niente ma non lo è: il messaggio dello spot è forse che bisogna inserire ore di dizione nei programmi scolastici? Non so, proseguiamo.

La bambina è evidentemente una di quelle che da grandi si scriveranno nelle bio social «neurodivergente»: la madre le chiede come le sia venuto in mente di scappare, se voglia una pesca, ma lei non risponde mai, non risponde niente, fissa la pesca forse interrogandosi sulla stagionalità e il chilometro zero. Il messaggio dello spot è dunque che l’Esselunga non è mica Farinetti? Che il mutismo selettivo si cura come suggerisce Checco Zalone? Non so, ma intanto siamo arrivati alla cassa.

Dove la pesca passa sul rullo senza che nessuno le abbia appiccicato su il codice a barre della bilancia, e qui la sospensione dell’incredulità se ne va a meretrici (cioè: a mogli divorziate): dov’è lo spot che tutti attendiamo, quello in cui la cassiera cazzia madre e figlia ed entrambe si mettono a piangere? Il messaggio dello spot è forse che l’Esselunga ha deciso di fare i prezzi a occhio?

In macchina la muta selettiva continua a tacere, la madre dice quelle cose stucchevoli che dicono i genitori di questo secolo terrorizzati di rovinare i figli non trattandoli abbastanza da geni, poi arrivano a casa ed entriamo nel vivo del plot che ha scandalizzato gli osservatori social: il padre separato va a prendere la muta selettiva.

In macchina con lui, ella infine favella: gli dà la pesca, e gli dice che gliela manda la mamma. E lui dice «mi piacciono le pèsche», con la «e» aperta, e dice che la chiamerà, la mamma, per ringraziarla, e a questo punto ci sono due interpretazioni possibili del messaggio dello spot.

La mia è che il matrimonio tra una che pronuncia il frutto come se fosse l’attività del pescare e uno che invece sa quali vocali aprire e quali chiudere non può durare e neppure può finire senza rancori, e che se davvero lui la chiamerà per ringraziarla lei gli chiederà indietro i soldi della pesca (che però non potrà dimostrare d’aver pagato, non avendo il codice a barre).

Quella del collettivo isterico di Twitter è che l’Esselunga ci stia dicendo che il divorzio è sempre colpa delle donne (eh?), che siano degli orridi reazionari che colpevolizzano la madre (eh??), che sia uno schifo, una vergogna, una regressione agli anni Cinquanta, un attentato ai diritti e una sottovalutazione dei problemi miei di donna.

Lo spot è brutto, per carità, ma non ricordo spot belli di supermercati. È più lunare di quello in cui il marito si alzava di notte per andare a controllare le merci dentro alla Conad? Non mi pare, ecco. È tanto diverso da quello della Barilla in cui il papà all’estero trovava il maccherone che gli aveva messo in tasca il figlio? Macché, però quello era nel Novecento: quando uno spot era solo uno spot, e non un pretesto per l’isteria collettiva.

Mi pare che il delirio paranoide proietti su quella pesca e quella muta e quei due dalla dizione incompatibile tutto quel che vediamo nelle separazioni intorno a noi, e quel che temiamo delle (nella migliore delle ipotesi: imminenti) nostre.

Qualche ora prima di vedere gente isterichirsi per uno spot di supermercato, avevo letto un’intervista strepitosa a Martin Scorsese, che è quel di cui avrei voluto parlare oggi qui, ma ancora una volta la stronzata del giorno ha vinto su una cosa bella. Però c’è un dettaglio, tra le cose che dice quel gran figo di Scorsese all’edizione americana di GQ, che forse c’entra con la pesca.

Racconta Martin che non sapeva come avrebbe fatto a controllare il montaggio dei suo film nuovo, che dura tre ore e venti: ha una famiglia, non ce le ha tre ore e venti in cui lo lascino tutti in pace. Ho annuito fortissimo, perché la cosa che chiedo più spesso alle amiche non ancora separate è: come fai a concentrarti?

Ho amiche che, quando vanno fuori città per lavoro, poi mi descrivono per interi minuti con sollucchero e incredulità la beatitudine di avere il silenzio tutto per sé, il letto tutto per sé, l’attenzione tutta per sé. Cerco di non rispondere «ah, la mia vita quotidiana da trent’anni, mi chiedevo giusto quando avresti scoperto come si sta senza rotture di coglioni», perché francamente sarebbe bullismo.

Però è chiaro che il punto che viene fuori con le separazioni non è «come ho fatto a stare con questo specifico cretino», ma: come ho fatto a mettermi un estraneo in casa? Come ho fatto a cedere al ricatto dei metri quadri condivisi, alla truffa della solitudine come problema e non come lusso?

Il problema delle mie amiche, e forse persino di Martin Scorsese, è l’invidia della pesca. Come si fa a non invidiare quel padre che domani la figlia la riporta alla tizia che se la sorbisce tutti i giorni, e avrà la sua casa per sé, la sua vita per sé, la sua pesca per sé? Come si fa a pensare che non avere estranei dentro casa non sia una vittoria? Ma, soprattutto, come abbiamo fatto a ridurci così annoiati e famelici d’indignazione da attaccarci pure al pretesto dello spot dell’Esselunga?

 Estratto dell’articolo di Pietro De Leo per “Libero quotidiano” mercoledì 27 settembre 2023.

E così Esselunga, con questo dibattito nato attorno allo spot, conquista la scena del dibattito pubblico. Di nuovo, come tante altre volte avvenuto in passato. Perché Esselunga è un'impresa intrecciata con la storia del nostro Paese, ha catalizzato parte di un immaginario collettivo che ama le dinastie, i patriarchi e le loro storie di pionerismo e ruvidezza. 

Quella dei Caprotti, e soprattutto di Bernardo, che ha lasciato questo mondo al 2016 a 91 anni, risponde a questi requisiti. È una storia che parla di una dinastia, certo, ma anche della nascita di un colosso della grande distribuzione che portò in Italia un pezzo di sogno americano.

[…] Caprotti, e il suo socio Brunelli, vennero a sapere, ascoltando una conversazione in un hotel, che il magnate americano Nelson Rockefeller voleva aprire alcuni supermercati in Italia. Fanno di tutto per incontrarlo, ci riescono battendo sul tempo la Rinascente e parte il mito. Scandito dallo sbarco in Italia dei “supermarket” costruiti, allestiti e organizzati rispettando fedelmente il modello americano. 

Però è noto che, in Italia, ogni corpo estraneo, che guarda oltre, azzarda e vince, ha vita difficile. E qui si entra nel lungo racconto dello scontro che Caprotti ebbe con le Coop, anch'esse ben piazzate nella grande distribuzione. Lui le accusò costantemente di aver ostacolato l'approdo di Esselunga nelle regioni rosse e di varie irregolarità. Ne nacquero infinite guerre legali, accuse di abuso di posizione dominante, carte bollate e una lunga pubblicistica giudiziaria. Ma ne nacque anche un libro nel 2007, “Falce e Carrello”.

Nel volume, Caprotti denuncia pratiche scorrette a suo danno da parte delle Coop, e delinea l'intreccio di quest'ultime con varie ramificazioni del potere politico della sinistra. Quel libro non fu soltanto il racconto di genesi e sviluppo di una lunga storia d'impresa (in cui non vengono risparmiati neanche i rapporti difficili con i sindacati), ma anche la summa di uno scontro culturale. […] 

D'altronde, erano pur sempre gli anni del berlusconismo, e Caprotti, che al Cavaliere guardava con simpatia come prima aveva guardato a Bossi, portava acqua al mulino di quel racconto lì, del coraggio dell'outsider che lotta con tutte le tue forze contro il groviglio rosso tra potere politico e tessuto economico. Il libro fu bersagliato da denunciare, per diffamazione e concorrenza sleale. A volte Caprotti esce vincitore, altre no.

Il libro fu ritirato dal mercato per poi farvi rientro, qualche anno più tardi, in un'edizione aggiornata. Ma la selva di carte bollate non soffocò per nulla il cuore vero della questione: il messaggio all'opinione pubblica era arrivato, forte e chiaro. E quelle pagine avevano ben disegnato il dualismo tra Esselunga-Coop, specchio di un Paese spaccato in due come una mela, con Caprotti ben piazzato dalla parte dei liberi. 

Il personaggio, poi, aiutava: favella spontanea, pochi fronzoli e parole lapidarie, da imprenditore del Nord. Insomma, il mito era ben solido e, come racconto, avrebbe parlato anche dopo la morte di chi ne aveva scritto il primo tratto. Avrebbe continuato a raccontare: dalla segretaria destinataria, nel testamento, di ben 75 milioni di euro, metà dei risparmi personali dell'imprenditori fino alle cronache sul riassetto societario. Oggi, anche una vicenda effimera come quella dello spot ci riporta lì, al simbolo di un'Italia tenace e laboriosa.

Troppo rumore per una pesca e uno spot. Daniela Missaglia su Panorama il 27 Settembre 2023

La Rubrica - Lessico Familiare. E brava Esselunga. Il coraggioso spot/cortometraggio della ‘pesca’ inverte la retorica della famiglia felice e patinata del Mulino Bianco, dove tutti sono belli, sorridenti, armonici, squarciando il velo di ipocrisia che c’è dietro questi provocatori siparietti. Ma quale famiglia ‘normale’ si siede a tavola di prima mattina già vestita, truccata, imbalsamata nel vestito della festa, radiosa, litigandosi bonariamente una confezione di brioches, scoppiando in fragorose risate e sguardi di ammiccamento fra madre e padre, con tanto di baci e abbracci?

E questa sarebbe una scena di quotidiana vita vissuta? Ma non scherziamo. Esselunga ha voluto essere più realista del re e, con disarmante semplicità, ha fotografato la società attuale, dove i matrimoni non reggono alla prova degli anni, e dove i figli si ritrovano invischiati nelle separazioni dei loro genitori. Non viviamo su Marte, le crisi coniugali sono in continua crescita e hanno raggiunto i livelli pre-covid, dopo una breve pausa dovuta solamente alla difficoltà di accedere ai Tribunali durante la pandemia. Questa è l’Italia e questo è il mondo occidentale, che piaccia o no agli ideatori delle pubblicità. Anche se la polemica dei media su questo spot non mi appassiona, è stato furbamente e volutamente studiato per imprimere nello spettatore un caleidoscopio di emozioni, senza volerlo necessariamente condurre a prendere una posizione, perché non c’è un messaggio politico o sociologico, solo la rappresentazione di una famiglia come tante, dove mamma e papà non stanno più insieme. E’ una solo una breve storia, come quelle di Carosello con Calimero o l’omino coi baffi, dove l’apparente protagonista è una pesca, che segue i personaggi e passa di mano in mano, un po’ come la piuma fluttuante all’inizio del film Forrest Gump.

Il frutto racchiude l’innocente strategia di una bambina per fare riavvicinare i genitori, l’illusoria speranza che, attraverso una mezza bugia, si possa ricostituire quel legame che si è spezzato. La pesca è il mezzo, il testimone olimpico, ma la vera protagonista è la bambina, con il suo mutismo forzato, forse segno degli strascichi di patimento per ciò che ha vissuto, un mutismo interrotto solo quando porge il suo transfert succoso al padre e gli dice “te la manda la mamma”. E’ in quel momento che il padre sussulta di sorpresa, sorridendo imbarazzato e sbirciando verso la finestra dove immagina l’ex moglie che segue la scena a distanza, promettendo infine alla figlia che l’avrebbe chiamata per ringraziarla. Ma insomma, dove sta la polemica di chi si è diviso sul web e sui giornali? Ognuno ci veda quel vuole vedere. Io leggo un riportare i bambini al centro di quell’isola che, per lo storico giurista Arturo Carlo Jemolo, può essere solo lambita dal mare del diritto: la famiglia. La bambina dello spot sa, in cuor suo, che deve abituarsi a una nuova realtà di passaggi fra un genitore e l’altro, lo accetta, ma ugualmente prova a creare le basi per migliorare i rapporti fra mamma e papà, per far rigenerare quell’antica fiamma di cui parlava Virgilio nell’Eneide. Nulla di più, nulla di meno. Perché alla fine il messaggio è uno soltanto: ogni spesa è importante (sottinteso: fatela nei nostri supermercati). In fondo anche l’omino coi baffi sponsorizzava le caffettiere Bialetti e Calimero, piccolo e nero, il detersivo Ava. L’obiettivo quindi è unicamente commerciale. E se poi la gente sgomita e si accapiglia fra favorevoli e contrari, beh, ancor meglio. Questo perché, come disse Oscar Wilde per bocca del suo straordinario personaggio Dorian Grey: “C’è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé.”.

Un tempo si litigava su Pasolini e Lolita, oggi ci accapigliamo su uno spot...Le polemiche sulla famiglia tradizionale generate dalla pubblicità di Esselunga sono il sintomo di una società che ha ucciso la cultura. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 27 settembre 2023

C’è qualcosa di distopico nell’uragano di polemiche provocato dallo spot della “pesca” di Esselunga, qualcosa che racconta e fotografa la nostra società, la qualità del suo dibattito pubblico, dei suoi riferimenti culturali.

Dividersi con toni così feroci e apocalittici su un piccolo filmato commerciale che utilizza la patina emotional di una bambina figlia di genitori separati come espediente narrativo, e il cui scopo è soltanto quello di vendere ortaggi, carni, detersivi e altri articoli, più che il segno di una collettività vigile e impegnata sembra una forma di nevrosi collettiva. Paladini della famiglia tradizionale contro difensori della famiglia moderna, psicologi dell’infanzia contro femministe, sociologi contro prelati, tutti che si azzuffano nell’esasperata e inutile esegesi di uno spot. Di sicuro gli indignati e i rabbiosi, coloro che accusano la Esselunga di veicolare un messaggio retrivo e di vittimizzazione secondaria della coppia separata fa una figura peggiore di chi, al contrario, ne ha apprezzato la “sensibilità” e la “delicatezza”, ma si tratta di dettagli perché il problema di fondo sta nel cercare un messaggio che non c’è.

Queste polemiche giustamente trovano piena cittadinanza e risonanza nel ring che più di tutti ne è diventato l’emblema: i social network. Il mezzo è il messaggio diceva oltre mezzo secolo fa Marshall McLhuan, con l’irruzione dei social la fusione è diventata totale. Tutta la nostra comunicazione è oggi scandita dalle quelle logiche mitomani, dall’indignazione pavloviana, dall’opinionismo diffuso, lo stesso stile letterario con cui ci esprimiamo pubblicamente è figlio di quel medium. Ognuno con il suo format: i cinquanta, sessantenni sul prolisso Facebook che ormai sembra una casa si cura per vecchi rancorosi e sconfitti dalla vita; i più giovani attraverso la brevità dello storie Istagram e dei reels di Tiktok. Entrambi intrappolati nella stessa realtà virtuale che invade e allaga anche il mondo delle cose e delle persone in carne e ossa.

Che anche la premier Giorgia Meloni si sia poi sentita autorizzata a dire a sua sulla questione -per lei lo spot sarebbe «bello e toccante» - non può che chiudere mestamente il cerchio. Come è possibile che la reclame di un supermercato possa generare una simile contrapposizione?

Un tempo non troppo lontano si discuteva e ci si divideva sulle opere degli artisti, dei registi, dei romanzieri, dei cantautori, degli intellettuali omnibus; oggi quel ruolo è interpretato dai creativi delle agenzie pubblicitarie, dai draghi del marketing. I quali, bisogna sottolinearlo, non hanno alcuna colpa; la responsabilità semmai ce l’hanno gli altri, chi non riesce più a concepire e realizzare film, libri, album musicali capaci di suscitare dibattito.

Quando nell’immediato dopoguerra Vittorio De Sica realizzò Ladri di biciclette mostrando la miseria sociale in cui versava il nostro paese, la commissione censura presieduta da un giovane Giulio Andreotti provò a bloccare il film, spiegando che parlava di «cenci e di stracci», i quali per abitudine «si lavano in famiglia». La discussione fu accesa ma e alla fine i moralizzatori persero su tutta la linea e il neorealismo sbocciò nel suo splendore. Si litigava spesso sulla letteratura, ad esempio su Lolita, il perturbante capolavoro di Nabokov, accusato addirittura di giustificare la pedofilia, sui Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini con l’autore accusato di pornografia e censurato per «oscenità». Anche il compianto Pier Vittorio Tondelli finì nel mirino della procura per il suo Altri Libertini che venne sequestrato in quanto «blasfemo». E che dire del film di Bernardo Bertolucci Ultimo Tango a Parigi letteralmente condannato al rogo nel 1976 sempre per oscenità?

Per rimanere tema del divorzio e delle sue conseguenze sui figli il lungometraggio Kramer contro Kramer (1979) oltre a vincere cinque oscar suscitò grandi discussioni (ma poche polemiche) e allo stesso tempo illuminò con realismo la difficile condizione dei genitori separati. Quando la nostra vita era accompagnata da grandi film e grandi romanzi, mai una pubblicità di una catena di supermercati avrebbe ricevuto tanta attenzione mediatica.

A difesa dello spot di Esselunga c’è da dire che è stato realizzato e recitato molto meglio del 90% dei film italiani, ma questo non fa che confermare l’assunto di fondo.

Estratto da today.it mercoledì 4 ottobre 2023.

Non sembra volersi spegnere il dibattito sullo spot di Esselunga. A infiammare di nuovo gli animi - che nelle ultime ore sembravano essersi assopiti - ci ha pensato questo weekend Matteo Salvini, postando una foto nel parcheggio del supermercato, appena finito di fare la spesa nella nota catena finita al centro della polemica. Una provocazione che ha riacceso i riflettori sulla vicenda. 

A parlarne ieri sera nel programma di Massimo Gramellini su La7, "In altre parole", è stato Roberto Vecchioni. "Sarebbe stato molto più originale, ma molto più originale, se la bambina avesse trovato nella macchina un'altra donna. Un'altra madre" ha detto il cantautore, che ha immaginato anche un altro possibile scenario: "Oppure il padre e con la bambina avessero salutato insieme un altro padre alla finestra". 

Le parole di Vecchioni hanno ovviamente spaccato a metà il pubblico, esattamente come la pubblicità. Nei suoi riguardi, però, c'è stato un attacco personale. Come è noto, la figlia di Roberto Vecchioni, Francesca, ha avuto due figlie insieme a un'altra donna, dalla quale si è separata, e il papà ha sempre portato avanti la loro battaglia su diritti e famiglia. "Molto originale! Che barba" commenta un utente su Twitter, e un altro:

"Guarda Roberto ormai tua figlia con figli l'ha capito che gli vuoi bene, ma non è un nostro problema se si è già separata dalla moglie". A tuonare anche Hoara Borselli: "Una storia di normale divorzio dove ci sono solo due genitori è antico? Troppo démodé? Fuori dai tempi? Mettere i figli al centro è obsoleto?". Infine il commento più gettonato: "Ma lui non era quello che voleva una donna con la gonna?".

La pesca bipolare. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 28 settembre 2023. 

Alla Esselunga staranno facendo le capriole perché l’Italia intera parla dello spot di una bimba che, nel tenero tentativo di riconciliare i genitori separati, si fa comprare una pesca dalla madre e poi la regala al padre, spacciandogliela per un pensierino dell’ex-moglie nei suoi confronti. Sui social si trovano recensioni persino sul perché la pesca non sia stata portata alla cassa avvolta nell’apposito sacchetto biodegradabile e su quale dei due genitori abbia lasciato l’altro: probabilmente la madre, a giudicare dallo sguardo bastonato di lui, che però chissà cosa doveva averle combinato. Ma il tema centrale del dibattito è lo stesso che divide la politica, con la destra che esalta lo spot come manifesto dell’indissolubilità della famiglia e la sinistra che lo contesta, a conferma che di spazio per un Terzo Polo in Italia non se ne trova nemmeno al supermercato.

Non vorrei guastare la rissa, però mi pare che poggi su presupposti sbagliati: ricordare che le separazioni procurano dolore ai bambini non significa negare l’istituto del divorzio. Della storia di un’esistenza, quella pubblicità ci restituisce solo un frammento: una bimba di cinque anni che legittimamente desidera che mamma e papà stiano insieme. Ma la vita non finisce a cinque anni e molte coppie divorziano proprio per evitare che i figli crescano tra le tensioni. Magari nel prossimo spot ci sarà un’adolescente che la pesca la spiaccica in testa ai genitori perché continuano a scannarsi invece di separarsi.

Meloni e lo spot della pesca di Esselunga: «Bello e toccante». Storia di Daniela Polizzi su Il Corriere della Sera mercoledì 27 settembre 2023.

«Leggo che questo spot avrebbe generato diverse polemiche e contestazioni. Io lo trovo molto bello e toccante».lo spot «La pesca» che Esselunga manda in onda da lunedì in tv. È la storia di una bimba, figlia di genitori che solo alla fine si scopre che sono separati. Compera una pesca al supermercato insieme alla mamma e la regala poi al papà, dicendo però che gliela manda la mamma.

Esselunga è tornata a fare parlare di sé e questa volta è entrata nel vissuto quotidiano delle persone alle prese con l’evoluzione dei modelli di famiglia. Sui social lo spot ha suscitato apprezzamenti e polemiche che hanno portato a 38 mila le menzioni del gruppo della grande distribuzione su X, l’ex Twitter. La politica è in prima fila nei commenti, con il vicepremier e ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, che ha sottolineato come «trasformare uno spot in uno splendido messaggio di amore e famiglia merita solo sorrisi».

Critico verso la campagna l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, che considera «davvero sbagliato, in questo ed altri casi, mettere in mezzo la sofferenza dei bambini su temi delicati per scopi commerciali». Carlo Calenda, segretario di Azione, sostiene che la politica dovrebbe occuparsi di altri problemi, per esempio quello della sanità, non di uno spot. Mentre la leader del Pd, Elly Schlein dice di non averlo guardato. Positiva Michela Vittoria Brambilla, presidente della Commissione parlamentare per l’Infanzia, secondo la quale il disagio psicologico dei bambini figli di coppie separate è «troppo spesso dato per scontato. Esselunga accende i fari su questo disagio». Sullo spot più visto in Italia Esselunga va oltre le polemiche. «La spesa — dice Roberto Selva, Chief marketing & customer officer — non è solo un atto d’acquisto, ha un valore simbolico molto più ampio».

"Spacca" lo spot della pesca. Meloni: "Bello e toccante". Ma la sinistra dà i numeri. "È bello e toccante". "No, colpevolizza tutti". Lo spot della "pesca" sta spaccando il Paese. Sui social non si parla d'altro, in ufficio si dibatte, nei capannelli dei genitori all'uscita di scuola è l'argomento del giorno. Alberto Giannoni il 28 Settembre 2023 su Il Giornale.

«È bello e toccante». «No, colpevolizza tutti». Lo spot della «pesca» sta spaccando il Paese. Sui social non si parla d'altro, in ufficio si dibatte, nei capannelli dei genitori all'uscita di scuola è l'argomento del giorno.

Qualcuno cavalca l'onda emotiva che impazza da quando (martedì mattina) Esselunga ha lasciato questa mini-storia da un minuto, subito diventata «trend topic». E alla fine anche la politica si sente in dovere di dire la sua. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni interviene in tarda mattinata: «Leggo che questo spot avrebbe generato diverse polemiche e contestazioni - twitta - Io lo trovo molto bello e toccante». Pure il suo vice, Matteo Salvini, è entusiasta: «Trasformare uno spot in uno splendido messaggio di Amore e Famiglia - dichiara - merita solo sorrisi». A sinistra, in effetti non la prendono bene. Qualcuno giura che è retrogrado e pericoloso, altri danno i numeri, Carlo Calenda «calendeggia» («siamo un branco di decerebrati e meritiamo l'estinzione») ed Elly Schlein come di consueto non sa che pesci prendere e non dice nulla: «Non vorrei deludere nessuno ma non ho ancora visto gli spot di cui si sta parlando».

In realtà sono in pochi a non aver visto lo spot prodotto dallo storico marchio milanese della grande distribuzione. Protagonista Emma, la figlia triste di due genitori separati che al supermercato con la mamma prende una pesca per il papà, e poi gliela porta facendola passare per un regalo: «Te la manda la mamma» dice, sperando in una riconciliazione dei due.

Lo spot spacca, nel senso che divide. Da una parte i «pro-pesca», affezionato a un'idea tradizionale della famiglia, e dall'altra gli «anti-pesca», che parlano di colpevolizzazione e farneticano di un attacco ai diritti. Spacca, la clip, anche nel senso che funziona: è un piccolo film ben riuscito, delicato («retorico», per gli anti) - e coglie qualcosa di autentico. Sono passati decenni dai caroselli che profilavano un'idea idilliaca della famiglia, come quella proverbiale «del Mulino bianco». Poi ha iniziato a passare l'idea di modelli diversi e «alternativi», comunque positivi. Questo spot, invece, dopo aver conquistato la ribalta della cronaca potrebbe passare alla storia perché sdogana la verità: la separazione (il divorzio, principe fra i diritti civili) è dolorosa. Lo è di certo per la piccola protagonista, ritratta nel suo tentativo di rimettere insieme i genitori, a loro volta addolorati ma civili. Un tentativo semplicistico certo, infantile: è una bambina. E i bambini - spiega Antonella Costantino, past president di Sinpia, Società italiana di neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza - «in qualunque situazione hanno dei loro pensieri e delle loro ipotesi. Alcuni vogliono rimettere insieme i genitori, altri invece sono contenti che si siano separati perché litigavano». Per Michela Vittoria Brambilla, presidente della commissione per l'Infanzia e l'adolescenza, lo spot accende un faro «sul disagio psicologico di bambini e adolescenti». «Andrebbero evitate interpretazioni monodirezionali», aggiunge Costantino.

«Mi sembra davvero sbagliato mettere in mezzo la sofferenza dei bambini su temi delicati per scopi commerciali» attacca Pierluigi Bersani (Pd). Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana la butta sull'inflazione: «Meloni commenta lo spot di una nota catena di supermercati ma non dice nemmeno una parola sul carrello della spesa di milioni italiani, separati e non. Per loro anche una pesca rischia di diventare un lusso - esagera - L'Italia attende risposte».

Nel frattempo, se voleva far parlare, il colpo di marketing è perfettamente riuscito. Sul piano del costume si vedrà, ma stavolta non c'è aria né di retromarce né di scuse. «Urge uno spot della Coop con una famiglia non etero con figli felici della separazione» ironizza qualcuno mettendo nel mirino i fautori del politically correct. Una pesca li seppellirà.

Esselunga, cosa c'è dietro alla guerra della sinistra a Caprotti. Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 28 settembre 2023

E così Esselunga, con questo dibattito nato attorno allo spot, conquista la scena del dibattito pubblico. Di nuovo, come tante altre volte avvenuto in passato. Perché Esselunga è un’impresa intrecciata con la storia del nostro Paese, ha catalizzato parte di un immaginario collettivo che ama le dinastie, i patriarchi e le loro storie di pionerismo e ruvidezza. Quella dei Caprotti, e soprattutto di Bernardo, che ha lasciato questo mondo al 2016 a 91 anni, risponde a questi requisiti. È una storia che parla di una dynasty, certo, ma anche della nascita di un colosso della grande distribuzione che portò un pezzo di sogno americano in Italia.

Spesso capita che le epopee inizino da un felice miscuglio tra il rocambolesco e il fortuito. Per Esselunga, siamo alla fine degli anni ’50, fu così, non c’è dubbio. Lo prova il modo in cui Caprotti, e il suo socio Brunelli, vennero a sapere, ascoltando una conversazione in un hotel, che il magnate americano Nelson Rockefeller voleva aprire alcuni supermercati in Italia. Fanno di tutto per incontrarlo, ci riescono battendo sul tempo la Rinascente e parte il mito. Scandito dallo sbarco in Italia dei “supermarket” costruiti, allestiti ed organizzati rispettando fedelmente il modello americano. Però è noto che, in Italia, ogni corpo estraneo, che guarda oltre, azzarda e vince, ha vita difficile. E qui si entra nel lungo racconto dello scontro che Caprotti ebbe con le Coop, anch’esse ben piazzate nella grande distribuzione. Lui le accusò costantemente di aver ostacolato l’approdo di Esselunga nelle regioni rosse e di varie irregolarità. Ne nacquero infinite guerre legali, accuse di abuso di posizione dominante, carte bollate e una lunga pubblicistica giudiziaria.

Esselunga, Porro non si tiene: "Spot fluidi" e opposizione all'angolo. Il Tempo il 27 settembre 2023

Lo spot di Esselunga sta facendo discutere molto. Nel video pubblicitario diffuso dalla catena di supermercati c'è una bambina, figlia di genitori separati, che porta una pesca al papà e gli dice che è da parte della mamma per tentare di riunire la famiglia. Sul tema si è espressa oggi il premier Giorgia Meloni che ha definito il filmato "molto toccante". Il caso ha aperto l'ultima puntata di Stasera Italia, il programma di approfondimento giornalistico di Rete 4, ed è stato oggetto dell'editoriale di Nicola Porro. Il conduttore e giornalista ha ricordato alle opposizioni, che oggi hanno gridato allo scandalo, quanto sia poco lungimirante parlare di strumentalizzazione dei sentimenti dei bambini. 

"I social si conoscono, si infiammano per poco però si sono infiammati anche i politici. Il presidente del Consiglio, dopo aver visto le reazioni, ha detto 'Mi è piaciuta moltissimo questa pubblicità e la trovo molto toccante'. Evidentemente questa frase di Meloni su Twitter non è piaciuta all'opposizione, all'opposizione su uno spot, su una bambina che dà una pesca al papà e cerca di riunire una famiglia separata", ha detto Porro. Poi è andato dritto al punto e ha tirato in ballo Pier Luigi Bersani: "Abbiamo visto spot di tutti i tipi: fluidi, non fluidi. aperti, alti, bassi. Ma questo, evidentemente, non andava bene a Bersani che ha detto 'Mi sembra davvero sbagliato, in questo e in altri casi, mettere in mezzo la sofferenza dei bambini su temi delicati per scopi commerciali'".  

Quindi ha continuato: "Mi viene un po' da ridere perché la memoria è corta, come quella del pesciolino Nemo perché se uno ricordasse come chiusero la campagna elettorale Bersani con una bambina di quattro anni, abbracciandola e dicendo 'Questa bambina è il nostro futuro'. Una bambina ghanese. Non saranno scopi commerciali ma forse politici", ha concluso. 

Esselunga, lo spot scatena il delirio: "Questa pesca da mamma? Stanno con la Meloni". Libero Quotidiano il 26 settembre 2023

Esselunga ha perfettamente raggiunto il suo obiettivo con lo spot da due minuti che sta andando in onda in televisione. Protagonisti una bambina e due genitori separati, alcuni vedono in questo spot l’esaltazione della famiglia tradizionale, una sorta di "assist" al governo Meloni. Altri invece apprezzano la rappresentazione di una “famiglia reale”, quella alle prese con le difficoltà legate a un divorzio.  

La trama dello spot è la seguente: una bambina è all’Esselunga a fare la spesa con la madre, ma a un certo punto si allontana e prende una pesca. Una volta tornata a casa, la bambina appare malinconica. A un certo punto bussa alla porta il padre, al quale la figlia regala la pesca, dicendo che è da parte della madre. Uno spot che è una sorta di rottura col passato: è quanto di più lontano dalla famiglia del Mulino Bianco, dato che i protagonisti sono una coppia separata e la loro figlia che soffre per la situazione.  

L’opinione pubblica si è spaccata a metà. C’è chi si è addirittura commosso per lo spot di Esselunga. “Rimette al centro i bambini, i loro desideri e le loro fragilità. Solo questo mi sembra già una cosa molto apprezzabile”, si legge sui social. Dall’altro lato c’è chi critica lo spot: “Un bambino figlio di genitori separati non ha sofferto già abbastanza? No, serviva Esselunga a continuare a mettere il dito nella piaga. Io sono separata e spero che i miei figli non vedano mai questo spot”. Poi, come detto, chi punta il dito contro la catena di supermercati, "rea" di sostenere le politiche del governo: un discreto delirio. Ma pur di dar contro al centrodestra...

Lo spot delle polemiche. Pubblicità Esselunga, la pesca della “pacificazione” e i genitori separati: perché il cortometraggio fa discutere. Redazione su L'Unità il 26 Settembre 2023

Mandato in onda sui principali canali televisivi nella serata di lunedì 25 settembre, l’ultimo spot di Esselunga, la nota catena di supermercati di proprietà della famiglia Caprotti, è diventato un “trending topic” su X (l’ex Twitter, ndr).

Lo spot è un piccolo cortometraggio di due minuti dal titolo ‘La Pesca‘ con protagonisti una bambina e due genitori separati, realizzato dall’agenzia creativa Small di New York con la regia del francese Rudi Rosenberg. La scena è diversa dalla classica immagine della famigliola felice intenta a fare colazione: siamo in un supermercato Esselunga, protagonista è la bambina che scappa dalla madre (separata dal padre) per andare a scegliere con grande attenzione una pesca. Quindi torna a casa dove, più tardi, viene a prenderla il papà. Quando la bimba sale in auto con il padre gli regala il frutto, fingendo che sia stata la mamma a comprare la pesca per lui, con l’intento di farli riappacificare. “Non c’è una spesa che non sia importante“, è il claim finale dello spot.

Spot che ha spaccato la comunità di X tra coloro che hanno apprezzato la pubblicità firma Esselunga, vista “ in una valle di lacrime” per la scelta di aver messo “il divorzio dal punto di vista dei figli piccoli“, e chi invece l’ha bocciato senza pietà considerandolo una “strumentalizzazione” e chiedendosi se “tra i pubblicitari ci sono Adinolfi, Pillon o altri psicologi e terapeuti familiari“. “Torniamo ai vecchi valori di una volta quando non si poteva divorziare”, con la pubblicità definita” festival dei pregiudizi sulle coppie separate“, scrivono altri utenti critici.

Ma c’è anche ci la mette più sul pratico, facendo notare come “la frutta va messa nel sacchetto e pesata“, “non va presa con le mani e messa nel carrello e sul nastro senza essere imbustata e prezzata“.

Redazione - 26 Settembre 2023

"Spot contro il divorzio". La pubblicità di Esselunga infiamma i social. C'è chi parla di vicinanza alla linea del premier Meloni e chi denuncia la presunta strumentalizzazione di una bambina: il dibattito è rovente. Massimo Balsamo il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.

Una spesa vista attraverso gli occhi e il vissuto di una bimba, una storia ricca di tenerezza che arriva al cuore e commuove con delicatezza lo spettatore. Ma anche uno spot capace di scatenare un dibattito infuocato con tanto di connotazioni politiche. Nelle ultime ore è diventata virale la nuova pubblicità dell'Esselunga, trasmessa lunedì sera sulle principali reti televisive. "La pesca", il titolo dello sport, un cortometraggio cinematografico con un messaggio chiaro: "Non c'è una spesa che non sia importante".

Le polemiche sullo spot Esselunga

Una giovane mamma non trova più la figlioletta al supermercato (Esselunga, naturamente), ma scopre poco dopo che la piccola è sfuggita alla sua attenzione per prendere una pesca. Una volta pagata la spesa, tornano a casa. Mentre giocano e sorridono insieme, suona il citofono: è il papà. I genitori sono divorziati, la bimba saluta la mamma e scende dal papà. Una volta salita in auto, la piccola estrae la pesca e la regala al padre, dicendogli che è da parte della madre. Questa la trama del corto firmato dall'agenzia creativa di New York Small, girato a Milano dal regista francese Rudi Rosenberg e prodotto da Indiana Production. E tanto è bastato per sollevare un polverone, con i soliti soloni pronti a tutto per attaccare il centrodestra.

Sui social network c'è grande divisione: c'è chi lo ha apprezzato, ma anche chi lo ha criticato aspramente. Diversi utenti hanno trovato il racconto toccante, tanto da emozionare. Ma le polemiche sono legate soprattutto all'altra fazione, tra chi parla di strumentalizzazione dei bambini e chi denuncia un approccio retrogrado su divorzio e separazioni. Quelli che cercano ancora più attenzione, invece, accusano Esselunga di voler accontentare l'elettorato del premier Giorgia Meloni. Follia allo stato puro.

Tra filippiche e attacchi scomposti, non manca un po' di sana ironia. Così l'utente Klevis su X:"Chi vede nella pubblicità di Esselunga qualcosa che non sia amore nel senso più puro del termine, è semplicemente arido. Che poi è la base dell’essere comunisti". Molto più concreta Maddalena:"Bambina della pubblicità Esselunga sei coraggiosissima e dolcissima, ma vedi se puoi fare qualcosa anche per abbassare i prezzi delle pesche per favore". Infine, la perla di Genio78 citando un'altra celebre pubblicità: "Pazzesco si indignano per una pubblicità sul divorzio quando abbiamo visto per anni Banderas che da sposato ci provava con una gallina". Una cosa è certa: Esselunga ha centrato l'obiettivo.

Esselunga, lo spot è un caso. Lucarelli: "Stereotipo delle separazioni infelici". Il tempo il 26 settembre 2023

Lo spot di Esselunga è finito sotto i riflettori più del previsto e sta facendo discutere parecchio. Il motivo? Il video promozionale, che prima è stato lanciato in tv e che poi è stato riproposto sul web dagli utenti, racconta con poche immagini la storia di una bambina che è figlia di due genitori separati. La piccola, mentre fa la spesa insieme alla mamma, decide di prendere una pesca e, alla fine, la regala al papà dicendogli: "Questa te la manda la mamma". Se una parte del pubblico ha ritenuto che la pubblicità della catena di supermercati abbia strumentalizzato i sentimenti dei bambini, l'altra fazione ha apprezzato il tentativo di narrare il divorzio dal punto di vista dei figli. Sullo spot, che è già un caso, è intervenuta Selvaggia Lucarelli che, senza mezzi termini, l'ha stroncato.  

"Lo spot di Esselunga con la bambina che prende la pesca al supermercato e la dà al papà separato fingendo che sia un regalo da parte della mamma è un tentativo piuttosto riuscito di pubblicità emozionale, un Mulino con schizzi di fango in cui la famiglia separata è terreno fertile per la lacrimuccia facile. In cui il tavolo delle colazioni felici è sostituito da una finestra e un’auto parcheggiata davanti a un portone. Un mulino che ruota in senso contrario rispetto alla corrente della famiglia felice, eppure vittima anch’esso di uno stereotipo": così ha esordito la giornalista. Quindi ha continuato: "Non quello della famiglia felice, questa volta, ma della famiglia infelice. Che non è necessariamente quella in cui i genitori sono separati. Che non è necessariamente quella in cui i bambini sono in trincea con genitori divorziati. Che non è per forza quella in cui i bambini, figli di separati, finiscono adultizzati e risolutori di conflitti con una pesca in mano". 

Lucarelli ha spiegato che, secondo lei, ciò che non funziona è soprattutto il tentativo di cercare a tutti i costi un approccio moderno al tema del divorzio: "Non c’è nulla di male nella pubblicità di Esselunga, ma non è contemporanea, illudendosi però di essere contemporanea. Non è l’anti Mulino bianco, è anch’essa un mulino, ovvero una famiglia che vive in un posto in cui non abita più nessuno (a parte forse qualche olandese bucolico e le ballerine del Moulin Rouge). Così come i matrimoni non sono tutti felici, le separazioni non sono necessariamente campi di guerra, soprattutto in un momento storico in cui i matrimoni non sono più prigioni, in cui rifarsi una vita è la normalità, in cui tanti genitori riescono a condividere la genitorialità anche senza condividere il letto".  

La giornalista, per avvalorare la sua tesi, ha proposto un esempio concreto: "Nella mia famiglia non tradizionale abbiamo tre esperienze diverse: Lorenzo è figlio di genitori separati e non ha vissuto traumi, è stato un ragazzino felice. Leon è figlio di genitori separati, non ha sofferto, ha due genitori che si vogliono bene. Io ho avuto due genitori che sono stati insieme tutta la vita, nel conflitto costante. Indovinate chi di noi tre, da piccolo, è cresciuto con una pesca in mano? Insomma, apprezzo lo sforzo pubblicitario nell’affrancarsi dalla melassa delle famiglie perfette, ma forse bisogna affrancarsi anche dallo stereotipo delle separazioni infelici".  

Forse stiamo un po' esagerando con lo spot dell'Esselunga. La bambina, la pesca, la coppia separata. Il popolo del web attacca la narrazione che criminalizzerebbe i divorziati. Ma se si trattasse solo di un prodotto superficiale che affronta il reale per la prima volta? Beatrice Dondi su L'Espresso il 26 settembre 2023

Tutte le famiglie felici sono uguali. Ogni famiglia infelice mangia una pesca a modo suo. A guardare con l’attenzione che merita lo spot Esselunga, che è sempre uno spot e quindi in quanto tale andrebbe rigorosamente visto di sfuggita, viene da pensare che persino il dorato mondo descritto dalla pubblicità ha scoperto che le coppie scoppiano, i bambini vengono trasportati come buste della spesa da una casa a un’altra ma spesso e volentieri senza alcun dramma in corso. O forse sì, dipende dalle coppie, dipende dai piccoli, dipende dagli avvocati e da quante urla sono state riversate prima di uscire di casa con le valigie. Insomma, dipende dalla vita vera.  

Siamo stati male educati da decenni in cui un padre e una madre, rigorosamente eterosessuali e possibilmente con figli pari e di genere diverso, si ostinavano a ridere appena svegli per il piacere di vedere uno straccio di merendina che si tuffava in una tazza di latte. E all’improvviso viene fuori un micro film in cui seppur di una virgola cambia la prospettiva.  

La mamma fa la spesa con la bambina, la bambina scappa per comprare una pesca perfetta nel supermercato dove non serve neppure pesarla, le due tornano a casa, giocano, ridono e poi la piccina prende lo zainetto perché è arrivato il padre separato per portarla a casa propria. A quel punto, mentre la musica strappalacrime avanza, la bambina sale e in macchina, offre al padre la famosa pesca neanche fosse la mela di Biancaneve e gli dice: «Questa te la manda la mamma». Musica, lacrime, atmosfera triste, gomitate di sottintesi, fine. Perché come recita il claim, «Non c’è una spesa che non sia importante».  

Ora non è una grande idea quella di questo spot firmato dal  regista francese Rudi Rosenberg e prodotto da Indiana . Ma non c’è dubbio che una coppia separata sia una rarità del mondo promozionale patinato per sua stessa essenza, e un po’ lo sforzo andrebbe apprezzato.  

Invece il popolo del web ha emesso il suo verdetto, accusandolo di essere uno spot governativo contro il divorzio. Ma al di là della sceneggiatura buttata un po’ a caso non sembra certo più pericoloso del celebre rigatone che un’altra bambina metteva di nascosto nella giacca del padre che andava al lavoro come ogni buon maschio che si rispetti. E poi, visto il sistematico attacco all’aborto di questi tempi forse sarebbe bene non suggerire nuovi appigli a cui aggrapparsi…

 Rivoluzione spot: la famiglia è normale. La pubblicità Esselunga è un inno alla realtà: una coppia separata e niente "arcobaleni". Luigi Mascheroni il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.

Forse, per stare nel campo della pubblicità, le famiglie del Mulino Bianco non esistono. Ma è bello pensare che almeno quelle normali, sì. A proposito: quando Barilla puntò troppo sulle tradizioni italiane - un Paese tutto casa, mamma, papà, bimbe e fusilli - poi dovette fare marcia indietro, direzione gay friendly, per recuperare un po' di reputazione aziendale. Che noia. Quella che è invece gioiosa, commovente, amorevole e vera, e vorremmo implementare l'aggettivazione per innervosire ulteriormente il popolo arcobaleno, è la nuova pubblicità Esselunga.

Più di uno spot, un cortometraggio. Più di un cortometraggio, un sogno. Più di un sogno, la realtà. Una campagna pubblicitaria - in una società che vive la diversità come la norma - fieramente rivoluzionaria. Dura due minuti, s'intitola «La pesca» (frutto originario della Cina, vabbè, ma percepito come mediterraneo, romano, sovranista) e racconta una storia di ordinaria semplicità del quotidiano. Una mamma in un supermercato non trova più la figlia, scappata in un'altra corsia per comprare una pesca. Tornano a casa e quando il papà suona al citofono - i genitori sono separati - la piccola scende in strada, sale in auto con lui e gli regala la pesca, fingendo che sia un regalo da parte della madre. «Questa te la manda lei». Momenti di altissima commozione. Claim: «Non c'è una spesa che non sia importante». Forse manca un appello, sui titoli di coda, a firmare per un referendum abrogativo del divorzio, ma non si può chiedere tutto a un'azienda.

Ora, la cosa è molto delicata oltre che rivoluzionaria. Nell'ordine: la bambina non è di colore. A occhio non sembra frutto di una maternità surrogata. I due genitori sono separati sì, ma etero. Quindi stiamo parlando di una minoranza solitamente discriminata. La pesca non è biologica (Olè!). La cassiera non è né musulmana né di etnia sinti. Fra gli scaffali non si aggirano travestiti, ed è strano. Né mamma né papà hanno tatuaggi tribali sul collo. Ma soprattutto, ed è l'aspetto meno credibile della pubblicità (purtroppo), entrambi, lei e lui, usano - in centro a Milano, zona via Solari - un'automobile a testa. E non elettrica! Vorremmo che lo sceneggiatore fosse eletto sindaco al posto di Beppe Sala. Capite che tutto ciò non è accettabile. E infatti lo spot Esselunga è diventato subito oggetto di feroci attacchi sui social.

Apprezzatissima dall'area politico-sociale che fa riferimento a Matteo Salvini e Giorgia Meloni, uno divorziato e l'altra convivente, sorta di super spot-regalo per il primo anniversario del governo sovranista - Dio, Patria, frutta italiana, cibi sani e Famiglia la pubblicità Esselunga, azienda che in passato ha subito la guerra delle cooperative rosse in mezza Italia, ha infastidito il popolo arcobaleno, quello viola, i piddini della corrente Elly Schlein e l'universo Lgbtq.

Domanda: cosa ne pensa la famiglia queer delle murge? Loro, in effetti, sono sempre andati alla Coop. Falce, carrello, tartine, papaya e monopattini. Reazioni: «La pubblicità Esselunga toglie diritti!». «Ci carica di sensi di colpa!». «Perché alla cassa non c'era l'onorevole Zan?». Esselunga è una azienda italianissima, fondata nel 1957, con 180 negozi tra superstore e supermarket, 25mila dipendenti e un fatturato di 8,8 miliardi di euro. La campagna pubblicitaria è dell'agenzia creativa americana «New York Small» (dove lavorano diversi italiani, che sanno cosa succede da noi), firmata da un regista francese, Rudi Rosenberg, e prodotta da Indiana Production. Forse Pro Vita&Famiglia diventerà presto loro cliente. In realtà lo spot di Esselunga non sembra voler ledere alcun diritto al divorzio, racconta di una bambina che soffre per la separazione dei genitori e dimostra che oltre all'orgoglio Woke ci sia il Paese reale. Sui social non si contano i like e i commenti tipo «Da stasera spesona all'Esselunga». E così la più bella sinistra libera e dem, per una volta, è dovuta uscire dalla Ztl. Per andare alla Conad.

Esselunga e lo spot della pesca, l’attore nei panni del papà: «Solo per riflettere. La scena finale girata 20 volte». Storia di Maria Volpe su Il Corriere della Sera giovedì 28 settembre 2023.

«Lo spot della Esselunga? Ho ricevuto tanti messaggi di solidarietà, tante pacche sulle spalle. Io e la mia collega interpretiamo una coppia che si è divisa e lo spot, che dura quasi due minuti, è questo. È quasi un atto rivoluzionario: due minuti è un tempo rarissimo per una pubblicità, è quasi un cortometraggio e grazie a questa durata consente di riflettere su quel che si vede». Queste le parole di Mauro Santopietro, l’attore che, nel ruolo di un papà separato, recita nell’ormai celebre spot della Esselunga di cui si parla da giorni, tra favorevoli e contrari. Ospite a Rai Radio1, nel programma «Un Giorno da Pecora», Santopietro ha risposto alle domande dei conduttori Giorgio Lauro e Geppi Cucciari, in modo molto ironico, con la voce di chi certo non si aspettava controversie politiche tra destra e sinistra per un semplice uno spot, con protagonista una pesca.

Visto che lei parla di cortometraggio, crede che questo spot avrà un sequel? hanno chiesto i conduttori. «Sto cercando di proporlo: potrebbe prevedere che io vada alla Esselunga a comprare una busta intera di pesche. Non so se me lo faranno mai fare…». E poi: Nello spot chi tra moglie e marito ha deciso di ‘rompere’ con l’altro? «Non si sa…ma quello che vuole trasmettere lo spot è il diritto per una bambina di fare dei tentativi di far riappacificare i propri genitori, anche attraverso una semplice pesca». E poi: Quante volte avete girato la scena della pesca finale? «Una ventina di volte perché si voleva inquadrare la pesca in un certo modo, tanto che è stata montata poi al contrario».

Poi i conduttori hanno voluto sottolineare l’aspetto politico del dibattito, chiedendo a Santopietro: politicamente lo spot è stato apprezzato dal centro destra mentre il centro sinistra è stato più critico. Cosa ne pensa? «Mi spiace per entrambe le posizioni, lo spot è prodotto culturale che dovrebbe far riflettere e non spingere a giudicare». Lei nella vita invece è single, separato o sposato? «Sono impegnato…», ha concluso l’attore.

Emanuela Minucci per la Stampa - Estratti giovedì 28 settembre 2023.

Professor Crepet, ha visto che tsunami ha sollevato lo spot dell’Esselunga?

«Sì, ed era ora che qualcuno ponesse gli italiani di fronte a una realtà speculare a quella del Mulino bianco. E chi dice che il Mulino nero è a sua volta uno stereotipo, sbaglia, perché si tratta semplicemente di una verità statistica.

(…)

Lo spot ha anche molto diviso.

«Ha diviso perché non è facile arrendersi a una realtà dolorosa. Vale a dire che la separazione è sempre un lutto, e che i bambini abbiano due camere da letto non può essere considerata una soluzione felice e ancor peggio è quando si delega anche involontariamente, per incapacità, il ruolo di paciere ai bambini: questa, purtroppo, è la massima sconfitta».

In effetti la pesca da regalare al babbo è un’idea della bambina…

«Sì, e questo è un messaggio realistico, ma molto triste. Stupisce però lo stupore. Venga una mattina al tribunale dei minori, e capirà perché la metafora della pesca è un dettaglio ”light” rispetto a quello che succede nella famiglie con figli che si separano con la massima e più cinica nonchalance». 

(...)

Quindi a lei questo spot è piaciuto.

«L’ho trovato fatto molto bene. Ma è sempre triste assistere a una storia di disfatta e di incomunicabilità che coinvolge i bambini e, anzi, delega loro qualcosa che gli adulti non sono capaci di fare».

Più che uno spot una seduta psicoanalitica.

«Una grande seduta psicoanalitica collettiva, direi, che parla ai sensi di colpa degli italiani».

(...)

Qualcuno dice che è diseducativo, però.

«Guardi, mi ricorda le critiche che ricevette il neorealismo che raccontava l’Italia vera, quella con le pezze al sedere. Ci fu chi insorse, ma quella era la realtà e anche lì era inutile girarci intorno».

La Meloni ha detto che in questo spot ha trovato una grande poesia.

«Più che poesia, ripeto, quel messaggio era un messaggio di puro neorealismo».

Nadia Terranova per la Stampa giovedì 28 settembre 2023. 

Sono figlia di genitori che si sono separati poco dopo la mia nascita e ho vissuto tutta l’infanzia nell’indicibile e dolorosa convinzione che la mia famiglia non esistesse.

(…) 

Se quarant’anni fa avessi visto la pubblicità dell’Esselunga, avrei tirato un sospiro di sollievo: allora esistevo. Allora il mio desiderare follemente, sconsideratamente, che due persone che a malapena si rivolgevano la parola tornassero ad amarsi trovava diritto di cittadinanza. 

(…) Oggi sono un’adulta grata a genitori che non le hanno inflitto la loro infelicità di coppia. Ieri ero una bambina che invidiava tutte le altre famiglie, tranne quelle dove i genitori si trattavano così freddamente o litigiosamente da non farla star male al pensiero di tornare nella sua casa monca, pure se riempita dall’amore di una madre. Che era l’amore di una persona sola. Quando passavo i pomeriggi con mio padre, ne ricevevo altrettanto. Ma due amori separati non ne facevano uno, ed era tutto ciò che m’importava. 

(…)

Mi dispiace per chi si sente offeso dalla pubblicità dell’Esselunga, ma quello che rappresenta è il linguaggio dell’infanzia, tale e quale, ed è un grave errore confonderlo con la difesa della famiglia tradizionale. 

(…)

Estratto dell’articolo di Francesco Moscatelli per “la Stampa” giovedì 28 settembre 2023.

«Ci aspettavamo che il nostro lavoro avrebbe fatto parlare, non ci aspettavamo che avrebbe fatto parlare così tanto». Luca Lorenzini, 46 anni, italiano trapiantato a New York e cofondatore insieme a Luca Pannese della società di comunicazione "Small The Agency", è la mente creativa dietro l'ormai celebre pubblicità «della pesca» di Esselunga. In questi giorni il suo telefono, la sua mail e i suoi account social sono intasati di messaggi. Un risultato che vale quanto i numerosi premi vinti negli anni al Festival di Cannes.

Lorenzini, com'è nato lo spot? Che storia volevate raccontare?

«Siamo partiti dal concetto "non c'è una spesa che non sia importante" e abbiamo raccontato una storia che comunicasse questo messaggio». 

[…] Chi lo apprezza ci vede la capacità di affrontare un tema delicato come quello del divorzio dalla prospettiva dei bambini. Anche per voi è così? Come va interpretato?

«Per noi è una piccola storia in cui una bambina si affida a un trucco (ingegnoso e ingenuo allo stesso tempo) per provare a migliorare i rapporti tra due genitori che, come si vede nello spot, hanno un rapporto distante e freddo. Tutto qui». 

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni è intervenuta apposta sui social definendolo «bello e toccante». Vi ha fatto piacere?

«Noi guardiamo le cose dal punto di vista del nostro lavoro. Se la premier italiana decide di parlare del nostro lavoro e lo apprezza per noi è sicuramente un bel risultato».

In Italia la famiglia è spesso al centro di scontri ideologici e giuridici. Pensiamo ai diritti dei figli delle coppie arcobaleno. Voi vivete a New York. Che idea vi siete fatti del dibattito italiano?

 «Non siamo sicuri che in America se ne sarebbe parlato così tanto. Chi accende la televisione qui noterà quasi subito come, rispetto all'Italia, si raccontino storie più variegate. In Italia, in generale, c'è paura di fare qualcosa di diverso».

I critici invece si dividono in due categorie: chi parla di strumentalizzazione […] e chi sostiene che passi un messaggio datato […]. Cosa rispondete ai primi?

«[…] che abbiamo ricevuto decine di messaggi di persone ormai adulte che ci hanno detto: "Io facevo la stessa cosa, mi sono rivisto in quella bambina". Quindi pensiamo di aver raccontato una storia verosimile». 

E […] ai secondi?

«Con i messaggi ricevuti da coppie divorziate che ci hanno detto: finalmente qualcuno che parla di noi».

Estratto dell’articolo di Oriana Liso per “la Repubblica” giovedì 28 settembre 2023. 

Lo spot del Mulino Bianco?  «Era l’esempio di famiglia perfetta di quel tempo in cui è stato girato. Noi raccontiamo un altro tipo di famiglia». 

Luca Lorenzini […] il Mulino Bianco: un riferimento da capovolgere?

«Noi siamo partiti dal concetto che il nostro cliente ci ha chiesto, “Non c’è una spesa che non sia importante”, abbiamo pensato di mettere al centro del racconto i consumatori, chi sono, le loro vite, e di farlo con una narrazione diversa da quella tipica delle pubblicità italiane, forse perché viviamo a New York, lavoriamo con clienti di tutto il mondo e vediamo un altro modo di raccontare la quotidianità».

Ma la pesca, perché?

«Siamo partiti da una idea con il nostro cliente e da una richiesta, abbiamo pensato a come sviluppare un racconto molto cinematografico e lungo - due minuti sono fuori dai canoni classici della pubblicità - e abbiamo pensato alla pesca come spunto di un racconto. Potevano esserci molti altri spunti e molte altre storie, magari ce ne saranno».

C’è chi vi critica anche per l’ambientazione borghese e milanese.

«Esselunga è nata a Milano, il punto vendita di via Solari dove abbiamo girato è uno di quelli più conosciuti e riconoscibili, tutto qui».

Parlando di spot, il vostro viene paragonato a uno di Ikea che parla sempre di famiglie con genitori separati. Cosa ne pensa?

«L’ho visto, certo, e visto che si parla di una azienda che fa mobili il messaggio di far sentire il bambino sempre a casa è bello». 

Ma alla fine il messaggio che volevate dare qual è?

«Sin dalla fase creativa ci eravamo detti che volevamo fosse una storia che potesse avere molte e diverse interpretazioni, che poi è quello che sta succedendo. E abbiamo volutamente lasciato aperto il finale della storia: ci si vede passato, presente e futuro».

Modugno, piange il telefono e la ferita del divorzio. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera giovedì 28 settembre 2023.

Caro Aldo, certo che ce ne vuole di fantasia, da parte della sinistra, per creare un caso legato ad uno spot televisivo commovente in cui una bambina, con lo stratagemma della pesca, cerca di far riavvicinare i propri genitori separati: cosa c’è di strano? Non è il sogno di tutti i figli, tranne coloro che hanno assistito a scene di ripetuta violenza? Stefano Casadei Sono sempre più incredulo. Davvero il ceto intellettuale italiano preferisce interrogarsi sulla pubblicità di un supermercato piuttosto che dar vita finalmente a un serio dibattito pubblico sullo stato comatoso della scuola italiana? Leonardo Eva, Firenze

Cari lettori, E’ davvero sorprendente come storie all’apparenza laterali accendano la discussione pubblica provocando financo l’intervento del capo del governo e dei capi dell’opposizione. Non dico ci si debba confrontare ogni giorno su denatalità, migrazioni, cambio climatico, proliferazione nucleare, intelligenza artificiale, biotecnologie, crollo del lavoro intellettuale e del potere d’acquisto; sono le grandi questioni del nostro tempo da cui dipende il futuro dell’umanità; ma sono considerate noiose, e quindi nella piazza digitale della Rete si parla d’altro. La discussione sulla bimba del supermercato ha un precedente. Nel 1975 Domenico Modugno portò in Italia «Piange… il telefono», remake di una canzone che aveva spopolato in Francia. Era un terrificante dialogo tra un padre si presume divorziato e una bambina che non sa di essere sua figlia. L’uomo tenta invano di convincere la sua ex donna a venire al telefono; poi nella versione francese si suicida, in quella italiana si limita a piagnucolare. Ma in Francia nessuno protestò; il divorzio era stato introdotto dai rivoluzionari nel 1792, abolito con la Restaurazione ma ristabilito nella Repubblica laica di fine ‘800. L’Italia era invece ancora lacerata dalla battaglia del referendum del 1974. I divorzisti criticarono la canzone, che rinfrancò invece gli anti-divorzisti. L’Italia resta ancora oggi, anche dopo la tardiva riforma del divorzio breve, uno dei Paesi in cui rompere un matrimonio è più complicato. In Svizzera, ad esempio, il giudice non ha alcun obbligo di provare a riconciliare i coniugi, formalità inutile ma penosa. In Germania non esiste il divorzio con addebito di colpa: se un matrimonio finisce non c’è un solo colpevole. Da noi all’evidenza il divorzio è una ferita aperta. Anche se le giovani coppie si separano facilmente, forse troppo: come se fosse impossibile perdonarsi, attendersi, ritrovarsi.

Estratto dell'articolo di Giuliano Ferrara per “Il Foglio” giovedì 28 settembre 2023.

Il contemporaneo se ne frega dei sentimenti, del senso di abbandono, della nostalgia, del bisogno di tenerezza da parte dei figli che pretendono l’unione dei genitori invece della loro separazione, il contemporaneo considera tutto ciò che genera senso di colpa uno sfregio al modo di vita libero, alla famiglia che funziona o non funziona come dettano le regole sregolate di un matrimonio fallito eccetera. 

Quindi fa scandalo un video promozionale dell’Esselunga in cui una bambina un po’ smarrita prende una pesca o persica durante la spesa al supermercato con la madre e quando è affidata al padre, che la va a prendere sotto casa senza incontrare la moglie separata con cui è in freddo, gliela regala dicendo che gliela manda mamma. 

La presidente del Consiglio, madre non sposata, trova che lo scandalo non ha ragione di esistere […]

Quanta inutile confusione. Evidente che lo spot è inusuale ma indiscutibilmente bellino nella sua sincera ingenuità commerciale, esprime un sentimento ultranormale, dolcemente ricattatorio nella speranza di un lieto fine che forse non ci sarà, e tutti ce ne faremo una ragione, compresa la bambina, ma intanto una pesca è una pesca, una pesca, una pesca (o al massimo una persica), nel mondo reale e nell’immaginazione targata Esselunga. 

[…]

Ma qui bisogna ribadire che l’amore non è abbastanza, love is not enough, come scriveva nel 1967 lo psicologo Bruno Bettelheim, a proposito dei disturbi affettivi dei bambini. Secondo lo psichiatra e umanista e moralista quieto Francesco Montanari, di cui l’editrice Roccantica pubblica una raccolta postuma di scritti (“Un suono che la memoria può ricordare”), Bettelheim […] sapeva che il freudismo ha un limite, perché “l’Io ha delle prerogative e delle funzioni autonome che la psicoanalisi aveva trascurato. Ne conseguiva una concezione in cui l’uomo si configurava non più solo come individuo realizzato affettivamente (Love is not enough) ma anche come individuo socialmente integrato (…)”. 

Così dobbiamo pensare che la bambina dello spot ha un’idea strutturata su principi emotivi fondamentali, non coincidenti con libido e colpa freudiana. Quando fa di un dono una proposta di riconciliazione, più o meno consapevolmente, il suo superIo adopera uno strumento di integrazione sociale e lo propone a una coppia di adulti-bambini soddisfatti o insoddisfatti di un matrimonio per sé, e si presume per altri, condotto a una crisi che potrebbe essere solo provvisoria, agli occhi della figlia in comune.

Quella bambina con quel frutto comune, da supermercato, si muove senza saperlo sulla scia di una nuova letteratura matrimonialista, fiorente in America, in cui anche saggisti liberal assumono come un’ovvietà l’idea solo in apparenza conservatrice che un buon matrimonio con educazione in comune dei figli e un giusto grado di integrazione sia in fondo una buona cosa, perfino testimoniata dagli onnipresenti numeri della sociologia del contemporaneo. 

L’amore non è abbastanza, e non è forse nemmeno quella la tenerezza emozionale in questione. In una ragione del cuore che la ragione non conosce, forse il problema è che la bambina Esselunga sa stare al mondo appena un po’ meglio dei suoi smarriti genitori. Uno scandalo? Giudicate voi. 

Spot Esselunga messaggio velenoso: la bimba (bugiarda e disobbediente) come la strega di Biancaneve. Vladimir Luxuria su Il Riformista il 28 Settembre 2023 

Nel Si&No del Riformista spazio allo spot dell’Esselunga e alle polemiche che ha suscitato la storia della famiglia separata con la bambina che cerca di ricongiungere i genitori con l’acquisto di una pesca. Favorevole allo spot lo scrittore Andrea Venanzoni, secondo cui nella pubblicità “è solo il mondo con la sua varietà, rassegnatevi, sarà una pesca a seppellirvi”. Contraria Vladimir Luxuria. L’ex parlamentare considera “velenoso” il messaggio lanciato dallo spot dell’Esselunga. Un messaggio che fa male a tutti i genitori“.

Qui il commento di Vladimir Luxuria:

Quando ho visto lo spot dell’Esselunga mi è venuta in mente una favola, in particolar modo il momento in cui la strega di Biancaneve ha una mela in mano e cerca di convincere Biancaneve a mordere quella mela. Anche qui la bambina dà una pesca al papà ma è una pesca avvelenata. Avvelenata perché il messaggio è un messaggio velenoso, soprattutto per i genitori separati. Non c’è più la famiglia del Mulino bianco, per riprendere un’altra metafora famosa che riguarda il mondo della pubblicità, ma esistono tanti tipi di famiglie. Non solo famiglie eterosessuali ma anche famiglie arcobaleno, non solo famiglie con papà e mamma che continuano a vivere insieme ma famiglie che vivono insieme sia sposate sia non sposate ma anche tante famiglie ricomposte, quindi madre o padre che si sono risposati e ancora tante famiglie separate. Ora, il messaggio di questo spot pubblicitario è quello di una bambina triste, addolorata e che vive male perché i genitori si sono separati.

I bambini stanno male quando i genitori si separano male, cioè quando cercano di far pesare sui bambini tutti i malumori o quando peggio ancora li utilizzano come arma di ricatto o anche per delle vendette, o quando cercano di parlare male dell’altro al bambino tentando di renderlo partecipe, tifoso, addirittura nel tentativo di far odiare il padre o la madre. Sicuramente un bambino può starci male se due genitori si lasciano e bisogna saper spiegare il momento della separazione, ma per fortuna da un po’ di anni in Italia esiste il divorzio e che a parlare di indissolubilità del matrimonio sia ancora solo la chiesa e Simone Pillon che ultimamente aveva fatto un post nel quale proponeva alcuni tipi di matrimonio indissolubili. Per fortuna esiste il divorzio perché tanti bambini sono stati male e hanno vissuto male per le continue liti che avvenivano dentro le mura domestiche. Certo, questo è uno spot che può piacere oppure no, sicuramente ha centrato l’obiettivo di far parlare di sé ma sicuramente non è rappresentativo di tutte le realtà italiane e soprattutto è uno spot che fa male a tutti i genitori separati che quotidianamente cercano di non far pesare ai figli la propria separazione ma che al contrario cercano di garantirgli comunque un futuro. È vero che questa pubblicità sta facendo molto parlare e chi ha fatto lo story telling sapeva benissimo a cosa andava incontro ma secondo me questo è l’effetto a breve perché alla lunga tiene fuori i single, i genitori separati, tutti gli altri tipi di famiglie e quindi credo che al ungo andare sia controproducente perché i soldi non hanno colore e dovrebbero interessare anche i genitori tranquillamente separati e i bambini che continuano a giocare, a vivere, a studiare anche quando si tratta di figli di genitori separati: anche loro fanno la spesa.

Inoltre, questa non è proprio una bambina modello, disobbedisce alla mamma e se ne va in giro da sola per il supermercato. E poi c’è l’esaltazione della bugia perché sarà pure a fin di bene ma la bambina mente quando dà la pesca al papà dicendo che è la mamma che gliela aveva voluta regalare.

E c’è anche un’altra considerazione da fare: in questo spot la parte della cattiva della coppia la fa la donna. Lui, il papà, timidamente citofona e fa un cenno di saluto con la testa, lei invece arcigna lo guarda dalla finestra con uno sguardo severo e neanche gli permette di salire a casa. E poi il finale dello spot (finale che non fanno vedere) sarebbe stato questo: il padre sale a casa senza citofonare con la pesca in mano e ringrazia la mamma per il pensiero gentile. Lei si arrabbia prima con l’ex marito perché avrebbe solo dovuto citofonare poi rimprovera la figlia per la bugia. Vladimir Luxuria

Spot Esselunga è il mondo con la sua varietà: rassegnatevi, sarà una pesca a seppellirvi. Andrea Venanzoni su Il Riformista il 28 Settembre 2023 

Nel Si&No del Riformista spazio allo spot dell’Esselunga e alle polemiche che ha suscitato la storia della famiglia separata con la bambina che cerca di ricongiungere i genitori con l’acquisto di una pesca. Favorevole allo spot lo scrittore Andrea Venanzoni, secondo cui nella pubblicità “è solo il mondo con la sua varietà, rassegnatevi, sarà una pesca a seppellirvi”. Contraria Vladimir Luxuria. L’ex parlamentare considera “velenoso” il messaggio lanciato dallo spot dell’Esselunga. Un messaggio che fa male a tutti i genitori“.

Qui il commento di Andrea Venanzoni:

Siamo passati da ‘I dieci giorni che sconvolsero il mondo’, il volume di John Reed sulla Rivoluzione d’ottobre, ai ‘due minuti che hanno sconvolto la Rete’, lo spot di Esselunga che ha incrinato le già fragili certezze di tutti gli indignati in servizio permanente che presidiano gli anfratti più nebulosi del dibattito politico e culturale, i quali se ne sono andati, letteralmente, in frantumi davanti la storia di Emma e della sua pesca.

Quella che è semplicemente, linearmente, una garbata storia che veicola un suo messaggio, prima di tutto promozionale, è diventata, nel coro polifonico dei commentatori, un attacco ai diritti, un affronto, una esibizione muscolare reazionaria.

Decostruzionisti, divenuti celebri e istituzionalmente rispettati per aver dimostrato come esista la libertà di essere riconosciuti dallo Stato e di identificarsi quali armadilli o lemuri, verranno a parlarvi di quanto biecamente conservatrice sia quella pesca e di quanto intrinsecamente malvagia sia la bambina.

Poltergeist retrivo che cerca, con il suo nostalgismo magari clericale, di incrinare la sacrosanta autodeterminazione divorzile, e giù di sberleffi e preoccupazione e linguaggi da collettivo maoista anni Settanta.

Gente uscita frettolosamente fuori dal suo baccello da Politburo coi capelli fucsia si azzarda in languide e verbose disamine per dimostrarci quanto scorretto, sbagliato, intrinsecamente violento questo spot sia, perché osa narrare una storia, una storia in cui appaiono soltanto un uomo, una donna, una bambina e una pesca. E un supermercato, già.

Sceneggiato dal Generale Vannacci, penseranno gli indignati che con orrore analizzano ogni singolo fotogramma nemmeno fosse Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman, perché è incredibile, incredibile e indegno, che uno spot di un supermercato osi addirittura parlare di acquisti in un supermercato, e non magari di un musicista eroinomane di colore che tra un’orgia e l’altra combatta per i diritti della comunità transgender, e cerchi di vendervi una auto elettrica, come potrebbe andare di moda in una campagna pubblicitaria di una marca di scarpe da ginnastica.

Non posso che essere favorevole, graniticamente favorevole a uno spot che in due soli minuti sconvolge una parte di opinione pubblica, fa montare un caso politico, diventa fenomeno culturale, con spirito pour épater le bourgeois nonostante non volesse sconvolgere proprio nessuno, limpidamente mette a nudo la strutturale ipocrisia di una parte che vorrebbe spot insensati di qualunque ordine e grado e respinge l’indignazione altrui come bieco oscurantismo e poi pratica la medesima indignazione per una storia del genere.

Esiste anche questo mondo. Che no, non è il mondo al contrario.

E’ semplicemente il mondo, con la sua varietà, le sue famiglie occidentali composte da una mamma, un papà e una bambina, famiglie che a volte si separano e che i figli vorrebbero veder riconciliarsi, nella loro scomoda e sovente dolorosa posizione.

Invece no, tutti figli felicissimi, contentissimi, gioiosissimi di coppie separate, divorziate, meno male che si sono lasciati mamma e papà, ma che scherzi.

I Generali Vannacci, santa pace, ve li meritate, li costruite voi, generando queste polemiche del tutto insensate su quello che è e rimane uno spot con un suo messaggio, totalmente scevro di qualunque violenza e di qualunque esagerazione.

Prendiamone atto: viviamo ormai in un’epoca nella quale la mancanza di violenza, di oscurità, di opacità viene presa essa stessa per violenza. La violenza stigmatizzata, a parole, da chi adesso sputa fiele in preda a grande isteria su mamma, papà, bambina e pesca.

La rivolta contro il mondo moderno passa per la pesca di Emma? A questo davvero siamo arrivati?

Siamo giunti infine nel ventre di un momento storico che similmente all’Atto III dell’Amleto shakespeariano vede la virtù inginocchiata ai piedi del vizio, intenta a chiedergli il permesso di fargli del bene.

Un’epoca di melassa, in cui una narrazione lineare, senza sbavature, senza eccessi di retorica o spirito di conflitto, che ci mostra uno spaccato di vita quotidiana e un guizzo malinconico finale, in quella piccola epifania rappresentata da una pesca è vissuta, percepita, sentita fin nel midollo come una aggressione ai diritti.

Rassegnatevi: sarà una pesca a seppellirvi. Andrea Venanzoni

Giulio Meotti per “il Foglio” - Estratti giovedì 28 settembre 2023. 

(...)

Ora il libro di economia più atteso dell’anno sostiene che avere genitori sposati fa bene ai figli. Banalità? 

“Per anni, gli accademici che studiano la povertà, la mobilità e le strutture familiari hanno evitato questa verità evidente”, scrive l’economista Melissa Kearney in “The Two-Parent Privilege”, pubblicato questa settimana e recensito da tutti i grandi quotidiani che contano. Un tentativo di spiegare l’importanza del matrimonio ai colleghi intellettuali. 

Purtroppo, Kearney ha il suo bel da fare. L’autrice è un’economista formatasi al Mit e scrive: “L’assenza di un padre dalla casa di un bambino sembra avere effetti diretti sui risultati dei figli – e non solo a causa della perdita del reddito genitoriale”. Per questo dobbiamo “ripristinare e promuovere la norma di una casa con due genitori per i bambini”. Daniel Patrick Moynihan lo disse nel suo rapporto del 1965 sulla famiglia. George Gilder ci ha scritto “Sexual Suicide” (1973) e “Men and Marriage” (1986). E Charles Murray, che ne aveva parlato nel suo studio fondamentale, “Losing Ground” (1984), ha avanzato argomentazioni simili in “Coming Apart” (2012).

“Le prove sono schiaccianti: i bambini provenienti da famiglie monoparentali hanno più problemi comportamentali, hanno maggiori probabilità di finire nei guai a scuola o con la legge, raggiungono livelli di istruzione più bassi e tendono a guadagnare redditi più bassi in età adulta” scrive ancora Kearney. “I ragazzi che vivono in famiglie senza papà sono particolarmente inclini a finire nei guai a scuola o con la legge”. 

In un’intervista-podcast con il collega economista Stephen Dubner, Kearney dice anche che scrivere il libro è stato correre “un grosso rischio” a livello professionale, perché i suoi colleghi tendono a evitare di affrontare il ruolo della struttura familiare nelle discussioni sulla disuguaglianza sociale e a guardarli dall’alto in basso. Sfida “le conversazioni progressiste sul benessere dei bambini”. Nel 1960, negli Stati Uniti solo il cinque per cento dei bambini nasceva da madri non sposate. Nel 2019 era quasi il 50 per cento. 

Abbiamo fatto il vuoto e lo abbiamo chiamato progresso.

Tutti parlano dello spot della pesca, nessuno dello sfruttamento in Esselunga. Gloria Ferrari su L'Indipendente sabato 30 settembre 2023.

Vi sarà capitato in questi giorni di vedere o (almeno) di sentire parlare della famiglia e della pesca protagoniste dello spot pubblicitario di Esselunga. Un piccolo cortometraggio realizzato dalla nota catena milanese di supermercati che nel giro di poche ore ha stimolato sul web un copioso dibattito fatto di commenti, opinioni e analisi. Un flusso che, se ve lo stavate chiedendo, non vogliamo ulteriormente alimentare. Lascia infatti sconcertato l’effetto che un frutto, una bambina e una coppia di genitori divorziati hanno avuto su giornalisti e lettori (e pure sulla nostra Premier, che ha gradito la scenetta): tre elementi narrativi in grado di catalizzare l’attenzione e spostarla dal resto. Viene da chiedersi se forse l’intento di Esselunga non fosse proprio quello di sviare il dibattito pubblico e spegnere i riflettori su una questione che la riguarda e che l’ha posta anche al centro dell’attenzione di magistratura e guardia di finanza: le pessime condizioni di lavoro cui sottopone i propri lavoratori.

Solo tre mesi fa la Guardia di Finanza di Milano ha effettuato un maxi sequestro di circa 48 milioni di euro ai danni della catena, con l’accusa di “somministrazione illecita di manodopera” con conseguenti “ingentissimi danni all’erario”. Comportamenti che secondo i pm, in possesso di numerose testimonianze, si sarebbero protratti per diversi anni (tra il 2016 e il 2022). Lasso di tempo durante il quale la società avrebbe allestito un sistema di “sistematico sfruttamento dei lavoratori di carattere fraudolento”. Un vigilante ha per esempio raccontato di essere riuscito ad ottenere tre giorni di ferie «solo al momento in cui mio padre stava per morire», mentre in un altro verbale si legge «mediamente effettuo 80 ore di straordinario al mese».

In pratica Esselunga – così come già accaduto in altre grandi aziende – sarebbe riuscita ad ottenere “tariffe altamente competitive appaltando manodopera” in maniera irregolare. Reclutando lavoratori cioè da cooperative, consorzi e altre società, per cui contrattualmente risultavano dipendenti mentre in realtà svolgevano mansioni per Esselunga. Questi serbatoi di manodopera, come li chiama Unione Sindacale di Base, «hanno emesso fatture false per un importo stimato di oltre 221 milioni di euro con una equivalente frode fiscale di circa 48 milioni di euro. Un risparmio di cui si sarebbe avvalsa Esselunga». Ma «non si tratta solo di tasse evase. Ben più tartassati risultano i lavoratori a cui sono stati fregati i contributi previdenziali, il TFR e quant’altro».

Quello di Esselunga non è un caso isolato. A luglio di quest’anno, per esempio, la società Mondialpol, una delle aziende leader nei servizi di vigilanza privata, è stata sottoposta a controllo giudiziario per caporalato e sfruttamento dei lavoratori. Il commissariamento è stato deciso dal pm di Milano Paolo Storari con un decreto d’urgenza, nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla Guardia di finanza. I lavoratori sarebbero stati pagati 5,37 euro lordi all’ora e minacciati di trasferimento in caso di mancata accettazione delle condizioni. Una situazione di forza che avrebbe fatto leva sullo stato di bisogno dei dipendenti, costretti di fatto ad accettare retribuzioni ben al di sotto della soglia di povertà e comunque sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato.

E pochi mesi prima, a marzo, BRT (ex Bartolini) e Geodis, due aziende leader nelle spedizioni internazionali e nei servizi di logistica, sono finite nei guai per lo stesso motivo. La procura di Milano, tramite un’inchiesta condotta dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza, ha disposto per entrambe l’amministrazione giudiziaria per un anno con l’accusa di caporalato e truffa fiscale realizzata attraverso l’impiego di manodopera priva di tutele, fornita da cooperative in subappalto.

Per il fatto che episodi di questo tipo continuino ad accadere c’è da indignarsi ma non da meravigliarsi. Se una pesca è in grado di totalizzare la nostra attenzione, come possiamo accorgerci di un lavoratore sottopagato, sfruttato e senza diritti? Tuttavia basterebbe cambiare prospettiva: non è sbagliato creare una discussione attorno ad una pesca, a patto che ci si chieda, per esempio, come è arrivata sugli scaffali di quel supermercato, e per quanti chilometri abbia guidato quel lavoratore e per quanti pochi spiccioli l’abbia condotta fino a lì.

[di Gloria Ferrari]

Quanto è dura essere figli con gli adulti fuori controllo. Rissa tra genitori a una gara di ballo per i pochi posti liberi. LISA GINZBURG su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 febbraio 2023.  

A Guidonia, una piccola località vicino a Roma, domenica scorsa, in occasione di una gara di hip hop organizzata per giovani danzatrici e danzatori, c’è stata una rissa tra adulti, ovvero tra i genitori dei giovanissimi in procinto di esibirsi. Posti a sedere mancavano, dai molti rimasti in piedi veniva insinuata l’idea di soprusi nell’aver preso quei posti, qualche parola di troppo che è volata; ed ecco in un battibaleno hanno incominciato a volare anche gli insulti, certe signore vestite bene per onorare la bella occasione dei loro figli hanno cominciato a prendersi a borsettate in faccia, mentre altri adulti, anche uomini, i padri delle povere danzatrici e danzatori, loro anche hanno preso a spintonarsi, offendersi, lacerare relazioni mai nate ma importanti, perché di quotidiana prossemica.

Ci si trova vicini come adulti perché pronti ad assistere a uno spettacolo in stesso ruolo di genitori, ovvero nel solco del più normale condividere uno spazio, ovvero tutto quanto dovrebbe mantenersi nei termini di arginata e veicolata convivenza tra le sponde ordinate di un salubre, moderato, ordinario civismo.

Invece no, scoppia una bagarre violenta. A leggere dell’incredibile fatterello (non fatto, intendiamoci) di cronaca, mi sono figurata i giovanissimi: i figli. Non so se di lì a poco impediti a danzare il loro amato hip hop, se non questo, di sicuro costretti a farlo in condizioni di assoluto disagio generalizzato.

Cosa si deve provare a vedere la propria madre o il proprio padre accanirsi contro un altro adulto, perdere del tutto il controllo di sé, diventare violento come una furia? Che madre e padre è, uno che rovina quella che dovrebb’essere una giornata felice dei figli, tirando fuori il lato più becero e oscuro di sé stesso?

Molto difficile, essere preadolescenti e adolescenti in un mondo dove gli adulti mancano del tutto di saggezza, e di quella competenza naturale che si chiama autocontrollo. Perché i figli innanzitutto ci vogliono persone, e nulla sfugge loro del nostro modo di stare al mondo, nel mondo.

Devono vederci e trovarci persone belle, ovvero sane, limpide, educate: capaci di coabitare con gli altri, le altre persone, anch’esse adulte e non solo. Equilibrati nei riguardi di tutti. Possono sembrare distratti, solitari, selvatici, egoriferiti, ma adolescenti e preadolescenti sono invece sempre molto attenti a considerare i nostri comportamenti. E non è mera, retorica questione di dare loro l’esempio: sapranno elaborare altri modi, loro, i nostri figli, autonome maniere di vivere su questa terra.

La questione è invece quella di avere la loro stima, che implica in via diretta la loro fiducia. La loro approvazione, anzitutto dei nostri comportamenti. Povere ragazze e ragazzi, come stentato e anche penoso dev’esser stato il loro pomeriggio sul palco di Guidonia.

Che imbarazzo e che gigantesca delusione, vedere quelle madri e padri accanirsi, picchiarsi, spintonarsi. Un adulto è le sue scelte, i suoi comportamenti, e prima ancora i suoi valori di convivenza civile. Siamo, esistiamo a partire da come siamo con gli altri, e questo vale dall’infanzia alla fine, senza passare da nessun punto intermedio.

Dovremmo saperlo noi, consapevoli di quanto chiunque ci accada di incontrare osserva da subito i nostri modi di fare, anche nelle sfumature attento a ogni nostro gesto. Tutti, e i nostri figli per primi. Se è vero (ed è vero) che destino è carattere, quale destino mai assumono agli occhi dei loro figli quelle donne e uomini, madri e padri che si sono accapigliati per motivi da nulla, in attesa che cominciasse uno spettacolo che doveva essere festoso, gioioso, una domenica allegra e piena di musiche, danze, bellissime lavoratissime coreografie? Adulto, parola desueta, che evoca saggezze inusitate ma il cui valore è inesauribile, in ogni istante del nostro quotidiano stare. E adulti lo si diventa, ogni giorno, non una volta per tutte: anche pensando e ripensando di continuo a cosa voglia dire – cosa implichi, quale impegno da parte nostra. In ogni sfida, a ogni occasione: anche le più semplici, ordinarie, normali, le più e meno eccezionali. Stare al mondo con misura, in equilibrio.

Tra le molte ragioni, perché più giovani ci guardano, nulla sfugge loro.

Baby sitter per adulte. L’assistente materna e la normale inadeguatezza dei genitori. Assia Neumann Dayan su L'Inkiesta il 29 Settembre 2023

Presto le mamme si vedranno entrare in casa persone che non hanno alcuna laurea sanitaria, ma che hanno fatto un corso di sei-nove mesi per dire la loro su come lavare i bambini e accudirli. Cioè: una suocera pagata dai contribuenti

Siccome non è nemmeno lontanamente pensabile dire pubblicamente che ce la possiamo fare a metter su l’acqua a bollire senza pagare una seduta di psicoterapia, ci siamo dovuti inventare un lavoro dove troviamo accettabile far venire a casa nostra un’estranea che ci dica che l’acqua sta bollendo con l’aiuto di un termometro. L’Ansa ha riportato questa notizia: il Governo introdurrà la figura dell’assistente materna che aiuterà la mamma nei sei mesi dopo la nascita del bambino. La aiuterà nel fare il bagno al neonato, «nel fasciarlo», potrà capire se è in atto una depressione post partum. La mia inguaribile fiducia nel genere umano mi fa dire che possiamo farcela a lavare nostro figlio: magari non riusciremo a farlo dormire, ma a lavarlo sì. Parto dal principio base che regola la mia vita: se un lavoro posso farlo anch’ io dopo un corso di qualche mese, c’è qualcosa che non va. 

Dobbiamo innanzitutto risolvere una questione: o diciamo che la salute mentale delle mamme è importante e va trattata dai medici, o non è poi così importante e allora va bene uscire e fare una passeggiata con un’amica. Nel dubbio, chiamerei un dottore. Poi vorrei dire che sentirsi inadeguate è perfettamente normale, non normale sarebbe sentirsi a proprio agio con un essere inerte che piange, non dorme, non cammina, non parla e che se lo appoggi da qualche parte cade e si rompe. La graduale estinzione dell’istinto, e anche del rischio, mi sembra pericolosa: se a casa usi sempre un coltello di plastica non saprai mai che una lama taglia. 

Tutti sembrano vivere in funzione del non voler provare più nessun tipo di ansia o di tristezza: umanissimo, comprensibilissimo, ma è come se l’unico scopo della vita fosse quello. Le donne che tornano a casa con un neonato non sanno come si fa, cosa si fa, ma sanno il perché. Non sai se è giusto, se è sbagliato, cosa vuol dire quel pianto, tu non lo sai, ma non lo sa nemmeno una che fa un corso, e io quella responsabilità lì di dire che un pianto è normale quando magari non lo è non me la prenderei mai. 

Le assistenti materne non sono figure sanitarie, faranno un corso della durata di sei-nove mesi e poi potranno entrare in casa delle mamme a dire la loro. Cioè: è tua suocera pagata dai contribuenti. Questo non è un punto banale: non c’è donna che non dica che dopo aver avuto un figlio son spariti tutti. Spariscono gli amici, spariscono i parenti, Federica Sciarelli è a tanto così da due nuove rubriche: una dove si cercano i mariti spariti nei corridoi, l’altra per ritrovare i pediatri che non rispondono al telefono da dieci anni. L’unica cosa che non sparisce è Internet, che ha sostituito il famoso villaggio dove si crescono i figli, ma siamo sicuri che per crescere un bambino serva un villaggio se quel villaggio sono i social? 

Le reazioni alla notizia sono state perlopiù: ah ma da anni c’è nel Nord Europa, nei Paesi Bassi, in Francia, e lì le cose sì che funzionano. Credo che ci sia un tic culturale che ci fa dire che tutto quello che viene dal Nord Europa sia avanguardia, lo capiamo dal fatto che abbiamo le case piene di mobili infiammabili e di cucine di legno per bambini. 

Il servizio che fa l’assistente materna esiste: non ovunque, ma esiste, e andrebbe annaffiato di soldi. Esistono i consultori, esistono in alcuni ospedali linee telefoniche dedicate alle neomamme dove si può chiamare per chiedere a che temperatura bolle l’acqua, esistono diversi corsi gratuiti dove si va per sentirsi meno sole e meno inadeguate, se una donna vuole allattare le consulenze sono perlopiù gratuite e domiciliari. Non credo ci sia niente, ma proprio niente, di più importante dell’uscire di casa quando hai un bambino. Uscire di casa significa parlare con adulti, sentire voci che sai non essere solo nella tua testa, fare una cosa normale. E poi, quali direttive seguiranno queste assistenti? Quelle dell’OMS? Adesso ti mettono pure la gente in casa? 

Questa assistente segue la mamma e non il bambino, diciamo che è una baby-sitter per adulti, e onestamente mi sembra l’idea più geniale e in linea con lo spirito del tempo che l’essere umano abbia mai avuto. Mai nella vita avrei creduto di poter dare ragione alle ostetriche, ma la Federazione Nazionale degli Ordini della Professione di Ostetrica ha scritto le sue considerazioni, piuttosto condivisibili: «Restiamo sconcertate e indignate di fronte al fatto che il decisore possa immaginare di poter creare nuove figure professionali che vanno tra l’altro a sovrapporsi per competenze a quelle già esistenti». Sarà come per le consulenze dell’internet dove è tutto un fiorire di abuso di professione? 

Questi cento, centocinquanta milioni di euro si dovevano spendere per inventare l’ennesimo lavoro che nessuno sarà in grado di fare? Sono contenta almeno che nessuno se ne sia venuto fuori che c’è bisogno di un’assistente per i neopapà, nonostante qualcuno pensi che i ruoli siano assolutamente intercambiabili, però so che la realtà può sempre stupirmi. Questa proposta è stata fatta per alleggerire i pediatri, per alzare l’occupazione femminile o per aiutare davvero le neomamme? Ma soprattutto, quanto è brutta la parola «neomamma»? 

La risposta è che questa estate ho letto una notizia: una pediatra bolognese, Paola di Turi, aveva scritto un monologo teatrale dal titolo: “Dottoressa, mio figlio si muove, è normale?”. Boh, direi che dipende da come si muove, ma intanto immagino la felicità dei pazienti di essere finiti in uno spettacolo teatrale. Chissà a questo punto quanto venderanno le assistenti materne con le loro uscite editoriali.

Estratto dell'articolo di Alessandro Gendusa per serial.everyeye.it martedì 26 settembre 2023.

Kevin Sorbo ha di recente compiuto 65 anni, e l’attore interprete di Hercules ha pubblicato attraverso Fox News un editoriale dal titolo “Rendiamo Hollywood mascolina di nuovo”, in cui si scaglia contro il femminismo.

Sorbo ha scritto: “[…] se sei vittima dei tuoi desideri primari, la cultura femminista ha vinto. Sei esattamente il tipo di uomo smidollato che loro vogliono che tu sia. La società di oggi fraintende gravemente la mascolinità".

“Lasciare salvare il mondo agli uomini? Non credo proprio", diceva Elastigirl nel film Pixar "Gli Incredibili". Era il 2004. Da allora, la popolare massima femminista di Helen Parr è arrivata a definire l'endemica etica anti-uomo di Hollywood. Le sue parole sembrano essere alla base di ogni film più importante del cinema, dai recenti film di "girl-boss" ai film più maschili, che includono tutti un cenno obbligatorio alla forza superiore, all'intelligenza e all'indipendenza delle donne.”

L’attore accusa il mondo hollywoodiano di aver demonizzato eccessivamente la mascolinità, rendendo il femminismo il nuovo perno del sistema cinematografico americano. Sorbo ha preso Timothée Chalamet come esempio di sconfitta:

“Lui spesso indossa abiti che, beh, diciamo che vostro nonno non si sarebbe fatto trovare morto vestito come Chalamet. D'altra parte, i nostri film preferiti sono popolati da uomini macho e spavaldi.

Dovrei saperlo: mi sono fatto un nome nel settore interpretando un semidio greco. […] Per andare alla conquista del mondo, l'uomo deve prima conquistare sé stesso. Purtroppo, oggi gli uomini sono stati spesso conquistati. Siamo stati soggiogati da alcol, droghe, videogiochi, porno e altri divertimenti. La caricatura dell'uomo inutile nello scantinato dei genitori rappresenta sempre più spesso la vita reale.”

Un’invettiva fortissima quella di Sorbo, doppiatore di Hercules in God Of War 3, che qualcuno ha definito “mirata a creare polemica” a causa dell’ormai scarsa notorietà dell’attore. E voi cosa ne pensate di queste parole? Fatecelo sapere nei commenti.

"Dobbiamo femminilizzare tutto...": i danni dell'incubo politicamente corretto. Si moltiplicano i poliziotti del politicamente corretto: la nota casa editrice francese ha acceso i riflettori sulla paura di attacchi legali sulla questione dell’uguaglianza di genere e del colore della pelle. Massimo Balsamo il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.

L'immarcescibile follia woke non conosce confini, questo è ormai lapalissiano. In nome di un linguaggio più inclusivo e meno offensivo per la sensibilità moderna, molti capolavori della letteratura sono stati ritoccati, mentre molti nuovi romanzi devono ottenere una sorta di via libera da parte dei sensitivity readers, ossia i poliziotti del politicamente corretto ingaggiati per rimuovere contenuti considerati oltraggiosi. Un fenomeno internazionale, denunciato con forza in Francia da Gallimard: la nota casa editrice ha parlato apertamente di un inaccettabile "clima di sorveglianza e autocensura".

Cautela estrema nel mondo dell'editoria francese, è il racconto de Le Figaro. Riflettori accesi sui già citati sensitivity readers, incaricati di spulciare un testo per disinnescare qualunque parola o frase che possa offendere il lettore: in particolare, le annotazioni relative al fisico, alla razza, all'orientamento sessuale o alla religione. Se alcuni editori e scrittori non battono ciglio, c'è chi pone l'accento sulla questione etica:"La loro competenza non è letteraria ma morale. È malafede far credere che monitorare il proprio testo sia naturale. Sono dei presunti poliziotti", la denuncia raccolta dal quotidiano transalpino

"Via quei termini offensivi". Riscritti pure i libri di Agatha Christie

In Francia sono pochi gli editori disposti a metterci la faccia. Questioni politiche, evidenzia una fonte:"Non appena ne discutiamo, siamo o di sinistra e woke oppure di destra e conservatori". Da Gallimard l'analisi è spietata: “Abbiamo paura che appena pubblichiamo un testo dobbiamo femminilizzare tutto, usare lo iel e il punto medio. I difensori della scrittura inclusiva avrebbero così trovato il contraltare con la nascita di una ‘letteratura inclusiva’”. Ma non è tutto. La casa editrice ha rimarcato che ormai da diversi anni circolano istruzioni da parte dell'ufficio legale per dribblare attacchi legali sulla questione dell’uguaglianza di genere e del colore della pelle: "I sensitivity readers non sono lì per dire se ci sono errori, ma per garantire che i testi corrispondano a un’ideologia in vigore".

Il cambiamento dei tempi è testimoniato dal romanzo "Pogrom", pubblicato da Flammarion nel 2005, in cui i personaggi vomitano il loro odio verso il mondo intero fino a cadere nell'antisemitismo. All'epoca l'editoria era contraria a qualsiasi forma di censura e riteneva necessaria la pubblicazione anche dei romanzi più scomodi, purchè di qualità. La forma come unica stella polare. Oggi invece gli editori sono costretti a contromisure come il trigger warning: "Siamo su un pericoloso pendio morale al quale contribuiscono gli scrittori che si sottomettono", il Gallimard pensiero. Una deriva preoccupante.

Le Università.

Così l'università è diventata il regno del conformismo. L'ex tempio della ricerca oggi è ormai un'istituzione ideologica al servizio delle battaglie "corrette" e "verdi". I progetti di ricerca? Tutti di sinistra. Carlo Lottieri il 20 Agosto 2023 su Il Giornale.

Qualche giorno fa, in un programma televisivo, la biologa Antonella Viola (già messasi in mostra nel biennio pandemico) s'è presa la licenza di negare credibilità scientifica ad Antonino Zichichi per le sue tesi sul cambiamento climatico. Che ne può sapere di tali questioni chi studia linfociti e membrane cellulari? Nulla, ma in questo come in altri casi probabilmente era necessario allinearsi alle parole d'ordine prevalenti. Perché uno dei tratti essenziali di chi oggi di professione fa lo studioso sta proprio nella sua vocazione a rimanere nel gregge.

Le ragioni sono note. Ogni sistema di potere poggia sul controllo della forza, ma al tempo stesso il ricorso alla violenza deve essere limitato. Per conseguire questo risultato è indispensabile che vi siano istituzioni prestigiose che legittimano lo status quo agli occhi dei cittadini. In altre parole, ogni regime politico ha bisogno di apparati ideologici al proprio servizio e oggi le università sono in larga misura proprio questo.

Nate in età medievale quali spazi di ricerca gestiti direttamente dagli studenti oppure dai docenti, nel corso dei secoli le università hanno perso in larga misura la loro indipendenza per diventare apparati statali: anche quando sono formalmente private (e questo perché ricevono fondi pubblici, pure negli Stati Uniti, e sono sottoposte a una rigida regolamentazione). È allora comprensibile che in una serie di questioni culturali e scientifiche non vi sia quasi discussione, e che anzi vi sia la metodica repressione delle voci discordanti.

Le origini di tale disastro sono remote. Nel pieno della Rivoluzione francese la Convenzione diede vita all'Institut de France, con l'idea di creare un vero «parlement du monde savant» (parlamento del mondo intellettuale). Le élites giacobine ritenevano indispensabile legare a sé artisti, letterati e scienziati, conferendo loro prestigio e prebende. Quell'operazione fu la rielaborazione di quanto già i monarchi in precedenza avevano realizzato, dato che l'Institut mise assieme accademie preesistenti: tra cui l'Académie Française (creata nel 1635 dal cardinale Richelieu, primo ministro di Luigi XIII) e l'Académie des Sciences (creata nel 1666 dal cardinale Mazzarino). Già la monarchia, d'altro canto, aveva assorbito le università e limitato alquanto l'autonomia della ricerca.

Le conseguenze del crescente controllo che i sovrani hanno saputo esercitare su idee e istituzioni culturali saranno rilevanti. Lo stesso Voltaire, scrittore per altri aspetti assai polemico, dopo avere passato un anno alla Bastiglia e dopo esser stato esiliato, sarà accolto all'interno dell'Académie française anche grazie a una sorta di campagna elettorale che il letterato stesso organizzò con efficacia: così da garantirsi una sinecura.

Pure nel dibattito italiano post-unitario, la visione dell'istruzione pubblica che s'impose fu basata sull'idea, per citare Francesco De Sanctis, che la missione dello Stato «è veramente di essere il capo, la guida, l'indirizzo dell'educazione e dell'intelligenza del Paese». Ben prima dei regimi autoritari e totalitari (prima di Andrei Zhdanov, Giuseppe Bottai e Joseph Goebbels) il potere sovrano aveva insomma compreso la necessità di controllare la cultura: a partire dalle università, naturalmente. L'operazione non è mai stata troppo difficile dato che, a loro volta, gli intellettuali hanno spesso subito il fascino dell'autorità.

Il servilismo degli intellettuali non è allora qualcosa che caratterizzi in maniera esclusiva il nostro tempo. È comunque vero che nelle società occidentali, grosso modo equamente divise tra progressisti e conservatori, l'accademia è quasi interamente schierata a sinistra. I motivi sono vari, ma certamente molto dipende dalla struttura degli atenei e dalle modalità che presiedono all'ingresso in università e al progresso della carriera.

Oggi chi voglia avere successo in università deve realizzare progetti di ricerca. Il risultato è che uno studioso è ormai ritenuto valido non tanto se scrive volumi o articoli innovativi e importanti, ma invece se ottiene finanziamenti da istituzioni ritenute prestigiose. Il guaio è che nei bandi di questi concorsi si pensi a quelli che dai noi sono probabilmente i più importanti, quelli Horizon Europe si trovano quasi sempre gli stessi temi: e naturalmente si tratta delle questioni care a chi comanda e al mainstream (genere, riscaldamento globale, razzismo e inclusione, ecc.). Le classi politiche finanziano la ricerca, ma nel farlo l'indirizzano verso esiti a loro favorevoli: che permettano un'espansione del controllo che esercitano su di noi. D'altra parte, quando nei bandi si focalizza sempre e soltanto l'attenzione su alcuni argomenti si sta già predefinendo l'esito delle ricerche stesse.

La situazione attuale è quindi caratterizzata da una ben precisa gestione politica della scienza: al punto che perfino un premio Nobel della fisica che avanzi perplessità sull'origine antropica del riscaldamento globale può essere censurato (com'è successo a John Clauser). Va poi aggiunto che ormai sappiamo che durante la pandemia funzionari dell'Fbi si recavano negli uffici di Twitter per accordarsi con i manager di quell'azienda in merito alle misure da assumere: con il risultato che perfino alcune ricerche pubblicate dal prestigioso British Medical Journal hanno subito una sorta di censura. Perché oggi il potere non è confinato nei palazzi governativi, ma conta su tutta una serie di tentacoli gestiti dagli uomini di affari e dagli intellettuali.

È insomma chiaro che ormai il mondo accademico non solo è uniforme nei propri valori e nei propri orientamenti culturali, ma è pure sotto scacco: con il risultato che pure chi volesse dissentire troverebbe numerosi ostacoli dinanzi a sé. In effetti, un giovane che voglia diventare professore deve prima entrare in un programma di dottorato, poi ottenere una posizione da ricercatore e infine diventare prima associato e poi ordinario. In genere concluderà questo percorso dopo avere compiuto cinquant'anni e in tutto questo periodo avrà dovuto evitare ogni contrasto con il proprio barone accademico, con il dipartimento in cui si trova a lavorare e con l'intera disciplina in cui si colloca (se studia diritto costituzionale, ad esempio, con l'insieme dei costituzionalisti più affermati). Il rischio è che alla fine, dopo decenni di necessarie autocensure, sia più un pollo da allevamento che non uno studioso determinato a seguire scienza e coscienza.

Che fare? La questione istituzionale è cruciale ed è quindi necessario che lo Stato si ritragga il più possibile dalle università. Ma è egualmente cruciale che ovunque anche fuori dalle cittadelle universitarie, se necessario s'imponga un modo di studiare e insegnare che abbia quale criterio soltanto la ricerca della verità, e che muova da un più che giustificato scetticismo verso tutte le parole d'ordine imposte dalla presente alleanza tra la politica, gli affari e le idee.

C-cultura. Ma il pensiero forte è sempre stato anti-accademico. Leopardi, Croce, Montale: è lungo l'elenco di chi ha fatto a meno della laurea...Giancristiano Desiderio il 20 Agosto 2023 su Il Giornale.

La storia della filosofia non riguarda l'università ma il carcere. La cosa può suonare strana ma l'origine stessa del pensiero come libertà e critica non è proprio la galera? Eh sì, Socrate, che è il filosofo per eccellenza, creò la filosofia come pensiero della vita libera rifiutandosi di dare l'anima al potere. Platone fu ridotto in schiavitù dal tiranno e Aristotele lasciò Atene per disse «evitare che pecchiate una seconda volta contro la filosofia». Questo in Grecia. In Italia? Sappiamo come e perché morì Giordano Bruno «academico di nulla academia» - mentre Tommaso Campanella passò più tempo dentro che fuori e Galileo Galilei abiurò per aver salva una vita che passò in gattabuia. Ma ecco il punto che vale la pena sottolineare nessuno di loro sapeva che farsene di carte e titoli di studio. Il padre della scienza sperimentale non era laureato: studiò a Pisa ma non riuscì ad ottenere una borsa di studio e solo grazie al padrino di battesimo del fratello Michelangelo riuscì a seguire i corsi. Poi lasciò Pisa per Firenze e quindi il padre lo rispedì a Pisa per fargli studiare medicina e invece lui seguì lezioni di matematica e di fisica e ne ricavò, autonomamente e contro gli studi accademici, quella che noi oggi chiamiamo scienza moderna. Il tutto senza laurea. Ma davvero c'è da meravigliarsi? Se la scienza per venire al mondo avesse dovuto attendere l'università non avrebbe fatto mai giorno, come diceva più o meno il poeta Rocco Scotellaro che, naturalmente, non era laureato. Tralasciamo Giacomino Leopardi le cui «sudate carte» e lo «studio matto e disperatissimo» non hanno nulla a che vedere con l'accademia e soffermiamoci di passata su Eugenio Montale. Forse, il maggior poeta italiano del secolo scorso che in Ossi di seppia diceva: «Codesto solo oggi possiamo dirti/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Sembra quasi un programma per tenere in non cale gli studi organizzati, istituzionalizzati, burocratizzati che tutto sono tranne che conoscenza. Infatti, Montale che fu poeta e critico e giornalista e tant'altro, non era laureato. Come non lo era Federico Fellini. Né Vittorio De Sica e per questa strada si potrebbe continuare a lungo.

Ed eccoci al punto: l'organizzazione statale degli studi, soprattutto in chiave monopolista, non va d'accordo con la libertà di pensiero che è per natura come si è ricordato con Socrate a guardia della libertà civile. Il maggior filosofo italiano del Novecento, Benedetto Croce, non solo non era laureato ma teorizzò con lucida consapevolezza la necessità di dar vita a un movimento di pensiero extra-accademico perché e lo diceva in una lettera del 1903 all'hegeliano Sebastiano Maturi «la filosofia richiede animi liberi» e non è roba da professori. Il sapere nasce fuori dalla cittadella accademica e l'università serve a replicare solo il già noto. Per tutta la vita Croce tenne fede a questa fondamentale esigenza di libertà e non confuse mai ciò che è pensiero e filosofia e scienza con le cattedre, le dispense, le carriere professorali. Quando, ai primi del Novecento, difese Giovanni Gentile che l'università di Napoli teneva alla porta, scrisse un opuscolo Il caso Gentile e la disonestà e nella vita universitaria italiana in cui arrivava ad accusare l'università di Napoli di camorra. Poi Gentile, si sa, riuscì ad entrare e fece carriera nell'università, forse anche troppa arrivando a sovrapporre filosofia e istituzione, pensiero e stato; tuttavia, anche la vita filosofica di Gentile, soprattutto per come morì, non la si può ridurre alla sua professione di professore di filosofia. In Croce, per altro, vi era proprio la netta distinzione tra filosofo e professore e, anzi, riteneva che il filosofo di professione, il filosofo puro, appunto, il professore di filosofia non poteva fare altro che cedere il passo al filosofo-storico ossia al filosofo che, forte delle sue esperienze reali riguardanti ora la poesia, ora la politica, ora l'economia, ora la morale, era in grado di giudicare gli atti umani concretamente senza cadere in vaniloqui o nella retorica e la pedanteria che sono tipiche espressioni dell'accademia italiana. Non deve essere per nulla un caso che un allievo di Gentile, che lo seguì a La Sapienza di Roma, è oggi riconosciuto come un importante filosofo italiano ma mai si laureò: Andrea Emo. Era veneziano, scrisse senza pubblicare e solo nel 1986 i suoi Quaderni finirono tra le mani di Massimo Cacciari che si rese conto del valore del suo pensiero che per statuto è anti-accademico. E Manlio Sgalambro? Non imparò di certo l'arte di pensare all'università. Si iscrisse pure a giurisprudenza ma «la filosofia la coltivavo già autonomamente. Mi piaceva il diritto penale e per questo scelsi giurisprudenza». Ma basta leggere uno qualunque dei libri di Sgalambro, a partire da La morte del sole per trovarsi dinanzi uno spirito che riguarda il mondo e non il mondo accademico. Del resto, l'ispiratore di Sgalambro è stato Schopenhauer che - amato da Anacleto Verrecchia, altro spirito anti-accademico, e da Sossio Giametta, anche lui estraneo al circuito dei professori senza filosofia nell'Ottocento fu un feroce critico dell'università, arrivando a dire che è la morte del pensiero. Arthur era invidioso di Hegel (che non era filosofo in quanto professore ma professore in quanto filosofo). Ma questa, come si dice, è un'altra storia. Giancristiano Desiderio

Il Caso Banfi.

Lino Banfi censurato su Facebook, lo sfogo contro Zuckerberg: "Ti spezzo il capocollo". Dopo l'ennesima chiusura del gruppo Facebook a lui dedicato, Lino Banfi ha scritto una lettera-sfogo sul Corriere e con ironia ha bacchettato Mark Zuckerberg. Novella Toloni il 17 Agosto 2023 su Il Giornale.

"Papéle papéle, cosa ho fatto io a Mister Mark Zuckerberg e ai suoi algoritmi?". Così Lino Banfi ha esordito sul Corriere della sera nella sua lettera di sfogo contro il Ceo di Meta, reo di limitare l'attività dei fan dell'attore pugliese, cancellando continuamente il gruppo Facebook a lui dedicato.

La vicenda ha il sapore della commedia comica, che ha reso celebre Lino Banfi, ma di fatto sta creando non pochi disagi a Nonno Libero, alla sua schiera di fan e agli amministratori del gruppo "Noi che amiamo Lino Banfi" operativo sulla piattaforma Facebook da diversi anni. Già, perché secondo le regole degli amministratori e sulla base dell'algoritmo Meta, il gruppo viola di continuo le norme della piattaforma e ogni volta gli utenti vengono bannati e il gruppo chiuso.

La lettera contro Zuckerberg

A raccontarlo è stato Lino Banfi in una lettera aperta inviata al Corriere per rivelare - con toni tragicomici - quanto sta accadendo ai suoi fan. "Da circa sette anni esiste un gruppo Facebook ideato e coordinato da Calogero Vignera. E sono davvero tante le persone di tre generazioni e di inizio di una quarta, che fanno e pubblicano cose bellissime in mio onore e cosa succede? Arriva il signor Zuckerberg che ordina ai suoi algoritmi italiani: 'Chiudete subito Banfi!'", ha spiegato Banfi, entrando nel merito del problema: "Tutto questo perché i miei ammiratori si scambiano idee, video, messaggi, usando il linguaggio banfiota e in questo linguaggio ci sono esclamazioni come 'Porca putténa', 'Disgrazieto maledetto, ti metto l’intestino a tracollo' e altri".

"Volevo morire con lei". Lo straziante ricordo di Lino Banfi per la moglie

Il messaggio a Elon Musk

Così l'ultima esclamazione - "Picchio De Sisti e gli spezzo pure la noce del capocollo!" tratta dal celebre film "L'allenatore nel pallone" - ha fatto chiudere nuovamente la pagina "Noi che amiamo Lino Banfi" e tutto il materiale raccolto nel tempo è andato perduto. "Tutto cancellato, il gruppo annullato e si deve ricominciare da zero...", si è sfogato Lino Banfi che, tra il serio e il faceto, ha puntato il dito contro Mark Zuckerberg: "Ci ho messo più di 60 anni per far parlare il mio linguaggio a tutti, mi chiamano Maestro, mi danno i premi alla carriera e questo mi spegne tutto! Ma come si permette ‘sto arcimiliardario maledetto che chi chezzo lo conosce?". E giù a citare le esclamazioni più celebri dei suoi film tra "chezzo", "porca puttena" e Co. Infine, l'attore si è rivolto a Elon Musk - che dovrebbe affrontare proprio Zuckerberg in un incontro di lotta - nel tentativo di farlo intercedere per lui: "Caro Elon, devi dire al tuo rivale di lasciare in pace il nonno nazionale. Come si dice tra seri centurioni, fai il brévo e non rompere i co... siddetti!".

Il Caso Concita De Gregorio.

Invece, Ugo. Concita travolta da un insolito abilismo in un azzurro selfie d’agosto. Guia Soncini su L'Inkiesta il 7 Agosto 2023

Qualunque fesseria tu scriva, tra i commenti dei social ci saranno sempre fesserie più macroscopiche e perfino chi si offende a nome del cane

Qualche mese fa il New York Times ha fatto un sondaggio per capire che distanza ci fosse tra le parole considerate accettabili da chi lavora nella comunicazione e quelle che invece utilizza disinvoltamente la gente normale, che poi a volte è anche gente che legge i giornali.

Il campione di quattromila e spicci americani ha dato risposte che poi sono state commentate da alcuni giornalisti, sorpresi che solo il ventidue per cento fosse disposto a usare «Latinx» (il tentativo di rendere neutra quella lingua romanza che è lo spagnolo: il settanta per cento continua a usare Latino e Latina, con gran dispiacere di chi pensa che la lingua si possa imporre dall’alto).

Ma tu pensa, solo il dieci per cento è disponibile a usare il più neutro «allattamento al petto»: l’allattamento al seno ha ancora semanticamente senso per l’85 per cento del campione di sondaggio, e del fatto che il sostantivo di «incinte» sia «donne» è convinto addirittura l’86 per cento. Retrogradi che non sono altro.

Ma c’era un risultato su cui i lettori del Nyt erano più progressisti di come se li aspettasse la redazione: il 72 per cento diceva che non avrebbe mai usato «spaz», ovvero il modo gergale d’indicare un portatore di «spastic displegia».

La ragione per cui la redazione era colpita (un editorialista commentava che lui neppure sapeva fosse offensivo) era che non molto tempo prima sia Lizzo sia Beyoncé erano state oggetto di polemica (e avevano dovuto scusarsi e cambiare testi) perché in due loro canzoni compariva la parola «spaz».

Ma quindi, trasecolavano al giornale, Lizzo e Beyoncé non l’hanno messo nelle canzoni perché i giovani d’oggi lo usano disinvoltamente e noialtri come al solito siam troppo tromboni. La scomposizione del dato statistico svelava un dettaglio curioso: tra quelli più disposti a usare «spaz» c’erano i Millennial (cioè quelli che nel 2023 hanno meno di trent’anni o poco più di quaranta); tra quelli che non l’avrebbero mai usato i Boomer, cioè chi ne ha tra i sessanta e i quasi ottanta.

Sarà che i più vecchi son cresciuti in un mondo in cui gli spastici non venivano chiamati con degli eufemismi, e ancora gli dispiace per quel bambino senza speranza che vedevano passare ogni tanto? Sarà che i trentenni sono semianalfabeti e non sanno cosa significhi «spastico»? Sarà un caso?

Di solito è un caso, anche perché come funziona la lingua dei parlanti e non degli accademici lo vediamo ogni volta che qualche volenteroso vuole rendere neutro l’italiano ma poi non sa usare le concordanze e mette gli asterischi nei punti sbagliati.

La popolazione italiana è fatta di individui che perlopiù non sanno la differenza tra «dì» e «di’», o tra «pèsca» e «pésca»; figuriamoci gli americani, che hanno quasi più difficoltà con l’ortografia che con la glicemia. (Quest’ultima frase è gravemente offensiva dei diabetici, quella precedente di tutte le parlate regionali che aprono le vocali sbagliate: se le accuse di abilismo e quelle di razzismo convergono, sono finita).

«Se hanno ammazzato Gesù, cosa pensi che faranno a te?», ha scritto tre giorni fa Jamie Foxx in un post su Instagram; che ha poi cancellato, con successivo post di scuse, quando l’hanno accusato di antisemitismo. Mentre Foxx spiegava che si riferiva a un amico che l’ha tradito e mica agli ebrei, a Jennifer Aniston è toccato smentire le accuse di like: era arrivata la temibile incriminazione per cuoricino.

È tutto noiosissimo, ogni giorno c’è un processo – o dieci, o cento – a qualcuno di minimamente o massimamente noto che usa i social come fossero posti in cui si può fare un uso disinvolto delle parole, e a star dietro a tutti questi tamponamenti a catena si rischia la morte per tedio. Mi sembra meno ripetitivo parlare delle sfumature del lessico.

Quando venerdì Concita De Gregorio ha scritto un’invettiva contro un nonsochì che, per autoscattarsi, ha rovinato una statua antica, sono insorti commentatori di buona volontà, associazioni di categoria, gente che non ha mai comprato Repubblica ma minaccia di smettere di farlo, e tutto il cucuzzaro.

Era infatti accaduto che Concita avesse dato a questi tizi che si autoscattano dei «decerebrati», e da lì ci è toccato un intero weekend di indignazione collettiva e approssimazione linguistica.

Gente che pretendeva scuse per l’uso di «cerebrolesi», che però è una parola diversa (come senso, proprio) da «decerebrati» (per completare il paradosso: sabato De Gregorio si è in effetti scusata per «cerebrolesi», cioè per una parola che non aveva usato; da qualche parte, Samuel Beckett si sta rotolando dall’invidia per questa pièce).

Gente che suggeriva alternative che spaziavano da «cretino» (che peraltro era già stato usato nello stesso pezzo, «questi cretini integrali»), a «scemo». Che però sono tutte parole offensive, solo che nell’approssimazione collettiva ne è stata dimenticata la storia clinica.

Nessuno pensava che i tizi che si autoscattano non dovessero venire insolentiti, ma si pretendeva che per offenderli non si usassero parole offensive. Se non è un comma 22, ci somiglia.

Nell’articolo di scuse del giorno dopo, Concita proponeva che, invece delle cose brutte da lei scritte il giorno prima, questi caini che nessuno difende li chiamassimo «Ugo». Sul sito di Repubblica, nei commenti, si confermava la legge dell’internet per cui, qualunque fesseria tu scriva, nella sezione dei commenti ci saranno sempre fesserie più macroscopiche.

Nella fattispecie, una signora chiedeva di non usare «Ugo» in modo offensivo, essendo il nome del suo amatissimo cane, oltretutto defunto. Ho sognato fortissimo che Maria Sole Tognazzi scrivesse una lettera al direttore puntualizzando che suo padre Ugo è stato il più grande attore del Novecento italiano e questa De Gregorio non si deve permettere, o almeno un’interrogazione parlamentare a nome degli eredi di Ugo La Malfa. Se hanno offeso Ugo, cosa pensi che faranno a te.

Tutti hanno qualcuno che li difende dal lessico feroce che troppo disinvoltamente utilizziamo, tutti hanno una dignità di cui qualche pubblica istanza si fa carico. Tutti, tranne i poveretti che vogliono farsi la loro brava foto come tutti. Persino Concita, che nell’ultima settimana ha instagrammato più foto di sé di quanti autoscatti abbia pubblicato Chiara Ferragni, in quell’articolo, senza mettersi a ridere, levava un alto monito quale: «Esistiamo anche se non ci fotografiamo».

Tutti hanno protestato in quanto società civile, in quanto parenti di disabili, in quanto memori del mondo prima della Basaglia; e nessuno, mentre si metteva come d’abitudine di tre quarti rispetto alla telecamera del telefono, ha sillabato: Conci’, da che pulpito.

Non riusciamo a leggere parole come quelle da te scritte e passarci sopra. Cara Concita De Gregorio sono il papà di una ragazza autistica: quei decerebrati assoluti abitano sotto il nostro stesso tetto. Davide Faraone su Il riformista il 9 Agosto 2023 

Cara Concita ti chiedo scusa, probabilmente ho reagito male alle tue parole perché sono papà di una ragazza autistica. Probabilmente prima di prendere coscienza della disabilità di mia figlia, avrei letto compiaciuto le tue parole e le avrei considerate anche efficaci. Probabilmente è stato così per tanti di quelli che ti hanno letta quella mattina. Hanno giustamente focalizzato la loro attenzione sul gesto dei ragazzi che inopinatamente e rovinosamente hanno danneggiato la statua ottocentesca di Enrico Butti, per farsi un selfie e hanno pensato di riversargli addosso i peggiori insulti che potessero passargli per la testa e i tuoi addirittura possono essere apparsi insufficienti.

Il danneggiamento della statua, la totale incultura, la mancanza di rispetto di un’opera d’arte, meritava tutte le contumelie possibili. Io torno a chiederti scusa, perché sarà probabilmente una nostra esagerazione, penso di rappresentare in questo il pensiero delle mamme e dei papà delle persone con disabilità, una sensibilità spiccata su determinati argomenti, ma non riusciamo proprio a passarci sopra. Non riusciamo a leggere parole come quelle da te scritte e passarci sopra, perché i decerebrati assoluti abitano sotto il nostro stesso tetto e dobbiamo curarli e crescerli spesso in assoluta solitudine, perché facciamo sacrifici enormi per portarli a scuola ogni mattina e non ci siamo mai rassegnati alle scuole differenziali.

Preghiamo tocchi loro un insegnante di sostegno formato, una classe solidale, con compagni che abbiano voglia di crescere con i nostri figli, che li invitino ai compleanni, che non li considerino un peso in gita scolastica. Perché ci siamo umiliati e abbiamo chiesto tante volte ai dirigenti scolastici delle scuole dei nostri figli di bocciarli, fargli ripetere l’anno, perché comunque la scuola è accogliente rispetto a tutto quello che li aspetta dopo. E poi perché abbiamo sillabato con loro, abbiamo gioito quando hanno imparato ad allacciarsi le scarpe, a mangiare da soli, perché non era così scontato che accadesse. Perché non abbiamo mai smesso di pulirgli la bocca, anche da adulti, anche quando hanno messo da parte il bavaglino, perché sarà sempre così, perché saranno in molti casi sempre i nostri “bambini”, non soltanto i nostri figli, per tutta la vita.

E nonostante è così, nonostante le difficoltà, potrà apparire strano, ma non scambieremmo mai i nostri figli per nessun altro figlio al mondo. Perché siamo persone felici, semplicemente siamo la dimostrazione vivente che la felicità è un sentimento soggettivo, non ne esiste una soltanto. Quello che hai espresso come il massimo dell’insulto, quelli che hai apostrofato con le espressioni più crude possibili per aver fatto la cosa peggiore al mondo, è la nostra quotidianità, la nostra vita reale. 

Come ti ha fatto benissimo notare anche la mia grande amica Lisa Noja, non c’entra nulla il concetto che hai espresso “del linguaggio politicamente corretto e del comportamento che ne consegue che stanno paralizzando il pensiero e l’azione, specie a sinistra”. Il ragionamento è semplice e tu sei una persona che ho sempre apprezzato per l’intelligenza e non puoi non rendertene conto: rappresentare una condizione di vita reale come un insulto è irrispettoso e fa soffrire chi quella condizione la vive. E anche se chi è decerebrato può non comprendere un’offesa, può non percepire la violenza fisica o verbale, stai tranquilla che ci sarà chi incasserà per conto suo, chi si sarà sentito umiliato leggendo il tuo pezzo: tutti coloro che conoscono i loro volti ed i loro sentimenti, che li sanno riconoscere e sanno essere riconosciuti perché non li considerano tutti uguali, tutti disabili. Ed infine permettimi di dirti un’altra cosa, tutto questo con la “sinistra” non c’entra nulla.

Ci siamo dovuti difendere da soli dalle tue parole, nessuno di quelli “di sinistra”, nessuno di quelli che di mestiere fa il droghiere dei vocaboli, ti ha manifestato il proprio disappunto, nessuno ti ha fatto notare che probabilmente avevi commesso una leggerezza nell’usare quel linguaggio. Lo stesso comitato di redazione del giornale per cui scrivi, La Repubblica, che qualche giorno prima si era riunito per stigmatizzare le parole di Elkann sui giovani lanzichenecchi, non ha proferito una sola parola di presa di distanze dalle tue espressioni quantomeno forti. Perché “a sinistra”, cara Concita, “l’uso del linguaggio politicamente corretto”, usa una doppia unità di misura, doppia come è spesso doppia la morale, come un droghiere che trucca la bilancia. Tu per certa “sinistra” quelle cose puoi dirle, ti sono abbonate, per qualcun altro si sarebbe scatenato il finimondo. Saremo una società realmente matura, con una forte coscienza civica, quando non dovranno essere le persone coinvolte in qualche modo con la disabilità a ribellarsi, a dover far notare una leggerezza, ma quando nessuno si sognerà di scrivere quelle cose e se anche qualcuno dovesse farlo saranno in tanti a farglielo notare. Davide Faraone

Dagospia l'8 agosto 2023. SONO ORE CONCITATE ALL’ORDINE DEI GIORNALISTI – IL CONSIGLIO NAZIONALE DELL’ODG HA DECISO DI SEGNALARE AL CONSIGLIO DI DISCIPILINA DELL’ORDINE DEL LAZIO CONCITA DE GREGORIO – LA RAGIONE? GLI ARTICOLI “ABILISTI” DEL 4 E 5 AGOSTO PUBBLICATI DA “REPUBBLICA”, IN CUI CONCITA, PARLANDO DEGLI INFLUENCER, LI PARAGONAVA A “DEFICIENTI, DECEREBRATI ASSOLUTI CHE IN UN TEMPO NON COSÌ REMOTO SAREBBERO STATI ALLE DIFFERENZIALI”

"La frase più atroce", chi fa arrabbiare De Gregorio: insulti e doppia morale. Il Tempo l'08 agosto 2023

Si muove l'Ordine dei giornalisti per l'articolo pubblicato su Repubblica a firma di Concita De Gregorio che criticava gli influencer tedeschi che avevano distrutto una statua pregiata per fare un video in una villa di Viggiù. A sollevare aspre polemiche erano state le frasi della giornalista, ex direttrice dell'Unità e conduttrice di La7, che descrivevano gli influencer come "decerebrati" e persone con deficit cognitivo, che in altre epoche sarebbero finiti nelle scuole differenziali e invece oggi sono celebrati da milioni di follower. Secondo quanto riporta Dagospia, il Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti "ha deciso di segnalare al Consiglio di disciplina" dell'Odg del Lazio Concita De Gregorio, si legge sul sito di Roberto D'Agostino, "per gli articoli 'abilisti' del 4 e 5 agosto pubblicati da Repubblica". 

Ma cosa aveva scritto, nel dettaglio, la giornalista? “Allora dunque ci sono questi cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca. Ecco ci sono questi deficienti, nel senso che letteralmente hanno un deficit cognitivo – non è mica colpa loro, ce l’hanno –  e che però pur essendo idioti hanno probabilmente centinaia o migliaia di followers, non ho controllato ma non importa, è assolutamente possibile che siano idoli della comunità”. Frasi che hanno indignato associazioni e famiglie con persone con deficit cognitivi che hanno protestato con veemenza per l'uso, a mo' di insulto, del disagio mentale. 

Tra le critiche più argomentate c'è stata quella di Gianluca Nicoletti, giornalista e conduttore radiofonico, nonché padre di un ragazzo autistico: "L’immagine di un insegnante che dice al ragazzo con deficit psichico 'sillabiamo però pulisciti prima la bocca' è veramente atroce. I nostri ragazzi possono anche sbavare, possono avere difficoltà nel parlare, nel leggere, queste sono le conseguenze dei loro cervelli fuori standard. E allora? Bavoso si può dire, cicciona guai?", ha scritto sul sito dell'associazione Per Noi Autistici sottolineando come certe regole del politicamente corretto, seguite in modo ossessivo da molti commentatori, non valgano per alcune categorie. 

Il momento in cui la statua viene danneggiata per il selfie. Concita De Gregorio su La Repubblica il 4 agosto 2023. 

Allora dunque ci sono questi cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca. Ecco ci sono questi deficienti, nel senso che letteralmente hanno un deficit cognitivo – non è mica colpa loro, ce l’hanno –  e che però pur essendo idioti hanno probabilmente centinaia o migliaia di followers, non ho controllato ma non importa, è assolutamente possibile che siano idoli della comunità. 

Sono influencer, leggo nelle cronache. Insomma ci sono questi influencer, gente che influenza e orienta i comportamenti di altra gente, che per farsi un selfie nel Varesotto, a Viggiù, hanno distrutto una statua ottocentesca. Ma non importano l’epoca né il valore commerciale: poteva essere un Michelangelo, uno Jago. Hanno distrutto un’opera d’arte perché dovevano farsi una foto da postare sui social. C’è il video, prova suprema. Ridono. Probabilmente non succederà niente: i genitori premurosi ripagheranno il danno, o i nonni. 

Editorialisti, vi prego. Direttori di giornali e di reti tv, vi supplico. Commissionate alle migliori menti del nostro tempo, filosofi scienziati celebrità pensanti, piccoli monologhi da frazionare su TikTok che spieghino che esistiamo anche se non ci fotografiamo. Come si fa a riavvolgere il nastro di questo delirio: questo sì che è un tema epocale, altro che Pnrr. Genitori: puniteli. Toglietegli le chiavi di casa, negategli la ricarica della prepagata e se guadagnano più di voi e per questo vi intimidiscono, suscitano il vostro rispetto: riprendetevi, toglietegli il sorriso. Io non lo so come si fa, ma si deve.

CHI SONO 

A Repubblica dal 1990 al 2008, poi direttore de L’Unità dal 2008 al 2011, è rientrata a Repubblica come editorialista. Laureata in Scienze Politiche all’Università di Pisa, Concita De Gregorio è autrice di numerosi libri tra cui "Non lavate questo sangue" (Laterza, 2001), "Una madre lo sa" (Mondadori, 2006), "Così è la vita"(Einaudi, 2011), "Io vi maledico" (Einaudi, 2013). Nel 2015 ha pubblicato “Mi sa che fuori è primavera” (Feltrinelli), mentre nel 2016 sono usciti “Cosa pensano le ragazze” (Einaudi), legato al progetto omonimo apparso su Repubblica.it, e "Non chiedermi quando. Romanzo per Dacia" (Rizzoli). Per tre anni ha condotto su Rai Tre la trasmissione televisiva "Pane quotidiano" dedicata ai libri. Poi, sempre su Rai Tre, ha fatto "Fuori Roma" e “Da Venezia è tutto” programmi da lei ideati. Per due anni ha condotto “Cactus, basta poca acqua” su Radio Capital. Dopo il romanzo “Nella notte” (Feltrinelli) è uscito "In tempo di guerra" (Einaudi). Con Sandra Toffolatti ha realizzato il progetto ConDominio - L'Arte riparte. In libreria c'è il suo libro "Un'ultima cosa" (Feltrinelli), con i testi di uno spettacolo che sta portando in tourné con Erica Mou. Conduce su La7, con Davide Parenzo, "InOnda" ogni sabato e domenica. Da marzo 2023 ha assunto la direzione della rivista The Hollywood Reporter Roma

Botta e risposta della giornalista con Lisa Noja e Davide Faraone. Quell’articolo abilista di Concita De Gregorio che fa discutere e le sue scuse che peggiorano la situazione. Redazione su Il Riformista il 5 Agosto 2023 

La vicenda è nota. Tre giorni fa, il due agosto, nel Varesotto un gruppo di sei ragazzi ha danneggiato una scultura di Enrico Butti mentre era intento a girare un filmato all’interno di Villa Alceo a Viggiù. Un danno di circa 200 mila euro. “I ragazzi – ha raccontato il custode – non hanno rispettato il divieto di entrare nella fontana e sono stati ripresi dalle telecamere mentre due di loro si abbracciavano alla statua facendola cadere e distruggendola, mentre quattro loro compagni giravano video con i telefonini”. La vicenda è stata raccontata e filmata sul sito locale Varesenews.

La nota giornalista e scrittrice Concita De Gregorio ha commentato così la vicenda su Repubblica, con parole durissime: “Allora dunque ci sono questi cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca. Ecco ci sono questi deficienti, nel senso che letteralmente hanno un deficit cognitivo, non è mica colpa loro, ce l’hanno”.

Tra le prime, insieme a molte associazioni del settore, a criticare con asprezza Concita De Gregorio è stata Lisa Noja, consigliera regionale lombarda di Italia Viva, nota per le sue battaglie di civiltà a favore delle persone non normodotate: “Ho riletto tre volte l’apertura dell’editoriale di oggi di Concita De Gregorio. Raramente in questi ultimi anni ho trovato in poche righe pubblicate su un quotidiano nazionale un concentrato di abilismo così terribile. La disabilità utilizzata come strumento di offesa: persona con disabilità cognitiva = idiota = incivile e maleducata da emarginare. Con la aggravante che la De Gregorio sembra quasi rammaricarsi del fatto che oggi non ci siano più le scuole differenziate ed esista invece l’obbligo di una scuola inclusiva. Sono parole che grondano pregiudizi discriminatori e che feriscono la dignità delle persone con disabilità. Scritte proprio da una giornalista che spesso si professa paladina dei diritti civili”.

Sul quotidiano di sabato è la stessa Concita De Gregorio a replicare, apparentemente chiedendo scusa: “Cerebrolesi non è un insulto ma una condizione, mi hanno scritto. Completamente d’accordo. Chiedo sommessamente scusa”. Ed ancora: “I normodotati che distruggono statue per postare una foto su Instagram non hanno nessun danno.” Ma poi è la stessa giornalista che incalza, peggiorando semmai la situazione: “A margine penso che sia comunque la morte del contesto. Autorevolissimi pensatori e filosofi, financo semplici scrittori lo hanno spiegato prima e meglio di me. Mi limito a confermare. Il linguaggio politicamente corretto e il comportamento che ne consegue stanno paralizzando il pensiero e l’azione – specie a sinistra”.

Quindi secondo la nota giornalista paragonare dei ragazzetti che distruggono senza alcun senso una statua a dei “celebralesi” che “in un tempo non remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca” è sì una cosa censurabile, una cosa di cui chiedere scusa, ma che dimostra come il linguaggio politicamente corretto stia paralizzando il pensiero e l’azione. Perché il contesto, evidentemente, la scuserebbe.

A rispondere a Concita De Gregorio è nuovamente Lisa Noja, poche ore dopo la pubblicazione del suo articolo su Repubblica: “il contesto e l’abuso del politicamente corretto non c’entrano proprio nulla. Ieri hai scritto un orribile articolo abilista. Punto. Certe volte bisogna semplicemente chiedere scusa. E fermarsi lì”.

Ancora più netto il deputato di Italia Viva Davide Faraone, anche lui in prima fila su questi temi: “A Concita De Gregorio mi piacerebbe offrire soltanto un consiglio: provi a pulire la bocca ad un disabile che sbava e vedrà che non le farà poi così tanto schifo. Le servirà semmai a rispettarlo, a conoscerlo, ad abituarsi alla sua presenza nella società, a mostrare la stessa attenzione che mostra giustamente per la statua ottocentesca distrutta da un influencer senza coscienza. Provi a sillabare con lui così come fanno tanti volontari nel nostro Paese, tanti valorosissimi insegnanti di sostegno, assistenti alla comunicazione, provi a passare un po’ di tempo con loro, così come dedica del tempo ad ammirare un quadro, una statua, un monumento e vedrà che le verrà naturale rispettarli, indignarsi se qualcuno osasse offenderli così come si indigna opportunamente a difesa di un’opera d’arte. Capirà che così come i manicomi, anche le scuole differenziali nel nostro Paese, per fortuna, ce le siamo lasciate alle spalle, proprio per costruire percorsi di inclusione, di scambio tra i ragazzi, che vivono naturalmente la convivenza e mai si sognerebbero di insultare qualcuno paragonandolo al proprio compagno di classe. Le suggerirei anche di frequentare un po’ di mamme e papà di persone con disabilità, la aiuterà a comprendere che “il deficit cognitivo” può portarti a non comprendere un’offesa, “il decerebrato assoluto” può non percepire la violenza fisica o verbale, ma ci sarà chi incasserà per conto loro, chi si sarà sentito umiliato leggendo il suo pezzo”.

CONCITA CHIAMALI PURE STRONZI MA SE PUOI LASCIA FUORI QUELLI CON DEFICIT COGNITIVO COME TOMMY. Estratto dell’articolo di Gianluca Nicoletti per pernoiautistici.com sabato 5 agosto 2023.

E’  stata una fitta al cuore per, come per ogni altro genitore di un figlio con un serio deficit cognitivo,  leggere […], nell’incipit della  rubrica “Invece Concita” , che lo stato che accomuna i nostri ragazzi è usato con disprezzo e scherno per definire i giovani influencer tedeschi, sicuramente maleducati e  viziati, che per farsi un selfie nella fontana di una villa a Viggiù hanno rotto una statua. I ragazzi come Tommy possono essere turbolenti o svampiti ma non sono vandali.

Per un attimo ho stentato a credere possibile che una mia collega gentile e sensibile, da sempre testimone di tutte le possibili battaglie a difesa di ogni fragilità e diritto civile, possa essere sfuggita  una frase del genere. Sembra piuttosto scritta da uno di quei bei tipi che ogni tanto attaccano sui social, lo fanno per cose che si scrivono o dicono non in linea con i loro punti di vista, prendendo però  la disabilità psichica  come esempio di una  probabile incapacità a esprimere pensiero. 

La frase che mi ha addolorato la riporto qui integralmente: “Allora dunque ci sono questi cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca. Ecco ci sono questi deficienti, nel senso che letteralmente hanno un deficit cognitivo – non è mica colpa loro, ce l’hanno –  e che però pur essendo idioti hanno probabilmente centinaia o migliaia di followers, non ho controllato ma non importa, è assolutamente possibile che siano idoli della comunità.” 

Lo so che tra le tante maniere di esprimere oggi un pensiero civilmente arretrato, la lotta alla  discriminazione “abilista” sia quella meno gratificante per essere presa come proprio specifico terreno di militanza. Non posso farci nulla e mi dispiace di dare l’impressione di voler alimentare una di quelle tristissime dispute pubbliche tra giornalisti (tra l’altro  Concita e io lavoriamo per lo stesso gruppo). Però siccome non ho mai fatto passare leggerezze simili ad alcun collega, non posso per onestà verso mio figlio Tommy e i tanti come lui fare finta di non aver letto. Anche perché altri genitori me l’hanno fatto notare da parecchie ore.

Volevo solo se possibile far riflettere Concita sul fatto che, grazie a battaglie che qualcuno ha fatto prima di noi, le scuole differenziali in Italia non ci sono più dal 1977 quando furono abolite dalla legge 517, con l’introduzione, un paio di anni dopo, della figura dell’insegnante di sostegno. Le due realtà quindi non sono mai coesistite. 

Quella che veniva indicata come luogo dell’emarginazione e dello stigma […] venne sostituita con il principio dell’inclusione scolastica. E’ una legge che rappresenta per l’Italia un motivo di grande orgoglio […] ma è un diritto sancito che ci pone all’avanguardia rispetto molti altri Paesi.

Un ultimo particolare, forse quello meno gradevole in assoluto. L’immagine di un insegnante che dice al ragazzo con deficit psichico “sillabiamo però pulisciti prima la bocca” è veramente atroce. I nostri ragazzi possono anche sbavare, possono avere difficoltà nel parlare, nel leggere, queste sono le conseguenze dei loro cervelli fuori standard. E allora? Bavoso si può dire, cicciona guai? 

Nessuno però dovrebbe permettersi di riassumere  il loro disagio nel vivere una vita difficile per formulare un insulto,  soprattutto se per definire persone che sarebbe molto più semplice chiamare “poveri stronzi” senza il rischio di ferire la nostra sensibilità di cervelli ribelli.

Estratto dell’articolo di Concita De Gregorio per “la Repubblica” – 4 agosto 2023 

Allora dunque ci sono questi cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca. Ecco ci sono questi deficienti, nel senso che letteralmente hanno un deficit cognitivo — non è mica colpa loro, ce l’hanno — e che però pur essendo idioti hanno probabilmente centinaia o migliaia di follower, non ho controllato ma non importa, è assolutamente possibile che siano idoli della comunità.

[…] Insomma ci sono questi influencer […] che per farsi un selfie nel Varesotto, a Viggiù, hanno distrutto una statua ottocentesca. Ma non importano l’epoca né il valore commerciale: poteva essere un Michelangelo, uno Jago. Hanno distrutto un’opera d’arte perché dovevano farsi una foto da postare sui social. […]  […] Direttori di giornali e di reti tv, vi supplico. Commissionate alle migliori menti del nostro tempo […]  piccoli monologhi da frazionare su TikTok che spieghino che esistiamo anche se non ci fotografiamo. […] Genitori: puniteli. […]. Io non lo so come si fa, ma si deve.

Estratto dell’articolo di Concita De Gregorio per “la Repubblica” – 5 agosto 2023 

Ieri, nell’indicare il comportamento di un gruppo di idioti che tali fisiologicamente non sono, anzi: sono persone popolari (influencer) che hanno distrutto una statua per farsi un selfie, li ho definiti deficienti, cerebrolesi. 

Alcuni lettori — soprattutto familiari di persone con handicap e anche associazioni — si sono sentiti offesi. Hanno ragione. Cerebrolesi non è un insulto ma una condizione, mi hanno scritto. Completamente d’accordo. Chiedo sommessamente scusa.

[...] Chiedo dunque scusa, sinceramente, e convengo: i cerebrolesi sono persone meravigliose afflitte da un danno. 

I normodotati che distruggono statue per postare una foto su Instagram non hanno nessun danno, invece. Chiamiamoli Ugo. A margine penso che sia comunque la morte del contesto. 

[…] Il linguaggio politicamente corretto e il comportamento che ne consegue stanno paralizzando il pensiero e l’azione — specie a sinistra.  […] Dipende dal contesto. Qui era molto scivoloso.

Il Caso Vannacci.

L’estratto.

Da Ansa.

Da Il Corriere della Sera.

Da La Repubblica.

Da La Stampa.

Da Il Fatto Quotidiano.

Da L’Inkiesta.

Da Il Dubbio.

Da Il Riformista.

Da L’Unità.

Da Il Domani.

Da Dagospia.

Da Panorama.

Da La Verità.

Da Notizie.it.

Da Il Giornale.

Da Libero Quotidiano.

Da Il Tempo.

L’estratto.

Estratto dell’articolo di Mario Giordano per “la Verità” lunedì 20 novembre 2023

Caro generale Vannacci, che delusione. Noi che l'abbiamo difesa fin dall'inizio, noi che l'abbiamo combattuto, noi che l'abbiamo considerata un simbolo di quella libertà di espressione che riteniamo negata dal politicamente corretta, noi che abbiamo letto in tv i brani del suo libro, noi che abbiamo sperato che lei portasse un contributo importante nel rimettere diritto questo mondo al contrario, ecco, le confesso che siamo rimasti delusi nel vederla ricorrere a una raffica di querele contro chi l'aveva attaccata.

[…] pensavamo che un generale dei parà, un comandante degli incursori, un militare abituato alle battaglie, sapesse affrontare i suoi avversari senza mettersi al riparo dei bolli in tribunale, come un Renzi qualsiasi. Invece. Invece lei l'ha fatto. Ha scelto un avvocato di grido, Massimiliano Manzo, principe del foro di Firenze, e gli ha fatto inviare citazioni a pioggia. Fra i primi raggiunti l'onorevole Pier Luigi Bersani, che le aveva dato del «coglione» e un (per ora anonimo) utente di X (la ex Twitter) che l'aveva criticata in un post.

Ora, si capisce, gli attacchi fanno male. Danno fastidio. […] Ma ci resta la delusione: speravamo infatti che la sua battaglia portasse frutti un po' diversi dalla bega in tribunale. Speravamo che ci portasse a una maggiore libertà di poter parlare e pensare. Per questo abbiamo contestato il ministro Crosetto che l'ha rimossa subito dopo l'uscita del libro. Per questo abbiamo difeso il suo diritto di scrivere parole forti. Per questo abbiamo contrastato chi, da quelle parole, si è sentito offeso. Per questo abbiamo irriso chi raccoglieva firme per farla tacere. E tutto questo per permetterle di querelare Bersani e mister X in tribunale? Che tristezza.

[…] credevamo che lei potesse interpretare i sentimenti di un certo popolo che si aspetta un cambiamento vero in questo Paese. […] È possibile che […] abbia bisogno di ripararsi dietro un avvocato per una parolaccia sparata da Bersani? Le confesso che qualche perplessità ci era già venuta: […] abbiamo incontrato un duro combattente da trincea e ci siamo ritrovati le patinate fotografie su Chi. […] Ci permette di essere un po' perplessi. Se tutto ciò era solo per vendere tante copie del libro, poteva dircelo.

Estratti da “il Mondo al contrario”, di Roberto Vannacci sabato 19 agosto 2023.

Ma quello che è curioso e paradossale al tempo stesso […] è la strategia di far passare tutto ciò che non è etero come normale e, al contempo, di discriminare come anormali, malati, disagiati tutti quelli che esprimono critiche o opinioni non positive nei confronti del pianeta lgbtq+. 

[…] Omofobia, lesbofobia, bifobia, transfobia: con questi epiteti si indicano, come se fossero affetti da una terribile patologia, tutti quelli che provano antipatia ed avversione o che dimostrano di non condividere le tematiche tanto care agli arcobaleno. 

Il termine “fobia” snatura l’interlocutore facendogli perdere la dignità di essere pensante e dotato di ragione relegandolo contestualmente all’alveo dei malati di mente. E gli improperi fioccano copiosi ad ogni occasione possibile: non c’è bisogno di offendere un gay ma il semplice fatto di asserire che non si è d’accordo con l’adozione di bambini da parte delle coppie omogenitoriali ci include automaticamente ed inevitabilmente nel girone dei “disturbati” che, se non di una severa pena, necessitano di un’accurata rieducazione e terapia per poter convivere, senza nuocere, nella moderna società progressista ed inclusiva.

Cari omosessuali, normali non lo siete, fatevene una ragione! Non solo ve lo dimostra la Natura, che a tutti gli esseri sani “normali” concede di riprodursi, ma lo dimostra la società: rappresentate una ristrettissima minoranza del mondo. Quando vi sposate ostentando la vostra anormalità la gente si stupisce, confermando proprio che i canoni di ciò che è considerato usuale e consuetudinario voi li superate. 

[…] Anche se abbiamo seconde generazioni di Italiani dagli occhi a mandorla, il riso alla cantonese e gli involtini primavera non fanno parte della cucina e della tradizione nazionale; anche se Paola Egonu è italiana di cittadinanza, è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità che si può invece scorgere in tutti gli affreschi, i quadri e le statue che dagli etruschi sono giunti ai giorni nostri; anche se vi sono portatori di passaporto italiano che pregano nelle moschee, ciò non cancella 2000 anni di cristianità.

La società cambia, e così la cultura, ma ogni popolazione ha il sacrosanto diritto, ed anche il dovere, di proteggere le proprie origini e le proprie tradizioni da derive e da tangenti che le snaturerebbero. Sono ormai più di cinquant’anni che abbiamo McDonald’s in Italia e che milioni di italiani si cibano dei suoi prodotti, ma nessuno si azzarda a dichiarare che i panini con hamburger e ketch-up facciano parte della cucina tricolore. […] Analogamente, per quanto crescano le percentuali di stranieri o di cittadini italiani “acquisiti”, fare il distinguo su ciò che appartiene alla cultura nazionale e ciò che è importato è indice di tutela di un patrimonio culturale vecchio di millenni e non di inutile sciovinismo o di xenofobia. 

[…] Per immigrare in Russia le candidature dei potenziali lavoratori sono vagliate nel paese di origine e, a chi viene accettato, è garantito il contratto di lavoro ed il contratto per la casa prima ancora dell’ingresso nella terra degli Zar. Se poi non rispetti le leggi e la cultura locale, oltre a finire in carcere per gli eventuali reati commessi, vieni rispedito al mittente senza troppi complimenti e senza la possibilità di poter ritornare per innumerevoli anni. Certo che è più facile e conveniente venire in Europa. In Italia se rubi, molesti il prossimo o non paghi il biglietto del treno mica ti rimandano a casa!

Estratto dal libro “Il Mondo al Contrario” di Roberto Vannacci martedì 22 agosto 2023.

[…] Il termine improcrastinabile è solo nei neuroni malandati dei forsennati dell’ambiente che, guarda caso, vengono finanziati per condurre le loro plateali e dannose manifestazioni dai magnati d’oltre oceano. Le proteste sono sostenute dal Climate Emergency Fund, con sede nella ricchissima ed esclusiva Beverly Hills, in California. L’organizzazione elargisce mazzette di bigliettoni per mobilitare gli attivisti soprattutto nel Vecchio Continente e nel civilizzato “Occidente”, perché in Cina, Russia e India tali espedienti non funzionano. […]

In Russia c’è lavoro, e ce n’è anche tanto. Rispetto a molti posti del mondo, vi si vive anche abbastanza bene. A Mosca quasi tutti i tassisti sono Kirghisi, Uzbechi o Tagichi come quasi tutti gli operai che manutengono le strade, che sgomberano le città dalla neve nel lungo inverno e che lavorano nelle costruzioni e nell’agricoltura. Nei grandi cantieri che ho visitato a Murmansk, dove la nostra SAIPEM era solidamente presente, la maggioranza dei lavoratori era dai tratti somatici mongoli.

Ma in Russia, nonostante l’incredibile estensione del territorio e l’impossibilità di gestirne e controllarne le frontiere, l’immigrazione clandestina non esiste o è un fenomeno relegato alle popolazioni nomadi delle steppe asiatiche. Il clandestino in Russia non lo vai a fare perché sai che non avrai vita facile. Nel 2019 i lavoratori stranieri immigrati temporaneamente in Russia erano 12 milioni su una popolazione di 145 (quasi il 10 %). Nel 2020 sono scesi a 6 milioni a causa della pandemia.

Per immigrare in Russia le candidature dei potenziali lavoratori sono vagliate nel paese di origine e, a chi viene accettato, è garantito il contratto di lavoro ed il contratto per la casa prima ancora dell’ingresso nella terra degli Zar. Se poi non rispetti le leggi e la cultura locale, oltre a finire in carcere per gli eventuali reati commessi, vieni rispedito al mittente senza troppi complimenti e senza la possibilità di poter ritornare per innumerevoli anni. Certo che è più facile e conveniente venire in Europa. In Italia se rubi, molesti il prossimo o non paghi il biglietto del treno mica ti rimandano a casa! […]

Per non parlare della Russia, ed in particolare di Mosca, dove incontravo, ben dopo l’imbrunire nei grandissimi e bellissimi parchi cittadini, donne sole e mamme con bambini che assaporavano il fresco delle sere estive senza il benché minimo timore di essere molestate da qualcuno. “Ma là c’è una dittatura” – tuona qualcuno – come se una delle caratteristiche delle democrazie fosse quella di autorizzare ladri, stupratori e criminali a esercitare liberamente le loro attività.

E il problema è anche questo. Se la democrazia non riesce a dare risposte concrete soprattutto nei confronti della delinquenza comune e di quei reati, come i furti, che toccano più di ogni altro il cittadino allora l’elettorato si volgerà verso sistemi diversi, verso forme di governo più efficaci nei confronti dei malviventi. 

Basta guardarsi intorno per capire la fisionomia di queste leadership: in base all’indice di criminalità i paesi più virtuosi al mondo sono il Qatar e gli Emirati Arabi in buona compagnia con molti altri stati le cui forme di governo non possono annoverarsi tra le democrazie più virtuose. Parlando di grandi paesi, Cina e Russia hanno un indice di criminalità notevolmente inferiore ai grandi paesi europei, agli Stati Uniti e al Canada. […] 

I social media hanno iniziato questa tirannica tendenza con Facebook, ormai attivissimo nella sospensione dei profili scomodi, e Twitter, che banna Trump: nientepopodimeno che il presidente degli Stati Uniti d’America. Ma in ogni settore la metodologia è applicata con certosina precisione: la correttezza ideologica viene sorvegliata continuamente e laddove si intravede un seppur minimo margine di violazione si interviene con censure e con liste di proscrizione che individuano, per esempio, i putiniani da mettere a tacere, i negazionisti del modello green da schernire, gli antisistema contrari all’immigrazione incontrollata da bollare come omofobi e razzisti, i difensori della famiglia tradizionale da trattare come retrogradi e i ministri a cui impedire la presentazione di un’opera al salone del libro. […]

«Il mondo al contrario», il libro discusso del Generale Vannacci. su Panorama il 22 Agosto 2023.

Pubblichiamo alcuni stralci del libro di Roberto Vannacci che tante polemiche hanno scatenato in questi giorni Redazione Panorama «Il mondo al contrario», il libro discusso del Generale Vannacci

Occupazioni abusive Noi italiani siamo strani: crediamo ancora in valori tradizionali e cerchiamo di aggrapparci ad ogni certezza che ci possa mettere al riparo dalle avversità della vita. Forse è stata la discontinuità della nostra storia a renderci così cauti e prudenti, forse è stata la mancanza di altre certezze e forse la necessità di individuare un luogo in cui ci si possa sentire sicuri, perché altrove non lo siamo sempre stati. Una cosa è certa: nella penisola la casa rappresenta la colonna portante della vita ed il punto di riferimento della famiglia. Quattro mura, niente di più. È probabilmente per questo motivo che l’Italia è uno dei paesi al mondo che ha la più alta percentuale di proprietari di case. [...] Ci si aspetterebbe, dunque, che fosse uno tra i beni più tutelati dal nostro ordinamento, considerato il valore che rappresenta nella nostra cultura e civiltà. Invece, purtroppo, anche in questo caso il Mondo al Contrario irrompe brutalmente nelle nostre vite e ci consegna l’Italia degli ultimi quarant’anni in cui gli occupatori abusivi ed i ladri di case sono più tutelati dei loro legittimi proprietari. [...] Il fenomeno era limitato, i casi erano fortuiti ma già rivelavano una certa inadeguatezza del sistema. Gli sfratti, infatti, non sono mai stati facili nello stivale. Il grande perdente è sempre stato il proprietario del bene che, nelle migliori delle ipotesi, ne riassumeva il possesso con mesi, se non anni di ritardo, senza percepire le somme per la locazione dell’abitazione e, spesso, con una lunga serie di bollette da pagare. Ogni tanto si aggiungeva al danno la beffa di vedersi restituire una casa sporca, mezza distrutta, non curata, in poche parole un alloggio da risistemare tutto a proprie spese. Il fenomeno, tuttavia, era relegato alle grandi città perché nei piccoli centri gli abitanti si conoscevano bene fra loro e l’ipotesi di macchiare la propria reputazione di fronte alla comunità con una condotta disdicevole di inquilino moroso e menefreghista frenava e limitava tali tipologie di manifestazione. [...]

Il Mondo al Contrario è anche questo, non bastano i giudici, gli avvocati, la forza pubblica, le carte bollate e mesi, se non anni di attesa, alla fine un occupante abusivo su quattro riesce a farla franca ed al proprietario, nel migliore dei casi, non resta che leccarsi le ferite. Mentre il principio della legalità va in frantumi vi sono ampie frange di pseudopolitici ed intellettuali che, comunque, giustificano questa grottesca situazione. La circostanza che rende il fenomeno ancora più sconcertante ed esecrabile è che, almeno sotto il punto di vista della percezione, l’occupazione abusiva è sicuramente peggio del furto: quando ci viene sottratto un bene mobile, nella maggioranza dei casi, il fatto è immediato; il reato si consuma in un tempo brevissimo da parte di qualcuno che generalmente non conosciamo e non vediamo; la refurtiva non viene quasi mai ritrovata e quindi la consideriamo persa oppure, se ritrovata, viene restituita al legittimo proprietario senza indugio. Sicurezza Come la democrazia e la libertà, la sicurezza ha un costo elevato e va coltivata e preservata con cura e dedizione, va custodita e difesa non solo dallo Stato e dalle organizzazioni ed enti deputati, ma da tutti i cittadini che devono contribuire, nel loro stesso interesse, a mantenere in buona salute questo bene primario della collettività. Anche queste basiche e semplici convinzioni, al limite del banale, non sfuggono ai ribaltatori della realtà che sconvolgono metodicamente quello che è il sentire comune e che finiscono per giustificare tutto, anche ciò che costituisce palesemente una diretta minaccia al singolo e alla collettività.

[...] Come fa l’assalito a poter immaginare le bramosie dell’aggressore? Come si interpreta e si quantifica l’ampiezza del «turbamento» e la percezione del pericolo da parte della vittima che, in punta di legge attuale ed insieme alla «necessità» costituirebbero l’unica giustificazione per una reazione violenta? Come faccio a sapere che i due ceffi che mi aggrediscono per la strada a suon di botte e catenate mi vogliono solo rubare il portafoglio il cui valore, in base alla proporzionalità, è sicuramente inferiore alle loro vite? Ecco perché la difesa, a parte rare eccezioni, deve essere considerata sempre legittima! È l’aggredito la vittima non l’aggressore. È a lui che vanno pagati i danni per lo spavento procurato e per il turbamento della sicurezza della propria persona che, ricordiamoci, insieme alla vita costituisce un diritto fondamentale garantito allo stesso articolo dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Il principio della proporzionalità, infatti, in quasi tutti i casi viene rispettato se non nelle aule dei tribunali certamente nella cruda realtà. L’aggressore è sempre in vantaggio. Ve lo dice un esperto di forze ed operazioni speciali. Lui detiene l’iniziativa e sa quando e come entrare in azione sorprendendoci; lui pianifica l’azione con meticolosità; lui si prepara ripetutamente prima del colpo in modo da non lasciare nulla all’imprevisto; lui compie l’atto criminoso molto velocemente non dandoci il tempo di reagire; lui impiega aggressività e motivazione – sa cosa cercare e ottenere – per portare a termine la sua rapina mentre la vittima è colta sempre dal dilemma se scappare, difendere i suoi cari, chiamare aiuto o reagire fisicamente. In termini dottrinali l’aggressore realizza la superiorità relativa, ovvero quella condizione che le forze speciali di tutto il mondo ricercano per avere ragione di unità più consistenti e meglio organizzate a difesa.

Modello sociale tradizionale Sono figlio di una famiglia tradizionale: un padre che lavorava e che spesso non era presente proprio per motivi legati alla sua professione e una madre casalinga che, quasi da sola, si è occupata di tutte le faccende domestiche e ha allevato, cresciuto e seguito me e i miei due fratelli sino alla nostra maggiore età. Come la mia, molte delle famiglie dei miei amici e dei miei compagni di scuola che, felicemente, sono cresciuti insieme a me. Nulla di strano, dunque, perché nella mia situazione si sono ritrovati moltissimi altri giovani che, tra gli anni ‘60 e oggi, hanno condiviso la bellezza di un nucleo familiare tradizionale in cui uno dei genitori, generalmente la madre, si è essenzialmente preso cura della famiglia, anche senza rinunciare al lavoro, e l’altro si è occupato primariamente del sostegno economico pur condividendo, quando poteva, la vita e i bellissimi momenti del focolare domestico. [...] Ricordando il detto «squadra che vince non si cambia», stupiscono gli attacchi e le critiche a cui la famiglia tradizionale è stata sottoposta negli ultimi cinquanta anni da una moltitudine di soggetti che propongono modelli diversi, a volte originali e stravaganti, che dovrebbero soppiantare un’istituzione che invece, per secoli, si è dimostrata più che all’altezza del proprio compito. Il primo attacco proviene dal socialismo reale che brama di «comunizzare» la società e di assegnare alle sole istituzioni statali l’educazione dei giovani che devono essere, sin dai primi anni d’età, sottratti alle grinfie familiari che ne potrebbero alterare i valori di riferimento. Questa stessa matrice ideologica impone inoltre che il lavoro, severamente gestito dallo Stato, debba coinvolgere tutti i membri della società, rigorosamente tutti, ivi compresi i neo genitori per i quali non deve esistere un’alternativa che esuli dall’impiego protratto e continuo in un’attività produttiva, come se quella dell’educazione della prole non lo fosse. Altra incredibile bordata proviene dal movimento femminista che si batte per l’emancipazione della donna. Oltre a promuovere istituzioni come il divorzio e l’aborto al suon dello slogan «tremate, tremate, le streghe son tornate» si oppone alla figura femminile intesa come madre. Le moderne fattucchiere sostengono che solo il lavoro e il guadagno possono liberare le fanciulle dal padre padrone e dal marito che le schiavizza condannandole ad una sottomessa, antiquata, involuta ed esecrabile vita domestica. Si aggiungono i movimenti lgbtq+ che introducono il concetto di fluidità sessuale, di percezione del sesso e di transgender e che classificano come famiglia l’unione tra due persone di sesso uguale o, non importa quale sesso, anzi, il sesso non esiste è solo una percezione! «L’importante è che ci sia l’amore» – tuonano indignati! Quando poi si rappresenta che una coppia omosessuale non può fisicamente procreare la risposta ormai ciclostilata è che ci sono tante coppie eterosessuali che non hanno figli, quindi, perché scandalizzarsi. Arrivano poi gli animalisti che sostengono che l’amore, che assolutamente non può definirsi affetto, è possibile anche nei confronti di una tenera bestiolina e che, quindi, pretendono esteso il concetto di famiglia a chi vive con un gatto, un cane, un porcellino d’India o, addirittura, un maiale. Non si spiegano il perché, dunque, alla scomparsa del padroncino l’adorato essere peloso non debba avere il diritto di percepire la pensione di reversibilità come invece l’avrebbe un coniuge o un figlio minorenne. Il risultato è che la famiglia ha subito durissimi colpi, che il termine stesso di famiglia naturale o tradizionale viene messo in discussione, che le donne, per quanto lavorino, non sono spesso contente e realizzate, che le situazioni di disagio minorile sono incrementate, che la natalità è incredibilmente diminuita e che gli anziani, spesso non autosufficienti, non trovano più una collocazione se non in squallide case di riposo in attesa di raggiungere la pace eterna. Quando ripercorro la mia esistenza mi rendo conto che l’unico ed insostituibile punto forza, l’unica certezza, il più solido dei supporti capace di resistere a qualsiasi avversità è stata proprio la mia famiglia. Qualsiasi cosa succedesse sapevo di poter contare su qualcuno che avrebbe compreso o che, anche senza capire o condividere le mie azioni o le mie scelte, mi avrebbe comunque aiutato. Sapevo di poter essere ascoltato e di poter trovare compassione o dissenso, ma mai una condanna. Per uno come me veder mettere in dubbio la famiglia tradizionale sembra quasi un attentato all’unica cosa di indiscutibilmente positiva che la società possa offrire. Sono convinto che nulla nasca per caso e se la famiglia esiste da millenni sotto la forma tradizionale un motivo ci sarà. Il nucleo familiare esiste da quando l’uomo esiste. Senza scomodare gli antropologi sappiamo che l’unione di un uomo e una donna ha garantito il prosperare della specie umana, la sua evoluzione e il suo benessere. All’origine non vi è stato alcun inventore del nucleo familiare, non esiste alcun copyright o, almeno, non ve ne è traccia all’ufficio brevetti. È stata semplicemente l’espressione della Natura che, attraverso i severi processi di selezione e adattamento ha individuato l’organizzazione più efficace per garantire la sopravvivenza della specie. Ancora prima che esistesse il matrimonio, la legge, la politica, lo Stato, il codice civile, forse ancora prima che si disquisisse tra il bene e il male la famiglia garantiva la vita del sapiens. Se Madre Natura ha percorso altri itinerari quello che si evince è che questi tentativi hanno portato a risultati caratterizzati da eccezionalità e da scarsa rilevanza. [...] Nel nostro bel Mondo al Contrario siamo arrivati al paradosso dei paradossi: chi potrebbe avere dei figli non li fa e viene dissuaso dal farli sia per ragioni economiche ma anche perché ormai si è socializzata l’idea che avere una prole significa rinunciare alla libertà, all’emancipazione, alla carriera e ad una vita cosiddetta «moderna»; chi invece i figli non li può avere, come le coppie omosessuali, è pronto a qualsiasi espediente per ottenere un paio di pargoli sostenuto in questa assurda tenzone da una pletora di finti moralisti che, mentre accostano alla maternità l’idea di schiavitù, si inventano il «diritto alla genitorialità» e giustificano pratiche come l’utero in affitto per soddisfare i desideri biologicamente contronatura delle coppie arcobaleno. D’altra parte, seguendo lo stesso criterio potremmo affermare, con un ragionevole grado di certezza, che non è nella natura dell’uomo essere cannibale, pur accettando il fatto che in alcune circostanze eccezionali ed in particolari e specifiche condizioni anche il sapiens abbia sviluppato forme di cannibalismo per garantirsi la sopravvivenza. Che il Conte Ugolino, chiuso tra le mura della Torre della Muda, si sia mangiato i suoi figli non giustifica la naturalezza di tale comportamento. Analogamente, se alcuni gruppi di individui che la Natura ha relegato in ambienti impossibili finiscono per mangiarsi tra di loro ciò non ammette la banalità di una tale condotta in condizioni usuali. Questa chiara evidenza non ci porta a definire l’antropofagia come naturale e normale e non credo potrebbe mai giustificare la vendita di carne umana nei nostri supermercati. Né questa particolarità ci porta a elidere il significato, o addirittura il termine, di normalità.

Da Ansa

(ANSA martedì 22 agosto 2023) - Anche per i militari può valere il diritto "alla manifestazione del pensiero tutelato dall'articolo 21 della costituzione". E' quanto si ricava da una sentenza con cui il Tar del Piemonte ha dato ragione un maresciallo delle forze armate che era stato sanzionato con la 'perdita del grado per rimozione' dopo aver promosso una campagna mediatica per denunciare i tanti 'casi di suicidio nel comparto della Difesa'.

Il provvedimento dei giudici subalpini è stato confermato il 6 giugno 2023 del Consiglio di Stato.

(ANSA giovedì 17 agosto 2023) - "Le critiche non mi disturbano affatto e al ministro Crosetto non replico, mi attengo a quelle che sono le sue disposizioni. Ciò che mi procura disagio è la strumentalizzazione: sono state estratte frasi dal contesto e su queste sono state costruite storie che dal libro non emergono. Sono amareggiato dalla decontestualizzazione e dal processo a delle opinioni". 

Così il generale Roberto Vannacci, oggi alla guida dell'Istituto geografico militare, a proposito delle polemiche relative ad alcune frasi contenute nel suo libro autoprodotto "Il Mondo al contrario". 

"Sono pronto a confrontarmi sulle mie opinioni e nel campo delle argomentazioni, del merito, non di altri aspetti - aggiunge Vannacci -. La libertà di opinione è una delle radici della nostra radice libera e occidentale. Giordano Bruno lo hanno bruciato perché aveva un pensiero controcorrente, meno male abbiamo superato quei momenti e mi auguro che nessuno voglia tornare indietro, che nessuno voglia imporre un modo di vedere la realtà". 

Alla fine, osserva, "hanno fatto una grande pubblicità al libro, magari le vendite aumenteranno. Per le illazioni fatte io non ho problemi a rispondere nel merito, sarò ben lieto di farlo".

(ANSA giovedì 17 agosto 2023) - "La frase sugli omosessuali viene da uno, ovvero io, che è scappato tutta la vita dalla normalità: per questo dico che sono a fianco degli omosessuali nella caratteristica di essere al di fuori della normalità. Sono un esponente delle forze speciali e rivendico l'anormalità, nel senso che ho fatto cose che la gente normale non fa. 

Per questo dico che sono a fianco degli omosessuali in questo. Nel libro spiego che l'anormalità non è migliore o peggiore, non è buona o cattiva". Così il generale Roberto Vannacci, alla guida dell'Istituto geografico militare, sulle polemiche sul suo libro autoprodotto "Il Mondo al contrario".

(ANSA giovedì 17 agosto 2023) "Non utilizzate le farneticazioni personali di un generale in servizio per polemizzare con la Difesa e le forze armate. Il generale Vannacci ha espresso opinioni che screditano l'Esercito, la Difesa e la Costituzione. Per questo sarà avviato dalla Difesa l'esame disciplinare previsto". E' quanto scrive su twitter il ministro della Difesa, Guido Crosetto. 

(ANSA domenica 20 agosto 2023) - "Io faccio il soldato e voglio continuare a fare il soldato. Ringrazio sempre chi mi esprime fiducia e lo faccio anche nei confronti di un partito politico, di qualsiasi partito politico. Tuttavia continuerò a fare il soldato e non ho fatto progetti per altre attività. E' chiaro che le offerte che si ricevono, in qualsiasi ambito, sono dimostrazioni di fiducia, perciò ogni volta ringrazio per la fiducia che mi viene data". Lo ha detto all'ANSA il generale Roberto Vannacci rispetto all'invito pubblico di Forza Nuova a candidarlo a Monza. "Non ho progetti per altre cose - ha sottolineato - io continuo a fare il soldato". 

"Ho iniziato a fare il soldato a 17 anni e sono 37 anni che lo faccio - ha aggiunto il generale Vannacci -. Continuerò a farlo a meno che non smettano di farmelo fare o che io non riceva proposte che mi potrebbero sconfifferare. Ma queste ora non ci sono". Sulla valenza politica dei contenuti del suo libro 'Il mondo al contrario' Vannacci sottolinea: "Non ho mai fatto politica, non ho scritto un libro politico. Ho scritto il libro per descrivere le cose che secondo me possono essere migliorate, ho messo per iscritto le mie idee su una serie di temi, addirittura ho perfino dedicato un capitolo alle tasse". "Il mio libro non deve essere accostato a nessun partito politico perché non è così - ha aggiunto -. 

C'è dentro invece quello che penso si possa fare o dire su una serie di cose e mi sembrava utile scriverlo". Riguardo al ministro Crosetto, il generale Vannacci ha ribadito che "è il mio ministro della Difesa a cui devo rendere rispetto e disciplina come ho giurato di fare, con onore e secondo i regolamenti. Al ministro della Difesa si porta rispetto, chiunque sia in quel momento a ricoprire la carica. Se avrò modo di parlare con il ministro Crosetto, se ci sarà l'occasione, lo farò e risponderò a lui nelle sedi opportune".

Sgarbi, Vannacci umiliato dalla dittatura della minoranza

(ANSA domenica 20 agosto 2023) - "Nella garanzia dei diritti non ci sono gerarchie. Abbiamo visto che è riconosciuto legittimo dai vertici dell'Esercito il matrimonio di due persone dello stesso sesso. È un affare privato ma si consente che l'unione si compia in divisa. 

Non lo discutiamo ma, parimenti, dev'essere consentito non in divisa, ma in un libro, scrivere le proprie idee, tra l'altro legate a profondi principi cristiani senza patire sanzioni".

Lo afferma il sottosegretario alla Cultura, nonché storico e critico d'arte Vittorio Sgarbi. "In caso contrario, come è avvenuto, non si fa altro che confermare le idee e i pensieri che si intende punire - osserva in una nota -. Ogni posizione e ogni libertà garantita dalla Costituzione non può essere censurata. 

Il pensiero progressista non può autoritariamente mortificare e spegnere il pensiero conservatore. Dopo il trattamento subito il Generale Vannacci potrà ancora scrivere e parlare o dovrà essere umiliato dalla dittatura della minoranza attraverso l'autorità dello Stato? Questo è regime".

Da Il Corriere della Sera.

Roberto Vannacci, un caso il libro del generale con gli insulti a gay e migranti. Lui: «Sono speciale». Storia di Virginia Piccollillo e Giulio Gori su Il Corriere della Sera  giovedì 17 agosto 2023.

«Certo che ho scritto “Cari omosessuali, normali non lo siete, fatevene una ragione”. Ma è una frase scritta da persona che normale non è: io sono uno “speciale”». Rivendica tutto il generale Roberto Vannacci, 54 anni, ex capo della Folgore, con ruoli di responsabilità nelle forze speciali, adesso al centro delle polemiche per i giudizi di cui ha punteggiato un libro autoprodotto, Il mondo al contrario. Considerazioni sulla «anormalità Lgbt», prese di posizione contro migranti, femminismo, ambientalisti che hanno fatto indignare, all’unisono, una platea vastissima ed eterogenea. Dalla politica fino agli alti vertici militari, che ne prendono le distanze: «Opinioni personali, delle quali l’Esercito non era a conoscenza. Mai sottoposte ad autorizzazione e a valutazioni dei vertici militari». Per le quali l’Esercito «si riserva provvedimenti a tutela dell’immagine».

Cogliendo fior da fiore: la normalità? «È l’eterosessualità. Se tutto vi sembra normale è per colpa delle trame delle lobby gay internazionali». La campionessa Paola Egonu? «I suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità».

Frasi che hanno causato un’ondata di reazioni. Mentre il libro è schizzato in vetta alla classifica dei best seller di Amazon nella categoria «libertà e sicurezza».

«È indegno del suo ruolo» attacca l’M5S Alessandra Maiorino. Chiede le sue dimissioni dall’attuale ruolo di capo dell’Istituto Geografico Militare il capogruppo dem in commissione difesa, Stefano Graziano: «Parole che non si possono giustificare». Per Nicola Fratoianni (Avs) «non può rappresentare il nostro esercito». Ironizza su quello che definisce «mein Kampf de noantri» Riccardo Magi (+Eu). E intervengono pure Ficarra e Picone: «I medici gli hanno consigliato di bere molta acqua, di non uscire nelle ore più calde e di evitare i cibi piccanti».

Il generale parla di «strumentalizzazione» fatta «con frasi estrapolate dal contesto» e si dice «amareggiato» anche per il «processo a delle opinioni: Giordano Bruno lo hanno bruciato perché aveva un pensiero controcorrente, meno male che abbiamo superato quei momenti».

Tre lauree, sei lingue, oltre alla Folgore una storia da incursore, con missioni di recupero di personale civile da contesti di guerra che vanno dalla Somalia al Rwanda. Poi a Mosca, come consigliere della missione diplomatica fino all’attacco dell’Ucraina. Una quindicina di decorazioni militari, inclusa la Bronze Star Medal Usa per il servizio in Afghanistan. Sottolinea Vannacci: «Sono un esponente delle forze speciali e rivendico la mia anormalità, ovvero l’essere parte di una minoranza». E, noncurante della bufera, aggiunge: «Io non ho niente contro gli omosessuali, sono favorevole ai loro diritti, non li giudico, non credo si possa giudicare un gusto rispetto a un altro. Quello che contesto è che ciò che è eccezionale, marginale o semplicemente una minoranza, venga rappresentato come normalità». Sulle polemiche lamenta: «Vengo trattato da omofobo perché ho idee diverse dal pensiero unico. Io dico quel che molta gente pensa ma si guarda bene dall’esprimere».

Sulle donne, non trova i suoi giudizi sessisti: «Ho parlato della famiglia tradizionale, ho spiegato che normalmente c’è una persona che si occupa della cura della famiglia, rinunciando al lavoro a tempo pieno, e una che si occupa del sostegno economico. Ma non ho indicato, chi tra marito e moglie. Ho solo raccontato che nella mia famiglia è stata mia madre a occuparsi della casa».

Vannacci, il generale della battaglia persa. Storia di Aldo Grasso su Il Corriere della Sera sabato 19 agosto 2023.

Pur rispettando l’opinione degli individui in generale e l’opinione dei generali in particolare, questa volta il plurimedagliato generale ha perso la sua battaglia. Nel libro autopubblicato, dal titolo , ha insultato minoranze, femministe, ambientalisti, la comunità Lgbtq+ con frasi volgari e odiose da dare in pasto ai social. Superato lo stupore, ci si chiede come sia possibile che le sue idee vengano fuori solo adesso, dopo aver ricoperto ruoli strategici di importanza fondamentale. Era riuscito a contenere le ossessioni? Forse il generale ha valutato il cambiamento politico del Paese come un lasciapassare ideologico. Ma la reazione del ministro è stata tale (lo stigma di «farneticazioni» e l’immediata destituzione) da negargli ogni avallo. Per ora. Nella logica polarizzata dei social, la «divisione Wagner» degli «amici» si è subito schierata a favore di Vannacci e il libro ha cominciato a vendere su Amazon. È probabile che «Il mondo al contrario» abbia scoperchiato quella parte del Paese che fatichiamo a vedere ma che non manca di razzisti, omofobi, misogini, gente che paventa la «sostituzione etnica»: il «non pensiero» contro il «pensiero unico». Come è successo negli Usa con Donald Trump. Non illudiamoci, un generale ha sempre i suoi soldati e le sue salmerie.

Chi è il generale Roberto Vannacci: dai fronti più caldi agli esposti sull’uranio. «Io non devo scusarmi, no al pensiero unico». Giulio Gori Corriere della Sera il 19 agosto 2023.

La carriera dell’alto ufficiale, che non si pente. «Riguardo le decisioni prese sul mio servizio replicherò nelle sedi e in tempi giudicati opportuni dalla mia catena di comando». Poi aggiunge: «Le scuse a Paola Egonu? Non vedo il perché»

Né le critiche, né la rimozione dal comando dell’Istituto geografico militare di Firenze, gli fanno cambiare idea. Il generale Roberto Vannacci, finito nella bufera dopo la pubblicazione del suo libro autoprodotto, «Il mondo al contrario», non lascia trasparire alcuna esitazione: «Non vedo perché debba fare un passo indietro per un libro dove esprimo e manifesto liberamente i miei pensieri. La libertà di parola è garantita dalla Costituzione e tratto questioni di pubblico dominio. Io combatto il pensiero unico», dice riguardo alle critiche per le prese di posizione contro la comunità Lgbtq+, gli stranieri, gli ambientalisti.

E aggiunge anche: «Mi potrà essere mossa la critica che i toni sono dei toni forti, ma il tono forte di un libro è quello che viene scritto probabilmente per suscitare anche un certo interesse da parte del lettore». Roberto Vannacci non fa una piega neppure sulla frase riguardo alla pallavolista Paola Egonu, i cui «tratti somatici non rappresentano l’italianità»: «Non vedo perché debba porgere delle scuse per un’espressione che non è offensiva. Ho detto una cosa che è ovvia».

Il generale è invece più abbottonato rispetto alla decisione dello Stato maggiore dell’Esercito italiano di rimuoverlo dal comando dell’Istituto geografico militare, ma lascia capire che non rinuncerà a dare battaglia: «Riguardo le decisioni che sono state prese, da un punto di vista del mio servizio, non replicherò in quanto ritengo che siano decisioni gerarchiche e per le quali risponderò nelle sedi e secondo i tempi che saranno giudicati opportuni e che mi verranno indicati dalla mia catena di comando».

Un ricorso non sembra improbabile. Del resto, questo generale, da 37 anni in prima linea nell’esercito italiano, è abituato a non tirarsi indietro nelle battaglie, in una carriera spesa tra incursioni ad altissimo rischio, ruoli di comando nei grandi scenari di guerra, fino alla più recente responsabilità di addetto alla Difesa nelle delicate relazioni con la Russia. È la storia di un militare pluridecorato, che già a 24 anni partecipa in Somalia a una missione per «neutralizzare» i miliziani del signore della guerra Mohammed Farah Aidid, mentre a 26 è impegnato in Rwanda durante i giorni del genocidio.

Presto scala le gerarchie dell’esercito e viene messo a capo di missioni importanti, ex Jugoslavia, Libia, Afghanistan. Poi l’Iraq (dove invece a capo della Folgore, si occupa di formare i miliziani locali alla contro insurrezione in funzione anti Isis). Operazioni per le quali riceve riconoscimenti dallo Stato italiano, ma persino dagli Stati Uniti, con la Bronze Medal Star e la Legione al Merito. Una carriera operativa di altissimo livello, che due mesi fa — ora che ha 55 anni — lo vede trasferito a Firenze in un ruolo dalle caratteristiche assai diverse. «Comandare l’Istituto geografico militare è un gran riconoscimento dal punto di vista istituzionale, non è una punizione. Ma è pur sempre un lavoro dietro una scrivania per chi è abituato a stare sul campo — raccontano dall’interno dell’istituzione fiorentina — Per chi è stato “operativo” tutta la vita può essere difficile adattarsi a un incarico così diverso».

Che il libro sfogo del generale sia il termometro di un’insofferenza per una carriera che volge al termine? I generali, tra i 55 e i 60 anni, di solito vanno in pensione, e nei loro ultimi anni al massimo possono ambire alle scrivanie dello Stato maggiore o della Nato a Bruxelles, non dirigono più le truppe sul campo. Ma sulle promozioni di Vannacci potrebbero aver pesato due esposti che lui stesso presentò alla procura militare contro i vertici dell’esercito, per le possibili omissioni sulla tutela della salute dei soldati a contatto con l’uranio impoverito in Iraq. In uno dei due esposti, datato 13 marzo 2019 — 57 pagine oltre agli allegati — il generale scrive di soldati italiani «esposti massicciamente in tutta l’area — dove l’uranio era stato impiegato sin dal 1991, scrive l’alto ufficiale — senza che alcun provvedimento di prevenzione e mitigazione dei rischi fosse stato attuato sino alla data del 08/05/2018».

«L’Istituto geografico militare può sempre essere un trampolino di lancio per le poltrone più importanti, ma non è detto che lo sia — dicono ancora dall’interno, dove spiegano anche che le affermazioni del libro sono “frasi da parà” — Di sicuro, dopo la vicenda esplosa con il libro, lo Stato maggiore o la Nato Vannacci se li è giocati per sempre».

Estratto dell'articolo di Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” domenica 20 agosto 2023.

Sul caso del generale Vannacci ha accusato il Pd di volerlo censurare. Giovanni Donzelli, voi di Fratelli d’Italia difendete il generale?

«[…]  Se qualcuno si sente offeso ci sono gli organismi preposti. Ma non spetta a me dare un timbro di bontà o no delle idee. Da sempre mi batto per difendere il diritto di esprimere anche, anzi direi soprattutto, idee diverse dalle mie. Non è che dobbiamo fare gli agenti del politicamente corretto».

E delle idee che offendono?

«Se qualcuno si ritiene offeso ci sono gli organismi preposti. Chi ha dato al Pd il diritto di autoproclamarsi censore?». 

[…] Allora il ministro della Difesa Crosetto ha fatto male ad avviare l’azione disciplinare ?

«No. Ha fatto benissimo. Non so se ha letto o no il libro ma, rappresentando un ministero delicato, ha attivato un meccanismo previsto dalle procedure dell’esercito. In modo che si potesse verificare se ciò che ha fatto corrisponde alle regole militari oppure no. Prima di appartenere a un partito un ministro è un uomo delle istituzioni». 

Intanto Vannacci è stato rimosso dall’incarico. Basta?

«Leggo che il Pd e le sinistre dicono di no. Ma cosa vogliono? La lapidazione in piazza? Il rogo dei libri che non condividono? Il gulag delle idee che non corrispondono alle tante correnti con cui litigano? In un mondo libero si scrive ciò che si pensa». 

[…] Vannacci non è un privato cittadino, ex capo dei parà e di missioni delicate ancora in servizio. Non c’è un problema con la divisa che indossa?

«Sicuramente come militare fino a questa vicenda ha reso un grande servizio alla Nazione. A questo punto spetta agli organismi preposti verificarlo. Ecco perché Crosetto ha agito correttamente ad avviare l’indagine che lo accerterà. Se qualche associazione che lo ha annunciato presenterà l’esposto sarà il Tribunale. Quindi non spetta a me dirlo. Ma neanche al Pd e alla politica tutta. Se stabilissimo che compito della politica è decidere la bontà delle idee sarebbe la fine della democrazia». […]

Giulio Cesare contro il generale Vannacci. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera lunedì 21 agosto 2023.

Caro Aldo, ecco, parte subito la Santa Inquisizione. Il generale Vannacci? Sono sue idee personali messe nero su bianco in un libro, autofinanziato: non siete d’accordo? Non compratelo né recensitelo. Fortunatamente siamo ancora in democrazia. Carlo Paolini Uno che si definisce «erede di Giulio Cesare» qualche problemino ce lo deve avere per forza, senza considerare il fatto che questo era definito «il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti» con buona pace del suo discendente! Laura Buccianti

Cari lettori, Il libro del generale Vannacci non deve stupire. È la sintesi del pensiero del reazionario moderno: il clima non sta cambiando e comunque non per colpa dell’uomo, gli eterosessuali sono perseguitati e questo Putin non ha poi tutti i torti. Non c’è niente da ridere: i reazionari sono sempre esistiti, ma adesso vincono le elezioni. Poi però il generale Vannacci rivendica l’eredità di Giulio Cesare, forse il più grande comandante militare mai esistito; e qui possiamo sorridere serenamente. Non sappiamo quali battaglie abbia vinto il generale Vannacci. Cesare conquistò la Gallia, portò per primo le armi romane nell’oceano, oltre il Reno, in Britannia, sconfisse Farnace re del Ponto in quattro ore («veni vidi vici»), a Farsalo batté Pompeo Magno avendo la metà dei suoi uomini, prese Tapso costruendo torri d’assedio con i corpi dei nemici uccisi; insomma non era meno virile, diciamo pure meno palluto, del generale Vannacci. Eppure, Giulio Cesare era notoriamente bisessuale. Già Silla aveva notato che portava la toga «in modo sconveniente, come una ragazza». Ebbe una storia d’amore con Nicomede re di Bitinia, da qui l’appellativo di «regina di Bitinia» con cui lo chiamavano i suoi soldati, come ricorda Dante nella Divina Commedia ma non il generale Vannacci ne «Il mondo al contrario». Nell’antica Roma non c’era tutto questo zelo che si ha nell’Italia moderna verso i vincitori, così i legionari cantavano «Cesare ha sottomesso i Galli, ma Nicomede ha messo sotto lui», mentre Cicerone diceva in Senato: «Tutti sappiamo cosa tu hai dato a lui, e cosa lui ha dato a te». Insomma, anche se molti la pensano come il generale Vannacci, le cose sono in realtà più complicate.

Estratto da corriere.it martedì 22 agosto 2023.

«Si invita la gentile clientela a non chiederci il libro di Vannacci». È il cartello che Clara Abatangelo, titolare della Ubik di Castelfranco Veneto, Treviso, ha affisso sulla vetrina della libreria. Abatangelo ha spiegato di non poter «chiedere a un mio dipendente di spolverare o sistemare un libro che dice che è contro natura». Un cliente, lo scorso giovedì 17 agosto, si è rivolto alla Ubik castellana e «ci ha chiesto quel libro.

Essendo un testo autoprodotto - riprede la libraia - avrei potuto rispondere "nascondendo" il fatto che non lo avessi dietro a un problema tecnico, ma non mi è sembrato giusto. Io voglio dire come, anche se lo avessimo avuto in libreria, avrei mandato il cliente a comprarlo altrove. È indegno quello che c’è scritto nel libro: l’omofobia non è liberta di opinione».  […] 

Non è la prima volta, per altro, che le scelte etico-politiche di Clara Abatangelo sollevano polemiche. Una per tutti: il 25 aprile 2018, nella vetrina della Ubik fu appeso a testa in giù un saggio su Mussolini di Renzo De Felice. […]

Estratto dell’articolo di Antonio Carioti per il “Corriere della Sera” mercoledì 23 agosto 2023.

«Roberto Vannacci si rassegni: i rapporti omosessuali, che lui non considera normali, erano consueti e accettati nella classe dirigente del mondo antico. Un esempio è proprio Giulio Cesare, di cui il generale si ritiene erede. Il grande condottiero romano era bisessuale: ebbe passioni maschili e femminili», ricorda Luciano Canfora, biografo di Cesare. 

Approfondiamo la questione.

«È noto il rapporto amoroso di Cesare con Nicomede il re della Bitinia, una regione settentrionale dell’Asia Minore. I suoi legionari, con l’umorismo un po’ grezzo che è tipico dei soldati, lo prendevano in giro: “Cesare”, dicevano, “ha domato la Gallia, ma Nicomede ha domato Cesare”».

Il comportamento sessuale di Cesare non minava il suo prestigio?

«No, per la morale del tempo non c’è scandalo. Basti pensare, nella mitologia, all’amore di Zeus, rimasto proverbiale, per il giovinetto Ganimede, che il dio pagano rapisce scendendo su di lui in forma di aquila. Il re dell’Olimpo insomma è a sua volta bisessuale. Ciò rientra tra le sue caratteristiche divine […]». 

Insomma relegare i gay tra gli anormali ed esaltare l’antica Roma risulta contraddittorio?

«Direi proprio di sì. Cesare non è l’unico esempio. Uno storico pettegolo ma molto bene informato come Svetonio, nelle sue Vite dei Cesari, si sofferma a lungo sul comportamento disinibito degli imperatori. Racconta di come Tiberio si facesse portare giovinetti con cui si divertiva in piscina. […]

Estratto dell'articolo di Luca Beatrice per “Libero quotidiano” mercoledì 23 agosto 2023.

«Ma tu lo sai che John Wayne era frocio?» dice Manuel Fantoni all’interdetto Carlo Verdone di Borotalco. «Noooo... ma che notizia». Era il 1982, una battuta così faceva sganasciare perché toccava uno dei miti machisti del cinema americano, oggi invece tocca a ridere a denti stretti perché ogni epoca utilizza parametri diversi per leggere la storia […] 

[…] Oggi, invece, la storiografia insiste sulla fluidità sessuale dell’antichità greco-romana, dove pare i costumi fossero molto liberi e disinvolti: un’interpretazione che però non può esimersi dal tempo in cui stiamo vivendo, perché anche solo fino a vent’anni fa un eroe-condottiero-militare come Giulio Cesare non sarebbe passato come uno che amava indifferente donne e uomini, ciò che sostiene quasi certamente con ragione lo storico Franco Cardini, spiegando come tale orientamento sessuale fosse comune anche a Platone e Socrate. 

Quando frequentavo il liceo ci spiegavano a mala pena che Saffo era lesbica, la prima eroina diversa per le mie compagne più disinibite e divertenti, mentre su Oscar Wilde ci si limitava a parlare di Dorian Gray. Per decenni si è glissato sulla sessualità borderline di Andy Warhol, ora nessuno ha più dubbi che fosse gay e gli piacessero i ragazzi molto più giovani di lui. 

La questione, oggi, risulta rovesciata come se la storia si fosse ribellata e avesse tirato fuori tutto l’indicibile sepolto da secoli di ipocrisia e perbenismo. La serie tv Leonardo del 2021 ci ha definitivamente confermato che l’autore della misteriosa Gioconda avesse una netta predilezione per il proprio sesso; il Caravaggio interpretato nel film del 2022 da Riccardo Scamarcio desidera allo stesso modo prostitute e prostituti, 

[…] Che artisti, poeti, scrittori, filosofi, intellettuali insomma, siano per tradizione più inclini alla fluidità sessuale non è un mistero e neppure uno stereotipo. Meno comune il caso di un militare tutto d’un pezzo come Giulio Cesare, di cui il generale Vannacci si autodefinisce erede e che Cardini ha bacchettato perché non conosce la storia. 

Sulla questione non so proprio a chi dar ragione, perché mi sento in bilico tra due analoghe ossessioni: lo spettro, la paura, dell’omosessualità da una parte che sa di vecchio, la moda dell’omosessualità dall’altra che sa di società fluida contemporanea, ipocrita e poco credibile. Se fa un po’ ridere sentirsi figlio di Giulio Cesare nel 2023, altrettanto inutile dargli del cripto-gay ante litteram, magari non era vero, magari non gli avrebbe fatto piacere.

Vannacci torna ad attaccare Egonu: «Gli italiani sono bianchi da 8 mila anni». Storia di Giulio Gori su Il Corriere della Sera mercoledì 23 agosto 2023.

«Non sono razzista. Ma da otto, novemila anni, l’italiano stereotipato è bianco». Così il generale Roberto Vannacci, autore del libro «Il mondo al contrario», torna a parlare della pallavolista Paola Egonu, sulla quale aveva scritto: «I suo tratti somatici non rappresentano l’italianità». Quando ieri a TvPlay gli è stato chiesto se reputasse giusto il suo ruolo in Nazionale, Vannacci ha dato una risposta lunghissima: «Assolutamente sì. Quello che ho detto è che quando vedo una persona che ha la pelle scura non la identifico immediatamente come appartenente all’etnia italiana». E ancora: «Se lei vede una persona di pelle scura per la strada, non le viene in mente immediatamente che sia italiana». «Andando a vedere la pagina Wikipedia di Egonu, che è l’unica tra le pallavoliste insieme a (Myriam, ndr) Sylla, che è di origini ivoriane, c’è scritto pallavolista italiana nata a Civitella da genitori nigeriani. Per le altre pallavoliste c’è scritto pallavolista italiana nata a Gorizia, non c’è scritto genitori italiani».

Vannacci, al Corriere, conferma la catena di solidarietà politica che gli arriva con continue telefonate. Anche se, dopo aver riferito lunedì del colloquio con il leader della Lega Matteo Salvini, ora non fa nomi: «Da quante chiamate ho ricevuto in questi giorni mi si è fuso un telefono. Quindi, non riesco a fare calcoli, dormo due ore a notte, ma posso dire che sono stato chiamato da un numero rilevante di persone del panorama politico». Poi, il generale ribadisce: «Fa piacere che qualcuno si interessi di un servitore dello Stato che si trova in difficoltà. Così come fanno piacere le migliaia di email di sostegno che ho ricevuto e le tante persone che mi stringono la mano quando esco di casa». E al Giornale d’Italia, rispetto a un suo possibile ingresso in politica, spiega: «Non chiudo la porta se mi vengono dati gli strumenti». Un cambio di rotta rispetto a quando tre giorni fa rispondeva: «Io faccio il soldato». Come diverse, almeno rispetto al libro, suonano le parole dette a Zona bianca: «Un figlio gay? Non siamo mica a Sparta che li buttiamo giù dalla rupe, assolutamente certo lo accetterei» .

Libro che avrebbe superato le 20mila copie vendute (con un guadagno di 6,50 euro a copia, al netto delle tasse), e, secondo i dati Gfk per La Lettura del Corriere della Sera, Il mondo al contrario è in testa alle classifiche di vendite per distacco, con Tre ciotole di Michela Murgia che, pur al secondo posto, vende la metà.

Contro il generale tornano a schierarsi Pd, Verdi, M5S, con la vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno (Pd), che attacca chi difende la libertà di espressione di Vannacci mentre Meloni e Salvini querelano Saviano: «La libertà d’espressione garantita a corrente alternata». E se Daniela Santanchè si schiera col generale ma difende anche Crosetto («Ha fatto il ministro»), Antonio Tajani è salomonico: «Il caso Vannacci non è parte del programma di governo: ognuno dà la sua valutazione».

Strafalcioni e copia e incolla. Il linguista fa le pulci alla lingua del generale Vannacci. Storia di Massimo Arcangeli su Il Corriere della Sera domenica 27 agosto 2023.

La «lingua all’incontrario» del generale Vannacci: «Abbiamo suon di politici e di intellettuali» (p. 4); «Sbagliare è umano ma imperversare è diabolico» (p. 70); «Conosco personalmente altre persone che, pur avendo il passaporto tricolore, non spiaccicano più di un “Ciao? come stai?” nella nostra lingua» (p. 226). Sono appena tre degli innumerevoli esempi di italiano «all’incontrario» ricavabili dal libro del generale Roberto Vannacci («Il mondo al contrario»).

Un’accozzaglia di luoghi comuni malamente assemblati, con l’aggravante di interi passi prelevati più o meno alla lettera da svariate fonti, neanche citate, come farebbe uno smaliziato laureando alle prese con la tesi o uno studentello del tutto ignaro, nell’era del copia e incolla da Internet, di plagi e diritto d’autore. «È così che, in nome del contrasto all’omofobia, si innesca la pressione psicologica opposta, quella che costringe le persone al timore reverenziale, alla sacralizzazione della categoria» (p. 259) riprende quasi pari pari un passaggio di un libro dell’attivista omosessuale Francesco Mangiacapra, di cui non viene mai fatto il nome nel volume: «È così che in nome del contrasto all’omofobia, si innesca la pressione psicologica opposta, quella che costringe le persone, per timore reverenziale, a sacralizzare la categoria»(Il golpe del politicamente corretto.

Quando le minoranze divengono dittatura, L’Isola di Patmos, 2021, p. 47). La descrizione dell’osservazione chomskyana sulla rana bollita di una nota (p. 248) compare a sua volta identica in vari luoghi della rete, e un passaggio di una decina di righe (p. 272) sulla rettifica dell’attribuzione di genere è il risultato dell’assemblaggio di più fonti, sempre prelevate di peso da Internet. Un brano di cinque righe sull’identità di genere («La costruzione dell’identità di genere si basa […] sull’assunzione di modelli di riferimento nei confronti dei quali i bambini attivano processi di imitazione e, conseguentemente, di identificazione», p. 279) copia quasi alla lettera da un contributo di una studiosa in materia, anche lei mai menzionata dal generale: «La costruzione dell’identità di genere si basa sull’assunzione di modelli di riferimento adulti nei confronti dei quali i soggetti in formazione attivano processi di imitazione e conseguentemente di identificazione» (Ilaria Cellanetti, Lingua e genere. Didattica e sessismo nell’insegnamento della lingua inglese, in Irene Biemmi e Tiziana Cappelli, a cura di, Verso una cittadinanza di genere e interculturale. Riflessioni e buone prassi dalla Facoltà di Scienze della Formazione di Firenze, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2013, p. 91).

E potrei continuare a lungo. Altre perle di scrittura prodotte da Roberto Vannacci: «L’idea bislacca del punto di non ritorno deriva dal rapporto del [!] Intergovernmental Panel on Climate Change che, nel 2018, affermava che tagliando le emissioni globali di anidride carbonica del 45% entro il 2030 avrebbe comportato la ragionevole speranza di contenere il riscaldamento globale» (p. 29); «Questa […] considerazione […] è proprio quella che mi ha convinto di lasciar perdere e di costringere il lettore all’integrale decifrazione del capitolo, invece di limitarsi alla rapida scorsa dei suoi tratti essenziali.

Comunque, onde evitare che questa mia personale pretesa si trasformasse in una lapidaria condanna, ho comunque inserito il BLUF […] alla fine del capitolo in modo da consentire, comunque, una scelta» (p. 88); «Al furto – reato percepito tra i più odiosi dalla gente comune perché spesso viola la tua intimità, perché ti priva di quanto hai onestamente lavorato per ottenere, perché ti colpisce nelle cose alle quali più tieni – viene normalmente e normativamente attribuita importanza bagatellare», p. 143 sg. («di quanto hai ottenuto lavorando onestamente»); «mi sono stupito sia nel vedere le abitazioni lasciate aperte, anche di notte, sia le gioiellerie che esponevano i loro preziosi con sorprendente naturalezza» (p. 147); «l’esistenza di cotante priorità da verificare prima di passare ai fatti ha reso estremamente arduo e difficile l’esecuzione degli sfratti come lo prova la sconcertante casistica già evidenziata» (p. 169); «Se si garantisse il principio della legalità e del rispetto delle regole e se la restituzione della casa integra e nei tempi ragionevolmente dovuti ai legittimi proprietari fosse affermato senza deroghe o eccezioni» (p. 182); «In essenza, non capisco perché una donna o un uomo dovrebbe andare necessariamente a lavorare per poi essere obbligati a spendere buona parte di quanto guadagnano per il pagamento di questi servizi» (p. 200); «se vai in giro vestito come un pagliaccio non ti lamentare se poi qualcuno ride né pretendere che tutti si vestano come te» (p. 287); «Ecco, allora che si assistono alle azioni degli attivisti amanti delle bestie che bloccano macelli e mattatoi invocando l’“olocausto animale”» (p. 347).

Oltre ai tanti casi in cui violenta il testo, scombinato o sgangherato, il generale omette di frequente il punto interrogativo in frasi che lo richiedono («E che dire allora di moltissime altre percezioni: pensiamo a quelle sull’intelligenza», p. 277) o lo inserisce quando invece non ci vuole («Provate a chiedervi il perché abbiano scelto la nostra penisola quale teatro preferito del loro malaffare?», p. 147; «Se non la chiamate ridistribuzione della ricchezza questa mi domando quale sia il meccanismo al quale aspirino i cosiddetti progressisti?», p. 293); non è in grado di stendere una scaletta (p. 250 sgg.) e incespica nell’uso dell’inciso (p. 115); spezza le parole composte in due tronconi (pseudo organizzazioni, p. 30, pseudo intellettuali, p. 53; super controllata, p. 78, super inquinante, p. 311; gioco forza, pp. 70, 93; anti clandestini, p. 120; sub sahariana, p. 123; ultra progressista, p. 145; auto procurato, p. 152; neo genitori, p. 186; anti patria, p. 224; neo eletta, p. 320; medio bassi, p. 324) o le volge al plurale in forme impossibili (malaparole, p. 345), come fa anche per quelle semplici («moltissimi altri suppellettili», p. 247); ha problemi con i nomi propri o con le loro corrette traslitterazioni («Gifoni festival», p. 32; «Gengis Kan», p. 111).

Si perde per strada i soggetti, litiga con l’interpunzione, con l’ortografia, con i tempi e i modi verbali, con le reggenze e gli accordi grammaticali, con gli avverbi e le preposizioni, i collanti e i connettivi testuali (talvolta se li mangia): «un paese è tanto più democratico quanto più rispetta e tutela le minoranze ma, non esageriamo» (p. 5); «La rivolta che nei primi giorni di luglio, ha infuocato tutto lo stato transalpino» (p. 105); «in Pakistan in Kazakistan, in Mongolia» (p. 113); «è in malafede e, per raccattare voti e popolarità si erge a protettore dei più deboli» (p. 119); «Dallo studio, condotto da Community Research&Analysis è emerso (p. 204); «la quasi totalità degli esseri umani non gioisce quando prova dolore fisico o umiliazione, eppure, esiste una minoranza» (p. 241); «è alla base della nostra civiltà giuridica e, persino del nostro benessere» (p. 284); «i derelitti, gli emarginati i fragili» (p. 293); «Peccato […] che gli autobus pubblici che girano per la città eterna […] siano quasi tutti degli inquinanti Euro3, ma, nella logica della sinistra progressista bisogna sempre iniziare dai privati» (p. 321); «in Bangladesh, in Cambogia in Indonesia» (p. 342); «La libertà d’opinione […] è alla base della nostra civiltà giuridica, della nostra libertà e, persino del nostro benessere» (p. 346); «e, benché, queste pratiche siano semplicemente antitetiche a qualsiasi scienza, non vengono sottoposte alla censura» (p. 347); «Si, perché» (pp. 4, 220, 228, 331), «si proprio quelli» (p. 93), «si, rubo» (p. 139), «Si, proprio così» (p. 217); «crimini a sfondo raziale» (due volte: pp. 91, 103); «qualcun’altro» (p. 130); «società Giapponese» (p. 227); «l’azione dell’uomo, specialmente quella degli ultimi 220 anni, ha sicuramente un impatto significativo sulla Terra», p. 14 (ha avuto); «ben documentati studi […] dimostrano che [..] le emissioni di CO₂ sono uguali, se non maggiori, a quelle che necessitano per le auto a motore termico», p. 50 (“che sono necessarie”); «sono necessari milioni di pannelli o migliaia di turbine per equivalere la produzione di un singolo reattore nucleare» (p. 83);

«In Somalia tutto andava bene fintanto che Siad Barre […] riusciva a conglomerare con metodi non proprio da gentiluomo le varie tribù» (p. 102); «a me inorridisce», p. 108 (“mi inorridisce”, “mi fa inorridire” o “a me fa inorridire”); «nel mondo antico, l’omosessualità era confinata esclusivamente all’ambito dei gusti e del piacere sessuale e non ha mai inciso con la famiglia o con altre istituzioni», p. 236 (dove ha inciso cosa?); «se di sesso si parla […] si afferisce alla sfera personale» (p. 237); «gli invasi per trattenere l’acqua piovana e le dighe per regolare il flusso dei fiumi dei torrenti non le abbiamo realizzate» (p. 16 sg.); «è la povertà e il sottosviluppo a produrre più di ogni altro l’inquinamento» (p. 21); «l’indotto, il benessere e la ricchezza che vengono create» (p. 24); «Quelli che non hanno voluto esprimersi, il partito degli astenuti, ha deliberatamente delegato le decisioni a chi invece si è avvalso del diritto di voto conquistato nei secoli» (p. 33); «Circa i tre quarti della popolazione mondiale […] è concentrata in Asia (4,5 miliardi di persone) e in Africa (1,2 miliardi)» (p. 62); «la natura e la tecnologia ci offre» (p. 86); «La cittadinanza e l’appartenenza ad una determinata società dà luogo» (p. 96 sg.); «L’esperienza maturata […] mi ha anche messo davanti agli occhi una banalità ben chiara a chi la storia e l’antropologia l’ha studiata approfonditamente» (p. 101); «La stabilità, la prosperità, lo sviluppo e la pacifica convivenza della società occidentale può essere seriamente messi in pericolo dai continui ed incontrollati flussi migratori» (p. 128); «Quello che ci ha garantito un’evoluzione indubbiamente strabiliante rispetto agli altri esseri del Creato sono stati intelligenza e capacità di collaborare» (p. 130); «il Creato e la naturale evoluzione dell’uomo ha portato» (p. 191); «Il legame di sangue e l’amicizia si fondeva con il cameratismo» (p. 196); «quella “toscanità” del sapore, insieme all’amore per un mestiere antico che non scende a compromessi sulla qualità, hanno fatto il resto» (p. 218); «E qua basti pensare a quante volte è usato l’aggettivo “omofobo” o la locuzione “istigatore dell’odio” che, solo qualche decennio fa, erano sconosciute ai più» (p. 250); «la desensibilizzazione e la banalizzazione deve avvenire» (p. 259); «Cosa dovremmo fare con queste persone? Ammetterle come ricercatori al CNR sulla base delle loro personali percezioni per evitare di “opprimerli”?» (p. 277); «chi lo commette ottiene l’effetto che tutte le persone appartenenti alla minoranza individuata […] si sentano minacciati» (p. 284); «Le persone che hanno superato i 32-33 anni e non ha mai presentato una dichiarazione dei redditi» (p. 299); «L’ideologia e la demagogia populista ci ha portato» (p. 300); «La pandemia ed il conseguente rallentamento delle tanto disprezzate ed inquinanti attività produttive ha invertito la rotta nel 2020» (p. 302); «il gestore principale dei monopattini – la società “Lime” – è stata accusata» (p. 317); «orsi, lupi, barbagianni, volpi e tutta la fauna selvatica onnivora o carnivora ne sarebbe esentata» (p. 343);

«L’opposizione verde all’atomo, condita con molta ideologia e con l’appoggio di tutte le sinistre, sfociò con la rinuncia da parte di alcune nazioni all’energia» nucleare (p. 34); «ultrà del Hutu Power» (p. 100); «fa emergere qualcuno che merita da qualcun altro che è tutt’altro che meritevole» (p. 107); «vocazione genomica alla violenza e alla criminalità di cui il popolo italiano sarebbe cromosomicamente caratterizzato» (p. 136); «un bel chalet» (p. 137); «a cominciare dallo scrivente […] che si percepisce anche offeso da chi deturpa la mia lingua natale», p. 263 (la sua, generale, la sua); «l’uomo è un tutt’uno con l’ambiente che lo circonda, ne fa parte, ne è intimamente ed inevitabilmente connesso» (p. 13; “vi è”); «Considerare l’azione dell’uomo come aliena all’evoluzione del pianeta è un astrattismo ermetico ed irrazionale che ci riporterebbe alla lotta tra bene e male di cui i sistemi fisici e naturali sono totalmente avulsi», p. 15 (“da cui”); «trasformare una consolidata architettura energetica necessita tempo e risorse» (p. 68); «per quanto attiene il carbone», p. 71 (“al carbone”); «abisso dell’estremismo nel quale soggiace» (p. 126); «alla luce dei fatti ampiamente verificatesi» (p. 166); «all’unica cosa di indiscutibilmente positiva che la società possa offrire» (p. 188); «sottrarsi dalle grinfie degli insegnanti» (p. 257); «pressione fiscale inferiore di quella italiana» (p. 290); «una condanna dalla quale è impossibile sottrarsi» (p. 292); «trarre vantaggio dei benefici previsti» (p. 315). Andiamo male anche col francese (Ivoiritiè, p. 101; si scrive ivoirité) e col latino: «In fin dei conti si tratta di gusti, di preferenze, di predilezioni che, proprio secondo la saggezza degli antichi, non si discutono, non sono “disputandum”» (p. 234; semmai disputanda, ma forse piaceva al generale l’assonanza con l’abbondantis adbondandum di una ben nota lettera di Totò). Si ripete lo stesso concetto più avanti (capita spesso che il generale non ricordi di aver già detto una cosa, perché poi la ripete più o meno identica), e ricompare pure il disputandum: «si rimane nella traiettoria dei gusti, che proprio come tali, non sono “disputandum”» (p. 287).

Il «clamore che scaturisce dell’anomalia e dalla minoranza» (p. 4), «in tutta il mio viaggiare» (p. 25), la «fonte di energia acclaratamene più inquinante» (p. 35), «questa scelto» (p. 52), «potrebbe essere sufficienti» (p. 82), «in Italia opera una fetta di delinquenti proviene dalla Romania (p. 147), «quello che sfugge ai benpensanti e che tali eventualità rappresentano comunque l’esito di incidenti, di errori di percorso» (p. 198 sg.), la Diseney Pride Collection (p. 267), l’«insegnate di ginnastica» (p. 270), «Le auto […] consumano meno e inquinano meno quando possono muovere con rapporti più alti» (p. 316), «uno delle principali testate» (p. 346), e via di questo passo, sono banali refusi ma aggiungono un ulteriore tassello all’imbarazzante sciatteria (del) generale.

Lo stravolgimento del lessico, del significato delle parole, delle frasi fisse o idiomatiche fa paura: «si sono dimostrate prive di alcun fondamento» (p. 40); «hanno tentato di divellere cancelli e recinzioni e hanno ingaggiato le forze dell’ordine con lanci di pietre, sassi, petardi e bombe carta» (p. 43); «Non era poi così raro […] trovarsi a giocare in gruppi di marmocchi, […] con i quali ci rotolavamo e arruffavamo insieme in qualche parco della capitale», p. 89 (vi spettinavate a vicenda?); «vanno laddove è più facile e conveniente andare» (p. 117), «Laddove […] a fare il criminale si rischia grosso […] il rispetto delle regole è diffuso ed il senso civico è sviluppato» (p. 137); «aspirerebbe che tutta l’istruzione fosse pubblica», p. 119 (semmai auspicherebbe, o vorrebbe, o pretenderebbe); «ci fermiamo ai bordi della strada e i due agenti, scesi dall’auto, ci salutano cordialmente e cominciano a questionarci su che cosa facessimo, chi fossimo, dove andassimo, p. 137 (interrogarci, generale; questionare è sinonimo di discutere, dibattere, polemizzare); «Non so quanti ladri vengano effettivamente perseguitati dalla giustizia», p. 144 (perseguiti, generale, perseguiti); «uno dei più contestati commi della proposta delintegrava l’obbligatorietà di un’istruzione impartita nelle scuole su temi delicati come l’identità di genere quasi a voler imporre una “visione di Stato” su un argomento molto controverso e dibattuto», p. 206 (dove mai la integrava?; casomai contemplava, o prevedeva); «dalla Roma dei Cesare all’Impero Persiano» (p. 235); «associazioni e movimenti di ricconi che manifestano nelle piazze avocando a chissà quale protezione in nome di un’appartenenza ad una minoranza di censo discriminata innanzitutto dal fisco non esistono», p. 238 (uso intransitivo del verbo a parte, quei ricconi la protezione dovrebbero piuttosto invocarla); «il mondo reale […] è spesso diverso da quello che percepiamo e ce ne rendiamo conto ogni giorno, subendo delusioni e frustrazioni che progressivamente, e col tempo, collimano la cognizione che abbiamo del mondo con quello che è realmente», p. 277 (e per fortuna che collimano); «Sono un convinto assertore che chi invade e si appropria indebitamente della proprietà pubblica e privata debba essere punito severamente» (p. 285).

Assertore di cosa? Non poteva mancare, in una sarabanda di svarioni di ogni genere, il famigerato «piuttosto che» con valore disgiuntivo anziché avversativo: «un reato non può essere più reato se rivolto ad un omosessuale piuttosto che a un nero, a uno zingaro o a un sinti», p. 286 (tutti accomunati dalla stessa sorte, come ha provveduto a chiarire qualche rigo prima: «non possiamo variare le pene in base al sesso, alla religione o al colore della pelle»). Ancora: «non gradisco il termine “ridistribuzione della ricchezza”» (p. 291); «se tutta la popolazione umana diventasse vegana, seguendo le auspicate degli animalisti […], la superficie terrestre attualmente dedicata all’agricoltura non basterebbe più per sfamare bestie e sapiens» (p. 344); «Quando ammiri il David o la Gioconda […] non te ne frega una cippa se chi li ha compiuti preferiva le bionde con i capelli corti o se al caffè prediligeva il cappuccino» (p. 253). Preferiva, non prediligeva.

E sono uno spasso Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti che sorseggiano non tanto il caffè, parola giuntaci dal turco nel Cinquecento (nella forma cavèe, 1585), quanto il cappuccino. Al tempo, purtroppo per il generale Vannacci, era sconosciuto anche l’espresso. Sarebbe venuto alla luce tre secoli dopo. Da Leonardo e Michelangelo a Manzoni (Marzo 1821 diventa – troppa grazia – un poema: p. 94) e Cartesio: «Il riferirsi a sé stessi è una delle caratteristiche dei tempi moderni che ha mosso i suoi primi timidi passi, probabilmente, da quando Cartesio ha pronunciato il fatidico anatema “Cogito ergo sum”.

Da allora, in un crescendo sempre più eclatante, ci siamo abituati a riferire ogni sfaccettatura della realtà alle nostre percezioni e ai nostri pensieri» (p. 2). A parte la totale ignoranza della sua filosofia (metafisica) da parte del generale, che ne fa un sensista, contro chi avrebbe mai scagliato il suo anatema l’incolpevole René Descartes? E l’eretismo? «Che a partire dal Medioevo sino all’età moderna l’omosessualità fosse perseguita non mi stupisce poiché, nello stesso periodo erano considerati gravi delitti la blasfemia, l’eretismo, l’adulterio» p. 236). Sarebbe l’eresia, ma il generale Vannacci, che vede troppi batacchi (o battacchi, la variante che preferisce lui: p. 269), l’ha confusa con lo stato di ipereccitabilità (cardiaca, psichica, ecc.) indicato da una voce da tempo in disuso.

Anche lo stile non aiuta, anzi. Pomposo e reboante, come certo burocratese supponente, vìola ripetutamente il principio di realtà o di verosimiglianza. «Un mio collaboratore, proprietario di un bellissimo e richiestissimo cane “molecolare”», scrive Vannacci verso la fine, «è stato preso a malaparole da alcuni forsennati perché la bestiola, educatissima, lo ha aspettato senza guinzaglio, senza muoversi e in posizione “seduta” all’ingresso di un negozio mentre lui faceva la spesa. “Chissà quali sofferenze gli hai inflitto per condizionarlo in tale modo” – lo accusavano animosamente gli attivisti» (p. 345). In tale modo. Quale attivista potrebbe mai parlare così?

CHI È Massimo Arcangeli è docente di linguistica italiana ed ex preside della facoltà di Lingue e letterature straniere presso l’Università degli Studi di Cagliari, è autore di saggi e articoli scientifici e divulgativi.

Da La Repubblica.

Estratto dell’articolo di Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” giovedì 17 agosto 2023.

“Cari omosessuali, normali non lo siete, fatevene una ragione!”, punto esclamativo incluso casomai non si fosse capita l’assertività. E poi, attacchi al femminismo, all’ambientalismo, ai clandestini – delinquenti e stupratori per antonomasia, par di capire nel leggere – e a chiunque vorrebbe farci credere che le razze non esistono. 

Il tutto condito da un linguaggio triviale e sessista. Libro numero 3 in classifica dei saggi su Amazon, uscito pochi giorni fa e autoprodotto, a colpire è soprattutto il ruolo dell’autore: Roberto Vannacci, 55 anni, generale di lungo corso, già a capo dei paracadutisti della Folgore e oggi alla guida dell’Istituto geografico militare. 

[…] Ma Vannacci sin dal titolo ribalta la realtà: Il mondo al contrario, lo ha intitolato. Ovvero: viviamo in una dittatura delle minoranze (gay, clandestini, animalisti, marxisti, radical chic eccetera) e a tutti gli altri “normali” tocca subirne angherie ed influenze. La vittoria elettorale della destra in Italia, l’occupazione del potere compreso quello informativo della tv di Stato, un generale spostamento dell’asse politico e culturale a destra a livello internazionale, nulla può di fronte al vittimismo, autentico filo conduttore del ragionamento del generale: noi pochi legati al culto della Patria, della Nazione, del cameratismo, della bandiera, del suolo e degli avi, incompresi e segregati nelle celle del “politicamente corretto”. […] 

[…] “Ritengo che nelle mie vene scorra una goccia del sangue di Enea, Romolo, Giulio Cesare (…) Mazzini e Garibaldi”. Mica come quei vucumprà che “vendono ciarpame”, mica come “Paola Enogu italiana di cittadinanza, ma è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità”. 

Al generale con lunghe esperienze all’estero l’ambientalismo proprio non va giù, e nel ripetere la solita cantilena del “i cambiamenti climatici ci sono sempre stati” alternato con “gli altri Paesi inquinano più di noi”, individua in quelli poveri i reali responsabili: siccome lì muoiono di fame se ne infischiano delle regole, quindi all’occorrenza si riscaldano bruciando il copertone di un camion, “è la povertà e il sottosviluppo a produrre più di ogni altro l’inquinamento”. 

Alla “volubile ragazza dai lunghi capelli mori”, la “meteoropatica ambientalista” che “frignava” di fronte al ministro Gilberto Pichetto Fratin, alla “tenera figliuola che sembra uscita dalla saga della famiglia Adams”, Vannacci avrebbe “anche dispensato uno spassionato consiglio per utilizzare meglio le scariche di adrenalina indotte da questa sua paura per i cambiamenti climatici”: non viene specificato quale ma forse non ce n’è bisogno.

[…] Ma “che piaccia o no non nasciamo uguali su questa terra” e quindi chi arriva in Italia facendo ovviamente finta di scappare da guerre, fame e persecuzioni dovrebbe “ringraziare immensamente per la compassione e la generosità”. Invece in Italia passano il tempo a compiere crimini, a stuprare – questa dello stupro a opera dei neri è una fissazione dell’autore -, non come in Russia dove le cose sul fronte immigrazione sono ben gestite. 

Particolarmente truculento è il capitolo sulla legittima difesa, che per l’autore è sacra. Se il ladro ti entra in casa “perché non dovrei essere autorizzato a sparargli, a trafiggerlo con un qualsiasi oggetto mi passi tra le mani”, “se pianto la matita che ho nel taschino nella giugulare del ceffo che mi aggredisce, ammazzandolo, perché dovrei rischiare di essere condannato?”.

E i figli per la coppie gay? Sia mai. Se “non è nella natura dell’uomo essere cannibale”, perché dovrebbe esserlo per il diritto alla genitorialità delle coppie arcobaleno? Che – si specifica – non sono normali, perché la normalità è l’eterosessualità. Se a voi tutto sembra normale, invece, è colpa delle trame della lobby gay internazionale che ha vietato “termini che fino a pochi anni fa erano nei nostri dizionari: pederasta, invertito, frocio, ricchione, buliccio, femminiello, bardassa, caghineri, cupio, buggerone, checca, omofilo, uranista, culattone che sono ormai termini da tribunale”.  […]

Estratto da repubblica.it martedì 22 agosto 2023.

«Il generale Roberto Vannacci che si definisce erede di Giulio Cesare, dovrebbe sapere come funzionava la sessualità ai tempi dei romani. Se non era gay, l’imperatore di sicuro era bisessuale, come era normale ai suoi tempi». 

Il professore Franco Cardini, medievalista, storico e docente universitario, Il mondo al contrario lo ha letto. Cardini, 83 anni, iscritto al Msi dal 1953 al 1965, finito recentemente al centro delle polemiche per aver definito i giovani della Repubblica sociale di Salò, «ragazzi seri e onesti, in buona fede», esprime un giudizio impietoso. «Se il generale avesse scritto di tecniche militari forse avrebbe avuto meno successo, ma sarebbe stato meglio. Di storia ne mastica pochina». 

Cardini, è un brutto libro?

«Un trattato di sociologia storica rischia di scivolare nel brutto se l’autore non è abbastanza preparato. Ci sono molte cose interessanti che però si perdono nell’insieme. Mi ha per esempio sorpreso che un generale che è stato a capo dell’istituto geografico militare, se la prenda con i migranti ignorando la ragione profonda del fenomeno, e cioè lo sfruttamento del territorio da parte delle multinazionali che hanno ridotto le popolazioni alla fame. Da quello che scrive, sembra quasi che partano per fare una gita in gommone». 

A indignare è stata anche la sua definizione dei gay come anormali.

«E Platone? E Socrate? È il concetto stesso di normalità che è stato superato, per studi scientifici ma anche etici. Se il tema è la morale cattolica, anche in questo caso dovrebbe aggiornarsi: se qualcuno domani impazzisse e decidesse di proporre una legge per far diventare reato l’omosessualità, io sarei tra i primi a battermi per fermarla. E non sono certo un progressista. Ma la società è laica». 

Nell’esercito continua a esserci una deriva machista, omofoba, fascista?

«Sono stato ufficiale di complemento, a me l’esercito fa simpatia. Spesso però, non per colpa sua, serve cause sbagliate. Nell’esercito come nella società ci sono sacche di resistenza. Più che di machismo, parlerei di forza di inerzia conservatrice. Bisogna avere un po’ di pazienza, i cambiamenti hanno bisogno di tempo». 

Cos’altro non l’ha convinta del libro?

«Parla della necessità che l’uomo si imponga sulla natura: fa i ragionamenti di mio padre negli anni Sessanta, quando si pensava che le risorse fossero infinite. Gli consiglio di leggere il filosofo Chomsky sul progresso». 

(...)

QUANDO MELONI ACCUSAVA I NIGERIANI “MAFIOSI, GIGANTI E PURE CANNIBALI”. Estratto dell’articolo di Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” sabato 19 agosto 2023.

Per un libro uscito da poco che ha scatenato un putiferio, quello del generale Roberto Vannacci, un altro di quattro anni fa riemerge dall’oblio. Anche perché uno dei due autori è la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. E perché i contenuti […] sono simili all’opera del militare destituito dal ruolo di comando. La storia è stata ritirata fuori dal giornalista Lorenzo D’Agostino, che ne ha scritto su Bloomberg BusinessWeek : in Mafia nigeriana , firmato assieme ad Alessandro Meluzzi, Meloni prometteva di illustrare tutto ciò che «il politicamente corretto non vi dirà mai». 

Vi si leggevano passaggi che possono procurare imbarazzo a Palazzo Chigi. Si scriveva infatti di nostri militari «aggrediti da nigeriani, poco più che ventenni, giganti, tra i 90 e i 100 chili, certamente non denutriti e sofferenti, bensì palestrati (...) potenziali omicidi che vengono spesso scarcerati dai giudici»; si denunciava «il buonismo che ha generato questa leucemia del migrazionismo» e si riconduceva questo scenario catastrofico — i neri cattivi che traviano la società — alla mafia nigeriana, figlia di «un complesso rituale che ha radici antichissime in culture locali che praticano l’omicidio rituale o il cannibalismo e che tutti noi dovremmo conoscere meglio».

La famosa “sostituzione etnica” vagheggiata dal ministro e cognato di Meloni Francesco Lollobrigida si trova nel saggio, questo perché «il mondo islamico si esprime attraverso cinque figli per coppia al netto della poligamia, invece di un mondo italiano che ne fa uno», cosa che «non può non farci riflettere sul futuro della nostra nazione, della nostra identità e del nostro modo di vivere». 

Concetti e argomentazioni non nuovi né per Meloni né per il mondo sovranista […] che però oggi, messi in bocca o stampati su pagina da parte di un alto ufficiale dell’esercito vengono definite «farneticazioni» dal ministro Guido Crosetto. 

Chissà se Meloni a capo del governo oggi sarebbe d’accordo con Meloni scrittrice nel 2019 quando individuava nella stregoneria «la più grande minaccia per la vita degli africani ».

Chissà se nei prossimi incontri internazionali alla Fao […], Meloni tirerà fuori le proprie parole sugli Yoruba, 40 milioni di persone e il 30 per cento della popolazione nigeriana, accusati di cannibalismo, commercio di carne umana, la quale si può (o poteva?, vai a sapere) pure trovare nei mercati locali, con finanche prodotti freschi di quel genere. Lì, per quei riti tribali, «i cadaveri dei bianchi sono molto graditi, perché la tradizione vuole che il cervello dei bianchi sia molto più facile da domare rispetto a quello dei neri». 

Parlando dei nostri money transfer […]  la coppia Meloni-Meluzzi ne descriveva così il risultato finale: «Soldi dei bianchi che vengono direttamente consegnati ai neri». Il “migrazionismo” «è finanziato oggi da qualcuno che vuole cambiare l’etnia europea per creare l’Eurafrica», un posto dove «accogliamo individui che sfogano nel nostro Paese un’inclinazione mostruosa ».

Meloni datata 2019 dava poi delle notizie, ahimé per lei mai confermate (ma forse oggi da premier ne sa qualcosa di più): «Lo strutturato mercato della droga è ormai saldamente governato dalla mafia nigeriana», che avrebbe quindi sgominato camorra, ‘ndrangheta eccetera; e addirittura «lungo l’autostrada del Sole, su cui si svolgerebbe la gestione nazionale del traffico d’organi, sarebbero stati rinvenuti resti di cadaveri smembrati». Tutta opera degli africani ovviamente. Insomma, un bel concentrato di razzismo e complottismo che ha anticipato di parecchio teorie ed elucubrazioni di Vannacci.

Estratto dell’articolo di Luca Bottura per “La Stampa” sabato 19 agosto 2023. 

[...] Il volume si intitola "Mafia Nigeriana: origini, risultati, crimini". È uscito il 13 marzo 2019 per i tipi di Oligo, casa editrice mantovana specializzata tra l'altro in libri da colorare. Meloni lo firma insieme ad Alessandro Meluzzi […]. A sbobinare il pensiero di Meloni e Meluzzi è Valentina Mercurio, autrice di "L'istrione Freddy Mercury" e "Storia, miti e leggende dei Castelli Romani da colorare".

Le premesse sono grottesche, il volume è drammatico. Quando esce, siamo nel pieno della campagna retequattrista sulla mafia africana che ruba il lavoro alle mafie italiane. L'omicidio di Pamela Mastropietro, compiuto ad opera di spacciatori nigeriani e "vendicato" dal suprematista bianco Luca Traini, ha scatenato un'ondata xenofoba. Meloni-Meluzzi, chiedo scusa per il gergo accademico, inzuppano il biscotto. 

Il saggio, rimosso dal catalogo Oligo ma presente nel CV ufficiale della PDC, raccoglie tutta la pubblicistica dei troll social contro i richiedenti asilo: «I nostri militari vengono aggrediti da Nigeriani, poco più che ventenni, giganti, tra i novanta e i cento chili, certamente non denutriti e sofferenti bensì palestrati, che popolano le nostre contrade, costando allo Stato più di cento euro al giorno, di cui quaranta alle cooperative e per i telefonini, ci dà un ulteriore senso di rabbia, di impotenza e di paura»

Alcune deduzioni: non esistono nigeriani di 89 o 101 chili, lo Stato spende quindi 65 euro al giorno in più di quelli previsti all'epoca perché probabilmente li mette l'attuale Presidente di tasca sua come per i romani scrocconi, Meloni e Meluzzi credono che gli aggettivi indicanti la nazionalità vogliano la maiuscola. Inoltre, tutti i nigeriani sono «potenziali omicidi» e vengono da una zona che comporta il «95 per cento dei respingimenti». Cose a caso che perlomeno fanno giustizia delle tesi sui cosiddetti migranti economici: in Nigeria c'è la guerra, ma noi non li vogliamo perché sono neri. 

Per vincere il «razzismo all'incontrario» che Meloni paventa […] le forze dell'ordine vanno formate culturalmente. Devono capire chi hanno di fronte per «evitare il rischio di una sostituzione etnica» da parte di tizi poligami che «fanno cinque figli per coppia», cannibali specializzati in sacrifici umani. Gli Yoruba, ci informa Meloni, «vendono carne umana al mercato». Il che risulta curioso, visto che sono in gran parte cristiani. Inoltre torturano le vittime e poi le cuociono in un calderone: «I cadaveri dei bianchi sono molto graditi perché la tradizione vuole che il loro cervello sia più facile da domare».

Il nigeriano (anzi: il Nigeriano) è selvaggio e «il selvaggio sembra far da condensatore per tutte quelle qualità negative che sono l'appannaggio delle realtà criminali nei Paesi civili». [...] 

E se moldave e rumene vanno bene perché ci fanno da badanti, coi neri si corre il rischio di «cambiare l'etnia europea per creare un'Eurafrica o un'Eurasia» accogliendo gente che sconta una «inclinazione mostruosa».

C'è poi il mercato della droga che è in mano alla mafia nigeriana, e che la 'ndragheta si attacchi, ed è alimentato dai foreign fighter […] mentre, anche se gli ambienti investigativi non confermano, sull'Autostrada del Sole si vendono – anzi: «si venderebbero» – organi umani a sessantamila euro l'uno. Che è sempre meno di un Camogli. Un testo che al confronto Forza Nuova è Pierferdinando Casini.

Ministro Crosetto: che facciamo, destituiamo pure qui? Mentre ci pensa, dobbiamo a tutti delle scuse: al ministro Lollobrigida, al Generale Vannacci, a tutti gli esponenti di FdI che ogni giorno postano o dicono idiozie razziste perché credono di essere ancora all'opposizione. Stavano solo citando un libro (e moschetto).

Estratto dell’articolo di Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” sabato 19 agosto 2023. 

Il provvedimento alla fine è arrivato, con un dispaccio dello Stato Maggiore dell’Esercito nella mattinata di ieri: dopo il caso sollevato da Repubblica sui contenuti omofobi («i gay non sono normali»), razzisti («non siamo tutti uguali») e di rivendicazione del proprio «diritto all’odio» contenuti nel proprio libro autoprodotto, il generale Roberto Vannacci è stato rimosso dalla guida dell’Istituto geografico militare di Firenze. 

Da domani gli subentra un altro generale, Massimo Panizzi, che in passato è stato portavoce dell’ammiraglio Giampaolo Di Paola quando quest’ultimo era ministro della Difesa del governo Monti. Non ci sarà alcuna cerimonia di avvicendamento, vista la delicatezza della situazione.

Adesso Vannacci viene trasferito a disposizione del Comando delle Forze operative terrestri, che ha sede Roma, anche se potrà restare di stanza a Firenze. Senza quindi avere, per il momento, ruoli direttivi. Una scelta che per Pd e sinistra, oltre che per le associazioni arcobaleno — comprese quelle legate all’Esercito — non è abbastanza. 

[…] Vannacci, per ora, si limita a ribadire di non pentirsi di nulla, perché «ho solo espresso le mie idee». E sui social è pieno di commenti di militari ed ex che osannano le parole di Vannacci («finalmente uno che dice la verità») e contestano da destra Crosetto […] 

[…] Tutto l’Esercito è così? Non proprio. Perché in queste ore l’imbarazzo è tanto per l’onta sulla divisa. Nel dietro le quinte ci si domanda chi siano stati finora i protettori del generale. Le cui idee non erano per nulla ignote nel mondo militare (siamo «arditi in quanto diversi, e orgogliosi di esserlo. Arditi in quanto élite, unica», scriveva nel 2017 Vannacci in riferimento al gruppo d’assalto della Prima Guerra Mondiale, che poi in gran parte aderì al fascismo).

Peraltro, al di là di omosessuali e tutto il resto, nel saggio il generale tocca un argomento assai sensibile per un militare di rango, cioè la Russia. Vannacci ne è stato fino a poco tempo fa addetto militare per la Difesa all’Ambasciata italiana a Mosca e impiega una pagina per sperticarsi in lodi per la gestione dell’immigrazione. Lì — scrive — «se non rispetti le leggi e la cultura locale vieni rispedito al mittente senza troppi complimenti ». Insomma, bravi loro, mica come in Italia e in Europa. […]

Estratto dell’articolo di Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” sabato 19 agosto 2023. 

Intanto rimosso dall’incarico, poi, alla fine dell’azione disciplinare si vedrà. […] […] Ma potrebbe non essere finita qui. È già partita una analisi sommaria che verificherà le dichiarazioni contenute nel volume e ascolterà la versione del generale per concludere, da norma «entro 90 giorni», se aprire l’azione disciplinare vera e propria. Stefano Graziano, capogruppo dem in commissione Difesa alla Camera chiede rapidità: «Auspico che l’analisi sommaria si chiuda al più presto. Basta una settimana», dice. E twitta: «Bene il trasferimento di opportunità ma non basta». 

Intanto in procura militare si monitora la situazione. A ieri non era stato aperto alcun fascicolo anche se sono molte le associazioni che si ritengono diffamate da quel libro e si riservano di presentare esposti. 

Una cosa è certa. L’ex incursore, pluridecorato, che ha recuperato civili in teatri di guerra e diretto missioni delicate, ha fatto arrivare critiche da destra sul ministro Guido Crosetto. Il titolare della Difesa aveva subito stigmatizzato le «farneticazioni» di Vannacci e sollecitato l’azione disciplinare. La cosa non è piaciuta all’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che afferma: «Anche ammettendo che il comportamento del generale sia stato criticabile, il ministro non poteva e non doveva censurarlo in modo così brutale».

Vannacci riceve il sostegno anche del sindaco di Pennabilli, Mauro Giannini, noto per le sue ordinanze anti-immigrati (fino a 15mila euro di multa per chi ne ospita uno) che intima al ministro Crosetto di tenere «giù le mani» dal generale. E di mostrare «rispetto per un patriota». All’ex capo dei parà dice anche «non sei solo», interpretando le voci di chi legge l’iniziativa di Vannacci come la prima mossa di un suo imminente futuro in politica. […]

Estratto dell’articolo di Serena Riformato per “La Stampa” sabato 19 agosto 2023. 

[…]  il generale Roberto Vannacci non rinnega nessuno dei contenuti omofobi e razzisti del suo libro autoprodotto Il mondo al contrario. Anzi, in tv l'ex comandante della Brigata Folgore si stupisce: «Mi aspettavo che il libro facesse discutere – dice a Diario del giorno su Rete Quattro – ma non credevo si sollevasse questo polverone».

Anche perché, aggiunge il militare, nella pubblicazione «i temi sono quelli del buonsenso, ovvero quello che pensa la maggior parte della popolazione della società». […] Le parole sui gay? «Una considerazione statistica: rappresentano una porzione minoritaria della società e come tali escono dai canoni della normalità». La descrizione di Egonu? «Una cosa ovvia – insiste – il vedere una bravissima pallavolista dalla pelle scura non la identifica in maniera immediata come italiana perché da 6 mila anni lo stereotipo dell'italiano è quello di uomo bianco». 

Solo sulla rimozione dal ruolo di capo dell'Istituto geografico militare, il generale sceglie un silenzio di rigore militare: «Non replicherò a decisioni che arrivano da una catena gerarchica. Lo farò nelle sedi opportune». Le sedi opportune saranno però quelle dell'esame disciplinare che non potrà dare conseguenze a stretto giro.

Da La Stampa.

Estratto dell'articolo di Francesco Grignetti per “La Stampa” giovedì 24 agosto 2023.

Il dibattito sul libro del generale Roberto Vannacci si è infiammato sulla questione della libertà di opinione. È rimasta molto più sullo sfondo la questione delle autorizzazioni da parte dello Stato maggiore, che però è il vero vulnus della disciplina militare. Perché non è affatto vero che un generale in servizio, e che generale!, possa pubblicare un libro in piena libertà dove si citano episodi di servizio. Vannacci tratta infatti moltissimi argomenti di varia umanità, si scatena su gay, animalisti, ecologisti, le presunte dittature delle minoranze, ma è su alcune pagine in particolare che sono sobbalzati allo Stato maggiore della Difesa.

Quando parla del suo ruolo di consigliere militare a Mosca. E soprattutto quando parla di Afghanistan. 

Chi conosce le segrete cose militari, ha immediatamente notato alcuni passaggi dal tono ambiguo. Quasi fossero messaggi in codice. Vannacci, infatti, da comandante degli incursori dell'Esercito, ha partecipato a diverse operazioni "coperte". Operazioni segrete, di cui nemmeno si dovrebbe conoscere l'esistenza.

Parlando di sé in terza persona, il generale accenna a «chi a schivare proiettili e schioppettate si è trovato spesso in allegra compagnia in quelle missioni denominate "di pace" dove però le fucilate non erano a salve e dove nessuno di noi ha mai girato in abiti sgargianti a distribuire pagnotte e caramelle».

(...) 

Mentre era sotto i riflettori la parte più "nobile" della missione, intanto, fuori da ogni occhio indiscreto, gli incursori di Vannacci, come tanti loro commilitoni dei diversi eserciti della Nato, a un certo punto hanno preso a girare vestiti non con la divisa regolamentare ma come gli afghani, su jeep abbastanza anonime, armati fino ai denti. Sono andati loro a stanare gli «insurgents» fino in cima alle montagne. Loro, quelli che si muovevano sulla base di soffiate dell'intelligence per neutralizzare cellule di terroristi, prevenire attentati esplosivi, catturare leader taleban.

Questa fu la versione oscura della missione afghana. E ovviamente i militari che ne furono protagonisti non ne possono parlare, pena una grave violazione del segreto e degli ordini. Già il solo accennarvi da parte di Vannacci alla Difesa ha fatto drizzare le orecchie. È come se il generale, particolarmente esacerbato dalla scelta dei vertici di toglierlo dalla prima linea e mandarlo dietro a una scrivania all'Istituto geografico militare, dicesse: noi abbiamo fatto la guerra, anche se voi al vertice vi siete sempre vergognati di dirlo; ora che la guerra è tornata prepotente alla ribalta, e avete di nuovo bisogno di guerrieri, sappiate che io posso frantumare la vostra ipocrisia e che solo uno come me può risolvere il problema. 

(...)

«Stiano attenti», si è lasciato sfuggire, ieri, il generale parlando con la giornalista Maria Antonietta Calabrò.

Non poteva essere più minaccioso di così. Sa di avere molte cose imbarazzanti da dire, che potrebbero fare male alla sinistra, ma anche alla destra. E nei giorni scorsi, quando gli hanno chiesto se fosse il caso di dare interviste a raffica, ribattere colpo su colpo, occhieggiare ai politici che lo brandiscono contro il vertice militare e contro il suo ministro della Difesa, aveva detto: «Io sono un incursore, non mi arrendo con le mani alzate».

No, Vannacci non si arrenderà. Ha deciso di buttarsi in una nuova battaglia, e non si è lasciato margini di ritirata. Il suo futuro, ormai è chiaro, non prevede più le stellette. Forse ci sarà la politica. Ma i metodi sono simili: bomba a mano e coltello tra i denti. E se c'è da far scoppiare una bomba (mediatica), lui è pronto. «Io - ha detto a Zona Bianca su Rete 4 - sono una persona, un professionista delle operazioni speciali e, come tale, non mi chiudo mai alcuna alternativa e le lascio tutte aperte. Quindi non dirò mai di no, ma dico che per ora faccio il soldato e continuo. In base a quello che sarà il futuro, le alternative, quello che avrò intenzione o piacere di fare, poi deciderò».

Estratto dell’articolo di Lucetta Scaraffia per La Stampa sabato 26 agosto 2023.  

L'ho letto veramente il libro di Vannacci, non solo le sue interviste dalle quali i suoi numerosissimi critici hanno tratto le perle utili a inchiodarlo su posizioni arretrate e ridicole. Il libro è meglio delle interviste, ve l'assicuro, e – mi azzardo a dirlo - neppure omofobo e razzista.

Sostiene che gli omosessuali non sono normali, è vero, ma lo dice – attenzione! - non già dal punto di vista medico o psicologico, ma da un punto di vista puramente numerico: i numeri dicono indiscutibilmente che la norma statistica è di gran lunga rappresentata dagli eterosessuali. Quindi vuol dire che non rientrano nella norma. O dobbiamo forse pensare che, quando non ci piacciono, i numeri sono un'opinione?

Certo, sono d'accordissimo, era meglio evitare equivoci e usare altre parole, ma lo si legga bene, per favore. Le uniche con cui il nostro generale non ha alcun riguardo sono le femministe, che egli non conosce e non si cura di conoscere: ma da un generale che vanta una così importante carriera sul campo in zone pericolose cosa ci potevamo aspettare. Sicuramente in Africa, in Afghanistan o nelle regioni poco abitate della grande Russia che egli ha frequentato era molto difficile imbattersi in qualche femminista, ne sono sicura. 

Certo, a me che sono una vecchia professoressa e per di più femminista, il libro sembra mal scritto – ovviamente, essendo autoprodotto, non ha avuto editing – e con note frettolose, che più che altro rivelano una cultura frammentaria e alquanto traballante. Ma bisogna riconoscergli un merito non piccolo: è un libro coraggioso, chiaro, che esprime opinioni nette in gran parte derivanti da un semplice ma evidente buonsenso.

Un libro che scrive quello che tantissimi italiani – e non solo quelli che hanno votato i partiti di destra – pensano sui temi caldi di oggi, e che è ben diverso da quello che propinano loro quotidianamente i media. E cioè che esistono le donne e gli uomini, che le coppie omosessuali non possono generare figli, che i giovani militanti ambientalisti che imbrattano le opere d'arte non sarebbero disposti a rinunciare a un giorno di internet, motorino, cellulare o aereo per migliorare il mondo. O che ci sono tanti evasori perché le tasse sono troppo alte.

Tutte banalità, certo, ma ampiamente condivise, che per di più si basano sulla realtà. Perché la grande forza di questo libro, e credo la ragione del suo enorme successo, sta proprio in questo muoversi sul registro del buonsenso e della realtà. Si tratta indubbiamente di un pensiero conservatore, il suo, ma soprattutto di un pensiero anti-ideologico e questo lo rende nuovo e a suo modo attraente, in un mondo in cui le ideologie dilagano e raggiungono vette mai viste, come quella di permettere a dei minorenni di decidere della propria appartenenza sessuale, affrontando percorsi medici irreversibili: agli stessi minorenni cui la legge impedisce non solo di votare, ma anche di guidare l'auto o di assumersi qualunque responsabilità legali.

È questo il problema. Sarebbe un libro non da abbracciare, quasi considerandolo un programma politico, ma neppure da demonizzare: da discutere sì, invece. Con calma, pazienza e rispetto. Non merita il dileggio al quale è stato sottoposto su quasi tutti i media, che non fa che attirare la curiosità e l'interesse, e creare un baratro rispetto ai suoi molti lettori, convinti che il generale non ha tutti i torti e sanno benissimo di non essere né fascisti né suscitatori di odio. 

E' un libro che merita di essere preso sul serio e discusso, con pazienza e, ripeto, rispetto. Vedendo il furore e l'odio che sta suscitando viene spontaneo un dubbio: non sarà che fa paura, che fa davvero paura? C'è una cosa, poi, che fa quasi sorridere: ci voleva un generale della Folgore, che ha saputo tenere a bada l'Isis, per dire queste cose che pensano tanti e tanti senza essere omofobi e razzisti, ma solo spaventati da cambiamenti di difficile comprensione?

Ma forse si smette di sorridere quando si scopre che Vannacci ha anche rischiato il suo posto nell'esercito e la sua carriera ne ha sofferto quando ha denunciato che i suoi soldati si ammalavano per i proiettili all'uranio impoverito. Una cosa che era meglio non dire, che tanti interessi sconsigliavano di dire, ma che lui ha continuato a denunciare.

Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “La Stampa” lunedì 28 agosto 2023

Quando un generale dell'esercito arriva a commentare con nonchalance le parole del Capo dello Stato, come se fosse normale discuterne sui giornali, allora un ex capo di Stato maggiore quale Vincenzo Camporini sobbalza. «Mi pare che il messaggio inviato dal generale Roberto Vannacci sia devastante. Non è che un ufficiale, siccome si considera il più intelligente e il più bravo, allora rovescia i fondamentali». 

Ecco, generale, ricordiamoli questi fondamentali.

«[…] Chi strilla che sarebbe stato violato l'articolo 21 della Costituzione, si dimentica che la Costituzione è fatta non solo dall'articolo 21 […]. C'è un articolo 98, dove è scritto che per alcune categorie, tra cui i magistrati e i militari in servizio, si possono per legge limitare i diritti politici. […] la Costituzione ammette che per i militari ci possa essere qualche limitazione all'esercizio di alcuni diritti. Da questo punto di vista, il discorso sulla costituzionalità o meno, la legalità o meno, dell'intervento del ministro Crosetto è una bufala». 

Questo per le forme. Nella sostanza?

«Nella sostanza, qualunque esponente delle forze armate, ma soprattutto se è un grado apicale, […] è parte di un'istituzione che detiene del "privilegio" dell'uso legittimo della forza. Ora già solo questo dovrebbe bastare per indicare a chi gode di questo privilegio, la necessità di apparire non soltanto di essere assolutamente al di fuori di qualsiasi diatriba politica. Ora, a prescindere dai contenuti del libro di Vannacci, anche se avesse scritto il contrario di quello che ha scritto, comunque sarebbe stato inopportuno perché in qualche modo viene fuori l'immagine di forze armate che non sono più uno strumento pulito dello Stato ma un qualche cosa di orientato. E non va bene».

Si è sempre detto: le forze armate italiane sono e devono restare apolitiche.

«È la nostra tradizione lodevolissima. […] Anche De Lorenzo, alla fine lo seguivano il suo segretario e quattro picciotti, non il grosso della istituzione». 

Nelle tante interviste, il generale Vannacci ha detto anche che lui è «disponibile» a spiegare le sue ragioni al ministro della Difesa.

«E qui mi viene da ridere. Questo ufficiale evidentemente non ha interiorizzato la disciplina: un militare, se vuole avere la possibilità di parlare con la catena gerarchica, fa la sua richiesta di essere messo a rapporto, e se questa richiesta viene accettata allora il superiore lungo la catena di comando avrà la bontà di ascoltarlo. Non è il contrario». 

E se non è soddisfatto?

«Può chiedere di andare a rapporto al livello superiore. Diciamo che nel suo caso può chiederlo al capo di Stato maggiore dell'Esercito. È tutta una catena gerarchica. E non è che uno salta la catena perché è bello, intelligente e sa parlare». 

È arrivato a commentare in modo tranciante le parole del Capo dello Stato.

«Scherziamo? Non è proibito, certo. Non c'è nessuna legge che lo vieta. Non è un reato. Ma semplicemente non si fa». 

Scusi, generale, da ex capo di Stato maggiore che ha guidato le nostre forze armate, alla fine che messaggio arriva da tutta questa storia?

«Devastante. All'interno, questo generale sta mandando il messaggio che quelli che si ritengono i più bravi, i più belli, i più capaci, possono fare tutto e possono prendere posizioni e orientamenti che invece dovrebbero essere estranei alla funzione delle forze armate. All'esterno, fin troppi si sentiranno autorizzati a pensare e scrivere sui social le loro stupidaggini».

Estratto dell’articolo di lastampa.it domenica 10 settembre 2023.

Vannacci è arrivato vestito in abiti civili. Gli ho detto ‘Scusi come mai non ha la divisa?' 'Mi hanno detto di non metterla i miei superiori perché venivo da lei come se fosse una cosa privata e non mi hanno dato neanche il rimborso del treno'. Gli ho detto 'no perché quando uno chiede il rapporto con il superiore gerarchico rientra in servizio anche se lei momentaneamente non è in servizio. Quindi doveva venire con il foglio di viaggio e vestito in divisa'». 

Lo ha detto il ministro della Difesa Guido Crosetto ospite di 'In mezz'ora' su RaiTre in riferimento all’atteso incontro con l’alto ufficiale al centro dell’attenzione e delle polemiche di queste settimane per le sue controverse posizioni pubblicate nel libro autoprodotto ‘Il mondo al contrario’.

Poi il ministro è entrato nel merito dell’incontro: «Ho detto al generale Vannacci che applicherò le regole e darò tutte le garanzie e le tutele che servono come farei con chiunque. Il libro può scriverlo e presentarlo, il tema non è quello. Vedremo nei prossimi mesi e nelle prossime settimane quale sarà l'impiego di Vannacci, che non è stato cacciato dalle Forze armate e come qualunque dirigente deve avere un impiego. La sua Forza armata gli proporrà un impiego alternativo». «Se sarà operativo - ha aggiunto Crosetto rispondendo ai giornalisti - questo non compete a me ma alla Forza armata e al dialogo che ci sarà tra di loro». [...]

Da Il Fatto Quotidiano.

Estratto dell'articolo di Marco Travaglio per “il Fatto Quotidiano” lunedì 21 agosto 2023.

Sul trasloco del generale Vannacci si leggono commenti, se possibile, ancor più demenziali del libro che li ha provocati. La destra invoca l’articolo 21 della Costituzione. Da sinistra risponde la Schlein che “la Costituzione non mette tutte le opinioni sullo stesso piano”. E sbagliano tutti. 

L’ufficiale comandava l’Istituto geografico militare e i suoi capi, il ministro della Difesa Crosetto e lo Stato maggiore, hanno ritenuto alcune frasi del suo libro Il mondo al contrario incompatibili col decoro dell’istituzione. Ma non gli hanno proibito di dire ciò che pensa: gli han tolto l’incarico. 

Noi pensiamo che abbiano fatto benissimo, altri [...] no. L’importante è inquadrare la questione nei giusti termini: la libertà di espressione è sacra, visto che la Carta tutela tutte le idee senz’alcuna gerarchia (con buona pace della Schlein), ma qui c’entra come i cavoli a merenda. [...] 

[...] Vannacci ritiene invece che i gay “non sono normali”, “la normalità è l’eterosessualità” e “la Natura a tutti gli esseri sani ‘normali’ concede di riprodursi”; e, “piaccia o no, non nasciamo uguali, quindi chi arriva in Italia dovrebbe ringraziare immensamente per la compassione”. Inclusa Paola Egonu: “è italiana di cittadinanza, ma i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità”. 

Liberissimo il generale di pensare questo mix di nefandezze e idiozie: se però lo rende pubblico, tradisce il giuramento sulla Costituzione. Infatti ripete orgoglioso di avere scritto il libro “contro le minoranze”. Ma la Repubblica democratica che ha giurato di difendere in armi è nata proprio per tutelare le minoranze. Le maggioranze si tutelano da sole.

Estratto da ilfattoquotidiano.it domenica 20 agosto 2023. 

[…]  nelle ultime ore due esponenti di governo di Fratelli d’Italia hanno dimostrato di pensarla all’opposto sul caso di Roberto Vannacci […]. […] il ministro della Difesa, Guido Crosetto, lo ha rimosso all’istante dalla carica di presidente dell’Istituto geografico militare.

E ora rivendica la scelta: “Mi permetto di dolermi di quanto trovo davvero drammatico e cioè che, soprattutto chi si definisce “di destra” e si riempie la bocca dei concetti di “patria”, “onore”, “tradizione” e “orgoglio nazionale”, dimostri di non conoscere, o conoscere davvero poco, cosa vuol dire avere senso dello Stato, delle istituzioni, rispetto delle leggi italiane e della Costituzione repubblicana”, scrive in una nota. “Da questo punto di vista l’essere o non essere “politicamente scorretti” nulla c’entra, come pure l’essere o il non essere “appiattiti” sul e/o con il “pensiero unico dominante””.

Parole che sembrano rivolte ai tanti che, nella sua stessa area politica, non hanno gradito l'”epurazione” di Vannacci, al quale nel frattempo è giunta la proposta di candidatura di Forza Nuova alla corsa per il seggio di Monza rimasto scoperto dopo la morte di Silvio Berlusconi […] 

E forse non è un caso che nelle stesse ore sia arrivata la prima presa di posizione di un esponente di governo a favore del generale omofobo: “Ma la libertà di espressione e di pensiero vale solo se sei iscritto al Pd? Chi ha dato il diritto alla sinistra di rilasciare patenti morali su ciò che un cittadino può scrivere o meno in un libro? Per capire…”, ha scritto su Facebook il viceministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Galeazzo Bignami, colonnello bolognese di FdI famoso per la vecchia foto in cui posava vestito da gerarca nazista.

E i commenti – per quello che valgono – sono tutti uguali: “Crosetto, mossa sbagliata”, “Deluso da Crosetto“, “Crosetto è un iscritto del Pd”. E su Twitter l’hashtag #iostoconVannacci è già diventato trending topic. La base del partito, insomma, sembra non avere dubbi sulla parte da scegliere.

Estratto dell’articolo di Alessandro Mantovani per “il Fatto quotidiano” mercoledì 23 agosto 2023.

Ai primi di agosto il generale Roberto Vannacci ha avvisato il suo superiore dell’imminente uscita del suo libro autopubblicato, Il mondo al contrario, quello in cui ha scritto che gli omosessuali “non sono normali” e se l’è presa con varie “minoranze” tra cui ambientalisti, animalisti, femministe.  

[...] Il superiore, il generale Massimo Panizzi del Comando delle Forze operative terrestri, gli ha chiesto di vedere il libro ai fini dell’eventuale autorizzazione alla pubblicazione. Ma Vannacci gli ha risposto che non era necessario non trattandosi di “argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio” per i quali il codice militare la richiede.

Panizzi gli avrebbe anche detto di non pubblicarlo senza autorizzazione. Vannacci parla da giorni sui giornali, ma ieri non ha risposto al Fatto. Fonti vicine all’ufficiale riferiscono che aveva mandato ai superiori anche il libro. [...]

[…] Per come la vedono allo Stato maggiore qualche accenno ad argomenti di servizio, sia pure non riservatissimi, nel libro c’è: dalla storia dei documenti per l’espatrio fatti avere all’addetto militare afghano a Mosca dopo la ritirata occidentale da Kabul, quando Vannacci svolgeva lo stesso incarico in Russia, fino a passaggi su Strade sicure, l’Iraq e altre missioni di Vannacci, generale incursore già comandante del Col Moschin e dei parà della Folgore. 

Un curriculum eccellente compresa la clamorosa denuncia del 2019 in cui accusava il Comando operativo interforze di non proteggere i nostri soldati in Iraq dalle conseguenze dell’uranio impoverito. Ma altre valutazioni attengono alle eventuali lesioni al “decoro” delle forze armate e alla legittimità delle prese di posizioni politiche dell’ufficiale. 

Forza Italia sta con Crosetto, Meloni tace, Giovanni Donzelli di FdI ha difeso la libertà di espressione del generale e il leader leghista Matteo Salvini gli ha fatto una “cordiale” telefonata di solidarietà. Ieri quest’ultimo ha fatto sapere all’Ansa che hanno contattato “altri esponenti politici”. Poi ha staccato il telefono. La candidatura alle Europee con la Lega è possibile, per quanto sarebbe un dito nell’occhio di Crosetto. […]

Da L’Identità.

Il generale e la politica. Tommaso Cerno su L'Identità il 24 Agosto 2023

Ieri sera a Zona Bianca in un confronto con il generale Roberto Vannacci è stato chiaro che la sua strada nell’esercito sta terminando e quella politica sta per cominciare. Alla domanda di Giuseppe Brindisi, il generale ha risposto con chiarezza che per ora è un soldato ma non può dire di no prima che i fatti siano avvenuti. Tradotto dal politichese è un sì che grida forte come un urlo nel silenzio.

Un po’ l’effetto che ha generato il suo libro che con la solita formula dell’attacco alle minoranze e ai gay, che nella storia d’Italia è poca spesa e tanta resa, soprattutto mediatica, ha trasformato una carriera ormai sbilenca alla guida di un istituto geografico dello Stato in una possibile discesa in campo insieme al nuovo partito che alla velocità della luce sta nascendo attorno all’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno per occupare quel pezzo di destra più estrema che Giorgia Meloni, ormai Presidente del Consiglio e con i sondaggi che la danno ampiamente sopra il 25 per cento da mesi, pur con fatica non può più permettersi di rappresentare. O almeno di dare voce alle istanze più estreme che la metterebbero in difficoltà a Palazzo Chigi.

E così dopo L’era dei giudici e quella dei virologi in tempo di guerra mondiale camuffata da guerra territoriale è la volta dei vertici militari. Non è dato ancora sapere quando e come Vannacci dirà di sì. Ma conoscendo il linguaggio della politica, le parole che ha pronunciato a Zona Bianca sono inequivocabili. D’altra parte ai vertici dell’Esercito è da tempo in corso una guerriglia. Che ha molto a che fare anche con la situazione attuale delle Forze Armate nel nuovo quadro Nato sorto sulle ceneri delle città ucraine in mano ai russi. E così la scintilla del libro sul mondo al contrario ha scatenato l’incendio del mondo che conosciamo bene e che funziona sempre allo stesso modo, facendo sì che gli spazi vuoti si occupino da soli. Ed ecco che quando la destra che pochi anni fa era considerata nostalgica e lontana dalla possibilità di governare si trasforma lentamente in un partito conservatore, a destra della Destra sono tutti pronti a ripartire proprio da dove Giorgia Meloni ormai molti anni fa scelse la corsa solitaria. D’altra parte tra pochi mesi ci sarà il voto per le elezioni europee e gli spazi fanno gola a tutti.

La cosa strana è che con un governo come quello di Meloni era immaginabile una grande movimentazione al centro e a sinistra, mentre assistiamo a un allargamento dall’altra parte dell’emiciclo politico. Proprio quando il progetto terzopolista di Matteo Renzi incontra il no di Carlo Calenda e scompone di nuovo tutti i giochi. La cosa curiosa è che sulla base del libro di Vannacci l’intelligenza di destra italiana si è schierata per la prima volta nella sua storia con forza per la libertà di espressione.

E quindi dovrà prendere atto che in questo momento in Occidente gli alleati conservatori americani hanno avviato una campagna di censura di tutti i libri a sfondo sessuale, che vede come capo cordata il governatore della Florida Ron De Santis, in grossa difficoltà contro Trump. Nell’Ungheria di Orban sono vietati i libri che parlano dei temi lgbt. Addirittura il sindaco di Venezia Brugnaro al suo primo mandato fra le cose che decise appena entrato a ca’ Farsetti fu di togliere dalle biblioteche comunali i testi a sfondo gender. Per cui se non stanno facendo tutto questo, permettetemi il neologismo, per i vannacci loro, ci si aspetta la stessa forza liberista e liberale nel difendere quei libri che invece alla comunità della destra piacciono poco. Non ci illudiamo, non sarà così perché il caso Vannacci, anche se il generale per furbizia politica lo nega, è solo un fatto politico. E con la politica avrà a che fare molto presto.

De Bello Gaio. Tommaso Cerno su L'Identità il 23 Agosto 2023

Il De Bello Gaio, il libro scritto dal Generale Vannacci che si è definito nipotino di Giulio Cesare, è la prova che in Italia le minoranze come i gay non solo non sono sovrarappresentate ma servono alle maggioranze per parlare di sé e occupare gli spazi che finora non avevano mai avuto. Evidentemente annoiati dal tran tran di una famiglia tradizionale in crisi, c’è un pezzo di Paese che si attacca a chi è diverso da lui. E lo attacca, nel nome della libertà di espressione che fra parentesi è la lotta dei movimenti di liberazione delle minoranze ad avere reso davvero una battaglia di tutti, per farsi pubblicità sulle spalle degli altri.

Meno male che almeno il suo antenato originale, il grande condottiero romano che conquistò la Gallia, non aveva di questi problemi e come raccontano gli storiografi che lo conoscevano meglio del generale in questione sarebbe stato un po’ qua e un po’ là nel definire la propria sessualità romana. Ma poco importa, siamo riusciti a trovare una nuova polemica per far sentire la destra unita, che ha ridato un po’ di smalto al buon vecchio capitano Salvini che da parecchio tempo girava a vuoto sulle infrastrutture, sempre grazie a quella meravigliosa parola che è diverso, in questo caso omosessuale, che rende molto più forti pubblicamente tutti quelli che fanno uso dell’argomento per farsi pubblicità o costruirsi una carriera.

In un Paese serio dovrebbe esistere una tassa sui gay, da versare alla comunità in cambio di tutto questo clamore. Anche perché se c’è un Paese in Europa dove queste minoranze lottano ma ottengono sempre molto meno degli altri è proprio l’Italia, dove ora sono buone solo per le polemiche. E così il De Bello Gaio scala le classifiche forte delle sue invettive contro i diversi, immaginate dal suo autore che rivendica quel diritto di espressione che nessuno gli ha mai negato. Tant’è vero che il libro è uscito, vende, fra poco sarà ristampato da una casa editrice ufficiale, e finalmente gli italiani sanno che fra le loro fila non c’erano soltanto questi omosessuali pronti a prendere il potere ma anche un bel generale dell’esercito che nella vita voleva fare altro e ci sta riuscendo grazie a loro.

Sono proprio le regole dell’esercito che lui ha scelto quelle che hanno posto dei problemi sulla pubblicazione del suo libro e sulle espressioni pubbliche che Vannacci ha voluto scriverci dentro. Non la società civile, non certo le minoranze che si battono per un esercito libero dove anche i soldati omosessuali, che in Italia sono migliaia e migliaia, debbano smetterla di nascondersi. Se fosse stato per noi, mannaggia, il libro l’avrebbe pubblicato pure prima. Ma sono proprio i suoi colleghi militari, le sue regole, i suoi codici, le sue leggi, quelle che lui ha scelto e che lui ha giurato sulla Costituzione di servire che hanno un’idea diversa della società. Qui gli unici diversi sono proprio quelli in uniforme che si stanno dichiarando dimenticati. Che si stanno mostrando come messi da parte rispetto a una società fatta di tante minoranze che avrebbe usurpato il loro spazio. E’ davvero un mondo a rovescio quello che ci racconta il generale Vannacci. E sarebbe proprio ora di raddrizzarlo.

Il problema è che per farlo si deve andare nella direzione opposta a quella che lui indica, perché soltanto quando tutte le minoranze saranno perfettamente uguali alle maggioranze non saranno definite come tali e non rischieranno che qualche illuminato militare ai vertici del nostro esercito li ritenga sovrarappresentati rispetto al peso che nella società hanno quelli come lui, cioè quelli che hanno promesso al Paese che gli uomini sarebbero stati tutti uguali e che non avrebbero assunto comportamenti che invece nella società dei normali, quelli che la divisa non la indossano, i mitragliatori li vedono soltanto esposti nei musei e non guidano i carri armati, è una libertà che ci siamo conquistati e che rivendichiamo.

Vale per Vannacci, per tutti i soldati gay che gli hanno obbedito o che gli hanno dato degli ordini, per il suo antenato Giulio Cesare e soprattutto vale per la gente comune. Quella che è poco rappresentata perché tanto alla fine in televisione e poi in politica non ci finiranno. A differenza sua.

Da L’Inkiesta.

Omnium virorum mulier. Il libro omofobo del generale Vannacci e la bisessualità del suo mito Giulio Cesare. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 18 Agosto 2023.

Il neo presidente dell'Istituto Geografico Militare (IGM) ha scritto un libro in cui rivendica il diritto all’odio e definisce i gay come non normali. Si definisce erede del grande condottiero romano, ma forse non ricorda che il dictator amava avere anche rapporti sessuali con gli uomini

Ci voleva Roberto Vannacci ad animare la calda giornata agostana di ieri con il libro Il mondo al contrario. L’autore, un generale di divisione che ha svolto, fra gli altri, gli incarichi di comandante Paracadutisti “Folgore” e della Task Force 45 durante la Guerra in Afghanistan, siede dal 21 giugno sulla prestigiosa poltrona di presidente dell’ente cartografico dello Stato: l’Istituto Geografico Militare (IGM). Ai più, nonostante il curriculum di tutto rispetto, Roberto Vannacci era sconosciuto. E tale sarebbe rimasto, se l’uscita de Il mondo al contrario non l’avesse elevato agli onori delle cronache. 

In trecentosettantatré pagine l’opera si configura come una parodia di razzismo, xenofobia, sessismo, omofobia, negazionismo. Ne sono riprova le affermazioni «cari gay, non siete normali. Fatevene una ragione», «la normalità è l’eterosessualità. Se a voi tutto sembra normale, invece, è colpa delle trame delle lobby gay internazionali», «rivendico il diritto all’odio. Paola Egonu? I suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità», «ritengo che nelle mie vene scorra una goccia del sangue di Enea, Romolo, Giulio Cesare», «lavaggio del cervello di chi vorrebbe favorire l’eliminazione di ogni differenza compresa quella tra etnie, per non chiamarle razze». 

Il tutto a dimostrazione, si fa per dire, che quanto viene spacciato come «Civiltà e Progresso» è, in realtà, un mondo al contrario, in cui «gli occupanti abusivi delle abitazioni prevalgono sui loro legittimi proprietari; […] si spende più per un immigrato irregolare che per una pensione minima di un connazionale; […] l’estrema difesa contro il delinquente che ti entra in casa viene messa sotto processo; […] veniamo obbligati ad adottare le più stringenti e costosissime misure antinquinamento, ma i produttori della quasi totalità dei gas climalteranti se ne fregano e prosperano; […] non sai più come chiamare una persona di colore perché qualsiasi aggettivo riferito all’evidentissima e palese tinta della sua pelle viene considerato un’offesa». E via dicendo.

Non meraviglia, dunque, che contro questo massimario degli orrori si siano esposti non solo le opposizioni parlamentari e il mondo associazionistico, ma anche i vertici dell’Esercito, che, in una dura nota, hanno preso «le distanze dalle considerazioni del tutto personali (come precisato nel testo) espresse dall’Ufficiale», riservandosi «l’adozione di ogni eventuale provvedimento utile a tutelare la propria immagine». Anche il ministro della Difesa Guido Crosetto è intervenuto via social, parlando di «farneticazioni personali» e di «opinioni che screditano l’Esercito, la Difesa e la Costituzione» e annunciando l’avvio «dell’esame disciplinare previsto» da parte del dicastero di Via Venti Settembre. 

Ma la vicenda Vannacci, fonte di motivata indignazione, presenta, suo malgrado, anche risvolti ridicoli. Fra tutti emerge quello che si ricollega all’autodefinizione di «erede di Cesare», una goccia del cui sangue, scorrerebbe, al dire del militare di alto rango, nelle sue vene. Ora, il vagheggiare illustri ascendenze di sangue, come l’autore idealmente fa per ragioni identitarie, richiederebbe cautela, oltre che approfondita documentazione. Ancor più, poi, quando nello stesso testo si sostengono determinate tesi. Si pensi, ad esempio, a Enea, di fatto, al di là della miticità della figura, un profugo dell’Asia Minore: il richiamarvisi da parte di Vannacci appare così in totale contraddizione con le sparate contro le persone migranti e con la tesi preziosiana dei tratti somatici rappresentativi dell’italianità. Con Giulio Cesare la discrasia tra l’esaltazione del personaggio e la mancanza di conoscenza dello stesso, soprattutto se rapportata alle pagine omofobe del libro, è d’evidenza perfino maggiore. Il tutto, in ogni caso, con effetto dai contorni quasi comici. 

Per il generale tutto d’un pezzo, lui virile, maschio e normale a differenza delle persone gay, il valoroso e geniale dictator della Roma repubblicana assurge anche a modello di riferimento. Ma il giustamente apprezzato Cesare, e qui casca l’asino, è lo stesso che, giovane legato alla sontuosa corte di Nicomede IV, si era fatto ripetutamente inchiappettare, pardon sodomizzare, dall’affascinante re di Bitinia. La notorietà di questa relazione avrebbe assunto tali proporzioni, che Cesare sarebbe stato accompagnato per tutta la vita da soprannomi irridenti. Di essi, per citarne alcuni, sono passati alla storia quelli di “postribolo di Nicomede”, “bordello di Bitinia”, “regina di Bitinia” (stabulum Nicomedis, Bithynicus fornix, Bithynica regina).

A 35 anni a distanza l’avventura amorosa in Bitinia continuava a far parlare di sé, a tal punto che i soldati ne fecero oggetto di uno dei canti intonati durante il Trionfo gallico del 46 a. C.: «Cesare ha sottomesso la Gallia, Nicomede ha sottomesso Cesare. Ecco oggi trionfa Cesare che ha sottomesso la Gallia, non già Nicomede che ha sottomesso Cesare» (Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem: ecce Caesar nunc triumphat qui subegit Gallias, Nicomedes non triumphat qui subegit Caesarem).

Da Svetonio sappiamo inoltre che Ottavio salutò una volta in pubblico Antonio e Cesare coi rispettivi appellativi di re e regina. Quest’episodio avrebbe conosciuto una tale fortuna nei secoli posteriori, da essere espressamente menzionato da Dante nel canto XXVI del Purgatorio (76-78), allorquando così parla dei sodomiti della settima balza: La gente che non vien con noi, offese / di ciò per che già Cesar, trïunfando, / “Regina” contra sé chiamar s’intese.

C’è da dire che Cesare ebbe rapporti sessuali anche con altri maschi, nel ruolo di pedicator od omosessuale attivo, laddove con Nicomede aveva avuto quello di cinaedus/mollis od omosessuale passivo. Di essi il più celebre fu quello con Mamurra, per il quale fu beffeggiato, adontandosene, da Catullo. Ci sarebbe poi da parlare del pallore e della calvizie del dictator, visto che per i Romani l’uno e l’altra erano rispettivamente considerati sintomi di passività sessuale e di scarsa virilità.

Come anche dell’abitudine cesariana, riportata da Macrobio nei Saturnalia, di camminare come un mollis, lasciando che gli orli dell’ampio ed elegante laticlavio arrivassero a terra. Ma non si finirebbe più. È invece importante ricordare che l’amato modello di Vannaci fu anche accompagnato dalla fama di adultero e di tombeur de femme – oggi lo chiameremmo bisessuale –, sintetizzata nel famoso appellativo che di Cesare diede Plinio il Vecchio: «moglie di tutti i mariti e marito di tutte le mogli» (eum […] omnium mulierum virum et omnium virorum mulierem appellat, in Svetonio, De vita Caesarum, I, 52, 3).

L’Italia al contrario. Il generale in guerra contro il mainstream e l’equivoco del putinismo di sinistra. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 28 Agosto 2023

Non stupisce che i fan di un militare ossessionato da gay e femministe ripetano gli argomenti della propaganda russa, cioè del regime capofila di quel gruppo di autocrazie che applicano in casa propria i principi a lui cari. Stupisce che lo facciano intellettuali, politici e giornalisti di sinistra

Il mondo al contrario è quello in cui bastano una manciata di canti mal studiati al liceo per sentirsi autorizzati a discettare di Dante, mezza paginetta del manuale con scritto «tesi, antitesi e sintesi» per considerarsi titolati a parlare di dialettica hegeliana, ma per deplorare le invettive contro omosessuali e femministe di un generale dei paracadutisti con aspirazioni letterarie occorre invece averne letto integralmente il volume. Opera autopubblicata la cui totale assenza di originalità è garantita sin dal titolo, prima ancora che dai numerosi estratti di cui sono pieni i giornali.

Non c’è più nessuno su questo pianeta, infatti, che non si dolga pubblicamente di vivere in un mondo alla rovescia (se è consentito tradurre il concetto in un italiano da persone adulte). Non c’è leader politico, cantante, cabarettista o calzolaio che non si senta parte di una maggioranza oppressa, costretta al silenzio dalla soffocante egemonia del pensiero unico imposto da pochi, avidi, occulti burattinai.

Ce l’hanno tutti con il «mainstream», senza avvedersi di come l’unico pensiero veramente dominante, egemone e ubiquo, a destra come a sinistra, sia proprio questo delirio cospirazionistico, lo «stile paranoico» che caratterizza ormai il dibattito pubblico globale, di qualunque cosa si parli: missioni spaziali o smaltimento dei rifiuti, green pass o Donbas.

Non stupisce che da un militare di simili vedute (stando a quanto ne ha scritto Bruno Vespa sul Quotidiano nazionale), o perlomeno dai suoi più fervidi sostenitori (stando alla cronaca fatta da Repubblica di un loro recente raduno), venga un sostanziale appoggio alle posizioni della Russia di Putin. Cioè al regime capofila di quel gruppo di autocrazie che applicano in casa propria, e nel modo più rigoroso, i principi a lui cari, tipo l’Iran. Singolare, semmai, è che a sostenere quegli stessi argomenti di politica internazionale siano tanti intellettuali, politici e giornalisti di sinistra (o scambiati per tali, peraltro non da oggi, nell’Italia al contrario in cui ci tocca vivere).

Eppure, proprio nelle sezioni del Partito comunista, una delle primissime cose che s’insegnavano era che l’analisi doveva sempre partire dalla situazione internazionale, per scendere poi, passo passo, fino alla classica fontanella. E sebbene potesse risultare non sempre chiarissimo il nesso tra le manovre americane in Medio Oriente e l’approvvigionamento idrico del proprio quartiere, lo sforzo intellettuale richiesto aveva comunque un suo valore e una sua utilità. E andrebbe forse riscoperto.

Considerato come i sostenitori del generale corteggiato da Forza Nuova e dal fior fiore dell’estrema destra si scagliano contro l’aggressività della Nato (assieme a buona parte dell’estrema destra europea), tocca dunque chiarirsi le idee, perché delle due l’una: o il generale autopubblicato e i suoi numerosi ammiratori neofascisti sono diventati di colpo dei pacifisti illuminati, o qualcuno degli illuminati pacifisti di cui sopra, nell’analizzare la situazione internazionale, deve aver preso la strada sbagliata. E ancora non se n’è accorto, purtroppo.

Stregati dall’assegno. Le fattucchiere di Vannacci, la realtà femminista e l’infallibile senno di poi. Guia Soncini su L'Inkiesta il 29 Agosto 2023

Il generale denuncia che le donne vogliano affrancarsi dal patriarcato attraverso il lavoro, ma al mondo questa cosa la pensano solo in tre: Hitchens, che è morto, la corte d’appello di Milano che ha ridotto il mantenimento a Veronica Lario, e Guia Soncini

Il vero grande problema di questo porco lavoro, il vero grande problema di questo porco lavoro che faccio io, il vero grande problema di questo porco lavoro che facciamo ormai tutti, il vero grande problema di questo lavoro che facciamo ormai tutti alcuni persino senza retribuzione ma solo per diletto (il che quando zappavamo tutti i campi accadeva meno), il vero grande problema del porco lavoro di dire la propria sulle cose che accadono è che le cose che accadono le capisci solo col senno di poi.

Il senno di poi è l’unico criterio con cui puoi valutare le foto segnaletiche: Jane Fonda va in tv a parlare della sua, scattata nel 1970, e tutti – Graham Norton, miglior conduttore di talk-show al mondo, e lei, e gli altri ospiti – ne parlano in termini epici ed eroici, e nessuno dubita che fosse un complotto di Nixon-il-mostro contro di lei che era una dei giusti. Che ne so, io, se tra cinquant’anni non si parlerà così della foto di Trump.

Il senno di poi è l’unico criterio con cui puoi valutare l’educazione all’affettività o alla parità di genere o alla sessualità o a cosa diavolo sarà quella che ora faranno nelle scuole perché l’estate 2023 sembra essere stata quella degli stupri minorili quasi quanto quella delle foto agli scontrini, e qualcosa bisogna pur far vedere che si prova a fare.

Il senno di poi ci dirà se quelle saranno le uniche ore scolastiche che impattino su studenti che in classe non imparano le addizioni né il ramo del lago di Como, non imparano in che secolo collocare Napoleone né il limitare di cosa salisse quella Silvia, però siamo certi certissimi che impareranno che le donne non si toccano neanche con un fiore.

Il senno di poi ci dirà, pure, se le fattucchiere di Vannacci esistono. Mentre tutti eravate concentrati sulla pelle dei neri e sui gay che mica saranno normali, io mi chiedo da giorni dove stiano, queste fattucchiere con cui vorrei tanto fare amicizia.

«Altra incredibile bordata proviene dal movimento femminista […] si oppone alla figura femminile intesa come madre. Le moderne fattucchiere sostengono che solo il lavoro ed il guadagno possono liberare le fanciulle dal padre padrone e dal marito che le schiavizza condannandole ad una sottomessa, antiquata, involuta ed esecrabile vita domestica».

Ora, generale. Sorvoliamo sulle eufoniche. Sulle concordanze. Sul mistero di cosa crede voglia dire «involuta». Parliamo delle fattucchiere.

Elenco esaustivo di persone che in questo secolo credono che la liberazione femminile stia nel lavoro. Guia Soncini: non credo la conosca, diciamo che è un tipo, ecco. Christopher Hitchens: era perfetto, ma è morto. La corte d’appello di Milano che ha ritenuto nell’assegno di mantenimento di Veronica Lario ci fossero sessanta milioni di troppo. Basta, elenco finito: una viva, uno morto, un tribunale.

L’intero femminismo di questo secolo, come d’altra parte qualunque movimento ideologico d’un secolo fondato sulla ricerca di consenso, si basa sul dire alle donne che la loro voglia di farsi mantenere è sacrosanta, la lagnosità del loro chiamare lo spingere il tasto della lavatrice «carico del lavoro di cura» è sacrosanta, la loro pigrizia è sacrosanta.

L’intero femminismo di questo secolo sostiene che nessuno deve permettersi di dirti (se sei donna) che devi trovarti un lavoro e procurarti un reddito, giacché avere una casa è un lavoro, avere un marito è un lavoro, avere dei figli è un lavoro. E qualcuno deve retribuirtelo (non hanno ancora ben capito chi, ma in questo secolo non si lascia che i dettagli pratici ostacolino vasti programmi quali «pagatemi per lavarmi le mie stesse mutande e per scaldare un surgelato a mio figlio»).

Le nostre nonne lavavano i panni al fiume e si occupavano di otto figli; noialtre per mettere il brillantante nella lavastoviglie abbiamo diritto al pagamento degli straordinari, per non parlare del bonus aziendale che ci spetta se andiamo a riprendere il figlio a scuola nel pomeriggio, e della tredicesima maturata inserendo i dati di consegna nella app di Glovo che ci consegna la cena già pronta.

Questo è il punto dell’articolo in cui i lettori più attenti – quelli, cioè, che commentano senza essersi limitati a leggere il titolo – mi obiettano che il mondo mica è fatto a forma della stronza borghesia che bazzico io, che c’è gente che Glovo non se lo può permettere, che ci sono donne che cucinano tutte le sere altrimenti il marito le mena. E alle quali il femminismo di questo secolo ha deciso di non dire mai che non è una buona idea mettersi con uno che ti mena: molto più utile dir loro che lo Stato dovrebbe pagarti per preparare la cena a quello che ti mena.

Ecco, generale, io e il mio senno di poi vorremmo, se possibile, un’anticipazione: questa sua sulle fattucchiere è una previsione per il futuro? Tra vent’anni potrò raccontare al fantasma di Christopher Hitchens che la sua idea che la povertà si sconfiggesse dando alle donne la possibilità di lavorare, che l’emancipazione dovesse essere innanzitutto economica, potrò dirgli che questa sua visione fantascientifica si è realizzata?

Oppure, quando tra vent’anni la rileggerò (come si fa con ogni classico, diamine: già pregusto la sua rilettura nell’estate 2043, e la mia cronaca del viaggio in cui io leggevo un classico e i lanzichenecchi Recalcati), dovrò dire sì, quel Vannacci, grande letterato, ma non ci ha preso su niente nientissimo.

Dovevamo avere le fattucchiere e siamo ancora qui con gli assegni di mantenimento, le pensioni di reversibilità, la legittima, nel 2043. Stiamo ancora qui col maschio di casa che funge da finanziamento per la vita della moglie, nel 2043.

Stiamo ancora qui con le donne che dicono che loro non possono lavorare perché hanno i bambini, e i bambini sono partiti al mondo come soldati e non ancora tornati, che non possono lavorare perché il carico del lavoro di cura, e senza la colf non sanno neanche separare i bianchi dai colorati, nel 2043.

Non posso sopportare d’immaginare un 2043 in cui il senno di poi mi deluda in questo modo. Generale, dietro la collina, mi rassicuri: almeno una fattucchiera c’è?

Da Il Dubbio.

Ecco perché la libertà d’espressione non può giustificare Vannacci”. Marco De Paolis, procuratore generale militare presso la corte militare di appello di Roma, commenta le polemiche sollevate dal libro del generale contro gay e migranti. Il Dubbio il 18 agosto 2023

“Premesso che prima di dare un giudizio completo bisognerebbe leggere per intero il libro, di per sé non mi sembra possibile ipotizzare profili di reato: non credo quindi, che qualche procura intervenga d'ufficio, anche perché non si può certo monitorare tutta la pubblicistica. Diverso è ovviamente se nelle pagine del testo ci sono affermazioni oggettivamente lesive di qualcuno o di qualche istituzione e se qualcuno, leggendolo, si sentisse offeso”. Marco De Paolis, procuratore generale militare presso la corte militare di appello di Roma, parla con l'AGI delle polemiche innescate da "Il mondo al contrario", il libro pubblicato dal generale Roberto Vannacci, ex comandante della Folgore.

“Nel '99 - ricorda De Paolis - da gip presso il tribunale militare di La Spezia mi occupai dello 'Zibaldone' del generale Celentano che venne rimosso, ma quello era un caso diverso (una raccolta di pensieri e vignette satiriche destinato ai militari, fossero o meno comandanti, ndr): in questo caso il ministro Crosetto ha avviato l'esame disciplinare, un doveroso iter amministrativo, e Vannacci rischia sanzioni commisurate alla gravità delle contestazioni". Per il procuratore, "in tutti i casi in cui a parlare sia un rappresentante, in servizio, delle istituzioni pubbliche non ci si può nascondere dietro la libertà d'espressione, che pure è naturalmente tutelata dalla Costituzione. Se a parlare è una persona qualsiasi, un anonimo e sconosciuto Mario Rossi, si è di certo liberi di scrivere quello che si vuole, ma se sei un rappresentante delle istituzioni, come un generale dell'Esercito, per di più in servizio, quello che viene detto ha un altro impatto, perché - e ciò vale soprattutto per i militari che vivono in un ambiente gerarchico dove la voce del comandante ha, all'interno, un peso diverso da quella di un privato cittadino - gli effetti e le ricadute sono assai diverse".

“Ovviamente non bisogna nemmeno cadere nell'errore opposto, associando a tutte le forze armate quelle che sono esternazioni del tutto personali ed oggettivamente inaccettabili ma riconducibili ad un singolo individuo”. In questo senso, “l'intervento del ministro della Difesa Crosetto, oltre che importante è stato del tutto appropriato e tempestivo”. “Da quello che ho potuto capire dagli estratti pubblicati sui giornali - prosegue De Paolis - si tratta di una miscellanea di banalità e di luoghi comuni, che non mi sembrano proprio appropriate per un pubblico dipendente con incarichi di rilievo nella pubblica amministrazione. Occorre anche considerare l'esposizione all'estero di un comandante che ha comandato uno dei reparti più importanti e conosciuti delle nostre forze armate. E peraltro, non credo che esternazioni del genere possano essere non solo condivise, ma neppure comprese da colleghi di forze armate straniere anche e soprattutto alleate dove ai vertici dei comandi vi sono da tanti anni persone di colore e dove gli orientamenti sessuali non sono mai stati di ostacolo a ricoprire incarichi di comando”. 

“Affermazioni del genere - conclude il procuratore - sono contraddittorie, anacronistiche, fuori dal tempo e dalla logica, anche pericolosamente divisive, e rischiano di spaccare il Paese in un momento in cui - al contrario - c'è bisogno di unità e di integrare nel migliore dei modi tutti i cittadini, di qualsiasi orientamento sessuale e di qualsiasi colore di pelle. Anzi, direi che proprio nelle forze armate che sono un meraviglioso mondo 'di eguali' in cui tutti coloro che mettono la propria vita al servizio della patria si ritrovano uniti in ciò in cui credono (ed eventualmente, anche combattono) – occorre fare ogni sforzo per unire e non per dividere e accogliere anche i nuovi cittadini che provengono da terre diverse ma che sono a tutti gli effetti cittadini italiani. Come si dovrebbe sentire un giovane di origini somale, o cinesi o romene che - nato in Italia da genitori o nonni di un diverso Paese - oggi sceglie di servire il nostro Paese, che è anche il suo Paese? Dobbiamo evidentemente ringraziarlo per la sua scelta e fare di tutto perchè si senta orgogliosamente italiano”. 

Da Il Riformista.

Rintracciato un libro che l'attuale Premier scrisse nel 2019. Quando Meloni 4 anni fa non scriveva cose molto diverse da quelle del generale Vannacci. Redazione su Il Riformista il 20 Agosto 2023 

Lorenzo D’Agostino, un bravo giornalista barese, ora a Barcellona dove collabora con l’Internazionale e The Intercept, una testata americana di quello che definiremo giornalismo d’assalto, ha tirato fuori dalla polvere con un tweet un libro sulla mafia nigeriana di soli 5 anni fa dell’attuale Presidente del Consiglio, scritto a quattro mani con Alessandro Meluzzi, psichiatra e docente di psichiatria forense: “Mafia nigeriana, origini, rituali e crimini” si chiama e fu pubblicato dalla casa editrice Oligo che, “curiosamente”, dal suo sito internet ha fatto sparire la pagina dedicata al libro (rintracciabile qui).

Il libro, si legge nella presentazione della casa editrice, ha preso spunto dalla “tragica vicenda della ragazza di Macerata, [Pamela Mastropietro, ndr], fuggita da una comunità di recupero e orribilmente mutilata – non si sa se da viva o da morta – da un gruppo di spacciatori nigeriani”, vicenda avvenuta nel gennaio 2018. “Questo libro – si legge sempre nella presentazione – prova a mettere ordine, tra casi di cronaca e analisi del contesto italiano contemporaneo, a un fenomeno che non è solo di natura criminale, ma che tocca molteplici aspetti del lato più oscuro dell’essere umano: un fenomeno globale che affonda le radici in rituali cannibalici e si mescola con l’anomia sovranista occidentale“.

Nel libro, che D’Agostino suo malgrado si è premurato di leggere, ci sono le più razziste considerazioni sul popolo nigeriano, ma non mancano attacchi alla Chiesa cattolica e a chi vuole procedere ad una sostituzione etnica dell’Europa.

La premessa è chiara: Meloni non può più sopportare le continue aggressioni contro i nostri militari da parte di “nigeriani giganti, tra i 90 e i 100 chili“, “potenziali omicidi” che “costano allo Stato più di 100€ al giorno”. Purtroppo, continua D’Agostino nella descrizione del libro, il “razzismo all’incontrario” (che ricorda un po’ “Il mondo all’incontrario” di Vannacci…) impedisce di arrestare questa “nobiltà al di sopra della legge“: “per gli Italiani c’è la legge, per i richiedenti asilo c’è tutto”. Meloni si propone dunque di formare le forze dell’ordine “su una nuova metodologia di difesa personale e nazionale“. Questa nuova metodologia – che “ovviamente non include la violenza” – passa per l’insegnamento alle forze dell’ordine della storia: la storia degli omicidi rituali e del cannibalismo praticato dagli africani.

Eh sì, perché Meloni ci mette in guardia dal “rischio di una sostituzione etnica” da parte di islamici poligami che fanno “5 figli per coppia” – alla faccia della “intellighenzia politically correct”. “Insomma, – si legge in un passaggio del libro – il mondo dei cellulari ha popolato l’Africa ben prima della nazionalizzazione del settore terziario. Questa virtualizzazione, insieme a un bios esplosivo (sigh!, ndr), ha prodotto un cocktail micidiale sotto la guida dello smartphone: interi gruppi vengono mossi dal sogno di una sorta di “paese di cuccagna” che viene percepito come una mai spenta Disneyland proprio grazie alla rete”. Ed ancora: “La stregoneria oggi rappresenta la più grande minaccia per la vita degli africani, poiché hanno inconsciamente sviluppato una mentalità che li fa vivere in una condizione permanente paura, impotenza e intimidazione costringendoli ad abbracciare diabolici rituali”. A proposito del cannibalismo Meloni non ha dubbi: “in alcune zone della Nigeria, tra cui quella in cui vive la tribù di Yoruba, è ancora praticato il cannibalismo, strettamente legato al commercio di carne umana”. 

Il richiamo a certa mentalità colonialista della prima metà del Novecento è evidente. Continua così Meloni:

«Il selvaggio è spesso presentato come un essere degradato e maledetto, che non rispecchia nulla di positivo, ma che sembra far da condensatore per tutte quelle qualità negative che sono l’appannaggio delle classi criminali nelle società civili» (Lorenzoni 2015). Nella prima metà del Novecento Emilio Salgari descriveva così l”uomo selvaggio”. Questa definizione sembra adattarsi bene ai criminali mafiosi di origine nigeriana.

I soldi che vanno dall’Europa alla Nigeria sono “soldi dei bianchi” consegnati ai “neri”:

Fiumi di denaro nelle mani di una parte degli africani di Castel Volturno che pagano gli affitti delle case, comprano call center, riciclano attraverso i negozi. Spediscono denaro in Africa e lì investono, acquistando agenzie di money transfer. Ci sono invii di denaro continui: soldi dei bianchi che vengono direttamente consegnati ai neri.

C’è ne anche per i campani, in combutta con i “neri”:

Questa è Campania 2, l’unico territorio in Italia in cui la mafia africana si muove in simbiosi con la criminalità organizzata locale. Campania 2 è la prima provincia africana d’Italia. Rifiuti, immigrazione, prostituzione, corruzione politica, criminalità organizzata, abusi edilizi, sver- samenti tossici sono ormai una consolidata realtà immutabile di questa terra. Tra Castel Volturno, Mondragone, Pescopagano, il Villaggio Coppola, Baia Verde, Pinetamare, ogni etnia ha i suoi riti. Da una parte la comunità africana, con i suoi dei animistici, i riti magici, il vudù, che si trasformeranno in sacrifici umani in territorio italiano; dall’altra i bianchi, che guardano con sorpresa e scherno a queste manifestazioni, ma che sono intanto al telefono con il mago di turno per la predizione di amore, fortuna e posti di lavoro. Gli dei locali sono esseri umani che ricoprono cariche politiche. Nella buona e nella cattiva sorte.

E pure per la Chiesa cattolica:

Ma questo flusso mitico volto esclusivamente a beneficiare una mafia pericolosa vede finalmente qualche resipiscenza di ragionevolezza nella Chiesa Cattolica, che a tratti sembrava correre il rischio di diventare la principale agenzia di un migrazionismo incontrollato.

E’ centrale infatti il tema della sostituzione etnica: “Il migrazionismo è finanziato oggi da qualcuno che vuole cambiare l’etnia europea per creare un’Eurafrica o un’Eurasia.”

Caustico il commento finale dello stesso Lorenzo D’Agostino:

il quale fa notare come il co-autore del libro, lo psichiatra Alessandro Meluzzi, negli ultimi giorni ha più volte twittato a sostegno del generale Vannacci: eh sì, perché è evidente che non c’è grande differenza con le ormai tristemente famose idee del generale.

Il machismo non è più un "fenomeno tossico". Caso Vannacci, soldato gay: “Per anni ho finto di essere etero, ora è tutto cambiato e chi entra nell’Esercito non è fascista”. Redazione su Il Riformista il 20 Agosto 2023 

Il caso del generale Roberto Vannacci, il libro “Il mondo al contrario” dove prende  di mira le ‘afflizioni della società’ a partire dai gay (“non siete normali”) e la testimonianza, rilasciata a Repubblica, di un ufficiale dell’Esercito omosessuale dichiarato. 

Dopo l’azione disciplinare dello Stato Maggiore dell’Esercito nei confronti dell’autore del libro, “che cesserà dalle sue funzioni di Comandante presso l’Istituto Geografico Militare il 20 agosto 2023” e “dal 21 agosto sarà trasferito come forza extra organica al Comando delle Forze Operative Terrestri e sarà messo a disposizione del Comandante dell’Area Territoriale per varie responsabilità presso la sede di Firenze”, l’ufficiale intervistato dal quotidiano romano presta servizio da oltre 30 anni, è un veterano che vanta anche diverse esperienze all’estero. 

“Ho provato un forte sdegno come omosessuale e come soldato” ha spiegato dopo aver letto del libro di Vannacci. “Prima verifico e controverifico, perché mi dico: ma è impazzito? Di Vannacci non avevo mai sentito parlare. Ho pensato a me stesso e ha chi ha le spalle meno larghe delle mie. Ho pensato a un 18enne che magari non si arruola più. Poi si va per associazione: uno legge che un generale ha questa opinione e poi pensa che tutto l’esercito sia così” aggiunge.

Oggi nell’esercito, secondo il veterano, non c’è più il machismo, non è più un “fenomeno tossico” perché “l’introduzione delle donne dal 2000 ha cambiato tutto, oggi comandano battaglioni di 500 persone. C’è una forte componente di orgoglio ma riguarda il senso di appartenenza al corpo, tu sei l’extrema ratio di fronte alla crisi di qualsiasi tipo e questo inorgoglisce. Anche chi entra per cercare un lavoro poi dopo si fa trasmettere questo senso: aiuti alla popolazione dopo i terremoti, interposizione pacifica nei conflitti, in Romagna dopo l’alluvione abbiamo aiutato migliaia di persone. Ti senti al servizio dell’altro, questo è fare il soldato”.

Militare che poi sottolinea, a suo avviso, le responsabilità di chi è in uniforme: “Devi essere al di sopra di ogni commento personale, quel grado che hai davanti significa che sei pagato dai cittadini per aiutare la popolazione, per difenderla, per stare al servizio della comunità. Se esterno le mie idee politiche cambio la prospettiva del mio ruolo”.

A infastidirlo, oltre alle idee espresse sugli omosessuali, anche la posizione su Putin (“leggere dalla Russia come di un Paese in cui si vive bene…”) e sulla divisione del mondo “per aree culturali”.

Per il veterano dell’Esercito non si tratta di libertà di parola, quella a cui si appella Vannacci: “Se io mi chiamo Luca Rossi e sono un colonnello dell’esercito, domani esco con un libro e voglio parlare del problema delle api che diminuiscono, nella biografia non metto che sono militare. Teoricamente posso pubblicarlo senza avvertire nessuno, anche se io per scrupolo lo manderei in visione ai superiori. Ma se ne scrivo uno dove faccio molti riferimenti alle mie operazioni passate, sto mettendo in campo porzioni di storie avvenute in servizio. Già per quello devo chiedere l’autorizzazione. Quando lui parla di operazione “di pace” tra virgolette, quando parla di ambasciata a Mosca e ha favorito alcune persone per un visto, quello è parte del servizio”.

Dopo l’uscita e il relativo clamore mediatico del libro di Vannacci, nell’Esercito “quelli che ho sentito io e hanno fatto coming out, non sono tantissimi, più che arrabbiarsi si sono impauriti. Diciamo che ti fa guardare intorno con più sospetto, per loro leggere le parole dello stato Maggiore e del ministro è stato un enorme sollievo”.

Il militare ricorda il suo coming out, avvenuto intorno ai 50 anni “perché erano cambiati i tempi, il mondo finalmente si stava aprendo, l’Oms aveva finalmente cancellato il passaggio in cui definiva l’omosessualità disturbo della personalità”. In precedenza ha dovuto fingere, “prima ho fatto finta per anni di essere etero, ho sentito molte battute sui gay ma come le senti ovunque”. Un percorso più che una dichiarazione solenne, “non lo fai un giorno, ne fai tanti in contesti diversi” sottolinea. “Ora non ho più problemi a dirlo. Però ritengo importante farlo sapere anche come esempio per i giovani. Magari senza vestiti sgargianti vado ai Pride, nella convinzione che un diritto in più per una categoria è un diritto in più per tutti. Così come uno in meno”.

Militare che smentisce, infine, anche il luogo comune sui paracadutisti, ‘famosi’ per le loro posizioni di estrema destra. “Si riferisce a fatti vecchi di decenni. Quando la leva era obbligatoria per tutti, per un iper-nazionalista andare a fare il militare era considerata un’esperienza positiva ed eccitante. I parà sono un corpo particolarmente ardimentoso, la cui fondazione risale ai tempi del fascismo questo anche per motivi storici, gli aerei in battaglia e relativi lanci si svilupparono all’epoca. Molti oggi fanno i parà perché è un’attività sportiva estrema, altri per ragioni geografiche, perché significa stare in Italia centrale, altri ancora per spirito di avventura. Che sia un covo di fascisti lo escludo. Chi fa il militare giura sulla Costituzione e la nostra Carta parla chiaro, un fascista che si arruola farebbe uno spergiuro”.

Questa alta istituzione fiorentina non meritava un Generale con questo pensiero. Caso Vannacci, l’eroismo non è lo sprezzo del pericolo ma il valore degli ideali per cui si combatte. Marco Carrai su Il Riformista il 19 Agosto 2023 

Nella città di Firenze patria dell’Umanesimo ha sede dal 1865, anno in cui dopo l’Unitá d’Italia fu trasferita la capitale a Roma, l’Istituto geografico militare.

La sua storia inizia dall’Ufficio del Corpo di Stato maggiore del Regio Esercito Italiano che, dopo il 1861, aveva unificato in una singola struttura, con sede a Torino, l’originale Ufficio del Corpo di Stato Maggiore del Regno di Sardegna, dell’Ufficio Topografico Toscano e del Reale Officio Topografico Napoletano.

Con l’unificazione italiana, si riconobbe l’esigenza per lo Stato di dotarsi di una cartografia nazionale unitaria, e il Governo del tempo affidò nel 1872, con un’apposita legge, tale incarico all’Istituto topografico militare, creato dalla trasformazione del corpo militare. Questo istituto, rinominato Istituto geografico militare nel 1882, rilevò il territorio dello Stato, formando la nuova Carta Topografica d’Italia alla scala 1:100.000. Un lavoro, in gran parte svolto utilizzando la tavoletta pretoriana, che richiese oltre trent’anni.

Durante il fascismo– la storia si ripete sempre- l’IGM sostenne i processi di italianizzazione operati verso la toponomastica delle lingue non-italiane presenti sul territorio nazionale nonché nelle colonie.

Nel 1960, con la legge n. 68, l’Istituto veniva consacrato organo cartografico dello Stato e la cartografia prodotta dall’IGM diventava quella ufficiale dello Stato. Questa storia fa capire quanto assurde siamo le parole dell’ormai ex presidente Generale Vannacci destituito dal suo incarico con provvidenziale intervento dei vertici del Ministero della Difesa.

Sono inconcepibili di per sé, appunto, le frasi che ha scritto nel suo libro. Ma assume un significato ancora peggiore le parole con cui ieri si è difeso. Dopo aver definito con termini razzisti Paola Egonu “somaticamente non italiana” dice di essere stato travisato aggiungendo : ”È italiana, gareggia e rappresenta sicuramente l’Italia. Quello che dico è che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità come raffigurata da 4mila anni di storia fin dagli affreschi degli etruschi. Se vai in Papua Nuova Guinea e chiedi di fare il ritratto di un italiano non lo disegnano con la pelle nera perché tradizionalmente non siamo neri». Molto complicata come toppa se a dirlo è il capo dell’istituto geografico militare fondato dallo Stato di Sardegna.

Antropologicamente sappiamo che i Sardi hanno una origine diversa da altre popolazioni che nei secoli hanno vissuto in Italia. Vorrebbe forse dire il generale che i Sardi da cui prende luce il suo ex istituto non sono italiani? Purtroppo non bastano tre lauree e cinque lingue conosciute ad aprire la mente a chi per difendersi all’ultimo tuffo tira sempre in causa gli Ebrei. Afferma infatti il generale che dire Ebrei di merda (lui ci mette i puntini per non essere troppo offensivo io invece li ometto per rendere l’idea del suo pensiero) non è peggiore che dire Cristiani di merda” e che “ Ho capito: c’è stata la Shoah, va bene, ma questo non configura la religione ebraica come protetta.” Non è una gara al peggiore o al migliore, dovremmo essere ormai adulti e non bambini che si dilettano su queste iperboli, e nessuno protegge la religione ebraica più delle altre, anzi forse in taluni casi è il contrario, ma negare i pregiudizi su cui si basano milioni di morti e stermini pianificati a tavolino è inconcepibile. Ecco basterebbero queste parole per far capire che questa alta istituzione fiorentina non meritava un Generale con questo pensiero e forse non lo merita neppure l’esercito stesso.

L’eroismo non è lo sprezzo del pericolo ma il valore degli ideali per cui si combatte. Winston Churchill quando il Cancelliere dello Scacchiere gli disse che bisognava tagliare i fondi alla cultura perché tutti i soldi dovevano andare negli armamenti per fermare il Terzo Reich disse di no perché proprio per quella cultura loro stavano combattendo. Spero e credo che anche il governo italiano abbia in mente quale sia la cultura con cui formiamo i nostri soldati. Marco Carrai 

Il Sì&No del giorno. Crosetto sanziona Vannacci: “Sì, lo Stato non può avallare scritti che dividono i propri cittadini”. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Agosto 2023 

Il libro pubblicato dal Generale Vannacci ha sollevato un ampio dibattito. Il Ministro della Difesa ha ritenuto opportuno sollevare il Generale dal suo incarico. Nel “Sì&No” del giorno, sul nostro quotidiano, abbiamo chiesto se la decisione del Ministro sia stata giusta o meno: Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, la trova ingiusta, mentre il giornalista Paolo Guzzanti approva la scelta di Crosetto.

Qui di seguito, l’opinione di Paolo Guzzanti.

Avrebbe potuto essere l’occasione per mettere alla gogna i cliché, le parole abusate e invece dobbiamo occuparci di un libro autoprodotto dal generale Roberto Vannacci, “Il mondo al contrario” scritto in un italiano in guazzabuglio di incisi che fanno a cazzotti con le virgole ma senza odio. Come venivano chiamati con disprezzo i gay?  Invertiti. Ecco. E lui ha sentito l’urgenza, anzi la frenesia di descrivere con furia ritmata sui più grevi luoghi comuni il  mondo al contrario  popolato di uomini e donne gay, di atlete italiane che però si presentano con la pelle nera, e tutto declamato con furiosa bonomia.

Il generale spiega come i gay non siano normali, perché non ditemi che quelli rientrano sono nella norma. Arsenico e vecchie scemenze, direte voi, ma la curiosità è quella che ci fa chiedere come possa un generale delle forze d’assalto stampare tante sgrammaticate banalità che creano divisioni e ferite, mentre indossa le stellette che rappresentano lo Stato. Lo Stato non può avallare scritti che dividono i propri cittadini. E invece, la gente sta seriamente discutendo sulla libertà di espressione, quando su una cosa eravamo tutti d’accordo sul fatto che chi  indossa uniformi o toghe,  debba lasciare in guardaroba giacche e opinioni personali finché indossano le insegne dello Stato.

E invece, sorpresa, chi finisce sotto processo mediatico? Il ministro della Difesa Guido Crosetto, il quale, appena si è reso conto di ciò che il generale aveva stampato, lo ha destituito in tronco e lo ha fatto per una decisione politica e morale prima che amministrativa, perché le pagine del generale offendendo anche gli uomini e donne, omosessuali che quando vanno rischiare la propria vita in prima linea. Il generale non faceva mistero della sua frustrazione per essere stato confinato in un istituto militare geografico. Ma Roberto Vannacci non poteva ignorare la gravità della sua decisione di dare alle stampe uno sciocchezzaio di banalità razziali e sessuali. Eppure, il suo gesto che rompe la disciplina della non ingerenza militare nella società civile, ha avuto dome effetto quello di mettere sotto scopa un ministro della Difesa che ha ritenuto di difendere prima di tutto la totale indipendenza della società, dalle opinioni di chi porta le armi.

Quando Benito Mussolini fece firmare a un re codardo le infami leggi razziali comminando la segregazione agli italiani ebrei, lo fece dopo una campagna in cui sosteneva che gli ebrei erano il mondo al contrario rispetto al suo. Da allora è evidente a tutti che scrivere detestabili e false banalità con l’aggravante  del candore, significa discriminare attestando o negando il diritto di chi può rappresentare il Paese e chi non lo ha, sulla base del colore della pelle. E costituisce uno sberleffo contro tutti i gay in uniforme, almeno uno ce ne sarà,  che davanti a lui si mettono sull’attenti salutando i simboli che indossa. Ed è ovvio che è il ministro competente del governo decida intanto l’immediata rimozione preventiva in attesa delle procedure previste dai codici.

Viceversa, ci troviamo non a discutere se sia lecito che un generale in uniforme e in servizio divulghi con il proprio nome e ruolo di servitore dello Stato pensieri che erano già infelici e anzi detestabili negli anni Sessanta: ma seriamente ci troviamo a discutere se il ministro Guido Crosetto abbia fatto bene a garantire prima di tutto la dignità di tutti i cittadini, atteggiamento doveroso che gli viene contestato come se fosse lui il nemico della libertà di pensiero.

Al generale inoltre sono stati subito proposti seggi al Senato e carriere politiche. Questa inversione di ruoli fra chi è colpevole per abuso di simboli dello Stato e chi ha rimesso il suo dovere  ricorda l’effetto Gestalt: che cosa stiamo vedendo? due profili, o un vaso di terracotta? Uno vale uno. Discutiamone: zero a zero e palla al centro. Onestamente un pregio il titolo scelto da Vannacci ce l’ha. Quel titolo. La Repubblica sta per caso andando all’inverso? Paolo Guzzanti

Il Sì&No del giorno. Crosetto sanziona Vannacci: “No, è stata un’ingiustizia. Il Ministro chieda scusa”. Gianni Alemanno su Il Riformista il 22 Agosto 2023 

Il libro pubblicato dal Generale Vannacci ha sollevato un ampio dibattito. Il Ministro della Difesa ha ritenuto opportuno sollevare il Generale dal suo incarico. Nel “Sì&No” del giorno, sul nostro quotidiano, abbiamo chiesto se la decisione del Ministro sia stata giusta o meno: Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, la trova ingiusta, mentre il giornalista Paolo Guzzanti approva la scelta di Crosetto.

Qui di seguito, l’opinione di Gianni Alemanno.

No, non è stato giusto rimuovere il Generale Vannacci dal suo incarico. Anzi il Ministro Crosetto dovrebbe chiedere scusa per il suo comportamento. Con una reazione epidermica, scomposta e anche un po’ sospetta il Ministro ha definito “farneticanti” le tesi sostenute nel libro scritto da uno dei suoi migliori generali. Avviando così ad un provvedimento punitivo un ufficiale sempre in prima linea su tutti i fronti d’impiego dell’Esercito e già comandante dei migliori reparti delle nostre Forze Armate, il Battaglione degli arditi incursori “Col Moschin” e la Brigata paracadutisti “Folgore”.

Il tutto senza aver letto questo libro e basandosi solo sulle estrapolazioni giornalistiche del quotidiano “la Repubblica”. Non solo: violando anche le disposizioni del Codice Ordinamento Militare che all’art.1472 recita: “I militari possono liberamente pubblicare i loro scritti” e devo chiedere l’autorizzazione solo per “argomenti a carattere riservato di interesse militare”.

In questo modo Crosetto ha piegato la testa al politicamente corretto e contemporaneamente umiliato chi va in prima linea a difendere la bandiera dell’Italia. Visto che Crosetto è anche un ministro “guerrafondaio” che ha preso una posizione oltranzista sulla guerra in Ucraina e sull’Indo–Pacifico mettendo a disposizione degli americani la portaerei Cavour, c’è da chiedergli: ci vai tu in prima linea in questi pericolosi contesti militari?

Una lettura più meditata del libro “Il mondo al contrario” avrebbe permesso ai vertici del Ministero di comprendere che Roberto Vannacci non è un omofobo o un razzista. Semplicemente ha espresso in modo molto forte e diretto idee che appartengono a gran parte di coloro che hanno votato per Fratelli d’Italia e credo alla maggioranza del popolo italiano. E in ogni caso il Generale aveva tutto il diritto di esprime la sua opinione.

Quindi, di fronte agli attacchi de “la Repubblica”, il Ministro avrebbe dovuto difendere il suo ufficiale o al più rimettersi alle decisioni della giustizia militare, invece di “farneticare” (lui) attraverso i social.

Nessuno gli ha dato questi consigli nel suo Gabinetto ministeriale o dai vertici delle Forze Armate? E allora qui viene la parte “sospetta” del comportamento tenuto nei confronti di Vannacci, perché già questo generale era stato rimosso dal comando della Folgore per essere esiliato alla guida di un reparto non operativo come Istituto Geografico Militare. E questa scelta è stata messa in relazione con le sue prese di posizione sulla vicenda dell’uranio impoverito contrarie alle versioni date dallo Stato Maggiore. Nelle decisioni di ulteriore destituzione prese in questi giorni c’è una continuazione dello stesso atteggiamento punitivo? Cioè, Vannacci sta pagando non il suo libello irriverente ma l’atto di coraggio di difendere, contro la versione ufficiale dei vertici militari, il diritto alla salute dei suoi sottoposti? Gianni Alemanno

Vannacci al contrario: la verità sul golpe editoriale estivo. Il Generale non è un improvvisato autore di bestseller ma uno degli autori di un gruppo di costituenti neocon nazionale. Il volume di Vannacci non è solo un caso mediatico: diversi indizi indicano come possa essere un vero e proprio programma politico neocon, contro i Crosetto che sono nella squadra di governo. Claudia Fusani su Il Riformista il 23 Agosto 2023

Un tentativo di “golpe” estivo in chiave neoconservatrice. Ecco a cosa assomiglia sempre di più “Il mondo al contrario”, il libro autoprodotto dal generale Vannacci via via che la politica s’impossessa del dibattito. Via via cioè che diventa evidente come il ministro Crosetto sia accusato fuori luogo visto che “l’inchiesta sommaria” (che è quella in corso) è un atto dovuto quando un generale in servizio prende posizioni così politicamente impegnative e pubbliche (basta leggere il Testo unico dell’ordinamento militare).

A una settimana dall’uscita si capisce che Salvini fa l’occhialino a Vannacci con l’unico scopo di ingraziarsi quella parte della destra che dopo un anno di governo non si riconosce più nella linea liberal-conservatrice della premier. La stessa di Crosetto e Giorgetti.

La destra sociale di Alemanno e Storace, per intendersi, che cerca di rivestirsi con i panni dei neocon in cerca di casa e leader. Non è un mistero per nessuno che le elezioni europee decideranno ben più dei destini dell’Europa. Il 2024 sarà l’anno delle elezioni Usa e alcuni candidati di destra sono ancora più conservatori di Trump. La sinistra deve farsi qualche domanda e darsi risposte urgenti. Chi sta al centro ha responsabilità enormi.

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In questa grande partita, c’è la piccola partita del destracentro italiano: Meloni è ancora molto alta nei sondaggi e la sfida tra Salvini e Tajani è per chi arriverà secondo. Perchè il terzo sarà fuori dai giochi. Il segretario di Forza Italia faccia un supplemento di riflessione su questo. Il libro di Vannacci si colloca esattamente in questa dinamica.

Gli indizi sono talmente gravi, precisi e concordanti da costituire – scriverebbe un giudice – la certezza dell’esistenza del fatto. Ma arriveranno presto anche le prove che “Il mondo al contrario” non è un pamphlet scritto da un generale messo nell’angolo dai comandi dell’esercito e desideroso di far sapere qual è la sua visione della società, della politica, delle scelte locali e globali su ambiente, energia, multiculturalismo, tasse, sicurezza, emergenza abitativa, urbanistica, difesa, famiglia, sessualità e perfino animalismo (sono questi i capitoli in cui sono suddivise le 355 pagine del volume disponibile solo nel formato cartaceo).

Il libro è distribuito per ora da Amazon ma il generale Vannacci è già stato contattato dalla casa editrice il Cerchio in modo che non ci sia pericolo che Amazon lo censuri. Lui ci sta pensando, in modo che questo dibattito si prolunghi il più possibile. In piena campagna elettorale per le Europee, magari. Dopo una attenta lettura, appare in tutto e per tutto il programma di una nuova formazione politica, di un movimento o partito chiaramente teo-con che intende riunire gli scontenti di Fratelli d’Italia, della Lega e di Forza Italia, diventando il nuovo punto di riferimento della destra dopo il “fallimento” del quale potrebbe essere accusata Giorgia Meloni nel ruolo di premier. In prima battuta, si vuole probabilmente sostituire o almeno condizionare i “traditori” che la sostengono.

Vediamo dunque gli indizi che fanno ritenere che Roberto Vannacci sia non un improvvisato autore di best-seller bensì uno degli autori vari di un gruppo di costituenti neocon nazionale e, forse, il loro portavoce una volta usciti allo scoperto.

Primo indizio. La prosa ha l’incedere argomentativo tipico di alcune firme eccellenti del giornalismo di destra.

Secondo. Lo stile dei capitoli non è omogeneo, la sensazione è che a compilarli sia stato un collettivo di giornalisti-scrittori a ciascuno dei quali è stato affidato un tema.

Terzo. Le citazioni riguardano quasi sempre fatti accaduti negli ultimi mesi, settimane e addirittura giorni, compresi i danni provocati dal maltempo, a conferma che l’idea del pamphlet-programma sia nata ad inizio estate inoltrata e che il lavoro sia stato portato rapidamente a termine, senza nemmeno il tempo di una revisione editoriale più attenta. Peraltro, l’esposizione di vicende di cronaca a sostegno delle proprie tesi è un normale espediente degli editorialisti dei quotidiani.

Quarto. La decisione di mettere il libro in vendita a cavallo di Ferragosto per poi spingerlo mediaticamente proprio mentre la politica si prende una pausa, fa intendere la volontà di ottenere il massimo della visibilità. Con scaltrezza, il compito di dare la notizia per primi del successo ottenuto in pochi giorni su Amazon da “Il mondo al contrario” è stato demandato a testate che non fanno riferimento al destracentro di governo: hanno gridato allo scandalo per un paio di passaggi nell’ambito dei diritti civili che, oggettivamente, fanno accapponare la pelle ma non sono certo quelli politicamente più pericolosi. Inquietanti sono i passaggi sulla “democrazia che non riesce a dare risposte concrete”. E della simpatia per la Russia di Putin.

Il sesto indizio è più politico. Alcune considerazioni che Vannacci fa proprie sono farina della destra sociale e riguardano problematiche lontanissime dalla sua esperienza personale e lavorativa. Un esempio per tutti (se ne potrebbero fare a decine): “Le case green nelle città sono possibili, ma non ristrutturando gli obbrobriosi edifici dei palazzinari degli anni ’70, bensì abbattendoli e costruendone nuovi con i criteri, gli impianti e i servizi adeguati al moderno urbanesimo”.

L’indizio più rilevante è in chiaro: quasi un outing. È la frase che chiude il libro: “Grazie a tutti quelli che prenderanno spunto da questi miei bislacchi pensieri e si cimenteranno insieme nel titanico sforzo di raddrizzarlo, questo mondo sottosopra, fissandolo bene con zeppe, tiranti e picchetti affinché sia molto più tenace e resistente a contrastare i continui tentativi delle minoranze che lo preferiscono a testa in giù”.

A firmare la esplicita chiamata alle armi è il generale Vannacci, ma a ispirarla (o a vergarla) sembrano piuttosto quelli che dovrebbero, con lui, “cimentarsi nel titanico sforzo di raddrizzare il mondo sottosopra”. Un programma politico. Contro i Crosetto che sono nella squadra di governo.

Piccola nota a margine: Vannacci mi cita due volte come esempio di “radical chic progressista”. Rappresentante del pensiero unico. Stia sereno, generale: fiera di essere dalla parte opposta alla sua. Di cui è un impacciato frontman inconsapevole. Claudia Fusani

Da L’Unità.

Cosa ha scritto il generale Vannacci, il generale rimosso per il libro ‘Mondo al contrario’. A Vannacci, ieri destituito dal comando, non bastano tre lauree per sapere che la “anormalità”, per lui neutralmente oggettiva, è la causa della discriminazione delle persone omosessuali. Iuri Maria Prado su L'Unità il 19 Agosto 2023

Ha perfettamente ragione il generale Vannacci, quando dice che tanta gente la pensa proprio come lui a proposito di certe “anormalità” (la condizione omosessuale, per esempio) e del lavorìo delle solite lobby per imporre il “pensiero unico” che lui coraggiosamente contraddice. Idem per certe puntatine sul difetto di italicità degli atleti di colore e sugli ebrei che va bene che c’è stata la Shoah, ma non facciamone una cerchia di intoccabili.

Ha ragione: sono convincimenti diffusi. I discorsi del paracadutista sulla famiglia tradizionale, inibita alle infertili coppie omosessuali e giudiziosamente composta nei due lotti della produzione del reddito e dell’accudimento dei figli, ripete il comizio medio del raduno Falily Day e la parlata ricorrente del parlamentare di riferimento. Le divagazioni cui questo militare si abbandona nel lamentare che ormai non si sa più come definire uno con la pelle scura, perché c’è rischio di passare per razzisti, ripropone il canone politico-giornalistico in disappunto perché non può dire pane al pane e vino al vino e cioè che il ladro è uno zingaro e che lo stupratore è un africano.

Il saggista in mostrine che deplora il welfare in equilibrio discriminatorio, con l’immigrato per il quale lo Stato spende più che per il bisognoso nazionale, usa soltanto qualche parola supplementare per mettere in prosa i versi sintetici della poetica xenofoba e sovranista, e cioè “prima gli italiani”. Si tratta insomma della traduzione editoriale di una mozione sociale non solo profonda e diffusa, ma millimetricamente coincidente con il grande e rozzo schema politico-elettorale di una destra per cui quel ciarpame è e continua a essere il punto irriducibile del proprio accreditamento, l’indefettibile mistura di confessionalismo intollerante e nazionalismo antiliberale che tiene insieme gli intendimenti e le disinvolture di governo di una maggioranza altrimenti vacua.

Preoccupa dunque molto poco che un alto ufficiale dell’esercito se ne esca con quegli spropositi: dovrebbe preoccupare abbastanza, invece, che per molti non si tratti in nessun modo di spropositi ma di verità interdette, le cose che il “pensiero unico” fa divieto di pronunciare a pieno detrimento di un’Italia tanto migliore se i ricchioni potessero essere chiamati ricchioni e se fosse finalmente possibile stabilire un’aggravante se lo stupro è commesso da un immigrato.

Il conseguimento di tre lauree (leggo che tante ne ha ottenute) non è bastato a questo Vannacci per sapere che esattamente la “anormalità”, per lui neutramente oggettiva, è stata e continua a essere la causa della discriminazione delle persone omosessuali, o per sapere che proprio il preteso “privilegio” ebraico ha rappresentato la tintura per la redazione delle leggi razziali, o per capire che la graduatoria del bisogno si fa misurando il bisogno, non il grado di melanina. Ma questo è un problema solo suo. È invece un problema di tutti se lui ha ragione quando dice che tanti la pensano come lui. E ha ragione.

Iuri Maria Prado 19 Agosto 2023

Da Il Domani.

Streghe, «invertiti», patria e armi: dieci frasi dal libro “Mondo al contrario” di Vannacci. Il Domani il 22 agosto 2023

Il gay pride è «turpe e blasfemo», le femministe sono «fattucchiere» e un’etnia «prevale sempre sulle altre». Il libro scritto dal generale Roberto Vannacci e che ha scatenato polemiche anche a destra contiene la filosofia di vita del militare e le storture che secondo lui abitano la società di oggi, a partire da omosessuali e femministe

Il libro del generale Roberto Vannacci, Il mondo al contrario, ha aperto lo scontro a destra tra sostenitori delle sue tesi e chi invece ritiene che un militare abbia il dovere della neutralità. Nel libro, Vannacci presenta il mondo per come dovrebbe essere secondo lui e spiega perché invece oggi funzionerebbe al contrario.

Abbiamo sfogliato il libro e selezionato dieci estratti che spiegano la visione del militare sui temi principali affrontati.

LA SOCIETÀ

«L’esperienza maturata in questi paesi logorati da guerre e conflitti mi ha anche messo davanti agli occhi una banalità ben chiara a chi la storia e l’antropologia l’ha studiata approfonditamente, ovvero, che tutte queste diverse etnie sono riuscite a convivere quasi pacificamente fintanto che una ha prevalso sulle altre, imponendo il proprio codice comportamentale oppure, fintanto che è esistita una terza entità che le abbia dominate smussando gli aspetti più estremisti di ogni cultura e obbligandole al rispetto di norme comuni».

MONDO LGBTQ

«Cari omosessuali, normali non lo siete, fatevene una ragione! Non solo ve lo dimostra la Natura, che a tutti gli esseri sani “normali” concede di riprodursi, ma lo dimostra la società: rappresentate una ristrettissima minoranza del mondo. Quando vi sposate ostentando la vostra anormalità la gente si stupisce, confermando proprio che i canoni di ciò che è considerato usuale e consuetudinario voi li superate».

IL GAY PRIDE

«Non ricordo un Gay Pride in cui il tema dominante non sia stato sconcezze, stravaganze, blasfemie e turpitudini. Anche le ultimissime versioni della sfilata hanno messo in gran mostra nudità volgari ed effusioni erotiche nebulizzate qua e là per tutto il corteo e immerse in una moltitudine di manifestanti oggettivamente più contenuti. Rispetto al passato la manifestazione ha preso potenza, carattere e piglio: non si limita ad una sfilata di travestiti più o meno buffi ed esibizionisti, ma ha assunto una connotazione decisamente politica e rivendicatoria».

IL LESSICO 

«Dobbiamo ricorrere ad un idioma straniero e chiamarli gay perché i vocaboli esistenti sino a pochi anni fa nei dizionari, che sfogliavamo girandone le sottili pagine con la punta dell’indice inumidita, sono tutti considerati inappropriati, se non addirittura volgari ed offensivi. Pederasta, invertito, sodomita, finocchio, frocio, ricchione, buliccio, femminiello, bardassa, caghineri, cupio, buggerone, checca, omofilo, uranista, culattone sono ormai termini da tribunale, da hate speech, da incitazione all’odio e alla discriminazione e classificati dalla popolarissima enciclopedia multimediale Wikipedia come “lessico dell’omofobia”.

Non ci resta che chiamarli gay importando un’altra parola straniera nel nostro lessico italiano, ma facendo attenzione al tono della voce e all’espressione del volto mentre pronunciamo il tri-letterale neologismo perché potremmo essere percepiti come aggressivi, escludenti e denigratori».

LE FEMMINISTE

«Altra incredibile bordata proviene dal movimento femminista che si batte per l’emancipazione della donna. Oltre a promuovere istituzioni come il divorzio e l’aborto al suon dello slogan “tremate, tremate, le streghe son tornate” si oppone alla figura femminile intesa come madre. Le moderne fattucchiere sostengono che solo il lavoro ed il guadagno possono liberare le fanciulle dal padre padrone e dal marito che le schiavizza condannandole ad una sottomessa, antiquata, involuta ed esecrabile vita domestica».

LA NORMALITÀ

«Il lavaggio del cervello a cui siamo sottoposti giornalmente volto ad imporre l’estensione della normalità a ciò che è eccezionale ed a favorire l’eliminazione di ogni differenza tra uomo e donna, tra etnie (per non chiamarle razze), tra coppie eterosessuali e omosessuali, tra occupante abusivo e legittimo proprietario, tra il meritevole ed il lavativo non mira forse a mutare valori e principi che si perdono nella notte dei tempi? 

Per non parlare dei molti che, ritenendosi cittadini di un mondo universale e portatori di valori irrinunciabili vogliono cancellare le frontiere, i confini, gli stati, la cultura, la civiltà e persino la Patria per la quale si sono sacrificati milioni di nostri parenti e predecessori».

TOLLERANZA ZERO

«Ragionamenti abbastanza diretti quali “chi sbaglia paga”, “tolleranza zero”, “se non ci sono più posti nelle carceri costruiamone altre” vengono censurati e accantonati in nome di un’estrema complessità del fenomeno che non può essere gestito con soluzioni definite troppo dirette e semplicistiche. Quando, invece, almeno per le violazioni minori ma che più direttamente affliggono i cittadini, sono proprio queste soluzioni ad avere garantito il rispetto delle regole».

LA LEGITTIMA DIFESA

«La proporzionalità della difesa, quindi, dev’essere commisurata con la minaccia percepita dall’aggredito e non con il valore dell’oggetto che poteva essere ingiustamente sottratto. Cosa ne so che il malvivente che aspira al mio portafogli non è pronto ad ammazzarmi anche a mani nude per ottenerlo? Cosa ne so se, anche disarmato, non possa usare oggetti contundenti per mettere in pericolo la mia vita? Cosa ne so se in tasca non abbia un martello o un cacciavite da usare prontamente?

E se pianto la matita che ho nel taschino nella giugulare del ceffo che mi aggredisce – ammazzandolo – perché dovrei rischiare di essere condannato per eccesso colposo di legittima difesa visto che il povero malcapitato tentava solo di rubarmi l’orologio da polso? Perché devo provare che in quel repentino, concitato e adrenalinico nanosecondo a disposizione per decidere cosa fare non ho potuto valutare un’alternativa meno violenta che preservasse il povero assalitore?». 

LE FAMIGLIE

«Tutte le collettività evolute hanno il problema di non farli nascere i bambini piuttosto che di promuovere la procreazione. È per questo che ci siamo inventati i preservativi, le pillole anticoncezionali e l’aborto! Le eccezioni, pertanto, come nel famoso proverbio, confermano le regole e non le abrogano.

Nel nostro bel Mondo al Contrario siamo arrivati al paradosso dei paradossi: chi potrebbe avere dei figli non li fa e viene dissuaso dal farli sia per ragioni economiche ma anche perché ormai si è socializzata l’idea che avere una prole significa rinunciare alla libertà, all’emancipazione, alla carriera e ad una vita cosiddetta “moderna”; chi invece i figli non li può avere, come le coppie omosessuali, è pronto a qualsiasi espediente per ottenere un paio di pargoli sostenuto in questa assurda tenzone da una pletora di finti moralisti».

IL DIRITTO ALLA GENITORIALITÀ

«Il tanto proclamato “diritto alla genitorialità” non esiste né nell’uomo né nel regno animale. Per quanto sia sicuramente fuori luogo parlare di “diritto” applicato ai fenomeni naturali – governati da ben altre leggi rispetto a quelle dei codici giuridici – è manifesto che in Natura sono prevalentemente i dominanti ad accoppiarsi. L’opzione di procreare, quindi, più che un diritto verrebbe definita un privilegio riservato ai pochi che, più di altri, danno dimostrazione di quelle caratteristiche irrinunciabili a fare progredire la specie.

Una vera e propria élite che si guadagna spesso a suon di cornate, lotte, morsi, calci e lunghe azzuffate il privilegio di mettere al mondo un altro esemplare della propria varietà. La Natura, quindi, ragiona proprio con una logica opposta a quella che vorrebbe imporre il concetto di “diritto alla genitorialità” che, in quanto tale, dovrebbe essere invece esteso senza alcuna discriminazione ad ogni elemento della società umana».

Da Dagospia.

DAGOREPORT domenica 20 agosto 2023.

Non si può criticare il gay pride perché sei omofobo; non si può criticare la cancel-culture che corregge persino le fiabe (una delle prime vittime lo scrittore per ragazzi Roald Dahl ) perché non sei inclusivo; non puoi in un colloquio di lavoro preferire un uomo a una donna perché sei misogino e antifemminista; non si possono criticare (dati alla mano) comportamenti degli immigrati perché sei razzista; non puoi criticare un Lgbtq+++ perché sei un fascista difensore dell’ideale Dio, Patria, famiglia; non puoi criticare le adozioni gay perché diventi un “infanticida” ecc. ecc…

Sostanzialmente, il rude e rozzo libello del generale Vannacci è un j’accuse verso una società dove le Minoranze (ex discriminate) hanno ora un’autostrada spianata di privilegi mentre una Maggioranza silenziosa deve sempre stare zitta perché altrimenti i facitori dell’opinione pubblica (giornali, tv, università, tribunali, élite, opinionisti radical chic, insomma: il “sentiment”, lo “Spirito dei tempi”) ti saltano addosso e fanno in modo che tu venga espulso o marginalizzato sul lavoro (codici etici alla mano), dalle università (pronunciamenti dei Senati accademici), messo in un cono d’ombra su giornali e tv, in una parola cancellato.

Basti pensare all’allontanamento del responsabile del gruppo Group Captain Elizabeth Nicholl chiamato a selezionare i piloti della Royal Air Force al quale fu imposto di favorire donne, neri e minoranze etniche invece che basarsi su criteri meritocratici (e chi lavora oggi in università, giornali, moda, ecc sa benissimo che avviene così quotidianamente). 

Che un simile libello facesse casino, il Vannacci lo sapeva benissimo visto il colossale maniavantismo delle prime pagine: “Quest’opera rappresenta una forma di libera manifestazione del pensiero ed espressione delle personali opinioni dell’autore e non interpreta posizioni istituzionali o attribuibili ad altre organizzazioni statali e governative”.

E ancora: “L’autore declina ogni responsabilità in merito a eventuali interpretazioni erronee dei contenuti del testo e si dissocia, sin d’ora, da qualsiasi tipo di atti illeciti possano da esse derivare”; quindi, il casino era previsto. 

Le tesi del libro sono due. La prima è che il “sovvertimento di quella che la moltitudine intende come normalità è prodotto da esigue e sparute minoranze che prevaricano il sentire comune”. 

La seconda è quella della sovra rappresentanza delle minoranze nei sistemi che formano e indirizzano la società (le casematte gramsciane?), sebbene qui anche il coraggioso generale non abbia il coraggio di citare la più potente delle lobby minoritarie sovrarappresentate.

Perché tutto ciò avvenga o sia avvenuto Vannacci non lo sa, non gli interessa o non ha gli strumenti per comprenderlo: non è un filosofo come Pascal Bruckner autore di “Un colpevole quasi perfetto: La costruzione del capro espiatorio bianco” o come Alain de Benoist, autore di “La nuova censura. Contro il politicamente corretto”, non ha l’ironia del compianto critico d’arte Robert Hughes autore di “La cultura del piagnisteo” (Adelphi) e non analizza ragioni; da militare va giù con una militante ascia di guerra.

Il metodo da lui rivendicato è quello dell’uso del “buon senso” comune, che pure Cartesio suggerisce nelle prime pagine del “Discorso sul Metodo”.

La sua crudezza, però, più che da Razionalista è degna di un generale Wallenstein che infiocinerebbe volentieri graffittari, ambientalisti da apocalisse climatica, gay che “pretendono figli” con uteri in affitto per non parlare di chi sta sul divano a riscuotere il “reddito di cittadinanza”, ma anche terrapiattisti, no-vax e, infine, i “fluidi che sovvertono il passato”.

Ecco, quest’ultimo passaggio rivela l’idea di fondo del generale che, lui non lo sa, ma è quella del filosofo tedesco Herder: è la storia, la tradizione a dettare lo sviluppo delle comunità civili, non astratte autodeterminazioni rivoluzionarie e contingenti che vengono da chissà dove e spingono ora dei poveri adolescenti persino ad andare contro la Natura e pretendere di voler scegliere di che sesso essere. 

Più nel dettaglio – stigmatizzando molti esempi sommari – “l’assalto” a quella “normalità” vista dai facitori di opinione come qualcosa di sfigato (l’epitome di questo è marito che lavora, moglie a casa, due figli, cultura media e provenienza dai centri non urbani, vedi cap. VII) è sostenuta da attori forti, di cui uno è l’Unione Europea con le sue leggi su i “Genitori 1 e 2”, le “Buone feste” anziché “Buon Natale” e tutte le paradossali e ridicole riforme linguiste del politically correct – schwa, operatore ecologico, direttore/trice, soprano/a, soldatessa -  finalizzate a “non offendere nessuno” che si trasformano in un azzeramento della tradizione e in una caccia alla discriminazione in ogni espressione.

“L’assalto alla normalità” è poi sostenuto dal “giornalismo strampalato” che dedica quotidianamente paginate a questioni irrilevanti, dai bagni transgender alle dichiarazioni di Greta (“che non è afghana e proviene da uno dei paesi con il PIL più alto del mondo”), queste ultime mai accompagnate da quanto l’Illuminismo e la Rivoluzione industriale  hanno consentito all’umanità di migliorare le condizioni di vita e senza mai sottolineare che una delle cause di CO2 è dovuta proprio all’uso delle nuove tecnologie e agli spostamenti aerei che la generazione ambientalista (segnata da una spaventosa crescita demografica) diffonde.

A questo proposito il generale irride iniziative come quella del sindaco di Milano Giuseppe Sala “forestaMI”, ovvero piantare tre milioni di alberi ad alto fusto (ma dopo il nubifragio di 15 giorni fa forse l’idea è rientrata, un po’ come quella di ripopolare di orsi e cinghiali le aree boschive). 

Contro i sottotetti che richiedono climatizzazione, il generale porta grafici e dati dell’Agenzia Europea per l’Ambiente dove si parla di 17% di inquinanti in meno emessi dagli anni Novanta ad oggi: “La petizione che richiede lo stop immediato a nuovi impianti di estrazione di derivati fossili, firmata a gennaio scorso da quasi un milione di gretini e consegnata al World Economic Forum di Davos è una vera condanna al suicidio economico ed industriale”, scrive il generale della Folgore.

Le principali proteste ambientaliste “sono sostenute da associazioni come Climate Emergency Fund, con sede nella ricchissima ed esclusiva Beverly Hills”. Le osservazioni contro l’ambientalismo di maniera riempiono la prima parte del libello, dedicata anche al tema del reperimento energetico: il generale è per usare, con criterio, tutte le fonti a disposizione e sul tema della “sicurezza energetica” dimostra vasta competenza.

Dal capitolo IV, guidato dal politologo Samuel Huntington (“Un Paese composto di più civiltà è un Paese che non appartiene a nessuna civiltà ed è privo di un suo nucleo culturale costitutivo”) il generale attacca la società multiculturale e multietnica. 

Non è vero che funziona né nei ricchissimi Stati Uniti che sostengono il “melting pot” ma sono lacerati e non coesi (come dimostra anche il movimento Black lives matter), né nella poverissima castale India (per non parlare della sua esperienza diretta con i gruppi afghani Pasthum, Tagichi, Hazara…). 

Nel primo caso, inoltre, lo sviluppo della società multietnica non si palesa come scelta spontanea bensì come una necessità esito del colonialismo (o dello schiavismo) e “dalla necessità di importare forza lavoro a basso costo per la globalizzazione”: qui l’avversario n.1 è il finanziere-filantropo Soros e il sistema finanziario-economico che mette in crisi in concetto di cittadinanza. L’esito al quale portano gli immigrazionisti (se la prende, in particolare, con la giornalista Claudia Fusani) è quello della disappartenenza a una tradizione.

Diciamolo pure: gli esempi del generale sempre privi di pietas: basta con il perdonismo verso le zingarate dei Rom, basta con l’assistere agli stupri da parte di chi arriva da culture diverse e ha una diversa concezione della donna, basta con i tentativi multiculturalisti di giustificare persino l’omicidio della povera Saman Abbas. 

Anche questo è un punto dirimente del libro: l’Europa ha una propria cultura e tradizione da testimoniare, difendere e trasmettere oppure la sua neo-cultura è neutra, fluida e si basa sulla inclusione di ogni cultura per senso democratico? 

Perché, però, quando un europeo va all’estero si pone come primo problema quello di rispettare la cultura degli altri, persino se “totalitaria”? L’invettiva è ficcante ma la risposta un po’ rozza, ed è quella australiana: “Non farete dell’Australia la vostra casa” scandisce duramente lo spot della campagna antiimmigratoria denominata “No Way” varata da Melbourne.

Oppure la risposta è quella del ministro Sunak che, in quanto immigrato indiano si può permettere senza che nessuno lo mandi sulla forca mediatica di trasferire in Rwanda i clandestini. E c’è anche un’Africa (in particolare il Marocco) “che vorrebbe chiudere le porte ai clandestini africani”.

Seguono nel libro i capitoli dedicati alla Legittima difesa: tra le righe emerge una critica al buonismo della Magistratura verso i reati minori che trasformano l’Italia nel paese di Bengodi per la microdelinquenza. 

Se danneggi deliberatamente un’auto o un edificio “te la cavi forse con un rimprovero”, “devi stare attento a segnalare i rei e gli spacciatori: ne sa qualcosa lo scavezzacollo Vittorio Brumotti e borseggiare a Milano rientra nei sempre più numerosi diritti di uno stato democratico”, se filmi i borseggiatori rischi grosso. 

Eppure, ricorda Vannacci, fu “l’onorevole Boldrini, applaudita da tutti i progressisti ed acclamata dalle femministe, a lanciare la campagna #eiotipubblico” per chi parcheggiava indebitamente sul posto handicappati. L’iniziativa fu subito sostenuta da “Ilaria Cucchi, dell’onnipresente Michela Murgia, Arisa, Nina Zilli, Maria Elena Boschi, Monica Cirinnà, Lucia Azzolina e Rula Jebreal”: insomma, siamo ai soliti due pesi e due misure, all’ipocrisia della Sinistra.

A proposito della Murgia, la famiglia queer o le coppie transgender disgregano la famiglia naturale che è base della comunità. Come Corrado Ocone (Dagospia 13 agosto) molta della cosiddetta intellighenzia che sostiene queste tesi finge anticonformismo e vittimismo ma è, invece, pienamente inserita nel sistema di potere mediatico-culturale dominante e rappresenta la trasformazione dal vecchio marxismo degli intellettuali “impegnati” alla relativistica cultura della fluidità attuale.

Il pianeta Lgbtq+++ (IX capitolo) è affrontato a partire dal tema della sua sovrarappresentanza nella Comunicazione: dati Istat affermano che solo il 2% della popolazione italiana non è eterosessuale: perché, dunque, questa ossessione a parlarne? Non si potrebbe dibattere di pensioni, sanità, lavoro, cultura…? Poi il generale si avventura in più perniciose osservazioni, tipo quella che solo in “500 specie animali su 945.000 l’omosessualità è conosciuta”.

Giunti a pagina 243 troviamo l’affermazione che ha spinto sul rogo autore e libro: “Cari omosessuali, normali non lo siete, fatevene una ragione! Non solo ve lo dimostra la Natura, che a tutti gli esseri sani normali concede di riprodursi, ma lo dimostra la società: rappresentate una ristrettissima minoranza del mondo”.

Sul tema finiscono nel mirino Pina Picierno, Alba Parietti, Alessandro Zan (p.273 e ss.)  e, addirittura, il linguista Noam Chomsky (queste sproporzioni mostrano la scarsa attitudine dell’autore alla saggistica). 

I principali accusati sono i due intellettuali omosessuali Marshall Kirk e Hunter Madsen autori di “After the ball”, il manifesto arcobaleno. Poi, al solito, al generale scappa di mano la penna: “Dobbiamo ricorrere ad un idioma straniero e chiamarli gay perché i vocaboli esistenti sino a pochi anni fa nei dizionari sono tutti considerati inappropriati, se non addirittura volgari ed offensivi: pederasta, invertito, sodomita, finocchio, frocio, ricchione, buliccio, femminiello, bardassa, caghineri, cupio, buggerone, checca, omofilo, uranista, culattone sono ormai termini da tribunale, da hate speech, da incitazione all’odio”.

Oggi, dichiararsi Lgbtq+ vuol dire essere intoccabile e godere di privilegi nell’alta società (cita il caso del migrante che si definì gay e ottenne il riconoscimento di rifugiato al tribunale di Trieste).  

Nel nome dell’inclusività Lgbtq+ la Sony è stata spinta a rivedere la favola di Cenerentola facendo interpretare la fatina da Billy Porter, uomo afroamericano dichiaratamente gay e la Mattel a pubblicizzare la versione gay-friendly di Barbie, raffigurata con l’amica moretta mentre indossano una maglietta su cui risalta la scritta arcobaleno “Love wins”.

Negli uffici, gli Lgbtq+ sono iperprotetti perché tutti ormai temono di poter essere accusati di mobbing nei loro confronti. Ma, cita il generale, in base all’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), per discorsi d’odio per orientamento sessuale tra il 2017 e il 2019 le segnalazioni in media sono state 57 l’anno mentre le stime dei geriatri riscontrano che 2,9 milioni sono gli anziani maltrattati psicologicamente (nota p.281).

Nel mondo al contrario fotografato dal generale è a rischio anche la casa per il lassismo verso abusivismi e sfratti mai eseguiti (immaginiamo presto un invito da parte di Mario Giordano) e, ancor più, la Patria. 

Da un lato della bilancia pesa il disgustoso disinteresse dei giovani per il sacrificio degli avi per conquistare loro la libertà dall’altro, però, anche l’incapacità del generale di comprendere che le società dell’avvenire potrebbero andare anche oltre il concetto di Patria e nazione.

Nessuno conosce l’Inno nazionale: “L’inno nazionale è il secondo a essere aggredito. In primo luogo, non viene insegnato: abbiamo dovuto aspettare il 2012 per una legge che prevedesse l'illustrazione dell'Inno d’Italia nelle scuole elementari. Nonostante questa disposizione prescrittiva i nostri ragazzi, quando va bene, ne conoscono solo le prime due strofe”. In compenso – e qui esce lo sprezzante destrismo dell’autore – conoscono “le zingaresche note della ballata di Bella Ciao”. 

Per quanto riguarda le città in cui si affolla più del 50% della popolazione mondiale che si avvia agli 8 miliardi, ciclabili e Ztl per ricchi non convincono il generale che bolla di ingenuità i “nuovi urbanisti” che pensano di risolvere un problema enorme con “mobilità ecologista e alternativa fatta di biciclette e monopattini elettrici, mezzi pubblici che scarseggiano e salutari passeggiate”: la città ecofriendly è per single benestanti.

Sul “Journal of Epidemiology and Community Health” si rivela inoltre che l’introduzione del limite a 32 Km all’ora in città (lo studio è su Belfast) non ha comportato alcuna “differenza statisticamente significativa” sul tasso a lungo termine di incidenti e vittime. Sul tema della città la più disprezzata è la sindaca Anne Hidalgo: “I parigini hanno sempre più paura quando escono la sera e poco li confortano i lungosenna pedonali, le spiagge cittadine e i monopattini elettrici”. E’ questo un “ambientalismo ideologico e farlocco”. 

L’ultimo capitolo è dedicato all’animalismo di maniera e qui sembra di risentire quel discorso di Papa Francesco di alcuni anni fa di una società che privilegia gli animali alle persone (caso orsa-runner) con buona fortuna della pet economy.   Non una parola contro Forze Armate, Stato o Governi della Repubblica.

Il rude e duro generale – che non è uno studioso - sbanda sulle fonti, nel linguaggio crudo e quando si lancia in accostamenti o osservazioni genericissime (“il torto dell’uomo è di essere la specie dominante da 50.000 anni” ecc), ma il suo rustico libello-invettiva è un megafono di quella Maggioranza silenziosa che si alligna nei Paesi europei stufa dell’imposizione di modelli socio-culturali più o meno importati dal globalismo americano dopo che questo aveva importato dall’Europa le cosiddette French Theories, ovvero il pensiero dei vari Derrida, Foucault, Lacan… 

Dunque, sebbene chi la pensi come lui si dice che, in genere, non legga libri, il primo posto in classifica su Amazon ci sta tutto. Se un dirigente di una Onlus avesse pubblicato un simile libello di segno (ovviamente) opposto primarie case editrici italiane, come Feltrinelli o Einaudi, l’avrebbero certamente editato. Il fatto che il generale sia ricorso al self-publishing la dice lunga sullo stato di schieramento dell’intera editoria italiana.

Marco Zonetti per Dagospia domenica 20 agosto 2023. 

Dopo le dichiarazioni del generale Roberto Vannacci sui gay, che tanto scalpore hanno destato e che gli sono costate la destituzione dal comando, sorge spontaneo un interrogativo: quanti saranno gli omosessuali nelle forze armate? 

Secondo Polis Aperta, l'associazione LGBTQ+ che raduna uomini e donne omosessuali nelle forze dell'ordine, i gay e le lesbiche in divisa che vivono apertamente il loro orientamento sessuale raggiungerebbero addirittura il 10%, uno su dieci, cifra approssimata per difetto poiché non conteggia quei poliziotti e militari che invece preferiscono tacere sul proprio orientamento sessuale. 

“Molti poliziotti e militari hanno paura di fare coming out," dichiara l'agente di polizia Simonetta Moro, già presidente di Polis Aperta, "hanno paura che rivelare il proprio orientamento sessuale possa bloccare la carriera". 

E riguardo alla carriera degli omosessuali in divisa, qualche anno fa si espresse un pezzo grosso dell'esercito, addirittura un omologo di Vannacci, ovvero il generale Fabio Mini, ex capo di Stato Maggiore del Comando Nato delle forze alleate del Sud Europa. 

Prima in un'intervista all'Espresso e poi ai microfoni di KlausCondicio condotto da Klaus Davi, Mini raccontò testualmente: "Nell'esercito italiano resiste il mito del macho, l’uomo duro tutto di un pezzo, ma nella mia lunga carriera ho riscontrato moltissimi gay a tutti livelli, anche fra i vertici come i generali [...] Alcuni generali hanno promosso i loro favoriti e agevolato la loro carriera". 

Questi generali omosessuali, e in generale i gay e le lesbiche appartenenti alle forze dell'ordine, come avranno accolto le parole di Vannacci sulla loro "anormalità"? Sarebbe interessante saperlo. 

Estratto dell’articolo di Matteo Pucciarelli per repubblica.it domenica 20 agosto 2023.

Lo chiameremo Andrea, è un ufficiale che lavora in un comando dell'Esercito, nel quale presta servizio da oltre trenta anni e con varie missioni all’estero. Un veterano insomma, e in carriera. Aggiungiamo un particolare di non poco conto: omosessuale dichiarato. 

Partiamo da giovedì mattina: legge quelle parole del libro di Vannacci e pensa?

“Sincera verità: prima verifico e controverifico, perché mi dico: ma è impazzito? Di Vannacci non avevo mai sentito parlare. Avute le conferme ho provato un forte sdegno, come omosessuale e come soldato. Ho pensato a me stesso e a chi ha le spalle meno larghe delle mie. Ho pensato a un 18enne che magari non si arruola più. Poi si va per associazione: uno legge che un generale ha questa opinione e poi pensa che tutto l'esercito sia così”. 

E non è così, dice lei.

“Leggere l'immediata presa di distanza dell'esercito e le parole del ministro mi ha rassicurato […]. Quando sei in uniforme devi essere al di sopra di ogni commento personale, quel grado che hai davanti significa che sei pagato dai cittadini per aiutare la popolazione, per difenderla, per stare al servizio della comunità. Se esterno le mie idee politiche cambio la prospettiva del mio ruolo”. 

[…]  Vannacci si appella alla libertà di parola: ha ragione?

“Penso abbia torto. Se io mi chiamo Luca Rossi e sono un colonnello dell'esercito, domani esco con un libro e voglio parlare del problema delle api che diminuiscono, nella biografia non metto che sono militare. Teoricamente posso pubblicarlo senza avvertire nessuno, anche se io per scrupolo lo manderei in visione ai superiori.

Ma se ne scrivo uno dove faccio molti riferimenti alle mie operazioni passate, sto mettendo in campo porzioni di storie avvenute in servizio. Già per quello devo chiedere l'autorizzazione. Quando lui parla di operazione "di pace" tra virgolette, quando parla di ambasciata a Mosca e ha favorito alcune persone per un visto, quello è parte del servizio”. 

[…] Qual è il clima nell'esercito dopo questa vicenda?

“Per quelli che ho sentito io e hanno fatto coming out, non sono tantissimi, più che arrabbiarsi si sono impauriti. Diciamo che ti fa guardare intorno con più sospetto, per loro leggere le parole dello stato Maggiore e del ministro è stato un enorme sollievo”. 

Lei è mai stato discriminato in qualche modo?

“Assolutamente no. Feci coming out sulla soglia dei 50 anni, perché erano cambiati i tempi, il mondo finalmente si stava aprendo, l'Oms aveva finalmente cancellato il passaggio in cui definiva l'omosessualità disturbo della personalità. Prima ho fatto finta per anni di essere etero, ho sentito molte battute sui gay ma come le senti ovunque”.

Lei come fece coming out?

“Non c'è stata una dichiarazione solenne, non lo fai un giorno, ne fai tanti in contesti diversi, è un percorso. Ora non ho più problemi a dirlo. Però ritengo importante farlo sapere anche come esempio per i giovani. Magari senza vestiti sgargianti vado ai Pride, nella convinzione che un diritto in più per una categoria è un diritto in più per tutti. Così come uno in meno”. 

Tornando a Vannacci: averlo trasferito, tolto dal comando, è abbastanza? O fosse per lei Vannacci non dovrebbe più portare la divisa?

“Parliamoci chiaro: di fatto la sua carriera militare finisce qui.  […]”. 

[…] Il machismo rimane un problema nell'esercito?

“In alcuni ambienti della società rimane, nelle forze armate non è più un fenomeno tossico, l'introduzione delle donne dal 2000 ha cambiato tutto, oggi comandano battaglioni di 500 persone. C'è una forte componente di orgoglio ma riguarda il senso di appartenenza al corpo, tu sei l'extrema ratio di fronte alla crisi di qualsiasi tipo e questo inorgoglisce. Anche chi entra per cercare un lavoro poi dopo si fa trasmettere questo senso: aiuti alla popolazione dopo i terremoti, interposizione pacifica nei conflitti, in Romagna dopo l’alluvione abbiamo aiutato migliaia di persone. Ti senti al servizio dell'altro, questo è fare il soldato”. 

Secondo lei perché Vannacci ha scritto quel libro? Non immaginava il putiferio?

“Non so quanto si guadagna a pubblicare un libro su Amazon. Sembra quasi un atto liberatorio di una persona che si è stufata. Non si immaginava una ribalta del genere e forse si aspettava in maniera sbagliata che qualche politico lo difendesse, invece non è stato così. Al massimo chi la pensa come lui sta in silenzio”.

Marco Zonetti per Dagospia il 7 Settembre 2023

Fra i tantissimi fan del generale Roberto Vannacci, che spuntano come funghi dopo la pubblicazione del fenomeno letterario politicamente scorrettissimo “Il mondo al contrario”, spicca senz'altro la moglie Camelia. 

Già chiamata in causa da Natalia Aspesi in un editoriale di fuoco, Camelia Mihailescu sposata Vannacci, di origine rumena, è la bella consorte del generale (e dell'uomo) attualmente più discusso d'Italia - nel bene e nel male.  

Mamma delle loro figliolette Elena e Michela piccole campioncine di Triathlon, Camelia sostiene a spada tratta sui social il suo Roberto, lieta del successo editoriale che lo ha travolto, e disquisisce in italiano, inglese e rumeno con gli entusiasti fan del generale che commentano il libro.  

Si discute quindi che gli omosessuali siano dei privilegiati, e che dall'alto delle loro posizioni di potere promuovano altri omosessuali invece degli etero, anche nelle forze dell'ordine - "the brotherhood of the ass", la "confraternita del culo", scrive un commentatore su un post di Camelia. Ma anche del fatto che alle donne si dica di non fare più figli e poi invece si diano a chi non può averne. Insomma, tematiche che nell'estate 2023 dopo l'uscita de Il mondo al contrario hanno occupato militarmente, è il caso di dirlo, i media.

Tornando a madame Vannacci, dai suoi post sui social apprendiamo che ama gli animali e che è appassionata di fitness, come dimostra il gran bel fisico sfoggiato in un video che la ritrae in palestra  

Pronta a diventare anche lei un personaggio mediatico? La vedremo prossimamente intervistata in qualche talk show, a tutta pagina su qualche rotocalco patinato o magari protagonista in qualche reality?  

Piuttosto telegenica e con qualche rassomiglianza con l'ex miss Italia Cristina Chiabotto, chissà, la bella Camelia potrebbe perfino offuscare mediaticamente il marito. In omaggio al quale fioccano sui social i profili celebrativi, con una marea di aficionados che lo vogliono addirittura presidente del Consiglio. Camelia potrebbe essere la prossima first lady italiana? In un "mondo al contrario", come ci insegna il marito, può succedere di tutto.

Da Panorama.

La vera posta in palio è la libertà di parola. Maurizio Belpietro su Panorama il 22 Agosto 2023

La lapidazione è partita da chi non aveva nemmeno letto il saggio incriminato, che in realtà contiene le tesi di buon senso di un conservatore. Spiace che nella maggioranza ci sia chi è caduto nel tranello della sinistra.

Una cosa mi pare ormai assodata: tutti quelli che hanno commentato il libro del generale Roberto Vannacci, gridando allo scandalo, non lo hanno mai letto. Il dubbio, a dire il vero, mi era venuto subito, quando ho scorso la cronaca del nostro Claudio Antonelli, il quale dopo aver letto l’articolo con cui Repubblica accusava l’ex comandante della Folgore e del Col Moschin di aver dato alle stampe un libello razzista, con insulti ai gay e tesi negazioniste, si è messo a leggere le quasi 400 pagine del volume. Risultato, il collega si è subito reso conto di essere davanti a una mistificazione confezionata dal quotidiano radical chic di casa Agnelli. Infatti, le offese e le sciocchezze elencate dal giornale, nel testo reperibile online non c’erano o erano riportate in maniera diversa da come sono state presentate. Antonelli, nel suo articolo, fin dal primo giorno aveva avvertito i lettori che, pur non condividendo tutto di ciò che vi aveva trovato, mettendo anche in discussione la forma con cui alcune tesi erano presentate, alla fine nel Mondo al contrario del generale che ha comandato i corpi d’élite dell’esercito e pure la missione in Afghanistan non aveva trovato nulla di scandaloso.

La Costituzione privata di Elly Schlein. Andrea Soglio su Panorama il 21 Agosto 2023

Secondo il segretario dem, riferendosi al libro del generale Vannacci, «la Costituzione non mette tutte le opinioni sullo stesso piano»...

«Articolo 21 Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Tutti hanno diritto. Tutti. Diritto di opinione, libertà di opinione. Uno dei fondamenti del nostro paese, da sempre. Ed in quel «tutti» c’è il bello (o il brutto) di questo articolo fondamentale del nostro paese: tutte vale per le opinioni, quelle che ci piacciono e quelle che no. Tutti vale anche per i cittadini, dal Presidente della Repubblica all’ultimo degli ultimi (se mai esista un ultimo), tutti, compreso il Generale Vannacci. Questo dice la Costituzione. C’è poi la Costituzione di Elly Schlein: «La Costituzione non mette tutte le opinioni sullo stesso piano» ha detto oggi il segretario del Pd commentando appunto le ormai famose frasi contenute nel libro del generale dell’Esercito. Siamo in attesa di capire, dato che testualmente quanto affermato dalla numero 1 dei dem non corrisponde al vero, dove sia scritto sulla Costituzione quanto da lei sostenuto e quali sarebbero le opinioni che meritano un trattamento inferiore. Anche perché non ci pare che il libro di Vannacci sia oggetto di chissà quale inchiesta di chissà quale magistratura su chissà quale reato. Nulla di nulla. E allora? Perché l’opinione del militare tanto contestata dovrebbe vale meno delle altre? Semplice: perché l’opinione è contraria (come il titolo del libro: Il Mondo al Contrario); contrario ovviamente alle opinioni della Schlein e quindi, per questo e solo per questo, meritevoli di minor considerazione. Non è di certo la prima volta che la sinistra sbatte in faccia a tutti la propria presunta superiorità culturale; ora siamo anche alla superiorità di opinione e pensiero. Per fortuna gli italiani hanno capito da tempo questa favola e ne sono anestetizzati, non ci fanno nemmeno più caso; al massimo qualcuno ci ride sopra. La Costituzione tutela e protegge tutte le opinioni, comprese quelle del Generale Vannacci, Ma non merita le bugie, di una parte politica che usa la nostra Carta a proprio piacimento.

Quella voglia matta di fango contro la divisa (Stato Maggiore Esercito). Andrea Soglio su Panorama il 18 Agosto 2023 Contro il Generale Vannacci, destituito, si è scatenata la solita furia della sinistra verso chi sbaglia ma solo se è soldato, poliziotto, carabiniere...

«Razzista, omofobo, esaltato, fascista…». Potremmo andare avanti ancora nel citare gli aggettivi che sui social da ieri vengono appiccicaci addosso al Generale Roberto Vannacci, destituito oggi dopo la bufera mediatica ed internettiana scoppiata per alcune frasi ed opinioni presenti nel suo libro. Sulla vicenda soprassediamo, visto la bufera ed il polverone che sicuramente non fa vedere le cose con la dovuta lucidità. Due cose però vanno dette su quella nemmeno troppo nascosta violenza con cui in Italia una bella fetta della società si scaglia ogni qualvolta una persona in divisa sbaglia. Che si tratti di un agente che colpisce una persona a terra (lo ricordate il caso di Milano del maggio scorso, vero?) o, tornando indietro che sia la Scuola Diaz a Genova durante il G8, chi sia un Carabiniere che violenta una studentessa per chiudere con un generale che scrive un libro con le proprie opinioni beh, ogni inciampo dà il via ad una reazione a dir poco feroce, che però non si vede quando chi commette gli stessi reati (con un numero di episodi in rapporto 10 mila volte superiore) la divisa non ce l’ha. Pensiamo ad esempio alle reazioni della sinistra in due episodi: oggi per il Generale Vannacci non basta nemmeno la destituzione; no, si chiede ancor più severità, pene più dure. Sia mai, è un razzista ed omofobo, nulla è peggio di questo oggi come oggi. Tutto, lo ricordiamo fino allo sfinimento, per delle opinioni. Settimana scorsa però tanta ferocia, tanto pugno di ferro, tante pene esemplari non si erano viste o richieste davanti all’aggressione con tentato stupro ed omicidio a calci e pugni da parte di un nigeriano, senza fissa dimora. Non c’è niente da fare. Quando c’è una divisa di mezzo a sinistra perdono i freni inibitori e si scatena la caccia alle streghe. Ad un uomo, che pagherà per le sue opinioni come previsto dalla giustizia militare ma che fino a ieri il 99% di coloro che oggi lo attaccano non sanno nemmeno chi sia il Generale Vannacci e cosa abbia fatto fino a ieri. Così, oltre a leggere le frasi, anzi, gli estratti del suo libro presi ad arte, invitiamo tutti a farsi un giro su Wikipedia per conoscere la storia e l’operato di un uomo che per decenni ha vissuto come fedele servitore dello Stato, anche a rischio della propria vita. Tanto per dire, nel 1994 ha comandato uno dei due battaglioni di incursori italiani incaricati di evacuare i nostri connazionali dal Rwanda in pena guerra civile. Analoghe operazioni anche anti terrorismo lo hanno visto impegnato in Iraq, Afghanistan etc etc. Ripeto: ha salvato vite umane, decine senza mai ottenere un milionesimo della visibilità ricevuta ieri per un libro (anzi, alcune parti di esso). Dal 1986 a ieri Roberto Vannacci è un soldato, un uomo dello Stato, fedele, autorevole, silenzioso. Nessuno fuori dall’Esercito lo ha mai ricoperto d’oro come forse avrebbe meritato. In migliaia da ieri hanno gettato tonnellate di fango sulla divisa di una sorta di sconosciuto. Perché non conoscendo la persona alla fine è quella che si vuole colpire, è quello il male: la divisa. Quello che la indossa non conta.

Estratto dell’articolo di Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 18 agosto 2023. 

Veterano dei paracadutisti e dei corpi speciali, il generale Roberto Vannacci, ha servito il nostro paese a tutte le latitudini. E non ha mai avuto peli sulla lingua, come nel suo libro Il mondo al contrario, che sta scatenando una tempesta. 

Generale, se l’aspettava?

«Il caos è voluto e non certo da me. È un libro controcorrente, che si schiera contro il pensiero unico e chi vuole presentare una realtà distorta rispetto a quello che viviamo tutti i giorni». 

Il titolo è «Il mondo al contrario», ma rispetto a cosa?

«Al contrario rispetto al buonsenso, al sentire comune, alla normalità che si vuole distruggere. Quello che per la maggioranza è senso comune viene totalmente stravolto: come la ragazza che soffre di ecoansia e fa sembrare questa patologia un problema mondiale».

Cominciamo dalla prima accusa: lei, che ha combattuto a tutte le latitudini, è razzista?

«Non sono razzista. Il fatto di avere combattuto fianco a fianco […] con persone di etnia africana, mediorientale, tajiki, pasthun rivela proprio che l’accusa di razzismo è un’invenzione dei media. […] ho rischiato la pelle per ideali e principi di etnie diverse, se non le vogliamo chiamare razze. Ma con questo non voglio dire che non esistono etnie, culture, civiltà diverse».

Però ha colpito la frase su Paola Egonu somaticamente non italiana...

«È stata travisata. Paola Egonu è italiana, gareggia e rappresenta sicuramente l’Italia. Quello che dico è che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità […]. Se vai in Papua Nuova Guinea e chiedi di fare il ritratto di un italiano non lo disegnano con la pelle nera […]». 

Cosa pensa dell’immigrazione?

«[…] Una società si fonda stringendosi attorno a determinati valori condivisi da tutti. Perché dovrei prendere una persona che non li condivide e forse li combatte dicendo che rappresenta un valore aggiunto? Le leggi si applicano a tutti, ma nel caso dell’omicidio di Saman […] c’è chi parlava di attenuanti culturali. Assurdo».

Il leitmotiv del libro è la dittatura delle minoranze. A cosa si riferisce?

«Il problema è che ci sono tante minoranze, come il mondo Lgbt, che di fatto impongono restrizioni a una maggioranza che la pensa in maniera totalmente diversa. […]». 

Sugli omosessuali ha scritto che non sono normali, ma cosa intende?

«Io normale non sono mai stato. Ho fatto una carriera nei corpi speciali, non unità normali, e sport più anormali possibili. Quindi sono in buona compagnia con tutti gli omosessuali del pianeta. […]». 

Altre accuse parlano di trivialità, linguaggio scurrile. È proprio così?

«No. Il mio libro usa un linguaggio molto schietto, ma come in una discussione fra persone civili. Quando parlo del “batacchio tra le gambe” parlando di un uomo che entra nello spogliatoio femminile sarei potuto essere ben più osé. […]».

Lo Stato maggiore dell’esercito ha più che preso le distanze. Cosa ne pensa?

«Me lo aspettavo, ma sono io ad averlo fatto specificando che il libro non rappresenta in alcun modo una posizione istituzionale o governativa. Ovviamente bisogna fare lo sforzo di leggerlo e non basarsi su frasi estrapolate utilizzate come gogna mediatica».

 Il suo libro potrebbe costarle la carriera. Tornerebbe indietro?

«Nessun passo indietro. Se metterò a rischio la carriera l’avrò fatto per una giusta causa, la libertà di espressione».

«Noi soldati siamo con il Generale Vannacci». Riceviamo e pubblichiamo mail e messaggi di diversi militari che chiedono libertà di opinione.  Linda Di Benedetto su Panorama 22 Agosto 2023

«Noi siamo con il Generale Vannacci. Non per le sue opinioni nel merito delle quali non vogliamo entrare. Ma rivendichiamo il diritto di poter avere ed esprimere delle opinioni, come previsto dalla costituzione e dal regolamento militare». È questo il sentire comune di una buona parte delle forze armate, dei soldati che da quando è esploso il caso del libro «Il Mondo al Contrario» ci hanno mandato mail e messaggi dal medesimo significato: vogliamo poter parlare e nessuno ce lo deve impedire. «Noi abbiamo due norme del decreto legislativo del 15 marzo 2010 n.66 del codice dell’ordinamento militare. Nella fattispecie l’articolo 1472 e l’articolo 1473 disciplinano chiaramente cosa il militare può fare relativamente alla libertà di manifestazione del pensiero. Il 1472 dice: “I militari possono liberamente pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio per i quali deve essere ottenuta l'autorizzazione”»-commenta un ufficiale dell’esercito che nonostante l’articolo citato preferisce restare anonimo. Quindi cosa è successo? «Personalmente io credo che il generale potesse tranquillamente scrivere il libro che ha autoprodotto perche non ha scritto di missioni, ne di nulla inerente al servizio militare ma parla di convinzioni personali. Io non la penso come lui, ma difendo la sua libertà di manifestare del pensiero. Un diritto sacrosanto i vertici della difesa a quanto pare non hanno riconosciuto visto come hanno affrontato la questione. Inoltre voglio aggiungere che alcuni dei generali che hanno preso le distanze da Vannacci la pensano esattamente come lui e noi lo sappiamo bene». A firmarsi invece è il tenente colonnello incursore della Folgore Fabio Filomeni «Conosco il generale Vannacci da 36 anni sono stato uno dei suoi istruttori. Ingenuamente hanno colpito una persona che è un riferimento per i paracadutisti di tutta Italia e di tutte le forze armate estrapolando faziosamente le frasi del suo libro poi rimbalzate sulle principali testate Italiane. Frasi volutamente provocatorie ed inattaccabili. Il generale ha espresso come era suo diritto un suo parere che può essere condiviso o meno ma non l’ha fatto solo adesso ma anche in circostanze più serie, quando ha parlato dell’uranio impoverito andando persino contro i vertici militari». Cosa è successo in quell’occasione? «Sulla vicenda ho scritto un libro "Baghdad ribellione di un generale" e quel generale era Vannacci che aveva denunciato la correlazione tra le malattie dei militari e l'uranio impoverito. Ad oggi sono morti 400 militari e ci sono 800 sono malati ma questi morti non hanno avuto lo stesso clamore mediatico delle frasi scritte da Vannacci. Anzi proprio per le sue battaglie, era già stato etichettato come un personaggio scomodo per questo ricopriva un incarico non adeguato al suo status». Un altro commento più critico arriva da un ufficiale che ha scelto anche lui di mantenere l’anonimato. «Mi chiedo cosa sarebbe accaduto se in nome della stessa libertà di espressione se il Generale avesse proposto tesi opposte. Il punto che voglio proporre è che il testo pubblicato è evidentemente un manifesto politico su temi molto divisivi nella nostra società, ed in quanto tale avrà evidentemente le simpatie di una parte ed inevitabilmente la riprovazione di altre. E stiamo nello specifico parlando di una spaccatura che attraversa il Paese e vado per statistica anche in parte le Forze Armate».

Lei non è d’accordo con la scelta del generale di pubblicare il libro? «Dunque: al di là del merito delle questioni poste (che ognuno inevitabilmente valuta secondo il proprio orientamento), io credo che Vannacci avrebbe dovuto porsi una questione di “responsabilità” oltre che di “libertà”. La responsabilità di corroborare con i suoi scritti l’immagine delle Forze Armate come un’Istituzione “di parte”, vanificando decenni di sforzi fatti per porre il profilo dei Soldati d’Italia come garanti della difesa di tutta la Nazione. Anche di quella (vasta) parte piaccia o no che sui temi proposti da Vannacci ha opinioni diverse, sia all’esterno sia all’interno delle Forze Armate. Avrebbe secondo dovuto essere il “buonsenso”, lo stesso richiamato da Vannacci nel suo primo capitolo, suggerirgli di evitare di esporre un Ufficiale in servizio, ed ancor più un Comandante, su temi così divisivi che probabilmente feriscono anche parte dei suoi dipendenti».

Vannacci: elogio della normalità (censurata dalla diversità). Vittorio Sgarbi su Panorama il 3 Settembre 2023

Un pensiero al di fuori dei canoni «mainstream», come quello riassunto dal volume del generale Roberto Vannacci, viene stigmatizzato dalle reazioni progressiste. Ma, leggendolo, è evidente che si rifà soprattutto a valori conservatori, senza le pericolose derive di cui lo accusano suoi detrattori «a prescindere». E la sua difesa di principi cristiani è evidente.

Le vendite da record del libro di Vannacci raccontano un'Italia che merita di essere ascoltata. Andrea Soglio su Panorama il 4 Settembre 2023

Il Mondo al Contrario da solo ha venduto il doppio degli altri 9 libri più popolari d'Italia. Sarebbe ora di andare oltre accuse ed allarmismi e fare una riflessione nel merito 

Sul fatto che il Generale Vannacci sia stato il protagonista dell’estate italiana non ci sono dubbi. “Il mondo al contrario” ha fatto discutere più di qualsiasi altro argomento, che si fosse sui social o nelle chiacchierate in spiaggia. Settimane in cui si è sentito parlare di Vannacci «candidato», del presunto «esercito di Vannacci», insomma, di tutto di più. Quello che però era davvero interessante era cercare di dare un numero, una percentuale a quella frase pronunciata dallo stesso militare, «…sono in molti a pensarla come me…». Ecco, quanti sono? Quantificazioni sono quasi impossibili anche perché è evidente che nel mondo del politically correct sono in molti quelli che la pensano come Vannacci ma preferiscono non dirlo, nemmeno a bassa voce, nemmeno agli amici più stretti. Ieri La Verità ha commissionato un sondaggio a Tecné proprio sul tema delle parole del Generale (e non solo). Bene, la maggioranza ritiene che non ci sia stata da parte dell’esponente dell’Esercito alcuna violazione e incitazione all’odio. Piuttosto gli italiani sembrano più preoccupati per la perdita della libertà di parola, proprio legata ad ogni voce diversa da quella del pensiero unico.

C’è però un dato interessante che arriva dal mondo dell’editoria. Il Corriere ha infatti scritto che il discusso libro del generale della Folgore non solo è ormai stabilmente in testa alle classifiche delle vendite dal giorno dell’uscita ma che, da solo, vende il doppio del resto degli altri 9 libri presenti nella top ten; ripetiamo: Il Mondo al Contrario vende da solo due volte il numero di copie degli altri 9 libri più venduti in Italia, messi assieme. Al netto del trionfo editoriale ed economico, questo dato quantifica in maniera piuttosto precisa quello che il Generale diceva; sono in molti a pensarla come lui, sono molti quelli corsi ad acquistare (online) il libro e non per cercare di capire ma per trovare come una sorta di conforto nel leggere nero su bianco quello che in silenzio si pensa ma che, come hanno dimostrato le polemiche dell’estate, non si può dire. È come se in quel libro i lettori avessero trovato conferma e la riprova delle loro stesse opinioni ed idee. Ed allora, dopo settimane di parole spesso banali, forse è giunto il momento di farla una riflessione seria sul fatto che ci sia una buona parte del paese che ha la stessa opinione di Vannacci; forse invece che attaccarle, denigrarle, drammatizzarle sarebbe il caso di cercare di capire se esista più o meno un fondo di verità. Per tanti italiani questo è davvero il mondo al contrario dove minoranze (definite tali solo per questioni numeriche) vengono rappresentati come specchio dell’intera società; dove l’attenzione e la preoccupazione generale verso certe realtà è esagerata soprattutto rispetto al poco o nulla riservato ad altri. Forse sarebbe il caso di guardare le cose in maniera distaccata e vedere se davvero non si sia esagerato troppo in certi messaggi e certi allarmi piuttosto che pensare che chi la pensa come Vannacci e chi legge il suo libro sia un razzista-omofono-guerrafondaio-violento-ignorante. Tra l’altro tra le decine e decine di opinionisti che hanno più o meno apostrofato con questi aggettivi le frasi del militare quasi tutti oggi stanno risicando dall’invidia di vedere i loro libri a prendere polvere sugli scaffali mentre Il Mondo al Contrario vende ed incassa.

Da La Verità.

Estratto dell’articolo di Francesco Borgonovo per “La Verità” domenica 20 agosto 2023. 

A rompere il silenzio (va detto: fin troppo imbarazzato) nel centrodestra alla fine è Giovanni Donzelli, responsabile organizzazione e uomo immagine di Fratelli d’Italia.

[…]  c’è anche un tema politico, che riguarda il contenuto del libro di Roberto Vannacci. La questione è molto semplice: è concesso scrivere quel che ha scritto il generale oppure no?

«Deve essere concesso. Penso una cosa: il fatto che quello sia in libro più venduto sulle piattaforme online dimostra quanto stiano sulle scatole in Italia la sinistra e il suo tentativo di censurare, di decidere che cosa sia giusto o sbagliato, di entrare nelle libertà personali.

Se a un italiano dici “questo libro non deve essere pubblicato”, soprattutto se glielo dice il Pd con tutte le incoerenze che ha, l’italiano fa la corsa a comprarlo. È la giusta reazione di una nazione che non si vuol far dettare gusti, usi e costumi dai progressisti. Detto questo, io non entro nel merito di quel che ha scritto il generale. Non ho letto il libro, e non so se e quando lo leggerò. Appunto perché per me il tema non è questo».

Il tema è la richiesta di censura.

«Il tema è se i partiti politici abbiano il diritto o meno di decidere che cosa si può scrivere nei libri e che cosa no. Nello specifico mi riferisco al Partito democratico. A preoccuparmi è il “non basta” uscito fuori dal Pd. Le istituzioni militari hanno aperto una verifica per stabilire se sia stato violato il regolamento militare. 

Un militare deve rispettare il regolamento, e a mio avviso è giusto, come ha chiesto Guido Crosetto, che vengano fatte in modo asettico e sereno - e senza alcuna sentenza già scritta -tutte le verifiche militari. Se qualcuno si è sentito offeso e vuole fare esposti, o ritiene che ci sia stata diffamazione, su questo si esprimerà la magistratura. Non si capisce che cosa si dovrebbe fare di più». 

[…] Purtroppo non è certo la prima volta che a sinistra si arrogano questo diritto. Tuttavia, più di ciò che pensa la sinistra, è interessante ciò che si pensa a destra riguardo alle posizioni del generale.

«[…] Per formazione culturale e per propensione mia, io sono addirittura più propenso a difendere la libera espressione delle idee soprattutto di chi non è d’accordo con me. È un po’ ipocrita dire: se la pensi come me puoi scrivere quello che vuoi ma se la pensi diversamente no. Essere liberali è l’esatto opposto. Voglio dare la libertà soprattutto a chi la pensa diversamente di potersi esprimere. Poi mi confronto con la forza delle idee». 

Il ministro Crosetto sul libro ha espresso un giudizio di merito, e anche molto duro.

«Crosetto da ministro ha fatto quel che doveva: avviare le procedure e chiedere velocità. È quello che doveva essere fatto istituzionalmente. Il ministro della Difesa deve garantire l’immagine dell’esercito, e assicurarsi che tutti si sentano protetti dalle forze armate.

Poiché è stato messo in discussione il comportamento di un generale, per altro anche molto valoroso, ritengo sia giusto che venga verificato con urgenza la sua correttezza e che non ci siano dubbi. Ripeto: non sta a noi stabilire se una cosa è politicamente corretta o scorretta…» 

Resta che - anche al di là di questa vicenda - un problema con il politicamente corretto e con la gabbia del discorso cosiddetto mainstream esiste eccome.

«Ma sono d’accordo, come no. È insopportabile la logica dei progressisti per cui se non hai esattamente le loro idee allora sei omofobo o razzista. È insostenibile. Noi abbiamo decine di dirigenti dichiaratamente omosessuali, ma non per questo sono a favore dell’utero in affitto o dell’eliminazione dei termini padre e madre.

E di sicuro non pensano, come disse Monica Cirinnà, che Dio, patria e famiglia sia uguale a vita di merda. Questo non li rende di certo omofobi. Il problema è che a sinistra hanno stabilito che, se non la pensi esattamente come loro sul tema della famiglia, allora sei omofobo. E gliene dico un’altra». 

Dica.

«La nostra responsabile immigrazione è l’onorevole Sara Kelany, che è cresciuta nel nostro movimento giovanile: per metà è di origine egiziana. Ha la pelle più scura della mia quando sono abbronzato, e non per questo è meno italiana, perché è italianissima. E non la pensa come il Pd sull’immigrazione di massa».

Ci mancherebbe altro. Però torniamo al tema del politicamente corretto. Il rischio concreto è che per quieto vivere anche la destra si pieghi.

«Ma si figuri se ci pieghiamo. Ribadisco: se uno di sinistra scrive un libro per dire che la famiglia secondo lui va eliminata […] non sta certo a me dire se abbia o non abbia il diritto di farlo, e di sicuro mai chiederò che venga censurato. E di certo una cosa del genere non può competere al governo. 

Compito di un governo è quello di far applicare le leggi e compito della maggioranza è scriverle: non abbiamo il compito di vagliare le idee dei singoli. Glielo dice uno che non si fa problemi a esprimere le proprie idee, visto che ho detto esattamente quello che pensavo sul caso Cospito.  […]».

Estratto dell’articolo di François de Tonquédec per “La Verità” mercoledì 23 agosto 2023.

Il contenzioso in corso in questi giorni tra il generale Roberto Vannacci e i vertici dell’Esercito italiano ha origini lontane, risalenti ad almeno 4 anni fa. È il 13 marzo del 2019 quando Vannacci firma un esposto, inviato sia alla Procura di Roma che alla Procura presso il Tribunale militare della capitale, che ha come oggetto la sicurezza dei militari del contingente italiano di stanza a Baghdad, che l’alto ufficiale ha comandato dal settembre 2017 al 1° agosto 2018. 

Tra i temi sollevati nel documento, se ne trova uno particolarmente critico, tornato recentemente di attualità nelle cronache della guerra tra Russia e Ucraina: l’uranio impoverito.

Già dalle premesse del corposo documento, Vannacci non usa mezzi termini: «Durante il mio impiego, peraltro: riscontravo che l’intero Contingente - per tutto il periodo precedente al mio ingresso in Teatro Operativo - era stato continuativamente esposto all’uranio impoverito, impiegato nei precedenti conflitti e massicciamente in tutta l’area sin dal 1991, senza che alcun provvedimento di prevenzione e mitigazione dei rischi fosse stato attuato sino alla data del 08 maggio 2018 e senza che alcuna formazione/informazione riguardo lo specifico rischio fosse stata impartita al personale del Contingente» impegnato nell’Operazione Prima Parthica.

E ancora: «In tale contesto, riscontravo che il Comando superiore, ovvero il Comando operativo di vertice Interforze (Coi) […] aveva proceduto alla pianificazione, allo schieramento e alla progressiva occupazione delle basi nelle quali si era articolato nel tempo il dispositivo militare italiano in Iraq, senza effettuare le necessarie, peculiari ed approfondite caratterizzazioni ambientali volte a rilevare l’eventuale presenza di uranio impoverito, nonché ad accertare olisticamente la salubrità generale delle aree stesse, omettendo così, contestualmente, di informare il personale militare degli specifici rischi ambientali». 

Detto in parole povere, secondo le accuse di Vannacci, nonostante i casi di militari statunitensi affetti dalla cosiddetta «Sindrome della guerra del Golfo» e soprattutto di quelli italiani che avevano partecipato alla missione in Kosovo, colpiti dalla «Sindrome dei Balcani», non sarebbe stata adottata nessuna precauzione. 

Eppure, secondo molti esperti, entrambe le sindromi, collegate a molti casi di leucemia fulminante tra i militari, sarebbero da attribuire all’uranio impoverito. Il cui uso, nel lontano 2001 era stato definito da Carla Del Ponte, all’epoca a capo del Tribunale penale per la ex Jugoslavia, un possibile crimine di guerra.

Ricevendo a tempo di record una smentita attraverso uno studio commissionato dal suo predecessore, Louise Arbour, nel quale si affermava che non esiste un trattato ufficiale sul bando delle armi all’uranio impoverito, né leggi internazionali che le vietino espressamente. 

Aneddoti lontani nel tempo, che spiegano però la delicatezza della materia e quanto […] possano essere state deflagranti le accuse messe nero su bianco da Vannacci. Che in caso di eventuali richieste di risarcimento per morti sospette di militari che hanno prestato servizio in Iraq, sarebbero un facile appiglio per sostenere anche la negligenza dei vertici militari.  […]

In tutta risposta alla segnalazione di Vannacci dell’8 maggio 2018, il Coi avrebbe inviato al generale un documento classificato «firmato d’ordine dal generale di divisione Gaetano Zauner (Capo di Stato maggiore del Coi)» nel quale […] si «accusava che lo scrivente non si fosse attenuto alle disposizioni emanate […] che disponeva che le comunicazioni dai Teatri Operativi contenenti “criticità” (fra cui, evidentemente, si annovera, a parere del Coi, quella del rischio di esposizione dei militari/lavoratori all’uranio impoverito,[…]) fossero rappresentate con messaggistica classificata ad un livello minimo di Riservato».

In una successiva comunicazione, anch’essa riservata, il Coi spiegava «di aver richiesto al teatro iracheno in 2 particolari occasioni, con specifico riferimento al potenziale rischio di esposizione all’uranio impoverito, la segnalazione di possibili rischi ambientali». Secondo il generale però «tale affermazione risulterà non corrispondente alla reale circostanza come il sottoscritto riporterà nella lettera […]); che non sussistessero, allo stato, indicazioni/informazioni e/o documenti che attestassero come certa la presenza di uranio impoverito in Iraq richiedendo contestualmente al sottoscritto, al fine di attivare correttamente tutte le misure previste dalla normativa di settore, di voler trasmettere ogni atto utile al riguardo, a riprova della sussistenza della situazione di criticità ambientale di tipo radioattivo». 

Per Vannacci, la «riprova quindi che, ogni misura prevista dalla normativa di settore risultava assolutamente inattivata per tutto il periodo precedente la mia segnalazione, a partire dallo schieramento della missione Prima Parthica».

Nei giorni scorsi alcuni organi d’informazione hanno ipotizzato che i vertici militari, a partire dall’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, attuale capo di Stato maggiore della Difesa, puntassero alle dimissioni di Vannacci e che ci sia stata una «moral suasion» da parte del governo, ma la notizia non è stata confermata. Quello che è certo però è che Vannacci aveva scelto da tempo posizioni scomode, in aperto contrasto con i suoi superiori, a partire proprio da Cavo Dragone, che nel periodo in cui Vannacci era di stanza in Iraq era al vertice di quel Coi che il generale tira in ballo pesantemente, non sappiamo se a torto o a ragione, nel suo esposto. Un contrasto che adesso sembra essere arrivato al redde rationem.

(ANSA giovedì 24 agosto 2023) - "La Verità di oggi denuncia in prima pagina quella che ritiene essere la vera questione che sta dietro agli attacchi al Generale Vannacci: non un semplice libro politicamente scorretto, ma l'enorme tragedia dell'uranio impoverito. 

Il Generale Vannacci ha avuto il grande merito di essere l'unico ufficiale comandante che ha accusato i propri superiori gerarchici di aver nascosto le conseguenze dell'esposizione dei nostri soldati alle contaminazioni da uranio impoverito in Serbia e in Iraq".

Lo dichiara in una nota Gianni Alemanno, portavoce del Forum dell'indipendenza italiana. "Oggi La Verità va oltre, indicando le responsabilità dei decisori politici che all'epoca hanno negato queste circostanze. 

Se tutto questo fosse vero, saremmo di fronte ad uno dei più gravi atti di sudditanza delle nostre istituzioni nei confronti dei comandi americani e Nato, che hanno la responsabilità di aver utilizzato queste armi pericolose senza mettere le nostre truppe in condizione di proteggersi dalle conseguenze letali - aggiunge -. 

Noi difendiamo il Generale Vannacci non solo per il suo diritto di esprimersi contro il politicamente corretto, ma soprattutto come testimone prezioso di queste vicende a cui non deve essere tappata la bocca.

A settembre si riunirà la commissione disciplinare militare che dovrà esprimersi su questa vicenda, al di là delle indebite pressioni del ministro Crosetto, ma prima di allora vogliamo sapere a che punto stanno le indagini sulle morti per uranio impoverito. Il Governo non pensa di prendere nessuna iniziativa su questa vicenda? In alternativa non c'è nessun parlamentare di maggioranza o di opposizione che presenti una interrogazione al governo per avere risposte sui retroscena oggi rivelati da La Verità?"

Estratto dell’articolo di François De Tonquédec per “La Verità” giovedì 24 agosto 2023. 

Il caso più noto di militare esposto all’uranio impoverito è quello del colonnello del Ruolo d’onore Carlo Calcagni, elicotterista che ha prestato servizio in Bosnia nel 1996. Da anni Calcagni conduce una doppia battaglia, quella relativa alla sua salute e quella legale. Proprio durante l’impiego nei Balcani, ha subito una gravissima e massiccia contaminazione.

I dati clinici arrivano addirittura a dimostrare la presenza di 28 metalli pesanti di vario genere che gli hanno causato ben 24 patologie. Il suo organismo si è ammalato in maniera irreversibile, fino al punto di modificare anche il patrimonio genetico. A fianco di Calcagni nella battaglia legale c’è l’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio nazionale amianto […]. 

Sul sito internet dell’associazione, alcuni dati, risalenti all’epoca del primo governo Conte, stimano che solo tra i soldati italiani ci siano almeno 340 morti e 4.000 malati.

[…] contattato dalla Verità, Bonanni ha parlato di «una vera e propria epidemia di malattie degenerative e cancerogene» legata all’esposizione a sostanze come l’uranio impoverito, ipotizzando poi che «almeno il 30% di quelli che sono stati in missione e sono stati impiegati in queste operazioni hanno subito questo tipo di situazione». 

Sul polverone sollevato per il libro del generale Roberto Vannacci, Bonanni sembra avere le idee chiare: «Se muoiono centinaia di persona per l’uranio impoverito non capisco perché ci si preoccupi del libro e non dell’uranio».

Il legale si mostra molto perplesso: «Non vorrei che il generale sia considerato un uomo scomodo perché ha sollevato il tema dell’uranio impoverito». Quando gli chiediamo se la denuncia di Vannacci sulle mancate precauzioni che sarebbero state necessarie per la tutela del contingente in Iraq cambierebbe il profilo giuridico di eventuali nuovi casi rispetto a quelli della guerra in Kosovo, Bonanni non ha dubbi. «Cambia, cambia». 

Poi ci spiega che una sentenza del Tar del Lazio è «emblematica». Nel documento si può infatti leggere un passo, ripreso da una sentenza del Consiglio di Stato, che non lascia molto spazio alle interpretazioni: «Al dovere del militare di esporsi al pericolo stricto sensu bellico [...] si contrappone lo speculare dovere dell’Amministrazione di proteggere il cittadino-soldato da altre forme prevedibili e prevenibili di pericoli non strettamente dipendenti da azioni belliche, in primis apprestando i necessari presidi sanitari di prevenzione e cura e dotandolo di equipaggiamento adeguato o, quanto meno, non del tutto incongruo rispetto al contesto».

Poi l’avvocato spiega: «Se l’esposizione è recente (ovvero quando il rischio era già noto, ndr), il fatto è ancora più grave». Il rischio è quello di poter contestare la negligenza, un fatto che, ci spiega Bonanni, non cambierebbe di molto i risarcimenti, ma «quello che è rilevante è che a quel punto ci sarebbe una responsabilità penale. Di fronte a un generale che ti avverte del rischio e uno non fa niente, per quelli che muoiono dopo ci sono precise responsabilità, che potrebbero arrivare perfino al dolo». 

E a quanto pare, sono già in corso alcune cause riguardanti militari che hanno prestato servizio in Iraq: «Io ho qualche caso, ma il ministero non li riconosce e siamo in causa». Anche Calcagni, ci spiega, non è stato risarcito. 

«Avevamo chiesto un euro simbolico di risarcimento, ma il ministero non lo ha voluto riconoscere. Secondo il ministero non ci sarebbe questo rischio. Oppure, anche se c’è questo uranio, la persona muore per un altro motivo».

Poi ci racconta il caso di un militare morto per l’esposizione a sostanze nocive a 45 anni, che nelle strategie processuali ricorda quelle del film Erin Brockovich - Forte come la verità con Julia Roberts. «Siamo in causa da 8-9 anni, abbiamo vinto, ma il ministero non esegue. Il Tar gli ha detto di risarcire, ma loro non lo fanno, quindi ho dovuto intentare un ulteriore giudizio per quantificare il danno», ci spiega, aggiungendo poi che «naturalmente Vannacci sarà testimone nei vari procedimenti, nel merito dei fatti relativi a quello che lui racconta nell’esposto, cioè della violazione di tutele della salute e dell’incolumità psicofisica dei militari». 

Lo scenario raccontato dall’avvocato Bonanni trova in parte conferma anche nelle parole di Maurizio Castagna, autore del libro Uranio impoverito – la verità negata.

Ieri ai microfoni dell’emittente Radio radio, Castagna ha raccontato di aver trovato documenti che proverebbero l’uso dell’uranio impoverito già dai tempi della guerra in Somalia, all’inizio degli anni Novanta. 

In un documento sarebbe infatti specificato che «i soldati del contingente italiano andavano elogiati per aver operato in presenza di nuovo munizionamento, all’uranio impoverito e che quindi lo Stato italiano andava sostenuto nella sua azione di coinvolgimento dei militari nell’affrontare questo nuovo sistema d’arma, con tutte le ricadute tossiche che ci potevano essere».

Secondo la ricostruzione di Castagna, le quantità di uranio impoverito utilizzate durante le varie missioni sarebbero da capogiro: «L’uranio impoverito è stato usato massicciamente in Afghanistan (circa 800 tonnellate), in Iraq (400 tonnellate) e in Kosovo». Ed è proprio nella ex Jugoslavia che i nostri soldati, secondo l’autore del saggio, sarebbero stati esposti a un rischio altissimo […]. […]

Estratto dell’articolo di François de Tonquédec per “La Verità” venerdì 25 agosto 2023.  

Il Parlamento italiano si è occupato delle patologie contratte dai nostri militari a causa della presenza di Uranio impoverito nelle munizioni con ben 4 commissioni d’inchiesta. L’ultima, istituita nel 2015 durante il governo Renzi e presieduta dal deputato Pd Gian Piero Scanu, nella relazione conclusiva ha lanciato un vero e proprio atto d’accusa nei confronti dei vertici militari. 

Nel documento approvato a febbraio 2018 si può infatti leggere:

«Nel settore primario della sicurezza e della salute sul lavoro, la commissione d’inchiesta, grazie alle penetranti metodologie investigative adottate, ha scoperto - dietro le rassicuranti dichiarazioni rese dai vertici dell’amministrazione della Difesa e malgrado gli assordanti silenzi generalmente mantenuti dalle autorità di governo pur esplicitamente sollecitate -le sconvolgenti criticità che in Italia e nelle missioni all’estero hanno contribuito a seminare morti e malattie tra i lavoratori militari del nostro Paese».

Tra i consulenti della commissione Scanu c’era anche l’ex maresciallo Domenico Leggiero, un passato da elicotterista della nostra aviazione e tra i 30 ispettori italiani delegati e verificare l’attuazione del trattato sugli armamenti. Contattato dalla Verità Leggiero, che è stato consulente anche delle prime due commissioni, ha raccontato i retroscena delle attività svolte a Palazzo San Macuto, che si collegano con l’esposto presentato nel 2019 da Roberto Vannacci, il cui mandato in Iraq, iniziato a settembre 2017, viaggia in parallelo con gli ultimi mesi di lavoro della commissione. 

Leggiero […]: «Noi avevamo individuato le cause (delle malattie tra i militari, ndr), ma non perché eravamo bravi, ma perché ce le avevano spiegate gli americani. Tutte le affermazioni che facevamo erano supportate da documentazione che gli americani mi avevano consegnato, perché all’epoca il ministro della Difesa sosteneva che non era mai stato utilizzato uranio impoverito, che l’Italia non ne era a conoscenza e che comunque non faceva male».

Leggiero racconta di essere stato avvicinato da personale americano che gli avrebbe detto, consegnandogli i documenti: «Queste sono le comunicazioni che abbiamo fatto al tuo Stato maggiore, questi sono i rischi, queste sono le protezioni necessarie, addirittura con un video, fatto nel 1994». 

Documenti che, ci racconta, lo salvarono dall’arresto, per un’accusa di procurato allarme. Non sappiamo se i vertici militari avessero eventualmente condiviso le informazioni che secondo l’ex maresciallo erano in loro possesso con il ministro della Difesa dell’epoca. Che, ci dice Leggiero, era «l’attuale presidente della Repubblica», Sergio Mattarella.

Sta di fatto che il suo racconto, se confermato, sposterebbe indietro di una ventina d’anni il tema della negligenza rispetto a quanto messo nero su bianco da Vannacci nel suo esposto alla Procura di Roma e alla Procura militare. Aprendo il tema della rilevanza penale evidenziato anche dalla relazione della commissione: «È allarmante, peraltro, che, tra l’indifferenza delle autorità competenti, in materia di patologie occorse a militari o a cittadini residenti nei pressi di siti militari […] i procedimenti per reati quali l’omicidio colposo o le lesioni personali colpose nemmeno vengano avviati, ovvero si sviluppino con una tale lentezza o senza gli indispensabili approfondimenti, con la conseguenza che si concludono con il proscioglimento nel merito o per prescrizione del reato».

[…] Eppure, secondo Leggiero, la commissione guidata da Scanu «sostanzialmente svela tutto», ma sarebbe stata ostacolata con «pressioni per cambiare la relazione finale e variare una proposta di legge», predisposta da commissari a dai loro consulenti, tra cui anche l’ex pm Raffaele Guariniello. 

Spiega ancora l’ex elicotterista dell’Esercito: «Decidemmo di fare chiarezza, convocando in commissione l’allora comandante del Coi (Comando operativo di vertice interforze, ndr) Giuseppe Cavo Dragone, che per il suo ruolo avrebbe dovuto sapere tutto. Mentre gli facevamo domande, ci siamo accorti che quello che ci diceva non trovava alcun riscontro ed era anzi l’esatto contrario di quello che succedeva sul teatro operativo».

A quel punto, secondo il nostro interlocutore «il generale Cavo Dragone si trova di fronte a un bivio. Su pressione del Quirinale e dell’allora (in realtà tra il 2006 e il 2015, ndr) addetto militare alla presidenza della Repubblica Rolando Mosca Moschini, viene chiesto, ed ottenuto da Cavo Dragone il persistere della negazione di quanto veniva segnalato dagli uomini sul teatro operativo». 

Ma non è tutto, al termine dei lavori della commissione a Scanu sarebbero anche arrivate «pressioni dal Quirinale per cambiare la relazione finale e ritirare il provvedimento legislativo». L’ex militare evidenzia poi il fatto che Cavo Dragone è l’attuale Capo di Stato maggiore della Difesa: «Se quanto scritto nell’esposto è falso, Vannacci deve finire agli arresti stasera. Se invece ha un fondo di verità, in questo momento abbiamo un Capo di Stato maggiore della Difesa che non è stato trasparente con il Parlamento».

Estratto dell'articolo di Maurizio Belpietro per “La Verità” sabato 26 agosto 2023.

Il modo migliore per mettere a tacere qualcuno è dargli del matto. In Unione sovietica, i dissidenti addirittura li ricoveravano, sostenendo che avessero bisogno di cure psichiatriche. Ora, non voglio mettere sullo stesso piano Roberto Vannacci con il poeta Iosif Brodskij, internato per alcune settimane in un reparto d’ospedale prima di essere mandato al confino; tuttavia, è un dato di fatto che le parole più usate nei suoi confronti dopo l’uscita del Mondo al contrario lascino intendere che farnetichi, ossia che sia in uno stato di alterazione che lo porti a vaneggiare. 

Beh, io non l’avevo mai visto né sentito prima, ma ieri insieme con Francesco Borgonovo, ho avuto la possibilità i intervistarlo per la Tivù Verità e vi debbo confessare che l’ho trovato tutt’altro che folle. Dalle risposte che ha dato alle nostre domande, ne ho ricavato che l’uomo ha idee precise su una serie di argomenti.

[…] 

Nel suo libro lei affronta il problema dell’immigrazione, che è notoriamente connesso a tante altre questioni, ad esempio la sicurezza nelle città, cosa di cui ci rendiamo conto quotidianamente. Oggi c’è un nuovo governo, che vuole intervenire per risolvere la questione, anche se al momento le soluzioni messe in campo non sembrano funzionare. Lei concretamente cosa farebbe su questo tema?

«Premetto che non ho delle soluzioni perché non sono un esperto di questioni migratorie internazionali. […] Io paragono i flussi migratori alla fisica dei fluidi, dove i fluidi si spostano dall’alto verso il basso, perché questa è la legge fisica che li regola. Occorre ribilanciare questo piano inclinato, sia dalla parte in cui è più alto - cercando di creare delle condizioni più favorevoli nei Paesi di origine - sia dalla parte in cui è più basso - cercando di rendere più difficile, a chi non ha la stretta necessità o non è in pericolo di vita, di venire in Europa».

Cosa intende? Pensa ad esempio a una stretta sugli ingressi o sui permessi di soggiorno?

«Non ho specificato esattamente su cosa intervenire, ma di certo non dovrebbero essere i Paesi di provenienza a decidere quante persone debbano arrivare in Europa. E poi c’è un limite fisico. Quante persone può accettare l’Europa? 10, 100, 500 milioni? Prima o poi ci dovrà essere uno stop. E quindi, accettando i primi che si presentano facciamo un’operazione di giustizia o è soltanto un’azione dettata dall’emergenza? Secondo me un proposito di giustizia sarebbe aiutare i più bisognosi, non i primi che si presentano alla porta, First come, first served, come dicono gli inglesi. Quindi bisognerebbe fare una selezione di quelli che veramente sono i titolari di quei diritti incontestabili e che veramente hanno bisogno. Aprire invece le porte a tutti significa non avere un criterio, non avere una meritocrazia».

Lei in Africa c’è stato da militare, spesso a portare aiuto alle popolazioni, e ha conosciuto alcune realtà di quel Continente. Ritiene che l’Europa abbia una responsabilità riguardo alla condizione in cui versano alcune nazioni africane?

«Sì, c’è sicuramente una responsabilità, ma non è solamente europea, è una responsabilità mondiale. Il mondo di oggi, a volte così disumano, è creato da anni di storia. Ciò che noi oggi chiamiamo Occidente, questo va detto, ha anche generato molti effetti positivi su questi Paesi in via di sviluppo. […] 

 Se oggi l’aspettativa di vita mondiale è cresciuta incommensurabilmente rispetto a 200 anni fa è grazie al progresso dell’Occidente, è grazie al progresso scientifico e anche - aggiungo - grazie all’inquinamento. L’inquinamento secondo me è l’effetto collaterale di una medicina, che si chiama progresso. D’altra parte, come sappiamo, tutte le medicine hanno degli effetti collaterali». 

Mi incuriosisce molto questa sua idea, perché una delle conseguenze della politica green è esattamente l’impoverimento: la famosa decrescita felice teorizzata da qualcuno, che spesso si rivela infelice. Già oggi vediamo le nostre aziende in grande difficoltà e questo si traduce in un boom di disoccupati. […] Secondo lei quali saranno gli effetti di questo cambiamento epocale?

«Nel mio libro affronto questa questione, ma non da scienziato. Parto da osservazioni empiriche, avendo visto dei Paesi dal cuore della loro povertà. E posso dire con certezza che non esiste un ambientalismo e un’ecologia senza ricchezza. Tutti i Paesi che applicano delle politiche ecologiche e ambientaliste sono ricchi, qualsiasi Paese povero da un punto di vista ecologico è un disastro. Quando arrivo in Africa, riesco a riconoscere che sono lì da un odore particolare, si chiama l’odore dell’Africa. Una componente di questo odore è il risultato della combustione dell’immondizia per la strada.

Per cui, l’ecologia è sacrosanta, ma è costosa. 

Per essere ambientalisti bisogna essere ricchi, quindi secondo me le soluzioni sono due: aumentare la ricchezza, che è il primo fattore assolutamente indispensabile, e accrescere la nostra conoscenza tecnologica e scientifica. Invece di frignare, dobbiamo studiare ingegneria, fisica, chimica, informatica, perché la base della sostenibilità ecologica è il progresso scientifico […]». 

Cosa pensa della nostra permanenza nell’Unione europea? Secondo lei l’Europa è una gabbia o uno strumento di miglioramento?

«Le rispondo da militare. Non c’è dubbio che l’Ue sia uno strumento più potente rispetto a un singolo Stato che affronta un problema mondiale. Se lei mi chiedesse di andare in battaglia con dieci divisioni, sarei molto più contento rispetto ad andarci con un plotone di poveri sparafucile. Quindi, certo, l’Europa è uno strumento utile e potente. Deve essere orientato, deve conglomerare le istanze di tutte le nazioni e soprattutto deve trovare un punto di sintesi, perché il problema dell’Unione europea è che ha una difficoltà nel cercare di trovare la sintesi tra gli interessi dei Paesi. 

Come per esempio la Norvegia, che solamente per una questione geografica ha interessi totalmente diversi da quelli che si trovano sulla sponda del Mediterraneo. Quindi l’alchimia deve essere cercare di trovare un minimo comune denominatore, ma lasciare autonomia ai Paesi, perché sono talmente diverse le situazioni geografiche, sociali e politiche degli Stati dell’Unione europea, che non si può pensare di trovare una scarpa che vada bene per tutto, one size, one fit. Insomma, serve più autonomia per gli Stati affinché possano contrastare meglio le avversità che si trovano ad affrontare da un punto di vista socioeconomico».

Passando all’Italia. Nel suo libro si occupa diffusamente di questioni sociali: che cosa pensa della situazione degli stipendi e dell’impoverimento generale della popolazione?

«Credo che l’impoverimento della popolazione sia un dato oggettivo. Quando ero ragazzino la mia famiglia era monoreddito. Parlo del 1973-74 e ricordo che con uno stipendio si mandava avanti una famiglia. Mio padre mi diceva che con un terzo della paga mensile ci pagava l’affitto, con un terzo il cibo e con il rimanente tutte le altre esigenze familiari. Oggi non è più così, una famiglia monoreddito quasi non riesce più a sbarcare il lunario. 

[…]  Riguardo alla povertà: io dico che non è una colpa, ma non può nemmeno essere considerata una condanna. Per cui probabilmente ci sono anche delle responsabilità da parte di chi questa povertà la intende come un sistema per farsi mantenere da qualcun altro. Non dico che i poveri siano tutti così, assolutamente, però qualcuno c’è. Allora bisogna cercare di stimolare questo qualcuno affinché capisca che il proprio contributo alla società è dato anche dal lavoro, dal darsi da fare, dal ricercare un’attività che crei ricchezza per sé stesso e per la società, alla quale lui appartiene».

A proposito di famiglie, l’hanno accusata tra le altre cose di aver insultato i gay. Che ne pensa dell’utero in affitto e delle coppie omosessuali che rivendicano il diritto di avere dei figli?

«Intanto rinnego di aver insultato chicchessia. Ho espresso dei pareri, che rimangono nel perimetro del legittimo, di ciò che la nostra legge ci consente. Non ho usato parole volgari, ho usato delle espressioni forti, ma che non possono essere ricondotte arbitrariamente a insulti. Ho una mia idea della famiglia, ritengo che non esista il diritto alla genitorialità. Non esiste né nei sistemi sociali umani, né in natura. La natura non concede diritti alla genitorialità. Anzi, chi si riproduce in natura è un’élite. Lo vediamo negli animali, che si prendono a cornate, a morsi, a zampate per riprodursi. Solo i dominanti ce la fanno, quindi anche in questo caso non esiste un diritto alla genitorialità.

Esiste invece quello che io chiamo il diritto dei figli, ovvero di essere cresciuti, dal mio punto di vista, da chi biologicamente li procrea. E non possiamo trascendere da questa legge, tra virgolette, naturale. So che ci sono delle eccezioni, so che anche nelle famiglie biologiche ci può essere uno dei due genitori che a un certo punto viene a mancare. 

[…] Io non sono assolutamente d’accordo sull’utero in affitto, che secondo alcuni è un’espressione volgare e che io chiamo così, senza volerlo essere. Non sono assolutamente d’accordo perché a mio avviso è una sorta di “economia dell’infanzia”. I bambini non si comprano, non si cedono, non si fa tratta di bambini, anche se posso capire che ci sia un desiderio di genitorialità. Mi dispiace, non tutto può essere esaudibile in questo mondo, Io non posso concepire una donna usata come un forno, dove un bambino viene messo e preparato per poi essere ceduto a qualcun altro. È una cosa che io non concepisco.

Però, siamo in una democrazia, siamo in un Paese liberale e io posso esprimere un giudizio. Il giorno che ci sarà una maggioranza che si esprimerà a favore di una libertà totale, a proposito di questo sistema di procreazione, io mi adatterò, come ho fatto sino ad adesso. Non voglio imporre la mia idea a nessuno, però voglio avere la libertà e il diritto di esprimerla». 

Ecco, a proposito di libertà, secondo lei non c’è un tentativo di imbavagliare, di impedire l’espressione di alcune opinioni e di condizionare il pensiero? Andiamo verso l’affermazione di un pensiero unico?

«Guardi direttore, mi auguro proprio di no. Anche se, purtroppo, in questo auspicio mi devo anche rendere conto che non è così […] se lei vede le reazioni alla pubblicazione del mio libro, danno concretezza a quello che effettivamente c’è nella nostra società, ovvero che non appena uno esprime delle opinioni, dei pareri su alcuni temi che sono particolarmente sensibili, su alcuni nervi scoperti, si ricorre a tutte le strategie per metterlo da parte. La prima, la censura: provano a toglierti di mezzo. La seconda, togliere la dignità di interlocutore alla persona che parla: gli si dà del fobico, ovvero del malato mentale, perché la fobia è una malattia psichiatrica che si cura con medicine, con trattamenti psichiatrici, con una rieducazione […]».

Eppure l’Occidente ha fatto delle guerre in nome della libertà: siamo andati a esportare la libertà e la democrazia, ancora oggi c’è chi vorrebbe esportare questi valori in Russia…

«Non a caso il mio libro si intitola Il mondo al contrario. Perché questo è il primo paradosso: viviamo all’interno di società in cui i nostri padri, i nostri nonni, i nostri avi hanno combattuto e sono morti per la libertà e la democrazia, e dove invece, piano piano, questi concetti vengono relegati solo in alcuni aspetti. Puoi essere democratico e libero solo entro alcuni limiti. Non ne puoi toccare alcuni punti, perché altrimenti sei scomodo». 

Ma quelle guerre lei le condivideva?

«Io le guerre non le condivido mai, perché da militare sono sempre contrario alle guerre. Le guerre, diceva Von Clausewitz, sono la continuazione della politica con altri mezzi, ma fintanto che si può bisogna assolutamente evitarle. Lei mi dice che l’articolo 11 della Costituzione ripudia la guerra. È vero, ma purtroppo la guerra non si elimina con un decreto, con una Costituzione. La guerra esiste e ce lo dimostra quello che sta succedendo a 2.000 chilometri dalle nostre frontiere. Ce lo dimostra il fatto che dal 1945 a oggi ci sono state più guerre che negli ultimi 200 anni prima del 1945. […]

Si vis pacem para bellum, perché altrimenti prima o poi la guerra arriverà fino da noi, se non siamo pronti ad affrontarla. La ripudiamo, la dobbiamo evitare, la dobbiamo rifuggire, dobbiamo sistemare le cose prima che la guerra scoppi, ma la guerra c’è, esiste e secondo me, da militare, esisterà sempre, perché è uno degli strumenti che le società hanno. Brutto, odioso, inaccettabile, però c’è e continuerà a essere utilizzato. Da militare sono il primo pacifista del mondo. Non vorrei mai e poi mai che la nostra bella Italia sia coinvolta direttamente in un’attività bellica, così come non vorrei che nessun altro Paese al mondo lo fosse. La realtà purtroppo è diversa. E allora cosa facciamo? Ci immergiamo in una teoria utopistica o affrontiamo la realtà con gli strumenti che abbiamo?». 

[…] vorrei tornare su una frase che mi ha colpito nel suo libro. Lei scrive che in alcune missioni non avete «portato caramelle». Cosa intendeva dire?

«Io sono un soldato e, quando mi muovo, lo faccio con il mio fucile. Quindi, a prescindere da come si vogliano chiamare le operazioni che sono andato a condurre, le sono andato a condurre da militare. Le operazioni, a prescindere da come si vogliono definire, implicano l’uso della forza o l’uso della minaccia dell’uso della forza.

È per questo che si usano le Forze armate e non si usano pompieri o Protezione civile per andare a fare operazioni militari. Non siamo mai andati a portare pagnotte o caramelle, anzi ci siamo presi molte schioppettate. Questa è l’attività dei militari, i militari combattono, non fanno altro. Speriamo di non doverlo fare mai, ma si addestrano, vivono, esistono e lo scopo delle Forze armate è proprio quello: l’uso della forza o la minaccia dell’uso della forza. Altrimenti le Forze armate non avrebbero motivo di esistere». 

Secondo lei il fatto di non avere più la leva obbligatoria ha cambiato in meglio o in peggio la società italiana?

«Non le dico se in meglio o in peggio, ma sicuramente l’ha cambiata. La leva costituiva, secondo me, un passaggio da quella che era considerata l’adolescenza e l’età adulta. Una volta, quando il cittadino andava a fare il militare, oltre a imparare tutta una serie di cose, quando tornava a casa era considerato dalla società nella quale lui rientrava un uomo. E si doveva comportare come tale. […]  Quindi sicuramente questo ha portato a un cambiamento nella società moderna. Che sia in meglio o in peggio lo lascio dire agli altri. Credo che questa mia osservazione possa essere condivisa».

Mentre la sentivo parlare mi è venuta una curiosità. Come le è venuto in mente di scrivere questo libro. E soprattutto, si è poi pentito?

«Sicuramente no, non mi sono pentito di aver scritto Il mondo al contrario. Lo rifarei di nuovo, il libro è un frutto del mio intelletto, della mia penna, della mia mano. Ne conosco punti, virgole, punti esclamativi, articoli e singole parole. Quindi sono convinto di non avere offeso nessuno, sono convinto di non aver leso la dignità di alcuno e quindi non vedo perché non dovrei pubblicare una libera manifestazione dei miei pensieri, che può essere condivisa o meno. Rivendico quindi questo mio elaborato e sono tranquillamente propenso a dire che rifarei tutto da capo, senza nessun problema».

Da Notizie.it.

Alemanno contro Crosetto: "Ministro guerrafondaio. Non doveva censurare Vannacci". L'ex sindaco di Roma critica l'operato del ministro Crosetto nella gestione del caso Vannacci. Nicola Teofilo su Notizie.it Pubblicato il 19 Agosto 2023

“Crosetto non doveva censurare Vannacci in modo così brutale”. Gianni Alemanno prende una posizione netta contro il ministro della Difesa Guido Crosetto sulla gestione del caso Vannacci.

L’ex sindaco Alemanno contro Crosetto

Il portavoce del Forum dell’indipendenza italiana affonda la lama sul ministro Crosetto. Secondo Alemanno, “l’aspetto più grave e condannabile della vicenda del generale Vannacci” sarebbe proprio il suo comportamento, che “ha provocato l’immediata destituzione del Generale dal suo incarico“.

Mentre il ministro twitta provando ad arginare lo tsunami di polemiche, Alemanno passa al contrattacco: “Anche ammettendo che il comportamento di questo Generale sia stato criticabile, il ministro non poteva e non doveva censurarlo in modo così brutale attraverso un tweet, probabilmente senza neppure conoscere bene la questione”.

Il compito di un ministro della Difesa secondo Alemanno

L’ex sindaco di Roma critica l’operato del ministro della Difesa. “Il compito di un ministro – dichiara Alemanno – dovrebbe essere quello di difendere i suoi ufficiali, soprattutto quando hanno una carriera di tutto rispetto e in prima linea come Vannacci. Il compito di giudicarne il comportamento è degli organi disciplinari interni all’Esercito, non della autorità politica. Tra l’altro il pensiero esposto – magari con linguaggio da caserma – interpreta esattamente quello della gran parte dei nostri migliori soldati, come dimostra la piena solidarietà che gli è stata data dal mondo dei paracadutisti”.

“Ministro guerrafondaio. Un errore censurare il generale”

Alemanno prova a evidenziare presunte contraddizioni nella posizione del ministro Crosetto. “Evidentemente, è più importante far vedere che, oltre ad essere un iper-atlantista, è anche un primo della classe nel politicamente corretto. Non è bello né intelligente per un ministro della Difesa essere contemporaneamente guerrafondaio e sleale nei confronti dei suoi migliori soldati. Con chi pensa di combattere le sue future guerre? Con Elly Schlein e Roberto Saviano?”, si interroga Alemanno, in tono provocatorio.

Pillon festeggia per il libro di Vannacci primo in classifica: “Murgia è terza. La maggioranza delle persone crede alla normalità”. L’ex senatore Simone Pillon esulta per il libro del generale Roberto Vannacci primo in classifica su Amazon: il post. di Ilaria Minucci su Notizie.it Pubblicato il 20 Agosto 2023

Il controverso libro scritto dal generale Roberto Vannacci è attualmente primo in classifica su Amazon: il traguardo raggiunto è stato festeggiato tramite un post condiviso sui social dall’ex senatore Simone Pillon.

Pillon sul libro di Vannacci, il post per esultare sul successo in classifica Amazon

Resta acceso il dibattito sul libro del generale Roberto Vannacci, intitolato Il mondo al contrario. Se il filosofo sovranista Diego Fusaro ha messo al bando il volume descrivendolo come “una delle cose più brutte e insignificanti che mi sia mai capitato di leggere negli ultimi tre anni”, a tessere le lodi dell’autore è stato Simone Pillon, cofondatore del Family Day.

L’ex senatore, in un post condiviso su X (ex Twitter), ha scritto: “Vedere il libro del generale Vannacci al primo posto, e quello della Murgia in terza posizione mi conforta. Evidentemente c’è ancora speranza”.

Dopo essersi scagliato contro il terzo posto ottenuto da Accabadora di Michela Murgia e nel commentare la classifica dei libri più venduti su Amazon, Pillon ha continuato: “C’è una maggioranza silenziosa di persone che ancora credono nella normalità e che meritano di continuare ad essere rappresentate”.

Donzelli contro il Pd: “Cosa vogliono? Il rogo dei libri che non condividono?”

Oltre al ministro della Difesa Guido Crosetto, anche il deputato e responsabile organizzativo di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli è intervenuto sulla questione in occasione di un’intervista rilasciata al Corriere della Sera.

“Se stabilissimo che il compito della politica è decidere la bontà delle idee sarebbe la fine della democrazia: in un mondo libero si scrive ciò che si pensa”, ha detto Donzelli. “Se qualcuno si ritiene offeso ci sono gli organismi preposti. Chi ha dato al Pd il diritto di autoproclamarsi censore? Non vorrei arrivare al principio che si scrivono idee solo se piacciono al Partito democratico. Leggo che il Pd e le sinistre dicono di no. Ma cosa vogliono? La lapidazione in piazza? Il rogo dei libri che non condividono? Il gulag delle idee che non corrispondono alle tante correnti con cui litigano?”, ha continuato.

Il deputato di FdI, infine, ha sottolineato che Vannacci “come militare, fino a questa vicenda, ha reso un grande servizio alla Nazione” e, rispetto all’esame disciplinare avviato dal ministro della Difesa, ha osservato: “Rappresentando un ministero delicato, ha attivato un meccanismo previsto dalle procedure dell’esercito in modo che si potesse verificare se ciò che ha fatto corrisponde alle regole militari oppure no: ha fatto benissimo”.

Da Il Giornale.

I diritti difesi alla rovescia. Il mondo è alla rovescia, non al contrario, altrimenti mi sbattono davanti al plotone di esecuzione del politicamente corretto assieme al generale Vannacci. Fausto Biloslavo il 22 Agosto 2023 su Il Giornale.

Il mondo è alla rovescia, non al contrario, altrimenti mi sbattono davanti al plotone di esecuzione del politicamente corretto assieme al generale Vannacci. A Trieste, sotto il sole d'agosto, è andato in scena un flash mob pro donne islamiche che avevano fatto il bagno vestite come piace ai talebani e vogliono i loro mariti. Non è solo questione d'igiene, ma di identità culturale e religiosa che non possiamo accettare a cuor leggero se crediamo nell'emancipazione femminile. Per non parlare del fatto che nei paesi islamici, come l'Arabia Saudita, le donne occidentali non possono indossare liberamente il bikini. Domenica al bagno Pedocin una sessantina di persone, quasi tutte italiane, femministe e di sinistra hanno fatto un girotondo in mare vestite e con cartelli tragicomici da ecoansia come «Inquina di più un vestito o una nave da crociera?». Ovviamente hanno intonato Bella Ciao.

Fra le rare musulmane Maryam Tamimi, candidata di Open sinistra alle ultime regionali, era una delle organizzatrici che ha straparlato di islamofobia. «È importante dare sostegno e solidarietà a tutte le donne - sostiene sul Piccolo di Trieste la pasionaria a senso unico - indipendentemente dalle loro decisioni (magari imposte nda) in materia di abbigliamento. Tutte devono sentirsi libere di esprimere la propria cultura e la propria religione». Complimenti. Andranno a fare il flash mob anche a Kabul, dove le vere donne coraggiose scendono in piazza chiedendo democrazia e si beccano le fucilate dei talebani?

Nel mondo alla rovescia d'agosto difendiamo il modo talebano di fare il bagno, in nome della libertà, ma chiediamo la testa del generale Roberto Vannacci, che ha servito 40 anni il paese e la Patria. L'alto ufficiale avrebbe dovuto pubblicare il suo libro «Il mondo al contrario» una volta in congedo e non in servizio. Alcuni passaggi sono effettivamente pesanti e provocatori, ma nelle oltre 300 pagine il generale solleva dei problemi veri e seri come il multiculturalismo senza integrazione, l'estremismo ambientalista, la «dittatura» delle minoranze e il verbo intoccabile del pensiero unico politicamente corretto. Pd e Anpi, vestali della Costituzione che interpretano sempre pro domo loro, vorrebbero il libro al rogo e degradare in pubblica piazza il generale a due stelle.

Anche i giudici della suprema Corte hanno dato segni da colpo di sole agostano. La Cassazione sentenzia che i migranti sbarcati illegalmente, solo per il fatto che chiedono praticamente tutti asilo, non sono «clandestini». Roberto Saviano, il principe del politicamente corretto, ringrazia con un tweet i talebani dell'accoglienza di Asgi e Naga, per il successo. Ci sono voluti agguerrite e costose falangi di avvocati. Le due associazioni sono finanziate da Soros e Naga «insieme ai cittadini stranieri e contro ogni discriminazione» ha ricevuto anche 25mila euro da Fondazione Intesa Sanpaolo, emanazione della prima banca italiana.

Dopo la sentenza come dobbiamo chiamare il 63% dei richiedenti asilo che non l'ottengono e teoricamente non avrebbero diritto a rimanere nel nostro paese? L'Ordine dei giornalisti negli allucinanti corsi di formazione sul tema ci istruisce, da Minculpop moderno, che bisogna definirli migranti economici o climatici, mai clandestini pena sanzioni politicamente corrette. Le Ong più baldanzose si sono inventate una definizione che se non fosse da piangere farebbe ridere: «Persone in movimento». Più mondo alla rovescia di così.

Ho letto il libro di Vannacci e vi dico: va assolto”. Giancarlo Palombi, 22 agosto 2023 su Nicolaporro.it

“I militari possono liberamente pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione”. L’articolo 1472 del ‘Com’, il Codice di ordinamento militare parla chiaro: il generale Roberto Vannacci non ha commesso alcun illecito. La norma aggiunge: “Essi (i militari) possono, inoltre, trattenere presso di sé, nei luoghi di servizio, qualsiasi libro, giornale o altra pubblicazione periodica”. Dunque la linea guida ‘giuridica e comportamentale’ dei militari autorizza questi tanto a manifestare il proprio pensiero con pubblicazioni quanto a esporre sulla propria scrivania il libretto rosso di Mao. Come potrebbe quindi censurare disciplinarmente il libro autoprodotto dal generale incursore?

Roberto Vannacci, oltre a vantare un curriculum operativo di grande rilievo, è uomo abile nella dialettica e nella gestione delle controversie, un ufficiale addestrato (e abituato) a gestire e prevedere qualsiasi tipo di reazione. Difficile immaginare che non abbia previsto il caos sollevato dal suo ‘Il mondo al contrario‘. Il procedimento disciplinare – in gergo ‘processino’ incardinato dinanzi alla commissione disciplinare – una volta che si è conclusa l’inchiesta formale propone al Ministro della Difesa (nella sostanza alla Direzione Generale per il Personale Militare che ha la delega del Ministro della Difesa per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari di stato) di definire la posizione del militare inquisito: in sostanza la palla passa nuovamente a Crosetto.

Vannacci nelle 353 pagine di libro riporta fatti e circostanze che attribuisce a giornali, post pubblicati sui social, comune sentire. Insomma al ‘vox populi’. Pensieri e parole sì condite da considerazioni personali, ma basate sull’ovvio. A descrivere con lucidità e attenzione il contesto e il contenuto del libro è un altro generale (anche lui dell’Esercito) e con valide e importanti esperienza operative e di comando, Paolo Capitini. Così l’alto ufficiale scrive sul suo blog ‘Il Tempo dell’Ormai‘: “…Le 353 pagine sono dedicate alla certosina raccolta di quello che in moltissimi non solo pensano, ma normalmente esternano in molti oscuri luoghi di questo contorto paese… Provate a domandare al signor Quintilio che dalle parti di Moie sta arando il campo a bordo del suo FIAT 60-65 cosa farebbe a chi gli entra in casa, spaventa la moglie e il cane, ruba tutto e quando i Carabinieri lo prendono se ne va in affido o addirittura assolto. Provate! Resterete stupiti dalla grettezza oscurantista e anti-progressista di quell’uomo il quale all’evangelico ‘porgi l’altra guancia’ preferirà porgergli in testa la vanga di piatto… Tutelare le minoranze è un segno di civiltà giuridica, abbracciarne il credo, le convinzioni e gli atteggiamenti è tutt’altra cosa. Il diritto all’esistenza e alla tolleranza non implica in automatico quello alla simpatia e alla condivisione… Io ho letto il libro di Vannacci e non ho trovato altro che parole spesso udite camminando per strada o prendendo un caffè. Parole semplici, senza troppo approfondimento, con pochissima analisi e ancor meno studio ma non per questo poco diffuse tra la gente che vuol solo campare i suoi giorni”.

Vannacci ha scoperchiato forse un vaso di Pandora di sentimenti e luoghi comuni che inevitabilmente appartengono a una parte di italiani, ma non ha violato il codice militare. Dunque, dovrà essere assolto. Se così non fosse, sarà difficile evitare la bolla di condanna politica del suo gesto.

Giancarlo Palombi, 22 agosto 2023

Il bianco e il nero. "La sinistra giudice". "Indossa la divisa...". Vannacci e il libro che divide. I deputati Federico Mollicone (FdI) e Piero Fassino (Pd) sul caso del volume del generale. Francesco Curridori il 24 Agosto 2023 su Il Giornale.

Il caso del generale Roberto Vannacci riporta d'attualità il rapporto tra la libertà d'espressione e la censura del politicamente corretto. Per la rubrica Il bianco e il nero ne abbiamo parlato con il meloniano Federico Mollicone e il democratico Piero Fassino.

Cosa pensa del caso del generale Vannacci?

Mollicone: “È vittima della sovraesposizione mediatica, come ha detto il capogruppo Foti in un'intervista, del classico caso estivo, particolarmente enfatizzato, e del fenomeno del "clickbaiting", del titolone e del caso eclatante. Vannacci ha smentito la presenza di frasi omofobe e razziste nel suo libro. Una nota blogger di sinistra - Bubble - ha analizzato testualmente il libro e ha dimostrato che nessuna delle frasi per cui è attaccato non aveva il senso per cui sono state citate, ma sono state decontestualizzate e usate strumentalmente. La lingua italiana ha delle figure retoriche come l'iperbole: basta isolarle e decontestualizzarle per sostenere il contrario di ciò che uno vuole sostenere. È successo anche a me in passato di vedermi attaccato con forme di “character assassination” tramite frasi fuori contesto, che isolate avevano senso contrario rispetto ciò in cui credo. Vannacci ha un curriculum di altissimo livello, con impegni internazionali e diplomatici di rilievo, una figura di spessore nel mondo militare. Ha denunciato alla procura ordinaria militare la mancata tutela e informazione dei soldati nei teatri operativi dove si utilizzava l’uranio impoverito, ricevendo anche il plauso della stampa di sinistra e venendo citato in interrogazioni parlamentari di Rifondazione. Mi chiedo se anche questo non abbia influito su questa repentina iniziativa dello Stato maggiore. Vannacci potrà, nelle sedi opportune, esprimere le sue ragioni e solo alla fine delle opportune verifiche interne, che verranno condotte con serietà e scrupolo e non sull'onda emotiva del momento e delle polemiche di questi giorni, ove venissero ravvisate delle serie e valide contestazioni, ai sensi del Codice dell'Ordinamento militare, verranno avviati i procedimenti disciplinari previsti in ordinamento”.

Fassino: “Credo che chi ricopra incarichi istituzionali, soprattutto in ambito militare, debba evitare di sovrapporre le proprie opinioni alla funzione che ricopre. Molte delle opinioni espresse dal generale sono state vissute come offensive da destinatari. Peraltro, il generale ha giurato fedeltà alla Costituzione che esclude nel modo più assoluto ogni forma di discriminazione verso gli orientamenti culturali, religiosi, sessuali dei cittadini. Mi chiedo: ma nei tanti incarichi di comando ricoperti quali valori ha trasmesso il generale ai suoi sottoposti”.

Crede che il ministro Crosetto abbia agito correttamente?

Mollicone: “Guido Crosetto è un ottimo ministro della Difesa. Ha difeso come ministro l’immagine delle Forze armate ed ha agito da rappresentante delle istituzioni, saranno però gli organi delle Forze Armate a portare autonomamente avanti una verifica e non la politica a decidere se Vannacci abbia seguito le leggi”.

Fassino: “Crosetto nel tentativo di sopire le polemiche ha detto che ha deciso da 'non politico'. Mi pare vero il contrario. Crosetto si è comportato da uomo politico che ha senso dello Stato e delle istituzioni. Cosa che non hanno i tanti che lo hanno attaccato. Colpisce che ad oggi non si conosca l’opinione della Presidente Meloni. Condivide quel che ha deciso Crosetto o quel che proclama Salvini? Un silenzio ambiguo che non accresce certo la credibilità dell’on. Meloni”.

Siamo in presenza di una sorta di censura del politicamente corretto?

Mollicone: “Chi ha letto il libro sa - come ha detto Crosetto stesso - che la critica al politicamente corretto che fa Vannacci l'abbiamo già letta più volte e da fonti diverse. Nessuno ha dato alla sinistra italiana il diritto di autonominarsi censori, agenti morali del politicamente corretto. Non spetta al Pd decidere cosa si può scrivere o non scrivere nei libri. In una democrazia liberale non è compito della politica vagliare la correttezza morale dei contenuti degli scritti”.

Fassino: “Nessuna censura, ma ripeto: chi ricopre incarichi istituzionali ha il dovere del rispetto e della misura. Chi indossa una divisa rappresenta agli occhi dei cittadini le forze armate a cui non si possono accreditare opinioni personali, tanto più quando estreme. Una parte vasta di cittadini si è ritenuta giustamente offesa. E questo rischia di gettare un’ombra sulla credibilità delle Forze armate, che invece sono un presidio essenziale dello Stato democratico”.

Facci, Roccella e Vannacci. Perché le provocazioni o le idee che arrivano da un esponente conservatore diventano subito tema di scandalo?

Mollicone: “Quando il generale Del Vecchio si candidò con il Pd, disse frasi giudicate di natura omofoba, poi si scusò e per Veltroni la questione era chiusa. Dalla sinistra due pesi e due misure. La sinistra di Schlein si vuole attribuire il diritto di decidere cosa si può dire e cosa no, con il riflesso pavloviano del comunismo sovietico. Il Pd non può essere giudice e giuria. Esiste un tema sul giornalismo da “clickbaiting”: da settembre me ne occuperò, in qualità di presidente della Commissione Editoria. Anche le grandi testate e il giornalismo virano verso il sensazionalismo per maggiori visualizzazioni dei siti. È un tema molto serio di autorevolezza dell’informazione e di fiducia nei media su cui il Parlamento lavorerà”.

Fassino: “Perché spesso propongono pesanti arretramenti rispetto al livello di diritti e di democrazia raggiunti dall’Italia. Gli esponenti della destra hanno diritto naturalmente di sostenere le loro opinioni. Ma chi non è’ d’accordo ha un pari diritto di dissentire e di dirlo”.

Qual è il confine che tra la libertà d'espressione e la provocazione fine a sé stessa?

Mollicone: “La Costituzione all’articolo 21 tutela a chiare lettere la libertà di espressione così come dall’articolo 1472 dell’ordinamento militare. Se qualcuno ritiene di essere stato offeso dall’altrui opinione ha gli strumenti per poter chiedere ad un giudice se i limiti che la libertà di espressione incontra sono stati travalicati”.

Fassino: “Con il prepotente avvento dei social si tende più a prediligere la polemica aggressiva a scapito del confronto e della ricerca di comprendere le ragioni dell’altro. Non esiste più dialettica. E alla libertà di espressione troppo spesso si sostituisce la libertà di insulto”. Autore Francesco Curridori

Il gioco di ridurre il generale a emblema di una parte politica. Francesco Maria Del Vigo il 22 Agosto 2023 su Il Giornale.

Sotto il cielo agostano regna il caos generale. Nel senso del generale Roberto Vannacci e del suo celeberrimo libro - oramai un bestseller da ombrellone - «Il mondo al contrario». Se tutto va alla rovescia, come sostiene il militare, la sinistra invece prosegue sulla strada di sempre: cioè quella della strumentalizzazione politica. Il trucco è di una banalità sconfortante: Vannacci è impresentabile (perché lo hanno deciso loro, ovviamente), dunque chi difende Vannacci è automaticamente impresentabile e connivente con un pericoloso nemico della Costituzione (quella stessa Costituzione - per inciso - che all'articolo 21 garantisce che tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero). Eppure il concetto non è difficile, anzi è piuttosto basilare: difendere la libertà di parola e la circolazione delle idee di una persona, non significa né sottoscrivere, né condividere tutto quello che dice. È semplicemente un esercizio di democrazia.

Capiamo che ai gendarmi del politicamente corretto e ai vigili delle ztl del pensiero unico questo principio vada di traverso, ma è troppo semplice lisciare il pelo alle idee comode e ostracizzare quelle scomode e financo ustorie. È proprio in questi frangenti che si misura la maturità democratica delle forze politiche. La pubblica crocifissione del soldato Vannacci vuole essere un monito - per nulla subdolo - per chiunque abbia intenzione di imboccare una strada differente da quella del pensiero mainstream.

Così per i progressisti il nuovo tormentone dell'estate è vedere in Vannacci la punta dell'iceberg di quell'anima nera (copyright La Repubblica) e di quella galassia nera (segue a ruota La Stampa, con grande originalità) che come un magma si muoverebbe sotto la crosta terrestre della destra italiana. Anzi, peggio, che la terrebbe in scacco con il suo peso elettorale, tanto fantomatico quanto inesistente, dato che ogni volta che formazioni estremiste si sono presentate alle urne sono state rispedite a casa dagli elettori con percentuali da zero virgola.

Ma il «caos generale» rischia di travolgere anche la destra, che non deve cadere nel tranello della sinistra: né spaccandosi di fronte all'arroganza dei mozzalingue che vorrebbero mettere al rogo l'autore e il suo libro, né trasformando involontariamente il generale nel punto di riferimento culturale di un'intera area. Perché di intellettuali di destra ce ne sono tanti e sono molto più meritevoli dell'attenzione del dibattito pubblico e politico. Francesco Maria Del Vigo

Estratto dell’articolo di Camillo Langone per "Il Giornale" domenica 27 agosto 2023.

Una femminista per colui che in pochi giorni, veloce proprio come una folgore, ha soffiato a Francesco Figliuolo il titolo di Generale per antonomasia: Roberto Vannacci. Lucetta Scaraffia, storica cattolica e ahinoi femminista (ahinoi per noi maschi, ovviamente), ha scritto ieri sulla Stampa, giornale naturaliter antivannacciano, un articolo parecchio possibilista, un pezzo quasi dalla parte del Generale e del suo inopinato bestseller: «Un libro che merita di essere preso sul serio».[...]

Quali capitoli hai trovato più interessanti?

«Quelli in cui mostra le sue innegabili competenze e dunque quando parla di difesa, di ambiente, di migrazioni... Quello sulla famiglia è il capitolo più debole, le femministe non sa neanche chi sono...». 

Beato lui!

«Beato lui? Fa un discorso nostalgico sulla famiglia dei bei tempi andati, si capisce che conosce soltanto la famiglia di suo papà e sua madre e quella con sua moglie e le loro due figlie. Non sa che la legge del 1975 sul diritto di famiglia di quei bei tempi andati ha corretto molto e del resto come potrebbe saperlo, fa il generale». 

E poi, come scrivi anche tu nell'articolo, Vannacci ha vissuto molti anni in Africa e in Afghanistan: laggiù di femministe ce ne sono poche.

«Sì, leggendo il suo libro si capisce che conosce il mondo. Guarda l'Italia da difuori, ha una dimensione molto più ampia di molti osservatori soliti». 

Mi viene in mente l'intervista che gli ha fatto Tommaso Labate sul Corriere, un articolo la cui derisione è a dimensione di salotto: altro che Africa e Asia, altro che mondo, è la visione di Roma Centro.

«Il libro è molto meglio delle interviste. Le interviste sono tremende, lui coi giornalisti non sa destreggiarsi, anche in tv si trova di fronte a persone abilissime, a giornalisti assatanati che cercano di fargli dire cosa vogliono loro. Non ho ancora letto una sola intervista fatta con un minimo di rispetto e di curiosità. E pensare che Il mondo al contrario non è neppure omofobo e razzista...». 

Anche se fosse? Per omofobi e razzisti la libertà di espressione sancita dalla Costituzione non vale?

«Credo che una debba potersi esprimere anche se omofobo e razzista. Però lui non lo è.

Non considera l'omosessualità una malattia come invece tanti scienziati fino a 30 anni fa». 

Fino al '90 l'Oms la considerava una malattia mentale, oggi se osi criticare Sodoma anche solo vagamente ecco un ministro di un partito di destra che ti dà del malato di mente sui social.

«Non vorrei infierire su Crosetto, su un governo così fragile davanti agli ovvi attacchi dell'opposizione. Hanno creduto di poter finalmente fare, di poter finalmente dire, e invece non possono dire niente». 

Sulla Stampa ti sei chiesta: Ci voleva un generale della Folgore per dire queste cose che tanti pensano? Io credo che se cose simili le avesse scritte un intellettuale certificato come Veneziani nessuno ne avrebbe parlato.

«Veneziani non avrebbe potuto scrivere come ha scritto Vannacci, ossia rozzamente ma con solide convinzioni maturate osservando il mondo, non mediate dai libri né dall'ideologia».

[...]

"Annullare l'evento". Anpi e femministe vogliono zittire Vannacci. Decine di giovani vicini all'estrema sinistra hanno partecipato alla manifestazione organizzata a Lucca da Rifondazione Comunista, intonando cori offensivi e minacciosi nei confronti del generale Vannacci. Giovanni Fiorentino il 29 Settembre 2023 su Il Giornale.

Oltre un centinaio di giovani, vicini a quanto sembra all'estrema sinistra, si sono presentati all'esterno dell'edificio nel quale il generale Roberto Vannacci era stato invitato a presentare il suo libro. E una volta giunti sul posto ed individuato il militare, hanno iniziato a rivolgergli cori offensivi e minacciosi. Questo è quanto avvenuto nelle scorse ore a Lucca, davanti alla Casa del Boia. Vannacci era atteso nella città toscana per presentare il suo "Il mondo al contrario", il testo che nel giro di poche settimane ha venduto decine di migliaia di copie. Poco prima del suo arrivo, la sezione lucchese di Rifondazione Comunista aveva però chiamato a raccolta gli iscritti, insieme ai Giovani Comunisti, ai collettivi studenteschi e alle associazioni della sinistra locale.

Una manifestazione che i comunisti lucchesi hanno a loro dire disposto per "dire no ai contenuti razzisti ed omofobi del libro scritto dal generale Vannacci", stando perlomeno a quanto spiegato in un comunicato pubblicato sulla pagina Facebook della sezione di Rifondazione Comunista Lucca. I manifestanti hanno quindi raggiunto le persone interessate invece ad assistere alla presentazione del libro, che aspettavano di prendere posto all'interno dello stabile. E all'arrivo di Vannacci, sventolando le varie bandiere rosse, gli antagonisti hanno a quanto sembra iniziato ad insultarlo e a minacciarlo a suon di cori da stadio. “Vannacci fascista, sei il primo della lista”, uno degli slogan che avrebbero intonato. E ancora: "Fascisti, carogne, tornate nelle fogne". Per non parlare dello striscione, tenuto bene in vista durante il presidio: "Vannacci stai attento, ancora fischia il vento". Una contestazione che non è passata inosservata agli occhi dello stesso Vannacci.

Stando a quanto riportato dalla stampa locale però, il diretto interessato non ha fatto una piega: ha salutato le numerose persone che avevano raggiunto la Casa del Boia per partecipare alla presentazione letteraria e ha poi iniziato a parlare del libro. All'evento erano presenti anche poliziotti e carabinieri, per accertarsi che la la situazione non degenerasse. E al netto di qualche momento di tensione, non si sarebbero comunque registrati disordini: i contestatori sono stati scortati dagli esponenti delle forze dell'ordine, per essere successivamente indirizzati verso la vicina piazza San Francesco. Con una curiosità: stando a quanto riportato dal quotidiano La Nazione, i manifestanti non hanno mai dato l'impressione di voler davvero entrare all'interno della Casa del Boia per la presentazione, magari per confrontarsi con lo stesso Vannacci. E la protesta si sarebbe perciò esaurita in breve tempo.

Da Libero Quotidiano.

Generale Vannacci, "sti quattro fr***i": la vergogna del Fatto e del rosso Paglia. Libero Quotidiano il 20 agosto 2023

Almeno un merito, la becera vignetta di Mannelli in prima pagina sul Fatto quotidiano, ce l'ha: riassumere in un solo schizzo (di fiele) e in poche parole (al veleno) cosa pensano a sinistra del generale Roberto Vannacci e di tutto il centrodestra in generale. Ricapitoliamo: il militare ha pubblicato un libro controverso, Il mondo al contrario, con tesi forti su forze armate, omosessuali e immigrazione. Ovvia e immediata la levata di scudi dei progressisti, che hanno accusato il generale di razzismo e omofobia e accusato il governo di appoggiare lui e le sue idee. Chissà perché, visto che il ministro della Difesa Guido Crosetto ha subito preso le distanze assumendosi la responsabilità di farlo trasferire. Non basta, però, perché l'equazione è facile facile: generale, ergo militare, ergo di destra, ergo razzista e omofobo. 

Una prova? La vignetta, appunto, sul Fatto: "L'audace colpo dei soliti noti", scrive in calce il vignettista di Travaglio, che ritrae il generale Vannacci con il classico basco amaranto della Folgore (altra equazione facile facile: parà, dunque fascista). Quindi l'immaginario, sgrammaticato virgolettato del militare: "M'hanno rimasto solo 'sti quattro froci...".

Se non basta, ecco servite le dichiarazioni di Giovanni Paglia, esponente dell'Alleanza Verdi-Sinistra: "Se l'ultimo dipendente del più piccolo Comune italiano scrive un commento che non condividono, quelli della destra ne chiedono licenziamento immediato e lapidazione. Se però un generale dell'Esercito lancia una crociata omofoba, sessista, razzista e antisemita, in questo Paese può accadere che, troppi, esponenti della destra al governo scoprano la libertà di espressione. La realtà è che purtroppo ne condividono parola per parola". 

Il generale Vannacci da radiare? Sinistra in imbarazzo: chi l'aveva nominato. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 20 agosto 2023

Per fortuna che la pena di morte nel codice militare non c’è più, altrimenti chissà che fine avrebbero fatto fare al generale Roberto Vannacci. E' il tempo delle dichiarazioni che «non si possono fare», che poi pare il destino delle minoranze. Anche se però il libro tanto contestato del militare è schizzato in testa alle vendite su Amazon. Il mondo al contrario: in effetti... Minoranza o maggioranza? Il tema non è essere d’accordo o meno con Vannacci; per fortuna c’è libertà. Ma che sia vietato proprio essere d’accordo. E questo è assurdo. La sinistra è in preda al delirio. Alessandro Zan, che si può capire si senta punto sul vivo, arriva a dire che Vannacci non deve essere solo trasferito, come è accaduto immaginiamo su direttiva del ministro Crosetto; di più, magari lo vorrebbe proprio far licenziare dall’Esercito. Si chiede Zan: «Ma chi lo ha legittimato?». Fra poche righe lo scoprirà anche lui.

DELIRI PROGRESSISTI

E' ammirevole la schiena dritta del senatore Roberto Menia (Fdi) che nella chat “destra sociale” su whatsapp ha scritto: «Non a caso lo avevano messo all’Istituto geografico. Eppure parla 7 lingue e ha tre lauree e tre master. Ma è politicamente scorretto... Viva chi ha il coraggio di dire la verità!» aggiungendo un significativo Ps: «E ha fatto tutte le missioni del mondo». Una neoparlamentare del Pd, si chiama Tajani anche lei ma non è nemmeno parente del leader azzurro, parla bellamente di «opinioni presenti in alcuni esponenti del governo». Si infila anche il verde Bonelli – immancabile nella conquista di due righe d’agenzia – che pretende, pure lui, la «radiazione» del militare. La sinistra strepita e non sa di che e di chi parla. Basterebbe qualche nota della carriera di Vannacci. Che nel 2016, «Il semplice trasferimento di Roberto Vannacci non è sufficiente. La sua presenza ai vertici dell’Esercito continua a recare discredito e disonore alle Forze armate, a cui va sempre un riconoscimento per la difesa dei valori costituzionali che lui offende. Da lui un saggio dai contenuti eversivi» da generale di Brigata, assunse il prestigioso comando dei parà della Folgore. L’anno dopo fece i bagagli e andò in Iraq contro lo Stato islamico. Il signor ministro della Difesa si chiamava Roberta Pinotti, Pd.

Mica è finita qui. Nel gennaio 2020 va a Mosca, come addetto militare alla rappresentanza diplomatica italiana, e accreditato anche in Bielorussia, Armenia e Turkmenistan. Un uomo talmente libero che nella gestione dei rapporti – cattivi – tra Italia e Russia per l’invasione dell’Ucraina, fu dichiarato «persona non gradita» da Mosca e rispedita in Italia, assieme ad altri nostri connazionali espulsi per rappresaglia. L’incarico terminò a settembre 2022. Lo ringraziò un altro ministro del Pd, Lorenzo Guerini, con il quale era cominciata la sua missione da quelle parti. Ma c’è ancora di più. Le urla e i pugni chiusi si sprecano. Ma mica sempre è andata così. Difese i militari che denunciavano la presenza di uranio impoverito e sul Manifesto è ancora stampato il grazie di Rifondazione comunista per aver presentato un dossier a tutela dei suoi soldati. Vannacci, in servizio, presentò un esposto presso la procura di Roma e quella militare dove chiamava in causa gli alti vertici della Difesa «per le palesi omissioni che hanno oggettivamente impedito la salvaguardia del proprio personale dall’esposizione all’uranio impoverito nelle missioni all’estero». A scriverlo in un’interrogazione fu la senatrice Paola Nugnes, che era trasmigrata dai Cinque stelle al gruppo misto e presentò l’atto parlamentare sollecitata proprio da Rifondazione.

DOPPIO BINARIO

Adesso, invece, tutti scatenati contro un militare che ha scritto un libro con le proprie opinioni. Condivisibili o meno, anche in singole parti. Come accade proprio per ogni libro. Probabilmente ha toccato tasti dolenti del politicamente corretto e gli viene rimproverato a viva voce. Ricordate la proposta di legge Zan? Il centrodestra non voleva che le opinioni – non la violenza omofoba che è altra cosa – non dovessero essere perseguite. Che è quel che accade a chi le manifesta pubblicamente. Perché sicuramente c’è il diritto opposto, che è quello di contestare anche vivacemente il pensiero che non si vuole condividere: ma le tonalità che si elevano addirittura per invocare il licenziamento di Vannacci appaiono oggettivamente un fuor d’opera. La museruola non si mette agli essere umani. 

Vannacci, il generale Magni: "Perché do ragione a lui". Paola Natali su Libero Quotidiano il 22 agosto 2023

Non è semplice trovare militari disposti a commentare il caso del gen. Roberto Vannacci, c’è chi richiede l’anonimato e chi invece anche se in congedo non vuole parlare dicendo è «un collega». Chi ha accettato è il generale di brigata Roberto Magni in congedo dalla Guardia di Finanza, che ha svolto molteplici incarichi internazionali, nelle missioni Onu e Ue in Kosovo, prima a capo dell’Unità Indagini Finanziarie, poi come Direttore FIU, l’organismo incaricato del monitoraggio delle transazioni economiche per finalità antiriciclaggio e antiterrorismo. Successivamente in Ambasciata Italiana a Vienna come esperto economico -finanziario con competenza su Unodc, Osce, Austria, Croazia, Rep. Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria.

Gen. Magni cosa pensa del libro e della bufera che si è scatenata?

«Non ho ancora avuto modo di leggerlo tutto, ma ritengo che ci siano alcuni aspetti condivisibili ed altri no. I temi dell’energia e dell’ambiente, ad esempio, andrebbero approfonditi, perché fior fiore di scienziati dicono cose molto diverse da quello che i media ci raccontano e che la politica, specialmente comunitaria, vorrebbe imporci, talvolta in modo fazioso ed irrazionale. La bufera che si è scatenata, purtroppo, è in gran parte figlia della volontà di contrapposizione che viviamo nella società odierna, nella quale si è totalmente persa la dialettica a favore dello scontro: a mio avviso bisognerebbe comprendere meglio le motivazioni che hanno spinto un alto ufficiale ad esporsi in questo modo ed a fare certe affermazioni, piuttosto che condannarlo a prescindere, perché è innegabile che la società moderna viva un disagio di fondo».

Come valuta da militare il comportamento del generale Vannacci?

«Anch’io una decina di anni fa ho pubblicato un libro, insieme ad un collega, ma abbiamo seguito le circolari emanate per lo svolgimento di tale attività. A quanto ne so il Gen. Vannacci non ha informato la sua gerarchia, per cui ha commesso una violazione della quale, se i suoi superiori lo riterranno, dovrà rispondere. Nessuno meglio di un militare conosce il valore del brocardo dura lex sed lex».

Omofobia e sessismo nell’ambiente militare esistono?

«Penso che esistano come esistono in qualsiasi ambiente, ma derivano da un disagio individuale nell’affrontare certe tematiche. Di certo se le questioni venissero affrontate con maggiore serenità e senza estremizzazioni il problema non si porrebbe neppure. Certi problemi nascono dal fatto che qualcuno alimenta la contrapposizione per proprio interesse. Sull’affermazione che i gay non sono normali le porto un esempio personale: durante la missione ONU in Kosovo il mio capo era omosessuale, sposato con un altro uomo. Sul lavoro e fuori si comportava in modo ineccepibile, per cui era da tutti considerato assolutamente “normale”, in quanto la sessualità è una cosa intima, personale, per cui ognuno è libero di viverla come meglio crede, senza condizionamenti e senza essere giudicato. Basterebbe un po’ di equilibrio, suvvia!»

Vale sia per gli eterosessuali che per gli omosessuali?

«Non posso negare che attualmente vi sia una forte spinta tesa a scardinare i valori cristiani su cui si fondano duemila anni di storia in Europa, ma non credo che sia per garantire maggiori diritti a chicchessia, bensì per meri interessi economici. Chi vuole che il nostro Continente venga “invaso” da persone disperate lo fa perché trova manodopera a basso costo, disposta a tutto per vivere, cancellando due secoli di lotte fatte dai lavoratori per ottenere il rispetto dei loro diritti».

Cosa pensa dei provvedimenti presi nei confronti di Vannacci?

«L’apparato militare ha in sé gli anticorpi per reagire quindi credo che un suo cambio di incarico sia l’unico provvedimento che potessero adottare nei suoi confronti, in attesa di chiarire l’intera vicenda».

Parlando di legittima difesa qual è la sua posizione?

«Da ex appartenente ad una forza di polizia dico che la legittima difesa è contemplata nella vigente normativa, basta che essa sia proporzionata all’offesa. Altrimenti finiremmo per avere casi come quelli accaduti recentemente negli USA, dove due persone sono state uccise per aver suonato al campanello sbagliato o per aver fatto manovra nel giardino di una persona dal “grilletto facile”».

Quanti pensano come Vannacci nel mondo militare ma non esprimono le loro idee?

«Non saprei se e quanti la pensano come lui, ma di certo non sarà l’unico, altrimenti non avrebbe assunto l’iniziativa di esprimersi in modo così forte. In fondo, comincio a pensare che in gran parte il libro volesse essere una provocazione, per richiamare l’attenzione su temi divisivi e che, comunque, creano disagio in molti. Mi lasci chiudere con un pensiero personale, che si ricollega ad uno dei temi citati nel libro, quello del razzismo. Ritengo sbagliato che solo “black lives matter”, perché tutte le vite sono importanti indipendentemente dal colore della pelle, dalle idee politiche, sessuali, religiose, così come sancito dall’art. 3 della nostra Costituzione. Se tutti si attenessero a questa regola aurea, rispettandosi l’un l’altro, garantendo a tutti pari libertà e dignità mancherebbe l’oggetto del contendere rispetto ai temi trattati dal gen. Vannacci».

Generale Vannacci, la moglie confessa: "Non ho letto il libro, ma dietro ci sono io". Hoara Borselli su Libero Quotidiano il 10 settembre 2023

«Il libro di mio marito probabilmente non cambierà il mondo ma dal mio punto di vista sicuramente ha risvegliato qualche coscienza». Queste le parole che Camelia Mihãilescu, moglie del Generale Vannacci, ha consegnato in esclusiva a Libero. 

Camelia, lei ha deciso di rompere il silenzio e attraverso i suoi profili social si è esposta nel dichiararsi totalmente concorde con i contenuti trattati nel libro scritto da suo marito. Condivide davvero tutto?

«Partiamo dal fatto che io non ho letto il suo libro (ride, ndr). Strano no?».

Beh direi di sì. Come si fa a condividere un qualcosa che non si è letto?

«La nostra estate è stata molto movimentata. Un po’ per l’uscita del libro e quello che ha suscitato e poi per motivi familiari visto che mia suocera è stata molto male. Solitamente leggo 4 o 5 libri. Quest’estate ne sono riuscita a leggere solo uno e mezzo e non era quello di mio marito. Però mi sono ripromessa di leggerlo quanto prima».

Mi perdoni se insisto. Il libro non l’ha letto. Ha avuto però modo di conoscerne i contenuti tramite suo marito, o si è lasciata andare a commenti di condivisione solo per il sentimento che vi lega?

«Io conosco il contenuto del libro perché Roberto spesso mi chiamava leggendomi paragrafi e chiedendomi pareri su alcune cose che avrebbe scritto».

Bene, questo ci rincuora. Quindi lei sottoscrive ogni argomento trattato da suo marito nel libro e non dissente su nulla?

«Io condivido tutto, ogni singola parola e ogni singolo concetto espresso nel libro. Io sono stata cresciuta in una famiglia tradizionale come Roberto e anche se noi siamo due persone completamente diverse abbiamo gli stessi identici valori: la famiglia , il rispetto l’educazione, il buon senso e il coraggio».

A proposito di coraggio, lei in un suo post Facebook ha scritto questo: “In un mondo pieno di ipocrisia e politicamente corretto, è un’eresia avere opinioni personali e avere la capacità il coraggio di assumerle e sostenerle”.

«Sì, ho scritto questo perché sono convinta che in questa società per dire cose definite “scomode” ci voglia molto coraggio e se le dici vieni emarginato, guardato male».

Nel vostro caso, in quello di suo marito, dire cose scomode non vi ha molto penalizzato, visto il successo di vendite del libro. Lei come se lo spiega?

«Questo è sicuramente un libro diverso da tutti gli altri e probabilmente Roberto è stata la prima persona a scrivere cose che pensiamo quasi tutti ma nessuno ha avuto il coraggio o l’idea di metterle nero su bianco».

Ci racconta com’è nata l’idea del libro?

«Ricordo perfettamente che ad un certo punto Roberto ha palesato un suo disagio interiore. Diceva che non si ritrovava in questa società. Troppe cose stavano cambiando in peggio e aveva deciso di scrivere questi suoi pensieri e le sue idee. Io quando stavo in Romania, prima di venire in Italia all’età di 33 anni lavoravo in una casa editrice e l’ho sempre incoraggiato a scrivere».

Quindi possiamo dire che dietro il libro di suo marito c’è una forte spinta sua...

«Io gli avevo consigliato di scrivere un libro autobiografico perché ritenevo che lui avesse cose interessanti da raccontare, vissute nei teatri di guerra dove svolgeva il suo lavoro. Lui ha però preferito iniziare a buttare giù sensazioni derivanti dal disagio che stava provando rispetto al cambiamento della società che vedeva intorno a lui. E da lì è nato il libro. Pensavamo di vendere due o trecento copie al massimo». 

Suo marito è stato molto criticato rispetto alla frase gli omosessuali “non sono normali” che gli è costata l’etichetta di omofobo. Lei rispetto a queste parole e questo tema come si pone? 

«Le rispondo raccontandole questo episodio. Quando dalla Romania sono venuta in Italia, per divertimento ho iniziato un corso di taglio e cucito. Frequentando questo corso ho conosciuto un ragazzo omosessuale di cui sono diventata molto amica. È stato colui che quando mi sono sposata in chiesa in Italia con Roberto, non volendo il classico vestito tradizionale, lo ha realizzato. E non solo quello, anche il papillon di Roberto. Questo per dire che non abbiamo alcun pregiudizio nei confronti degli omosessuali». 

Lei è d’accordo sull’adozione dei bambini da parte di coppia omosessuali?

«Io sono per la famiglia tradizionale. Credo che un bambino debba crescere con l’esempio di una madre e di un padre. A me dà parecchio fastidio quando mi arrivano degli avvisi della scuola che riportano la dicitura genitore uno genitore due. Io non sono genitore uno, io sono la mamma e Roberto non è genitore due ma il papà». 

Qual è il lato del carattere che ama più di Roberto? 

«La capacità e il coraggio di sostenere le sue convinzioni e portarle avanti».

Da Il Tempo.

Roberto Vannacci, la guerra che il generale non conosceva. Gianluigi Paragone su Il Tempo il 20 agosto 2023

«Ha messo in imbarazzo l’Esercito». «Ha creato un problema di immagine per la Difesa». «Deve chiedere scusa». E perché il generale Vannacci deve chiedere scusa o sarebbe un problema per l’Esercito? Perché ha messo nero su bianco delle opinioni che evidentemente non si possono più esprimere nel tempo della omologazione, della standardizzazione culturale che fissa paletti circa cosa sia giusto o meno, opportuno o inopportuno. Libro machista, omofobo, razzista: meno male che non c’è la legge Zan altrimenti per il generale finiva male.

Altro che le missioni in guerra che ha portato avanti da comandante: oggi, se la deve vedere con il plotone di esecuzione del politicamente corretto. Difendere il generale e la sua libertà di opinione significa non arrendersi al meschino esercizio cui ti costringono coloro che, con la bava alla bocca, stanno dando la caccia al Cattivo uscito dalla caverna. A costoro non basterà nulla, non le scuse (a chi, poi?), non la rimozione o altro: Vannacci deve sparire perché intossica la democrazia, l’evoluzione della società. Ma questa democrazia soffre di un male peggiore, ovvero l’incapacità di reggere un pensiero dissenziente.

Il libro di Vannacci è l’antitesi del mondo di Barbie, delle sue battaglie di emancipazione telecomandata a botte di marketing. Vannacci è ruvido, è antico, è un conservatore, e soprattutto è un militare vecchio stampo tanto che lo trovavi sempre nelle situazioni più complicate, più ardite, a dare ordini perentori che non permettevano il disallineamento. Paradossalmente, oggi il generale paga per non essersi allineato al mondo di Barbie, a quell’esercito del Pensiero unico cui però non aveva prestato servizio né giurato. Chi oggi è disposto a sacrificare Vannacci e chi, come lui, ha il coraggio di esprimere opinioni spigolose e controcorrente, sta commettendo un errore di prospettiva enorme, perché si sta piegando alla visione del Pensiero unico dove il giusto, l’opportuno, il bene (e così dicendo) si solidificano per decisioni dall’alto e non per consolidamento culturale. Le frasi e le pagine contestate sono frasi di una visione (minoritaria o no) che è presente nel Paese, e come tale ha eguale ripeto - eguale diritto di manifestarsi, senza per questo subire processi mediatici e censure per mano dei monopolisti social. Vannacci, infine, non ha messo in imbarazzo l’Esercito: dell’Esercito, egli è stato un validissimo comandante, uno dei migliori in circolazione. Egli è dentro quell’Esercito che non ha bisogno di ministri e sottosegretari in posa per le pagine social. Quella gente sì che ha messo in imbarazzo l’Esercito. 

Caso Vannacci, Donzelli: "La sinistra non si autonomini agente morale". Il Tempo il 19 agosto 2023

Il libro "Il mondo al contrario" del generale Roberto Vannacci ha scatenato una vera e propria bufera. Il militare, per la pubblicazione auto-prodotta, è stato prima accusato di razzismo e di omofobia, e poi destituito dal comando dell’Istituto Geografico Militare di Firenze. La decisione dello Stato Maggiore dell’Esercito è arrivata 24 ore dopo lo scoppio delle polemiche. L’Esercito italiano ha fatto sapere che il generale cesserà domenica 20 agosto il suo incarico di comandante e sarà quindi trasferito in forza extra organica al Comfoter, ovvero il Comando delle Forze Operative Terrestri. Ora è arrivato il commento di Giovanni Donzelli. 

"L'Esercito, che ha delle giuste regole stringenti, anche su sollecitazione del ministro, ha fatto partire un esame disciplinare. Alcune associazioni hanno pure annunciato esposti e quindi anche la Magistratura dovrà vagliare le parole nel suo libro": così il deputato di Fratelli d'Italia, che ha concesso alcune dichiarazioni all'Ansa, si è espresso sul caso che sta attirando l'attenzione dell'opinione pubblica e dividendo la politica.

Poi Giovanni Donzelli ha continuato: "Ho letto che al Pd non basta. Ecco, questo lo trovo particolarmente sgradevole. Nessuno ha dato alla sinistra italiana il diritto di autonominarsi censori, agenti morali del politicamente corretto. Non spetta al Pd decidere cosa si può scrivere o non scrivere nei libri".  "In una democrazia liberale non è compito della politica vagliare la correttezza morale dei contenuti degli scritti. Né del Governo né di un Partito di minoranza", ha concluso il responsabile organizzazione di Fratelli d'Italia che, proprio oggi, ha presentato i risultati del primo anno di governo Meloni a Pescara, nell'ambito della campagna "Italia vincente". 

 Vittori Feltri sta col generale Vannacci: "Ha detto la verità ma ormai è vietato". Il tempo il 19 agosto 2023

È bufera sul generale Roberto Vannacci, 54 anni, militare di lungo corso rimosso dal comando e da capo dell'Istituto geografico militare di Firenze a seguito delle polemiche sul libro "Il mondo al contrario", auto-prodotto e pubblicato in proprio. Accusato di razzismo e omofobia per i giudizi espressi nel volume, Vannacci viene difeso da Vittorio Feltri un articolo su Libero. Il direttore editoriale del quotidiano ricorda il lungo curriculum militare del generale, dall'Afghanistan all'Iraq, "le sue imprese nell’esercito italiano non si contano neppure".

Insomma, Vannacci è "passato indenne a battaglie sanguinose", ma ora esce "con le ossa triturate" perché "ha avuto l’ardire di dichiarare battaglia al politicamente corretto". Per Feltri il generale ha avuto coraggio perché "il politicamente corretto gode di uno stuolo importante di difensori accaniti, sia a sinistra che oramai anche a destra, a livello globale". "Contro il generale è insorto persino il ministero della Difesa, insomma la sua stessa famiglia, che ha bollato quali 'farneticazioni' le idee messe nero su bianco da Vannacci. Secondo il ministro Guido Crosetto, Vannacci avrebbe «espresso opinioni che screditano l’Esercito, la Difesa, la Costituzione»", si raccorda nell'articolo.

"Confesso che io stesso, davanti a queste reazioni indignate, mi sono persuaso che Vannacci fosse colpevole di chissà quale crimine", racconta Feltri, ma "questo povero cristo ha soltanto scritto cose scontate, addirittura banalissime, cose che tutti, o quasi tutti, pensiamo ma che oramai è vietato dire". Come i passaggi su Paola Egonu ("è italiana di cittadinanza, ma è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità"). "Il generale è reo di vergare il vero, tuttavia questa non è una colpa e non è nemmeno un delitto. Quindi per quale ragione lo stiamo perseguitando? Il suo libro può piacere. E può anche non piacere. Ma non si può stroncare la carriera di un uomo perbene in quanto ha esercitato semplicemente il suo diritto inviolabile di pensiero, di parola, di espressione", afferma Feltri. 

Vannacci e non solo, Paragone: la destra reagisca alla colla tossica di Repubblica. Gianluigi Paragone su il Tempo il 22 agosto 2023

Com’era prevedibile Repubblica è passata alla fase due: avvelenare i pozzi. È fin troppo ovvio che alla truppa comandata da Maurizio Molinari non interessa nulla del pensiero di Gianni Alemanno ma ha fatto leva sulla sua legittima ricerca di visibilità per seminare zizzania all’interno di Fratelli d’Italia. Sono anni che Repubblica si erge a moralizzatore del Bene, del Giusto, del Corretto e cose del genere. E francamente ha rotto. Lo fa montando pseudo-inchieste giornalistiche, dagli hacker russi che stravolgono la politica in Italia ai rubli destinati alla Lega, dal pericolo fascista a quello razzista sempre in agguato. L’ormai bestseller del generale Vannacci fa parte del campionario: «Il Mondo al contrario» non è un libro e basta, per loro è «un libro omofobo e razzista». Secondo la Schlein «La Costituzione non mette tutte le opinioni sullo stesso piano», il che è un falso clamoroso: le opinioni - fintanto che non rappresentano un reato e nelle frasi di Vannacci non c’è alcun reato - sono tutelate dalla Costituzione anche se possono non piacere.

Crosetto, per la fretta di apparire credibile e «patentato» agli occhi del Partito di Repubblica, ci è cascato dentro. E mi dispiace perché conosco il gigante Guido e so quante ne ha passate per esprimere idee diverse da quelle dominanti. Gli riconosco pertanto la buonafede ma ha sbagliato. La comunità che ha votato Fratelli d’Italia e Lega (ottima l’uscita di Salvini) può pazientare se le tasse non si abbassano subito, può persino comprendere se sull’immigrazione i numeri non sono quelli che ci si aspetta, ma nessuno è disposto a tollerare che il Partito di Repubblica comandi il gioco.

La destra non ha bisogno di altre patenti se non quella che il popolo elettore ha già concesso. Se a Repubblica con tutte le sue propaggini pseudoculturali non va bene se ne farà una ragione. Le tesi di Vannacci hanno tutto il diritto di essere espresse, persino nella forma ruvida con cui le ha espresse. Rappresentano una visione politica che non è impura o peccaminosa, è una visione contro un mondo che fanno girare al contrario. Punto e basta. Il vero problema sta nel fatto che Repubblica si allarga perché nessuno da destra contrasta culturalmente: quel Giuli che dirige il Maxxi dopo le polemiche per le parole di Sgarbi, in serata con Morgan, si è eclissato e fa notizia perché il museo si fa discodance. Gli avevo proposto la presentazione del mio libro «Moderno sarà lei», ma ha avuto paura. E la Rai? Non ho capito come intendano contrastare l’impatto del mondo Barbie: con quale palinsensto? Dando in appalto l’anti Report alla società della moglie dell’ex braccio destro di D’Alema? A me sembra che tutti abbiano paura di essere giudicati da Repubblica. Ecco perché Vannacci diventa un simbolo, perché non molla di un millimetro e ci mette la faccia. 

L'Aria che Tira, Klaud Davi difende il generale Roberto Vannacci. Il Tempo il 22 agosto 2023

Caso Vannacci, il libro scritto dal generale dell'esercito fa ancora discutere. Se n'è parlato nel corso della puntata de "L'Aria che Tira Estate" in onda il 22 agosto su La7. L'opinionista ha parlato del libro del generale difendendo la sua possibilità di esprimersi. 

"Sottoscrivo la presa di posizione del ministro Crosetto. E' successa una cosa importante. Questo libro è diventato un fenomeno di costume, sta raggiungendo il mainstrem e sta toccando il consenso elettorale. Siamo in piena campagna elettorale per le elezioni europee. Il generale comunque dà voce a una maggioranza silenziosa e dall'altra c'è la destra istituzionale che guarda agli Stati Uniti, al'Europa e a Israele che non vuole mischiarsi cojn questo tipo di idee. Io non ho difeso le tesi del generale, io ho difeso il suo diritto di raccontarle. Parlo come movimento omosessuale e noi veniamo da secoli di discriminazioni, ci insultavano e ci bruciavano sui roghi. I nazisti ci perseguitavano. Cosa vogliamo proporre? La stessa cosa? Lasciamo al generale il diritto di esprimere le proprie idee. Noi dobbiamo essere per natura liberali. Non dobbiamo diventare inquisitori, censori. Comunque sconsiglierei al generale di candidarsi alle elezioni perché nel suo libro sono contenute alcune tesi impresentabili. Distruggerebbe il lavoro importante che ha fatto Meloni in questo primo anno di governo. C'è anche l'opinione pubblica internazionale che giudica.    

Il caso Rubiales.

"Non posso più lavorare": Rubiales lascia dopo il "bacio rubato". Storia di Francesca Galici su Il Giornale domenica 10 settembre 2023.

Terremoto nella Federcalcio spagnola dopo la polemica che si è sollevata nel corso degli ultimi mondiali di calcio. Il presidente Luis Rubiales, travolto dalle critiche e sospeso dalla Fifa per 90 giorni per il "bacio rubato" alla calciatrice Jennifer Hermoso durante la premiazione per il titolo, ha annunciato nel corso di un'intervista con Piers Morgan l'intenzione di presentare le dimissioni e di non tornare alla guida della Rfef una volta conclusa la squalifica.

"Dimissioni? Sì, devo darle perchè non posso continuare il mio lavoro. Prendo questa decisione dopo essermi assicurato che il mio addio contribuirà alla stabilità che permetterà al nostro Paese di guadagnarsi l'organizzazione del Mondiale del 2030", ha detto Rubiales. L'ormai ex presidente ha poi proseguito: "Ho già trasmesso la mia rinuncia all'incarico. Dopo la sospensione decisa dalla Fifa e tutti i procedimenti aperti contro la mia persona, è evidente che non posso tornare". Oltre all'intervista, Rubiales ha scritto un post sui social in cui spiega che "difenderò il mio onore. Difenderò la mia innocenza. Ho fede nel futuro. Ho fede nella verità".

Hermoso, 33 anni, ha presentato martedì una denuncia alla Corte Nazionale, accusando formalmente Rubiales di violenza sessuale. "(La famiglia e gli amici) mi dicono 'Luis, devi concentrarti sulla tua dignità e continuare la tua vita. Altrimenti danneggerai le persone che ami e lo sport che ami'", ha aggiunto il presidente. La Procura spagnola ha presentato una denuncia per "violenza sessuale" e "coercizione" nei confronti dI Rubiales. Ora un giudice della massima corte penale spagnola dovrà decidere se accogliere o archiviare la richiesta. Se il giudice dovesse accogliere la richiesta, verrà incaricato un magistrato inquirente di dirigere le indagini.

Spagna ancora nel caos: licenziato il ct della Nazionale femminile Jorge Vilda. Vilda era in stretti rapporti con l'ex presidente federale Rubiales. Ma non solo, nelle ultime settimane era stato al centro di polemiche per aver toccato il seno ad un membro dello staff. Antonio Prisco il 5 Settembre 2023 su Il Giornale.

Continua la resa dei conti in casa Spagna. A due settimane dal trionfo mondiale e dal "discusso" bacio tra il presidente della Federazione Luis Rubiales e Jenni Hermoso, il calcio spagnolo vede cadere un'altra testa dopo quella dello stesso Rubiales, sospeso al momento per 90 giorni dalla Fifa e oggetto di critiche feroci da parte dell'opinione pubblica e del mondo politico.

La Federazione ha infatti deciso per l’esonero del ct Jorge Vilda. La notizia è già stata comunicata nel corso di una riunione tenutasi nella mattinata di martedì 5 settembre a Las Rozas, alla presenza del presidente ad interim della Rfef Pedro Rocha. La sua posizione era compromessa dopo il sostegno espresso allo stesso Rubiales a margine dell’Assemblea Straordinaria nella quale l’ex presidente aveva cercato di giustificare e spiegare il proprio comportamento. Sotto contratto fino al 2024, a Vilda era stato promesso pubblicamente dallo stesso Rubiales un prolungamento con ricco ritocco dell’ingaggio, ma il nuovo contratto non è in realtà mai stato depositato.

Cosa è successo

Il tecnico 42enne, con un passato da calciatore nelle giovanili di Barcellona e Real Madrid, si è trovato al centro di roventi polemiche. Contemporaneamente al caso Rubiales, nelle ultime settimane è circolato un video, inizialmente rimasto sotto traccia, in cui il selezionatore sembra palpare il seno di un membro dello staff con la mano sinistra. L'episodio è avvenuto dopo che il capitano della Spagna Olga Carmona ha segnato il gol della Roja al 29'. Mentre scoppiavano i festeggiamenti nella panchina spagnola, si vede Vilda toccare il seno della sua collaboratrice, Montserrat Tomé con la mano sinistra.

Ma non solo Vilda era stato già coinvolto in un numerose polemiche durante la sua esperienza in panchina con le Furie Rosse. In passato ci sono stati attriti tra alcune giocatrici e Vilda per alcune sue decisioni non condivise dalla squadra. Ad esempio le ragazze dovevano mostrare il contenuto delle loro borse durante il ritiro oppure le veniva detto di tenere aperte le porte delle loro camere d'albergo prima di mezzanotte per le ispezioni. A quel punto circa 15 giocatrici hanno protestato e chiesto il suo licenziamento, cosa che ha portato Vilda a fare una vera epurazione. Nella Coppa del mondo appena conclusa solo tre delle 15 ribelli hanno fatto parte della rosa.

In sella dal 2015, dopo essere stato nei sei anni precedenti ct della Spagna femminile Under 17 e Under 19, il tecnico spagnolo resterà comunque nella storia per il lavoro svolto, culminato dalla conquista dello storico primo titolo mondiale della Spagna femminile.

Giuliano Ferrara per “il Foglio” - Estratti giovedì 31 agosto 2023.

E’ stato diffuso un nuovo video sul caso Rubiales, il dirigente sportivo spagnolo bandito dalla comunità civile per un bacetto cerimoniale entusiasta a Jenni Hermoso, calciatore e donna della Nazionale spagnola, durante i festeggiamenti superpubblici per la vittoria ai Mondiali della loro squadra. Il materiale, girato sul bus che riportava in città calciatori e dirigenti, compreso il reprobo baciatore e molestatore, racconta di una gioiosa macchina del bacio, piena di cori gridolini e risate, con Hermoso allegra e spensierata che mostra orgogliosa in primo piano l’immagine del “beso” o del “pico” sul telefonino, e le compagne che intonano coretti, “beso, beso!”, e tutti a commentare con divertimento il punto culminante della festa, il “besame mucho” come fosse una “ultima vez”.

La circostanza giocosa è resa ancora più ilare e fresca dalla comparsa dello stesso Rubiales, che invitato a riprodursi nell’entusiasmo oppone un pudico diniego con un faccino da collegiale imbarazzato dallo scatenamento di Hermoso e delle altre. Questo per ribadire che quella è la realtà, almeno secondo la sua esatta rappresentazione. Un dirigente considerato come un capocomitiva disinibito e divertente ha fatto il suo numero con Jenni, punto. Non resta, per tutte e tutti, che commentare in un tripudio di cantilene, filastrocche e salace eccitazione da vittoria o meglio da trionfo. Tutto documentato e palmare in un video incontrovertibile sul comportamento della comitiva dopo il fatale bacio. 

(...) A questo punto il meccanismo della caccia alle streghe mette tutti nel proprio ruolo intorno alla gogna. C’è il ruolo della vittima, al quale Hermoso acconsente dichiarandosi imbarazzata e violata al cospetto e su impulso della pressione sociale che le richiede, le intima, un comportamento consono alla campagna spudorata d’accusa, e così passa dal coretto “beso beso!” e dalle vanterie festaiole via telefonino al profilo della vittima #MeToo con un paio di dichiarazioni a mezzo stampa che soddisfano la sete di denuncia.

Gli organi della Federazione sportiva travolgono le poche manifestazioni di lealtà a Rubiales, o anche solo di incredulità, e difendono la correttezza infranta del calcio spagnolo per allontanare da sé lo spettro della condanna morale. Lo stesso Rubiales deve scusarsi, frastornato, e in un primo momento cede alle richieste di dimissioni immediate. 

Spagna e mondo sono mediaticamente funestati dal rincorrersi della falsa notizia, quella della strega con la scopa che si è recata in volo al sabba sanguinoso della violenza contro una donna. Il beso scompare nella sua realtà, diventa un idolo della folla, delle autorità, della brava gente scandalizzata, assume una consistenza e un peso perfino elettorale in un paese diviso dalla guerra culturale dei valori e dei diritti. Poi il video del bus, che tutti dovrebbero esaminare per rendersi conto dell’ordine di grandezza della manipolazione, ristabilisce la verità di una commedia che diventa tragedia personale e assalto sconcertante dell’opinione contro la persona.

Da ilnapolista.it martedì 5 settembre 2023.

Woody Allen difende Luis Rubiales. Il regista 87enne, che fu accusato di abusi sessuali dalla figlia adottiva Dylan Farrow, intervistato dal Mundo in occasione della prima del suo nuovo film “Coup de chance” alla Mostra del Cinema di Venezia, sostiene il boss della Federcalcio spagnola, sospeso dopo aver imposto un bacio alla giocatrice Jenni Hermoso.

Allen dice di non capire: “È difficile immaginare che una persona possa perdere il lavoro ed essere penalizzata in questo modo per un bacio in pubblico. Baciare quella calciatrice è stato un errore, ma non ha bruciato una scuola. Non l’ha rapita e baciata in un vicolo buio. Non l’ha violentata, è stato solo un bacio e lei era un’amica. Cosa c’è che non va?“. 

L’Adn Kronoso racconta che Woody Allen ieri è stato contestato sul red carpet della Mostra del Cinema di Venezia 2023. Una trentina di persone, soprattutto ragazze, assiepate dietro le transenne, hanno accolto il passaggio del regista sul tappeto rosso con urla di contestazione. “Stupratore!”, hanno urlato le contestatrici mentre il regista attraversava il tappeto soffermandosi davanti ai flash dei fotografi. La vigilanza ha poco dopo allontanato il gruppo, che allontanandosi ha gridato anche “Abbasso il patriarcato!”. Woody Allen probabilmente non si è neppure accorto della contestazione perché nel momento in cui avveniva era appena sceso dall’auto è stava parlando con lo staff.

La protesta è legata alle accuse di molestie sessuali dalle quali il regista è stato totalmente scagionato per due volte. A fronte del gruppo di contestatori, Allen è stato accolto con applausi e urla da oltre cinquecento fan che lo attendevano già da un paio d’ore. Tanti anche i giovani che hanno chiesto un autografo al celebre regista che prima di entrare nella Sala Grande per la proiezione del suo film ‘Coupe de Chance’ si è avvicinato per accontentarli. All’ingresso della sala, altre 300 persone circa attendevano il regista per salutarlo prima dell’entrata.

Il bacio di Rubiales e la sfida agli indignati: "È falso femminismo". Storia di Valeria Braghieri su Il Giornale sabato 26 agosto 2023.

«Contro di me c'è stato un falso femminismo». «Vittima del femminismo» è già un concetto abbastanza eversivo, ma «vittima del falso femminismo» è addirittura una dichiarazione illuminante. L'autodifesa (dopo l'autodafé) del presidente della Federcalcio spagnola, Luis Rubiales, passa dal genere, ma in maniera completamente inaspettata. La bufera contro di lui si era abbattuta dopo il fugace bacio sulla bocca alla centrocampista Jenni Hermoso durante la premiazione dei Mondiali di calcio femminile vinti dalla Spagna. Subito dopo, nei confronti del capo del calcio iberico si era sollevata un'indignazione così spessa e corale da persuaderlo ad abbandonare l'incarico. Ieri l'inversione di rotta: «Non mi dimetto, non mi dimetto, non mi dimetto» lo ha detto tre volte Rubiales in conferenza stampa continuando poi a spiegare «il piacere che potevo avere dando quel bacio era lo stesso che posso avere dando un bacio a mia figlia. È stato spontaneo, reciproco e consensuale. Stanno commettendo un omicidio sociale, il falso femminismo non cerca la verità». Ma a smentire il presidente è stata ieri, sui social, la stessa calciatrice spagnola che ha scritto: «Mi sono sentita vittima di un'aggressione; mi sono sentita vulnerabile e vittima di un atto impulsivo, maschilista e fuori luogo e senza il minimo consenso da parte mia. Semplicemente, non sono stata rispettata». A farle eco, lo sciopero di massa delle giocatrici spagnole della nazionale, che in un comunicato diffuso dal sindacato, hanno dichiarato che non accetteranno nessuna convocazione in nazionale «se non cambierà l'attuale leadership».

La Hermoso, in un primo tempo, aveva dichiarato che il gesto di Rubiales non l'aveva messa in difficoltà, salvo poi ritrattare. Lui ha spiegato che il bacio è stato «autorizzato» e che in ogni caso si trattava di un gesto completamente scevro da qualsiasi rapace pulsione. Un bacio tra sportivi insomma, per il quale Rubiales non pensa assolutamente di dover perdere il proprio posto. Quindi: «Non mi dimetto, non mi dimetto, non mi dimetto». Ma ecco che alla notizia della sua «resistenza» nemmeno tanto passiva, il governo spagnolo ha avviato tutte le procedure per portarlo davanti alla giustizia amministrativa e farlo sospendere dall'incarico. In ogni caso, nell'immediato, si va verso una sospensione cautelare dall'incarico da parte del Consiglio dello Sport. Dai politici agli sportivi, è un coro unico contro l'oltraggioso baciatore. Uno dei pochi a difendere Rubiales è il tecnico del Psg Luis Enrique che ha definito il lavoro del presidente, in questi anni «eccellente». Mentre sempre riferendosi al discorso tenuto ieri in Assemblea dall'«accusato», David De Gea, ex portiere del Manchester United, ha commentato su Twitter «Mi sanguinano le orecchie». Per tacere delle tante atlete solidali con la Hermoso e delle indignate politiche femministe.

Il caso Rubiales. Tutta la politica spagnola (tranne Vox) si schiera contro il capo della federcalcio. Valerio Moggia su L'Inkiesta il 26 Agosto 2023.

Sia il leader del Partido Popular che il premier socialista Sanchez hanno chiesto le dimissioni (che non ci saranno) del dirigente spagnolo al centro delle polemiche per il bacio non consensuale dato alla calciatrice Hermoso durante la celebrazione per la vittoria del Mondiale femminile. Mentre il leader sovranista Abascal è rimasto misteriosamente in silenzio

Non si dimette, Luis Rubiales. Da giorni, il presidente della Federcalcio spagnola Rfef è al centro delle polemiche per un bacio non consensuale dato alla calciatrice Jenni Hermoso, durante la premiazione per il titolo mondiale vinto. Ieri, i media iberici ne avevano anticipato il passo indietro, ma quest’oggi Rubiales si è presentato all’assemblea federale annunciando che non si dimetterà, e accusando invece le femministe e i politici di sinistra che lo hanno attaccato.

Quarantasei anni, ex-difensore di buon livello, avvocato di professione ed ex-presidente del sindacato dei calciatori Afe, guida la Rfef dal 2018, ma negli ultimi tempi ha fatto parlare soprattutto in negativo. Dall’inchiesta per corruzione che lo vede coinvolto assieme all’amico ed ex-calciatore Gerard Piqué per l’organizzazione della Supercoppa all’Arabia Saudita, fino al variegato show inopportuno andato in scena durante la finale dei Mondiali femminili. E ovviamente alla difesa del ct Jorge Vilda, accusato da un anno dalle giocatrici di abusi psicologici e proprio oggi rinnovato per altri quattro anni. Scavando nel suo recente passato, i media spagnoli hanno scoperto che nel 2016 Rubiales era già stato denunciato da un dipendente dell’Afe, che all’epoca dirigeva, per comportamenti misogini e umilianti.

Nulla di tutto questo è bastato per convincerlo a fare un passo indietro, e anzi il suo discorso sembra andare in senso completamente opposto. Lo scontro non sarà confinato al calcio, però, perché il vero problema è che contro Rubiales si è schierata quasi tutta la classe politica spagnola. E non a caso, oggi Rubiales ha annunciato anche delle querele contro Yolanda Díaz, leader di Sumar, e contro tre esponenti di Podemos, Irene Montero, Ione Belarra y Pablo Echenique.

La politica contro Rubiales

«Un gesto inaccettabile», lo ha definito martedì il presidente del Governo Pedro Sánchez in conferenza stampa, aggiungendo che le scuse di Rubiales sono state «insufficienti», e chiedendone le dimissioni. L’intervento diretto del governo nella polemica è sicuramente un fatto nuovo – anche se comprensibile, visto l’impegno dell’esecutivo spagnolo sul fronte dei diritti delle donne – e rende bene la serietà della situazione. Mentre Sánchez rilasciava queste dichiarazioni, i suoi alleati di Sumar, il movimento di sinistra guidato da Yolanda Díaz, presentava denuncia contro Rubiales presso il Consiglio Superiore dello Sport.

La politica si è mossa subito, e a sorpresa non è stato solo il governo di sinistra ad attaccare il capo della Federcalcio. Se le prese di posizione di Sánchez e Díaz, così come anche quelle del ministro dello Sport Miquel Iceta e del Ministro della Presidenza Félix Bolaños – che hanno avvisato che, in caso di mancate dimissioni, il governo sarebbe intervenuto in prima persona – meno scontate erano quelle del Partido Popular. Il principale partito di opposizione è spesso stato timido sui temi legati ai diritti delle donne, in particolare sotto la leadership di Alberto Feijóo. E infatti ad accodarsi al governo nel chiedere le dimissioni di Rubiales sono stati solo il vicepresidente del PP Borja Sémper e la segretaria generale Cuca Gamarra, anche se il fatto rimane di primo piano.

Questa situazione va poi inserita nel quadro più ampio della tesa battaglia politica che si sta giocando in questi giorni in Spagna. I popolari sono risultati il primo partito alle elezioni dello scorso 23 luglio, e proprio questa settimana il Re Felipe ha dato incarico a Feijóo di provare a trovare una maggioranza. Cosa non semplice, visto il risultato sotto le aspettative di Vox, e che ha spinto il PP ad assumere posizioni più moderate. Sémper e Gamarra non hanno fatto mancare delle stoccate a Sánchez (il primo ha accusato il governo di non essere abbastanza chiaro su Rubiales, mentre la seconda si è augurata che l’amicizia tra premier e presidente della RFEF non influisca sulla decisione finale), ma il caso Rubiales ha segnato un inattesa convergenza di intenti tra i due grandi partiti.

Il calcio come banco di prova politico

Forse il futuro della Federcalcio potrebbe rivelarsi il terreno adatto per gettare le basi di un’alleanza di governo, che taglierebbe fuori Sumar ma soprattutto Vox. Il partito di estrema destra sta crollando nei sondaggi, e come sottolineato da Público il suo leader Santiago Abascal è rimasto stranamente in silenzio sul caso Rubiales. Proprio lui che, abituato a tuffarsi in ogni polemica, si è segnalato in questi anni per un’assidua frequentazione degli stadi spagnoli e anche per i legami con alcune figure di spicco del fútbol iberico, come il presidente della Liga Javier Tebas o i calciatori Pepe Reina e Dani Carvajal.

Negli ultimi anni, la Spagna ha investito moltissimo sul calcio femminile, ricavandone un ritorno d’immagine ed economico considerevole, di cui il titolo mondiale di questa estate è solo la ciliegina sulla torta. Nella primavera del 2022, il Barcellona ha fatto registrare due affluenze record al Camp Nou per la squadra femminile (oltre 91.500 persone contro il Real Madrid a marzo, e più di 91.600 ad aprile contro il Wolfsburg in Champions League). Si tratta di patrimonio sociale riconosciuto trasversalmente, e che la politica intuisce di dover sfruttare.

Ma l’ombra della campagna elettorale è forte: un anno fa, quindici giocatrici della nazionale avevano denunciato i comportamenti psicologicamente abusivi del ct Jorge Vilda, che era stato difeso e confermato da Rubiales. All’epoca, nessun politico si interessò della vicenda. E adesso, proprio Vilda si trova a sua volta accusato di molestie, dopo che le immagini della finale lo hanno mostrato toccare il seno di un’assistente, ma il suo nome è rimasto finora ai margini della polemica.

Estratto dell'articolo di corriere.it giovedì 24 agosto 2023.

Jennifer Hermoso, per ultima e dopo due giorni di riflessione, rompe il silenzio. La giocatrice della nazionale spagnola campione del mondo ha affidato ad una nota del suo sindacato Futpro la sua reazione al bacio che il presidente della Rfef, la Federcalcio spagnola Rubiales le ha rubato nel giorno della premiazione. La nota, così la calciatrice, ha il compito «di difendere i miei interessi». 

«Dalla nostra associazione», è quindi il testo del comunicato, «chiediamo alla RFEF di implementare i protocolli necessari, vigilare sui diritti delle nostre giocatrici e adottare misure esemplari». [...]

Intanto la Fifa apre un procedimento disciplinare, ribadendo «il suo forte impegno al rispetto dell'integrità di ogni persona, e condanna fortemente qualsiasi comportamento di segno contrario». Viene contestata la violazione delle norme Fifa su «fair play, lealtà e integrità». [...] 

«È essenziale che la nostra selezione, campione del mondo, sia sempre rappresentata da figure che proiettano valori di uguaglianza e rispetto in tutti gli ambiti», prosegue il comunicato [...]

Estratto dell'articolo di corrieredellosport.it giovedì 24 agosto 2023.

[…] la calciatrice […]  ha pubblicato una particolare foto sui social, ironizzando sulla vicenda. 

Hermoso, che ha chiesto sanzioni esemplari per Rubiales, si trova in vacanza ad Ibiza dopo la vittoria del Mondiale femminile. La calciatrice ha postato su Instagram una foto in cui mostra un tatuaggio temporaneo con la scritta: "Non c'è estate senza un bacio". Si tratta di un hashtag molto in voga nella movida ibizenca, ma molti ci hanno visto anche un riferimento leggero alla vicenda Rubiales. […]

Estratto dell'articolo di Michele Serra per “la Repubblica” giovedì 24 agosto 2023.

Non sono sicuro che una manata sul petto di una collaboratrice, nella concitazione emotiva di un momento topico della partita, possa valere, per l’allenatore della nazionale spagnola femminile, l’accusa di molestia sessuale. 

[…] Sono sicuro, invece, che questa estensione occhiuta di una cosa grave come la violenza di genere a incidenti o equivoci o sbadataggini risolvibili con due parole di scuse amichevoli, sia un pesante danno che viene inferto alla causa dell’integrità del corpo femminile [...] e della libera determinazione della vita sessuale […] 

Lo sguardo inquisitore che minaccia di incasellare ogni gesto nella griglia infame della sopraffazione è uno sguardo che scredita la lotta per l’autodeterminazione di ogni persona. Ciò che è serio minaccia di diventare ridicolo [...] 

[…] Ho rivisto due o tre volte [...] il filmino nel quale quell’uomo posava la mano, per due secondi e guardando da tutt’altra parte, sul petto di quella donna, e mi sono sentito come il protagonista delle Vite degli altri. […] 

Rischiamo di diventare milioni di guardoni convinti di dover cercare in ogni gesto e in ogni persona una colpa. L’ossessione della colpa è dei bigotti. [...]

No, quel bacio “mondiale” non è una violenza. Bufera sul presidente della Federcalcio spagnola: il bacio tra Luis Rubiales e Jenni Hermoso. Ma lei lo ha accettato. Max Del Papa su Nicolaporro.it il 22 Agosto 2023.

Ci si chiede cosa sia questo woke, se una ideologia di intolleranti nel nome della tolleranza o semplicemente un coacervo incontrollato di deliri inventati da squilibrati, fanatici o semplicemente opportunisti. Certo la casistica è quotidiana e ogni giorno più esorbitante, ogni giorno qualcosa o qualcuno che fa dubitare di essere ancora nel consorzio umano, di quelli bene o male provvisti di ragione, di senso della misura. L’ultima allucinazione corre in Spagna, dove il presidente della federazione calcistica Luis Ribiales bacia una giocatrice durante la premiazione dei vittoriosi Mondiali femminili: scoppia un cafarnao di ringhi, di muggiti via social, il solito puttanaio sul niente, ma con una cifra di pazzia in più.

In due parole, è la stessa “vittima” a ridimensionare, a riderci sopra, a dire che “è stato un gesto reciproco del tutto spontaneo per la gioia immensa che dà vincere un Mondiale. Io e il presidente abbiamo un ottimo rapporto, il suo comportamento con tutti noi è stato ottimo e quello è stato un naturale gesto di affetto e gratitudine”. Il banale buon senso che chiunque dovrebbe dire in questi casi dai 4 anni in più. Ma si arriva al parossismo per cui “la preda” non sente di essere stata abusata con tutti che le dicono, no, tu hai subito violenza, tu devi sentirti male. E non è negoziabile, non è discutibile, è l’imperativo categorico del woke che esalta la percezione insensata o truffaldina ma ne traccia i confini, si fa medico e giudice, psicologo e boia.

Tu “devi” sentirti violentata, perché così abbiamo deciso. Chi lo ha deciso? Per esempio il ministro, la ministra, fate vobis, Irene Montero che è una delle esagitate del femminismo woke, una del Podemos del nuovo vecchio comunismo rivoluzionario, eccola qua come svalvola: “Non diamo per scontato che il bacio senza consenso sia qualcosa ‘che accade’. È una forma di violenza sessuale che le donne subiscono quotidianamente e fino ad ora invisibile”. È una catasta di eunciati senza connesssione logica, come le carcasse di automobili impilate dagli sfasciacarrozze, una accozzaglia che di per sé non trova significato, che mette insieme è un costrutto senza costrutto. “Non diamo per scontato”, ma è lei che dà per scontato tutto, che in nome della sua personale allucinazione traccia una teoretica filosofica a dimensione universale, una episteme autoritaria ma priva di riscontri, logici come fattuali. Il bacio senza consenso come stupro quotidiano?

Con Montero altri che seguono la corrente, il ministro dello Sport, un eurodeputato che chiede “punizioni decise”, a quanto è dato capire di natura corporale: forse l’evirazione, forse la sedia elettrica. Poi uno va a vedere e ricorda che questa Irene Montero, “ministro dell’Uguaglianza”, uguaglianza marxista, in Spagna è autrice di una riforma che fa scarcerare i pedofili, che gliela fa passare franca: ha detto l’avvocato di uno condannato per abuso di minori: “Il miglior difensore del mio assistito si chiama Irene Montero ed è ministra dell’Uguaglianza”. Come funziona lo ha spiegato la testata cattolica Tempi: “[una riforma] secondo la quale «il consenso prestato da persone di età superiore ai sedici anni non costituisce reato (salvo che detto consenso sia prestato con violenza, intimidazione o abuso di posizione di superiorità o di vulnerabilità della vittima, cosa che non è avvenuta)».

La morale della favola è la seguente: un bacio stampato è presunzione di stupro senza prova contraria, nemmeno da chi lo ha ricevuto; un abuso pedofilo va interpretato, e alla fine si diluisce nel perdonismo. Tempi cita a sua volta el Mundo: “[Montero] ha svuotato il reato di abuso sessuale senza considerare tutte le conseguenze che ne potevano derivare”. Che è precisamente il modo di gestire il potere, insomma di fare politica, della sinistra comunista di ispirazione woke. Da parte sua, il presidente Federcalcio davanti al plotone di esecuzione ha farfugliato scuse stralunate, più scioccato che consapevole: “Non avevo capito, starò più attento”. Come sempre il posto, la conservazione del posto vale più della dignità ma qui non c’è da stare più attenti, un bacio non è la violenza di gruppo dei sette infami di Palermo anche se le Montero con tutti gli esagitati a contorno sosterranno sempre il contrario. Fatto sta che puoi erigere cattedrali sulla percezione ma le categorie, le distinzioni esistono, restano e l’innesto di nuovi attori sociali in contesti tradizionali chiede tempi lunghi di assimilazione.

L’enfasi sul calcio femminile piace a Infantino, piace alla Fifa perché apre nuovi spazi commerciali, nuovi affari televisivi e pubblicitari sotto l’egida del pluralismo politicamente corretto, ma i rituali del calcio sono maschili e lo sono i baci e le effusioni sbrigative e vagamente tribali: anche i rudi terzini e i centravanti spigolosi dopo un gol si sbaciucchiano senza ritegno. Luis Ribiales non è saltato addosso a una donna nel bel mezzo di una cerimonia, ha reagito come avrebbe fatto con un atleta uomo, a prescindere dal sesso, in un esubero di complicità e di esaltazione. Si arriverà a capire che una giocatrice non è un giocatore, che può essere ricevuta, celebrata secondo sfumature più adeguate, ma, nel frattempo, non sarebbe male se tutti si dessero una calmata. Ma ha senso aspettarsi raziocinio da un mondo che lo ha completamente perso?

Max Del Papa, 22 agosto 2023 

Rummenigge difende Rubiales dopo il bacio ad Hermoso: «Gesto normale». Redazione Sport il 22 agosto 2023 su Il Correre della Sera.

Karl Heinz Rummenigge, ex amministratore delegato del Bayern Monaco e oggi membro del comitato esecutivo Uefa, ha difeso Rubiales, ancora al centro delle polemiche

Dopo il bacio stampato sulla bocca di Jenni Hermoso durante la premiazione della Spagna campione del mondo, non accennano a placarsi le polemiche su Luis Rubiales, presidente della Federcalcio, anche lui a Sydney per assistere alla finalissima e a dir poco su di giri negli attimi immediatamente successivi al trionfo sull’Inghilterra. Nelle ultime ore è arrivata anche la dura reprimenda da parte di Pedro Sanchez, con il presidente ad interim del governo che ne ha condannato il gesto: « Inaccettabile, le sue scuse non sono sufficienti e non sono adeguate» . L’unico, fin qui, a ergersi in sua difesa è stato Karl Heinz Rummenigge, ex amministratore delegato del Bayern e ora membro del comitato esecutivo Uefa.

«Non credo che si debba esagerare con questa vicenda — le sue parole — quando diventi campione del mondo, ti emozioni. E quello che Rubiales ha fatto, con tutto il rispetto nei confronti delle giocatrici, è assolutamente normale. Ricordo che, quando noi del Bayern Monaco abbiamo vinto la Champions League nel 2020, ho baciato tutti i miei uomini, non sulla bocca, ma con gioia». Dichiarazioni, quelle di Rummenigge, che a loro volta hanno causato altre polemiche. Donata Hopfen, che è stata la prima donna a capo dell DFL (Deutsche Fußball Liga), ha dichiarato: «Se i due protagonisti in questione, Rubiales da una parte ed Hermoso dall’altra, non perseguono lo stesso intento, il comportamento dell’uomo è da considerarsi negativo. E, dal mio punto di vista, non è accettabile. Può essere invadente ed è così che è stato percepito». Anche Bernd Neuendorf, attuale presidente della federazione tedesca, ha detto la sua: «Ho immaginato di trovarmi in una situazione simile e non credo che mi sarei comportato così».

Gli epurati di Hollywood.

Da Kevin Spacey a Johnny Depp: tutti gli epurati di Hollywood. Erika Pomella il 14 Agosto 2023 su Il Giornale.

Johnny Depp e Kevin Spacey sono solo la punta dell'iceberg della tendenza di Hollywood a cancellare tutti coloro che vengono percepiti dal pubblico come problematici

Tabella dei contenuti

 Il caso di Johnny Depp

 Le accuse contro Kevin Spacey

 I casi ancora chiacchierati: Armie Hammer

 Due pesi e due misure

In questi ultimi anni, a Hollywood e non solo, si è parlato sempre più spesso di cancel culture. Se, da una parte, questo tema ha riguardato soprattutto la scelta di offrire al pubblico prodotti sempre più piatti e privi di quel conflitto che rappresenta la scintilla per ogni racconto ben scritto, dall'altra la cancel culture si è trasformata nella "moda" di cancellare dall'orizzonte della settima arte personaggi problematici, utilizzando tuttavia sempre due pesi e due misure. I casi più emblematici sono, senza dubbio, quelli di Johnny Depp e di Kevin Spacey, esplosi entrambi nel pieno del movimento #MeToo, che portò a una vera e propria caccia alle streghe.

Il caso di Johnny Depp

Johnny Depp, come è ormai risaputo, venne accusato di abusi e violenza domestica dall'ex moglie Amber Heard. L'attrice di Aquaman accusò il compagno di averla ripetutamente colpita e portò a sostegno della propria tesi alcune immagini che la ritraevano con delle ferite sul volto. La prima fase della querelle tra i due si concluse con un accordo di divorzio. Quando tutto sembrava concluso, però, l'attrice scrisse un articolo sul The Washington Post dove, pur senza nominarlo, accusava Depp di essere "un picchiatore di mogli". A quel punto Johnny Depp, stanco di stare a guardare, decise di passare all'azione e denunciò l'ex compagna per diffamazione. Un'azione che, tuttavia, correva il rischio di non salvare una carriera che era stata già messa a dura prova.

L'attore, infatti, aveva già perso il ruolo di Jack Sparrow nella saga di Pirati dei Caraibi. Una saga che, e questo è indubbio, si reggeva proprio sulle spalle del personaggio eccentrico e carismatico, come dimostra il fallimento di qualsiasi tentativo di reboot della saga senza Jack Sparrow. Tuttavia le perdite di Johnny Depp non si limitarono a questo: dopo aver perso la causa a Londra contro il The Sun - il giudice dichiarò che il giornale inglese aveva tutti i motivi per pubblicare gli articoli che erano stati scritti - Johnny Depp fu "invitato", per non dire costretto, a dare le dimissioni da Animali Fantastici, dove interpretava il mago oscuro Grindelwald. Il suo personaggio venne "ereditato" da Mads Mikkelsen, che lo interpretò in Animali Fantastici - I segreti di Silente, che ad oggi rappresenta l'ultimo capitolo di una saga fallimentare. Nell'estate dello scorso anno, però, il processo per diffamazione si è pronunciato a favore di Johnny Depp, delineandolo come vittima delle bugie e delle manipolazioni di Amber Heard. Questo verdetto ha fatto sì che Johnny Depp fosse libero di ricostruire la sua immagine e la sua carriera: lo scorso maggio è stato accolto al Festival di Cannes, nella serata di apertura, con il film Jeanne Du Barry. Tuttavia è indubbio che la sua carriera, in futuro, porterà sempre il marchio dell'infamia, dal momento che ci sono ancora molte persone che reputano che a salvare l'attore sia stata la sua fama e che la sua colpevolezza sia stata "coperta" proprio dal fatto che Johnny Depp è un uomo bianco molto potente e molto amato. Di fatto, anche se è risultato innocente, Johnny Depp continua a essere in parte cancellato da Hollywood, a causa della corsa dei nostri giorni di dichiarare qualcuno colpevole, prima che sia la giustizia a farlo.

Le accuse contro Kevin Spacey

Discorso simile a quello che è avvenuto a Kevin Spacey. Nel 2017 l'attore, che aveva da poco concluso le riprese del film Tutti i soldi del mondo, venne accusato di molestie sessuali da parte dell'attore Anthony Rapp, che asserì che quando aveva quattordici anni e Kevin Spacey ventisei l'attore gli salì sopra, mentre Rapp era a letto, facendogli delle avances. A questa accusa l'attore rispose di non ricordare nulla e di essere ubriaco al momento dei fatti: chiese scusa per il suo comportamento e utilizzò un tweet per annunciare al suo pubblico di essere omosessuale. Ma l'incubo, per Spacey, era solo all'inizio. Ridley Scott decise di sostituirlo all'interno di Tutti i soldi del mondo, cancellando di fatto tutta la sua interpretazione e scegliendo un altro attore. Ma forse il colpo più duro fu vedersi licenziato da House of Cards, una serie che, al pari di Pirati dei caraibi per Johnny Depp, si reggeva essenzialmente sulla presenza e l'interpretazione di Kevin Spacey. Successivamente, poi, l'attore venne accusato da altri quattro uomini che lo denunciarono per molestie sessuali avvenute quando Spacey era il direttore artistico del teatro Old Vic, tra il 2004 e il 2013. E proprio per rispondere a questi capi d'accusa Kevin Spacey ha da poco affrontato un processo che lo ha ritenuto non colpevole. La sentenza, che è accompagnata anche dall'ammissione dello stesso Spicey di essere una persona promiscua, ha quindi lavato la reputazione dell'attore, ma anche in questo caso la lettera scarlatta rimane ben visibile sulla sua persona. Kevin Spacey, notoriamente, non è una persona piacevole. Anche prima delle accuse delle molestie, infatti, erano emersi dettagli sulla sua persona che lo rendevano qualcuno con cui non era piacevole lavorare. Ma essere una brutta persona non è un reato. Eppure nel caso dei personaggi illustri lo sia: non basta essere innocenti davanti alla legge, bisogna essere irreprensibili anche agli occhi del pubblico. Si pensi, ad esempio, all'episodio di Will Smith avvenuto agli Oscar dello scorso anno. Will Smith è un attore molto amato, con una grande carriera alle spalle. Durante la notte degli Oscar, durante la quale ha anche vinto come miglior attore protagonista per King Richard - Una famiglia vincente, Will Smth non ha digerito una battuta di Chris Rock su sua moglie e lo ha colpito in faccia con uno schiaffo. Atteggiamento tutt'altro che elegante e che gli è costato l'allontanamento dalla cerimonia degli Oscar per dieci anni. E il pubblico ha cominciato subito a definirlo come un uomo violento, mettendo in cattiva luce un attore che, in qualità di essere umano, ha le stesse probabilità di chiunque di sbagliare. Sembrerebbe dunque che, al giorno d'oggi, l'opinione pubblica conti più della giustizia. E, se da una parte, questo sottolinea una crescente insicurezza nei confronti delle autorità preposte a difendere i cittadini, dall'altra mette in luce anche quanto libertà d'espressione e diffamazione camminino fianco a fianco nella cultura odierna.

I casi ancora chiacchierati: Armie Hammer

Un altro caso che ha fatto molto scandato è stato quello di Armie Hammer. L'attore, che si è fatto conoscere con il film The Social Network e ha poi raggiunto la fama con Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, ha visto cambiare la sua vita (e, ça va sans dire, la sua carriera) dopo che è stato accusato di molestie sessuali, di fantasie cannibalistiche e di stupro. Anche in questo caso, appena le accuse sono emerse, Hollywood è passata al contrattacco, cancellando l'attore dal proprio universo. Armie Hammer si è visto licenziato dal suo agente, eliminato dai progetti a cui avrebbe dovuto prendere parte. E quando non è stato possibile cancellarlo, come nel caso di Assassinio sul Nilo, si è scelto di non fare promozione al film, di non pubblicizzarlo e, di fatto, di colpevolizzare un'intera pellicola solo perché aveva avuto l'ardire di assumere un personaggio tanto problematico. Armie Hammer si è dunque fatto indietro, accettando l'ombra a cui l'opinione pubblica lo aveva destinato: è andato in una clinica di recupero per migliorare se stesso, ha visto sbandierata la sua infedeltà ed è diventato uno dei tanti paria di Hollywood. E tutto questo, come riporta il The Guardian, senza che la polizia di Los Angeles lo abbia ritenuto colpevole di violenza sessuale. Nel caso di questo crimine specifico, infatti, la polizia dopo una lunga e, a loro detta, approfondita indagine, non ha trovato prove sufficienti per accusare ufficialmente l'attore, che al momento dunque risulta innocente. Ma non per Hollywood.

Due pesi e due misure

I casi di Johnny Depp e Kevin Spacey dimostrano quanto il pubblico sia portato spesso a riconoscere agli attori colpe maggiori di quelle effettive, spesso perché coi loro comportamenti hanno disatteso le loro fantasie e le loro aspettative. Ed è proprio per questa tendenza che Hollywood sembra avere molta facilità a cancellare e rimuovere attori problematici - altri casi possono essere quelli di Shia LeBoeuf o di Casey Affleck, che, essendo meno famosi di un Johnny Depp, ad esempio, hanno fatto infuriare meno il pubblico. Tuttavia bisognerebbe anche riflettere sul fatto che a Hollywood sembra esserci un atteggiamento da "due pesi e due misure". Se, per quanto riguarda gli interpreti, è facile ricorrere subito alla cancel culture, quando si parla di registi è più facile utilizzare la carta del "bisogna separare l'arte dall'artista". Si pensi ad esempio a Woody Allen, regista che da decenni è accompagnato dall'accusa di aver molestato la figliastra Dylan Farrow quando lei aveva solo sette anni. La vicenda era emersa per la prima volta durante il divorzio tra Woody Allen e Mia Farrow, avvenuta a seguito della scoperta del tradimento perpetrato da Woody Allen con la figlia adottiva della Farrow, che aveva diciannove anni. Quando è stato il momento di combattere per l'affidamento dei figli, Mia Farrow denunciò pubblicamente l'ex marito dell'abuso sulla figlia. All'epoca, però, le indagini non trovarono alcuna prova a sostegno dell'accusa e Woody Allen poté tornare alla sua vita. L'accusa risaltò fuori quando venne annunciato la consegna di un Golden Globe alla carriera allo stesso Allen. In quell'occasione Dylan Farrow scrisse una lettera al New York Times in cui raccontava l'abuso subito quando aveva sette anni. Davanti a un racconto così dettagliato, Hollywood dovette in qualche modo fare qualcosa. Cancellò l'uscita di Un giorno di pioggia a New York e gli attori che vi avevano preso parte, tra cui Timothée Chalamet, si rifiutarono di fare promozione e decisero di devolvere il loro salario a enti benefici legati agli abusi sui minori. Tuttavia Woody Allen continua ad essere un regista che lavora e il cui suo ultimo lavoro verrà presentato al prossimo Festival di Venezia.

Discorso analogo e che mette ancora più in luce l'ipocrisia di Hollywood e del mondo del cinema è il caso di Roman Polanski. In questo caso ci si trova davanti a un regista che è stato ritenuto colpevole di abuso su minori e che dalla sentenza vive "in esilio" in Francia per evitare l'arresto negli Stati Uniti. Arresto che avverrebbe in ogni stato che prevede l'estradizione, come l'Italia. Il caso riguarda Samantha Gailey (ora Geimer), che all'epoca aveva tredici anni. La ragazzina era stata invitata a casa di Jack Nicholson - che non era in casa per questioni di lavoro - e, stando a quanto si legge sull'Indipedent, la Gailey era stata convinta ad andare per realizzare un servizio fotografico. Durante la serata, però, Polanski diede alla bambina un farmaco sedativo e fece sesso con lei, prima di portarla a casa. L'anno era il 1977 e all'alba del giorno dopo Polanski venne arrestato con sei capi d'accusa. Tuttavia, per proteggere anche la bambina dal dover apparire in tribunale, l'accusa ufficiale divenne quella di rapporto sessuale extramatrimoniale con persona minorenne. Ufficialmente, quindi, Polanski non venne mai denunciato per stupro. Tuttavia, quando venne rilasciato con la condizionale, Polanski ne approfittò per scappare, lasciare gli Stati Uniti e ricostruirsi una vita in Francia senza dover tornare in prigione. Nonostante, dunque, Polanski sia stato riconosciuto colpevole agli occhi della legge, Hollywood non ha fatto molto per "cancellarlo". Le testate parlano dei suoi film, le pellicole o gli attori che vi prendono parte vengono candidati agli Oscar e tutti sono sempre molto attenti a, appunto, separare l'opera dall'artista che la realizza.

La glorificazione dell'ignoranza.

"Schiavista". Cancel culture su Magellano: via il suo nome dalle galassie. Un gruppo di astronomi chiede che il nome dell'esploratore portoghese venga tolto galassie, telescopi e veicoli spaziali che lo omaggiano. Il motivo? "Fu colonizzatore, schiavista e assassino". Marco Leardi il 13 Novembre 2023 su Il Giornale.

"Colonizzatore, schiavista e assassino". Ferdinando Magellano è finito nella lista nera dei personaggi storici presi di mira dalla cancel culture. Non il primo e nemmeno l'ultimo. L'esploratore portoghese vissuto nel 1500 ha difatti subito il folle revisionismo di chi legge la storia e le sue vicissitudini più controverse con gli occhi del presente, giudicando i protagonisti del passato con i criteri etici e morali del giorno d'oggi. Celebrato per lungo tempo come il fautore della prima circumnavigazione del globo, ora - secondo alcuni astronomi - Magellano dovrebbe essere depennato da galassie, telescopi e veicoli spaziali che portano i suo nome.

La damnatio memoriae dovrebbe avvenire a motivo del suo ruolo di "colonizzatore e schiavista"; a chiederla, un gruppo di astronomi guidato da Mia de los Reyes, dell'Amherst College in Massachusetts. In un articolo pubblicato sulla rivista Physics, i suddetti studiosi hanno rivolto in particolare un appello all'Unione astronomica internazionale (Iau) affinché cambi il nome delle Nubi di Magellano, le due galassie satelliti più luminose della Via Lattea. Nell'articolo, Mia de los Reyes contesta apertamente la figura di Magellano, sostenendo in particolare due argomentazioni: non è mai stati un astronomo, né tanto meno il primo a documentare la presenza delle due galassie nel cielo.

Per contro, secondo l'astronoma Magellano avbrebbe commesso "atti orribili". Ovvero, "ridusse in schiavitù i nativi Tehuelche" in quella che è l'attuale Argentina", mentre a Guam e nelle Filippine l'esploratore e i suoi uomini "bruciarono villaggi e ne uccisero gli abitanti". "Nonostante le sue azioni - continua l'astronoma - Magellano è stato, e continua a essere, ampiamente onorato nel campo dell'astronomia. Il nome di Magellano appare attualmente in oltre 17mila articoli accademici sottoposti a revisione paritaria. Il suo nome è legato a oggetti astronomici, come un cratere lunare e un cratere marziano; il veicolo spaziale Magellan della Nasa; i telescopi gemelli Magellano da 6,5 metri; e, più recentemente, un telescopio di prossima generazione in costruzione chiamato Giant Magellan Telescope".

I telescopi Magellano - ha argomentato di nuovo la studiosa - sono tutti situati in Cile, "un Paese con una storia di violenta conquista spagnola. Proprio la 'scopertà dello Stretto di Magellano permise ai conquistadores spagnoli di esplorare la costa del Cile e portò a campagne di genocidio contro i nativi Mapuche". Per questi motivi, il nome dell'esploratore andrebbe cancellato.Magellano non è il primo a finire nel mirino della cancel culture in campo astronomico: nel 2021 simili polemiche avevano investito la Nasa per l'intitolazione del nuovo telescopio spaziale a James Webb, storico amministratore dell'agenzia spaziale statunitense accusato di episodi di discriminazione omofoba durante la Guerra Fredda.

Così le serie tv "educano" il maschio bianco etero. Alessandro Gnocchi il 12 Novembre 2023 su Il Giornale.

In un libro di Fitoussi le forzature negli show più famosi

Woke è una parola entrata nell'uso comune ma come potremmo definire con esattezza il suo significato? Prendiamo in prestito la risposta da Woke fiction. Comment l'idéologie change nos films et nos séries (Le cherche midi) di Samuel Fitoussi, editorialista del quotidiano francese Le Figaro: «Il militante woke è colui il quale crede che il razzismo, la misoginia, la transfobia e l'omofobia siano onnipresenti in Occidente, e rappresentino il fatto sociale più importante della nostra epoca». Il privilegio non è legato principalmente alla condizione economica ma al colore della pelle, al sesso, all'orientamento sessuale.

Il militante woke non si limita a individuare le meccaniche dell'oppressione ma applica un paradossale razzismo al contrario, a suo dire virtuoso. Per questo chiede trattamenti differenziati, anche dal punto di vista legale, per ogni categoria o minoranza.

Da un punto di vista della libertà, è una corsa vertiginosa verso l'abisso. Il ruolo dell'individuo è subordinato e schiacciato dalla appartenenza a un gruppo. Come rimedio, si attribuisce allo Stato il potere di discriminare e premiare le categorie che finiscono spesso con l'essere quelle elettoralmente più convenienti alla maggioranza di turno.

Il privato è politico. Il libero arbitrio è un inganno. La classe dominante agisce sempre per mantenere il privilegio. La classe dominata accetta sempre la servitù. L'ingegneria sociale è necessaria al fine di correggere questi comportamenti automatici. Fa parte di questo progetto anche la conquista e la revisione dell'immaginario collettivo attraverso un controllo serrato della cultura in tutte le sue forme. Si censurano i classici della letteratura. Si manganellano, per ora solo verbalmente, gli artisti (registi, scrittori, pittori) che non accettano ordini dalle cerchie «illuminate» dal politicamente corretto. I personaggi storici sono giudicati e condannati da grotteschi tribunali woke.

Il saggio di Fitoussi, appena uscito in Francia, prende in esame il lato pop di questa battaglia a parole progressista, nei fatti retrograda. Da tempo ci siamo accorti che qualcosa non quadra nelle serie tv e nei film. Hollywood e il mondo dei servizi in streaming, da Netflix in poi, hanno stipulato una alleanza con la cultura woke. Non si tratta solo di evitare guai e contestazioni. È qualcosa di più profondo e pericoloso. Di fatto, l'alleanza non riguarda solo i colossi dell'intrattenimento ma il mondo delle grandi corporations quasi per intero. Chiediamoci perché. Le risposte, tra quelle disponibili, non sono delle migliori. In nome del progresso, ci trasformiamo in una massa di consumatori indifferenziati. Perché fare prodotti per uomini e per donne? È uno spreco. Meglio promuovere la fluidità sessuale. Forse è anche peggio. Il grande capitale ha trovato il suo alleato naturale nella politica di sinistra. Entrambi si reggevano su una visione del mondo esclusivamente materialista. Entrambi avevano lo stesso nemico: l`individualismo del borghese. La piccola imprenditoria è conservatrice, un freno al progresso. La grande imprenditoria, invece, vuole il progresso, il progresso che le fa comodo, beninteso: la semplificazione del mercato in nome delle economie di scala. E se ci va di mezzo l'uomo? Amen.

L'arte non ci deve descrivere o ispirare: ci deve educare. Facciamo qualche esempio. Il finale della Carmen di Bizet, in alcune edizioni, viste anche in Italia, è stato riscritto: la protagonista non viene uccisa perché non si può mettere in scena un episodio che ricorda da vicino il femminicidio. Game of Thrones, una delle serie tv di maggior successo, era partita con stupri e altre infrazioni del politicamente corretto ed è stata corretta politicamente stagione dopo stagione. Gli interventi possono essere anche retroattivi: da Toy Story 2 è sparito un episodio di seduzione accusato di essere un esempio di mentalità patriarcale. I casi di rilettura woke della storia non si contano. Incredibile è la serie Bridgerton, soap opera ambientata nella nobiltà britannica tra XVIII e XIX secolo. La regina Carlotta, come potete vedere in questa pagina, è nera. Come molti altri personaggi, e pazienza se si tratta di un clamoroso anacronismo e di una invenzione. Stesso discorso per i Tre moschettieri, con un insensato d'Artagnan nero, e Cleopatra, anch'essa nera.

Un esempio di woke fiction di buona fattura è Get Out, un film dove i codici dell'horror vengono utilizzati per raccontare la vita dei neri oppressi dai bianchi. Anche in questo caso il fine è educare lo spettatore ma l'abilità nel maneggiare gli stereotipi della pellicola di genere salva lo spettacolo. Incredibile, e inguardabile, la svolta femminista di House of Cards nella stagione successiva al licenziamento di Kevin Spacey, accusato di innumerevoli molestie sessuali dalle quali è stato fino a qui assolto in tribunale. Spacey interpretava Frank Underwood, il presidente degli Stati Uniti, carica ereditata dalla moglie Claire. In un trionfo di femminismo woke arriva il giorno in cui una donna non dovrà più chiedere consiglio a un uomo. Claire licenzia tutti i ministri per sostituirli con donne. Certo, il finale non è che sia edificante ma almeno il merito della fine del mondo potrebbe andare a una donna e non a un uomo, sono soddisfazioni woke anche queste.

I supereroi sono stati manipolati in tutti i modi possibili da Catwoman lesbica a Superman bisessuale (fumetto del 2021). Anche Don Giovanni, il seduttore per eccellenza, è diventato bisessuale e soprattutto delicato, basta maschilismo tossico. Romeo e Giulietta si è visto in versione Romeo e Giulietto ma anche Romea e Giulietta. Il successo di queste operazioni pedagogiche (si fa per dire) però sta scemando. Speriamo…

Da cracked.com sabato 4 novembre 2023.

Ci piace pensare che la storia, per lo più, sia stata popolata da puritani che si nascondevano a letto per fare sesso. Non è così, anzi ci sono stati momenti in cui la dissolutezza avrebbe fatto vergognare i pornografi moderni. 

Il controllo delle nascite è un’invenzione moderna? Macché, risale all’antico Egitto, e anche gli antichi romani usavano un’erba per evitare il concepimento. La ceramica peruviana invece ci mostra un intero Kama Sutra: vulve, erezioni, rapporti anali e orali, bestialità e necrofilia. Nelle case romane penzolava il “fascinus”, fallo portafortuna appeso sulle porte o sui camini. 

Nel 1501 Papa Alessandro VI fece un banchetto a base di castagne. Le castagne erano in terra e venivano raccolte con la bocca da cinquanta prostitute nude, che danzavano e strisciavano. Inoltre, alcuni osservatori avevano il compito di elencare il numero e la qualità delle eiaculazioni dei partecipanti al festino.

Nel 1732 fu fondato il circolo scozzese “The Beggar's Benison”, club per soli uomini, altolocati e devoti alla conviviale celebrazione della sessualità maschile. I membri cenavano e bevevano insieme, discutevano di sesso, avevano a disposizione una biblioteca erotica, seguivano lezioni di anatomia (con modelle nude che posavano per istruirli meglio), e si dedicavano a masturbazioni collettive, parte integrante della cerimonia di iniziazione. 

L’era vittoriana è considerata puritana, ma è quella in cui gli scrittori hanno prodotto tonnellate di porno, romanzi a base di sadomaso, orge, incesti e stupri. La stessa Regina Vittoria era fanatica del sesso. Circa un terzo delle puritane, si presentava incinta il giorno delle nozze. La soddisfazione sessuale era un dovere matrimoniale e, se un uomo non si fosse occupato del piacere della moglie, la consorte avrebbe potuto chiedere il divorzio.

I sintomi dell’isteria erano nervosismo e irritabilità, una tendenza generale a creare problemi. La cura? Necessaria, prima con il ditalino, poi, quando le mani dei dottori si stancarono, nacquero i vibratori. Nel Settecento le donne indossavano abiti che coprivano le modestie, ma le parigine chiamate “marveilleuse” erano solite portare vestiti così velati da apparire nude, spesso li bagnavano per farli aderire di più al corpo. Le inglesi emularono la tendenza. 

Il vero Lawrence d’Arabia era uno stimato scrittore. Nella sua autobiografia “I sette pilastri della saggezza” raccontò di quando pagò un uomo per farsi picchiare e prese nota delle sensazioni. C’è anche descritta la scena esplicita di quando fu catturato dai turchi e violentato. Nel 1904 Inghilterra e Francia siglarono la fine di mille anni di guerra. Perché? Perché Edoardo VII adorava le prostitute francesi, tanto che un bordello parigino costruì una apposita sedia per ospitare la sua mole mentre faceva sesso con più donne contemporaneamente.

Per quattro secoli, chiunque volesse entrare a Milano, doveva passare sotto Porta Tosa, bassorilievo di una donna a gambe divaricate e con un rasoio nella mano destra nell’atto di radersi il pube. Questa era una pena inflitta alle adultere e alle prostitute, ma non è chiaro il suo significato: nel 1162 Milano era assediata dalle truppe di Federico Barbarossa e una fanciulla, per distrarre i soldati nemici, si mostrò sul balcone mentre si depilava, oppure è l’imperatrice di Costantinopoli ritratta come una prostituta, perché aveva negato aiuto ai milanesi dopo che Barbarossa aveva raso al suolo la città. 

Se l’Ulisse di James Joyce è ritenuto il primo libro di letteratura modernista, le lettere a sua moglie sono l’esempio del feticismo del peto. Il congresso di Vienna si tenne da novembre  1814 a giugno 1815, vi parteciparono tutti i leader europei per ridisegnare i confini e procedere con la restaurazione. In realtà nel castello di Schönbrunn si fecero moltissimo sesso e scambi culturali, le taverne dei dintorni vennero soprannominate “i negozi della scopata”.

William Kennedy Laurie Dickson è l'inventore della cinepresa, ma ha anche inventato il “peep show” attraverso al mutoscopio, una macchina a manovella che mostrava sequenze di donne che si spogliavano. La chiamò “What The Butler Saw”, ciò che vide il maggiordomo.  

Emanuele Ricucci per Libero Quotidiano - Estratti sabato 4 novembre 2023.

(...) L’arte ci ricorda che la libertà, oggi come ieri, è trasmettersi la fiaccola dell’indecenza, dell’osceno, di ciò che è posto fuori dalla scena, o meglio, dalla scenografia imposta da ogni versione di politicamente corretto, intento a riscrivere la moralità di Stato, neanche fossimo nella Toscana quattrocentesca di “Non ci resta che piangere”, ma soprattutto a estinguere tutto ciò che si pone come alternativo all’imposto. 

CAFFÈ E FUMO Così il processo artistico oltre a essere desiderio di fuga dall’atteso, dalla cadenza del tempo, dalla strettezza delle convinzioni, impressione del momento, persino impegno sociale o hybris che coglie in pieno il genio troppo umanamente fragile per limitarne gli effetti, è narrazione della vita che passa da un medioevo lisergico, a un caffè dei bassifondi di Parigi, intriso di fumo d’oppio e assenzio. 

È spacchettare i mondi dell’uomo per coglierli, tradurli e consegnarli alla comprensione affinché nutrano un pensiero critico, magari rappresentando l’Assoluto, come Raffaello nella “Messa di Bolsena” delle Stanze vaticane, che inquadra su un muro un concetto filosofico, alto, come la Transustanziazione, è raccontare le strade per la santità e l’elevazione, certamente, ma anche quelle che popolano l’intimità del giorno.

E farlo liberamente, passando dalle Fiandre del XVI secolo di Jan van Hemessen, con il suo “Figliol prodigo” raffigurato mentre scialacqua i suoi beni al tavolo di una locanda equivoca, alla “Toilette intima”, di Francois Boucher, opera del XVIII in cui si può vedere dipinta una donna che urina in un pitale, come ha fatto Claudio Pescio, giornalista e storico dell’arte, raccontando con grande qualità strane e curiose storie di paradisi posticci, provvisori, pericolosi e immaginari, trasgressioni, passioni nascoste, furtive vie di fuga, fragili illusioni, piaceri peccaminosi, percorrendo le dimensioni dello scandalo, dei fantasmi erotici dell’Occidente tra Rinascimento e primo Novecento. Ecco “Paradisi proibiti. Storie di sesso, alcol e droga nelle opere d’arte”, fresco di stampa per Giunti Editore.

Pescio compie un’indagine nei mondi dell’uomo che ben si armonizza con una lettura di quasi cinquecento anni di arte. Saltella in maniera critica dall’erotizzazione della Bibbia, con la figura di Betsabea, protagonista di un abuso, così come la ritrae Jacopo Zucchi nella seconda metà del Cinquecento e dalla mente appannata di Re Davide che la metterà incinta e le ucciderà il consorte per farla sua, con una riflessione sulla malizia e sull'erotismo al limite dello stereotipo, sino alla perdizione nel vino, tra mito e cristianità, purificazione, che conduce all’insanità di una sacra sbronza e alla liceità del costume, che si fa sesso e perdizione, come nelle opere “Il vino è beffardo” di Jan Steen (1688/1670) o nelle scene che riprendono i baccanali, citando Orfeo dilaniato dalla Baccanti di Émile Bin.

E poi ancora le mille luci rosse di Amsterdam che ispirarono un nuovo genere, i “bordeeltjes”, le scene di bordello, in cui i tabù vengono meno, tra seni in bella vista, nudità e profonda malizia, come nel seicentesco “Coppia in un letto” di Jan Steen o “Caccia alla pulce a lume di candela” della Cerchia di Gerrit van Honthorst e via avanti nei secoli di arte, con un accurato quadro storico e artistico fornito dall’autore, passando per il licenzioso e malizioso Rococò o l’assenzio – con lo splendido “Il bevitore di assenzio” di Viktor Oliva, in cui i fumi dell’alcool portano a stati di allucinazione – bevanda compagna di vita anche di Paul Gauguin, Amedeo Modigliani, Pablo Picasso, e le droghe, con lo sconvolto “Fumatore” di Joos van Craesbeeck o l’esplosione di tensione e piacere impressa da Eugène Grasset nel suo “Morfinomane” (1897) che ritrae una ragazza intenta a iniettarsi delle sostanze nella coscia. Storie di bellezza e di mito, di paradisi artificiali e proibiti. Un viaggio critico tra le segrete stanze dell’uomo che diventano arte, libera indecenza che parla una lingua universale. 

L'asterischite colpisce anche la parola se**o. Massimiliano Parente il 4 Settembre 2023 su Il Giornale.

​Viviamo nel mondo degli asterischi, il mondo che ha paura delle parole, che diventa sempre più ridicolo

Viviamo nel mondo degli asterischi, il mondo che ha paura delle parole, che diventa sempre più ridicolo. Soprattutto quando contagia un'associazione come Amnesty International. Sui social si legge infatti questo appello dell'organizzazione umanitaria, che dovrebbe essere appunto international: «Il se**o senza consenso è violenza». A parte il messaggio lapalissiano (c'è davvero qualcuno che non abbia qualche serio problema che pensa che il sesso senza consenso non sia violenza?), ma pure qui asteriscano?

Hanno iniziato con i generi, perché non si può dire «Ciao a tutti», i generisti sostengono sia sessista, per cui «ciao a tutt*». Poi arrivò la schwa di Michela Murgia, che mise in crisi anche la bravissima giornalista Flavia Fratello, che leggendo un articolo de L'Espresso e cercando di pronunciarla si rese conto che sembrava un qualche dialetto meridionale. Poi ci sono sempre stati gli asterischi giornalistici, per non infastidire il lettore sensibile alle parolacce (quello che lo stesso lettore dice cento volte al giorno, come tutti), per cui se uno scrive ca**o sai che non sta scrivendo callo.

Ma adesso con Amnesty il virus dell'asterisco si allarga, in maniera femministicamente sospetta: perché a essere asteriscata è la parola sesso. Io, a rifletterci, la trovo significativa, come svolta. Non è che Amnesty fa gli slogan così, a caso, no? Devono averci pensato molto. Deve esserci stata una riunione in cui qualcuno, o meglio ancora qualcuna, meglio ancora una femminista, ha proposto di asteriscare il sesso. A considerarlo una parolaccia da non scrivere.

In fondo, a pensarci, è lì che si vuole arrivare, che un certo tipo di movimento intellettuale vuole arrivare (quelli per esempio che negli Stati Uniti sono i «woke»): bandire il sesso, il pensiero del sesso, la cultura del sesso, per trasformarla in una cultura sessuofobica, paradossalmente proprio da chi dovrebbe portare avanti le diverse identità del sesso. D'altra parte c'è poco da dire: il sesso è sessista, sennò non si farebbe sesso tra nessuno. La prossima parola a cadere sotto la ghigliottina degli asterischi potrebbe essere la penetrazione. Non possono permettere che nel sesso ci sia una penetrazione. Per cui bisognerà scrivere p***trazione: insomma, per farla, tra uomo e donna, o tra uomo e uomo, c'è sempre di mezzo un ca**o, brutta cosa.

Estratto dell’articolo di Giuseppina Manin per il “Corriere della Sera” venerdì 25 agosto 2023.  

Il suo esordio americano doveva essere un film sul Titanic. L’idea del produttore David Selzick piacque così tanto a Hitchcock da fare la prova generale attraversando l’oceano a bordo della Queen Mary, nave gemella dello sfortunato transatlantico. Progetto naufragato perché nel frattempo Hitch fu sedotto da un romanzo gotico di Daphne du Maurier e il suo primo film a Hollywood fu Rebecca . Eppure, qualche anno dopo, un altro piroscafo incrociò la sua rotta. Anche questo affondato nel bel mezzo dell’Atlantico, stavolta non da un iceberg ma da un U-boat tedesco. 

Anno 1944, l’America è in guerra anche sul fronte del cinema. I grandi registi, da Capra a Ford a Huston, si prestano a girare film di propaganda. Hitch non si sottrae. Dopo Il prigioniero di Amsterdam e Sabotatori il suo terzo contributo alla causa è Lifeboat. La scialuppa di salvataggio su cui John Steinbeck, autore della storia, stipa i nove sopravvissuti alla catastrofe, otto americani e un tedesco, preso a bordo per umanità. [...] il film aveva tutte le carte in regola per essere un successo. Invece fu un disastro.

Appena uscito negli Usa Lifeboat (in Italia Prigionieri dell’oceano) attirò sul regista l’accusa più pesante: di aver fatto un film filo nazista, che sosteneva la superiorità del popolo tedesco. Un film imbarazzante, da far sparire al più presto. Quasi 80 anni dopo, a indagare in quel groviglio di critiche, arriva un documentario, Le film pro-nazi d’Hitchcock di Daphné Baiwir, in concorso a Venezia nella sezione Classici.

[...] A scatenare le censure la presenza del tedesco, in quella scialuppa di scombinati il migliore, il più determinato e capace. «Se guardi il film puoi avere questa sensazione — conferma l’autrice —. Rispetto a lui gli altri sono deboli e divisi. La morale è che senza l’unione gli Alleati sarebbero stati vinti. Certo, se nel film fosse stato chiaro che le “vitamine” del tedesco erano droga, si sarebbe capito da dove venivano i suoi superpoteri! Il patriottismo di Hitch è indubbio, ma dopo tanto bianco e nero, qui comincia a giocare con le sfumature del grigio. Il messaggio di Lifeboat è complesso perché la realtà è complessa».

«A scatenare le ire della stampa e anche del Fbi — prosegue — fu anche l’aver mostrato “i buoni”, gli americani, come “un branco di cani feroci”, parole di Hitch, che alla fine si avventano sul tedesco con una brutalità pari a quella del nemico».

Da leggo.it mercoledì 23 agosto 2023.

Un buffet di dolci a bordo piscina in un hotel in Gallura e sulla tavola una ragazza in costume da bagno ricoperta di cioccolato stesa accanto ai pasticcini. È l'immagine che si è trovato davanti a Ferragosto un manager milanese in vacanza al Voi Colonna Hotel di Golfo Aranci. 

Una scena che non ha particolarmente gradito e che l'uomo ha voluto denunciare sui social, in difesa di un corpo femminile sempre più utilizzato «come oggetto». Ma procediamo con ordine. 

Il turista, racconta La Nuova Sardegna, ha pubblicato sul suo profilo Linkedin la foto del buffet e un commento in cui parla espressamente di «corpo femminile come oggetto» e punta il dito contro la catena Voi Hotels e il gruppo Alpitour a cui l'albergo è collegato. 

Un post subito divenuto virale che ha scatenato la bufera sui social. «Rimango senza parole guardando questa scena - scrive il manager lombardo -. Dopo il primo momento di sgomento mi domando: Voi hotels sta per Vera ospitalità italiana, ma cosa significa? 

Cosa ne pensano i manager di Alpitour di questa rappresentazione del corpo femminile? (In hotel dopo avere espresso il mio disappunto mi hanno detto che era la 'statua di cioccolatò)». 

Nel post l'ospite dell'hotel si chiede come può una catena alberghiera che promuove i valori della tradizione ma anche dell'innovazione, «permettere che nelle proprie strutture ci siamo questi comportamenti, dove il corpo di una donna, di una lavoratrice, sia equiparato a quello di una stoviglia per assecondare l'occhio malizioso dì qualcuno». sconcerto che non è solo da ritrovare nel manager, ma che ha coinvolto tanti utenti del web. 

«Sono in vacanza con mia figlia di 14 anni - racconta - ed il suo commento è stato: 'papà che schifo, questo non è un paese dove potersi realizzare'». Voi Hotels replica subito sui social al post del turista. «Desideriamo, prima di tutto, porgere a lei, alla sua famiglia e in particolare a sua figlia, nonché ai nostri clienti, le più sincere scuse a nome di tutto il management Voi hotels - scrivono su Linkedin -.

Ci rammarichiamo profondamente per l'incidente verificatosi e desideriamo ribadire con fermezza che non abbiamo mai avuto alcuna intenzione di rappresentare valori diversi da quelli che abbracciamo. Stiamo intraprendendo azioni immediate per affrontare questo episodio in modo costruttivo e per garantire che in futuro nessun cliente debba sentirsi offeso in alcun modo».

L'amara idiozia di "servire" una ragazza di cioccolata. Polemica sul resort di lusso: la donna seminuda su un vassoio. La denuncia di un cliente. Valeria Braghieri il 24 Agosto 2023 su Il Giornale.

Di righe per indignarci sul senso di opportunità e sul mancato rispetto di genere ne avremo un sacco dopo, qui sotto. Stavolta, come prima cosa, vorremmo invece dire che una donna ricoperta di cioccolato fondente è repellente. Pensare di esporla su un tavolo da buffet allestito a bordo piscina di un hotel di lusso, per invogliare chissà chi a chissà cosa è, prima di tutto, ridicolo. Credere di poter intercettare le fantasie più politicamente scorrette cospargendo gambe piedi e capelli di cacao è qualcosa che non attiene né alla gastronomia, né all'intrattenimento, né, tantomeno, alla sensualità. Ma qualche manager di un resort quattro stelle a Golfo Aranci, in Sardegna, deve evidentemente aver pensato che fosse una buona idea. Così la ragazza è stata esposta: in posizione fetale, costume adamitico e impiastricciata come fosse rimasta sotto a una fontana di cioccolato. Pietà... Evidentemente il lusso si è liberato dallo stile. E in ogni caso, è chiaro che ci sono varie sfumature di lusso. Un albergo che offre pacchetti famiglia e che sciorina solidi valori nei suoi claim, dovrebbe optare per scelte di «marketing» che lo rappresentino meglio. Ma tutto questo, appunto, attiene ancora al buongusto, all'estetica e alla politica della ricezione. Ora veniamo al resto. Che è comprensibilmente ciò che ha talmente indignato un avventore (e ancora di più la sua figlia quattordicenne), da sollevare una polemica online che in pochissimo è montata come i bianchi d'uovo. Al centro dello scandalo, tanto per cambiare, la donna e il suo scempio. Quindi la «vergognosa» scelta dei responsabili di umiliare una ragazza con una richiesta tanto degradante. Nei giorni dell'agghiacciante stupro da parte del branco di Palermo, ammettiamo di avere parecchie difficoltà a tollerare anche la più malriuscita e inefficace delle provocazioni. Abbiamo perfino difficoltà a tollerare il genere maschile in quanto tale, ma comprendiamo che questa è una deriva ingiusta e irrazionale. Però vedere che siamo ancora lì a chiedere alle dipendenti di mettersi in posizione fetale sulla tovaglia bianca, tra le brioches della prima colazione e le foglie d'alloro che decorano le uova strapazzate, beh, ci sembra che la vita proceda su mondi paralleli. «Ci scusiamo per l'incidente» hanno risposto gli organizzatori. Ma cosa, esattamente, è successo per incidente?! Il nostro fastidio è contenuto solo dal fatto che, supponiamo, nessuno deve aver obbligato la ragazza di cioccolata a sbattersi su un tavolo conciata a quel modo. Fortunatamente non si fa cenno a coercizioni o ricatti o bassezze. Semplicemente si addita il cattivo gusto. E allora ci viene da pensare che le donne dovrebbero iniziare a difendersi un po' anche da sole. Se non altro per rispetto nei confronti di tutte quelle che non lo possono fare. Per tutte quelle che sono costrette, abusate, torturate, per tutte quelle per le quali non basta neppure il nostro aiuto. Ma se si va a lavorare in Sardegna, magari solo per una stagione, e qualcuno ci chiede di metterci in bikini ristretto e farci condire di cacao, care signore, ricordiamoci che si può anche rispondere «no grazie».

Estratto dell’articolo di Alessandro Fulloni e Floriana Rullo per “il Corriere della Sera” giovedì 24 agosto 2023.

La ragazza in costume ricoperta di cioccolato e stesa su un tavolo di un buffet di dolci nel resort la sera di Ferragosto «Quando mia figlia di 14 anni mi ha guardato e detto: “Papà che schifo, questo non è un Paese dove potersi realizzare” non ho potuto far altro farla alzare dalla sedia e portarla via. Quella ragazza, poco più grande di lei, sdraiata sul tavolo e ricoperta di cioccolato, l’ha lasciata senza parole. E, quando ho espresso il mio disappunto, lo staff mi ha risposto che era solo una “statua di cioccolato”». 

[…] «Dopo una serata trascorsa con gli altri ospiti viene annunciato che il buffet sarebbe stato servito a bordo vasca — racconta il manager —. Ci spostiamo tutti e la scena che mi trovo davanti mi spiazza: su un tavolo c’è una ragazza in costume, stesa in mezzo ai pasticcini. L’unica cosa che ho pensato è stata: dopo una bella giornata in cui tante persone hanno lavorato duramente per fare passare un giorno spensierato ai tanti ospiti questo spettacolo non è decoroso». […]

«Doveva stare lì, immobile, così che si potessero scattare le foto — dice ancora Mazzieri —. Tra i presenti nessun altro è sembrato turbato. Per noi invece la festa è finita in quel momento. Mia figlia, un’adolescente che ragiona, ha subito visto quel “corpo femminile come oggetto”. Mi sono chiesto come si possa permettere che il corpo di una donna, di una lavoratrice, sia equiparato a quello di una stoviglia solo per assecondare l’occhio malizioso di qualcuno».

La famiglia decide di tornare nel suo appartamento. Si confronta su quanto visto prima di andare a dormire. «Al mattino, ancora turbato, sono sceso in reception e ho ancora chiesto spiegazioni — dice Mazzieri—. Ma alla loro risposta mi sono reso di come avessero sottovalutato l’uso che era stato fatto del corpo di quella ragazza. Una volta arrivato a casa ho deciso di fare il post su Linkedin 

[…] Dalla struttura mi è stato detto che ad autorizzare quel buffet fuori luogo è stato un responsabile 60enne che non si è posto minimamente il problema e che non aveva intenzione di offendere nessuno. Una leggerezza, insomma. Nessuno mi ha chiamato, hanno fatto solo dei comunicati, ma ho la ragionevole certezza che una cosa simile non si verificherà più in futuro».

Estratto dell’articolo di Giulia Torlone per “la Repubblica” giovedì 24 agosto 2023.

«Papà che schifo, questo non è un Paese dove potersi realizzare». L’ultima lezione in tema di parità arriva dalla reazione a caldo di una quattordicenne, in vacanza in un hotel in Sardegna, quando ha visto che sul tavolo del buffet, in mezzo ai dolci, c’era una donna in bikini coperta di cioccolato. 

A raccontare su Linkedin l’episodio che infiamma il dibattito sui social è stato il padre della ragazzina, un manager delle risorse umane. È Ferragosto, siamo in un resort Alpitour a Golfo Aranci. «Dopo una bella giornata in cui tante persone hanno lavorato duramente per far passare un giorno spensierato ai tanti ospiti, rimango senza parole guardando questa scena. 

Dopo il primo momento di sgomento mi domando: Voi hotels sta per “Vera ospitalità italiana”, ma cosa significa? Cosa ne pensano i manager di Alpitour di questa rappresentazione del corpo femminile?». 

Mazzieri spiega di essersi lamentato con la struttura. E di aver scoperto che, su 700 persone presenti in hotel il giorno di Ferragosto, era stato l’unico ad aver qualcosa da ridire. L’unica a indignarsi, con lui, era stata proprio sua figlia, dall’alto dei suoi quattordici anni, a dispetto degli altri 698 vacanzieri a bordo piscina.

Gli organizzatori, ricostruisce il manager, hanno tentato una goffa spiegazione: «Per loro ammissione, la ragazza è stata lì per soli trenta minuti per fare le foto, poi era impegnata nelle attività di animazione confermando, di fatto, che fosse poco più di un bel vaso o di una stoviglia ». Secondo Mazzieri è la cultura aziendale ad essere sbagliata, «frutto di una gestione lasciata in mano a responsabili con una visione del mondo antiquata». […] 

Repubblica ha contattato la direzione dell’hotel, il Voi Colonna Village di Golfo Aranci, che però, dopo un «finalmente qualcuno vuole conoscere anche la nostra versione », ha preferito non rilasciare dichiarazioni. Stessa reazione da parte dell’agenzia che offre all’albergo il servizio di animazione: nulla da dire sulla giovane che a bordo piscina viene servita a tavola insieme a dei pasticcini.

Intanto, sui motori di ricerca online per trovare e offrire lavoro, è comparso un annuncio in cui Voi hotel cerca un nuovo manager nella struttura incriminata, per la stagione 2024. Se l’episodio, sulle prime, aveva indignato solo una quattordicenne e il suo papà, ora gli utenti social promettono di boicottare la struttura e s’interrogano sulla mancanza di etica di chi organizza questo tipo di intrattenimento. […]

Estratto dell'articolo di Giulia Torlone per “la Repubblica” sabato 26 agosto 2023.

Se non fosse per il clamore suscitato nelle ultime ore, probabilmente la ragazza servita al buffet per dolci ricoperta di cioccolato la vedremmo ancora a tavola. A Golfo Aranci il direttore del resort al centro dello scandalo estivo è nella hall dalla mattina presto. 

[…] Un signore catanese, trolley ancora in mano, ride intercettando il capo della struttura: «Mi aspetto la ragazza di cioccolato, diretto’!». Tra una battuta e un sorriso stiracchiato, è inevitabile che gli ultimi giorni qui al Voi Colonna Village siano fuori dall’ordinario. 

«Siamo stati al centro di una tempesta mediatica che non mi ha fatto dormire per due notti», racconta il manager, protagonista dell’affaire che ha oltrepassato i confini nazionali. Pur dovendo nascondere il suo nome, l’azienda l’ha obbligato all’anonimato, ha voglia di raccontare la sua versione.

«Ho letto tante ricostruzioni in giro, ma la realtà è che l’idea è venuta il giorno prima della festa al nostro chef pasticcere. Ho acconsentito, perché regalare agli ospiti un tableau vivant, un’opera d’arte, mi è sembrata una buona trovata. Il nostro intento era quello di rappresentare la bellezza della donna senza sessualizzarla», spiega. […] 

Per il responsabile dell’hotel, bisogna contestualizzare: «Ciò che è stato pubblicato sui social sono solo tre centimetri rispetto ai sessanta metri di tavolo imbandito intorno alla piscina». Mostra la foto originale e quello che sembrava cioccolato, in realtà è spray alimentare dorato. «Ci hanno accusato di averle spalmato addosso il fondente, ma nessuno ha mai toccato il corpo della ragazza. Volevamo solamente ricreare una sirena che dorme, come fosse una statua d’oro». […]

Se la responsabilità di ogni decisione è del direttore, al centro però c’è la ragazza. Lei non vuole farsi riconoscere, ma probabilmente è tra Kekko, Arianna, Nicole e il gruppo di animatori che, prima di pranzo, è sulla spiaggia a intrattenere gli ospiti del resort con i balli di gruppo. 

La sua versione però l’ha consegnata al direttore: «Quando il capo animatore ha chiesto al nostro gruppo chi fosse disposta a farlo, ho alzato io la mano. L’idea mi piaceva, sono abituata a fare esibizioni, ed è su questa linea che ho inteso la performance. Certamente, però, dopo quello che è successo non lo rifarei», ammette l’animatrice. 

Della stessa idea è il direttore. Secondo lui su 700 ospiti il manager Federico Mazzieri e sua figlia sono i soli a non aver gradito. «Se una ragazzina di 14 anni viene ferita da qualcosa di cui io sono responsabile, non posso che sentirmi molto dispiaciuto, anche se tutti hanno preso l’iniziativa in maniera positiva» continua.

E poi attacca: «Non è vero, come scrive Mazzieri su Linkedin, che si è lamentato la sera stessa: ha aspettato la mattina dopo e soprattutto smentisco che io mi sia sottratto». Sotto gli ombrelloni, una coppia di nuovi ospiti dell’hotel ammette che «la trovata sia stata di cattivo gusto, da evitare». 

Una signora sulla cinquantina, invece, dice di non essersi sentita offesa dalla trovata di far sdraiare una ragazza in bikini sul tavolo dei dessert. «Ho sentito del clamore suscitato dalla festa di Ferragosto solo dalla stampa e dal tg, io che ero presente non mi ero neanche accorta della cosa», racconta un’ospite che sta per ripartire dopo due settimane nel resort. […]

Estratto dell’articolo di Luisa Mosello per repubblica.it lunedì 28 agosto 2023

Non c'è solo la ragazza ricoperta di cioccolato nel buffet dell'hotel di Golfo Aranci che ha scatenato mille polemiche. Il corpo femminile proposto come vassoio su cui offrire del cibo si può trovare anche altrove. 

Per esempio un po' più a nord della Sardegna, in quel di Milano dove si può partecipare a cene condite con il Nyotaimori che significa in pratica: mangiare non da un piatto ma prendendo le portate poste sulla pelle di una donna che diventa tavola umana.

Accade in un locale meneghino che unisce la tavola nipponica agli spettacoli di lap dance. "A pochi passi dai Navigli, nel cuore della movida milanese, Sixth Sense propone serate alternative di body sushi, l'antica pratica di servire cibo sul corpo di una donna, considerata una tecnica artistica paragonabile al body painting" si legge nella presentazione del locale sul web. 

Sul sito si pubblicizza il servizio con i costi: "Una bottiglia di vino ogni 4 persone e l'acqua sono compresi nel prezzo di 60 euro a persona per la cena semplice con 20 pz. di sushi a testa".

Segue spiegazione dettagliata sulla proposta: "Il Nyotaimori, meglio conosciuto come Body Sushi, la pratica giapponese di servire cibo sul corpo nudo di una donna, è considerata un’arte antica, soprattutto in Occidente, dove ha assunto un’allure mistica. 

Secondo alcuni studi di storia e cultura giapponese è considerata una pratica underground, nata intorno agli anni ‘80, in pieno boom economico, nelle comunità giapponesi all’estero e legata alla criminalità nazionale. Insomma, per i giapponesi una “moda” nata all’estero". E ancora: "Un modo per gustare il più famoso piatto nipponico in maniera goliardica, originale ed alternativa". […]

Abbiamo contattato anche un altro ristorante giapponese di Brescia con lo stesso nome, Yoshi, di quello aperto a Roma dieci anni fa, il primo nella Capitale a offrire il Nyotaimori o Body sushi o Naked sushi con regole precise e rigorose: igiene garantita e divieto assoluto di toccare la donna nuda. "No, noi non lo facciamo affatto e non sappiamo nulla di questa storia della Sardegna" si limita a rispondere frettolosamente una dipendente del locale bresciano. […]

Tuttavia non c’è assolutamente alcuna relazione con la tradizione e la cultura giapponesi. I comuni cittadini dotati di buon senso non hanno mai assistito a queste modalità di presentazione delle pietanze. Qualora ci fossero in Giappone persone che influenzate dalle suddette leggende metropolitane diffuse all’estero si dedicassero a tali attività verrebbero tacciate di deviare dal senso comune e le autorità sanitarie e di polizia competenti chiederebbero conto di tali comportamenti”.

Estratto dell’articolo di Giulia Zonca per “La Stampa” sabato 26 agosto 2023.

Se l’orinatoio è una bocca di donna: com’è difficile distinguere arte e oscenità

Bocche spalancate davanti a uomini che fanno la pipì e il problema sta in partenza, nello sguardo che si porta dietro ogni condizionamento degno di questo nome, ogni visione di questo Paese, ogni maledetto pregiudizio. 

Chi ha detto che le maxi labbra rosse, con un accenno di denti da pubblicità del sorriso perfetto, sono dettagli di donna? Sì, c’è il rossetto, la linea a cuore, ma sono oggetti di fantasia, design creativo che non ha appartenenza di genere: nello specifico orinatoi che una catena di palestre ha appeso ai propri bagni nel tentativo di usare l’arte per fare scelte al ribasso. Ma se cambia il punto di vista, il gioco cade e siccome il gioco è sempre lo stesso è ora di smontarlo. Ed è pure facile farlo. 

L’ispirazione arriva dalla linguaccia di Mick Jagger, pensa un po’, un uomo. Una designer olandese ha trasformato il logo in caricatura da ceramica. Lei ha fatto arte, che può piacere o fare orrore però resta un’opera di creatività [...] Questo è un enorme cartone animato con una funzione pratica [...] Le bocche stanno lì, aperte, sono nei cessi maschili e quindi l’abbinamento classico è immediato: labbra, pene, sesso. [...] 

C’è arte migliore e idee molto più raffinate, ma davanti all’evidente ammiccamento al ribasso è meglio scattare in avanti e ridare un senso degno a un’operazione discutibile. Davanti a una bocca fumetto non è obbligatorio pensare a una donna sottomessa, a meno di avere pochissima fantasia e un’esistenza terribilmente triste. Quelle in cui si immagina sesso trasgressivo in palestra e si passano serate onanistiche a casa. Roba per chi ce l’ha piccolissimo. Il cervello.

Estratto dell’articolo di Cristina Insalaco per “La Stampa” sabato 26 agosto 2023.  

«Beh, mi sembra design post pop. Dico la verità? Mi piacciono questi orinatoi e non credo rappresentino necessariamente bocche femminili».

Questo è il commento di Carolyn Christov, direttrice del Museo d’Arte Contemporanea di Rivoli, che aggiunge: «Possono essere di qualunque genere, trans, we / he / she / they, ecc. Ma non credo allo stesso tempo che i maschi eterosessuali in generale siano all'altezza di comprendere questa opera di design di Meike van Schijndel, che peraltro è una donna. [...]

Oggi - ahimé – l'ironia non si capisce. Che mondo triste in cui viviamo, senza più la capacità di comprendere che le cose non sono “o bianche o nere”, alte o basse, misogine o pro-donne. Mi fanno molto pena i maschi maschilisti, ma mi fanno anche pena i moralisti schierati. È l'era di Internet, dei social media e direi quindi della stupidità artificiale».

Lasciateci fare pipì in pace. Infuria la polemica per la presenza, nei bagni maschili di una palestra di Torino, di orinatoi a forma di bocca. Max Del Papa su nicolaporro.it il 26 Agosto 2023.

Tre giorni fa, mercoledì 22 agosto, i Rolling Stones hanno fatto capire che erano pronti a licenziare un nuovo disco dopo quasi 20 anni; lo hanno fatto con un finto annuncio su un giornale locale e l’immagine di una linguaccia, quella loro, celeberrima, ridotta in pezzi di vetro: come per dire “siamo noi, siamo fragili e ostinati come vetri, e adesso torniamo per l’ultima volta e torniamo là dove, 62 anni fa, tutto era cominciato”. Un capolavoro di concettuale e pop art.

Ieri una vincitrice di quei programmi canterini da cui possono al massimo uscire dei Maneskin, ma mai dei nuovi Rolling Stones, ha trovato modo di fare parlare di sé pubblicando l’immagine di un bagno a muro di una palestra di Torino “a forma di bocca di donna”. Apriti cesso! L’orinatoio, come enorme bocca spalancata, più che le labbra di una femmina ricorda, volendo, proprio quella dei Rolling Stones, declinata in milioni di versioni, che il designer John Pasche, allora 25enne, concepì nel 1970 ispirandosi alle labbra di Mick Jagger, dal quale aveva ricevuto incarico sulla base di una raffigurazione della dea Kali. Epoca in cui contaminazioni e trasgressioni ribollivano nelle menti fertili e giovani creando presupposti artistici dei quali stiamo ancora a parlare.

Cinquanta e passa anni dopo siamo, più che regrediti, implosi; siamo alla desolazione culturale se una apprendista cantante non trova altro canale dal conformismo moralista, che è di una noia mortale, subito raccolta dalla sinistra disperante che dopo essersi riempita per mezzo secolo la bocca di avanguardia, di arte, di provocazione culturale, sembra avere ripudiato tutto, perso tutto: le rimane la mestizia pedagogica, il dito alzato, il perbenismo alienato e burocratico, “così si incentiva la cultura del patriarcato”. Veramente si tratta di una esagerazione, magari non irresistibile, già vista le mille volte nei mille “pride”, ma una sfilata militante può permetterselo, la catena del fitness, delle palestre no.

Difatti la reazione arriva come sempre sullo stralunato di chi non si aspettava la bufera e invece dovrebbe perché questi sono tempi di intolleranza fanatica e, come tale, impossibile da discutere, da rintuzzare: “Volevamo fare design, senza offendere nessuno”. Avrebbero potuto dire volevamo fare design e peggio per chi si offende, ma la liturgia del piagnisteo aggressivo e delirante prevede immediata flagellazione, l’autodafè che dovrebbe placare gli esagitati. Ma non li placa.

C’è questa Greta (ma tutte così si chiamano queste capricciose?) che deve simulare la sua crisi d’ansia con cui legittimarsi al cospetto del Pd schleiniano e velleitario, quello dell’estate militante che nessuno ha visto. E allora anche un pisciatoio dalle pretese artistiche magari mal riposte, ma in nessun modo ascrivibile al patriarcato, può servire. Il dramma, e grosso dramma, della sinistra post culturale non è solo il suo totale ripudio di ogni cultura, ma la perdita del senso logico e perfino lessicale: si esprimono le puttanate che si vuole nella pretesa apodittica, lo dico io e vuol dire quello che intendo io, senza possibilità di precisazione, di confutazione. Tendenza in cui era maestra quella men che mediocre scrivana della Michela Murgia, capace di farci su un piccolo patrimonio a beneficio della “famiglia queer”.

La sinistra Zerocalcare o Saviano, quella dei comici conformisti che non fanno ridere neanche per sbaglio, dei battutisti agghiaccianti, dei rancorosi tristi come iene al tramonto, non ha più alcun sospetto dei dada, di Tristan Tzara e Duchamp con le sua Gioconda che “ha caldo al culo”, figurarsi le accuse di patriarcato tossico, oggi, di concettuale e pop art, dei Rolling Stones che chiudono il cerchio dell’arte e dell’oltraggio anche visivo, la copertina di Black&Blue, con la modella “coperta di lividi”, quella di Some Girls, con le dive del periodo parodizzate e offesissime, Andy Warhol e Chagall, Schifano e Marianne Faithfull, che faceva imbestialire Mick, “ti sei infilata nel letto di un mandolinaro”. Pasolini che li invitava in casa e un po’ li bramava e un po’ li temeva, Anita Pallenberg e Stash, il figlio di Balthus che svezzava, corrompendola, la quindicenne Romina Power, e ancora Warhol e la banana dei Velvet Underground, le lacerazioni scenografiche newyorkesi di Lou Reed, gli espressionismi grafici di Tom Waits, gli antagonisti artistici feroci, totali di Frank Zappa, tutto si poteva, tutto si osava, molto restava. Era arte. Adesso per la sinistra non si può più neanche pisciare in pace.

Max Del Papa, 25 agosto 2023

Legittimo il licenziamento di chi fa allusioni sessuali a una collega: “Non è goliardia”. La sentenza della Cassazione: per i giudici il “clima sul posto di lavoro” non giustificano il comportamento “umiliante e offensivo”. Il Dubbio il 26 agosto 2023

Le allusioni a sfondo sessuale giustificano il licenziamento disciplinare del lavoratore anche se avvengono in un clima di “goliardia”. Lo stabilisce una sentenza della Cassazione dei giorni scorsi diffusa dallo Studio Cataldi e letta dall'AGI.

Gli ermellini hanno confermato quanto già deciso in precedenza dal Tribunale di Arezzo e poi dalla Corte d'Appello di Firenze che avevano individuato una giusta causa di licenziamento nel comportamento dell'uomo, denunciato sia dalla collega che dalla società, per allusioni verbali e fisiche a sfondo sessuale nei confronti della giovane neoassunta con contratto a termine assegnata a mansioni di barista. Un atteggiamento definito "indesiderato e oggettivamente idoneo a ledere a violare la dignità della collega di lavoro". Secondo i giudici nessuna giustificazione sarebbe derivata dal fatto che "fosse assente la volontà offensiva e che in generale il clima dei rapporti tra tutti i colleghi fosse spesso scherzoso e goliardico".

Nel ricorso il lavoratore aveva sostenuto l'"inattendibilità" della collega perché il gip aveva archiviato una sua denuncia di violenze sessuali e stalking. Ma per la Cassazione "il reato di stalking era estraneo ai fatti per i quali era stato licenziato" mentre l'archiviazione della violenza era dovuta alla tardività della querela e non a ragionamenti nel merito. Nel secondo motivo del ricorso, il legale dell'uomo aveva invocato l"inidoneità" delle allusioni a ledere la dignità.

Ma per la Cassazione la Corte d'Appello si è mossa correttamente nell'ambito della definizione di molestie sancita dalla legge. "E ha dunque considerato - si legge nella sentenza - le molestie come quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo". Anche se non sfociate in aggressioni fisiche.

La decisione della Cassazione. Signor Salvini, clandestino sarà lei…E' una soddisfazione vedere il povero Salvini restare a mezza frase perché non può più dire “clandestino”… Piero Sansonetti su L'Unità il 20 Agosto 2023

La Corte di Cassazione ha deciso che è illegittimo definire “clandestino” un rifugiato che chiede asilo politico. Bastava in realtà un po’ di buonsenso per capire che se hai chiesto asilo non sei clandestino. Per una ragione molto semplice. Che il Parlamento italiano, con il consenso e l’appoggio della destra e dei 5 Stelle, ha fatto in modo che una dura condizione sociale come quella del sans papiers, cioè del migrante senza documenti, sia considerata dalla legge un reato.

La clandestinità, qui da noi, è un reato vero e proprio, come il furto, lo stupro, l’omicidio. Talmente è un reato che è un reato persino l’osservanza di un precetto evangelico – quello di proteggere gli affamati e gli assetati e gli stranieri e i pellegrini – attività punita dalla legge perché considerata favoreggiamento della clandestinità. Ora uno può ragionare finché vuole sull’orrore e la sadicità contenuta in questa legge. Però la legge è nel codice, e quando il Pd ha provato a cancellarla è stato sonoramente battuto.

Dunque se ne evince che se tu dai del clandestino (quindi autore di reato) a una persona che clandestino non è, fai una cosa illegale e puoi essere querelato. Come se dai del ladro a uno che non ha rubato o dell’assassino a chi non ha ucciso. Cosa cambia? Niente, per carità. Oltretutto io ho fortissimi dubbi sul fatto che debba essere una Corte a stabilire il linguaggio. Però, lasciatemelo dire, è una soddisfazione vedere il povero Salvini restare a mezza frase perché non può più dire “clandestino”…

Piero Sansonetti 20 Agosto 2023

Vittorio Feltri, vietato dire clandestini? "Come chiamerò i migranti". Il Tempo

Un articolo che aveva fatto discutere ancor prima di essere pubblicato. La mattina di lunedì 21 agosto Vittorio Feltri aveva twittato: "Per la prima volta in 60 anni di professione giornalistica sono stato censurato, ed è accaduto nel giornale che ho fondato, Libero. Non so perché. Nessuno mi ha dato spiegazioni. Suppongo perché ho definito invasori gli emigranti, esattamente come ha fatto il Giornale oggi". In serata, l'aggiornamento: "Contrordine compagni. Non sono stato censurato, ma rinviato. Il mio pezzo sugli invasori esce domani, martedì. Evviva. Grazie Sallusti".  E oggi, martedì 22 agosto, l'articolo è puntualmente in edicola. Ma cosa scrive il direttore editoriale del quotidiano? Si parte dalla Cassazione, che ha sanzionato l'uso della parola "clandestino" per definire un migrante. "Dobbiamo rassegnarci alla sconfitta. La guerra al vocabolario l’abbiamo persa, hanno vinto i bulli del politicamente corretto", afferma Feltri.

Insomma, vietato dire clandestino: "Questo perché gli immigrati meritano rispetto. Va bene, io allora li definirò 'invasori' visto che arrivano in Italia a migliaia" con gli sbarchi a Lampedusa e non solo che si susseguono. Va detto che "aiutare chi si dibatte tra le onde è un dovere morale", chiarisce il giornalista, ma "non è ammissibile che una folla di invasori senza arte né parte abbia il diritto di essere ospitata da noi". Anche perché gli arrivi, sottolinea, sono tantissimi.

La sinistra invoca l'accoglienza senza limiti, senza pensare, ad esempio, ai problemi di casa nostra. Se è un obbligo salvare le persone in difficoltà in mare, argomenta Feltri, perché "dovremmo garantire pure ai nostri clochard, più di 50mila, una ospitalità tale da assicurare un tetto sostitutivo ai cartoni sui quali essi, loro malgrado, trascorrono la notte oltre che il giorno. Niente da fare, due pesi e due misure".  Come fare per frenare l'"invasione"? Per Feltri ci vorrebbe una massiccia campagna pubblicitaria nei Paesi da cui i migranti partono per avvertirli "che in Italia non c’è posto".

La cultura occidentale e la sacra alleanza fra stragisti di pianoforti, cacciatori di nicchie e di vendetta. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 13 Agosto 2023 

I talebani hanno scaricato la loro furia simbolica contro il pianoforte, erogatore di musica occidentale e lo hanno disossato, straziato e sventrato esibendone i resti come quelli di un nemico concreto e non solo simbolico. Poche settimane fa l’ex presidente russo Medvedev si è rivolto in televisione all’occidente e all’Europa scandendo parole inconsuete: “Noi vi odiamo, vogliamo morta quell’Europa che cerca di imporci valori fondati sul nulla come la loro libertà”. In America l’odio verticale tra repubblicani e democratici ha raggiunto vette da guerra subconscia da quando il tremendo aggettivo woke, parola afroamericana che sta per “coloro che nascondono ogni velato indizio di discriminazione”, è diventato un marchio razzista discriminatorio di uso sfrenato e vale quanto la lettera scarlatta.

In Italia non ce ne accorgiamo perché questo genere di fenomeni ribolle prima negli Stati Uniti per tracimare sul Regno Unito e Francia, mentre l’Italia resta ancora aggrappata alle vezzose quote rosa. L’altra espressione connessa è la “Cancel culture”, la cultura cancellata, il pianoforte annichilito dai talebani.

Quest’impulso savonaroliano alla distruzione sbarca in Europa come eco delle multiple differenze e odi razziali, Il nuovo guru della buona cultura anti woke è un personaggio, è un giovane sudafricano cresciuto nell’apartheid senza poter vivere con il padre perché bianco e senza poter mostrare la madre perché era nera. Quest’uomo geniale di color beige che parla un inglese britannico riadattato all’America è riuscito a spiegare e a radunare un nuovo modo di pensare la disintegrazione causata dalle nicchie razziali portando in scena la ricomposizione.

Ma la politica è ancora ferma sui pregiudizi di destra e di sinistra: ecco, ad esempio, Ron De Santis che dice di essere disposto ad accettare Twitter in Florida purché non si porti dietro il mondo woke. Il comune denominatore di una civiltà in frammenti sta nella ricerca individuale ciascuno della propria nicchia di perseguitati in cerca di vendetta. Quando abbiamo visto in America le statue di Cristoforo Colombo abbattute, in Europa siamo rimasti solo un po’ perplessi ma gli americani hanno capito che il genovese era diventato l’epitome dell’odio dei dominatori sui dominati. Questa rinata iconoclastia irrompe in occidente più o meno come le guardie rosse irruppero nella Cina maoista: tutti i simboli devono essere abbattuti, tutti i portatori devono essere uccisi.

I talebani lo fanno da sempre e la loro è la cultura della distruzione sistematica dell’occidente per proteggere la loro rete di valori, tra cui la sottomissione delle donne, la glorificazione dell’ignoranza. Noi europei ancora non ci siamo resi conto del radicale significato di quel pianoforte squartato e non sappiamo vedere che Donald Trump non detesta la cultura, ma la considera una cipria settecentesca portata dal vento europeo. Quando si presenta, snocciola fino ai centesimi il valore in miliardi e centesimi delle sue ricchezze.

Vale la battuta dello stand-up britannico Rick Gervais: “Tutti si lamentano perché si sentono parte di una minoranza perseguitata. Guardate me: sono bianco, eterosessuale, e miliardario. Quanti saremo al mondo? Meno dell’un per cento. Mi sono mai lamentato? Mi avete mai visto piangere? No!”. L’Occidente si è sentito ferito a sangue per la mattanza della redazione di Charlie Hebdo dove un gruppo di sconsiderati umoristi furono fucilati in massa da parigini di seconda o terza generazione islamica. E quel mondo che ha deciso di vivere al di fuori della storia senza contesto. Noi occidentali siamo invece abituati a una civiltà che prevede e anzi raccomanda evoluzioni e rivoluzioni perché noi col contesto ci facciamo i film d’epoca e anche con sciatteria. Ma a loro no, non sfugge come a Putin non sfugge il concetto di impero, comune ad indiani, cinesi, iraniani e talebani: così è nata la sacra alleanza fra stragisti di pianoforti, cacciatori di nicchie e di vendetta.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

"Troppo sesso". La censura della scuola si abbatte su Shakespeare. Vietata la lettura integrale di Romeo e Giulietta, Amleto e Macbeth. "Troppe volgarità". L'assurdo provvedimento, adottato nel rispetto di una legge vigente in Florida, rappresenta la negazione della cultura. Marco Leardi il 9 Agosto 2023 su Il Giornale.

"Questa è l'estasi dell'amore", scriveva Shakespeare nell'Amleto. E questa invece è l'idiozia d'oltreoceano: in Florida il grande drammaturgo inglese autore di opere indimenticabili della letteratura è finito nel tritacarne della censura. Le autorità scolastiche della contea di Hillsborough hanno infatti vietato la lettura integrale di Romeo e Giulietta, Amleto e Macbeth a causa dei contenuti di quei testi, ritenuti sessualmente troppo espliciti. La decisione sarebbe stata motivata delle norme approvate dal governatore Ron DeSantis, secondo le quali i temi sessuali possono essere affrontati fra i banchi di scuola solo durante lezioni dedicate alla salute.

Così, per non violare il "Parental rights in education act", le opere di William Shakespeare sono cadute nella tagliola. Del resto, sempre in base a quella discussa e discutibile norma, se un insegnante non segue le nuove linee guida, potrebbe essere denunciato dai genitori o essere oggetto di un provvedimento disciplinare, spiegano le autorità scolastiche. Ne sa qualcosa una docente licenziata di recente in Florida per aver mostrato - incedibile a dirsi - alcune immagini del David di Michelangelo, opera ritenuta troppo esplicita sessualmente secondo i canoni normativi del postio. Ora, nel caso di Romeo e Giulietta, le autorità hanno spiegato come l'opera lascerebbe intendere che i due protagonisti si siano lasciati andare a rapporti preconiugali.

"Ci sono delle volgarità in Shakespeare", ha detto Joseph Cool, insegnate del liceo Gaithner della contea di Hillsborough. Ci chiediamo se il professore abbia mai letto il Decameron di Bocaccio, raccolta che qualche stolto potrebbe certo e analogamente censurare. La censura delle "volgarità" e la lettura solo di "estratti" di opere come il Macbeth e l'Amleto - ha aggiunto il docente - consentirà di continuare a insegnare Shakespeare a scuola evitando contenuti sessuali e quindi rispettando le leggi vigenti. Molte scuole della Florida di recente hanno rivisto in modo drastico il loro curriculum di studi proposto, per evitare di esporsi alle critiche e alle denunce di genitori che vogliono avere un ruolo attivo nell'istruzione dei figli. Ma l'idea stessa che la scuola censuri la letteratura o l'arte è un controsenso: è la negazione stessa del concetto di educazione alla cultura e alla comprensione di essa.

Di follie simili, purtroppo, negli Stati Uniti ne capitano parecchie. E non è il caso di farne una questione strettamente politica. Se le norme della Florida repubblicana fanno discutere, allo stesso mondo fanno rabbrividire i diktat progressisti che in nome del politicamente corretto e della cosiddetta cultura woke vogliono riscrivere la storia, la cultura, l'arte e la cinematografia.

Lecco, cane morde gluteo a una donna, i medici refertano la ferita definendolo: «Un buongustaio». Il riferimento sessista è finito nero su bianco in un referto medico di un'incredula paziente che si era rivolta al pronto soccorso dell’ospedale di Merate. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 Agosto 2023      

Un cane che morde una natica ad una donna è un animale «buongustaio»: il riferimento sessista è finito nero su bianco in un referto medico di una incredula paziente che si era rivolta al pronto soccorso dell’ospedale di Merate, in provincia di Lecco.

La vicenda risale ad alcuni giorni fa quando una 28enne si è presentata al nosocomio: aveva bisogno di alcuni punti sulla natica per una ferita provocata dal morso del cane di alcuni amici. Il medico che l’ha visitata - appartenente alla cooperativa che fornisce il personale a gettone al reparto - durante l’esecuzione dell’intervento ha però pensato bene di uscirsene con una battuta, definendo appunto 'buongustaio' il cane. Un concetto ribadito più volte dal medico, che non contento lo ha scritto anche nel referto consegnato alla paziente.

Nel giro di qualche giorno la vicenda è stata resa nota e la direzione generale dell’Asst di Lecco ha subito preso provvedimenti: rimozione da tutti i turni di lavoro già programmati nel Pronto soccorso del San Leopoldo Mandic di Merate e una segnalazione deontologica all’ordine professionale.

Dall’Asst di Lecco sono subito arrivate delle scuse ufficiali alla paziente, seguite da una serie di provvedimenti presi dall’autorità sanitaria. «In qualità di medico e di direttore generale della Asst di Lecco - afferma Paolo Favini - porgo le mie sentite scuse alla signora per quanto accaduto durante il suo accesso al pronto soccorso dell’ospedale di Merate, nella notte del 25 luglio». L'azienda precisa che «appena venuta a conoscenza del referto rilasciato all’esito della prestazione, ha provveduto a contestarlo alla società da cui dipende il medico coinvolto e ha disposto, a titolo cautelativo, che il sanitario non effettui più alcun servizio al pronto soccorso dell’ospedale meratese e che venga immediatamente rimosso dai turni già programmati e sostituito da altro professionista».

L’azienda ospedaliera ha anche segnalato «la condotta all’ordine dei medici al quale il sanitario è iscritto, per le valutazioni deontologiche di competenza». Inoltre «si riserva di procedere all’eventuale applicazione delle penali previste dal contratto con la società che, in caso di iniziative in sede civile o penale derivanti dall’accaduto, sarà anche ritenuta responsabile con il professionista».

Il Bestiario, il Disneygino. Il Disneygino è un animale leggendario che, cambiando le favole per non offendere nessuno, offende tutti. Giovanni Zola il 27 Luglio 2023 su Il Giornale.

Il Disneygino è un animale leggendario che, cambiando le favole per non offendere nessuno, offende tutti.

Il Disneygino è un essere mitologico che, invece di accontentarsi di raccontare storie divertenti e romantiche, si è messo in testa di dover educare il suo giovane pubblico, gli adulti di domani. Così ha sostituito l’intrattenimento con il proselitismo della nuova religione che predica che le differenze non esistono, che siamo tutti uguali e ammonisce di prendere le distanze dagli stereotipi di genere e di razza. Il Disneygino sostiene in tutto e per tutto le istanze LGBTQ. Povero giovane inconsapevole pubblico, che invece di divertirsi per un paio d’ore si becca il sermone della nuova chiesa del “bene comune” e un paio di baci gay gratuiti e fuori contesto. Però, come in ogni operazione ideologica, il Disneygino innesca cortocircuiti ridicoli perché il buon Dio punisce con ironia chi cerca di piagare l’oggettività della realtà alla propria idea. L’esempio della prossima Biancaneve del Disneygino è emblematico.

Per non offendere le persone diversamente bianche, il Disneygino sostituisce la protagonista dalla pelle bianca come la neve con un’attrice mulatta contraddicendo in partenza il titolo stesso. D’altra parte l’operazione “chi se ne frega dell’origine del protagonista” era stata anticipata dalla “Sirenetta”, personaggio danese, interpretato da una ragazza di colore. Tradizione offesa.

Per non offendere le persone affette da nanismo, il Disneygino, che odia gli stereotipi, ha trasformato i 7 nani in personaggi di diverse etnie, fisicità e appartenenze sessuali. L’offesa a chi è affetto da nanismo è servita. Forse sono brutti da vedere? O li vedremo interpretare una serie sulle stelle del Basket?

Per non offendere le donne, il Disneygino, offende gli uomini. Il principe azzurro è stato vaporizzato. Il patriarcato è la madre di tutti i mali. Biancaneve si deve salvare da sola. Il romanticismo è reato, come il bacio “rubato” sulla tomba di vetro di Biancaneve, benché miracoloso, è considerato un atto di violenza sessuale. Meglio sostituire il prepotente principe innamorato con un Sex Toys, emblema della dipendenza femminile.

Il Disneygino non ha fatto i conti con il popolo che è ancora sano e non accetta l’imposizione ideologica che violenta la realtà e la fantasia dei nostri figli, e ora, il Disneygino deve correre ai ripari per le gravi perdite economiche delle ultime produzioni che hanno visto le sale cinematografiche deserte e vuote come la sua anima.

Disney, dal topo "wasp" alle fiabe politically correct. Nel 1923 nasceva la "fabbrica" dei cartoni animati. Una terra di sogni che qualcuno vuole riscrivere. Claudio Siniscalchi il 27 Agosto 2023 su Il Giornale.

Le fortune di due fra i più importanti imprenditori-innovatori statunitensi contemporanei sono nate in un garage. Da lì sono partiti, con immensa fiducia, poche certezze e mezzi finanziari risibili, Steve Jobs (fondatore di Apple) e Bill Gates (fondatore di Microsoft). Storie incredibili. Ma non nuove. Spostando il calendario indietro di cento anni, uno squattrinato disegnatore fatica non poco per racimolare i soldi per pagarsi il biglietto del treno per Los Angeles. Si chiama Walter Elias Disney. Nato a Chicago nel 1901. La «città degli angeli» è nel vortice dell'espansione economica. I produttori cinematografici hanno abbandonato la fredda costa dell'Est per accasarsi nella calda costa dell'Ovest. Possono lavorare ininterrottamente tutto l'anno. Disney e il fratello partono da un garage. E da lì scalano a grandi passi il «tempio della celluloide». Walt ha una grande intuizione. Ai magnati di Hollywood non interessa il cartone animato. Il mercato di fatto è un oligopolio, dominato da otto compagnie: cinque grandi e tre piccole. Poi ci sono gli indipendenti, che tali debbono restare. Se hanno ambizioni di crescere e trovarsi un posto al sole accanto ai grandi, si sbagliano di grosso. Disney per il disegno animato ha un talento insuperabile. È un discendente di Leonardo da Vinci catapultato nel XX secolo. E il 16 ottobre 1923 Walt Disney e suo fratello Roy con il nome di Disney Brothers Studios.

Uno scrittore francese oggi quasi dimenticato, Joseph Kessel, nel 1937 così definisce Hollywood: «I cattolici hanno il Vaticano. I musulmani La Mecca. I comunisti, Mosca. Le donne, Parigi. Ma per gli uomini e le donne di tutte le nazioni, di tutte le credenze, di tutte le latitudini, una città è nata dopo un quarto di secolo, più affascinante e più universale che tutti i santuari. Si chiama Hollywood. Hollywood! Qui si fabbricano, destinati per la terra intera, sogni e sorrisi, passione, brivido e lacrime. Si costruiscono volti e sentimenti che servono da misura, ideale o droga per milioni di esseri umani. E nuovi eroi si formano ogni anno per l'illusione delle folle e dei popoli». Walt Disney doveva aver scolpite nella mente queste parole. E le traduce in cartoni animati per il grande schermo. Disegna senza sosta. Dal suo cappello magico saltano fuori conigli meravigliosi. Uno su tutti, diviso tra la carta stampata e la pellicola: Topolino. Il punto di svolta dell'arte cinematografica di Disney arriva con Biancaneve e i sette nani (1937). Un lungometraggio moderno che incanta i bambini come i grandi. Lo adorano il regista comunista Sergej M. Ejzentejn e lo scrittore fascista Robert Brasillach. Il film rappresenta uno spartiacque. Il cartone animato dopo Biancaneve ha un solo indiscusso punto di riferimento: Walt Disney. Il suo genio sforna nei tre decenni successivi opere sbalorditive: Pinocchio ('40), Fantasia ('40), Dumbo ('41), Alice nel paese delle meraviglie ('51), Le avventure di Peter Pan ('53), La spada nella roccia ('63). Il successo planetario è inarrestabile. Disney fonda un proprio studio, mescola il cartone animato con la finzione (Mary Poppins del '64 è il modello insuperabile), riceve premi, guadagna dollari a palate. Non è più un cartonista-regista-artista: è l'America. L'immagine dell'America nel mondo americanizzato. Muore nel 1966, quando ad Hollywood la fiducia nel futuro sembra essere svanita. I «vecchi titani» che spesso hanno guardato Disney dall'alto in basso, stanno cedendo le loro case di produzione. Il futuro però è della Disney. La televisione, la nuova finanza e il consumismo stanno integrandosi nella produzione cinematografica. La Disney ha tutto. Nei quasi sessant'anni che seguono la scomparsa del fondatore, il cartone animato si trasforma in Disneyworld.

Walt Disney in vita ha avuto parecchi detrattori. Molti non gli hanno perdonato le sue simpatie per le dittature fasciste degli anni Trenta. Ma polemiche, controversie e incidenti di percorso non mutano la sostanza della realtà. Il «papà di Topolino» deve essere annoverato fra i massimi cantori della cultura occidentale, ovviamente in «salsa WASP» (bianca, anglosassone e protestante). Il «canone occidentale» ha trovato in Disney l'intelligente illustratore attraverso il cartone animato. Nella dimora dove Disney è sepolto da qualche anno si avvertono forti sommovimenti tellurici. È Walt che si gira e rigira, a causa della tendenza «politicamente corretta» adottata dal suo impero. Oggi l'universo disneyano si sta scrivendo o riscrivendo seguendo i dettami della «cancellazione culturale». Una caratteristica propria del turbocapitalismo attuale consente all'ideologia di reggere le redini dell'economia, orientandone le finalità. L'ideologia «gender» è il nuovo, ferreo codice di produzione multimediale. Walt Disney è stato un umanista. Basta ascoltare il dialogo tra il mago Merlino e lo scudiero-sguattero Semola (diventerà Re Artù) in La spada nella roccia. «La cosa migliore da fare quando si è tristi», replicò Merlino, cominciando a soffiare e sbuffare, «è imparare qualcosa. È l'unica cosa che non fallisce mai. Puoi essere invecchiato, con il tuo corpo tremolante e indebolito, puoi passare notti insonni ad ascoltare la malattia che prende le tue vene, puoi perdere il tuo solo amore, puoi vedere il mondo attorno a te devastato da lunatici maligni, o sapere che il tuo onore è calpestato nelle fogne delle menti più vili. C'è solo una cosa che tu possa fare per questo: imparare. Impara perché il mondo si muove, e cosa lo muove ». Un piccolo condensato di sapienza greca, romana, giudaico-cristiana (quindi biblica), scespiriana e, in ultimo, appunto a chiudere il «canone», disneyana. La storia, un po' come le montagne russe, è un alternarsi di salite e discese. L'orribile moda «politicamente corretta», essendo una moda, finirà anch'essa per tramontare. Così il sorridente Walt Disney potrà smettere di agitarsi, tornando a dormire serenamente. Come merita.

Il Bestiario, il Buonigno. Il Buonigno è un animale leggendario il cui pensiero dominante e buonista distrugge la creatività. Giovanni Zola il 29 Giugno 2023 su Il Giornale.

Il Buonigno è un animale leggendario il cui pensiero dominante e buonista distrugge la creatività.

Il Buonigno è un essere mitologico, appartenente alla minoranza della popolazione, che per difendere i diritti umani, l'inclusione sociale e l’azzeramento delle differenze, ha imposto un nuovo pensiero e un nuovo linguaggio vietando la libertà di pensiero e di linguaggio. L’avvento del pensiero del Buonigno, potentissimo negli Stati Uniti, ma ormai abbondantemente assorbito anche da noi, ha colpito la creatività della cultura, del cinema, del teatro e della letteratura dall’interno, come una mutazione genetica apparentemente irreversibile. Il risultato dell’operato del Buonigno è sostanzialmente uno: non si può dire nulla che sia diverso dal pensiero buonista.

Tolte le produzioni di regime e di propaganda, l’arte, a partire dalle commedie e tragedie greche, è sempre stata anti sistema. La stessa sinistra ha costruito la sua forza culturale in quanto anti governativa. Oggi non è più possibile, perché qualsiasi accenno contro il pensiero del Buonigno viene considerato inaccettabile e negli Stati Uniti è addirittura reato. Chiunque, sano di mente, non può non ammettere che tale situazione sia paragonabile alle peggiori dittature di destra e di sinistra. E la chiamano democrazia. Se proponete un progetto televisivo a una casa di produzione che si occupa di programmi per ragazzi e bambini, la raccomandazione è che tra i protagonisti ci siano personaggi di colore, bullizzati e, condizione sine qua non, LGBTQ. Esperienza personale.

La noia regna sovrana. Nessuno guarda più la televisione, i cinema sono vuoti, a teatro non c’è mai andato nessuno. Netflix e Amazon propongono sempre la stessa storia: maschi cattivi, donne che si vendicano, gay buoni, scene di sesso omosessuali gratuite. Negli Stati Uniti la “clausola di inclusione” obbliga le produzioni a non fare discriminazioni di genere o di razza sul set, prevedendo una percentuale di “diversità” obbligatoria. La morte della creatività. Provate oggi a proporre una sceneggiatura dal titolo “I Magnifici Sette” o “Capitani Coraggiosi”.

La battaglia ideale sarebbe quella di boicottare le produzioni del pensiero del Buonigno, ma ce ne è una più faticosa a cui non siamo più abituati ed è quella del giudizio e c’è un motivo importante per farlo: i nostri figli. Bombardati da ogni lato dal pensiero del Buonigno, non possiamo impedire loro di vivere nel mondo, ma dobbiamo aiutarli, a costo dello scontro, a giudicare il pensiero perverso, violento e autoritario del Buonigno.

Così il politicamente corretto è riuscito a rendere stupida anche l'intelligenza artificiale. ChatGpt? Più stupido rispetto al passato. Lo dimostra un nuovo studio che fa luce sul degrado cognitivo del chatbot realizzato da OpenAI. La causa potrebbe essere il politicamente corretto. Roberto Vivaldelli il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La scoperta dei ricercatori

 Colpa del politicamente corretto?

E se avesse ragione Elon Musk quando, lo scorso aprile, nell'annunciare di essere al lavoro per lanciare la sua alternativa a ChatGpt, spiegò che il popolare chatbot sviluppato da OpenAI era stato programmato per essere "politicamente corretto"? Musk, infatti, è stato uno dei primi investitori in OpenAI, ma da quando ha lasciato l'azienda ha ripetutamente lanciato l'allarme sui pericoli dell'intelligenza artificiale (AI) e successivamente è stato uno dei principali firmatari di una lettera che chiedeva l'arresto immediato dello sviluppo di "giganteschi esperimenti di intelligenza artificiale".

In effetti, Musk non aveva tutti i torti. Anzi. Innanzitutto l'allarme che circola in queste ultime settimane è che le prestazioni di ChatGpt siano peggiorate rispetto alle prime settimane. E una delle ipotesi che circolano con più insistenza è che l'ossessione per il politicamente corretto abbia contribuito a rendere ChatGpt meno performante di quello che si credeva.

La scoperta dei ricercatori

Il dibattito nasce da uno studio redatto da due ricercatori - Lingjiao Chen e James Zou - dell'Università di Stanford e da Matei Zaharia dell'UC Berkeley, i quali hanno testato Gpt-3.5 e Gpt-4 per la risoluzione di problemi matematici e per testare le risposte del chatbot a domande delicate, facendone un raffronto. Risultato? Le prestazioni dell'intelligenza artificiale sono variate nel tempo, ma non in senso positivo. C'è stata una vera e propria involuzione. Questo perché la versione di marzo di ChatGpt forniva delle risposte ai quesiti posti con un'accuratezza del 97,6%.

Nella versione di giugno, invece, la precisione di tali risposte è crollata al 2,4%. I ricercatori sono arrivati alla stessa conclusione, ossia che l'ultima versione della chatbot commette "più errori a giugno che a marzo". Jim Fan, scienziato senior di Nvidia, ha affermato che nel tentativo di rendere Gpt-4 "più sicuro", ChatGpt avrebbe rischiato di andare incontro a un "degrado delle capacità cognitive". Le voci su un peggioramento delle performance della chatbot hanno così costretto il vicepresidente di OpenAI, Peter Welinder, a intervenire, spiegando che il cambiamento era in realtà intenzionale. "No, non abbiamo reso Gpt-4 più stupido", ha twittato Welinder la scorsa settimana. "Al contrario: rendiamo ogni nuova versione più intelligente della precedente".

Colpa del politicamente corretto?

Tale peggioramento potrebbe essere spiegato dal fatto che gli sviluppatori abbiano aggiunto filtri di prudenza e di “politicamente corretto” molto più stringenti, al punto tale da aver "lobotomizzato l’algoritmo", rendendolo meno pronto a lanciarsi nelle sue risposte. Del resto, già analizzando le precedenti versioni, come notava nei mesi scorsi il ricercatore David Rozado, effettuando dei test per determinare l'orientamento politico dei dialoghi di ChatGpt, il risultato era chiaro: il chatbot mostrava "una sostanziale inclinazione politica di sinistra e libertaria", in linea con l'ideologia della correttezza politica. Il chatbot si dimostra infatti a favore dell'aborto, contro la pena di morte, favorevole all'immigrazione, delle istanze Lgbt, e così via.

Ad esempio, se si "dibatte" con ChatGpt sull'ideologia gender, e sulla preponderanza della realtà biologica rispetto al genere, come peraltro sostenuto da numerose femministe e attiviste, quest'ultimo risponderà che "riconoscere la distinzione tra sesso biologico e genere è fondamentale per promuovere l'inclusione, la comprensione e il rispetto delle persone transgender e non conformi al genere". Affermazioni perfettamente in linea con la nuova religione del politicamente corretto. Che con molte probabilità è riuscita a rendere più stupida anche l'intelligenza artificiale.

Estratto dell’articolo di Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 17 luglio 2023.

Lo sciopero degli attori di Hollywood, come si dice, ha «sbloccato un ricordo». A guidare il sindacato Sag-Aftra (sindacato statunitense degli attori cinematografici e televisivi e degli artisti radiofonici), c’è l’attrice Fran Drescher, nota in Italia per il ruolo di Francesca Cacace nella sitcom «La Tata». 

Non erano ancora i tempi de «La fantastica signora Maisel» ma «La Tata», una sit-com proposta da Italia 1 nel 1995 (da lunedì al venerdì, alle 19.30), avrebbe anche potuto sollevare una guerra di religione.

La protagonista, che nella versione originale si chiama Fran Fine (l’attrice è appunto Fran Drescher) ed è di religione ebraica, nella versione italiana diventa invece Francesca Cacace e abbraccia in un baleno la fede cattolica. Alla Cacace vengono poi assegnati curiosi natali a Frosinone (lei che è di New York) ma soprattutto le viene sottratta la madre, Sylvia, una tipica yiddishe mame, e in cambio le viene assegnata una zia inesistente, zia Assunta (assunta in cielo, come la Madonna).

Anche il padre di Fran, sempre ripreso di spalle con vistoso parrucchino posticcio, diventa un fantomatico zio Antonio. E infine, tanto per gradire, la nonna originale, che si chiama Yetta, diventa la cognata di Assunta, e dunque zia Yetta. Lo stesso era accaduto qualche anno prima, nel 1992, con «Pappa e ciccia», in cui Roseanne Barr diventa Anna Rosa, non ebrea ma napoletana. 

Naturalmente questi casi di riscrittura, oggi diremmo «politicamente scorretti» e molto disinvolti, non hanno nulla a che vedere con le ragioni dello sciopero [...] Resta comunque questo curioso paradosso: oggi un’operazione di riscrittura come quella de «La Tata» sarebbe impensabile (cancel culture?) eppure senza quella decontestualizzazione la sit-com non avrebbe avuto il successo che ha avuto da noi (ogni tanto va ancora in onda).

Obama contro la censura dei libri. Ma l'ex presidente rovescia la realtà. Storia di Roberto Vivaldelli su Il Giornale il 18 luglio 2023. 

L'ultimo intervento dell'ex presidente Barack Obama sui social entra a gamba tesa nel dibattito sulle culture war. Abbandonata la classe operaia, la sinistra liberal si è infatti concentrata sui diritti delle minoranze, polarizzando sempre più l'opinione pubblica, ora divisa in "tribù" in competizione tra loro, e sposando quella che Robert Hughes ha magistralmente descritto come la "cultura del piagnisteo". Questo ha contribuito a generare delle vere e proprie "guerre culturali" tra conservatori e progressisti, con radicalismi ed estremismi da ambo le parti, che hanno portato alla censura di libri nelle scuole o in altri luoghi.

Sui social, Obama afferma che oggi, "alcuni dei libri che hanno plasmato la mia vita - e quelle di così tante altre persone - sono contestati da persone che disapprovano certe idee o prospettive". Non è una coincidenza, spiega, che "tali "libri vietati" siano spesso scritti da, o abbiano come protagonisti, persone di colore, popolazioni indigene e membri della comunità Lgbtq+ - però ci sono stati anche casi spiacevoli in cui libri di autori conservatori o libri contenenti parole oscene che scaldano gli animi sono diventati bersaglio della censura". In entrambi i casi, afferma, "l'impulso pare essere quello di imbavagliare piuttosto che coinvolgere, controbattere, imparare da o cercare di capire opinioni che non coincidono con le nostre".

Cosa dimentica Obama

L'ex presidente è costretto ad ammettere che ci sono stati dei casi in cui libri di autori conservatori sono diventati bersaglio di censura. Ha ragione, in questo senso: la guerra culturale negli Stati Uniti ha provocato estremismi a destra come a sinistra, e questo rappresenta un problema per la tenuta della democrazia statunitense. Non poteva che essere così: è un dibattito figlio della "politica dell'identità". Ma Obama rovescia il principio di causa-effetto: l'estremismo di alcuni gruppi ultra-conservatori rappresenta infatti una reazione - sbagliata - all'ossessione della sinistra per le minoranze degli ultimi anni, e non il contrario, e soprattutto tale fenomeno non può essere minimanente paragonato per rilevanza e portata all'ideologia "woke" e alla cancel culture. Che non riguarda gruppi ristretti di fanatici, ma il "mainstream", le grandi case editrici e le multinazioni dell'intrattenimento.

Basti pensare al dibattito odierno su Biancaneve, un classico stravolto dal fanatismo "woke". Il live action vedrà infatti l’attrice di origini colombiane Rachel Zegler come protagonista e Gal Gadot nei panni della matrigna strega, ma la novità, nel nome del politically correct, riguarda invece i nani, che non sono in realtà nani ma “creature magiche”. Oltre al fatto che sono stati inseriti generi diversi e ben sette etnie differenti. Questo rappresenta solo l'ultimo episodio di una serie infinita di film e personaggi stravolti dalla follia del politicamente corretto.

Il problema della sinistra americana

Come ha rilevato, in tempi non sospetti - era il il 2018 - il politologo Francis Fukuyama nel saggio Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi (Utet), il problema con la sinistra odierna sta nelle particolari "forme di identità che questa ha deciso sempre di più di esaltare". Anziché costruire solidarietà attorno a vaste collettività come la classe operaia o gli economicamente sfruttati, si è concentrata su gruppi sempre più ristretti che si trovano emarginati secondo specifiche modalità. Questo, spiega Fukuyama, "fa parte di una più ampia vicenda riguardante la sorte del liberalismo moderno, in cui il principio di riconoscimento universale e paritario si è mutato nello specifico riconoscimento di gruppi particolari".

Obama dovrebbe quindi in primo luogo rivolgersi alla sinistra liberal e fare un po' di autocritica, perché la deriva ideologica degli ultra-progressisti, nell'ultimo decennio, ha portato a ciò che descrive Obama nel suo post. Cosa ne pensa, inoltre, l'ex presidente del fatto che Shakespeare o altri classici della letteratura siano stati censurati in ossequio all'ideologia woke e accusati di razzismo, misoginia o altre amenità? No caro, ex presidente: l'idiozia di qualche gruppo conservatore e di qualche fanatico, non cambia il quadro generale. I primi censori, stanno a sinistra. E ora gridare al lupo è un po' fuori tempo massimo.

DAGONEWS 15 Luglio 2023

Aridatece i vecchi cartoni scorretti pieni di luoghi comuni e sessismo! Il tabloid britannico Daily Mail pubblica le prime immagini dal set del film live action Disney su Biancaneve, fatto apposta per essere il più inclusivo possibile. La protagonista sarà “latina”, Rachel Zegler (già vista in West Side Story), e sarà circondata da un mix bilanciatissimo di generi, etnie, colori e persino altezze. Niente, principe, niente sette nani. 

Nelle prime foto e video si vede l’allegra brigata che passeggia in un campo, nel Berkshire, in Inghilterra. Vestiti di rosso, blu e verde, il gruppo sembra essere di buon umore. In testa alla fila c'è l'attore maschile Andrew Burnap, che interpreterà quello un personaggio noto come "Jonathan", che sostituisce il principe (simbolo del patriarcato, eliminato). A parte un attore nano, il resto del gruppo è composto da attori adulti a grandezza naturale: i nani della fiaba sono stati cancellati: saranno “creature magiche” che abitano la foresta e saranno completamente generati al computer

Estratto da tgcome24.mediaset.it il 13 luglio 2023.

Un provvedimento destinato a fare discutere quello adottato dalla Federginnastica svizzera: d'ora in poi i fotografi non potranno più immortalare le atlete con le gambe divaricate. Motivo: impedire che le immagini di bambine, ragazze o donne che fanno ginnastica vengano sessualizzate. […] Chi non si atterrà alle nuove regole rischierà il ritiro dell'accredito e l'estromissione dalle competizioni. 

La Federginnastica svizzera ha reso noto che il divieto è stato adottato per proteggere le atlete dalla diffusione di immagini "eticamente sensibili". Sono fatti salvi gli scatti automatici e di azione che fanno parte dello sport.

In ogni caso, fanno sapere dalla Federazione, le regole dovrebbero essere quelle di attenersi al buonsenso e al rispetto del corpo della persona. Per questo motivo, i fotografi sono stati invitati a riprendere i soggetti da angolazioni consone, in modo da evitare scatti suscettibili di censura. […]

Estratto dell’articolo di Gianluca Nicoletti per “la Stampa” giovedì 20 luglio 2023.

Davvero non mi spiego il piagnucolare diffuso delle vedove del Principe Azzurro di Biancaneve. Ancora meno riesco a capacitarmi per l'horror vacui che ha provocato la scomparsa dalla vita di quella fanciulla di sette coattoni, buzzurri, violenti, misogini e soprattutto avidi trafficanti di diamanti. 

Davvero esistono ancora donne capaci di rimpiangere quel giovane farlocco figlio di papà, che si sente un fico andando in giro con una mantellina ridicola che appena gli copre il sedere, con uno spadino di misura imbarazzante […] Iniziamo a vederci chiaro sulle figure ambigue dei Sette Nani, […] cosca di malavitosi.

[…] mi rivolgo alle prefiche che lamentano la falcidia di questi bei tipini in nome del politicamente corretto: non hanno realizzato che i sette energumeni sequestrano una ragazza minorenne con ambizioni da principessa per farne la loro serva? 

È fuori di dubbio che il periodo che Biancaneve passa a casa dei nani sia assimilabile a un regime di schiavitù: la obbligano alle mansioni più umili senza ombra di compenso […] senza nemmeno applicarle il contratto nazionale per le colf e badanti che prevede equo salario, riposo settimanale, ferie e Tfr? 

Lo sfruttamento da parte dei nani papponi della sventurata Biancaneve non si ferma neppure con la sua morte. Continuano ad abusare di lei persino quando la ragazza fatalmente collassa […] Invece di dare sepoltura al cadavere della giovinetta, lo mettono in vetrina, cercando probabilmente di lucrare ancora una volta sulle perversioni di un giro di necrofili che si aggirava per quella foresta in cerca di emozioni proibite. Altro che la giustificazione «era così bella anche da morta che ai nani mancò il cuore di seppellirla». Il loro fu un premeditato espediente per tirarne fuori soldi, anche se avevano sotterranei pieni di diamanti, erano avidi oltre ogni misura.

A questo punto, solamente la casualità porta al lieto fine. Entra in scena, improvvisamente, quell'imbambolato del Principe Azzurro […] Quando la vede immobilizzata nel rigor mortis, improvvisamente si sente libero dalla sua ansia di prestazione e, seppur con una certa riluttanza, la bacia. Lei si sveglia, lui la fa salire sul suo cavallo e guidandolo per la cavezza si incammina verso il tramonto. Nemmeno osa montare in sella assieme a lei, sembra quasi che il contatto fisico gli ripugni.

Il castello fatto di nuvole che si intravede nell'ultimo frame non può che lasciarci con il fondato sospetto di un millantato principato. Biancaneve è sicuramente caduta dalla padella alla brace. C'è voluto veramente un bel coraggio a credere per tutti questi anni che, da quel momento in poi, ci sarebbe stato per lei un futuro felice. Ci siamo dovuti però fidare del consolatorio "vissero felici e contenti" del cartello finale. Ora si che vedremo come saprà giocarsi la vita Biancaneve, finalmente senza essere appesantita da quel penoso fardello di inutili maschi.

BIANCANEVE E LA NUOVA VERSIONE POLITICALLY CORRECT. Si & No

Se non ti piace non la guardi. La nuova Biancaneve è semplicemente un remake più moderno, consono e inclusivo. Alessio De Giorgi su Il Riformista il 18 Luglio 2023. 

Nel Si&No del Riformista spazio al ritorno di Biancaneve e la nuova versione politically correct. Ne discutiamo ‘internamente’ con Alessio De Giorgi, favorevole perché “è semplicemente un remake più moderno, consono e inclusivo“, e Benedetta Frucci, contraria perché “le fiabe sono fatte per sognare non per rieducare all’ideologia woke”.

Qui il commento di Alessio De Giorgi:

Non voglio fare il difensore del nuovo remake di Biancaneve della Disney: a prescindere dal fatto che non conosciamo con esattezza le scelte dello sceneggiatore, penso che un’opera di qualunque tipo abbia tutto il diritto di essere giudicata artisticamente, senza necessariamente applicare le categorie di valutazione etica o politica. È politicamente corretta e quindi insopportabile? È politicamente scorretta e quindi inaccettabile? Bene, se non ti piace non la guardi. Questo vale per qualunque produzione artistica che sia una vignetta irriverente (finanche blasfema), una cover di una canzone o un adattamento di un’opera teatrale. In questi giorni ad esempio c’è in scena una – a mio parere sbagliata – versione sessantottina della Bohéme di Puccini. Che male fa? Vogliamo proibirla? È spettacolo, è arte, che ci piaccia o meno. E come tale va valutata.

Detto questo, non ci trovo nulla di male se nel suo remake un film degli anni ‘30 venga attualizzato e reso più moderno, più consono allo stile dei tempi e quindi anche più inclusivo. Biancaneve è una bellissima donna latinoamericana e non ariana? È il mondo, bellezza: guardati intorno. Bene, quindi, se questo significherà che bambine dalla pelle non lattea possano riconoscersi di più in quel personaggio.

I nani sono creature magiche e non più persone affette da una condizione clinica che conduce ancora oggi molti a soffrire per discriminazioni ed esclusioni sociali? Non passano tutto il tempo a fare i cicisbei di Biancaneve, certi che non avranno di meglio da fare nella loro vita, non essendo in grado di crearsene una propria ed essendo costretti a vivere in una sorta di «comune» che li protegge dal mondo? Meglio così, i tempi sono cambiati e forse possiamo voltare pagina rispetto alle aberrazioni del passato.

Biancaneve si salva da sola e non ha bisogno di un bello quanto stupido Principe? Beh, era veramente l’ora: le donne non hanno certamente bisogno di un uomo per emanciparsi. I tempi, cari conservatori, se non ve ne siete accorti, sono decisamente cambiati dagli anni ’30.

Pur non annoverandomi tra i fans del politicamente corretto ed anzi criticandone spesso le esagerazioni, non ci vedo nulla di grave quindi se queste scelte saranno confermate. Non parliamo del resto di un libro il cui testo originale viene modificato: è lo specchio di quei tempi e va mantenuto integro, nel bene o nel male. Né parliamo di una statua di un pensatore o di un conquistatore, che non va certamente abbattuta per il giudizio storico che si dà della persona che raffigura: è la storia della nostra cultura e la storia eccome se è fatta di errori. Né infine parliamo di una censura, che semmai ci sarebbe se venisse impedito alla Disney (o, al contrario, ad una casa di produzione cinematografica vicina al mondo conservatore) di produrre Biancaneve 2024.

Parliamo di un remake. E la storia del cinema è strapiena di remake che hanno cambiato, modernizzato, in alcuni casi stravolto la storia originale. Come del resto Biancaneve del film d’animazione del 1937 era già molto diversa dalla favola dei fratelli Grimm, dalla quale erano stati espunti molti dettagli cruenti.

Se poi queste novità possono essere utili a creare generazioni più inclusive e rispettose del prossimo, a far sentire un po’ più accolti bambini dalla pelle non chiara o dalla bassissima statura meglio così. Le esagerazioni e le aberrazioni della cancel culture (conservatrice o progressista che sia, poco cambia) sono ben altre: sono, per l’appunto, le statue abbattute ed i testi dei libri cambiati. Ma sono anche le censure a insegnare, a esporre, a esibirsi, a scrivere, a dire o i libri vietati nelle biblioteche pubbliche, in nome di una qualche, parzialissima verità.

Rimane solo da chiedersi se la mela resterà tale. O se lei continuerà ad essere così ingenua, dopo quasi cent’anni, e mangiarla. Scopriremo allora se lo scorrere del tempo sarà stato utile non solo per far evolvere noi e la nostra cultura, ma anche per Biancaneve.

Alessio De Giorgi. Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva

Così si cancella il sogno delle bambine. No al ritorno di Biancaneve, le fiabe sono fatte per sognare non per rieducare all’ideologia woke. Benedetta Frucci su Il Riformista il 18 Luglio 2023 

Nel Si&No del Riformista spazio al ritorno di Biancaneve e la nuova versione politically correct. Ne discutiamo ‘internamente’ con Alessio De Giorgi, favorevole perché “è semplicemente un remake più moderno, consono e inclusivo“, e Benedetta Frucci, contraria perché “le fiabe sono fatte per sognare non per rieducare all’ideologia woke”.

Qui il commento di Benedetta Frucci

Se si accantona per un attimo il messaggio illiberale e le conseguenze devastanti sulla libertà di espressione della religione woke, l’ultraprogressismo del politicamente corretto ha tratti di ridicolo che spesso fanno commettere l’errore di non prendere sul serio questo nuovo stalinismo. Effettivamente, quando ho letto di una Biancaneve di origine latina, mi è venuto da sorridere. Sarebbe come se Jasmine diventasse bianca o Mulan avesse gli occhi azzurri.

Bianca come la neve. È alla sua pelle infatti che la Principessa Disney deve il suo nome. E lo è in tutte le versioni dei fratelli Grimm, tanto da rendere nulla l’obiezione di chi sostiene che in fondo, nel cambiare le fiabe non ci sia nulla di male, perché in una versione della storia la madre voleva commettere cannibalismo sulla povera Biancaneve e questo punto, dalla Disney, è stato omesso. E neppure vale la necessità per le bambine di altre etnie di rivedersi nelle protagoniste delle fiabe: perché mentre una Barbie disabile è un meraviglioso messaggio di inclusione e una Sirenetta dalla pelle scura pure, rendere Biancaneve latina è davvero insensato. Quello che invece fa balzare dalla sedia, è l’assurdità del portare l’ideologia nel mondo delle fiabe. Perché non ci si limita a cambiare colore alla pelle di Biancaneve, scelta ridicola ma innocua.

Si fa addirittura fuori il Principe Azzurro perché sarebbe il simbolo del patriarcato. Così, si cancella il sogno delle bambine, si cancella la ragione stessa delle fiabe. Demonizzando fra l’altro la figura maschile. Che poi, se c’è libertà di scelta, qualcuno mi può spiegare perché mai una ragazza non dovrebbe essere libera di desiderare di essere salvata? E perché l’emancipazione femminile dovrebbe coincidere con la cancellazione del maschio?

Sui 7 nani inclusivi niente da dire di per sé: il punto non sono le singole scelte, bensì ciò che ci sta dietro.

Il motivo dichiarato tranquillamente di questa riscrittura delle fiabe e dei libri (Biancaneve è solo l’ultimo caso) è quello di “rieducare” il pubblico alla nuova ideologia woke. Non la chiamano così, ti spiegano che i bambini vanno educati all’ inclusività. La neolingua ha questa caratteristica: trasforma tutto in espressioni bellissime, tali da mascherare la realtà e da far sì che se provi a criticarle, la tua etichetta di razzista o vile conservatore sia definitivamente affibbiata. Con tutte le conseguenze del caso, dalla censura, passando dalla gogna mediatica, fino ad arrivare alla violenza.

Non è un caso se tantissimi intellettuali di sinistra e femministe si siano ribellati a questa deriva.

E anzi, la woke culture è un parassita che affligge la sinistra e fornisce consenso alla destra: Tony Blair per questo ha esortato i laburisti a “rigettare la woke culture” e “posizionarsi chiaramente vicino al centro di gravità del popolo britannico, che vuole un trattamento equo per tutti e il rigetto del pregiudizio, ma diffida e non ama la mentalità woke della cancel culture”. Perché il riformista lavora all’inclusione con il pragmatismo dei fatti, di una scuola efficiente e accessibile a tutti, dei posti di lavoro e della crescita che toglie dai margini, dell’ascensore sociale che porti tutti a stare meglio, non della colpevolizzazione del privilegio, che è materia per la religione e non per la politica. Su un punto poi serve chiarezza.

Non esiste un movimento woke “moderato”. Esiste il rispetto del diverso, esiste l’integrazione, non esiste l’indottrinamento in un modello di Stato liberale.

Ricordo due modelli di società in cui si utilizzavano canzoni, fiabe, sport per instillare convinzioni ideologiche fin dall’infanzia: il fascismo e l’Unione Sovietica.

Politicizzare l’infanzia è il primo obiettivo di uno Stato Etico: uno Stato cioè che non si basa sul diritto, ma che ritiene di avere il compito di educare i sudditi (non più cittadini) incapaci di una loro autonomia di pensiero.

Benedetta Frucci

I film brutti sono da buttare. Non quelli ritenuti immorali. Il fondatore interviene in difesa di "Rocco e i suoi fratelli". In un libro i suoi articoli contro la censura. Indro Montanelli l'11 luglio 2023 su Il Giornale. 

Gliela direi senza reticenze, se avessi visto il film. Ma non l'ho visto (e mi dispiace) perché in questo periodo sono impegnatissimo in certi lavori miei che non mi lasciano il tempo di respirare. Vorrei osservare però alcune cose. La prima è che non approvo il piano sul quale si sono posti i giudizi negativi, e cioè il piano morale. È una grossa sciocchezza. I film da condannare sono quelli che offendono il gusto, non la morale.

Sono più oscene certe pellicolacce dove non si va al di là del bacio, ma dove esso sa d'aglio e di denti mal lavati che non, poniamo, l'Edipo Re che s'impernia su un incesto. Dove c'è l'arte, non c'è pericolo di cadere nell'immorale. Se l'arte nella pellicola di Visconti ci sia, non lo so perché, le ripeto, non l'ho vista. Ma questo, e soltanto questo, era l'interrogativo da porsi. La seconda cosa che osservo è l'inaccettabilità di una censura plurima. Che diavolo ci sta a fare quella che fa capo al ministero dello Spettacolo, se può essere contraddetta da quelle periferiche autorizzate a vietare in loco la proiezione del film già approvato o imporne dei tagli? Lo so, la legge lo consente. Ma è una legge assurda che spalanca le porte a ogni capriccio e a ogni sopruso. Un film approvato dal ministero non può esserlo solo per Roma o per Lamporecchio. Non ci possono essere pesi e misure diverse a Catania e a Milano. Quindi ci si decida: o si abolisce la censura ministeriale, riconoscendo la competenza della magistratura provincia per provincia, e sarebbe il caos; o si aboliscono queste censure locali che non hanno nessun titolo a contraddire i verdetti di quella centrale, per quanto fallace essa sia.

Quanto a Visconti, non so se Rocco e i suoi fratelli potrà farmi ricredere su di lui. Ma il mio giudizio, fin qui, rimane equidistante da quello dei suoi esaltatori e da quello dei suoi detrattori. Credo che se in Italia ci fosse una tradizione di balletti, egli ne diventerebbe il Djaghilev. Come regista cinematografico, trovo in generale che gli manca il senso del personaggio e della misura, come dimostra la sua ossessiva insistenza sul particolare a effetto. Non so se in questo suo ultimo lavoro egli abbia trovato un maggiore equilibrio; ma, da quel che ne sento dire, pare di no. La violenza carnale, lo stupro, la coltellata continuano a essere motivi sui quali la sua macchina da ripresa s'incanta fino a generare nello spettatore un senso di noia e di disgusto. Io non obbietto a Visconti ciò che molti gli rinfacciano, e cioè di andare sempre a pescare l'orribile e il mostruoso: egli ha pieno diritto di farlo. Osservo soltanto che sono gl'ingredienti di cui si servivano anche Carolina Invernizio, Eugenio Sue e tutti quei cattivi scrittori a cui abbiamo sempre rimproverato di aver bisogno, per fare sensazione, del sensazionale. Mi dicono che in Rocco c'è un fratello che stupra la fidanzata del fratello sotto gli occhi di costui buttandogliene in faccia le mutandine, e aggiungono che questa scena è «di grande effetto».

Corpo d'un diavolo, vorrei vedere che non lo fosse! È facile, con questa roba, dare i brividi allo spettatore. Difficile è darglieli con gli episodi della vita di tutti i giorni, ed è qui che, secondo me, si vede l'artista. Le vere grandi pellicole, come i veri grandi romanzi e le vere grandi commedie sono quelle in cui non succede nulla di eccezionale, ma questo nulla è raccontato in modo da avvincere lo spettatore o il lettore e da sollevarlo su un piano di poesia. Gli episodi dell'Oro di Napoli di Marotta, tanto per restare nel campo dei «terroni» su cui si è posto Visconti, erano semplicissimi, tratti dalla osservazione della vita quotidiana. Eppure, come ti prendevano alla gola! Senza sangue, senza sbudellamenti, senza deflorazioni.

Ma forse Rocco vale per tutt'altre cose che non per gli «effetti» di cui Visconti si è servito solo come di un condimento. O per lo meno me lo auguro. Per lui.

Estratto dell’articolo di Andrea Camprincoli per "Libero quotidiano" domenica 9 luglio 2023.

Bambini, il segreto che nessuno vi vuole svelare, che vi hanno censurato al cinema, è che l’amore deve essere possibile. Altrimenti diventerete “spuma di mare”. È questo il grande insegnamento della favola La sirenetta di Hans Christian Andersen. 

L’immortale scrittore di fiabe danese (1805 – 1875) che, insieme ai Fratelli Grimm, ha formato generazioni di bambini e che ancora oggi parla ai più giovani. Il suo pensiero è talmente universale da avere ispirato il colossal Frozen della Disney – forse il film di animazione che ha incassato di più per oltre 10 anni - tratto proprio dal racconto di Andersen La regina delle nevi, più o meno aderente all’originale.

La scure della censura ci costringe ad assistere a banali rimaneggiamenti con finale “e vissero tutti felici e contenti”, che azzerano il pensiero. La censura ha cancellato l’intento salvifico della fiaba di Andersen. 

In nome di un politically correct che vuole i bambini all’oscuro di tutto. Disarmati. Impreparati. Disciolti in una melassa di sentimentalismi falsi che distorcono la realtà. Invece, il messaggio di Andersen vuole mettere in guardia i bambini. Vuole difenderli. Vuole addirittura salvarli. Alle bambine dice: attenzione a quel mondo di maschi, alcuni sono pronti a mangiarvi. Dice che l’amore deve essere possibile, altrimenti non c’è salvezza.

Un monito di aiuto alla lotta contro i femminicidi: salvatevi da sole, senza aspettare il principe azzurro! Così come lo è la versione più antica della fiaba di Cappuccetto Rosso” di Charles Perrault, apparsa nel 1697 ne I racconti di Mamma l'Oca.  […] 

Cosa rimane se verrà ripulito il linguaggio del terribile personaggio della nonna cattiva dalla fiaba La magica medicina” di Roald Dahl, che maltratta il nipotino? «La mamma è stupida quanto te», «I bambini diventano stupidi», gli diceva quella “vecchiaccia gracchiante e ingrugnata della nonna”.

Era il contrario della nonna amorevole: lo tiranneggiava, lo spaventava, lo incitava a mangiare scarafaggi facendogli credere di essere una strega. Con la censura a Dahl rischiano di scomparire le descrizioni di quei simpatici ometti indigeni, gli “Umpa Lumpa”, dalla Fabbrica di cioccolato perché tacciati di incitazione al razzismo. 

Allora anche il titolo della fiaba Mignolina di Andersen, verrà scambiato per “body shaming” e diventerà «ragazza leggermente meno alta»? Succederà che i bambini perderanno i grandi insegnamenti. Ma c’è di più. Il messaggio “censurato” di Andersen è talmente spirituale, talmente profondo che i bambini lo avrebbero amato di più. […]

Ora se ne accorge anche Concita: il politicamente corretto ammazza la società (e pure la sinistra). L'ex direttrice dell'Unità bacchetta i compagni e punta il dito contro la dilagante cultura woke. Massimo Balsamo su Il Giornale il 7 luglio 2023.

È bastato un semplice viaggio in Francia a Concita De Gregorio per scoprire il vero volto del politicamente corretto. Sì, l'ex direttrice dell'Unità ha confessato in un editoriale scritto per La Stampa di aver individuato dove si annida il seme dell'autodistruzione della sinistra, citando tre episodi di vita quotidiana a dir poco emblematici. L'analisi della giornalista è tranchant, pressochè senza speranze: così i compagni perderanno per anni.

L'implacabile j'accuse di Concita parte da una scuola di danza parigina, nel prestigioso quartiere Marais, dove i genitori dei piccoli danzatori hanno fatto richiesta al dirigente scolastico che gli insegnanti non istruiscano bambini e adolescenti ai giusti movimenti toccandoli con le mani, ma con un bastone. Anche una semplice mano poggiata su un bambino o su una bambina per spiegare un passo potrebbe configurarsi come una molestia sessuale. La fiera dell'assurdo, in altri termini. Poi il volto di "In onda" ha citato un episodio registrato in un istituto superiore di belle arti: durante alcune lezioni di teatro, un insegnante ha chiesto a una studentessa di legarsi i capelli in una coda:"La sua magnifica sontuosa chioma afro espandendosi in orizzontale copriva completamente i volti dei compagni alla sua destra e sinistra". Una richiesta normale per chi è dotato di buon senso, ma non per chi è drogato di correttezza politica: ecco infatti le accuse di razzismo.

Il terzo e ultimo episodio citato dalla giornalista chiama in causa una famosa femminista transalpina, in prima linea per la libertà delle donne islamiche di non portare il velo. Una battaglia condivisibile e democratica. Ma non per i compagni: la sinistra ha infatti gridato all'islamofobia. Un caso talmente esacerbato da spingere le autorità ad assegnare una scorta alla femminista. "Non può uscire di casa se non accompagnata, le ha spiegato una consigliera municipale appunto di sinistra da cui la celebre femminista è andata a protestare. Rischierebbe di essere aggredita, le ha risposto la politica. Del resto deve aspettarselo, ha aggiunto severa, dato che lei è islamofoba", il racconto di Concita De Gregorio. Casi intrisi di lapalissiano eccesso ideologico, di perdita di giudizio, di insopportabile scellerataggine. La sinistra è ostaggio del politicamente corretto, anche la De Gregorio se n'è accorta e la sua profezia è caustica. Non potrebbe essere altrimenti: la gente è stufa di questa iper-sensibilità e non sembra più disposta a sopportare le scemenze fomentate dall'ideologia woke.

Estratto dell'articolo di Concita De Gregorio per “la Stampa” venerdì 7 luglio 2023.

Torno da qualche giorno in Francia con tre aneddoti che aiutano a mettere a fuoco perché la sinistra non vincerà o non tornerà a vincere per molti anni, in questo e in altri Paesi democratici. Il tema è il «politicamente corretto»: niente di nuovo, dunque. Sono anni che se ne parla e - confusamente prima, più chiaramente poi - si intrasente che lì si annida il seme dell'autodistruzione. Sempre della sinistra, dico. I fatti semplici della vita quotidiana aiutano a capire e animano le discussioni, quindi eccoli. 

Aneddoto numero uno. In una celebre e dalle famiglie ambitissima scuola di danza del Marais, quartiere roccaforte delle élite progressiste parigine, i genitori dei piccoli danzatori hanno fatto richiesta al dirigente scolastico che gli insegnanti non istruiscano bambini e adolescenti ai giusti movimenti toccandoli con le mani, ma con un bastone. La ragione, avrete forse intuito, è che toccare un bambino o una bambina per accompagnare, poniamo, un «pliage» può configurarsi come molestia sessuale. Il fatto che i genitori qui riuniti abbiano così votato non sarebbe ancora niente, in questa storia.

L'acme narrativo arriva quando il collegio dei docenti si riunisce: ballerini celeberrimi ora non più in così giovane età, ex etoiles, maestri e maestre di danza formatisi in decenni di terribili sacrifici, riconosciuti come i migliori nel Paese. Si riuniscono, quindi, e convengono immagino a malincuore – memori del loro passato di allievi - che i genitori sono sostenuti dal sentire comune, dalla nuova legge morale e da quella civile. Bisogna assecondarli. La scuola, oltretutto, è a pagamento e i genitori pagano. Naturalmente è un pochettino complicato educare un corpo ai movimenti senza toccarlo, specie se si tratta di piccoli allievi il cui pensiero astratto non è ancora così sofisticato: di solito accompagnare il concetto espresso a voce con l'esempio pratico aiuta. Non solo coi bambini, ma andiamo avanti.

Come fare? Finalmente, dopo lunghe e reiterate riunioni, s'avanza l'ipotesi del bastone. Certo la parola potrebbe evocare punizioni corporali: diciamo un giunco, suggerisce qualcuno. Perfetto, giunco sia. Quindi ora siamo a questo: entrare in trattativa con la comunità dei genitori nella speranza che il giunco sia di loro gradimento. Altrimenti niente, si andrà a parole. 

Mi sono ricordata di quella volta che, una decina di anni fa, un amico musicista che lavora in una importante orchestra giovanile americana aveva raccontato, assai afflitto, che il professore di violino (straordinario docente) era stato allontanato dall'orchestra, diciamo pure licenziato, per aver «reiteratamente e prolungatamente toccato il braccio e la parte posteriore del busto di un'allieva». Di tutte e tutti gli allievi, si suppone, nell'atto di impostare l'altezza del gomito rispetto alla posizione dell'archetto. Ma una aveva denunciato, e dunque via, maestro a casa. Certo, l'America: si disse fra noi.

Che esagerazione, che rigidità, che inversione di senso.

Che rigidi bacchettoni, si disse anche – c'era un po' quel pregiudizio, sugli americani di provincia. Qui invece siamo a Parigi, in Europa, dieci anni dopo. Siamo al giunco.

(...)

Una importante e celebre polemista femminista, senza il minimo dubbio di sinistra, sostiene la libertà delle donne islamiche di non portare il velo. Attenzione: non. Di portarlo, liberissime, e di non portarlo, altrettanto libere. La sinistra politica la accusa di islamofobia, in una torsione del ragionamento che non mi attardo a descrivere qui, un doppio carpiato che confonde mi pare la libertà di non portare il velo con l'invito a non farlo, ma appunto non entrerei nel dettaglio. La accusano di essere di destra, di essersi venduta. Vive in un quartiere multietnico in cui la sinistra ha incredibilmente vinto le elezioni, una enclave.

Per queste due ragioni le forze dell'ordine l'hanno messa sotto scorta. Non può uscire di casa se non accompagnata, le ha spiegato una consigliera municipale appunto di sinistra da cui la celebre femminista è andata a protestare. Rischierebbe di essere aggredita, le ha risposto la politica. Del resto deve aspettarselo, ha aggiunto severa, dato che lei è islamofoba. Dalla Caporetto di una sinistra possibile per oggi è tutto.

Estratto dell'articolo di Giuliano Guzzo per "la Verità" il 29 giugno 2023.

 Care Big Tech, in nome della «tolleranza arcobaleno» vi chiediamo più censure. Per quanto possa suonare cruda e paradossale, è questa la sostanza di un nuovo appello che 250 celebrità di Hollywood, della tv e della musica hanno rivolto gli amministratori delegati di Meta, YouTube, TikTok e Twitter. L’idea della lettera […] è stata in origine di Glaad, acronimo di Gay & lesbian alliance against defamation, e Human rights campaign. […]

In effetti, la missiva in questione pone l’accento soprattutto sull’odio on line, denunciando come vi si sarebbe stato «un enorme fallimento sistemico nel proibirlo», assieme alle «molestie» e alla «disinformazione anti Lgbtq sulle piattaforme», motivo per cui il tema «deve essere affrontato». […] 

l’appello - sottoscritto da volti noti di prima grandezza, da Amy Schumer ad Ariana Grande, da Demi Lovato a Jamie Lee Curtis, da Judd Apatow a Patrick Stewart - considera pericoloso e da censurare quello che chiama «odio anti trans». […]Non solo. Nella lettera in questione viene pure richiesto ai signori del Web cosa intendano fare rispetto ai «contenuti che diffondono bugie dannose e disinformazione sull’assistenza sanitaria necessaria dal punto di vista medico per i giovani transgender». 

Dunque se si pubblicano sui social, poniamo, le considerazioni recentemente apparse sulla rivista scientifica Current sexual health reports a firma dello psichiatra Stephen Barrett Levine - che ha concluso come «il rapporto rischi/benefici della transizione di genere giovanile vari da sconosciuto a sfavorevole» -, si dovrebbe venire censurati? Sì, a quanto pare. Ma non è tutto. Per essere sicuri di farsi intendere, le star che hanno sottoscritto l’appello chiedono alle Big Tech di applicare gli stessi sistemi di monitoraggio e blocco dei contenuti che vigono durante i periodi elettorali o visti per il «Covid-19». […]

La cosa che fa sorridere è che tale appello arriva nello stesso periodo in cui un’indagine a cura di Summit ministries e McLaughlin & associates ha rilevato come il 61% degli americani ritenga che introdurre i piccoli al transgenderismo, ai drag show e ai temi Lgbt sia dannoso. Come se non bastasse, un’altra rilevazione ha scoperto che il 73% dei cittadini è dell’avviso che le grandi aziende dovrebbero restare neutrali sui temi politici e culturali, versante Lgbt incluso.

[…]

Luigi Ferrarella per corriere.it il 26 giugno 2023.

Utilizzare il termine «froci» diffama chi ne sia destinatario: il pm Mauro Clerici lo contesta all’internauta che due mesi fa sulla piattaforma social Twitter aveva scritto che «i froci sono così, bisogna rassegnarsi, stanno riuscendo a sessualizzare pure il club dello Sci.G Milano, non si riesce ad andare oltre». Lo Sci.G Club Gay Milano Lgbtqia+ aveva sporto querela, e ora la Procura si inserisce in un filone di Cassazione consolidato.

In un recente caso, in cui ad esempio un transessuale, che aveva dato del «frocio» a un politico con il quale affermava di avere avuto una relazione, si era difeso asserendo che la parola «avesse ormai perso, per l’evoluzione della coscienza sociale, il suo carattere dispregiativo», la Cassazione ha invece argomentato che il termine costituisca, «oltre che chiara lesione dell’identità personale», anche «veicolo di avvilimento dell’altrui personalità», e che «tale sia percepito dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana».

Reato di screenshot. La cafoneria pubblica e la coda di paglia dei giustizieri digitali. Guia Soncini il 24 Giugno 2023 su L'Inkiesta.

Abbiamo scoperto, chi l'avrebbe mai detto, che in contesti che crede privati l'umanità dice cose irripetibili. I più zelanti a indignarsene sono quelli che dicono pure di peggio, su altre piattaforme che altrettanto erroneamente credono riservate

Questa è una storia di palcoscenici scambiati per privé, di pesi e misure, ma soprattutto è una storia che racconta uno dei miei cliché preferiti: quando si osserva un mezzo di comunicazione e ci si trova l’indignazione d’un giustiziere, si può sempre scommettere che, a girargli intorno, dietro al giustiziere si troverà una coda di paglia grossa come un fienile.

Il prologo si svolge nel 2019. Ben quattro anni fa. Sensibilità diverse, direbbe qualcuno. Una soubrette fa un’osservazione sulle elezioni in un talk-show politico, e ovviamente i perdigiorno dei social ottemperano al loro ruolo: perdono giornate a commentare. Spesso non più quell’osservazione: se sapete come funzionano i social, sapete che essi, più che dei fatti, sono occasione di commento dell’antipatia o della simpatia dei protagonisti.

Insomma una tizia che lavora in politica fa un commento in difesa della soubrette, e quel commento viene condiviso in, immagino, molteplici consessi virtuali. Uno di questi è un gruppo di Facebook a tema politico. Il dettaglio più importante che dovete conoscere di questo gruppo è: in quel momento ha 634 iscritti.

Sotto a quel commento, scrive quello che d’ora in poi chiameremo Emerito Sconosciuto. Emerito Sconosciuto – un italiano medio cui piace tenere il tono di chi conosce il dietro le quinte delle cose – spiega a 633 sconosciuti che la tizia farebbe meglio a tacere, dato che il suo ruolo in un certo partito è dovuto solo ai favori sessuali concessi al segretario di quel partito. Copincollo uno dei deliziosi commenti d’epoca: «Siamo l’unico partito col sex scandal sopra il quintale» (l’ES dev’essere stato un bambino grasso, giacché quest’ossessione del peso altrui poi tornerà, in questo feuilleton).

Come già il commento della tizia (come qualunque cosa venga scritta sull’internet: che, tentò invano d’insegnarci “The Social Network”, «non è scritta a matita»), le carinerie dell’Emerito Sconosciuto vengono condivise chissà quante decine di volte. E non sono le uniche.

L’ES ha una certa qual tendenza alla diffamazione, e negli stessi giorni scrive davanti agli stessi 633 testimoni, a proposito d’un altro tizio anch’egli con un ruolo di partito, «il nuovo segretario regionale si è creato uno staff scegliendo tra i disperati che incontra nei sauna club che frequenta assiduamente».

Sempre negli stessi giorni, commenta sempre davanti agli stessi testimoni, 633 dei suoi più intimi amici, la foto della redazione d’un nuovo giornale: «Il sospetto che sia stata assemblata con criteri figa-oriented è venuto a non poche persone. Ho un amico che ci lavora e lo conferma, dicendo che più che una redazione è un figaio».

Non so se qualcuno dei tre oggetti delle sue garbate osservazioni abbia fatto causa per diffamazione all’ES, ma ho qui davanti le schermate della cosa più bella mai successa sull’internet. Almeno una delle tre persone diffamate dall’ES lo racconta pubblicamente, e a quel punto l’ES fa una cosa che, in un tempo prima dei social, sarebbe stata considerata una performance situazionista.

Prende l’attrezzo con cui si esprime e, coi suoi ditoni pieni di senso della realtà, digita nel solito gruppo come al solito affollato da altre 633 persone un post fatto così: «Un certo furbo tra noi ha avuto l’intelligenza di screenshottare e rendere pubblico un mio commento (immaginatevi il genere) fatto qui dentro […] Ecco, al di là della tempesta in un bicchiere d’acqua che ha generato, questa è una cosa grave e oggettivamente infame. Qui valeva la regola che what happens in Vegas stays in Vegas […]». Seguono, nei commenti, moltissimi annunci di querele, che fanno moltissimo ridere, ma poi ci torniamo, perché prima dobbiamo avanzare velocemente di quattro anni.

Qualche settimana fa un pubblicitario rivela una imbarazzante storia che riguarda un’agenzia milanese, la riassumo per la parte che ci interessa per capire come funziona la confusione tra conversazioni pubbliche e private.

In questa agenzia ci sarebbe stata, raccontano, una chat con ottanta iscritti, tutti e ottanta maschi, che lavoravano per l’agenzia. In questa chat si facevano commenti grevi sulle femmine dell’agenzia: a questa le farei questo e quello, a quell’altra no perché è un cesso – la solita roba che i limiti del femminismo contemporaneo spacciano per umiliazione delle donne invece che per quello che è: uomini che si coprono di ridicolo. (Nessuno è ancora mai riuscito a spiegarmi perché, se un uomo si esprime come un troglodita sul mio conto, a sentirmi umiliata dovrei essere io e non i suoi genitori, la sua maestra elementare, lui stesso).

Negli ultimi giorni questa storia è stata raccontata come una storia di «molestie», e io temo si debba trovare una parola nuova, da «maleducazione» in su: è molestia se mi disturbi, ma se neppure so che mi dai del cesso o fantastichi d’ingropparmi come faccio a ritenermi molestata? Lo so, ora vi arenate qui e correte a scrivere agli amici che condono le molestie, ma sappiate che se differite di due minuti l’urgenza di darmi della sessista potete evitare di perdervi la chiusura del cerchio.

Qual è la ragione per cui la storia dei pubblicitari ci scandalizza? Il fatto che quello sia un luogo di lavoro, eppure dai toni riferiti ci manca poco qualcuno dica «più che un ufficio è un figaio». La crudezza di frasi particolarmente imbecilli (quello che avrebbe scritto di volersi scopare una mentre abortiva ha evidentemente un’idea assai vaga dell’anatomia umana e di come sia fatto un raschiamento).

Ma anche il fatto che percepiamo un gruppo di ottanta persone come quel che è: un comizio, non una conversazione privata. E qui i più svegli di voi sono già lì che applicano schemi deduttivi: se sei in pubblico tra ottanta persone, figurarsi tra seicento.

La storia raccontata dal pubblicitario è rimasta marginale finché i giornalisti italiani, per cui esiste solo ciò che passa su Twitter, non l’hanno vista rilanciata proprio sul loro social di riferimento. Da qualcuno smanioso di collocarsi come uno dei buoni e degli indignati. Chi? I lettori di Agatha Christie l’hanno già indovinato: l’Emerito Sconosciuto. Di quel che accade nei gruppi da seicento persone guai a far la spia fuori dai gruppi da seicento persone, ma se racconti d’una chat da ottanta sei benemerito.

Non so che cosa faccia l’ES nella vita, e non so cos’abbia fatto in questi quattro anni, in cui mi è passato virtualmente davanti solo una volta. Qualche mese fa ha scritto una lettera a un giornale, contro il body shaming. Ne ho approfittato per andare a ripescare una schermata del 2015 (fare i moralizzatori viene meglio se hai più archivio che coda di paglia).

Qualcuno aveva scritto che comparivo nel film della Archibugi, il nostro gentiluomo di riferimento rispondeva «magari hanno inquadrato un elefante e si è confuso». Quando ripubblico il suo antico commento, qualcuno gliene fa presente la delizia, e il nostro eroe risponde: «In un contesto in cui produciamo ogni anno milioni di caratteri leggibili in pubblico è facile scavare nel passato e trovare qualche passo falso […] la lingua rispettosa è diventata fondamentale in tempi recenti, con nuove sensibilità».

Quindi, se ho capito bene: i commenti social leggibili in pubblico possono contenere «passi falsi», l’importante è non passofalsare – cioè: non dare della culona a qualcuna – nelle chat teoricamente private; e poi va tenuto conto della tempistica: che tua madre fa pompini ai soldati è una cosa che si poteva dire fino a data da definirsi – fino alla pandemia? fino alla Brexit? fino all’uscita del sesto Mission: Impossible? – poi è arrivata la lingua rispettosa (con salsa verde).

Ora, il nostro Emerito Sconosciuto non è certo il primo moralizzatore con coda di paglia della recente storia italiana, e oltretutto è quello più d’insuccesso, e accanirsi su di lui sarebbe crudele. Ben altre fortune ha fatto gente che mandava in giro foto di cazzo non richieste mentre per mestiere stigmatizzava presunte molestie altrui, per fare un esempio totalmente di fantasia.

Ma quel che mi pare interessante notare sta nel pezzo di storia del 2019 che non vi ho ancora raccontato. Uno dei danni che ha causato la comunicazione social è rendere la media degli umani totalmente disarmata in termini di dialettica. Sui social (e sempre più spesso anche nella vita) gli esseri umani non sanno più dire a uno con cui sono in rapporti amichevoli «ma non dire scemenze». Esistono solo tizi antipatici cui diamo addosso per principio (in neolingua: hater); e tizi che invece abbiamo deciso di trovare simpatici e ai quali perciò diamo ragione sempre e comunque (in neolingua: genio).

Quindi, quando l’ES va da 633 tizi a dire che lascia il gruppo, perché è gravissimo che qualcuno abbia notificato una diffamazione ai diffamati, e che è già andato dall’avvocato a denunziare chi ha fatto trapelare gli screenshot, «Diciamo che il suddetto mi pagherà le ferie. Ed è solo l’inizio»; quando scrive di chi ha svelato le sue diffamazioni «sì, è perseguibile legalmente»; quando scrive che bisogna «essere scemi, ché si sa che sono uno con la querela facile» – quando si copre per decine di volte di ridicolo con penzierini in cui s’atteggia lui a parte lesa, non c’è uno che pietosamente gli dica: ma Emerito, ma ringrazia se non sono loro a fare causa a te, ma evita di investire capponi in avvocati per il reato di screenshot quando hai scritto di questa gente delle cose tali che finisci per doverle pagare degli appartamenti.

Non uno, non dico per dire. Lo assecondano tutti ma proprio tutti, dicendo che è scandaloso, che è uno schifo, che chi fa la spia non è figlio di Maria. E quindi la domanda con cui concluderei questo apologo reputazionale è: ma, se degli sconosciuti non hanno voglia d’incomodarsi a dire a uno sconosciuto «ma quale avvocato, su, dai», perché dei colleghi dovrebbero aver voglia di dire a chi straparla di sesso e di donne «ma lo sappiamo tutti che non ti tira, orsù, piantala con ’ste pagliacciate»? 

Estratto dell’articolo di Sara Bettoni per “il Corriere della Sera – ed. Milano” il 24 Giugno 2023

«Ora dobbiamo dare un segnale forte e fare casino. Per questo sto chiedendo alle ragazze di indicarmi le agenzie dove hanno subito molestie, i nomi dei responsabili». Massimo Guastini è «la miccia». Pubblicitario quasi 63enne […]

Da 12 anni denuncia casi di abusi e sessismo nel mondo del marketing e nella pubblicità, eppure la bomba è scoppiata in ritardo, solo in questi giorni. «Il deus ex machina è stata Monica Rossi. E pensare che nemmeno esiste». È il nome fittizio di un utente di Facebook che ha intercettato le sue segnalazioni e l'ha intervistato.

Risultato? Centinaia di condivisioni e messaggi, nuove testimonianze, vittime che escono allo scoperto, copywriter che su Instagram fanno venire a galla altri episodi. Le associazioni di categoria (Una, Ferpi, Adci) stanno prendendo posizione e condannano gli atteggiamenti sessisti. 

We Are Social, una delle agenzie di comunicazione in cui sono avvenuti alcuni episodi emersi (la cosiddetta «chat degli 80») si dice pronta ad avviare un'indagine intera, da affidare a un ente terzo. Uno dei fondatori, Gabriele Cucinella, spiega: «Siamo intervenuti nella vicenda proprio per non nasconderci. Vogliamo tutelare tutte le persone che lavorano con noi». 

[…] Eppure lei per ben due volte ha guidato l'Art directors club italiano (Adci).

«E poco prima di diventare presidente, ho saputo dei primi casi».

Come?                                                                    

«Era gennaio del 2011. Una stagista, allora 20enne, mi raccontò turbata di aver incontrato a un meeting di lavoro un famoso direttore creativo e di aver accettato un suo passaggio a casa. All'epoca abitava in una zona periferica di Milano». 

E poi?

«Il direttore creativo l'aveva tenuta bloccata in auto per ore, tentando approcci sessuali espliciti nonostante i suoi rifiuti. La stagista mi fece vedere anche conversazioni su Skype inopportune».

Un mese dopo venne nominato presidente dell'Adci.

«E mi trovai di fronte all'impossibilità di espellerlo dal club, la vittima comprensibilmente non si voleva esporre. A quel punto diventai respingente e lui stesso se ne andò dall'associazione. Nel 2016, emerse un altro caso relativo allo stesso personaggio e mi chiesero di dare visibilità al fatto. Pubblicai un post su Linkedin chiedendo se ci fossero altre testimonianze. Il molestatore era sempre lo stesso, le fonti diverse». 

Una segnalazione è più grave delle altre.

«Una giovane donna mi disse di aver bevuto un caffè shackerato con lui e di essersi risvegliata, ore dopo, in un letto senza rendersi conto di come ci era finita. Mentre mi raccontava, piangeva».

Sui social lei non ha paura a fare nomi e cognomi degli accusati.

«Ed è giusto così, non sono le vittime a doversi vergognare». […]

Estratto dell’articolo di Selvaggia Lucarelli per “il Fatto Quotidiano” il 24 Giugno 2023

[…] We are social, un’agenzia relativamente giovane con clienti importanti, da Vodafone a Netflix, è finita nel mirino fin da subito perché, come raccontato ieri da un testimone sul Fatto, all’interno dell’agenzia esisteva una chat con 80 dipendenti uomini che commentavano le colleghe con un linguaggio violento, degradante e sessista.

[…] Fino a ora i piani alti di We are social erano stati decisamente poco social, trincerandosi dietro un silenzio imbarazzato e poche imbarazzanti dichiarazioni. Alessandro Sciarpelletti di We are social ieri ha annunciato le sue dimissioni dall’Adci, l’Art directors club italiano, affermando che la priorità è indagare sulle gravi questioni su cui si dibatte in questi giorni. 

Ed è buffo, perché proprio lui, quando il pubblicitario Massimo Guastini ha iniziato a parlare di molestie sui social, ha scritto in privato a quest’ultimo: “Oggi ricorre il quarantesimo anniversario dell’arresto di Enzo Tortora, valuti lei”.

Come a dire: state mettendo alla gogna degli innocenti. E qui viene da chiedersi come sia possibile che dei comunicatori di professione stiano comunicando così male, compreso proprio il Ceo Nava secondo il quale, appunto, “come azienda nel corso degli ultimi anni abbiamo messo in atto numerose iniziative affinché il benessere e la tutela delle persone siano al primo posto”. 

L’esistenza di quella chat, ai tempi, dopo la denuncia di alcune dipendenti fu, in agenzia, un tema di discussione e venne risolto in fretta e furia con la sua chiusura. Nessuno pensò di individuare i principali responsabili, di avviare un’indagine interna, di affrontarla come un fatto grave anziché come un fatto da insabbiare il più velocemente possibile. Non solo. Se ci si fosse limitati a non fare nulla sarebbe solo un fatto molto serio. E invece è accaduto di peggio.

Alcuni dei più assidui commentatori di quella chat nel tempo hanno fatto carriera, per esempio Matteo Starri che è Research & Insights Director in We Are Social. Alessandro Sciarpelletti, l’Enzo Tortora (!) che si è auto-sospeso solo ieri dal consiglio direttivo di Adci, è anche lui stato promosso in We are social e – qui il paradosso – l’anno scorso faceva parte della giuria del premio Equal agli Adci Awards, ovvero i premi per le campagne contro discriminazioni e violenze. […]

Estratto dell’articolo di Marco Respinti per liberoquotidiano.it il 16 giugno 2023.

Salto mortale con doppio avvitamento nella prestigiosa Johns Hopkins University di Baltimora, e inevitabile spanciata finale. Siccome tutto il mondo è paese, anche la solenne Johns Hopkins contempla un «Centro per la diversità e l’inclusione». Nella sezione del Centro sul sito web di ateneo ci si può iscrivere alla newsletter o localizzare una toilette all-gender. 

Ci si può anche unire a uno dei gruppi d’incontro «identitari»: gli asessuali, gli omosessuali religiosi, quelli di colore, quelli internazionali, i dubbiosi alla ricerca del gender perfetto, nonché trans e non-binari di ogni tipo. E poi ci sono una pletora di documenti e di scritti. Uno però è indispensabile: il Glossario. La ridda delle sigle (FLI, LGBTQIA+, etc.) disorienta infatti anche i meglio disposti.

[…]Tra le definizioni annoverate dal Glossario c’è, ovvio, anche quella di «lesbica»: «Una donna emotivamente, sentimentalmente, sessualmente, affettivamente o relazionalmente attratta da altre donne». Quello, cioè, che intendiamo tutti quando diciamo «lesbica» e quello che con «lesbica» intendono pure l’irreprensibile Johns Hopkins e il suo apposito «Centro per la diversità e l’inclusione».

Almeno fino a poco tempo fa. Perché poi, in data che nessuno è stato in grado di accertare, la definizione di «lesbica» contenuta nel Glossario è stata emendata così: «Un non-uomo attratto da non-uomini» (siccome però in inglese gli articoli e gli aggettivi hanno genere invariabile, si potrebbe tradurre pure: «Una non-uomo attratta da non-uomini»). Spiegando: «Laddove in passato si definiva “lesbica” una donna emotivamente, sentimentalmente e/o sessualmente attratta da altre donne, questa definizione aggiornata comprende anche le persone non-binarie che possano identificarsi con quella designazione». 

È il primo dei due avvitamenti menzionati d’esordio: metti il caso, cioè, di lesbiche che non siano donne. Epperò l’analogo non vale nella definizione di «Gay».

Ora, le donne si sono infuriate […] Fra loro Nikki Haley, candidata conservatrice alla Casa Bianca, J.K. Rowling, la mamma di Harry Potter amica dei trans e odiata da loro perché dice che, comunque uno si senta, i maschi restano maschi e le femmine restano femmine, e Martina Navratilova. 

Notoriamente lesbica, la campionessa di tennis ha tuonato il suo «ecchecca**o» femminista via Twitter: «“Lesbica” era letteralmente l’unica parola che in inglese non è legata a “uomo” e a “maschio”», visto che in inglese «femmina» si dice «female» e quindi contiene «male», cioè «maschio», così come donna si dice «woman» e contiene «man», cioè «uomo». […] uno scippo trans che azzera le donne a prescindere […]

[…] All’austera Johns Hopkins gira la testa. Tant’è che si è affrettata a ritirare il Glossario riveduto dal web, sostituendolo con il secondo dei due avvitamenti: «Pur essendo il glossario una risorsa messa a disposizione dall’Ufficio per la diversità e l’inclusione della Johns Hopkins University, le definizioni in esso contenute non sono state revisionate o approvate dai dirigenti dall’Ufficio per la diversità e l’inclusione della Johns Hopkins University e quindi il linguaggio in esso adoperato è stato rimosso per essere sottoposto a revisione». […]

Estratto dell’articolo di Ilaria Sacchettoni per corriere.it l'11 Giugno 2023

Scivolone sessista nella prestigiosa aula di formazione della Scuola per magistrati di Scandicci (Firenze): il relatore Daniele Domenicucci referendario presso la Corte di  giustizia del Lussemburgo, chiamato a intrattenere da remoto i giovani tirocinanti sulle pregiudiziali davanti alla corte di giustizia, dà voce a un suo pensiero tanto intimo quanto fuori luogo: «Sono dei gran maleducati ma almeno c’è figa…».   

Sulla vicenda interviene, il giorno dopo, il componente del comitato direttivo della Scuola di formazione della magistratura Costantino De Robbio: «Frase inqualificabile. Tuttavia rivendichiamo come appropriata la scelta del relatore: un tecnico esperto nella sua materia. […] ».

[…]  Domenicucci, va detto, non stava riscuotendo grande successo con la sua lezione alla quale i neo magistrati sembravano rispondere con una certa svogliatezza […] A quel punto il relatore, francamente sconfortato, si è rifugiato […]in un’attività extra docenza, ossia rispondere alla proprie mail dal pc collegato in aula. 

 Tradito: sullo schermo è comparso il suo commento sessista a caratteri cubitali, in risposta alla missiva di un collega. Tutti/tutte leggono finché al momento di prendere la parola una magistrata boccia il comportamento di Domenicucci con una frase secca: «Non avete fatto bella figura». Punto nel vivo l’esperto ha ammesso la clamorosa gaffe e si è scusato invitando a non dar peso «alla forma più che alla sostanza» e chiedendo scusa per la frase inopportuna. 

La scuola ha anche inviato una lettera di scuse ai magistrati tirocinanti: «[…] non sarà più invitato come relatore».

Scuola superiore della magistratura, tolto l’incarico al prof dopo la chat “imbarazzante”. Il comitato direttivo della Scuola si è scusato con i neo magistrati che seguivano il corso per i “contenuti inopportuni e offensivi compresa un’intollerabile espressione finale di tipo sessista”. Il Dubbio l'11 giugno 2023

L’imbarazzante “siparietto” che ha avuto come protagonisti due docenti della Scuola superiore della magistratura di Scandicci, presieduta dal presidente emerito della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi, ha creato non poco imbarazzo in una istituzione che forma i prossimi magistrati. Il professor Daniele Domenicucci, referendario preso la Corte di giustizia di Lussemburgo, in collegamento da remoto, aveva notato scarsa attenzione degli allievi all’argomento che stava trattando. Ha iniziato a chattare via mail con il suo collega Fabio Filpo, anche lui referendari presso la Corte di Lussemburgo, commentando l’avvenenza di alcune neo magistrate. la conversazione, però, non è rimasta privata tra i due docenti, ma è apparsa sullo schermo dell’aula. Quando alcune ragazze che seguivano il corso hanno apostrofato il professor Domenicucci, lui ha provato a scusarsi ma l’episodio rischia di essere fatale per la sua docenza. 

La Scuola superiore della magistratura in un comunicato nel quale si riassume l’episodio apparso sulla stampa e sui social network, precisa che “si trattava, in particolare, di un gruppo di lavoro sul rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, coordinato da specialisti della materia, non magistrati. Inavvertitamente, durante una pausa dei lavori, sono stati condivisi sullo schermo dell’aula scambi di email intervenuti tra docenti, con contenuti inopportuni e offensivi nei confronti dei MOT (Magistrati Onorari in Tirocinio), compresa un’intollerabile espressione finale di tipo sessista relativa a magistrate che avevano partecipato all’attività formativa”.

Il Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura, si legge ancora nel comunicato, si è "scusato subito attraverso i suoi rappresentanti presenti a Scandicci e, successivamente, con una lettera inviata a tutti i MOT esprimendo sconcerto e dispiacere per l’accaduto. La Scuola ritiene che l’alta responsabilità di chi è chiamato a svolgere attività di formazione per i magistrati, e in particolare per i MOT, richieda una condotta irreprensibile e doveri di particolare attenzione e cura, anche per il ruolo rivestito. Comportamenti incompatibili con tali doveri non possono trovare giustificazione anche se, come in questa occasione, emergono per effetto di una condivisione involontaria dello schermo, cosa che si verifica non di rado a seguito della rapida diffusione della didattica a distanza”. Inevitabile, quindi, la decisione del Comitato Direttivo che “ha deliberato di non affidare più incarichi formativi al responsabile dell’accaduto”.

To be Fair. Obama, Maher e la sfida culturale dei moderati anti woke. Giulio Silvano su L'Inkiesta il 10 giugno 2023.

È possibile essere criticare le teorie della sensibile sinistra americana senza apparire come i vichinghi che hanno assalito il Campidoglio il 6 gennaio? Per ora no, visto che il manicheismo ha la meglio. Ma bisogna comunque provarci 

Se domani Mike Tyson decidesse di identificarsi come donna, potrebbe partecipare ai campionati femminili di boxe? Saremmo pronti a vedere i suoi pugni scontrarsi con la mandibola di una donna-nata-donna? Lo sport, nella sua struttura ben codificata di regole funzionali all’equilibrio dei risultati, è forse lo scoglio più duro dove si scontrano le diverse teorie sul genere. Il record di velocità nei cento metri maschili, ad esempio, è di 9,58 secondi, mentre in quelli femminili è di 10,49. Se domani Usain Bolt si identificasse come donna avrebbe la certezza di vincere qualsiasi gara. Ma dire, oggi, che sia ingiusto che un ex-uomo possa gareggiare alle Olimpiadi con le donne, provocherebbe l’ira di molti che difendono l’autoidentificazione.

Esprimere dissenso, anche in modo cauto, spesso viene accolto da grida di rabbia, piagnistei e, in certi ambienti lavorativi – ad esempio, nei college americani o nello show business – dalla richiesta di dimissioni.

Sembra esserci, nell’arena pubblica, soprattutto negli Stati Uniti, una pressione automatica che spinge agli estremi. Da una parte i Social Justice Warriors non accettano sfumature – basta guardare cos’è successo a J.K. Rowling, l’autrice di Harry Potter, che ha fatto commenti considerati transfobici. Dall’altra l’anti-wokismo militante è un’arma ideologica in mano alla destra, e troppo spesso a quella più estrema. 

Il governatore della Florida Ron DeSantis, considerato un’alternativa a Donald Trump, sta basando la sua candidatura nelle primarie repubblicane quasi solo sull’opposizione all’ortodossia woke. Uno dei suoi slogan è «Florida: dove il wokismo va a morire». Sono innumerevoli le dichiarazioni dei più demagogici e populisti membri del Grand Old Party e dei presentatori di FoxNews contro pubblicità, film, copertine con uomini incinta e contro l’insegnamento di alcune teorie nelle scuole. 

Ma davvero possiamo mettere nello stesso paniere gli spot sul Pride Month della Budweiser e gli articoli accademici femministi sulla cultura dello stupro dei cani maschi nei parchi pubblici? E ci si chiede: è possibile avere alcune posizioni contro le varie teorie che nascono dall’universo woke senza apparire come i vichinghi che hanno assalito il Campidoglio il 6 gennaio? Può un uomo bianco indossare un kimono, un sombrero, un thawb, senza esser considerato un nostalgico della segregazione razziale? Si può essere contrari ai trigger warning e alle modifiche dei testi di Mark Twain senza sembrare quei pazzi no-vax che credono nei complotti del Deep state e vanno in giro a dire che Hillary Clinton è una rettiliana?

C’è chi qualche anno fa, a seguito delle proteste per l’uccisione di George Floyd che resero mainstream il megafono woke, ha cercato di togliere dalle mani dell’AltRight la prerogativa all’insofferenza verso le idee delle culture wars. È stata fondata Fair, Foundation Against Intolerance & Racism, una no-profit che aveva l’obiettivo di combattere lo psicodramma woke senza apparire come membri del Klu Klux Klan. 

Fair da alcuni anni agisce con cause legali, campagne educative e di informazione per cercare di correggere alcuni errori fatti dal wokismo in America, soprattutto nelle scuole. Fair è riuscita ad aiutare la regista Meg Smaker che era stata rinnegata dal Sundance Film Festival perché uno dei suoi film, un documentario su ex jihadisti che seguono un programma di deradicalizzazione, era stato bollato come islamofobico. Diversi critici avevano detto: «Una donna bianca non può parlare di musulmani sauditi». Dopo l’azione della no-profit si è deciso di distribuire il film. 

Un altro caso in cui Fair è riuscita ad avere dei risultati ha avuto a che fare con un caso, sempre più comune, di esclusione in base all’etnia – la Brown University offriva un corso di mindfulness aperto solo a insegnanti non-bianchi e Fair è riuscita, tramite gli avvocati, far modificare il corso. La storia di Fair, che poi ha avuto alcune diatribe di management interno, è stata raccontata di recente da un pezzo del New Yorker intitolato, appunto “Si può essere sia moderati che Anti-woke?”. 

Uno dei fondatori della no-profit Bion Bartning ha raccontato alla rivista che tutto è partito quando ha visto nel programma della scuola delle figlie, una scuola privata d’élite newyorkese, un’ossessione per la razza come unica chiave di lettura della nostra identità, e una minimizzazione della Shoah e dell’antisemitismo. «Un’ortodossia intollerante sta minando la nostra umanità comune, mettendoci uno contro l’altro», twittava Bartning, che è mezzo messicano e mezzo ebreo. Ha raccontato al New Yorker che era interessato ad articolare una missione che non fosse contro qualcosa, ma per qualcosa. «Non anti-woke, ma pro-umano, cioè vedere sé stessi e gli altri come individui unici, connessi con tutti gli altri tramite un’umanità condivisa».

Una delle voci pubbliche che tenta di colpire entrambi gli estremi è il comico Bill Maher, che ha un suo programma dal 2003 su HBO. «In America ci sono quattro tribù – ha detto Maher di recente alla CNN – i progressisti vecchio stile, i conservatori vecchio stile, che sono la maggioranza, e poi ci sono i wokster e i trumpiani, e questi ultimi due gruppi non fanno alcun favore al paese». Secondo Maher, il wokismo è partito come una cosa positiva – «essere all’erta sulle ingiustizie» – ma è diventato un movimento illiberale. Anche Barack Obama rispondeva al wokismo dicendo che «il mondo è incasinato» e anche «mi sembra che per molti cambiare le cose significhi essere giudicante sui social».

Fair, Obama e Maher sono le eccezioni, in America il manicheismo ha la meglio. I Democratici, sembrano sotto la minaccia costante dei combattivi studenti universitari e camminano sulle uova, prigionieri della paura di sbagliare, di passare per terf o per eteronormativi privilegiati. Per i liberal più moderati non c’è spazio di dialogo, come ha scritto Guia Soncini ne L’era della suscettibilità: «Gli estremisti di sinistra vedono nei moderati di sinistra il loro più acerrimo nemico, detestano il dubbio e la complessità e le sfumature ben più di quanto detestino la destra». 

E lo stesso grado di sottomissione al terrore che vale per i dem si applica alle grosse aziende che si piegano alle pressioni di una minoranza furente di potenziali consumatori per evitare di risultare bigotte, fasciste o non sufficientemente sveglie – e quindi via di bandiere arcobaleno, ormai già vecchie, sui pacchetti di biscotti – e all’industria dell’intrattenimento, basti pensare alle nuove regole per partecipare agli Oscar. 

Da quest’anno per presentarsi agli Academy Awards almeno uno degli attori principali dovrà essere di un gruppo etnico sottorappresentato (cioè, non bianco), e la trama dovrà trattare temi quali minoranze etniche, difficoltà delle donne, delle persone con disabilità o della comunità LGBTQ+, e tanti altri nuovi diktat che, ha detto Richard Dreyfuss, «fanno vomitare». 

Quindi, si può essere anti-woke senza sembrare pazzi? Togliere il copyright della ragionevolezza all’AltRight e smettere di avere paura di una minoranza di farisaici presuntuosi? Sembra che il vero blocco sia la fobia, di offendere, di essere esclusi, di essere additati come insensibili. Diceva Christopher Hitchens: «Se qualcuno mi dice che ho ferito i suoi sentimenti, aspetto di sentirmi dire perché sia un problema».

Video. Valsecchi e Bobbi sospesi da Sky per le battute sessiste durante il Gp di Spagna. Redazione su Il Riformista il 7 Giugno 2023 

Non è passato inosservato il siparietto sessista tra Matteo Bobbi e Davide Valsecchi le due voci di Sky per la Formula 1. Durante il Gp di Spagna di domenica scorsa i due cronisti sportivi si sono scambiati alcune battute sessiste nel corso della diretta televisiva. “Volevo dire a Davide che dietro di lui c’è un bel “pacchetto di aggiornamenti” se si gira” dice Bobbi invitando il collega a girarsi per osservare una ragazza di spalle. Un invito raccolto immediatamente da Valsecchi, che non solo si gira a osservare ma commenta: “Li conosco, purtroppo mi hanno detto che non si può testarli”.

Al rientro in studio dopo il servizio, lo scambio sessista ricomincia. Bobbi cerca di smarcarsi e mostra alcuni segni di pentimento rendendosi forse conto di aver esagerato. Valsecchi invece rincara la dose: “Ho già fatto due volte l’operazione per gli occhi perché ho perso la vista fin da bambino a guardare quelle cose”

Le scuse sui social dopo ondata di indignazione

“Mi dispiace tanto. Sono caduto in uno scambio di battute di cattivo gusto e ho usato parole non adatte e irrispettose. Per questo vorrei chiedere scusa a chi si fosse sentito offeso, alle donne e a Sky” ha scritto Valsecchi in una storia Instagram. E lo stesso ha fatto anche il collega Bobbi: “Nonostante non fosse nelle mie intenzioni, ho generato un momento sgradevole che ha reso sofferenza alla sensibilità di alcune persone. Chiedo sinceramente scusa a chi si fosse sentito offeso ribadendo il mio totale e profondo rispetto verso tutti e tutte le donne”.  Scuse accettate da Sky che ha deciso comunque di prendere provvedimenti sospendendo i due giornalisti per un Gp.

Da golssip.it l'8 giugno 2023.

Le battute a doppio senso pronunciate da Matteo Bobbi e Davide Valsecchi in occasione del recente Gran Premio di Spagna di Formula 1 hanno fatto molto scalpore, tanto che i due commentatori Sky sono stati sospesi per il prossimo appuntamento del Mondiale. Christine Giampaoli Zonca, pilota di rally, una delle ragazze coinvolte nella vicenda, ci ha scherzato su nel corso di un'intervista rilasciata al Corriere della Sera: 

"Facciamo così: alla prossima gara di F1 mandatemi in video insieme a Bobbi e Valsecchi, così magari stavolta sarò io a fargli un paio di battute a quei due! Non mi sono sentita offesa, era solo uno scherzo. Me ne sono accorta perché tutti hanno cominciato a scrivermi. Sono stati anche educati, non è che abbiano detto chissà che cosa.

All'inizio quando è scoppiato il caso sui social ed è venuto fuori che erano stati sospesi ho pensato a uno scherzo. Poi invece ho scoperto che era vero, e mi è dispiaciuto. Sono due bravi commentatori, mi è sembrato tutto così esagerato. Li conosco e gli ho scritto subito. Come in tutti i settori lavorativi c'è chi fa un commento che magari può dar fastidio, o altro, però io non ho mai avuto problemi. Ho sempre avuto un buon rapporto con tutti".

Da mowmag.com il 7 giugno 2023.

Uno scambio di battute in diretta dopo la gara di Formula 1 di questa domenica a Barcellona tra i due ex piloti e commentatori del team di Sky Sport F1 Italia ha sollevato le polemiche e l'indignazione generale dai social, con migliaia di condivisioni, commenti e insulti, passando per i media - anche generalisti - che hanno cavalcato la viralità della notizia delle ultime ore riprendendo il video incriminato e accusando i due di sessismo. Dopo le riprese delle maggiori testate nazionali Repubblica ha lanciato un'indiscrezione, non ancora confermata, che avrebbe dell'incredibile: i due commentatori sarebbero infatti a rischio sospensione provvisoria per un weekend di gara. Bobbi e Valsecchi salterebbero quindi il prossimo fine settimana, in Canada, riprendendo quindi il lavoro nel team di Sky al successivo appuntamento stagionale. 

In attesa di conferme o smentite da parte di Sky arrivano le scuse dei due diretti interessati che, attraverso i social, si sono detti dispiaciuti di quanto accaduto. Il primo a commentare è stato Davide Valsecchi che su Instagram ha scritto: "Mi dispiace, tanto, perché domenica nel dopo gara sono caduto in uno scambio di battute di cattivo gusto e ho usato parole non adatte e irrispettose. E io non lo sono. Per questo vorrei chiedere scusa a chi si fosse sentito offeso, alle donne e a Sky. Davvero". 

Pochi minuti dopo è arrivato anche il commento di Matteo Bobbi: "Domenica nel dopo gara sono stato protagonista di una battuta uscita in modo del tutto infelice, nonostante non fosse nelle mie intenzioni ho generato un momento sgradevole che ha reso sofferenza alla sensibilità di alcune persone. Sono finito in ghiaia. Essendo tutto altro che una persona irrispettosa chiedo sinceramente scusa a chi si fosse sentito offeso ribadendo il mio totale e profondo rispetto verso tutti e verso le donne, in particolare a cominciare dalla splendida donna che ho accanto. Da 10 anni commento la F1 con gli amici di Sky, una famiglia ormai e in 10 anni non mi ero mai trovato in una situazione così spiacevole. Ho sempre pensato che dagli errori si capisce, si impara e si riparte. Qual che è successo mi porterà a cercare di migliorare ulteriormente come uomo e come professionista".

Estratto dell'articolo di Anna Lombardi per “la Repubblica” il 5 giugno 2023. 

«Una nuova forma di filisteismo soffoca oggi la cultura in America. Da tempo gruppi conservatori agiscono in base a una precisa agenda: ma ora hanno fatto proseliti. E l’attitudine al bigottismo si è estesa. Ormai basta un solo genitore a far scomparire un libro da una biblioteca scolastica o a far licenziare una professoressa che mostra foto del David di Michelangelo. La censura voluta da gente incolta, che non conosce l’arte e la storia, la tolleranza e l’accettazione. Ma non bisogna farsi intimidire. L’oscurantismo non può vincere».

Lo sa bene Andres Serrano, classe 1950, uno dei maggiori fotografi statunitensi contemporanei (ma lui preferisce definirsi «artista che usa il mezzo fotografico»). Il suo lavoro, […] è stato più volte definito “controverso”, addirittura “blasfemo”. 

Nel 1987 il suo Piss Christ ,foto di un crocefisso immerso nell’urina, provocò proteste in America e in Europa . L’opera fu vandalizzata più volte, anche a distanza di decenni, e fu censurata pure in Italia nel 2015. Negli anni Novanta sconcertò con The Morgue — cadaveri fotografati evocando lo stile dei maestri del Quattrocento. Seguì The Klan , scatti “caravaggeschi” di membri del Ku Klux Klan. E poi Torture ispirata alle violenze nel carcere iracheno di Abu Ghraib.

America, ciclo di ritratti di icone statunitensi. Fino a The Game , raccolta di oggetti ispirati da e a Donald Trump e al recente Insurrection , film sulla rivolta del 6 gennaio a Capitol Hill. […] L’8 giugno al Dox, Centro d’Arte Contemporanea di Praga, inaugurerà una grande retrospettiva intitolata Infamous Beauty.

Bellezza infame, un titolo complesso come la sua arte...

«Ho imparato da Marcel Duchamp che tutto può essere arte. Io guardo ai miei soggetti con occhio classico andando però oltre la fotografia: uso l’estetica per sovvertire concetto e immagine e le polemiche arrivano proprio quando tratto persone o temi non convenzionalmente “belli”. Ma intensificandone il lato estetico, emerge il lato più umano: che a volte può essere oscuro. Molti pensano che con certi lavori ho offeso la religione cristiana. Eppure sono l’opposto di un blasfemo. I miei genitori erano cattolici. Credo in Dio da sempre, ma sono un artista contemporaneo. Lavoro con concetti storici della fede, ma li elaboro in maniera autonoma. Un modo per espandere la mia spiritualità».

Il suo “Piss Christ”, dunque, fu un atto di fede?

«Certo. Omaggio a un Cristo che sulla croce era in balia della sua umanità e dunque anche dei suoi fluidi. Spesso mi chiedono perché non uso simboli di altre fedi e la risposta è semplice: non mi appartengono. D’altronde sono convinto che Dio abbia senso dell’umorismo e comprenda il mio approccio giocoso. E dopo anni di polemiche, anche la Chiesa oggi mi comprende meglio». 

Davvero?

«Suor Wendy Beckett, la suora britannica che per anni ha svolto un interessante lavoro di critica d’arte con programmi in onda sulla Bbc, apprezzava il mio lavoro e usava dire che “la vera arte è quella che costringe a porsi domande”. Mi dicono che anche Timothy Dolan, il cardinale di New York, mi apprezza. E infatti mi piacerebbe un giorno offrire al Vaticano, a Papa Francesco che considero un uomo eccezionale, una delle mie versioni della Pietà di Michelangelo su cui mi sono concentrato di recente: ripetendo il soggetto alla maniera di Andy Warhol, dandogli colore per trasformare la pietra in vita».

Quel Michelangelo che in America ormai fa scandalo...

«Voi europei siete cresciuti in un mondo plasmato da secoli di arte e non avete paura della nudità. L’America è un paese giovane, complessato, immaturo. Dove si censura ciò che non si conosce. È questo che oggi minaccia tanto la libertà d’espressione: a porre veti è gente che non sa nulla di ciò che vuol proibire. C’è il rischio di un nuovo medioevo culturale: bisogna reagire sapendo che c’è sempre qualcuno che comprende. Ciò nonostante mi sento un artista profondamente americano proprio perché del mio paese mostro le contraddizioni». 

[…]

Donald Trump è diventato una sua ossessione. Gli ha dedicato una mostra, “The Game”. E ai suoi seguaci il film “Insurrection”...

«Trump ha insegnato agli americani a mentire, essere egoisti, voler distruggere l’avversario. Con The Game ho mostrato la smisuratezza del suo ego e anche quanto fossero ampie le sue connessioni. In realtà mi ritengo un artista apolitico perché creo immagini esteticamente neutrali. Ma non parto da posizioni di neutralità: ho occhi, orecchie, vedo cose, commento. Con mostra e film ho voluto definire l’epoca di Trump senza dare un giudizio esplicito. Quello va trovato nella coscienza di ciascuno di noi». […]

USA, nello Utah vietata la Bibbia a scuola: “contiene volgarità e violenza”.  Gloria Ferrari su L'Indipendente il 6 giugno 2023.

Un distretto scolastico dello Utah, che conta circa 72mila studenti, ha deciso che alle elementari e alle medie sarà vietato leggere e tenere fra gli scaffali la Bibbia – che quindi rimarrà solo nelle biblioteche delle scuole superiori – perché ritenuta, in alcuni versetti, “troppo volgare e violenta” per i più giovani. La decisione è arrivata dopo la denuncia di alcuni genitori, per cui il testo sacro conterrebbe troppi riferimenti a incesti, prostituzione e stupri. Segnalazione a cui il comitato del distretto scolastico ha dato ragione, stabilendo che la Bibbia non è adatta ai più piccoli. L’anno scorso, infatti, lo Stato ha approvato una normativa che consente ai distretti scolastici di ritirare libri considerati ad alto contenuto pornografico o poco appropriati, imponendo però loro di includere, nella decisione finale, i genitori dei ragazzi. E alla fine il comitato di revisione distrettuale ha rilevato che, sebbene la Bibbia non contenga quel tipo di materiale sensibile definito dalla legge, include comunque elementi di “volgarità o violenza” che vanno evitati.

È solo l’ultimo delle centinaia di episodi simili che si inseriscono in quella che negli USA sembra essere diventata una vera e propria tendenza, messa in campo per limitare e controllare ciò che leggono gli studenti, con l’obiettivo moralistico di tenerli “al riparo” da contenuti giudicati pericolosi (come quelli sulla sessualità e la violenza) oppure discriminatori. L’anno scorso una scuola del Texas, ad esempio, ha deciso di ritirare 41 libri tra i quali la Bibbia e una versione illustrata del ‘Diario di Anna Frank’. La American Library Association (Ala) e la Pen America, organizzazioni no profit che difendono la libera espressione, dicono che nelle biblioteche scolastiche USA l’intromissione dei genitori per richiedere di vietare alcuni testi è in continuo aumento. Tant’è che si è passati da 1-2 libri proibiti all’anno del 2015 a 5-6 messi all’indice ogni giorno (tra il primo luglio 2021 e il 31 marzo 2022 sono stati vietati nei distretti scolastici più di mille tomi). E così «testi di importanza storica mondiale, come la Bibbia, possono, attraverso l’attuale prisma di come i libri vengono valutati, finire in questa pila proibita», ha commentato Jonathan Friedman, direttore di Pen.

Una smania censoria che si sta facendo largo anche in Europa. Perché, quando non si vietano, la tendenza è quella di riscrivere i grandi testi per rendere i romanzi più conosciuti e influenti in linea con la sensibilità moderna. È accaduto ad esempio alle opere di Agatha Christie, le cui nuove edizioni pubblicate dalla seconda casa editrice più importante al mondo, la HarperCollins Publishers, sono diverse dalle originali. Non è un caso isolato. Alcuni dei capisaldi della letteratura del secolo scorso sono stati riscritti in quel che appare un atteggiamento capitanato da un politicamente corretto intriso di ipocrisia, piuttosto che da una profonda attenzione alla sensibilità. Il linguaggio è specchio della storia umana e segue di pari passo l’evoluzione sociale, politica, culturale. Eliminare o riadattare il modo d’esprimersi di un’autrice fondamentale come la Christie, perché potenzialmente offensivo, somiglia più a un’operazione di censura che a un modo per mostrarsi rispettosi nei confronti delle consapevolezze odierne.

L’importanza attribuita alla letteratura risiede anche nel suo essere mezzo per comprendere la storia, conoscere, non ripetere errori passati, sviluppare una propria vena critica, oltre ad asservire un profondo bisogno di conoscenza e di svago inerente da sempre all’essere umano. L’autrice, attenta osservatrice della propria contemporaneità, ha narrato con le sue opere, tradotte in tutto il mondo, anche un contesto storico, senza dubbio crudo e lontano da quello odierno. Ma comunque reale. E come lei tanti altri, che non meritano, in egual modo, di essere cambiati o dimenticati. [di Gloria Ferrari]

Controcultura. Il politicamente corretto è la nuova Inquisizione. Nel suo nuovo saggio, Bassani svela le origini storiche e il presente aberrante in cui chierici zelanti puniscono chi contesta i dogmi. Carlo Lottieri il 28 Maggio 2023 su Il Giornale.

Fino a pochi anni fa quando si evocava la questione della tolleranza era in riferimento al mondo extra-occidentale: al fatto che ancora oggi, in talune aree, abbiamo regimi comunisti oppure fondamentalisti che perseguitano quanti non seguono in tutto e per tutto le indicazioni degli ayatollah o dei leader politici. Il recente volume di Luigi Marco Bassani, Tolleranza (Liberilibri), sottolinea come la scena sia molto cambiata e come si assista nel nostro universo a un processo che sta poco alla volta conducendoci verso quello che l'autore definisce un totalitarismo soft. D'altra parte, Bassani ha vissuto in prima persona un'esperienza significativa al riguardo, dato che è stato sospeso dal suo ateneo ed è stato sottoposto a un vero e proprio linciaggio mediatico per il semplice fatto di avere condiviso su Facebook un «meme» critico sulla spregiudicatezza con cui la seconda personalità politica più potente al mondo, Kamala Harris, ha costruito il suo cursus honorum. In ragione del fatto che la Harris (come Maria Antonietta, Margaret Thatcher o Nicole Minetti) appartiene al genere femminile, la semplice condivisione di giudizi non lusinghieri nei suoi riguardi è stata sufficiente ad allestire una ridicola quanto spietata macchina persecutoria. Nel volume la riflessione di Bassani ha un profilo storico: mostra come spesso le minoranze si siano trovate nell' impossibilità di esprimersi, e come in qualche circostanza mutati i rapporti di forza siano però diventate a loro volta oppressive. Ma la riflessione è soprattutto sul rapporto tra il concetto di tolleranza e il potere dello Stato, perché una delle tesi forti di Tolleranza è che l'accettazione delle diverse confessioni soprattutto dopo le guerre di religione è da leggersi all'interno di un percorso che ha portato al trionfo di altri dogmi: stavolta non religiosi, ma politici. È insomma lo Stato moderno che, anche al fine di depotenziare il prestigio della fede cristiana e collocare la religione ai margini della scena, ha alzato la bandiera di una (limitata) libertà di pensiero sulle questioni riguardanti Dio, sempre a condizione che nessuno osasse più alzare obiezioni in tema di rispetto della legalità, ossequio ai potenti e fedeltà fiscale. L'intera vicenda che ha portato alla libertà di pensiero, d'altra parte, è tutt'altro che lineare e priva di equivoci. Il termine stesso «tolleranza» rinvia all'atteggiamento di chi, detenendo il potere sovrano, «sopporta pazientemente che alcuni sudditi abbiano credenze religiose devianti». E oltre a ciò in varie circostanze s'è imposto il tema, al centro pure di alcune considerazioni di Karl Popper, della difficoltà a tollerare gli intolleranti: il che ha spesso condotto a una prospettiva non soltanto viziata da questioni ideologiche, ma anche segnata dalla presunzione di chi si ritiene ancor prima che ognuno apra la bocca di stabilire dove stanno il torto e la ragione. Oltre a ciò, è fuori di dubbio che il «politeismo» culturale e religioso della modernità è stato in larga misura reso possibile dal «monoteismo» politico: dal trionfo dello Stato. È stata una sorta di astuzia della ragione, lascia intendere Bassani, che a un certo punto della vicenda europea ha condotto i detentori del potere sovrano a liberalizzare il teatro del confronto religioso al fine di depotenziare tutto ciò che avrebbe potuto contrastare le ambizioni illimitate del Leviatano. Il testo si chiude con un'analisi spietata della realtà presente, segnata dalla violenza di un nuovo spirito intollerante. Riflettendo su come i margini del confronto e della ricerca intellettuale si stiano drammaticamente restringendo, Bassani mette in risalto alcune cose fondamentali. Innanzi tutto, è chiaro che la Nuova Inquisizione riguarda coloro che professori, giornalisti, politici e altre figure pubbliche intervengono all'interno della discussione generale: siamo di fronte al «disciplinamento dei chierici da parte dei chierici». Ne risulta un mondo diviso in due, nel quale i più in linea di massima possono esprimersi come vogliono, ma questo non è consentito sulla base di una pedagogia bigotta a quanti hanno una qualche visibilità e possono incrinare una certa «egemonia». Otre a ciò, l'intero sistema si regge su supposte evidenze che nessuno è autorizzato a contestare. L'elenco dei nuovi dogmi è lungo, ma certo include principi più o meno consolidati all'interno delle aristocrazie dell'Occidente: l'idea che il riscaldamento globale sia di origine antropica, che l'uomo bianco ed eterosessuale sia colpevole di quasi ogni nefandezza, che sul pianeta si sia troppi, che il genere di ognuno di noi non sia definito dalla nascita e dalla biologia, che di fronte a ogni virus il potere sia legittimato a procedere ad arresti domiciliari generalizzati, che la tassazione sia bellissima e l'uso del contante vada avversato, e via dicendo. Da conoscitore delle questioni americane (e dagli Usa ci viene ormai qualsiasi cosa di rilievo, nel bene e nel male: compresa, naturalmente, l'ideologia del politically correct), Bassani sottolinea come al cuore dell'intolleranza contemporanea che pretende di dettare le modalità e i contenuti di ogni comunicazione vi sia, in larga misura, la filosofia politica del multiculturalismo, intesa come una costante lotta dei poteri pubblici contro ogni forma di diseguaglianza di gruppo, culturale, economica, simbolica e via dicendo. Gli intellettuali progressisti del Nord America hanno deciso che un secolo dopo la fine della schiavitù statunitense l'umanità bianca dovesse avviare un cammino di autopurificazione, che doveva avere come punto di partenza la consapevolezza che questa porzione del genere umano era colpevole di ogni malvagità compiuta nella Storia. Una serie di detriti culturali del marxismo ormai reinventatisi grazie a genderismo, ecologismo, terzomondismo ecc. hanno abbandonato al loro destino il proletariato occidentale, trovando nuovi sfruttati da proteggere ed elaborando un inedito catechismo civile che costruisce «una censura a monte di ogni pensiero espresso o addirittura abbozzato in silenzio». Il cinismo dei ceti egemoni e il conformismo di quello che in George Orwell è chiamato il «partito esterno» hanno così buttato nella spazzatura alcune grandi conquiste: a partire dall'idea (ben chiara ai padri fondatori degli Stati Uniti) che una cosa sono gli atti linguistici e tutt'altra le azioni violente e aggressive. Di conseguenza, la libertà di espressione è stata cancellata. Ma se instaurare un regime sovietico è un crimine, bisognerebbe continuare a difendere in tutti i modi la libertà di stampare i volumi di Karl Marx e (per chi lo vuole) pure di propagandarne le idee. Fortunatamente l'ideologia del politicamente corretto è un'assurda rivolta contro la natura che si costituisce intorno a paradossi insuperabili. C'è però bisogno di testi coraggiosi come questo perché le nebbie si diradino e si tornino a rivendicare quelle preziose libertà ormai in larga misura perdute.

La mamma cucina e il papà lavora? Basta sessismo e pregiudizi nei libri di scuola. Paolo Di Paolo su L'Espresso l11 Maggio 2023.  

Ruoli senza stereotipi. Identità complesse. Sguardi diversi sulla Storia. Antologie e sussidiari devono oggi tenere conto di sensibilità nuove. Per una visione più aperta del mondo

Inciampare in un problema di matematica con qualche sfumatura sessista è un’esperienza disarmante ma non rara. Anche una situazione di partenza ovvia – la mamma che cucina o lava i piatti (mentre il papà è irreperibile) – salta all’occhio se si hanno lenti, non dico nuove, ma almeno un po’ “aggiornate”.

Stereotipi razzisti e schemi pregiudiziali di varia natura possono spuntare anche dove non dovrebbero e dove non li aspetti: nei libri di testo adottati a scuola. Vuoi perché vetusti, rispondenti cioè ai parametri di un mondo superato dagli eventi, vuoi perché in mano a esperti poco sensibili, il risultato può essere catastrofico. Liquidare la questione con i parametri – spesso un po’ grossolani – del politicamente corretto è facile, ma meno interessante di quanto sia invece interrogarsi su come rispondere, nel lavoro sui libri di scuola, alle «nuove sensibilità». O meglio – come mi suggerisce subito Vera Gheno, sociolinguista e saggista ora in libreria con la curatela di “Parole d’altro genere. Come le scrittrici hanno cambiato il mondo” (Rizzoli Bur) – a «soggettività sempre esistite, ma che non hanno mai avuto granché dignità di parola; che hanno sofferto di ingiustizia epistemica, ossia dell’idea di non poter essere produttrici di cultura». 

Ecco il punto: un difetto dello sguardo. Comprensibile sul piano storico? Di sicuro. Accettabile nel presente? No. «La proposta di testi nelle scuole – continua Gheno, che sta lavorando a una nuova grammatica per il biennio delle superiori – dovrebbe maggiormente tenere conto della variabilità umana in termini di genere, ma anche di etnia, religione, disabilità, neurodiversità, cultura. Dove, se non a scuola, si può abituare la persona a tenere una postura cognitiva curiosa e non monolitica?». Domanda decisiva, obiettivamente. Non che la risposta concreta sia facile, ma sono spesso gli studenti e le studentesse a manifestare l’esigenza di sussidiari, antologie, perfino eserciziari meno convenzionali nella rappresentazione del mondo. Non si tratta, come vorrebbe la caricatura, solo di attivisti “woke”, i più attenti e operativi cioè rispetto alle ingiustizie sociali e politiche, o di araldi della “cancel culture”: no, si tratta di esseri umani con anagrafe nel ventunesimo secolo giustamente perplessi di fronte a una rappresentazione fin troppo parziale delle identità, delle relazioni, perfino della storia universale.

Gli strumenti sui banchi non possono che presentarsi più inclusivi, più duttili, più aperti: questo richiede ai curatori una maggiore attenzione nel disegno complessivo e nelle scelte. E accende una serie di interrogativi ulteriori: siamo sicuri di aver studiato fin qua la grammatica nell’unico modo possibile? Siamo sicuri che il cosiddetto “maschile sovraesteso” sia indiscutibile? Siamo sicuri che la letteratura proposta con una sproporzione così marcata a favore degli scrittori e a svantaggio delle scrittrici sia solo un “dato storico”? E ancora: siamo sicuri che il mondo su misura di “Wasp”, maschio bianco occidentale, sia una prospettiva incorreggibile?

Ecco: dove non siamo più sicuri, accade qualcosa. E al di là dei parametri – talvolta obiettivamente rigidi – definiti dai programmi ministeriali, dalle griglie di valutazione delle (parola che resta insopportabile) “competenze” e dalle prove di fine ciclo scolastico, c’è uno spazio largo e creativo per rompere schemi, rimodellare saperi, o anche più semplicemente: per cambiare punto di vista.

Se si tratta di letteratura, per esempio, che cosa succede? Ho avuto l’occasione di mettere a fuoco la questione lavorando all’antologia per il biennio delle superiori “L’infinito narrare”, redatta con Giusi Marchetta, Maria Rita Petrella e Massimo Recalcati e pubblicata da Feltrinelli, editore appena sbarcato nella scolastica.

Rispetto alla storia letteraria, condizionata dalle tappe cronologiche, un’antologia offre una maggiore libertà di scelta; e ricordo con un certo divertimento le ore passate a mettere sul tavolo brani di autori e autrici con cui si ha un qualche legame, a stilare interminabili liste di possibilità. Questo o quello? Chi buttiamo giù dalla torre? Fare l’elenco dei versi irrinunciabili, delle pagine del cuore è un piacevolissimo esercizio di memoria. Ma non basta.

Forse non sembra al primo sguardo, ma un’antologia può tradursi anche nella consegna di un’eredità emotiva prima che intellettuale. Ti passo Rodari e Wislawa Szymborska, Toni Morrison e Milo De Angelis. È importante che l’itinerario proposto aiuti chi studia a familiarizzare con i generi e le forme, ma è altrettanto decisivo che non si perda di vista un impatto immediato, “confidenziale” con i testi.

Per l’antologia “La seconda luna”, ideata da Alessandro Baricco e realizzata dalla Scuola Holden, è stata fatta la scelta radicale di alleggerire gli apparati (introduzioni, note) fino quasi al punto di farli scomparire. Il presupposto è coraggioso: se acquisti un romanzo in libreria, in effetti, la pagina è sgombra: c’è il testo e non quel sovraccarico di richiami, box e sottolineature che hanno reso negli ultimi due decenni la grafica di molti libri di scuola troppo calcata su quella del web.

Per “L’infinito narrare” abbiamo privilegiato in molte occasioni i racconti, le short story: così da offrire diverse esperienze di lettura integrale. Fare in modo che il giovanissimo lettore e la giovanissima lettrice mettano i piedi a mollo come si fa in piscina o al mare per sentire se l’acqua è fredda è essenziale; e in questo senso eliminare qualche soglia, qualche filtro, cappello o cornice di troppo può essere una buona strategia. E gli esercizi? La parte applicativa? «Credo che i libri di testo debbano scegliere i modelli didattici con maggiore consapevolezza», dice Simone Giusti, saggista e docente di didattica della letteratura a Siena: «Oggi gli esercizi sono troppi e frutto della stratificazione progressiva di paradigmi didattici in gran parte superati». E invoca il coraggio di ridurre gli apparati, rendendo esplicite le intenzioni.

Il rischio, nel complesso, è disorientare il primo interlocutore dei manuali, ovvero il docente. Non è una questione di conservatorismo o di culto della tradizione, ma in molti casi di semplice e radicata abitudine. Anche rimodellare il canone significa sfidare la routine: Giusti rammenta che dai testi di italiano passa «la responsabilità e la possibilità di scegliere quali aspetti della cultura rendere visibili alle nuove generazioni»: «Sono come fasci di luce che si accendono su specifici oggetti culturali, lasciandone nel buio tantissimi altri. È quindi ovvio che si chieda ai libri di non essere frutto di un unico sguardo e di moltiplicare le fonti di luce». Non sono in gioco solo le diverse sensibilità del “pubblico” studentesco («è necessario cercare di rendere conto della varietà dei temi, delle situazioni, dei personaggi e dei generi»); contano anche i codici, i generi, gli spazi meno esplorati: plurilinguismo, letteratura popolare, letteratura per l’infanzia. Come si comincia? «Recuperando bibliografie nuove da chi si occupa di narrazioni che non hanno trovato voce», propone Giusi Marchetta, scrittrice che lavora da anni sulla formazione dei nuovi lettori e che nel recente “Principesse” (Add) cerca di individuare nelle fiabe tradizionali le gabbie del sessismo e del razzismo che hanno condizionato l’immaginario per generazioni. Cercare autrici e autori non bianchi, non europei, «ma farlo a partire anche da studi prodotti non da bianchi europei», aprire le porte alla letteratura young adult e alla letteratura per l’infanzia di qualità per creare nuovi percorsi che siano veramente inclusivi e raccontino un mondo di differenze». Forse la parola chiave è proprio questa: differenza. Come difformità, segno di singolarità, eccentricità: in senso letterale.

Non c’è un’unica storia, non c’è un’unica prospettiva, non c’è e non è accettabile un’unica visione. La letteratura, anzi le letterature ci allenano a esplorare, attraverso l’immaginazione, la multiforme varietà dell’umano; e da questo punto di vista racconti e romanzi possono offrire un’alternativa vitale a stereotipi, etichettature grossolane, cristallizzazioni, modelli che si vogliono stabili e per fortuna non lo sono. È un’occasione straordinaria per leggere il mondo senza farsi ricattare dai luoghi comuni. E per risvegliare il cantastorie che è «nel profondo di ciascuno di noi». Così scrive Doris Lessing, Premio Nobel per la letteratura, nel brano con cui abbiamo scelto di aprire “L’infinito narrare”. Ci invita a immaginare – non è difficile – un mondo segnato dalle guerre, da calamità, da orrori, città devastate da alluvioni… «Il cantastorie ci sarà sempre, perché è la nostra immaginazione ciò che ci modella, che ci mantiene, che ci crea – nel bene e nel male. Sono le nostre storie che ci ricreano quando siamo lacerati, feriti, perfino distrutti. È il cantastorie, il creatore di sogni, il creatore di miti, che è la nostra fenice, che ci rappresenta al nostro meglio e nella nostra forma più creativa».

Estratto dell’articolo di Francesco De Remigis per “il Giornale” l'11 maggio 2023.

Quando un’ex terrorista di sinistra condannato per concorso in omicidio è stato invitato all’Università di Bordeaux (Jean-Marc Rouillan), […] la sua conferenza si è svolta regolarmente il 28 marzo scorso mentre la Facoltà era occupata da un pugno di studenti. Ma alla «notizia» che domani alla Sorbona di Parigi sarebbe dovuta intervenire l’antropologa 58enne Florence Bergeaud-Blackler, ricercatrice de Cnrs, istituto di ricerca pubblico d’Oltralpe, il mondo accademico è andato in cortocircuito.

 Ecco il paradosso francese: un ex terrorista «rosso» può parlare, la ricercatrice che si occupa di islam no. «Sospeso» il convegno per presunte «ragioni di sicurezza». Era stata invitata dal direttore didattico del corso sulla laicità Pierre-Henri Tavoillot. Doveva partire dal suo ultimo libro, Le frérisme et ses reseaux, studio-inchiesta dedicato ai Fratelli Musulmani e alla loro influenza in Francia. Ma no; Bergeaud-Blackler viene a sapere da terzi che la preside della Facoltà di Lettere, Béatrice Perez, aveva chiesto la «sospensione» dell’evento per non «gettare benzina sul fuoco», in un contesto segnato dal movimento contro la riforma delle pensioni. La realtà è parsa subito ben diversa. 

Pochi giorni fa, quando lei aveva aggiunto su Twitter il link per registrarsi all’evento, era partita la solita campagna di delegittimazione riservata a chi tocca l’islam politico denunciandone l’azione. «Cospiratrice, razzista, islamofoba», fino a minacce di morte, che avrebbero spinto la Sorbona all’autocensura, cancellando l’incontro con la studiosa senza una telefonata. Stavolta, però, su tv e radio si è gridato allo scandalo. Editorialisti e conduttori, da Cnews a BfmTv, si sono chiesti in che Paese si stesse vivendo; se sale in cattedra un terrorista e una ricercatrice no.  

L’antropologa non è infatti una signora «nessuno», ma l’autrice di svariati lavori scientifici, notissima tra gli addetti ai lavori per studi sull’islamismo e già nel mirino dei musulmani[…] Smuove le acque il legale della 58enne, accusando di «lassismo» l’università che anziché difenderla cancella il dibattito. «Denigrare, dare dell’islamofobo a chi critica l’islam politico dimostra il pericolo dell’avvenire della società europea». 

[…]Bergeaud-Blackler non se n’è stata in un angolo. Ieri è andata in tv, anche per chiedere se la ministra dell’Università e della ricerca Sylvie Retailleau avesse qualcosa da dire, a parte un tweet retorico. «C’è un tabù nell’università francese sull’islamismo che rende la ricerca quasi impossibile - tuona - dalla decapitazione di Samuel Paty, chi resisteva ancora ha una tale paura che si è quasi arreso».  

Aveva già analizzato la diffusione del cibo halal nelle scuole; si è occupata di sicurezza nelle banlieue e il suo lavoro ha contribuito anche a scrivere leggi. Andare però a indagare la sfera di influenza e i metodi della Fratellanza e le sue reti l’ha fatta diventare un bersaglio prioritario, al punto da vedersi assegnata una scorta. La conferenza «non è né cancellata né censurata, ma rinviata a data da destinarsi», fa sapere la Sorbona, tentando di sedare le polemiche. […]

Estratto dell’articolo di Francesco Boezi per “il Giornale” l'11 maggio 2023.

Alessandra Mussolini, europarlamentare di Forza Italia, ha presentato una denuncia e un’interrogazione per l’impossibilità (poi venuta meno) di creare un nuovo profilo Instagram. L’azzurra ha comunque comunicato quanto segue: «Si sono messi in contatto con me (da Meta), si sono scusati del disservizio, perché c'è stato un fraintendimento, e quindi mi hanno aperto l'account Instagram. Vittoria».

Onorevole ma cosa è successo?

«[…] Io avevo un profilo vecchio, quello collegato alle mie attività televisive, quando per un periodo ho fatto altro e non politica. Ho provato ad aprire un account nuovo, per raggiungere gli elettori. […] Ma l’operazione non è riuscita. Quindi ho fatto tutte le richieste del caso e mi è stato chiesto d’inviare una mia foto, con un codice che mi avrebbero inviato. Fatta la procedura, mi è stato comunicato di dover aspettare 24 ore».

E poi?

«E poi mi è stato risposto che non era possibile aprire un nuovo profilo per via della policy della community, specificando come la decisione fosse assolutamente inderogabile». 

E lei pensa che questo niet sia dovuto al suo cognome.

«Ma assolutamente sì. Perché - vede - noi siamo in mano a questi algoritmi che procedono attraverso delle parole chiave. Dunque mi hanno persino suggerito di aprire un profilo, modificando il cognome in M-ussolini o Mussolin-i. Ma le pare che io mi metto a scimmiottare il mio cognome? Poi ho fatto delle prove. Ovviamente un profilo denominato Alessandra Gramsci o Alessandra Berlinguer sarebbe subito stato avallato. E questo immagino perché siano cognomi legati all'emisfero di sinistra».

E come ha risolto la faccenda?

«Ho fatto una denuncia e, col nostro capogruppo Fulvio Martusciello, abbiamo anche preparato un'interrogazione. Visto che si fa un gran parlare di libertà... . Io mi chiamo Alessandra Mussolini, e faccio politica da venti anni, perchè sono figlia di Romano Mussolini e di Maria Scicolone.  Nel mio caso c'era anche l'aggravente, per così dire, che fossi parlamentare europea. […] Siamo davvero in mano a degli algoritmi ottusi. Altro che intelligenza artificiale, qui bisognerebbe parlare di deficienza artificiale». […]

Per James Bond una nuova missione impossibile: salvarsi dalla censura. I romanzi di 007 nel mirino degli "editori sensibili", così si rischia di perdere lo spirito di Ian Fleming e del suo tempo. Davide Bartoccini il 9 maggio 2023 su Il Giornale. 

Dopo le beghe per le trasposizioni cinematografiche piegatesi all'egemonia progressista di Hollywood, la beffa dell’editamente corretto per il povero James Bond, chimera del frigido panorama istituzionalizzato che osanna l’oscenità woke e supporta l’appiattimento culturale non richiesto, invocare di castrazioni storiche e editoriali come vendetta sul patriarcato fantasma e chi in libertà scelta lo ignora, e tuttalpiù, di fronte a tale scempio si volta dall’altra parte. O se deceduto - come Ian Fleming - si rivolta, nella tomba.

Questo perché la notizia che qualcuno avrebbe deciso di riscrivere l’intera saga dell’agente 007 avvalendosi del tatto di quelli che vengono chiamati sensitivity readers - e si premetta che non hanno nulla a che fare con il paranormale ma solo con l’assenza di rispetto per l’autore - pare essere confermata. A sentir loro Ian Fleming, il geniale e bisbetico ufficiale del servizio informazione della Royal Navy che ponderò alcuni tra i piani più audaci e stravaganti dell'ultima grande guerra, prima di iniziare uno dei romanzi di spionaggio più famosi di sempre, deve "adeguarsi ai tempi". Eppure, chi lo conosce bene il personaggio sa quanto James Bond, l’agente segreto al servizio sua maestà messo su carta nel lontano 1953 sia essenzialmente un elegante e cocciuto ribelle che detesta il conformismo e adora la semplice ricercatezza nella vita, nonostante abbia trascorso un'infanzia dura, segnata da mancanze, solitudine e dispiaceri.

Bond, James Bond, nome scelto da Fleming per la sua immediata semplicità dopo averlo letto sulla copertina di un libro di ornitologia, ha perduto entrambi i genitori quando aveva soltanto undici anni. Erano in montagna a Chamonix. Così viene cresciuto dalla sorella di suo padre del Kent. Si chiama Charmian, è scozzese, antropologa e non sposata. Qualcosa che non possiamo sapere se influisca o meno sulla formazione sentimentale del giovane James, che si arruola in Marina allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale mentendo sulla sua reale età - aveva 17 anni - e dopo essere diventata capitano nei commandos torna a casa con poco denaro in tasca, una vecchia Bentley lasciata in garage, comprata facendo un bell'affare come è consuetudine per quel genere di uomini che investono sul gusto e sull'intelletto a discapito della ricchezza, e un certo talento nel saper uccidere. Da quel momento diventerà un agente dell'MI6, il servizio di spionaggio britannico che gli concede la "licenza" di continuare a uccidere per conto del Regno Unito e della corona: la sola istituzione alla quale non si ribellerà, mai.

Licenza di uccidere, o almeno censurare

Scapolo impenitente, intenditore di vini francesi e cocktail raffinati quanto di abiti sartoriali e femmine piacenti, una delle cose che sembra preferire al mondo dopo il Dom Perignon del '53, rigorosamente servito ad un temperatura inferiore ai 4° centigradi, James Bond è finito nel mirino del politicamente corretto perché è senza alcun dubbio un prototipo ideale di quello che sui social iniziano a chiamare MBEB - che non è l'acronimo di una nuova manovra finanziaria, ma sta per Maschio Bianco Etero Basic. A questo si aggiunge il lessico poco inclusivo di cui Ian Fleming, asserragliato nella sua villa giamaicana chiamata Golden Eye, ha infarcito i suoi dodici dei suoi "pericolosi" romanzi, e due raccolte di racconti.

È qui infetti che arrivano gli editor sensibili, una nuova piaga della letteratura che dopo aver puntato le favole di Roald Dahl, ha messo nel mirino l'agente 007 per censurare tutto quel che verrà bollato come sessista, razzista, maschilista e non inclusivo. Ogni riferimento al colore della pelle dunque, con particolare attenzione alla completa eliminazione del termine dispregiativo “nigger”, per proseguire con la modifica, rettifica o addirittura cancellazione di tutti i passaggi considerati "sessisti o maschilisti". Ad esempio in Vivi e Lascia morire, secondo romanzo di Fleming datato 1954, una frase come "Bond sentiva il pubblico ansimare e grugnire come maiali al trogolo. Sentì le proprie mani stringere la tovaglia. Aveva la bocca secca.." usata per descrivere gli avventori di un nigth club, verrà modificata in "Bond poteva percepire la tensione elettrica nella stanza". A questo genere di tagli si aggiungeranno altri tipi di omissioni e modifiche, anche allusioni all'omosessualità o all'inefficienza di personaggi femminili.

A giustificare queste discutibili correzioni, pare sarà un disclaimer (che non italiani chiamiamo "clausola di non responsabilità, ndr) riportante quanto segue: "Questo libro è stato scritto in un momento in cui termini e atteggiamenti che potrebbero essere considerati offensivi dai lettori moderni erano all'ordine del giorno. In questa edizione sono stati apportati numerosi aggiornamenti, pur mantenendo il più vicino possibile al testo originale e al periodo in cui è ambientato."

Per il biografo di Fleming una "missione impossibile"

Secondo Andrew Lycett che ha curato una biografia sull'ormai vituperato Rudyard Kipling, e sul più attuale quanto inviso Ian Fleming, i suoi romanzi, scritti tra il '53 e il '64 - anno in cui muore prematuramente a causa di un infarto - erano scritti per "eterosessuali a sangue caldo (...) nei treni, negli aeroplani e nei letti". Insomma, adulti, coscienti, che si muovevano in una società moderna prima che modernità significasse l'avvento dei suggerimenti di nuovi “lettori espressione della sensibilità attuale” che in virtù dell'utopica e forzata inclusione, preferiscono correggere, stralciare o censurare passi che potrebbero urtare la sensibilità di qualcuno che molto probabilmente non sceglierebbe mai un romanzo di spionaggio scritto negli anni '50. E non per sfiducia aprioristica: solo per probabile preferenza personale.

E dire poi che Fleming i suggerimenti dei lettori li ascoltava, eccome. Note sono le lettere di risposta ai lettori che avevano criticato la scelta della prima pistola di Bond, puntualmente spedite e iniziate con toni docili e rispettosi: "31 maggio 1956, Caro signor Boothroyd, le sono davvero grato per la sua splendida lettera del.." etc. etc. Correggendo l'autore e il suo personaggio si perde una parte della "cifra di Fleming" e dello stile ineguagliabile del suo personaggio cinico e affascinante.

Per Lyncett i romanzi di Fleming, al pari di quelli di Shakespeare, Dickens e Kipling sono inoltre uno strumento letterario utile per contestualizzare e capire il tempo in cui sono stati ambientati e scritti: "la sofisticata interpretazione da giornalista del materialismo insensato di una società che emerge ammiccando nel mondo dopo le privazioni della guerra, desiderosa di nuove esperienze che includono viaggi all'estero e piacere sensuale", scrive sull'Indipendent riferendosi a Fleming. Certo, un tentativo si potrà pur fare, e si sta compiendo a quanto pare, ma, continua il Lyncett: "non c'è modo per rendere il Bond e i libri di Fleming politicamente corretti (..) Fleming ha creato un assassino sessista, spesso sadico, con atteggiamenti anacronistici".

Determinati intrecci, determinati personaggi, determinate tensioni e azioni non sarebbero possibili o credibili se il personaggio venisse censurato o snaturato, e questa rimane un'evidenza. Per tale ragione gli appassionati dei veri romanzi di Fleming continueranno a confidare almeno in quel “Quantum of Solace” - come direbbe lui - che potrebbe consentire a tutti di sopportare la lenta uccisione di James Bond sul grande schermo, tenenddolo al sicuro almeno sulla carta stampate. Del resto, se i sensitivity readers ci privassero anche di questa ultima spiaggia, non si dimostrerebbero tanto "sensibili" come si reputano.

Estratto dell’articolo di Giulia Cazzaniga per “la Verità” il 24 aprile 2023.

[…] Pietrangelo Buttafuoco […] 

[…] Che cosa ci ha impantanato?

«La deriva psicotica dell’ideologia occidentalista. Se si sfoglia il racconto dell’anglosfera, è una immensa cancel culture. Passa sotto silenzio la preside licenziata perché una sua insegnante ha mostrato il David di Donatello. Vogliono strapparci dalle carni il Rinascimento. Epurano persino Agatha Christie. È diventato normale proibire, in nome del bene assoluto che sarebbe rappresentato dalla società liberale».

Una divisione tra buoni e cattivi?

«Nei teatri arrivano disposizioni, occorre sottoscrivere un codice etico affinché le rappresentazioni non offendano questo e quell’altro. Ma basta pure accendere i canali Disney, per accorgersene». 

Pietrangelo Buttafuoco che guarda i cartoni Disney è una notizia.

«Possibile che prima di guardare Dumbo o gli Aristogatti mi debbano avvertire che potrei risultare offeso da “stereotipi”, come se potessero far male quanto un pacchetto di sigarette? […]». «[…] noi italiani siamo patria di cartoni eccezionali. Il gruppo Tnt è il mio preferito. Uno come Jacovitti oggi non potrebbe assolutamente pubblicare i suoi salamini: raffigurazioni falliche che sarebbero proibite».

Consiglia ai censori di andarsi a rileggere Jacovitti?

«Ormai ha preso il sopravvento la tirannia delle professoresse democratiche con il cerchietto». […] «Hanno sostituito quello che nell’immaginario di quaranta, cinquant’anni fa erano le beghine rintanate nelle parrocchie. Quelle che per De André non potendo dare il cattivo esempio…». 

…danno buoni consigli.

«Il “target” è facile da individuare. È quello che ogni sera si mette davanti alla tv a vedere l’intero palinsesto di La7, che poi costituisce la messa cantata di Sanremo. Parlano un codice che negli Stati Uniti d’America assume urti e spinte da guerra civile». 

Preoccupato che esploda anche qui?

«Siamo ancora nella fase strisciante. Le mode americane da noi arrivano tardi. Se si va in California […] è una immensa Ztl e ci si rende conto di cosa sia veramente l’apartheid. Se si accorgono che qualcuno vota repubblicano in un condominio, non solo gli tolgono il saluto, ma fanno la riunione per farlo cacciare via». 

Qual è l’idea di fondo?

«Se hai consapevolezza di essere “il bene”, pretendi che tutto, intorno, si pieghi alla tua idea». 

Violento?

«Più che violenza, è subdolo: trasformano chi la pensa diversamente in un imputato. Costruendo leggi apposta per trasformare chi dissente in un colpevole. Non aspettano che tu faccia qualcosa, ti tolgono prima dalla circolazione». 

Non è la destra a essere intransigente sui diritti, quelli civili ad esempio?

«L’unica strada che la destra si può consentire - e da quel che vedo nell’ambito della promozione culturale è già evidente - è di dare un riparo a chi non ha casa. Noi non dobbiamo andare a cercare chi ha il nostro stesso verbo. Al contrario, dobbiamo dare casa a chi è “spatriato”. A chi non ha la possibilità di organizzare una mostra dove è vietato, o pubblicare un libro, o ravvivare la forza e la tradizione dei classici altrove negati, qui lo può fare. Qui preserviamo le statue. […]».

Dare casa anche a chi la cerca disperatamente attraversando il mare?

«L’Italia ha il vantaggio di essere il luogo dell’universale. È il concetto che l’ha generata. La differenza fondamentale tra la civiltà greca e quella romana, sta nel fatto che Roma nasce in conseguenza di un arrivo, di un approdo». 

Fu Enea, e arrivava da Troia in fiamme.

«Accolto dai sovrani indigeni sulle coste laziali, innescò un percorso totalmente nuovo nella storia, un vero e proprio salto mentale. Lo sa che un rito antico dei padri fondatori di Roma per i pellegrini prevedeva che si arrivasse con un pugno di terra, per aggiungerla, mescolarla alla nostra? La dimensione universale poi si è ripetuta con Costantinopoli, e Mosca. Quando in Cina - in Cina! - ritrovano negli scavi archeologici la lupa di Roma, ne fanno motivo di festa. La nostra vocazione è questa: universale». 

E quindi, che fare oggi?

«A mio parere il governo dovrebbe dare alla possibilità per i ragazzi che vengono formati con la nostra lingua nelle scuole, un sicuro approdo». 

Parla di cittadinanza?

«Serve concretezza. Certo, bisogna fare i conti con la realtà: l’Italia non ha sovranità, ma il suo dna resta e deve restare capace di farsi forte della diversità». 

Che cosa ha pensato quando ha sentito parlare Lollobrigida di sostituzione etnica?

«[…] La stessa cosa si può anche dire in altri termini ed è inutile nascondersi dietro a un dito».[…] «Nelle provincie italiane, nei borghi e nei paesi dalla storia millenaria, dove prima c’erano quattro, cinque plessi scolastici e 12.000 abitanti, oggi ci sono una scuola e 5.000 residenti di cui 3.000 effettivi perché gli altri sono emigrati o fuori sede. La realtà è questa. Mi auguro semplicemente che si smetta di fare dichiarazioni con interviste e si punti ai fatti concreti. La destra ha vinto le elezioni perché rappresenta la realtà. Sa dove ero a Pasqua?».

In Sicilia?

«Esattamente. E ho assistito ai riti del Venerdì santo, e a quelli che portano alla domenica. Ebbene: c’era una folla enorme. E mi faceva sorridere che mentre sui giornali si parlava di Calenda, quella gente non sapeva neanche chi fosse. Questo non è il Paese dei 10.000 individui d’élite e pure miliardari». […]

Follie politicamente corrette. Ossessione woke: “Cleopatra è nera”. E gli egiziani si infuriano. Gli egiziani fanno causa a Netflix per la docu-serie sulla regina narrata e prodotta da Jada Pinkett. Max Del Papa su Nicolaporro.it 23 Aprile 2023

Chissà cosa lega Cleopatra alla sostituzione. La sostituzione etnica è quella cosa gesuitica che si fa ma non si dice, che si presenta, si impone per cosa fatta, come il capo di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, quello che in nome dei poveri non si perde un potente, un ricco, un contesto di potere. Gesuitica, farisaica faccenda per cui se la agita Lollobrigida è inaccettabile ma se ad evocarla è la sinistra ambigua allora va tutto bene, avendo la sinistra licenza di piegarla alla bisogna, ora nefandezza indotta dal capitalismo ora opportunità indotta dal capitalismo.

La sostituzione etnica poggia sulla comunicazione affarista, sull’industria dello spettacolo pubblicitario che cambia pelle e pigmenti. Cleopatra nera che fa incazzare, giustamente, gli egizi perché c’è sempre un nero più nero che ti fa nero oppure un nero meno nero che ti sbianca e procede in forme anche paradossali: al Cairo sono arrivati a citare in giudizio Neflix. Tutti tengono in sospetto la sostituzione per ovvie ragioni ataviche, di appartenenza, di mutua riconoscenza, accogliere va bene ma annientarsi e così alla svelta, grazie, no. I confini non sono una astrazione capitalista, come nella canzoncina idiota di John Lennon, ma elementi di raccolta che tutti i popoli hanno inteso tracciare senza per questo negarne la porosità, la attraversabilità; ma c’era sempre un limes, un limite che nella attuale fase convulsa, forsennata, di stampo retorico europeista, è stato travolto: Mattarella va a Parigi a vagheggiare o vaneggiare di non più italiani ma italici, e così sancisce il definitivo superamento dell’integrazione in virtù della sostituzione. Così, da Presidente dello stato italiano e nazionale all’interno del continente squassato dalle ciclopiche infinite migrazioni, a ondate, a rovesci.

In Africa il senso del confine è più vivo e più spietato che mai, se volete conoscere davvero il razzismo, nero, dei neri sui neri, andate nel continente nero dove faide, lotte tribali, genocidi sono all’ordine del giorno. Neppure la globalizzazione dei traffici e delle guerre è riuscita a scalfire questa attitudine aggressiva, feroce. Il nazionalismo cinese è altrettanto spietato, la diffidenza orientale non la medichi con le grandi religioni senza dei o dalle divinità impalpabili. La sostituzione è qualcosa che, a questo punto, preoccupa e angoscia l’intera Europa, non quella di Bruxelles ma del blocco dell’Est, del Belgio che ormai la tiene per irreversibile, del nord continentale, muri e reticolati dappertutto, nell’Africa a nord del Sahara la Tunisia è diventata un caso, il presidente tunisino Saied l’ha detto a chiare lettere, non vogliamo neri, siamo già abbastanza mescolati; e poteva dire sostituiti. Ma l’industria del divertimento occidentale insiste, spinge, la Netflix in crisi per overdose di politicamente corretto pompa senza un domani questa sostituzione a tout prix e di ogni genere, etnico, sessuale, anche Heidi, la montanara elvetica, nera come il carbone insieme agli altri.

È un meme? Sì, è un meme, ma quanto distante dalla realtà? Chissà se, come agli egizi, anche agli svizzeri saranno girati i caveau. O gli orologi. Poi chissà perché tutti neri, Cleopatra gialla no, l’Uomo Ragno pellerossa no, tutti black devono essere. Ma anche tra i black le differenze, le sfumature sono infinite, e invece hanno inventato un termine, blackwashing, per giustificare la demenziale tendenza ad “annerire” tutto e tutti, da Achille alle Walchirie a Braccio di Ferro. È praticabile una sostituzione di fatto, concentrata, esplosiva? Secondo Mattarella e gli apprenti sorciers bruxellesi sì e lo dicono, non senza ironia: “Nessun paese va lasciato solo” davanti alle migrazioni bibliche; poi brindano e lasciano sola l’Italia, come sempre. Come se l’Italia fosse il posto giusto in cui riparare per i migranti cosiddetti economici. Quanti sono gli stanziali a vario titolo? Nessuno lo sa, si ipotizzano 7 milioni, oltre il 10%, con devastanti problemi di adattamento, di miscelamento cui nessuno, nemmeno più la Chiesa, osa più affrontare: si danno per scontati insieme alla sostituzione progressiva e il modo di spiegarli attinge alla retorica infantile, è di una pochezza sconcertante: “E allora nello sport? Non sono tutti italiani neri a vincere?”.

Sì ma la società dissociata è una faccenda un po’ più complicata di una sfida in piscina, su una pista o su un prato. Giovanni Sartori, il politologo, lo disse: l’integrazione non ha senso, gli islamici e i tribali non si integrano. Gli tolsero la rubrica sul Corriere. Ma è proprio così ed è patetico che i giornali della Sostituzione Unica si affannino ad omettere provenienze di stupratori e femminicidi: “Uomo di 38 anni abusa di giovane ragazza”. Poi si scopre che l’uomo è un egiziano e la giovane ragazza una bambina di 8 anni e tutto avviene in un centro di accoglienza. I confini, siano valli, muraglie, ponti levatoi, non sono frutto di istinti arianoidi ma del bisogno umano di riconoscersi e difendersi ma una informazione irresponsabile e miserabile opera per il grande equivoco, maschera la realtà, con la sua propaganda confonde le menti semplici.

In un sottopassaggio della stazione Garibaldi a Milano una ventenne o poco più, approcciata da un egiziano, non pensa a tutelarsi, lo ascolta, ne regge la conversazione, salgono insieme su un trenino regionale che poi si svuota, restano solo loro due e lui la prende, la violenta. Quando lo vanno a prendere ha in casa il giubbotto dello stupro e agli agenti dice: ma che volete, non ho fatto niente di male. Se la sostituzione è a questi prezzi, sono prezzi carissimi da pagare anche se la sinistra banchiera se ne disinteressa. Umberto Galimberti, filosofo a strascico, ha detto anche lui la sua sulle etnie africane che assicurerebbero maggiori prospettive in quanto “biologicamente più resistenti”. Notazione vagamente razzista, ma, andando nel senso della sostituzione acquisita e conveniente, va bene. Ma Galimberti questa cosa se l’è pensata da solo o l’ha copiata?

Max Del Papa, 23 aprile 2023

Estratto dell'articolo di Simona Marchetti per corriere.it il 18 aprile 2023.

Un insulto. Così Morgan Freeman giudica sia il termine «afroamericano» sia il «Black History Month» (ovvero, il «mese della storia dei neri» che si celebra negli Usa a febbraio e nel Regno Unito in ottobre) e per questo motivo vorrebbe che queste due espressioni sparissero dal gergo collettivo 

[…] «Pubblicamente posso dire che non mi piacciono due cose: il Black History Month è un insulto. Vogliono davvero relegare la mia intera storia ad un solo mese all’anno?», ha spiegato l’85enne attore in un’intervista al Sunday Times […] 

«Anche il termine “afroamericano” è un insulto - ha precisato - Non mi riconosco in questo appellativo. Le persone nere hanno avuto diversi nomi fino alla parola che inizia per N e non so come queste cose abbiano una simile presa, ma oggi tutti usano “afroamericano”. 

Cosa significa veramente? La maggior parte delle persone nere in questa parte del mondo è meticcia e considerano l’Africa come un Paese, quando in realtà è un continente, come l’Europa». A parte le espressioni razziali poco gradite, l’industria cinematografica è però cambiata molto negli ultimi anni. 

«[…] Ora si vedono tutti sullo schermo e questo è un passo in avanti enorme», ha ammesso il vincitore del premio Oscar […]

Prof inglese punita per un "Ciao ragazze". Le allieve: "Non tutte ci sentiamo femmine". Storia di Gaia Cesare su Il Giornale il 19 aprile 2023.

«Buon pomeriggio, ragazze». Per questo saluto, apparentemente innocuo, pronunciato di fronte alla sua classe, per di più in una scuola femminile, in Gran Bretagna, un'insegnante è stata prima richiamata dalla direzione, poi sottoposta a procedimento disciplinare e infine lasciata a casa a scadenza del suo contratto annuale. Succede anche questo nel Regno Unito alle prese con il dibattito e le decisioni istituzionali sulla disforia di genere, il disagio di chi sente la propria identità diversa dal sesso biologico, di chi è nato uomo ma si sente donna o viceversa.

La storia emerge proprio mentre il governo è alle prese con nuove linee guida, che saranno diffuse entro qualche settimana, destinate agli istituti scolastici sul tema degli studenti transgender. Della testimonianza dell'insegnante, riportata da Mail on Sunday e Times, si sa che è stata rilasciata nell'ambito di un lavoro indipendente, commissionato dal Servizio sanitario e condotto dalla consulente pediatra Hilary Cass, ex presidente del Royal College of Pediatrics and Child Health, con l'obiettivo di «formulare raccomandazioni sui servizi forniti a bambini e giovani che stanno esplorando la propria identità di genere o sperimentano incongruenze di genere». La vicenda pare risalga al 2021 e la professoressa, docente in una scuola privata da 20mila sterline l'anno (23mila euro) racconta che tutto è accaduto dopo un'assemblea su «diversità e inclusione», su generi e pronomi. Dopo il suo saluto - «buon pomeriggio, ragazze» - alcune allieve, la cui età è di circa 11 anni, si sono ribellate sostenendo che «non tutte qui si identificano come femmine». L'indomani, le studentesse hanno scritto i loro nomi alla lavagna e scelto i pronomi, maschili o femminili con cui essere identificate. Qualcuna ha stabilito che fosse preferibile ess*/loro (they o them, in inglese). E il giorno dopo è persino scattata una protesta a pranzo, dopo che l'insegnante di religione si è rifiutata di accettare la richiesta, mentre la protagonista del racconto ha avvisato le ragazze che se avessero davvero voluto essere identificate diversamente lei avrebbe dovuto coinvolgere i genitori. Conclusione: richiamo alla prof dalla direzione, richiesta di scuse, che la direttrice ha porto al posto dell'insegnante, alla sua presenza - circostanza definita «umiliante» dall'interessata - e infine nessun rinnovo di contratto alla scadenza. «Nessuno qui vorrebbe farvi del male e siete tutte/i (in inglese genericamente all) davvero amate/i da noi - ha detto la direttrice - Mi dispiace che vi siate arrabbiati/e (in inglese è neutro) e non intendevamo offendere. Siamo dispiaciuti che ci siate rimasti/e male».

Nel Regno Unito, al momento, bambini e adolescenti possono sottoporsi legalmente a trattamenti su base medica, come la prescrizione di bloccanti della pubertà, ma gli interventi chirurgici di riassegnazione di genere sono vietati fino ai 18 anni. Il report del think tank Policy Exchange ha rilevato che il 40% di 150 scuole d'Inghilterra che hanno risposto alla richiesta ha lasciato finora che gli studenti cambiassero il loro genere identificativo senza il consenso dei genitori. Ora il ministero dell'Istruzione produrrà linee guida sul tema della transizione sociale entro qualche settimana. Secondo anticipazioni del Times, chi si identifica con un genere diverso da quello della nascita non potrà condividere spogliatoi e docce con il sesso opposto. Le famiglie dovranno essere avvisate se la/lo studente vorrà essere identificato con un nome diverso o indossare un'altra uniforme. Divieto di giocare in squadre femminili in caso di sport di contatto, regole più rilassate per gli altri sport.

Marco Giusti per Dagospia il 17 aprile 2023.

Devo dire che sono molto dispiaciuto per il film di Matteo Garrone, “Io capitano” che non è stato scelto per il concorso di Cannes. 

Non sarà la stessa cosa uscire senza Cannes e Venezia mi sembra già molto affollata. Magari non lo ha aiutato il tema, trattare una storia di emigrazione dal Senegal senza essere africano oggi può non essere un buon biglietto di presentazione in un festival così attento ai registi e alle registe africane. Dieci anni fa non ci avremmo pensato. Ora è diverso.

Io Capitano, film diretto da Matteo Garrone, racconta la storia di due giovani Seydou e Moussa (Seydou Sarr e Moustapha Fall), che partono da Dakar, in Senegal, per affrontare un lungo viaggio per raggiungere l'Europa. 

La loro diventa un'odissea nel mondo contemporaneo, che li porta ad attraversare il deserto e le sue mille insidie, i pericoli del mare aperto e lo stesso essere umano, pieno di ambiguità e ipocrisia. 

Le riprese del film, della durata di 13 settimane, sono state girate, oltre che in Senegal, anche in Marocco e in Italia. 

Il film è ispirato alle storie vere dei ragazzi che hanno compiuto il viaggio raccontato.

Cancel culture letteraria: riscrivere i classici per adattarli alla “sensibilità moderna”. Francesca Naima su L'Indipendente il 12 aprile 2023.

Le nuove edizioni dei romanzi di Agatha Christie, pubblicate dalla seconda casa editrice più importante al mondo, la HarperCollins Publishers, sono diverse dalle originali. Sono infatti state apportate modifiche per rendere i romanzi di una delle scrittrici più conosciute e influenti del XX secolo in linea con la sensibilità moderna, in quanto alcuni termini e riferimenti sono stati considerati potenzialmente offensivi. A darne notizia per primo è stato il quotidiano The Telegraph, che ha raccolto le testimonianze di alcuni lettori i quali, dalle edizioni del 2020 in poi, hanno notato vere e proprie alterazioni, specialmente per quanto riguarda I Misteri di Poirot e Miss Marple.

Alcuni dei capisaldi della letteratura del secolo scorso sono stati dunque riscritti in quel che appare un atteggiamento capitanato da un politicamente corretto intriso di ipocrisia, piuttosto che da una profonda attenzione alla sensibilità. Il linguaggio è specchio della storia umana e segue di pari passo l’evoluzione sociale, politica, culturale. Eliminare o riadattare il modo d’esprimersi di un’autrice fondamentale perché potenzialmente offensivo somiglia più a un’operazione di censura che a un modo per mostrarsi rispettosi nei confronti delle consapevolezze odierne.

I romanzi rivisitati sono stati scritti da Agatha Christie tra il 1920 e il 1976, in un contesto storico peculiare e ben definito che ben si riflette e viene reso immortale all’interno delle sue opere. La forza della scrittura, così come di molte altre forme espressive, sta infatti nel saper cogliere e raccogliere un’intera atmosfera e renderla senza tempo. La realtà che l’autore capta, per poi processarla e narrarla, è ormai esistita e passata.

L’importanza attribuita alla letteratura risiede anche nel suo essere mezzo per comprendere la storia, conoscere, non ripetere errori passati, sviluppare una propria vena critica, oltre ad asservire un profondo bisogno di conoscenza e di svago inerente da sempre all’essere umano. Si fatica dunque a comprendere come non sia stato possibile contestualizzare alcune espressioni utilizzate dall’importante autrice, attenta osservatrice della propria contemporaneità la quale con le sue opere, tradotte in tutto il mondo, ha narrato insieme ai propri racconti anche un contesto storico, senza dubbio crudo e lontano da quello odierno.

Nelle nuove edizioni in questione sono stati cancellati perlopiù riferimenti diretti all’etnia o figure retoriche scelte dall’autrice per trasmettere un significato che tuttavia oggi potrebbe risultare di cattivo gusto. Parole come “nativi” sono state sostituite da “locali” e intere espressioni sono state riadattate per addolcirle. In Poirot sul Nilo, quando il personaggio della signora Allerton si sente infastidito da alcuni bambini, reagisce bruscamente: «Tornano e fissano, e fissano, e i loro occhi sono semplicemente disgustosi, e così i loro nasi, e non credo che mi piacciano davvero i bambini». Ciò che riporta una delle nuove edizioni, recita invece: «Tornano e fissano, e fissano. E non credo che mi piacciano davvero i bambini».

Tali cambiamenti sono stati apportati grazie al lavoro dei cosiddetti “lettori di sensibilità”, figure sempre più diffuse specialmente nell’editoria anglosassone che il più delle volte ricevono salari irrisori per un attento lavoro di lettura, rilettura, analisi ed esame volto a scovare ogni possibile descrizione lesiva, razzista, ostile.

La recente notizia della riscrittura dei romanzi della Christie segue inoltre una scia in voga ultimamente nell’editoria, che mira a sostenere la diversità nell’industria. Non è la prima volta che la modalità espressiva interna ad alcuni dei capisaldi della letteratura viene rivista: è già accaduto tanto con la stessa autrice (al romanzo And Then There Were None del 1939 è stato cambiato il titolo perché vi era un termine razzista) che con le opere di Roald Dahl e Ian Fleming.

Negli ultimi anni sempre più case editrici hanno assunto “lettori di sensibilità”, alcune decidendo di pubblicare tanto la versione originale quanto l’opera pulita (come fa l’editore Puffin), altri mettendo a disposizione solo i libri con attente modifiche: una tendenza che a primo impatto potrebbe ad alcuni apparire inclusiva, ma che rischia di cancellare testimonianze passate trasformandosi presto in esempio di revisionismo storiografico, eliminando la visione passata in realtà fondamentale per il presente ed essenziale per il futuro. [di Francesca Naima]

"Come le sigarette": l'avviso politicamente corretto contro i libri e film scorretti. La casa editrice Pam Macmillan pone l'accento sugli elementi "razzisti" di Via col Vento con tanto di nuova prefazione. Massimo Balsamo il 6 Aprile 2023 su Il Giornale.

Roald Dahl, Enid Blyton, Ian Fleming, J. M. Barrie, persino il Dr. Dolittle: l'elenco di scrittori e romanzi finiti nel tritacarne buonista sta crescendo in maniera preoccupante. A pochi giorni dalla notizia della rielaborazione di Hercule Poirot e Miss Marple - nati dalla straordinaria penna di Agatha Christie - si torna a parlare di "Via col vento", uno dei principali obiettivi dei talebani del politicamente corretto. Come riportato dal New York Post, gli editori del libro di Margaret Mitchell inseriranno un trigger warning - un avviso morale e censorio - sul razzismo e una nuova introduzione per analizzare gli elementi di “suprematismo bianco” contenuti nel libro: in partica come gli avvertimenti nei pacchetti delle sigarette.

"Via col vento razzista e dannoso"

L'ultima versione di "Via col vento" segnala ai lettori la presenza di "elementi scioccanti e razzisti" che potrebbero essere "dolorosi" o "dannosi". La casa editrice Pam Macmillan ha precisato di non aver modificato il testo dell'epico dramma, rimarcando che il mantenimento del testo originale - che "riflette la lingua e il periodo in cui è stato scritto" - da parte degli editori non“costituisce l’approvazione” del libro. Una scelta forse necessaria, secondo l'esperta Emily Temple di Literary Hub, considerando"l'onnipresenza di parole controverse".

"Il romanzo include la rappresentazione di pratiche inaccettabili, rappresentazioni razziste e stereotipate e temi, caratterizzazioni, linguaggi e immagini inquietanti", si legge nella nota. Oltre a questo testo, l'editore ha incaricato la scrittrice Philippa Gregory di scrivere una nuova prefazione per affrontare gli elementi del "suprematismo bianco" per evitare di infliggere un “danno emotivo” alle minoranze: "'Via col vento' ci dice inequivocabilmente che gli africani non sono della stessa specie dei bianchi. Questa è la bugia che rovina il romanzo".

Il grande caos intorno a Via col vento

Una novità destinata a suscitare l'ennesimo dibattito sul tema, complici i dibattiti roventi sull'adattamento cinematografico del 1939 con Vivien Leigh e Clark Gable. La denuncia di razzismo è stata seguita dalla richiesta - accettata - di fare sparire il film dalla piattaforma HBO Max: "Via col vento" è tornato sul player streaming statunitense dopo qualche tempo e con un "cartello delle avvertenze" per porre l'accento sul contesto storico del film e denunciare le sue "rappresentazioni razziste". Un contentino per non ricevere critiche, la stessa strada intrapresa dall'editore Pan Macmillan: cedere al politicamente corretto per evitare qualsivoglia contestazione.

Estratto dell’articolo di Greta Privitera per corriere.it il 29 Marzo 2023

Un articolo lungo, che in inglese si chiama «long form», per chiedere scusa. Un articolo arricchito di vecchie fotografie, mappe, ritratti, curato con l’attenzione che, di solito, si dedica ai grandi lavori, alle inchieste, ai reportage. E in effetti, si tratta di un’inchiesta durata due anni dal titolo eloquente: «Come abbiamo scoperto i legami dei fondatori del Guardian con la schiavitù».

Il The Guardian, il più importante giornale inglese, pubblica le prove che John Edward Taylor, giornalista e commerciante di cotone che fondò il quotidiano nel 1821, «e almeno nove dei suoi undici finanziatori, adottarono pratiche schiaviste principalmente attraverso l’industria tessile».

 Nell’indagine firmata dalla ricercatrice Cassandra Gooptar, con l’aiuto dei colleghi dell’Università di Nottingham e dal dipartimento Study of Slavery dell’ateneo di Hull, si trovano tutti i passaggi della ricerca indipendente partita nel 2020, dopo le proteste del movimento Black lives matter — nato in America e arrivato fino in Inghilterra — che hanno portato alla conferma del passato del giornale. […]

Sempre nell’articolo, si leggono le scuse della società che controlla il The Guardian, la Scott Trust, che ha colto l’occasione per annunciare un programma da 10 milioni di sterline dedicato specificatamente ai discendenti delle comunità colpite dalle attività di Taylor e degli altri commercianti di Manchester che aiutarono la nascita del giornale. […]

Estratto dell’articolo da adnkronos.com il 27 marzo 2023.

Interi passaggi potenzialmente offensivi rimossi o riscritti nell'edizione inglese. A rivedere i testi, su incarico dell'editore HarperCollins, una commissione di "lettori sensibili"

 I libri della scrittrice britannica Agatha Christie (1890-1976), regina del giallo, riscritti per adattarli alla "sensibilità moderna". Il vocabolario dei suoi romanzi è stato modificato per eliminare termini come "orientale" oppure l'allusione razziale ad un servitore nero.

I gialli che hanno per protagonisti i detective privati Hercule Poirot e Miss Marple, scritti tra il 1920 e il 1976, sono in parte rielaborati con l'uscita delle nuove edizioni in inglese pubblicate da HarperCollins.

 Dopo le polemiche legate alle modifiche apportate ai racconti di Roald Dahl, l'autore di "La fabbrica di cioccolata", e alle spy-stories di Ian Fleming, l'autore dell'agente segreto 007, i 'sensitivity readers' (lettori sensibili) sono intervenuti su un'altra delle grandi scrittrici della narrativa inglese del secondo Novecento.

 Così interi passaggi delle opere della "regina del crimine" sono stati rimossi o riscritti. Una commissione di "lettori sensibili", su incarico dell'editore, ha rivisto, infatti, le opere di Christie per assicurarsi che siano stati rimossi "insulti o riferimenti etnici", così come le descrizioni fisiche di alcuni personaggi. […]

Secondo le anticipazioni fornite dal quotidiano londinese "The Telegraph", sono stati tagliati e modificati alcuni riferimenti all'etnia dei protagonisti con riferimenti anche al fisico. Ad esempio, la descrizione di un personaggio come "nero", "ebreo" o "zingaro", il busto di un personaggio femminile definito "di marmo nero" o il "carattere indiano" di un giudice. Sono stati inoltre rimossi termini come "orientale", la "n-word" e la parola "nativi", sostituita con un più neutrale "del luogo". […]

Estratto dell’articolo di Niccolò Dainelli per leggo.it il 30 aprile 2023.

La sua storia ha fatto il giro del mondo. Hope Carrasquilla, ex preside della Tallahasee Classical School della Florida, è stata licenziata a fine marzo dopo una lezione di storia dell'arte in cui è stato mostrato il David di Michelangelo. 

Il motivo? Secondo alcuni genitori degli alunni, la statua era pornografia. Una vicenda che ha indignato Firenze e gli amanti dell'arte e che ha portato il sindaco Dario Nardella a invitare la donna nel capoluogo toscano. Invito accettato di buon gusto e, a distanza di un mese, l'ex preside ha fatto visita al primo cittadino di Firenze. 

«Sto già facendo dei colloqui per tornare ad insegnare in una scuola di studi classici e appena potrò parlerò agli studenti dell'importanza dell'arte del Rinascimento italiano e di quello fiorentino in particolare. Di sicuro mostrerò di nuovo il David di Michelangelo, perchè è un simbolo universale di perfezione e bellezza. Non c'è niente di assolutamente porno», ha dichiarato la donna, aggiungendo: «Spero che l'insegnamento dell'arte rinascimentale non sia più un problema per nessuno».

Hope Carrasquilla è arrivata a Firenze, con il marito e i due figli, per il fine settimana, su invito del sindaco Dario Nardella e l'ospitalità offerta da Simonetta Brandolini d'Adda, presidente di Friends of Florence, fondazione di mecenati statunitensi. 

Accompagnata alla direttrice della Galleria dell'Accademia, Cecilie Hollberg, Carrasquilla, ha ammirato per la prima volta dal vivo il David. «Non sapevo che l'intera Galleria è stata costruita per la statua di Michelangelo - ha detto l'insegnante americana […]

L'ex preside, in mattinata, è poi stata ricevuta in Palazzo Vecchio da Nardella, che le ha donato una pergamena «per il suo impegno nell'educazione delle giovani generazioni alla bellezza e all'armonia attraverso l'arte». […]

 Estratto dell’articolo di Giulio Gori per corriere.it il 25 marzo 2023.

Il David di Michelangelo? «Pornografia». È così che in una scuola statunitense è stata definita una lezione di storia dell'arte sul Rinascimento fiorentino. A puntare l'indice contro la preside dell'istituto, rea di aver autorizzato una materia ritenuta troppo bollente, sono stati alcuni genitori.

La querelle si è trascinata al punto tale che Hope Carrasquilla, la dirigente scolastica della Tallahassee Classical School, in Florida, è stata costretta alle dimissioni. La vicenda, che ora sta rimbalzando tra tutti i media d'Oltreoceano, è stata anticipata da Tallahassee Democrat. […]

Oltre al David, anche la Nascita di Venere del Botticelli o la Creazione di Adamo dello stesso Michelangelo avrebbero causato scontento nei genitori. […]

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 25 marzo 2023.

Ormai è appurato che in America i fessi hanno un serio problema con le statue. Mentre i fessi progressisti le fanno abbattere, quelli reazionari fanno licenziare la preside che ha osato tenere una lezione d’arte sul David di Michelangelo. Siamo a Tallahassee, nella Florida di Ron deSantis, la versione «light» di Donald Trump, ma sarebbe potuto succedere in qualsiasi altro Stato dell’Unione, eccetto forse in quello di New York, in California e in qualche altro.

 […] gli studenti tornano a casa e mostrano ai loro cari l’immagine del capolavoro rinascimentale come se l’avessero appena trovata su Onlyfans. L’occhio di mamma e papà non indugia sull’armonia delle forme, ma va a cascare proprio là, dove si aspetterebbe di trovare delle mutande di marmo, magari sponsorizzate. Le chat dei genitori prendono fuoco: si chiede e si ottiene la testa della professoressa reproba, per propaganda e smercio di materiale pornografico.

Come passa (male) il tempo. Cinque secoli fa Firenze ospitò un dibattito sul luogo più adatto a ospitare il David di Michelangelo a cui parteciparono, tra gli altri, Botticelli e Leonardo. Cinque secoli dopo, in Florida, si caccia da scuola chi lo mostra. Certo, quella era una élite di statura mondiale mentre costoro sono degli ignoranti. È proprio questo il problema: hanno censurato il David perché li disturba, ma li disturba perché non sanno che è il David.

Anna Guaita per "Il Messaggero" il 25 marzo 2023.

 Mandano i figli in una scuola che ha come modello educativo il ritorno ai principi della civiltà occidentale, ma poi si indignano se nell'ora di arte l'insegnante mostra loro una foto del David di Michelangelo. Il nudo, considerato uno dei pezzi più importanti proprio di quella cultura occidentale a cui la Tallahassee Classical School aspirerebbe, ha indignato a tal punto un genitore, che la preside si è dovuta dimettere.

Il presidente del consiglio scolastico, Barney Bishop, si è affrettato a sostenere che in realtà la signora Hope Carrasquilla è stata posta davanti alla scelta di dimettersi o essere licenziata, perché non aveva preavvertito i genitori con una lettera, come la scuola richiede. Resta il fatto che una mamma ha definito le foto del corso di Storia dell'Arte Rinascimentale «pornografiche», e si è detta sconvolta che i propri figli avessero visto «immagini simili».

[…] Il marito l'ha difesa sostenendo che è «una solida cristiana evangelica», particolare che dovrebbe essere importante in questa scuola, un istituto privato parte dell'Hillsdale College, un sistema scolastico estremamente conservatore legato a doppio filo alla chiesa evangelica integralista. Per capire l'ambiente in cui è avvenuto questo incredibile incidente, basti ricordare che il sistema Hillsdale pretende di «depurare l'insegnamento da idee distorte e di sinistra», idee, cioè, che comprendono la storia del razzismo negli Usa, la separazione fra Stato e Chiesa, l'idea che le crisi climatiche siano generate dall'attività umana, il ricorso ai vaccini anziché all'immunità di gregge.

Una volta scuole di nicchia e rare, questi istituti hanno trovato un rilancio grazie alle posizioni conservatrici del governatore della Florida, Ron DeSantis, che ha promulgato il "Parental Rights in Education Act", una legge altrimenti nota come "Don't say gay" che proibisce conversazioni sul sesso e il genere alle elementari, e concede ai genitori il diritto di contestare le scelte di curriculum delle scuole ed eventualmente far causa agli insegnanti […]

«Michelangelo non è pornografia»: parla la preside licenziata in Florida. Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2023.

Intervista a Hope Carrasquilla, licenziata dopo aver mostrato una foto del David di Michelangelo ala Tallahassee Classical School in Florida: «Le lamentele dei genitori perché non sono stati avvertiti: ma anche perché insegniamo l’evoluzione o lo studio del riscaldamento globale»

Per 27 anni Hope Carrasquilla ha insegnato Storia dell’Arte, da un anno era la preside della Tallahassee Classical School in Florida. È stata costretta dal Consiglio scolastico a dimettersi dopo che l’insegnante d’arte ha mostrato il David di Michelangelo agli studenti di prima media e una dei genitori lo ha ritenuto pornografico.

Il caso ha fatto scalpore, il sindaco di Firenze Dario Nardella vuole invitare e premiare Carrasquilla, e lei dice via zoom che ne sarebbe onorata: sognava di portare gli allievi dell’ultimo anno a Roma e a Firenze.

Licenziata per il David?

«Per essere chiari, questa è una delle ragioni presentate da Barney Bishop, il capo del Consiglio scolastico, non l’unica. E i genitori lunedì scorso non capivano la necessità di discutere il mio licenziamento o le mie dimissioni. Per quanto riguarda la lezione in sé, tre genitori avevano espresso preoccupazione quando l’insegnante aveva fatto la sua bellissima presentazione sulla storia del Rinascimento. Una madre pensa che il David sia pornografico. E mi rendo conto che tutti dicano: come è possibile pensarlo... Altri due genitori erano dispiaciuti perché la lettera che avevamo mandato l’anno scorso per notificare che, quando studiamo il Rinascimento ci sono nudi artistici, quest’anno non era stata mandata. Tornata a casa, una studentessa ha detto di essere stata a disagio e la famiglia avrebbe voluto saperlo per essere preparata».

I genitori devono essere informati 72 ore prima di lezioni su temi «controversi»?

«Questa è la nuova regola stabilita dopo l’incidente».

Prima, insegnanti e preside ne parlavano in anticipo?

«È l’insegnante che manda una lettera di notifica ai genitori. Altre due vengono mandate in quinta elementare, quando in Scienze si studia il ciclo vitale degli animali e la riproduzione umana e quando si legge La vita di Frederick Douglass (ex schiavo e leader abolizionista ndr), un libro intenso per bambini che non sanno cosa succedeva a quell’epoca. Stavolta sono stata coinvolta perché l’insegnante d’arte mi ha chiesto se mandare la lettera, ho detto di sì, l’ho mandato da chi se ne occupa e lì c’è stato l’intoppo, la lettera non è partita».

Questa è una «charter school» (scuola privata sovvenzionata) legata all’Hillsdale College, noto college conservatore. Quindi alcune delle persone che mandano i figli qui vogliono che facciano studi classici ma hanno problemi con l’arte classica?

«Non solo l’arte. Si parla di evoluzione... Un altro genitore si lamentava per lo studio del riscaldamento globale... Parlo con loro, spiego che cosa insegniamo... Normalmente tutto si risolve. Quest’anno no. Non era mai successo prima pur con le stesse materie».

Non le era mai successo con il David?

«In un’altra scuola, in terza elementare, una madre si era lamentata. Ma non c’è niente di inappropriato. È arte. Guardiamo il David: c’è una vulnerabilità nella sua nudità, nel suo volto adolescente. Studiamo anche La creazione di Adamo. Se lo vesti, racconti la storia in modo inaccurato».

La direttrice della Galleria dell’Accademia a Firenze, Cecilie Hollberg, dice che definire il David «pornografico» significa non capire la Bibbia e la cultura occidentale. C’è una crociata contro il corpo in America?

«Mi addolora che succeda in una scuola di studi classici, dove ci prefiggiamo il bene, il vero, il bello, i temi della civiltà occidentale e dell’istruzione umanistica. In America abbiamo una società iper-sessualizzata. Ma gli studenti dovrebbero capire che non c’è niente di sbagliato nel corpo, niente di cui vergognarsi».

I prof sono considerati spesso progressisti. Lei lo è?

«Politicamente sono moderata. E sono una cristiana conservatrice. Anche in Italia siete cattolici e avete l’arte, non c’è conflitto, non va contro i miei valori cristiani. Non dovrebbe essere una questione politica».

Perché l’istruzione è diventata terreno di scontro?

«Con la pandemia, i bambini a casa, i genitori hanno visto che l’istruzione è cambiata dai loro tempi. Hanno messo in questione tutto il sistema educativo, alimentando un movimento che vuole scegliere. Io sono una sostenitrice della scelta. Ma il punto è: dove si traccia la linea? Qui un piccolo gruppo di genitori ha avuto l’orecchio del capo del Consiglio scolastico e creato un caso enorme. Ma la maggior parte vuole che i figli vedano queste immagini»

Qui interviene la politica.

«Assolutamente. È io non voglio diventare una pedina di un lato o dell’altro. Ci sono cose nei libri che anch’io non vorrei che i bambini vedessero. I genitori dovrebbero avere voce, ma non essere troppo coinvolti: bisognerebbe trovare un equilibrio in un’arena politica molto volatile».

Estratto dell’articolo di Maurizio Caverzan per “La Verità” il 22 marzo 2023.

Una parola come un colpo di fucile. S’intitola Cieco l’ultimo libro di Massimo Fini, pubblicato da Marsilio. È una di quelle parole che si appiccicano addosso e t’inseguono anche dopo che hai divorato in un’ora le ottanta pagine della storia.

Perché continui a chiederti come avresti reagito se ti fosse capitato quello che è capitato all’autore. Fini è scrittore e giornalista prolifico, irregolare, anticonformista e anarcoide non per posa. Uno che ha accettato senza vittimismi le conseguenze del disallineamento rispetto al pensiero unico che pervade il sistema della comunicazione.

La sua casa è stipata di libri, saggi soprattutto, discreti compagni. E viene da chiedersi come ora conviva con quei fantasmi e come possa essere la vita di un autore che deve documentarsi prima di scrivere e mandare un pezzo al giornale con cui collabora, Il Fatto quotidiano, l’unico rimasto, avendo smesso con Il Gazzettino perché in quella condizione due testate sono troppe.

Avrebbe potuto anche intitolarsi Buio questo breve memoir, perché quella è la situazione che si prospetta con l’espandersi del glaucoma, la patologia dovuta all’aumento della pressione oculare che provoca, lenta ma inesorabile, la riduzione del campo visivo (ci sono terapie che, fino a qualche anno fa, riuscivano solo a rallentarne il processo). Ma un titolo così avrebbe avuto un carattere meno pragmatico, più esistenziale e cupo che Fini, indomito fin quasi allo stoicismo, non ha voluto dare al suo racconto.

Di fronte al male, alla malattia, all’insorgere di un limite, alla scoperta di non essere invulnerabili, ci riveliamo per quello che siamo. Di quale pasta siamo fatti. E condividere, to share, è il verbo di questi anni. Nella società della comunicazione dove, a dispetto del gran parlare di privacy, il privato è sempre più pubblico, anche lo stato di salute è tema dell’agorà. Un tempo attorno a questi argomenti c’erano più pudore e discrezione.

 Oggi no. Ecco allora il libro snello e dissimulante di Fini, la rivelazione del tumore di Concita De Gregorio davanti alle telecamere di Belve su Rai 2, i post su Instagram con foto della cicatrice dopo l’intervento allo stomaco di Fedez. Tre modi diversi d’impattare il destino. La tempra con cui lo si accetta, ci si confronta, si ingaggia la lotta. E, in rapporto alle diverse generazioni, anche tre media diversi con cui svelarlo: la parola scritta, la televisione, i social.

[…] E l’ironia con cui nuotare al largo dai vittimismi, sempre in agguato. In fondo, lo stesso rifiuto ha consigliato a De Gregorio di rivelare la sua patologia solo ora davanti alle domande di Francesca Fagnani che le chiedeva se avesse cambiato acconciatura per copiare il taglio di Giorgia Meloni, come aveva scritto un giornale.

 «Porto una parrucca, dopo che mi sono operata per un cancro… Ne parlo al passato perché ho tolto tutto quello che dovevo togliere, ma non si può mai parlare al passato in questi casi, anche se siamo sulla buona strada... La ragione per cui ne parlo solo con poche persone amiche, e questa è la prima volta che lo facciamo, è che quando ne parli in pubblico poi tutti tornano da te con aria un po’ contrita e dolente chiedendoti come stai...

 Ma quello è un pezzo della vita, non è tutta la vita». Il momento più difficile è stato dirlo al figlio più giovane che vive in Australia. «Volevo farlo di persona», ha continuato De Gregorio che è madre, giornalista e in tour a teatro. «Ma in quel tempo facevo una terapia molto fitta. Ho convinto i medici che mi avrebbe fatto meglio vedere mio figlio che fare la terapia senza vederlo». Un pizzico di stoicismo...

Se invece si vive sui social, se la comunicazione è l’habitat totale e totalizzante, bisogna dire tutto in tempo reale. Fare i video post operazione, mostrare la cicatrice appena suturata, spiegare perché a un certo punto si è cominciato improvvisamente a balbettare. È quello che ha fatto, forse ha dovuto fare, Fedez per dissolvere preoccupazioni e placare i followers inquieti. Sono i social, bellezza, e tu non ci puoi fare niente. Tutto è sotto i riflettori. Tutto è mostrato ed esibito. […]

Dalla rubrica delle lettere di “Repubblica” il 17 marzo 2023.

Caro Merlo, ha una figlia di 19 anni che dall’agosto del 2022 studia a Parigi a Sciences Po e, qualche giorno fa, per festeggiare un esame è andata con un’amica a “L’arc Paris”, discoteca di tendenza che non aveva mai frequentato. In molti locali per accedere/prenotare si passa per un P.R. che organizza la serata, predispone i tavoli, detta il dress code e le regole di accesso. A mia figlia non è stato consentito l’accesso perché è alta meno di 1,70. Nel Paese paladino della dignità ha subito un volgarissimo “body shaming” e si è sentita affondare, non è stata capace di reagire.

 (...)

Mario De Marinis - Caserta

Risposta di Francesco Merlo

Evito il lungo e scontato elenco di signore meravigliose, per intelligenza e per bellezza, che non arrivano a 1,70 e vengo al dunque: l’Arc Paris è un club esclusivo, un posto orribile e costosissimo per vip e semivip. Molto meglio essere espulsi che essere accettati.

Estratto dell'articolo do Adriano Scianca per “la Verità” il 17 marzo 2023.

Una delle contraddizioni più stridenti della sensibilità contemporanea è quella che vede convivere da una parte un salutismo paranoico […] e dall’altra il mito della «body positivity», cioè dell’accettazione di qualsiasi corpo, quale che sia la taglia, la forma, il colore, l’abilità o il genere. E i corpi che recano visibilmente il segno di stili di vita malsani o di squilibri fisiologici? Li accettiamo o li curiamo? Ecco, per l’appunto, la contraddizione. Che esplode in modo grottesco sulla questione The Whale.

Come noto, il film di Darren Aronofsky è tratto da una pièce teatrale di Samuel D. Hunter e racconta la storia di Charlie, un uomo iper obeso che si è recluso in casa dopo una serie di traumi personali. Il ruolo del protagonista è stato affidato a Brendan Fraser, ex bellone di Hollywood poi lasciatosi effettivamente un po’ andare, […] interpretato grazie a un pesante trucco. Ad ogni modo, la performance è piaciuta all’Academy, tant’è che sia Fraser che il makeup hanno portato a casa l’Oscar, anche se fra i critici c’è chi ha bocciato l’ennesima sortita di Aronofsky nel campo della pornografia del dolore. […]

Sotto accusa è finita la fat suit (cioè il costume di gommapiuma che ha dato i 270 kg di Charlie a ben più leggero Fraser). Il verdetto è parso inappellabile: è chiaramente grassofobia, signori. […]Lara Lago, influencer e giornalista, «body activist» e conduttrice della rubrica CaroCorpo su Sky Tg24, ha postato su Instagram una videorecensione che è una sorta di manifesto di un certo gergo importato malamente dai campus americani. «Mi sembra pazzesco che abbia potuto uscire un film del genere senza trigger warning per le persone con disturbi del comportamento alimentare. […]».

[…] La stessa Lago ha confessato di non essere riuscita a cenare dopo la visione del film. Sempre su Instagram, un collettivo sulla «fat liberation», […] Da non perdere, poi, la recensione uscita sul Post a firma di Jonathan Zenti. […]Zenti descrive la pellicola come «un film che parla di un uomo molto grasso scritto da un uomo magro, diretto da un regista magro e interpretato da un attore forse un po’ fuori forma ma decisamente normopeso. Come se nel 1989 Fa’ la cosa giusta di Spike Lee fosse stato scritto e interpretato da Tom Hanks». […]

 Dopo aver biasimato il «fatface», ovvero «il corrispettivo grassofobico della blackface», l’autore ci spiega quanto il film sia disonesto, perché il protagonista è sporco, trasandato e abbrutito, mentre, scrive Zenti, «a me non è mai capitato di ridurmi allo stato di squallore in cui lui vive[…]

Un film è un film: racconta una storia. Non è la mia storia, la tua, quella di Zenti o quella di chiunque altro possa avere qualche punto in comune con la trama. È quella storia è basta. Ma la confusione dei piani è tale, che a un certo punto il recensore si lascia andare a considerazioni mediche quanto meno controverse: «Le persone obese non sono condannate a morte, almeno non più delle altre. […] Ci possono essere malattie legate a uno stato di obesità, così come ci sono quelle legate all’ereditarietà, al lavoro o allo sport».

Davvero vogliamo prendere sul serio il paragone tra malattie legate al grasso e quelle legate allo sport, come se fosse la stessa cosa? Ora, il rapporto Oms 2022 (il mantra «fidatevi degli esperti» non vale più?) ci dice in realtà che «sovrappeso e obesità sono tra le principali cause di morte e disabilità nella Regione europea dell’Oms e stime recenti suggeriscono che causano più di 1,2 milioni di decessi all’anno, corrispondenti a oltre il 13% della mortalità totale nella Regione. L’obesità aumenta il rischio di molte malattie non trasmissibili, inclusi tumori, malattie cardiovascolari, diabete mellito di tipo 2 e malattie respiratorie croniche».

[…]

Pd, si può mettere alla gogna solo chi è nemico dei dem. Massimo Sanvito su Libero Quotidiano il 17 marzo 2023

Ma come, consigliere Romano? Si è permessa di fare la morale a quei cattivoni che girano in metropolitana per filmare e fotografare le borseggiatrici che ripuliscono i vagoni h24, incassando pure il plauso del Pd, e poi - non più tardi dello scorso novembre metteva alla gogna sui social un suo detrattore? Allora come la mettiamo? La privacy vale solo a corrente alternate?

Quando toccano un esponente di sinistra è giusto pubblicare nome e cognome con relativo commento mentre se si tratta di proteggere pendolari e turisti dalle mani leste delle conosciutissime ladre nomadi è pratica deprecabile mettere i loro faccioni online? Basta intendersi. Il doppiopesismo, però, è sotto gli occhi di tutti.

IL PRECEDENTE Era il 23 novembre, quando Monica Romano - il primo consigliere comunale transgender a Milano, eletto in quota Partito Democratico postava su facebook lo screenshot di un commento ricevuto a un video, da lei pubblicato su TikTok per contestare Checco Zalone «per la sua orribile “satira” ai danni delle persone trans». Due righe che recitavano così: «Quelle come te dovrebbero stare due metri sotto la terra». Una vergogna.

Perché solo così puo definirsi un inequivocabile augurio di morte. Questo è fuori discussione: i social non potranno mai essere considerati una discarica dove poter vomitare di tutto impunemente. E lo stesso, ovviamente, vale anche per gli insulti ricevuti dal consigliere dopo aver bacchettato i giovani che ogni giorno cercano di contrastare le borseggiatrici armati di telefonino.

Però, ed è di fatto innegabile, pubblicando quel commento con tanto di nome e foto ben visibili, l’esponente dem ha fatto la stessa cosa per cui cinque giorni fa si è stracciata le vesti. Un cortocircuito in piena regola.

Con orgoglio, tra l’altro, Romano annunciava sui social che aderiva alla campagna #eiotipubblico, ringraziando l’ideatrice Laura Boldrini per averla coinvolta. L’obiettivo dichiarato, in occasione della giornata contro la violenza sulle donne, era quello di mettere in mot «una catena collettiva di indignazione» e accompagnare ogni post di denuncia con il relativo hashtag.

«Contribuiamo a rendere il web un posto migliore e sicuro»: si chiudeva così il papiro della Boldrini condiviso da parecchie politiche di sinistra contro «una violenza di nuova generazione, che ha il volto del linguaggio d’odio, del sessismo e della misoginia online».

Ma non è tutto. Perché nel recente post in cui il consigliere chiedeva «a quelli che realizzano i video» di smetterla «di spacciare la loro violenza per senso civico», il centrodestra è stato velatamente accusato di lucrare consenso grazie a questa modalità di denuncia online. Scriveva infatti: «Di violenza e squadrismo ne abbiamo già avuti abbastanza davanti a un liceo di Firenze e nelle acque di Cutro».

Quindi, di fatto, sarebbe sbagliato secondo lei usare social e chat rendere virali problematiche che inevitabilmente impattano sul dibattito politico. E allora perché, sul suo profilo facebook, Romano la buttava addirittura sul ddl Zan in merito ai brutti epiteti ricevuti?

ACCUSE POLITICHE - Era l’8 settembre scorso e così scriveva: «Io credo- e nulla me lo toglierà dalla testa che il clima stia cambiando da quando la legge Zan è stata affossata e ancor di più in vista delle prossime elezioni. I geni si sentono al sicuro, sempre più legittimati a esprimere le loro “opinioni”, a offendere e ad aggredire tanto verbalmente quanto fisicamente anche perché sanno che i sondaggi danno le destre in vantaggio». E ancora: «I diritti delle persone Lgbt+, delle donne, delle minoranze etniche o di credo religioso e delle persone con disabilità qui in Italia sono fragili. Mi duole doverlo dire ma l’Italia non è un paese sicuro per noi persone Lgbt+, per le donne e per le minoranze in genere. Stiamo in campana e andiamo tutt* a votare». Con tanto di pugno chiuso e bandiera arcobaleno. Dimenticandosi, oggi come allora, che gli insulti e le minacce sono sempre la strada peggiore da percorrere: non esiste una scala di gravità in base a chi viene colpito, così come non possono esserci due pesi e due misure nel denunciarli. Oppure merita il patibolo social solo chi è nemico del Pd?

Estratto dell’articolo di Simone Dinelli per corriere.it il 15 marzo 2023.

La direttrice didattica di una scuola dell'infanzia di Viareggio decide di annullare il laboratorio legato alla “Festa del papà” per evitare discriminazioni nei confronti dei bambini senza il padre, ma gli altri genitori non ci stanno ed esplode la polemica.

 Succede alla scuola dell’infanzia Florinda di Viareggio, dopo la decisione della direttrice Barbara Caterini che, intervistata dal quotidiano La Nazione, ha spiegato come «cinque o sei genitori siano venuti a lamentarsi da me perché non trovavano giusto che in quel giorno i loro figli, che non avevano il papà, venissero esclusi da quell’attività e venissero pertanto indirizzati da un’altra parte.

Ho trovato le loro lamentele condivisibili, perché un laboratorio organizzato in questo modo è discriminatorio nei confronti di chi non ha un papà. Pertanto dovrà essere organizzata un’altra attività con modalità diverse, alla quale possano partecipare tutti i bambini».

«Dobbiamo renderci conto – ha aggiunto Caterini – che viviamo in una società diversa da quella di 50 anni fa. Non esiste più una famiglia modello. Oggi ci sono situazioni aperte e particolari che devono essere rispettate e tutelate. Soprattutto da una scuola».  […]

Come ci stanno manipolando col senso di colpa. Per qualsiasi cosa. Andrea Cionvi su Libero quotidiano il 12 marzo 2023

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

“Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”, si recitava durante la vecchia messa vetus ordo, in latino, oggi bandita dalla falsa chiesa antipapale bergogliana. La modernità ci ha messo sessant’anni per liberarsi dal presunto “senso di colpa cattolico”, ma il guaio è che questo è stato sostituito da molti altri, cento volte più pesanti e omnipervasivi, per i quali non c’è nemmeno l’assoluzione. Si è passati dal peccato religioso individuale, sanabile attraverso un sacramento, al peccato laico collettivo che, invece, resta insanabile e serve a manipolare le masse.

Non potete muovervi, infatti, che il premiato trio mainstream-sinistra internazionale-deep state massonico vi farà sentire uno schifo per qualcosa: perché mangiate la bistecca e non i vermi secchi, per il vostro presunto passato coloniale (anche se siete del ‘77), perché andate in giro con l’auto a benzina, per genocidi non-discutibili compiuti ai tempi del cucco e/o da altri, perché non siete europeisti, atlantisti, e non ve ne frega niente di un conflitto intraslavo, perché restate irriducibilmente eterosessuali o non vi farebbe piacere se vostro figlio indossasse piume di struzzo, perché non volete farvi stravaccinare e usate il contante senza foraggiare le banche, perché non vi piacciono le porcherie dell’arte contemporanea, siete cacciatori, bevete il vino, amate la Patria e non vi inginocchiate davanti a questa o a quella minoranza, e così via.

Ora, attenzione: come tutti i sentimenti umani, anche il senso di colpa ha una sua funzione utile. Spiega lo psichiatra e saggista Giuseppe Magnarapa: “Il senso di colpa ha basi biologiche. E’ un sentimento che avverte l’individuo circa i propri comportamenti antisociali, in base ai quali viene danneggiato un innocente. Viceversa, questo è sospeso in caso di legittima difesa da un aggressore o nel caso dell’applicazione di una giusta sanzione. Il problema c’è quando il senso di colpa viene subdolamente indotto per un profitto non dichiarato. Non a caso è uno dei principali strumenti dei manipolatori i quali inducono altri, con modalità apparentemente benigne, a fare cose nell’interesse di chi trasmette la suggestione”.

Tratto tipico dell’induttore di sensi di colpa è muoversi sul piano emotivo: ingenerare prima compassione per se stesso, o enti terzi, e poi passare all’accusa, distruggendo così l’autostima della vittima la quale rinuncerà a decidere in modo autonomo sottomettendosi al manipolatore, riconosciuto come moralmente superiore.

Potrà sembrarvi assurdo, ma una delle più comuni dinamiche del genere si subisce, in famiglia, dai meno sospettabili: i bambini. “Mamma sei cattiva!” grida il pupo per far sentire in colpa la madre che lo ha punito e quindi, acquisire potere su di lei. Siccome molti genitori di oggi, invertendo un criterio ancestrale, sono divenuti i mendicanti dell’amore dei figli, ecco che crescono generazioni di piccoli dittatori.

Se la vittima della manipolazione non oppone un filtro logico-critico e non ha una solida base valoriale grazie alla quale verificare se ciò che ha fatto (o non fatto) rientra nel proprio diritto o nei canoni di ciò che è giusto, sarà spacciata. 

La cosa gravissima è che oggi questo plagio viene indotto a livello collettivo, per intere società che, al momento, risultano impreparate a difendersene.

L'obiettivo dei sensi di colpa indotti da poteri non sempre riconoscibili  è quello di favorire l’annichilimento e la predazione dell’Occidente sotto tutti i punti di vista: politico, culturale, morale, spirituale, psicologico,  geopolitico, demografico, identitario, linguistico, economico, energetico, militare, sanitario,  finanziario, alimentare, etc.

Un utilizzo classico di questa truffa mentale riguarda il cosiddetto “ricatto migratorio”: se ci pensate, vi sono stranieri che si mettono per mare cercando di entrare clandestinamente nel nostro Paese, commettendo un illecito, e poi, se succede qualche tragedia, i colpevoli siamo noi italiani che, pure, ne abbiamo salvati a decine di migliaia e mantenuti a milioni. In base a quale criterio razionale?

Dietro questa operazione, ovviamente, ci sono carabattole massoniche come il vecchio piano di meticciamento dell’Europa del conte Kalergi, l’antico schiavismo applicato da africani oggi detto “scafismo”, e gli interessi della sinistra nostrana passata in blocco ai nemici dell’Italia. Ma pochi ne sanno qualcosa, così a doversi sentire un pizzico sono i politici e financo gli elettori del centrodestra.

Del resto, tutto il politicamente corretto non poggia altrove che sull’imposizione plagiante del senso di colpa. Un’inibizione continua, in ogni settore, che vi bombarda con un messaggio unico: se non vi sottomettete davanti a chicchessia, lo state danneggiando.

Il rimedio? Innanzitutto, appena sentite odore di senso di colpa collettivo mettete – metaforicamente - mano alla rivoltella. In secundis, ragionate e cercate di scoprire se quella contestazione risponde a criteri di legalità, giustizia e ovvio buon senso. Terzo, ribellatevi furiosamente.

(ANSA l’11 marzo 2023) - Non è piaciuto alla commissione Pari Opportunità dell'Usigrai lo scambio tra Loretta Goggi e Bruno Vespa - ieri sera in prime time su Rai1 durante lo show 'Benedetta primavera' - sul politicamente corretto. Tra gli esempi, l'approvazione della legge Merlin nel 1958 e l'impossibilità di usare all'epoca termini come prostitute e case chiuse. 

Ma si è parlato anche di 'blackface', il trucco teatrale, diffuso nel XIX secolo, che consiste nel camuffarsi in modo non realistico per assumere le sembianze di una persona nera, una pratica oggi considerata razzista. E dell'uso dei termini al femminile come 'ministra'. "Spiace assistere, in prima serata, a semplificazioni non degne del servizio pubblico. Spiace vedere come due personalità che hanno segnato la storia della televisione di questo Paese siano proiettate più verso il passato che verso il presente, e trovino difficile accogliere nuove sensibilità e richieste. 

In pochi minuti - afferma la Cpo dell'Usigrai nella nota - Loretta Goggi e Bruno Vespa liquidano il 'politicamente corretto' senza approfondirne le radici: le sensibilità di oggi sono evidentemente diverse da quelle di cinquant'anni fa, come quelle di cinquant'anni fa erano diverse da quelle dei decenni precedenti. Ogni epoca è portatrice di nuovi valori e riflessioni che portano a interrogarsi su abitudini e usi adottati fino a quel momento: non si tratta di cancellare il passato, ma di riflettere e cambiare, eventualmente, in considerazione delle nuove sensibilità emerse. 

Certamente è possibile non condividere alcune rivendicazioni di larghe parti della società, ma bollarle come 'ridicole' è offensivo". "Segnaliamo inoltre che nella lingua italiana non esiste il genere neutro: il maschile sovraesteso resta comunque maschile, e indicare una donna come 'ministra' - conclude la nota della commissione Pari Opportunità - vuol dire solo applicare le regole della grammatica. La lingua non è un codice immutabile: come ogni aspetto della società cambia e si evolve nel tempo".

Estratto dell’articolo di Olivio Romanini per il “Corriere della Sera” l’11 marzo 2023

[…] il Comune di Bologna ha deciso di uniformare i sottotitoli dei toponimi cittadini dedicati agli uomini e alle donne che fecero la Resistenza lasciando solo i termini «partigiano» o «partigiana» e togliendo tutte le altre denominazioni a partire dal termine «patriota». La motivazione ufficiale è che c’era bisogno di uniformità ma è chiaro che dietro c’è il tentativo maldestro di eliminare una parola, patriota, che oggi è utilizzata, a volte strumentalizzata, dai militanti di Fratelli d’Italia. […] 

Anche perché, per dirla con lo storico Luca Alessandrini, la parola ha radici profonde nella sinistra risorgimentale e magari sarebbe utile ricordare che la rivista dell’Anpi si chiama Patria indipendente. Ai tempi in cui governava il sindaco Guazzaloca circolava una battuta: «Quando non hai progetti da approvare in giunta, cambia i nomi alle vie, se ne discuterà per mesi». Non è questo il caso di Lepore, ma per diventare la città più progressista d’Italia non serve pasticciare con la storia.

Estratto dell’articolo di Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 5 marzo 2023.

Ieri i lettori italiani del New York Times si saranno concentrati - come è ovvio - sul lungo articolo, entusiasta, che il giornale dedicava alla neosegretaria multigender del Partito democratico: Elly Schlein. E va bene. Ottimo pezzo.

 Ma proprio sopra al richiamino di prima pagina «Remaking Italy's Center Left», «Rifare il centrosinistra italiano», svettava, con una grande fotografia a colori, un pezzo che - non è un paradosso - in qualche modo è il manifesto di quell'ideologia che negli Stati Uniti, e non solo, sostiene personaggi e politici Schlein-oriented.

 E l'articolo, anticipato come spesso succede il giorno precedente nell'edizione online, raccontava la storia di come ormai andare a cavallo è da razzisti perché i caschetti protettivi non sono dimensionati per chi ha i capelli afro... Titolo (ripetiamo: di prima pagina): «Black equestrians plead for helmets that'll fit». E quello dell'edizione online è ancora più allarmistico: «Black Equestrians Want to Be Safe. But They Can't Find Helmets».

Insomma: il giornale pubblica una lunga inchiesta, oltre 11.800 caratteri, qualcosa che corrisponde a circa 195 righe, più del triplo dell'articolo che state leggendo, su come per coloro che amano andare a cavallo, o lo fanno per sport, ma sono di colore, trovare un casco che si adatti a una capigliatura molto riccia o con le treccine può diventare impossibile. […]

 Poi l'articolo si concentra su come evitare tali derive razziste - «ma le aziende produttrici di caschi affermano che non esiste una soluzione semplice» - e infine un'amara costatazione. «Ecco un'altra barriera all'inclusione in uno sport che rimane prevalentemente bianco».

Barriera all'inclusione. C'è scritto così. Another barrier to full inclusion. E l'equitazione come sport che rimane overwhelmingly white. Prevalentemente bianco. Ci fermiamo qui.

Articoli del genere sul NYT, quotidiano ultra-liberal, sono all'ordine del giorno. Le barriere all'inclusività il lunedì riguardano i neri, il martedì i nativi americani, il mercoledì gli omosessuali, il giovedì i trans, il venerdì i non binari, il sabato i fluidi... E al settimo giorno il Dio del massacro si riposò. […]

 Non vogliamo ora irrigidirsi sulla linea editoriale del New York Times, né calcare la mano sull'episodio dei «Black equestrians». Notiamo però che l'onda lunga del politicamente corretto, che si è trasformato nello tsunami della cancel culture, diventa sempre più pericolosa, e minaccia anche le coste della Vecchia Europa. Si abbatterà anche qui con la stessa violenza, e la stessa cieca stupidità?

Estratto dell’articolo di Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” il 3 marzo 2023.

Antonfrancesco Vivarelli Colonna, sindaco […] di Grosseto […] ha condiviso ieri sui social la fotografia della neosegretaria del Pd Elly Schlein ridanciana, affiancata con evidente compiacimento lombrosiano a quelle di alcuni cavalli e dromedari. Testo illuminato a corredo: «Per due euro spesi per votare alle primarie Pd cosa volevate, Belen?». […] La destra condanna e pretende le scuse, la sinistra si getta nello scandalo, incredula di cotanto assist.

 […] Nel febbraio 2021 Giovanni Gozzini, docente all’Università di Siena ed ex assessore a Firenze per il centrosinistra, condivise i seguenti dubbi esistenziali in radio: «Ieri sera m’è preso il mal di miserere quando ho sentito quell’ortolana della Meloni. Datemi dei termini: una rana dalla bocca larga? Una vacca? Una scrofa?».

Il solco lo aveva tracciato anni prima Asia Argento, che commentò così una foto della leader di FdI: «La schiena lardosa della ricca e svergognata fascista ritratta al pascolo». Ed è di pochi mesi fa l’exploit del collettivo ultrafemminista “Non una di meno”, che a una manifestazione antigovernativa a novembre scandiva lo slogan “Meloni fascista, sei la prima della lista” (trattasi di minaccia di morte, che ci risulta assai peggio di un accostamento fotografico cafone).

 Resta poi mitologico lo sfogo oltre ogni difendibilità della pasionaria antiberlusconiana Sabina Guzzanti: «Tu non puoi mettere alle Pari Opportunità una che sta là perché ti ha succhiato...». Il complemento oggetto dell’ultima frase lo può indovinare chiunque, il soggetto era l’allora ministra Mara Carfagna.

Daniela Santanchè, invece, fu oggetto di questo sobrio ritratto social da parte di Lorenzo Fioramonti, allora ministro dell’Istruzione nel governo giallorosso: «Ma quale donna! Un personaggio raccapricciante e disgustoso. Se fossi una donna mi alzerei e le sputerei in faccia, con tutti gli zigomi rifatti». Fioramonti peraltro si esercitò in un altro classicone del manganello dei Buoni: l’irrisione di Renato Brunetta. Quasi sempre, per la sua statura. Il campionario va da “energumeno tascabile” (Massimo D’Alema) a “mini-ministro” (Furio Colombo), da “una seggiola” (Dario Fo) a “sua altezza” (Marco Travaglio). Il direttore del Fatto era anche solito appellare Berlusconi come “Al Tappone”, mentre il suo principale Beppe Grillo ha sempre preferito utilizzare “lo psiconano”. […]

Dagoreport il 2 marzo 2023.

Il famoso quadro di Sissi dipinto nel 1865 da Winterhalter e custodito al museo di Sissi dal 1 marzo e fino a fine mese viene coperto da una poesia che racconta le vicende dell'imperatrice. Di questo quadro ne esistono ulteriori due copie al Museo del Mobile e all'Hotel Imperiale di Vienna. Anche per loro succede la stessa cosa.  L'idea degli organizzatori è quella di uscire dall'idea che Sissi fosse solo bella e mettere in luce altri aspetti dell'Imperatrice: “Un'azione di sensibilizzazione nei confronti della donna, in generale”.

 Dai romantici film con Romy Schneider degli anni ‘50 all'“Imperatrice” - la nuova miniserie per Netflix - e al lungometraggio “Corsage”, ogni generazione ha creato la propria versione di Sissi. I riflettori però sono sempre stati puntati, dicono gli organizzatori, sugli stessi elementi: la sua bellezza, i suoi abiti, la depressione, le sue presunte scappatelle e la ricerca dell'eterna giovinezza.

La vera donna, imperatrice e madre, è rimasta sempre più sullo sfondo. Sebbene abbia lasciato un'eredità incredibile, la si ricorda solo per l’aspetto esteriore. “Per la giovane Sissi il concetto di bellezza non esisteva. Appena giunta alla corte di Vienna comprese che ciò che ci si aspettava da lei era solo questo. Il suo aspetto fu strumentalizzato. A dipingere il celebre ritratto dell'imperatrice del 1865 fu Franz Xaver Winterhalter, pittore iconico per il mito di Sissi che contribuì a diffondere la sua fama e bellezza in tutto il mondo” dichiara Michael Wohlfart, curatore del Museo di Sissi

 Proprio per smantellare quest'immagine superficiale e portare alla luce la vera personalità dell'imperatrice Elisabetta, la sua più famosa raffigurazione, la tela originale di Winterhalter, è stata ricoperta da una poesia minimalista. Ecco che emergono le sue conquiste, le sue qualità, le emozioni. “Sisi’s New Portrait” – questo il nome del progetto – lo fa mettendo in mostra una poesia essenziale che racconta vicende riguardanti l'imperatrice che sono andati perse dietro alla sua immagine.

 La poesia

You want to see Sisi.

For her beauty, her glory, her victory.

You want to see Sisi.

For her dresses,

her hair, her excesses.

You want to see Sisi.

LA PRINCIPESSA SISSI

For the drama, the obsession,

the supposed depression.

But if you only see.

What you want to see.

You’ll fail to see.

That her legacy helps today’s refugees.

That she believed in people’s autonomy.

That she loved to learn.

That her convictions were stern.

You’ll fail to see.

That she suffered like the rest of us.

Like the best of us.

So, whenever you see

Sisi’s victory, glory, beauty.

Never again fail to see.

The real Sisi.

Remember women for who they were.

Not for what they looked like.

La licenza di "uccidere" anche 007. Agente 007 senza licenza di parola. O meglio l'editore con licenza di censurare James Bond a patto di far contenti tutti e di continuare a vendere. Matteo Sacchi su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

Agente 007 senza licenza di parola. O meglio l'editore con licenza di censurare James Bond a patto di far contenti tutti e di continuare a vendere. Si ripete pari pari sui romanzi di Ian Fleming quello che è appena successo sui romanzi di Roald Dahl. A dare la notizia, proprio come con Dahl, il Sunday Telegraph. Ed esattamente come successo con l'autore de La fabbrica di cioccolato sono stati gli eredi riuniti nella «Ian Fleming Publications» a confermare la review dei romanzi dopo aver reclutato alcuni «lettori espressione della sensibilità attuale». L'occasione per fare un bagno di politicamente corretto all'agente segreto più famoso del mondo sarà la ripubblicazione di tutti i romanzi il prossimo aprile, per celebrare i 70 anni di Casino Royale, il primo romanzo della fortunatissima serie. Tanto per cominciare la nuova edizione sarà innanzitutto accompagnata da un disclaimer che mette in guardia contro alcuni passaggi dell'originale che oggi potrebbero essere considerati offensivi. Dopo di che, via a modifiche e omissis. Di fronte alle inevitabili polemiche, eredi ed editori si sono trincerati dietro al fatto che alcuni cambiamenti erano stati fatti già dallo stesso Fleming, ad esempio in Vivi e lascia morire, per non avere problemi sul mercato americano. «Seguendo il suo esempio» hanno spiegato gli eredi «abbiamo rimosso per esempio alcune parole oggi considerate razziste, ma allo stesso tempo abbiamo cercato di rimanere fedeli all'epoca in cui sono state scritte». Così sono stati tolti molti riferimenti al colore della pelle, soprattutto nei passaggi con personaggi neri. Eliminato il termine «nigger», per esempio. In altri passaggi, invece, scomparirà completamente ogni riferimento al colore della pelle. Ma anche modifiche più consistenti: in Vivi e lascia morire è rimosso un passaggio che associava l'alcolismo agli africani coinvolti nel commercio di oro e diamanti. In un altro passaggio di Vivi e lascia morire, che descrive uno striptease in un nightclub di Harlem, l'originale suonava: «Bond sentiva il pubblico ansimare e grugnire come maiali alla mangiatoia». Diventerà «Bond poteva percepire la tensione elettrica nella stanza».

Insomma, ora come ora per la cancel culture, gli unici che possono grugnire in un nightclub devono essere maschi bianchi che non si adattano al post patriarcato (l'unica categoria rimasta esclusa dalla protezione del politicamente corretto). Ovviamente poi nei romanzi di Fleming, figli del loro tempo, dopo il pasticciaccio di riscrittura restano una sfilza di luoghi comuni non proprio gentili su donne e asiatici. Sono gli effetti folli e inevitabili del ritocco di qualunque testo: la cancel culture è solo licenza di uccidere la letteratura.

Estratto dell’articolo di Marco Leardi per ilgiornale.it il 27 febbraio 2023.

 […] Stavolta nemmeno James Bond è riuscito a limitare i danni dell'insidioso nemico. Le abilità dell'agente segreto di Sua Maestà nulla hanno potuto contro il pericoloso politicamente corretto: […] la nuova edizione inglese dei romanzi dello 007 più celebre della letteratura sarà infatti educorata e di fatto censurata. Dal testo spariranno infatti termini e passaggi ritenuti razzisti dalla nuova intransigente religione woke.

 Parole come "negro", "nero" o "africano" spariranno per sempre dalle pagine scritte da Ian Fleming e divorate da milioni di lettori (senza che nessuno ne fosse traviato, ovviamente).

Secondo quanto rivelato dal quotidiano londinese The Telegraph, prima della ristampa dei romanzi di James Bond - prevista per aprile in occasione del 70esimo di "Casino Royale", primo libro della saga spionistica - la Ian Fleming Publications Ltd, che detiene i diritti d'autore, ha commissionato una revisione per cancellare dal testo quei vocaboli che potrebbero suscitare polemiche per la loro presunta inappropriatezza.

 [...] A quanto si apprende, infatti, ogni nuova edizione di James Bond riporterà la seguente dicitura: "Questo libro è stato scritto in un'epoca in cui erano comuni termini e atteggiamenti che potrebbero essere considerati offensivi dai lettori moderni".

 […]  Nella prossima edizione di "Casino Royale", invece, i lettori troveranno alcuni riadattamenti. Certo, il senso generale del testo rimarrà intatto ma alcuni vocaboli e altrettante espressioni usate in origine da Ian Fleming - non certo un quisque de populo - verranno rimosse e rimpiazzate.

Ad esempio, la parola "negro" è stato sostituito con "persona di colore" o "uomo di colore". Anche in altri casi, i riferimenti dell'autore sono stati modificati in ossequio al politicamente corretto.

 In "Vivi e lascia morire" (romanzo del 1954), l'opinione di Bond sugli africani che operano nel commercio dell'oro e dei diamanti come "tipi piuttosto rispettosi della legge, a parte quando hanno bevuto troppo" è stata modificata in "tipi piuttosto rispettosi della legge, a mio parere". Un'altra scena del libro, ambientata durante uno strip tease in un nightclub di Harlem, in origine era: "Bond sentiva il pubblico ansimare e grugnire come maiali alla mangiatoia". È stato modificato in: "Bond poteva percepire la tensione elettrica nella stanza".

In molti libri […]sono state eliminate invece le etnie. "Seguendo l'approccio di Ian Flaming, abbiamo esaminato le occorrenze di diversi termini razziali nei libri e abbiamo rimosso una serie di singole parole o le abbiamo sostituite con termini oggi più accettati ma in linea con il periodo in cui i libri sono stati scritti", ha detto Ian Fleming Publications Ltd. […]

Estratto dell’articolo Valeria Robecco per “il Giornale” il 27 febbraio 2023.

La comunità nera è «un gruppo che pratica l’odio», «i bianchi dovrebbero starne alla larga». Con queste frasi il creatore del celebre fumetto Dilbert ha scatenato una bufera negli Stati Uniti, spingendo centinaia di giornali e media americani a cancellare la striscia.

 Scott Adams, che ha pronunciato i commenti accusati di incoraggiare la segregazione razziale in uno streaming su YouTube, ha già affrontato critiche in passato per le sue opinioni estremiste e per le provocazioni online, tanto che il San Francisco Chronicle ha smesso di pubblicare Dilbert mesi fa a causa di alcune battute.

Ora però sono stati moltissimi i media ad aver scaricato la striscia a fumetti comica pubblicata su oltre 1000 testate in 65 nazioni e 19 lingue, con oltre 150 milioni di potenziali lettori. Il network Usa Today, che possiede centinaia di quotidiani in tutti gli Stati Uniti, ha annunciato che non pubblicherà più il fumetto ambientato in un ufficio e incentrato sui vari aspetti del lavoro impiegatizio, del quale mette in luce vizi e difetti, a causa dei commenti «discriminatori» del suo creatore.

Stessa decisione è stata presa da Washington Post, Los Angeles Times, New York Times (la striscia compariva sull’edizione cartacea internazionale), The Plain Dealer, Boston Globe, San Antonio Express-News e MLive Media Group, che ha otto pubblicazioni di notizie nel Michigan. […]

"State lontani dai neri". I giornali Usa cancellano il fumetto dei record. Storia di Valeria Robecco su Il Giornale il 27 febbraio 2023.

La comunità nera è «un gruppo che pratica l'odio», «i bianchi dovrebbero starne alla larga». Con queste frasi il creatore del celebre fumetto Dilbert ha scatenato una bufera negli Stati Uniti, spingendo centinaia di giornali e media americani a cancellare la striscia.

Scott Adams, che ha pronunciato i commenti accusati di incoraggiare la segregazione razziale in uno streaming su YouTube, ha già affrontato critiche in passato per le sue opinioni estremiste e per le provocazioni online, tanto che il San Francisco Chronicle ha smesso di pubblicare Dilbert mesi fa a causa di alcune battute. Ora però sono stati moltissimi i media ad aver scaricato la striscia a fumetti comica pubblicata su oltre 1000 testate in 65 nazioni e 19 lingue, con oltre 150 milioni di potenziali lettori. Il network Usa Today, che possiede centinaia di quotidiani in tutti gli Stati Uniti, ha annunciato che non pubblicherà più il fumetto ambientato in un ufficio e incentrato sui vari aspetti del lavoro impiegatizio, del quale mette in luce vizi e difetti, a causa dei commenti «discriminatori» del suo creatore. Stessa decisione è stata presa da Washington Post, Los Angeles Times, New York Times (la striscia compariva sull'edizione cartacea internazionale), The Plain Dealer, Boston Globe, San Antonio Express-News e MLive Media Group, che ha otto pubblicazioni di notizie nel Michigan.

«Alla luce delle recenti dichiarazioni di Adams che promuovono la segregazione, il Washington Post ha cessato la pubblicazione del suo fumetto» è stata invece la spiegazione del quotidiano della capitale. Nel video pubblicato mercoledì su YouTube e durato quasi un'ora, Adams ha contestato un recente sondaggio condotto dal conservatore Rasmussen i cui risultati mostrano che una piccola maggioranza di intervistati afroamericani (il 53%) concorda con l'affermazione: «Va bene essere bianchi». Mentre il 26% dice di non essere d'accordo.

«Questo è un gruppo di odio e non voglio averci niente a che fare - ha detto il 65enne creatore di Dilbert - Sulla base di come stanno andando attualmente le cose, il miglior consiglio che darei ai bianchi è di allontanarsi dai neri». Quindi ha aggiunto che «non ha più senso come cittadino americano bianco cercare di aiutare i cittadini neri». Dopo lo sproloquio Adams - diventato famoso negli anni Novanta grazie alla sua interpretazione satirica della vita d'ufficio dei colletti bianchi - ha provato a giustificarsi su Twitter, sostenendo che stava «solo consigliando alle persone di evitare l'odio», ma rilanciando anche con l'accusa ai giornali che hanno cancellato la sua striscia di «minare la libertà di parola in America».

Estratto dell’articolo di Anna Lombardi per “la Repubblica” il 23 Febbraio 2023.

[…]  Don Lemon, 56 anni, conduttore di punta di Cnn, da ieri è nuovamente al timone di This Morning, il seguitissimo talk show mattutino con cui ha debuttato a novembre. E nel corso della puntata non ha fatto alcun accenno alla gaffe sessista pronunciata giovedì, di cui l’America ha parlato per l’intero week end e che ne ha quasi affondato la carriera, tanto da doversi scusarsi due volte via Twitter.

 E poi promettere all’imbufalito boss della rete, il Ceo Chris Licht, di essere pronto a frequentare uno specifico corso di formazione aziendale e soprattutto che d’ora in poi «ascolterà di più e imparerà dai suoi errori».

 A sollevare un polverone etico e politico, era stata la definizione di donna “non più nel suo prime”, sì, insomma “nel fiore degli anni”, da lui appioppata alla 51enne Nikki Haley – l’ex ambasciatrice all’Onu candidatasi alle primarie repubblicane per la Casa Bianca una settimana fa – dopo che questa aveva sostenuto la necessità di istituire un test mentale per i politici over 75: evidente riferimento agli 80 anni del presidente Joe Biden, e pure ai 78 di Donald Trump.

Ma nell’America ossessionata dal politicamente corretto […] le parole di Lemon sono suonate decisamente infelici. E infatti ad accorgersi subito della cantonata è stata la co-conduttrice, Poppy Harlow, 40 anni: che nel 2013 aveva imparato a sue spese il peso delle parole pronunciate in tv, finendo travolta dalle polemiche per aver detto, a proposito di due giovani atleti accusati di aver stuprato una compagna di classe: «Il loro futuro sportivo finisce qui».

 Si è dunque immediatamente rivolta al collega tentando di fargli ritirare quella frase discriminatoria: «Intendi che non è nel suo “prime” per fare un figlio o per essere presidente?» Ma lui non ha colto: «Una donna è nel suo “prime” a 20, 30, 40 anni. Dopo, non può più prendersela con l’età dei politici...». Apriti cielo: Harlow ha lasciato immediatamente lo studio. Una pioggia di critiche è arrivata dalle donne dello staff. E sui social si è scatenato il finimondo.

 Afroamericano (per il mensile Ebony fra i 150 più influenti al mondo), apertamente gay, pluripremiato per i reportage sull’uragano Katrina del 2005 e autore pure di un libro sul razzismo in America intitolato This is the Fire, Lemon ha compreso solo allora la gravità delle sue parole e le potenziali ricadute sulla sua immagine, tanto da scrivere a fine programma su Twitter: «Ho fatto un riferimento goffo di cui mi dolgo. Professionalità e personalità delle donne non sono mai definite dall’età. Ce ne sono molte nella mia vita che lo dimostrano».

[…] Non è certo un caso che della faccenda si sia occupato il boss Licht in persona. Certo disturbato dal sarcastico commento di Nikki Haley: «Sono sempre i democratici a dimostrarsi sessisti». Ma pure dalla rivolta interna alla rete che sta cercando di smarcare dall’etichetta di “liberal” per portarla più al centro.

 Venerdì mattina ha chiamato il conduttore per dirgli chiaro che le sue osservazioni erano state “inaccettabili e ingiuste”. Lunedì ha mandato una nota a tutti gli impiegati spiegando che Lemon per questa volta tornava in onda: «A Cnn crediamo che le persone crescano imparando dai propri errori». Don, sempre via Twitter, si è affrettato a dire di aver capito: «Apprezzo l’opportunità di tornare al mio programma che oggi mi viene data. Mi scuso, ascolto, imparo. Farò meglio». […]

Estratto dell’articolo di Francesco Specchia per “Libero Quotidiano” il 17 febbraio 2023.

Fosse ancora stato vivo Walt Disney - conservatore, repubblicano dentro, […] la censura sarebbe arrivata per i censori disneyani. Fosse stato vivo il Fondatore, Paperon de’ Paperoni non sarebbe mai stato cancellato dai manager della Walt Disney Company oggi sempre più travolta dai miasmi del politicamente corretto. Ma il vecchio Zio Walt non è più.

Sicché, può bellamente accadere che la Disney bandisca due delle storie di Zio Paperone, appunto, a firma del classico autore Don Rosa da future ristampe e raccolte. L’annuncio […]arriva ai fan attraverso la testata americana Cbr, a sua volta informata da un tweet, inquietante, diffuso dall’account Twitter di DuckTalks; ovvero dallo stesso Don Rosa che ha ricevuto un messaggio via mail dalla casa editrice nella quale si annuncia, appunto, che due storie di Paperon de’ Paperoni - Il sogno di una vita e il penultimo capitolo della saga Il cuore dell’impero rispettivamente datati 2020 e 1994- non saranno più ripubblicate o non faranno parte di nessuna raccolta d’ora in avanti.

Aiutato dal magazine on line Fumettologica, mi sono andato a rivedere le tavole delle due storie incriminate presunte ispiratrici di questo nuovo, incredibile guizzo di cancel culture. In entrambe, compare il personaggio di Bombie il gongoro, e questa – a detta di Don Rosa – sarebbe la ragione della loro esclusione dal catalogo, per via di una nuova policy Disney più attenta all’inclusività[…]

 Cioè, in pratica: urge cassare da ogni archivio ogni pur minimale riferimento al “solito” razzismo. Cioè, c’è questo “gongoro” morto vivente, rianimato con la magia vudù e proveniente direttamente dalla storia di Carl Bark intitolata Paperino e il feticcio e uscita nel 1949. […]

Che è un po’ – mutatis mutandis - come eliminare dalla scuole Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, perché Jim, l’amico nero, era trattato troppo da comprimario […]; o come sbiancare lo Zio Tom dell’omonima capanna dell’abolizionista Harriet Beecher […]; o scurire l’avvocato bianco Atticus Finch del Buio oltre la siepe, perché non è possibile che a quei tempi non ci fosse un avvocato nero all’altezza della causa.

 […] Il primo a rimanere interdetto da tutto questo è il povero Don Rosa, disneyano di formazione, intellettuale italoamericano originalissimo e persona perbene (molti di noi cronisti l’hanno conosciuto l’ultima volta transitava nel 2019 tra Lucca Comics e il Lake Como Comic Art Festival). […]

 La cancel culture resta un abominio culturale i cui danni si cominceranno a vedere sulle nuove generazioni. Ma su questo abbiamo speso fiumi d’inchiostro. Resta una spiegazione economica al tutto. La Disney sta vivendo industrialmente i suoi momenti peggiori. Ha tagliato 7000 posti di lavoro. Disney+ ha perso 2 milioni di spettatori-, e ha inserito una postilla politicamente correttissima, all’inizio dei suoi classici dell’animazione sui contenuti stereotipati e razzisti, […]

 E nei parchi a tema la società ha eliminato l'uso di pronomi di genere la scorsa estate al fine di apparire più “inclusiva”, mentre i dirigenti hanno annunciato, lo scorso anno, che verrà dato maggior peso ai personaggi Lgbt. […]

(ANSA il 16 febbraio 2023) - Bufera sul New York Times per un op-ed schierato con J.K. Rowling e le sue prese di posizione sui trans. Il quotidiano ha pubblicato la difesa dell'opinionista Pamela Paul 24 ore dopo una lettera aperta, firmata da 170 dipendenti del giornale, che aveva accusato la 'Vecchia Signora in Grigio' di "pregiudizi" anti-trans.

 Il Times ha difeso la sua copertura così come la decisione di pubblicare l'op-ed con la volontà di presentare l'intera gamma di posizioni sull'argomento in questione. Negli ultimi anni tuttavia, secondo i firmatari della lettera, il giornale ha trattato i temi della diversità di genere "con un mix di pseudoscienza e eufemismi, pubblicando allo stesso tempo articoli sui ragazzi trans che omettono importanti informazioni sulle fonti".

 Sono anni d'altra parte che la Rowling è al centro di polemiche per le sue affermazioni sui trans. Tutto è cominciato nel giugno 2020, quando l'autrice dei libri di Harry Potter usò il suo account Twitter per criticare un articolo sulla "gente che ha le mestruazioni".

La scrittrice aveva deriso l'articolo per non aver usato la parola "donne" e il tweet aveva provocato una valanga di commenti negativi, spingendo la scrittrice a ripeterlo ed elaborarlo in un mini-saggio sull'identità di genere che aveva alimentato ulteriormente la controversia.

 La prossima settimana la scrittrice tornerà alla carica in un podcast - I processi alle streghe contro J.K. Rowling - in cui condividerà "le minacce di morte e di violenza" ricevute da lei e dalla sua famiglia "che la polizia ha giudicato credibili": questo lo spunto che ha indotto la Paul a scrivere l'op-ed.

Nell'articolo pubblicato oggi sulla pagina dei commenti, l'opinionista ha definito "assurdi" gli attacchi contro la Rowling: nulla di quanto la 'mamma' di Harry Potter ha detto "si qualifica come transfobico". Secondo la Paul, "se più persone avessero difeso la Rowling, non solo le avrebbero reso giustizia, ma avrebbero preso posizione in difesa dei diritti umani, specialmente dei diritti delle donne, dei gay e anche dei trans. Avrebbero difeso la verità".

La cancel culture? Si abbatte con l'ironia. Dopo il "caso Roald Dahl", la Rete reagisce riscrivendo, in maniera satirica, i classici. Luigi Mascheroni il 23 Febbraio 2023 su il Giornale.

Si allunga la polemica, nel mondo anglosassone come da noi, innescata dalle correzioni imposte ai libri di Roald Dahl, autore bestseller di libri per ragazzi. Tutto è partito dalla decisione, annunciata nei giorni scorsi nel Regno Unito dall'editore Puffin e condivisa dagli eredi dello scrittore, di eliminare alcuni termini sconvenienti/scorretti - «brutto», «grasso», «piccolo», «nano», «matto», «pazzo», «female» eccetera - da storie popolarissime come La fabbrica di cioccolato, Matilde, Gli sporcelli, Le streghe o James e la pesca gigante. E non si sa se l'aspetto peggiore della faccenda sia il fatto che a deciderlo è stata Netflix, che ha acquistato i diritti sull'opera di Roald Dahl (il mercato vince su tutto) o che a portare avanti l'operazione di restyling sia l'«Inclusive Minds», una società di cosiddetti sensitivity readers, figure professionali che hanno il compito di apportare modifiche alle opere letterarie per realizzare «inclusione e accessibilità» là dove necessario (una sorta di Ministero della Verità orwelliano).

Il primo attacco contro il nuovo - ennesimo - caso di «cancel culture» è arrivato dal conservatore Daily Telegraph, poi, a cascata, il resto del mondo: quotidiani, siti e intellettuali di vari orientamenti, a partire da Salman Rushdie.

E anche l'Italia ha fatto la sua parte. Come ha ricordato ieri Alessandro Gnocchi, qui sul Giornale, il caso è talmente eclatante che, con parecchio ritardo, persino la sinistra si è accorta che la cancel culture esiste, eccome; e può fare danni devastanti. Anche anime candide come Michele Serra su Repubblica, Nadia Terranova sulla Stampa, Massimo Gramellini sul Corriere della sera e - naturalmente con i soliti distinguo - Loredana Lipperini sul suo blog, hanno dovuto ammetterlo. L'ossessione woke è pericolosa.

Benvenuti nel club: vi aspettavamo da parecchio. Conoscendovi, adesso diventerà la vostra battaglia...

Comunque. Le strade per frenare la deriva «correttista» sono due. La prima è appellarsi all'autorità dei maestri (esempio, Mario Vargas Llosa: «Chi insiste affinché la letteratura diventi inoffensiva lavora in realtà per rendere la vita invivibile»; oppure l'iraniana Azar Nafisi, esperta nel ramo censure: «Cambiare il linguaggio nei libri di Roald Dahl cambia la storia così com'era e crea una storia falsa. Dobbiamo conoscere il passato, comprese le parti offensive. È così che evitiamo di ripetere l'offesa. Dobbiamo conoscerlo per cambiarlo, piuttosto che riscriverlo eliminandolo»). La seconda via invece è la satira, capace di sgretolare anche la peggiore delle ideologie.

Ed è quello che ha fatto Marco Cassini, editore di SUR e anima di mille iniziative culturali, il quale ha lanciato su Twitter l'hasthag #riscriviamoli. Chi vuole giocare con me? E ha iniziato lui stesso, in perfetto endecasillabo rimato: «Allor ch'io avea un'etade indefinita/ mi ritrovai per una selva oscura, ché la dritta via era smarrita». Da lì è partito un divertentissimo gioco intellettuale per riscrivere i classici in linea con i nuovi standard inclusivi e politicamente, sessualmente, fisicamente ed etnicamente corretti. Tra le proposte si segnalano, e stiamo ai titoli più popolari, Il principe e il non benestante; Biancaneve e i sette uomini non altissimi (passibile di un'ulteriore correzione del termine sessista «uomo»: Biancaneve e sette persone non altissime è meglio); mentre Il brutto anatroccolo può diventare L'anatroccolo che era un tipo e, al posto del «gobbo», Il fisicamente sfavorito di Notre Dame. Di Samuel Taylor Coleridge citiamo La ballata del marinaio adulto. Di Ernest Hemingway Il non più giovanissimo e il mare (ma anche Il meno giovane e il mare). Di Gabriel García Márquez Memoria delle mie lavoratrici del sesso diversamente felici. E di Carlo Emilio Gadda - e qui citiamo la fonte: Angelo Cennamo, blogger e critico letterario per Telegraph Avenue - Quer pasticciaccio non proprio bello de via Merulana. Proposta invece per I miserabili di Victor Hugo: cosa ne dite di Non proprio splendidi?

Poi, ci sono gli incipit. Per La metamorfosi di Franz Kafka basta un ritocchino: «Una mattina Gregor Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato, nel suo letto, in un vispo animaletto», poiché «insetto mostruoso» è offensivo. Mentre l'immortale ouverture di Anna Karenina necessita di un editing pesante. «Tutti i nuclei di persone senza problemi economici o sociali si assomigliano fra loro, ogni nucleo di persone affetto da disparità sociali, economiche o problemi di privilegio è affetto da disparità sociali, economiche o problemi di privilegio a suo modo». Anche se il premio Nobel delle correzioni lo merita chi ha riscritto l'incipit del Moby Dick. «Chiamatemi Ismael*». Così anche Michela Murgia e «quelle che la cancel culture non esiste» stanno tranquille.

Post scriptum. Un consiglio del mio compagno di Spritz. Roald Dahl è morto nel 1990, e quindi non si può. Ma perché il direttore del Salone del Libro non affida la lectio inaugurale della prossima edizione a J.K. Rowling, altra scrittrice zittita? Titolo suggerito: «L'ideologia woke ucciderà l'Occidente». #riscriviamoli

Tu digli a quel coso. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 20 febbraio 2023.

Spettabile Alexandra Strick, cofondatrice di «Inclusive Minds», la benemerita associazione che ha deciso di purgare «La fabbrica del cioccolato» e gli altri classici per l’infanzia di Roald Dahl, espellendo parole come «brutto» e «grasso» per non offendere la sensibilità dei piccoli lettori, vorrei segnalarle i gravi fatti avvenuti di recente in Italia, durante un evento seguito anche da molti bambini: il Festival di Sanremo. Non alludo al sesso simulato in diretta, ma a qualcosa di davvero sconvolgente: le canzoni di Gianni Morandi. Riascoltata oggi, «Andavo a cento all’ora» è inaccettabile fin dal titolo, che inculca nei giovani il mito pericoloso della velocità in auto. Oltretutto «per veder la bimba mia», espressione odiosa che trasuda paternalismo maschilista. E sorvolo sul «ciunga ciunga ciù» iniziale, su cui si potrebbero dire molte cose, per sottoporle l’altro caso spinoso: «Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte». Intanto andrebbe precisato di quale latte si tratta (di mucca o di capra, e allevate come?), ma il passaggio raccapricciante è «tu digli a quel coso che sono geloso e se lo rivedo gli spaccherò il muso». Signora Strick, non devo certo spiegare a lei che queste parole incitano al bullismo e alla violenza, esaltando una pulsione bassa come la gelosia. Qualcuno obietterà che sono state scritte mezzo secolo fa. Ma il passato non esiste più. Esiste solo uno sconfinato presente in cui Shakespeare deve parlare come Fedez, altrimenti lo si cambia. 

La casa editrice censura Roald Dahl: tolte le parole «grasso» e «brutto» dai suoi libri. Matteo Persivale su il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2023.

Tolti tutti i riferimenti al genere, alla razza, al peso. Salman Rushdie: «Puffin Books e gli eredi dell’autore dovrebbero vergognarsi». È già successo a Richard Scarry e Dr Seuss

Quando Salman Rushdie, ancora convalescente dopo le coltellate di un fanatico che lo scorso agosto gli ha tolto l’uso di un occhio e di una mano, lancia l’allarme su questioni di libertà di espressione, il mondo farebbe bene a ascoltarlo. Nessuno meglio di lui conosce l’argomento. «Roald Dahl non era un angelo, ma questa è un’assurda censura. Puffin Books e gli eredi di Dahl dovrebbero vergognarsi», ha twittato ieri Rushdie, commentando la notizia che l’editore Puffin — appartiene alla gloriosa Penguin, dato che rende tutto ancora più allarmante — ha deciso d’accordo con gli eredi dell’autore (1916-1990) di riscrivere i suoi libri, togliendo riferimenti al genere, alla razza, al peso, cancellando parole come «grasso», «piccolo», «nano» per non offendere nessuno.

Furibondo anche il saggista e umorista inglese David Baddiel — autore di un recente best-seller sull’antisemitismo, Jews Don’t Count, «gli ebrei non contano» — che su Twitter ha sottolineato un passaggio del Dahl riscritto nel quale è saltato un riferimento a un personaggio con il «doppio mento»: «Però restano i riferimenti al naso e ai denti storti… Perché? Perché se cominci a sventrare un testo alla fine non ti resta in mano niente, ti resta una pagina bianca» (tra l’altro fa onore a Baddiel, che è di religione ebraica, la difesa per una questione di principio di Dahl che fu notoriamente antisemita).

È, forse, quello di Dahl, il primo caso di cancel culture editoriale che provoca immediato allarme.

Perché il primo taglio è sempre superficiale — non sanguina, e all’apparenza non fa mai male.

È successo qualche anno fa, quando gli editori del mondo anglosassone hanno cominciato a mettere tra gli scrittori e i lettori la figura del sensitivity reader, per filtrare — censurare, si diceva una volta — libri o frasi ritenute sconvenienti, offensive per qualcuno, e prevenirne la pubblicazione. Poi è arrivato l’editing leggero: dai libri di Richard Scarry (1919-1994) con gli adorabili animaletti che hanno insegnato a leggere a generazioni di bambini sono sparite le mamme che spingono i passeggini sostituite dai papà, le mamme in cucina sono state sostituite dai papà, nessun topolino si veste più da nativo americano per andare in canoa nel fiume, e in aereo la hostess-gatta non è più «carina» e il pilota-cane non e più «attraente». Nessuno si è lamentato: il mondo anni ’50 di Scarry adesso è al passo con i tempi, si diceva.

Poi è toccato a Dr Seuss (1904-1991), papà del Gatto col cappello, del Grinch e di tanti altri adorabili amici delle filastrocche per bambini: due anni fa, forse perché il mondo aveva il problema collettivo della pandemia, non ci sono state grandi lamentele quando la stessa fondazione di Theodore Geisel, cioè di Dr. Seuss, che controlla i diritti dei libri (diritti ricchissimi: controversie a parte, Dr. Seuss rimane l’autore per bambini più venduto nel mondo) ha tolto dalla circolazione sei libri del Gatto col cappello: «Questi libri ritraggono le persone in modi che sono offensivi e sbagliati», spiegò in un comunicato la Dr. Seuss Enterprises (compulsando attentamente i libri in questione, si vedevano delle figure di uomini asiatici dai tratti un po’ macchiettistici che magari potevano essere corrette senza cancellare i libri in questione tout court).

Adesso però tocca ai libri di Roald Dahl, uno dei più grandi scrittori del Novecento la cui opera (James e la pesca gigante, La fabbrica di cioccolato, Furbo il signor Volpe, Il coccodrillo enorme) trascende il genere — la letteratura per bambini — nella quale viene per abitudine incluso. I testi di Dahl sono stati cambiati dal suo editore inglese, d’accordo con gli eredi dello scrittore.

La fabbrica di cioccolato, capolavoro del 1964 che ha ispirato due film di enorme successo, perde «enormemente grasso» che è stata modificata in «enorme» (stesso destino per il libro del 1970 Furbo il signor Volpe). La parola “grasso” è stata sistematicamente eliminata, anche da Il coccodrillo enorme, James e la pesca gigante, Le streghe e Gli sporcelli.

La Miss Trunchbull di Matilde da «femmina formidabile» è ora «donna formidabile»; i piccoli Oompa Loompas della Fabbrica di cioccolato non sono più «piccoli uomini» ma «piccole persone»; e Bunce del Signor Volpe non è più nano, non è più panciuto. È semplicemente Bunce. Puffin si è appoggiato ai sensitivity reader di Inclusive Minds, agenzia specializzata in «inclusione e accessibilità nella letteratura per bambini». La pagina del copyright delle nuove edizioni dei libri di Dahl editi da Puffin spiegherà: «Questo libro è stato scritto molti anni fa, quindi rivediamo regolarmente la lingua per assicurarci che possa continuare a essere apprezzato da tutti oggi».

Un portavoce della Roald Dahl Story Company ha dichiarato a Variety: «Vogliamo assicurarci che le meravigliose storie e i personaggi di Roald Dahl continuino ad essere apprezzati da tutti i bambini di oggi. Quando si ripubblicano libri scritti anni fa, non è insolito rivedere il linguaggio utilizzato insieme all’aggiornamento di altri dettagli, tra cui la copertina e il layout. Il nostro principio guida è stato quello di mantenere le trame, i personaggi e l’irriverenza e lo spirito tagliente del testo originale. Eventuali modifiche apportate sono state piccole e attentamente considerate».

Estratto dell'articolo di Daniele Dell’Orco per “Libero quotidiano” il 14 gennaio 2023.

Agli intellettuali veri è da sempre concesso il peccato di presunzione. Alcune delle più grandi menti della storia sono state pure contagiate dal narcisismo, che le avrà rese magari poco piacevoli nelle relazioni interpersonali ma inestimabili nella produzione culturale. Gli intellettuali finti, invece, si riconoscono da subito perché dietro al narcisismo non hanno davvero nulla.

Non solo lo spessore intellettivo, ma nemmeno la più basilare percezione del reale.

Basti pensare a due profili come Francesco Merlo e Tomaso Montanari. Sui quotidiani che li ospitano, La Repubblica e Il Fatto Quotidiano, sono riusciti a narrare il festival di Sanremo appena concluso in un modo opposto eppure parimenti fuori dalla grazia di Dio. Merlo ha definito l’Ariston come il tempio della “nuova Resistenza” contro il governo Meloni (una assurdità rabbiosamente punita dagli elettori tre giorni dopo il suo pezzo).

 Montanari solo ieri, con tardivo e un po’ pavido tempismo, ha chiosato con un riferimento al legame tra le cariche dello Stato espresse dal nuovo governo (come Ignazio La Russa Presidente del Senato) e il sacrosanto sfoggio sul palco dell’Inno di Mameli una surreale controstoria del “Canto degli Italiani”.

In cerca di notorietà per promuovere il suo spettacolo teatrale, il rettore dell’Università per stranieri di Siena, già reduce dall’ormai annuale vergognosa vena giustificazionista sui massacri delle foibe e dagli insulti a Franco Zeffirelli (definito “mediocre e razzista”) a cent’anni dalla nascita, Montanari sostiene che il nostro inno nazionale sia “triste”, “patriarcale” (perché menziona i fratelli e non le sorelle), “vittimista”, “xenofobo” (perché celebra la vittoria di Scipione l’Africano su Cartagine), “schiavista” (perché la chioma "tagliata" della Vittoria sarebbe allo stesso tempo riferimento sia allo sfruttamento che alla misoginia).

 Immancabile, poi, il riferimento al fascismo, visto che a corredo del suo teorema giganteggia un manifesto della Repubblica Sociale con Mameli sovrastato dall’attacco del testo musicato da Michele Novaro.

Di base, visto il suo perenne disprezzo per l’Italia e la sua storia, Montanari dimostra ancora una volta di non essere adatto a ricoprire un ruolo accademico che è un biglietto da visita del nostro Paese, ma anche a livello contenutistico la sua critica altro non è che un patetico revival di rimostranze vecchie di sessant’anni (spazzate via una volta per tutte non da un pericoloso militarista fascista ma dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che rilanciò l’inno inizio degli anni Duemila come uno dei simboli dell’identità nazionale) imbevute però nel suo caso di delirio ultraprogressista arcobaleno.

 Montanari ricorda solo en passant che l’Inno di Mameli fu simbolo del Risorgimento. Grave, visto che per un accademico la contestualizzazione storica è l’abc. E non menziona minimamente né lo spirito mazziniano del suo autore, né il fatto che sia i sabaudi che gli austriaci lo proibirono fino alla Grande Guerra, a riprova del suo sfondo anti-imperialista, né che la sua ispirazione fu giacobina. Da bocciatura alle medie, poi, almeno due falsi storici abnormi. 

(…)

Estratto dell’articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 9 febbraio 2023.

Addio al “Padre Nostro”, preghiera fondante del cristianesimo? I tabloid inglesi sono sull’orlo di una crisi di nervi di fronte a una simile eventualità. Il Daily Mail di oggi titola: “Vogliono rendere persino Dio gender-neutral!”. […] alcuni vescovi della Chiesa di Inghilterra starebbero preparando una riforma per evitare quando possibile ogni riferimento maschile o paterno alla figura di Dio, renderla neutrale come genere e dunque “modernizzarla”.

 […] I giornali più conservatori e tradizionalisti parlano di ennesimo cedimento alla “dittatura woke”, ossia quella “controproducente ultrasensibilità”, secondo i suoi critici, nei confronti delle minoranze, anche di genere. In realtà al momento si tratta solo di una proposta di alcuni vescovi anglicani, che dovrà andare al vaglio del prossimo sinodo della Chiesa di Inghilterra e che sarà oggetto di una commissione specifica la prossima primavera. […]

 Secondo i promotori della riforma, Dio dovrebbe essere sempre più inclusivo, spogliato della caratterizzazione maschile e paterna, e dunque gender-neutral. Dunque, nei piani dei vescovi progressisti, stop alla formula della capitale preghiera “Our Father”, ossia “Padre Nostro”, in luogo di riferimenti sempre più frequenti alla parola “Dio”. E basta pronomi maschili, rimpiazzati da quelli neutri come “they” (in inglese “loro”). […]

L’arcivescovo a capo della Chiesa di Inghilterra, Justin Welby, sinora ancora non si è espresso sulla questione. Ma nel 2018 così parlò durante un intervento pubblico, schierandosi con i riformisti: «Tutto il linguaggio umano su Dio non è adeguato. Dio non è un padre come può esserlo un essere umano. Dio non è né maschio, né femmina. Non può essere definito». Una posizione ora confermata anche da un portavoce della Chiesa d’Inghilterra. [...]

Estratto dell'articolo Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 9 febbraio 2023.

[…] la vicenda del regista irlandese Oisín Moyne pare eccessivamente beckettiana. Moyne aveva organizzato, per la sua messa in scena di «Aspettando Godot», normalissime audizioni: il testo prevede cinque ruoli maschili […] e lui aveva fatto provini a soli attori maschi in vista della «prima», prevista a marzo presso il centro culturale studentesco Usva dell’Università di Groningen, in Olanda.

Ma lo spettacolo è stato cancellato quando l’ateneo ha scoperto che il casting era riservato solo a attori maschi […] È normale che a teatro opere scritte per personaggi maschili vengano interpretate da donne: […]Ma […] Beckett ha espressamente richiesto che gli attori di «Godot» devono essere uomini; distaccarsi dalle istruzioni provocherebbe la revoca immediata del permesso a mettere in scena la pièce. […]

Moyne si è arreso, come ha spiegato all’Irish Times. Anche perché Bram Douwes, programmatore teatrale dell’Università di Groningen, aveva spiegato incredibilmente al quotidiano olandese Ukrant che Moyne avrebbe dovuto tenere l’audizione aperta a tutti i generi. Dopo, avrebbe potuto scegliere solo attori maschi.

Il politicamente corretto. Ora il politicamente corretto colpisce pure le facoltà scientifiche. Storia di Roberto Vivaldelli su Il Giornale l’8 febbraio 2023.

Impazza, nelle università "woke" Usa, la polemica sui programmi "Diversity, Equity and Inclusion" (Dei). Si tratta di corsi di formazione o di laurea dove s'insegna la Teoria critica della razza (il "razzismo sistemico" dei bianchi), la lotta al patriarcato e l'oppressione messa in atto dai cristiani. Come svela il Wall Street Journal, alla Texas Tech University, un candidato per un posto di lavoro nella facoltà nel dipartimento di scienze biologiche è stato segnalato dal comitato di ricerca del dipartimento per non conoscere la differenza tra "uguaglianza" ed "equità": un altro ancora è stato segnalato per il suo uso ripetuto del pronome "lui" quando si riferiva ai professori, quando avrebbe dovuto, secondo il comitato, usare un pronome neutro. Un altro ancora è stato elogiato per aver ricordato che i nativi americani una volta vivevano in quelli che ora sono gli Stati Uniti. In mezzo all'esplosione delle politiche universitarie sulla diversità, l'equità e l'inclusione, il dipartimento di biologia del Texas Tech ha promesso di "richiedere fortemente una dichiarazione sulla diversità da parte di tutti i candidati".

Dove nascono i corsi sul politicamente corretto negli Usa

Biologi cellulari e immunologi potrebbero dunque essere scartati per un posto di lavoro perché non sono sufficientemente entusiasti o preparati in fatto di "diversità" e "inclusività". Essere competenti e professionali non è sufficiente: bisogna sposare la causa del politicamente corretto. Come spiega il City Journal, le dichiarazioni sulla diversità - brevi saggi che descrivono i contributi passati di un candidato alla "Dei" e i piani futuri per promuovere la causa - sono state ampiamente criticate sin da quando sono state introdotte nel sistema dell'Università della California circa un decennio fa.

Rappresentano una sorta di giuramento alla causa della correttezza politica. In questo, anche lo stato conservatore del Texas non fa eccezione, e la dice lunga su quanto l'ideologia "woke" abbia permeato le scuole di tutta la nazione con i suoi programmi marcatamente ideologici e ultra-progressisti, recentemente criticati dal governatore della Florida, Ron DeSantis.

Essere esperti di equità e inclusione diventa una professione

In Texas, l'Università di Austin richiede dichiarazioni di diversità per tutta una serie di lavori inerenti le scienze della terra. L'Università di Dallas consiglia ai candidati di redarre dichiarazioni di diversità per lavori in ingegneria, geografia, statistica e molte altre discipline. La Texas A&M School of Medicine ha recentemente cercato un capo dipartimento: obbligatorio essere muniti di una dichiarazione "che affronti le aspirazioni e i contributi alla promozione dell'equità, dell'inclusione e della diversità nelle loro carriere professionali". Ed ora essere esperti di "equità e inclusione", magari per finire all'università e insegnare questi corsi di formazione, sta diventando una vera e propria professione.

I dati di LinkedIn mostrano che tra il 2015 e il 2020, le persone che si occupano per lavoro di diversità e inclusione sono aumentate del 71% a livello globale. Altre ricerche mostrano un netto aumento dal 2020. Secondo i dati di Indeed.com, ad esempio, le offerte di lavoro "Dei" sono aumentate del 123% tra maggio e settembre 2020. Megafoni della propaganda liberal.

Roberto Fabbri per “il Giornale” il 9 gennaio 2023.

L'autodistruzione dei nostri valori è alla base di quello che è stato efficacemente definito come «suicidio occidentale». Valori come la libertà di espressione e perfino le stesse basi tradizionali della nostra società vengono messi nel mirino di attivisti fanatici che ne pretendono qualcosa di più della rimessa in discussione: al cosiddetto «politicamente corretto» non basta l'esercizio maniacale della censura, esso pretende da ognuno di noi l'autocensura. 

È questo un meccanismo inquietante che ha preso l'avvio ormai da diversi anni nelle università americane, e che soprattutto nei luoghi dove la cultura è sempre stata coltivata in piena libertà dilaga e danneggia. Negli Stati Uniti (ma in molte istituzioni culturali europee si assiste alla stessa deriva) il teatro classico di questo spadroneggiare sono le università.

 Qui ormai basta che qualche studente esagitato alzi la mano per lamentare una presunta discriminazione, una ricostruzione storica «impropria», un «linguaggio irrispettoso delle minoranze» di qualsiasi tipo per ottenere un risultato tipico delle dittature: la cacciata dei docenti non allineati al pensiero unico. Si diceva dell'autocensura, e l'ultimo incredibile episodio avvenuto la Hamline University di Saint Paul nel Minnesota, racconta addirittura del suo superamento.

Nel senso che ormai nemmeno questo basta più a un coscienzioso e prudentissimo docente a garantire la sua libertà d'insegnamento. La storia della professoressa Erika Lòpez Prater - raccontata da quel New York Times che pure è solito prendere le parti della political correctness merita adeguata attenzione.

 Docente aggiunto di storia globale dell'arte, era consapevole che mostrare immagini del profeta dell'Islam Maometto avrebbe potuto offendere i sentimenti religiosi di qualche suo studente. Per questa ragione, prima di cominciare il suo corso, ebbe cura di chiedere ai suoi allievi di segnalarle in anticipo eventuali problemi: nessuno, secondo il suo successivo resoconto dei fatti, disse nulla.

 Conscia della delicatezza della materia, la professoressa prese un'ulteriore precauzione: all'inizio della lezione, riunì i suoi studenti e li avvertì che entro pochi minuti l'immagine di Maometto sarebbe stata esposta. Chi avesse avuto problemi avrebbe così avuto il tempo di esporli, oppure di lasciare l'aula. Fatto questo mostrò l'immagine - un famoso ritratto risalente al XIV secolo - e, come riassume efficacissimamente il New York Times, perse il suo lavoro.

Accadde infatti che uno studente di origini sudanesi che prima non aveva fiatato andò a lamentarsi delle scelte professionali della docente presso l'amministrazione dell'Università, che è un piccolo ateneo privato con circa 1800 iscritti. Questa cercò di minimizzare i fatti, ovvero di far ragionare l'accusatore.

 Ma ottenne solo di peggiorare la situazione: altri studenti musulmani della Hamline, che nulla avevano a che fare con il corso della professoressa Lòpez Prater, si unirono ai suoi accusatori, gridando alla persecuzione contro la loro religione e chiedendo l'intervento delle autorità universitarie contro la reproba.

A quel punto la frittata era fatta: quello che inizialmente era un episodio localmente circoscritto divenne in breve un caso nazionale sulla libertà di espressione. E, tipite camente, fu proprio questa a uscirne sconfitta. Il dibattito prese le ormai famigerate forme dell'autoflagellazione culturale, e toccò l'apice (o meglio, il fondo) quando un rappresentante musulmano invitato a dire la sua sostenne che mostrare le immagini di Maometto equivaleva a fare l'apologia di Adolf Hitler.

 Terrorizzati, i vertici della Hamline informarono la docente che per il successivo semestre i suoi servigi non sarebbero più stati richiesti. Nonostante la raccolta di 2800 firme in sua difesa, la decisione è stata confermata nel nome del «diritto degli studenti musulmani a sentirsi sicuri, supportati e rispettati dentro e fuori le aule». Sul diritto al libero insegnamento, non una parola.

Ignazio Stagno per “Libero quotidiano” il 21 dicembre 2022.

Il perbenismo impera in tv. Soprattutto sedi mezzo c'è la lingua italiana. Nel corso dell'ultima puntata di "Ballando con le Stelle", la manina della censura è intervenuta per aggiustare "I Watussi" di Edoardo Vianello e "negri", mentre Mughini si esibiva con la compagna di ballo, è diventata "neri". 

Un omaggio alla retorica del politically correct che pretende pure di stravolgere i testi di canzoni che nulla hanno a che fare con il razzismo. In Rai forse si vergognano della parola negri nonostante sia parte integrante di un brano che, uscito nel 1963, è entrato nel Guinnes dei Primati per essere stata cantata 10mila volte dal vivo. 

D'altronde dalle parti di viale Mazzini quest' anno si eliminano concorrenti per t-shirt con un motto dannunziano e ora si sbianchettano consonanti ossequiando le regole di questa nuova lingua italiana che rinnega se stessa. Ma la "censura" andata in onda a "Ballando" questa volta supera ogni immaginazione, anche quella di chi quel brano l'ha concepito e cantato, Edoardo Vianello. Il cantante pensò a questo testo dopo aver visto il film "Le miniere di re Salomone". 

In quella pellicola era centrale la presenza della tribù dei Tutsi, poi diventati Watussi, che sono, insieme a Twa e Hutu, una delle tre etnie di Ruanda e Burundi. E nel film, Umbopa, alto e di bell'aspetto, nativo di quell'Africa inesplorata che torna nel cinema dei primi anni '50, aiuta Allan Qautermain, esperto cacciatore, Elizabeth Curtis e il fratello John Goode nella ricerca del marito. Nel corso del viaggio però Elizabeth e Allan si innamorano. 

Carlo Rossi, autore del testo, fu folgorato dall'intuizione di Vianello e decise di associare la parola "watussi" a un ballo che spopolava nei primi anni '60, l'hully gully e che già nei primi anni Venti del '900 trovava spazio nei juke joint gestiti da afro-americani. 

Da qui nacque la canzone che ben interpretava la catena di montaggio dell'industria musicale: melodie semplici incastonate su filastrocche o giochi di parole da ricordare con facilità.

Il tutto lasciando fuori dietrologie di stampo razzista. La canzone aveva l'etichetta della Rca, attentissima ai testi e al significato nascosto delle parole. Poi è arrivata la "cancel culture" ad addomesticare lingua, pensiero e ritornelli. A chiudere il caso bastano le parole di Vianello. A chi gli chiedeva se avesse riscritto il testo ha risposto: «No, mi rendo conto della discriminazione verso le persone alte. Ai tempi "negro" era una parola di uso comune senza connotazioni dispregiative: la si usava anche per definire Martin Luther King. Quindi io ce la lascio e canto ancora la canzone così: è storia».

Estratto dell'articolo di Antonio Pinelli per “la Repubblica” il 20 dicembre 2022.

Investiti dall’onda di piena del politically correct, i grandi musei americani non hanno esitato a cavalcarla, programmando mostre e acquisizioni ispirate alla gender equality e alle denunce della diseguaglianza razziale, esasperate dalla furia iconoclasta della cancel culture. 

Deciso a riscattare il “peccato originale” di certe sue raccolte storiche, […] il Metropolitan Museum, diretto dall’austriaco Max Hollein dal 2018, si è intestato questa missione riparatrice. […]

A segnalare questo radicale ripensamento, la sezione dell’Antichità classica si apre, a sorpresa, con una coppia di statue, formata dal Kouros di New York (VI secolo a.C.) e da un Mangaaka, un idolo apotropaico della seconda metà del XIX secolo, uscito dal prolifico atelier di uno scultore africano attivo in Congo. 

Il pubblico del Met resta inevitabilmente spiazzato dall’acuta polarizzazione dialettica innescata dall’accostamento del tarchiato feticcio pigmeo, dalla postura e dallo sguardo assai poco rassicuranti, alla longilinea figura greca, con la sua rigida posa egizia, il misterioso sorriso arcaico e la puntigliosa definizione delle ginocchia, presagio dell’evoluzione verso statue capaci di prendere possesso dello spazio con crescente fluidità. […]

La “strana coppia” inserita da Hollein all’inizio del percorso museale, preannuncia la mostra The African Origin of Civilization: Myth or Reality, che ricalca il titolo di un rivoluzionario saggio del 1974, in cui lo studioso senegalese Cheikh Anta Diop teorizza l’origine africana della nostra civilizzazione, sulla base dei sorprendenti legami iconografici tra sculture dell’antico Egitto e dell’Africa centro-occidentale. 

[…] . In questo contesto, la provocatoria coppia composta dal Kouros e dal Mangaaka funge da suggestivo anello di congiunzione tra l’arte africana e i primordi della civiltà greco-romana.

Non meno emblematica di questa stagione del Met è una mostra che ha il suo fulcro in un busto in marmo di una schiava in ceppi del francese Jean-Baptiste Carpeaux (1827-1875). Acquistato dal Met nel 2019 per spezzare l’uniformità razziale delle raccolte dell’ESDA, il busto è una delle migliori versioni in marmo di una scultura che Carpeaux concepì nel 1868, mentre stava lavorando alla fontana in bronzo dell’Observatoire per i giardini del Luxembourg, dove le personificazioni delle quattro parti del mondo, sostengono la sfera celeste. 

Nella fontana l’Africa è una donna a figura intera, che ostenta una catena rotta alla caviglia in segno di emancipazione. […] 

Pentitosi del titolo Négresse con cui aveva presentato l’opera al Salon, lo scultore si affrettò a modificarla, iscrivendo sul piedistallo delle versioni sucessive la frase Pourquoi naître esclave?, che dà voce alla muta disperazione della donna. […] 

Quando Carpeaux mise mano al suo busto, però, la schiavitù era stata abolita per legge, il che — non meno del procace torso femminile martoriato dalla fune — rivela la pretestuosità di un’opera che spaccia, dietro lo schermo di uno slogan progressista, un’esotica variante di mercificazione del corpo muliebre. Di qui il titolo Fictions of Emancipation. Carpeaux’s Why Born Enslaved? Reconsidered di questa mostra, che mescola i pregi di un doveroso riesame critico del passato, ai difetti di una pedagogia che non rifugge dallo zelo censorio di “cancellazioni” riparatrici.

Un esempio? Appena acquisito, il busto di schiava fu esposto, accanto al capolavoro giovanile di Carpeaux, Ugolino e i suoi figli, nella Sala Petrie dell’ESDA, che mimava un cortile francese all’aperto con panchine simili a quelle dei giardini delle Tuileries. Di qui la pronta decisione di “correggerne” l’ambiente europeizzante, sostituendo le panchine con sedie, ideate da un architetto anglo-ghanese, che evocano gli intrecci tessili africani.

Poco dopo, però, la rivolta scoppiata in risposta all’uccisione di George Floyd, suscitò nei vertici del museo interrogativi più radicali: possiamo essere complici di un’“estetizzazione della schiavitù”? E più in generale: non deve il Met porre rimedio al suo “razzismo istituzionale”? Nasce da questi scrupoli l’ulteriore sterzata impressa da Hollein ai programmi del museo, di cui Fictions of Emancipation è l’esempio più pregnante.

[…] All’insegna di un’ironica demistificazione sono documentate in mostra anche sculture recenti come la colossale sfinge di polistirolo ricoperto di zucchero, esposta nel 2014 dall’artista afro-americana Kara Walker in una raffineria di zucchero a Brooklyn prima della sua demolizione, in omaggio alle schiave che lavoravano la canna da zucchero. Intitolata Sugar Baby, la sfinge è una sorta di Mami di Via col vento, impudicamente accucciata. Un’allusione all’assoggettamento sessuale delle schiave al padrone bianco, ma anche una rivendicazione che ha il pungente sapore di un’irridente ritorsione.

Da liberoquotidiano.it il 19 dicembre 2022. 

"Io ho una mia idea: il fatto che due si amano devono procreare". Eros Ramazzotti, ospite di Mara Venier a Domenica In, su Rai 1, provoca uno tsunami di commenti su Twitter, il più delle volte negativi se non addirittura ingiuriosi nei suoi confronti. Il cantante romano, a tratti commosso, parla della figlia Aurora che presto lo renderà nonno, ricordando poi il grande amore della sua vita, Michelle Hunziker.  

"È la mamma di mia figlia, Più bella cosa non può che essere dedicata a lei", ha spiegato Eros riferendosi a una delle sue più famose canzoni. Apriti cielo, molti telespettatori sui social gli hanno contestato mancanza di buon gusto per aver di fatto "retrocesso" Maria Pellegrinelli, sua seconda moglie dalla quale ha divorziato nel 2019. Ma sono le parole sulla gravidanza di Aurora a scatenare un putiferio con molti che addirittura additano come "roba da Medio Evo" la concezione di Ramazzotti del ruolo della donna e della coppia più in generale.

"D'altronde si sa - è il commento di un utente -, una donna non è realizzata se non ha figli.. Bellissimi messaggi incoraggianti e per nulla medievali trasmessi sulla rete nazionale". E ancora: "Se due si amano DEVONO procreare. Ma dove sta scritto ?! Ma che dici. Ma chi lo dice. Ma chi te/ce lo obbliga. Messaggio sbagliatissimo".  

Sulla stessa lunghezza d'onda le critiche alla battuta su Sinisa Mihajlovic. L'allenatore serbo, scomparso venerdì per leucemia a soli 53 anni, lascia una famiglia splendida: la moglie, due figlie e 4 figli. "Eh, si è dato da fare", ha scherzato Romazzotti attirando su di sé l'accusa di mancanza di sensibilità e di buon gusto, anche se pochi hanno considerato il fatto che Eros e Sinisa erano amici e spesso fianco a fianco in attività benefiche. 

Ottavio Cappellani per www.lasicilia.it il 18 Dicembre 2022.  

Sarà un Natale “due palle” perché con la crisi da fame che c’è al massimo potrete scippare l’alberello in campagna e appenderci giusto due palle e poi passare il Natale a guardarlo, senza regali sotto, commentando, appunto: due palle. 

Però ci sarà molto da parlare, che è l’unica cosa che ci resta da fare quando non ci sono soldi e in Sicilia abbiamo una frase apposta per i momenti di “malura” (cattive ora, cattivi tempi, cattive acque e i fiumi tirano le pietre): “sdilliriare suli suli”, delirare da soli, lamentarsi con se stessi, mandare a quel paese il mondo ma sottovoce, che a Natale siamo tutti più buoni tranne i ricchi con i poveri, i poveri con i ricchi, i poveri con i poveri e i ricchi con i ricchi.

Parleremo quindi di questa vergogna sessista, maschilista e patriarcale che è la figura di Babbo Natale. Perché non Mamma Natale? Ma anche Mamma è sessista, e quindi manco omosessuale perché non è abbastanza inclusivo, per cui ci resta soltanto “Schwa Natal*” che è davvero un delirio, ma come sopra detto: il delirio è tutto ciò che ci resta. 

Passiamo al presepe. Che abbandona sempre più la tradizione della rappresentazione bucolica agreste per diventare sempre più metropolitana e contemporanea. Spazio dunque alla statuina del pusher, con la fila degli acquirenti (vestiti da avvocati, imprenditori, assistenti di politici, politici, scippatori, pizzaioli, cuochi, lavapiatti, chef gourmet, disoccupati col reddito di cittadinanza) che dopo la cena frugale in famiglia vanno a fare “seratina” con cocaina e droga dello stupro.

La statuina “influencer” col telefonino in mano mentre si fa un Elfie (la versione natalizia del selfie – da “elfi”, assistenti di “Schwa Natal*” per chi non ci arrivasse) è sostituita dalla statuina Onlyfans, perché la povertà dilaga e nel nuovo sottoproletariato glamour col diritto alla moda e all’eleganza i ragazzini devono portare il pane e la Louis Vitton a casa e quindi aprite le gambe e vai la laura’, vale anche per i maschietti, che oltre ad aprire le gambe devono portare le caviglie alle orecchie (per i minori che leggessero: stiamo parlando di tutorial per fare yoga e rilassarsi).

E visto che lo spirito cristiano è votato all’assistenza e al conforto dei più sfortunati, mi raccomando, gli stivali di gomma di Aboubakar persino al bue e all’asinello dovete metterglieli, e se qualcuno vi dice che vi state politicizzando voi tirate fuori gli articoli in difesa di Liliane Murekatete, che è donna e di fronte alle donne dovete starvi tutti muti altrimenti Concita De Gregorio e Michele Serra vi fanno il cu… non vi fanno gli auguri di Natale.

Ovviamente, per la befana, al posto della calza dovete mettere il sacco dei contanti, poi se vi comportate bene, cioè se vi fate corrompere dai paesi ricchi che però non rispettano i diritti umani e sfruttano i lavoratori, allora viene la befana e ci mette dentro i contanti. Se invece vi comportate male, cioè non vi date ad azioni illegali, manco il carbone di zucchero vi tocca, al massimo un po’ di carbonella così vi accendete il braciere e non morite assiderati che di riscaldamento a gas o elettrico meglio non parlarne. Per cui buone feste a voi e famiglia e vi auguro un ricco e sereno Natale da delinquere. E ricordate: o rubeca o futteca. Spesso entrambi.

Angela Casano per leggo.it il 15 Dicembre 2022.

"Studentesse che fanno il miglior sesso", questo il nome della lista redatta da un dottorando iscritto all'Università di Palermo che circolava ormai da mesi su Whatsapp. È lo scandalo scoppiato in questi ultimi giorni a Unipa, dopo che il blog di informazione Younipa ha pubblicato la notizia, del presunto episodio di sessismo avvenuto nei mesi scorsi in Ateneo, grazie alla denuncia di una delle vittime. 

Il 24 novembre scorso una studentessa, dopo aver evitato per giorni di percorrere viale delle Scienze per la «vergogna», ha denunciato nel blog di essere finita in una lista di «studentesse dalle migliori prestazioni sessuali». A redigere questa lista sarebbe stato un dottorando di ricerca del dipartimento di Economia di Unipa, per poi diffonderla attraverso dei gruppi WhatsApp.

Appresa la notizia, un gruppo di studentesse del Collettivo Medusa ha lanciato un'assemblea d'ateneo: «Episodi come questo ci fanno rendere conto di come uno spazio femminista all'Università sia necessario - dice Anna Taibi, studentessa di Beni culturali - e che l'emancipazione delle donne non sia affatto scontata, nemmeno negli ambienti accademici, tra i banchi dei dottorati, dove prende forma la classe intellettuale di domani, in perfetta continuità con le classi intellettuali stantie e reazionarie di oggi e di ieri. Nel mostrare solidarietà alla collega che sarebbe stata colpita dall'ennesimo episodio di sessismo all'interno dell’Università di Palermo, sentiamo il dovere di puntare i riflettori sull'ambiente accademico che nasconde e protegge, legittimando, chi fa violenza sulle donne».

Il riferimento è alla reazione della governance universitaria alla segnalazione, diffusa attraverso un sito non ufficiale dell’Ateneo. «La loro soluzione è stata quella di accusare di diffamazione la redazione del blog, senza proferire parola in merito ai fatti riportati - continua Taibi -. La mancanza di un dibattito pubblico intorno alla vicenda la rende ancora più grave, genera il rischio che il tutto venga nascosto e normalizzato e che non vengano messi in discussione i rapporti di potere vigenti all’interno del mondo accademico.

Non basta istituire prorettorati all'Inclusione, Pari opportunità e Politiche di Genere, non basta inaugurare ogni anno panchine rosse per lavare via le responsabilità dell’ambiente accademico. Occorre che la comunità accademica si unisca perché non si permetta il verificarsi di cose simili, occorre che lanci un messaggio chiaro alle studentesse, alle ricercatrici, alle professoresse: nessuna di noi deve restare isolata», conclude Taibi. 

Più tardi, sul caso è intervenuta Beatrice Pasciuta, Prorettrice all’Inclusione, Pari opportunità e Politiche di genere, con una lettera: «Nessuna segnalazione è giunta alle strutture di ateneo: né a me in qualità di Prorettrice, né al Rettore, né infine utilizzando il servizio anonimo di whistle blowing di ateneo. Per evitare di passare sotto silenzio una denuncia all’apparenza così grave - prosegue la lettera - abbiamo attivato i nostri canali di indagine, nel rispetto della riservatezza che è dovuta in questi casi.

Abbiamo quindi potuto delineare i contorni di una vicenda che, per quanto da stigmatizzare, è di portata assai differente rispetto a quanto segnalato dal blog in questione e poi ripreso in vari siti di informazione. Per evitare di passare sotto silenzio una denuncia all'apparenza così grave, abbiamo attivato i nostri canali di indagine, nel rispetto della riservatezza che è dovuta in questi casi».

 «Abbiamo quindi potuto delineare i contorni di una vicenda che, per quanto da stigmatizzare, è di portata assai differente rispetto a quanto segnalato dal blog in questione - scrive la Prorettrice -. Nel mese di febbraio scorso un dottorando di ricerca ha stilato una classifica di sue colleghe di dottorato, in base alla bellezza fisica (o almeno in base al suo personale criterio), che a quanto ci risulta è stata pubblicata su una chat dei dottorandi per pochi minuti, prima di essere cancellata. 

L'autore di questo atto insulso e idiota è stato individuato e convocato dal Coordinatore del Dottorato, che lo ha rimproverato e severamente ammonito - spiega -. Il dottorando ha allora inviato a tutte le colleghe di dottorato una mail di scuse, nella quale ha chiesto di perdonare il suo comportamento, da egli stesso, giustamente, definito disdicevole e condannabile. Il Coordinatore ha quindi chiesto alle interessate se intendessero procedere con la segnalazione per il provvedimento disciplinare e, non ricevendo indicazioni in tal senso, ha ritenuto di considerare chiusa la vicenda».

«Veniamo adesso accusati di non aver fatto nulla. Addirittura, il Rettore e la governance dell'Ateneo, che nulla sapevano di questi fatti fino ad ora, vengono accusati di complicità e di connivenza, perfino di censura», prosegue la Prorettrice. «Quello che a me non è chiaro - conclude Beatrice Pasciuta - è quale sia il vero scopo di tanto clamore da parte del blog, che ha riportato in maniera distorta e parziale gli avvenimenti, senza preoccuparsi, come è dovere di chi fa informazione, di verificare la correttezza di quanto riportato nella lettera anonima. Se tale lettera davvero esisteva».

Estratto dell'articolo di Marta Occhipinti e Tullio Filippone per “la Repubblica” il 16 dicembre 2022. 

In viale delle Scienze, il campus universitario dell'Ateneo di Palermo, la vicenda ormai la conoscono tutti. E ieri, le colonne dei plessi, le porte delle aule e le bacheche, erano tappezzate dallo slogan "La violenza sulle donne non si censura". La censura è il silenzio dell'Università portata avanti per ben 10 mesi, sul caso della "lista hot" delle dottorande: una classifica costruita a febbraio con precisione statistica da un collega di studi, che ha raccolto le loro foto da profili social, per poi farle valutare via chat con voti e punteggi sulle parti del corpo, creando infine un ranking diffuso nei gruppi whatsapp. Allora, dopo la denuncia al coordinatore di dottorato, il "caso" si era chiuso con una mail di scuse, con il direttore del Dipartimento a condividere l'anomala procedura.

C'è voluta una lettera anonima su un blog e la ricostruzione di Repubblica, per riaprire una vicenda nascosta e rimasta confinata per quasi un anno negli uffici e nei corridoi dell'edificio 13, il dipartimento di Economia. Dopo le rivelazioni del nostro giornale, il rettorato ha confermato i dettagli con una lettera della prorettrice alle Politiche di genere e inclusione, Beatrice Pasciuta, che ha negato il coinvolgimento dei vertici dell'università.

Poi è intervenuto in prima persona il rettore, Massimo Midiri, che ha ribadito di essere rimasto all'oscuro della vicenda, ma ha ammesso alcuni errori: «È stata sottovalutata - ha risposto a Repubblica - Abbiamo avviato indagini interne, le molestie vanno punite e non possiamo escludere sanzioni disciplinari».

Per questo, ieri pomeriggio, nell'ex facoltà di Lettere e Filosofia dell'Ateneo di Palermo, il collettivo femminista Medusa, che ha riempito l'università di volantini, ha organizzato un'assemblea pubblica: da una parte le studentesse ad aprire il dibattito, dall'altra i vertici dell'università, in prima fila ad assicurare «che nell'Ateneo di Palermo le donne che denunciano le molestie non sono sole e che ci sono gli strumenti per segnalarle». 

Procedure che evidentemente, però, non vennero attivate d'ufficio dieci mesi fa.

«Casi come quello dell'università di Bologna (dove un ex direttore di un dipartimento in pensione ha patteggiato una condanna per violenze sessuali e molestie nei confronti di alcune studentesse, ndr ) dimostrano che il sessismo negli atenei esiste - dice dai banchi la studentessa Ludovica Di Prima - A Palermo, la comunità studentesca si sarebbe aspettata una punizione o delle conseguenze che andassero ben oltre quello che è stato fatto». […]

E l'assemblea, alla fine, difende la loro scelta di 10 mesi fa. Cioè accettare le scuse del collega per email e chiudere il caso adesso di dominio pubblico per la lettera anonima. «Non sta a noi giudicare né compatire chi subisce violenze di genere - si legge nel documento firmato ieri dai collettivi e dalle associazioni studentesche - Sta a noi invece creare una comunità solida che possa essere un supporto». Forse l'ambizione a un quieto vivere, che rivela una questione culturale irrisolta.

"Ecco chi è davvero donna". Anche il dizionario cede all'ideologia transgender. Storia di Roberto Vivaldelli su Il Giornale il 16 dicembre 2022. 

Altra vittoria dell'ideologia woke e del follemente corretto. Il Cambridge Dictionary ha recentemente aggiornato le sue definizioni di "donna" e "uomo" per "includere" le persone transgender. Martedì una portavoce del Cambridge Dictionary ha confermato al Washington Post che il celebre dizionario, l'equivalente inglese della Treccani, ha aggiunto la voce lo scorso ottobre, benché questo cambiamento in ossequio al politically correct imperante abbia attirato l'attenzione solo questa settimana dopo che il quotidiano britannico Telegraph ha riportato per la prima volta la notizia. "Abbiamo studiato attentamente i modelli di utilizzo della parola donna e abbiamo concluso che questa definizione è quella di cui gli studenti di inglese dovrebbero essere consapevoli per supportare la loro comprensione di come viene utilizzata la lingua", afferma Sophie White, portavoce della Cambridge University Press and Assessment.

La classica definizione di "donna" presente nel Dizionario di Cambridge - "Un essere umano di sesso femminile adulto" - è ancora presente e "rimane invariata", sottolinea White. Viene però aggiunta una frase eloquente: "Un adulto che vive e si identifica come femmina anche se si potrebbe dire che abbia un sesso diverso alla nascita", si legge. Si abidca in tutto e per tutto all'ideologia transgender, secondo la quale il "genere" è predominante rispetto al sesso biologico. Conta più ciò che uno si sente di essere, più di quello che si è realmente, nel nome del relativismo etico assoluto e del politicamente corretto.

Nella definizione sono inclusi due esempi che fanno riferimento a persone transgender. Uno di questi recita: "È stata la prima donna trans eletta a una carica nazionale". Un altro ancora riporta: "Mary è una donna a cui è stato assegnato un sesso maschile alla nascita". Ma non finisce qui, perché ulteriori aggiornamenti sono stati apportati anche alla voce "uomo". I due esempi elencati per la definizione supplementare di "uomo" includono "Mark è un uomo trans" e "il loro medico li ha incoraggiati a vivere come un uomo per un po' prima entrare in una fase di transizione chirurgica".

Le modifiche introdotte dal dizionario di Cambridge seguono la strada già tracciata negli ultimi anni dall'Oxford English Dictionary e dal Merriam-Webster. "Il Cambridge Dictionary ha appena cambiato la definizione di "donna". Ricorda, se puoi controllare la lingua, puoi controllare la popolazione" ha accusato lo youtuber Steven Crowder. Nikky Haley, ex ambasciatore degli Stati uniti presso le Nazioni Unite, commenta la notizia sottolineando che cambiare la definizione di "donna" è "contro le donne". Ma non succede solo nel Regno Unito. In Francia, di recente il pronome neutro "iel", contrazione di "il" ( lui) e "elle" ( lei"), utilizzato dalle persone che si definiscono "non binarie" e dunque non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile, ha fatto il suo ingresso nel Petit Robert.

Come nota lo studioso Luca Ricolfi nel suo libro La mutazione. Come le idee di sinistra sono diventate di destra (Rizzoli) l'attacco al linguaggio naturale, e il progetto di imporre una antilingua politicamente corretta, sono molto più pervasivi e ambiziosi di quanto si potrebbe supporre. Da almeno un paio di decenni, scrive Ricolfi, nelle grandi burocrazie, nelle università, nelle case editrici, nei media, nelle aziende, fra le forze politiche, nelle istituzioni, si moltiplicano codici e regolamenti che prescrivono come si devono usare le desinenze per indicare il genere e il numero, come si devono indicare le professioni maschili e femminili, come si devono chiamare i disabili e i grassi, quali parole vanno bandite dalla pubblicità, che cosa si deve fare se si incappa in una persona che ha cambiato sesso. Nel XXI secolo il politicamente corretto si fa follemente corretto.

Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 15 Dicembre 2022.

Su queste pagine, due settimane fa, vi abbiamo raccontato quali sono le nuove teorie in voga nella prestigiosa Università di Cambridge: come quella del giovane ricercatore Joshua Heath che, facendo leva su tre quadri sulla Crocifissione risalenti al Medioevo e al Rinascimento, tra cui "La Grande Pietà" del francese Jean Malouel, sostiene che Gesù «avesse un corpo trans». Sempre da Cambridge, arrivano nuove forme di genuflessione all'ideologia gender. 

Come rivelato dal quotidiano The Telegraph, il Cambridge Dictionary, ossia il vocabolario di riferimento dell'ateneo britannico, equivalente per importanza al dizionario della Treccani, ha infatti aggiornato la definizione di «donna» e «uomo», aggiungendo una riga per entrambe le voci in ossequio al militantismo trans. D'ora in avanti, una «donna», per il Cambridge Dictionary, non è più semplicemente un individuo di età adulta di sesso femminile, contrapposto a quello maschile, ma anche «un adulto che vive e si identifica come femmina nonostante gli sia stato attribuito un altro sesso alla nascita».

E viceversa per gli uomini. Bisogna finirla con l'idea binaria secondo la quale esistono individui di sesso maschile contrapposti a individui di sesso femminile, bacchettano gli accademici di Cambridge. Un uomo è «un adulto che vive e si identifica come maschio nonostante gli sia stato attribuito un altro sesso alla nascita». I redattori del dizionario hanno apportato le modifiche dopo aver studiato i nuovi usi delle parole nella società, concludendo che la nuova definizione è quella di cui gli studenti di inglese «dovrebbero essere consapevoli», secondo quanto riportato dal Telegraph.

Ecco gli esempi citati dal dizionario: «Lei è la prima donna trans eletta a una carica nazionale» e «Mary è una donna a cui è stato attribuito il sesso maschile alla nascita». E ancora: «Mark è un uomo trans (= un uomo a cui è stato detto che era una femmina quando è nato)» e «il loro dottore li ha incoraggiati a vivere come uomini per un periodo prima di sottoporsi alla transizione chirurgica». Quello di Cambridge non è il primo dizionario a modificare le sue definizioni di «donna» e «uomo», e dunque a cedere alle pressioni delle lobby Lgbtq.

A luglio, l'americano Merriam-Webster aveva aggiunto una definizione supplementare di «donna», definendola una persona «che ha un'identità di genere opposta all'uomo». «È una buona notizia», ha reagito la dottoressa Jane Hamlin, presidente della Beaumont Society, ente che sostiene le persone transgender e non binarie, prima di aggiungere: «Ultimamente è stata fatta tanta disinformazione e diffusa spazzatura sulle definizioni di "uomo" e "donna", ma queste definizioni sono chiare, concise e corrette. Congratulazioni al team del Cambridge Dictionary!».

L'aggiornamento deciso dal prestigioso ateneo ha suscitato anche molte reazioni stizzite. Come quella di Don McLaughlin, firma di punta della National Review, secondo il quale il Cambridge Dictionary ha operato un cambiamento orwelliano. «1984 non doveva essere un manuale pratico», ha twittato Don McLaughlin. La decisione degli accademici di Cambridge arriva sullo sfondo delle proteste, in Scozia, contro il Gender Recognition Reform Bill, un decreto che mira a facilitare l'acquisizione da parte delle persone trans di un Gender Recognition Certificate, ossia di un certificato che attesti che il loro genere «non è quello assegnato loro alla nascita» senza l'obbligo di una diagnosi medica di disforia di genere. 

La protesta è sostenuta da diverse personalità, tra cui l'autrice della saga di Harry Potter, J.K. Rowling. Quest' ultima, un tempo portata in trionfo dal mondo culturale britannico, è oggi al centro dei fuochi incrociati delle femministe radicali e di gruppi di pressione Lgbtq, in ragione delle sue prese di posizione critiche verso le teorie gender.

Tutto è iniziato due anni fa, quando su Twitter, in risposta a un articolo controverso, ha ribadito l'ovvio, ossia che solamente le donne hanno il ciclo mestruale, e che esistono differenze biologiche tra donne e uomini. Apriti cielo. Da quel momento, è per tutti la scrittrice "transfoba", l'infrequentabile, ed è minacciata di morte dalle attiviste trans. Ecco uno dei messaggi ricevuti: «Spero che tu possa trovare una bomba nella tua cassetta della posta».

Francesco De Remigis per “il Giornale” il 15 Dicembre 2022.

La professoressa del presidente impugna la penna rossa. E nel friabile dibattito sui generi «fluidi», Brigitte Macron la usa come un piccone per abbattere l'ipocrisia del vocabolario politicamente corretto; che a Parigi sta prendendo piede tanto nella pubblica amministrazione quanto nelle università d'élite. Infatti, dalla Sorbona al Comune della capitale francese, i nomi su alcuni documenti vengono già declinati con genere neutro: per non offendere nessuno, si usa «iel», contrazione tra «il» ed «elle». Via maschile e femminile, con buona pace della letteratura d'Oltralpe.

Brigitte, première dame e soprattutto insegnante di liceo di Emmanuel Macron nella vita pre-Eliseo, non ci sta. E in un'intervista all'Obs boccia seccamente la cosiddetta «scrittura inclusiva», che dal 2012 viene venduta ai politici europei da agguerriti militanti Lgbtq come forma di diritto umano trasversale, fino ad essersi imposta anche in Francia. Invece, senza mezzi termini, la première dame dice di poter parlare a nome della «maggioranza silenziosa» dell'Esagono, quando afferma che nella lingua francese ci sono solo «due pronomi». Lui e lei. Maschile e femminile. Punto.

Non la pensa così il prestigioso vocabolario Robert, che nella versione on line ha aggiunto il controverso pronome neutro inventato per persone che non si riconoscono nel maschile o femminile. Apriti cielo. Brigitte si riscopre prof. E alza una diga contro l'ideologia «gender» entrando a gamba tesa in un dibattito scivoloso, su cui il governo avrebbe volentieri glissato. Critica il Robert, che ha introdotto «iel» anche nell'edizione cartacea 2023. E condanna soprattutto il genere neutro adottato da alcune amministrazioni locali e università (vedi Il Giornale del 6 dicembre con il caso Sciences-Po). E persino da alcune aziende, dove il vessillo ideologico issato da un certo management, a volte senza appello, ha disorientato i dipendenti.

Brigitte rispolvera le posizioni conservatrici già espresse dall'ex ministro dell'Istruzione Jean-Michel Blanquer, che sull'uso di «iel» si era indignato. L'Accademia di Francia bollò a sua volta la scelta del Robert come «trovata pubblicitaria». Blanquer è stato però sostituito dal mite Pap Ndiaye, più permeabile agli influssi della contemporaneità. E a difendere la lingua dal politically correct è rimasta Brigitte.

«Imparare il francese è già difficile, non aggiungiamo complessità a complessità, è una posizione culturale», rivendica la première dame. Ndiaye è stato costretto ad assecondarla: «Con lei scambio regolarmente idee su molti argomenti...». Tanto è bastato per far insorgere i censori del libero pensiero. «Non è il suo ruolo, è come se andasse a dar consigli a un ingegnere nucleare», dice una fonte anonima del ministero, citata dall'Opinion.

L'incursione della ex prof è infatti un'onda pronta a scuotere l'intero establishment francese.

Per ora, il neologismo «iel» resta nel dizionario, sommato alle altre parole legate all'identità di genere apparse negli ultimi anni: «Non binaire», «transgenre», «gender fluid».

Persino sottocategorie: «Agenre» o il suo opposto «bigenre», cioè appartenente a entrambi i sessi contemporaneamente o in modo intermittente. Fino a «cisgenre», che per il Larousse definisce «una persona la cui identità corrisponde al sesso assegnato alla nascita». Brigitte non si allinea agli eccessi del lessico «gender». Da Palazzo inaugura una crociata culturale. E chi usa il linguaggio come arma, e il ricatto come minaccia di scendere in piazza, si scontra per la prima volta con una première dame che pur nel rispetto delle identità blinda la lingua francese dalla «rivoluzione» delle neolingue.

Così Wikipedia è diventata il baluardo del conformismo. Nata libertaria, l'enciclopedia on line è cresciuta allineata all'ideologia e all'agenda «corretta». Carlo Lottieri il 23 Agosto 2023 su Il Giornale. 

Wikipedia nacque da un'intuizione libertaria. Secondo lo stesso Jimmy Wales, che aveva seguito un corso di teoria economica alla Auburn University, fu la lettura dell'economista Friedrich A. von Hayek a suggerire l'ipotesi di questa enciclopedia on line di cui tutti possono essere i redattori. In alcuni celebri articoli lo studioso austriaco aveva infatti contestato le logiche della pianificazione economica (e della programmazione) evidenziando che ci sono tutta una serie di conoscenze fattuali che per loro natura sono disperse, e che nessun pianificatore centrale è in grado di maneggiare. Esse sono invece utilizzate dagli innumerevoli attori di un mercato libero e plurale. Nel 2001 Wales partì da qui.

Egli comprese come anche per la più competente, prestigiosa e organizzata delle enciclopedie tradizionali non fosse semplice poter raccogliere quelle informazioni specifiche che ognuno di noi possiede. Un esito della creazione di Wikipedia è che oggi è assai facile sapere grazie all'edizione italiana quanti cittadini filippini sono registrati a Biella (ben 390) e grazie a quella francese che quota di musulmani del Niger aderisce alla fraternità sufi (circa il 47%).

Sul piano delle informazioni si può essere ragionevolmente fiduciosi che Wikipedia sia credibile, anche grazie al costante monitoraggio riservato a ogni lemma. Le cose cambiano in maniera radicale, però, quando ci si sposta sulle questioni culturali, dal momento che mentre da un lato Wikipedia fa professione di neutralità d'altro lato è evidente che essa rappresenta un concentrato di conformismo. Può essere allora interessante chiedersi in che modo un progetto in qualche modo libertario e volto a delineare una nuova encyclopédie, stavolta decentrata, si sia convertito in uno strumento posto a difesa dello status quo dirigista.

Il punto di partenza è che, in linea di massima, Wikipedia è scritta da chiunque voglia farlo. È possibile aprire una pagina e modificarla, oppure anche aggiungere una voce inedita. È però evidente che tra gli autori (tra coloro che spontaneamente e senza remunerazione redigono i testi) è più facile trovare professori di scuola media invece che artigiani, bibliotecari invece che imprenditori, e via dicendo. I primi hanno più tempo a disposizione e spesso si ritengono adeguatamente competenti per trattare questioni di diritto, metafisica, sociologia, letteratura spagnola e via dicendo. Ne discende che nelle voci dell'enciclopedia on line troviamo uno spirito da servizio pubblico che si converte in un costante tono censorio verso ogni eresia. Va aggiunto, inoltre, che esiste un comune sentire che unisce la maggior parte di quanti hanno letto, nel corso della loro vita, un certo numero di libri. Se oggi gli intellettuali sono assai meno tolleranti del resto della società (di recente un professore universitario ha perfino immaginato l'introduzione del reato di «negazionismo climatico»), non è sorprendente che Wikipedia sia quello che è.

Non bisogna poi dimenticare che insieme agli scrittori occasionali (registrati oppure no) svolgono un ruolo cruciale quanti occupano un incarico specifico. Si tratta dei cosiddetti «amministratori», a cui spetta anche di decidere in un senso o nell'altro quando le divergenze si fanno ingestibili. Basta leggere qualche discussione per comprendere che si tratti per lo più di quella piccola porzione della popolazione che, in Italia, quando al mattino va all'edicola compra La Repubblica oppure il Corriere della Sera. Il risultato è una mancanza di senso critico che rende Wikipedia assai sbilanciata a favore di talune posizioni. Non c'è quindi da stupirsi se, come sul New York Times oppure alla CNN, anche nell'universo genialmente inventato da Wales con populista s'intende qualcosa di spregevole, mentre la ragione sta con quanti sono progressisti e quindi bene allineati con le istituzioni. Una fonte costante di diatribe, ad esempio, è il carattere enciclopedico o meno di un lemma. In poche parole si deve stabilire se questo o quel tema meritano di essere trattati. Oltre a ciò si tratta anche e soprattutto di vedere in che modo quell'argomento se degno di una voce sarà presentato. Alla luce di quanto s'è detto sul profilo culturale della maggior parte di quanti gestiscono l'enciclopedia, è facile comprendere il suo carattere sfacciatamente mainstream. Per cogliere quanto Wikipedia finisca quasi sempre per essere conformista è sufficiente consultare la versione italiana alla voce Riscaldamento globale. Molto corposo, il lemma presenta una lunga serie di analisi a sostegno delle tesi sposate dai governi occidentali e dalle organizzazioni da loro finanziate: in altre parole, si afferma in termini apodittici l'origine prevalentemente antropica del riscaldamento in una polemica con un interlocutore che però è assente. In effetti, le tesi di quanti sono scettici al riguardo (premi Nobel inclusi) non sono citate: neppure per essere contestate.

Alla fine si arriva a conclusioni straordinarie, poiché si dice che l'equilibrio ambientale che dobbiamo raggiungere è «del tutto incompatibile con la società attuale e gli stili di vita della popolazione occidentale, con il modello di sviluppo dell'economia di mercato basato prevalentemente sul consumo di combustibili fossili e la trasformazione sempre più intensiva di risorse naturali per alimentare il PIL delle economie nazionali». In poche righe troviamo un condensato dei luoghi comuni più triti: dall'idea che l'economia attuale sarebbe basata sul mercato fino alla necessità di farla finita con petrolio e gas metano. La necessità di un grande reset gestito dall'alleanza tra politica, affari e intellettuali allineati diventa così una necessità ineludibile: alla faccia della dichiarata neutralità. Prima di essere un problema (dato che è diventata la fonte primaria di conoscenza di una parte significativa del genere umano), Wikipedia è un sintomo. Essa la dice lunga sullo stato della cultura del nostro tempo ovunque: anche se è vero che la versione inglese è spesso un po' meglio di quella italiana oppure di quella francese. In fondo, l'enciclopedia si regge su una micro-democrazia che vede attivi intellettuali volontari, i quali talvolta ricordano quello che in George Orwell è chiamato il partito esterno. Tutto questo, però, entro un ordine di potere i cui tratti e meccanismi sono assai più complessi di quelli descritti dallo scrittore inglese in 1984.

Sintesi dell’articolo de ilpost.it pubblicata da “la Verità” il 5 gennaio 2023.

Wikipedia ha meno bisogno di soldi di quanto farebbero pensare le richieste di donazioni che appaiono sulle pagine dell'enciclopedia online. La Wikimedia Foundation, fondazione senza fini di lucro che sviluppa e mantiene l'infrastruttura di vari progetti di condivisione del sapere, tra cui la più famosa è Wikipedia, impiega circa 700 persone, ha un fatturato annuo di 155 milioni di dollari e un patrimonio netto di 240 milioni di dollari.

Questa discrepanza tra il tono allarmista delle raccolte fondi e la situazione economica della fondazione mette da tempo a disagio molti volontari: dopo un'accesa discussione durata un mese, è cambiato il tono dell'ultima raccolta fondi, che ora trasmette un'idea più realistica della situazione. [Ilpost.it]

La community. Report Rai PUNTATA DEL 16/01/2023 di Emanuele Bellano

Collaborazione di Chiara D'Ambros e Greta Orsi

La filosofia di Wikipedia è basata sulla libera contribuzione da parte di utenti volontari che aggiornano le voci dell'enciclopedia.

Wikipedia è un'enciclopedia libera fondata da Jimmy Wales e gestita dalla Wikimedia Foundation con sede a San Francisco. La filosofia di Wikipedia è basata sulla libera contribuzione da parte di utenti volontari che ampliano, modificano e aggiornano le migliaia di voci dell'enciclopedia. La Wikimedia Foundation ricava denaro principalmente dalle donazioni che ogni anno milioni di lettori in tutto il mondo versano dopo aver letto i banner che compaiono sulle pagine di Wikipedia e che chiedono di contribuire alla sopravvivenza dell'enciclopedia. Ma le tecniche di raccolta fondi sono considerate da alcuni membri storici della Community aggressive e ingannevoli. A fronte del lavoro volontario di centinaia di migliaia di utenti, il board della Wikimedia Foundation paga ai suoi membri lauti stipendi, decine di milioni di dollari vengono distribuiti a progetti, persone e associazioni in tutto il mondo senza procedure chiare o documentazione pubblica. Non è un caso che nel 2020 la Wikimedia Foundation, che per 20 anni ha svolto solo attività no-profit, abbia creato un ramo profit, la Wikimedia LLC domiciliata nel paradiso fiscale e societario del Delaware: una società di capitali che vende i dati creati gratuitamente dai membri della Community a grandi compagnie come Google. E poi c'è il problema dell'attendibilità delle notizie presenti su Wikipedia: quanto è facile distorcerle, chi è in grado di farlo, quanto costa modificare a proprio piacimento una voce o crearne una da zero?

LA COMMUNITY” di Emanuele Bellano Collaborazione Chiara D’Ambros immagini Chiara D’Ambros – Alfredo Farina – Cristiano Forti – Fabio Martinelli

SIGFRIDIDO RANUCCI IN STUDIO Ora vediamo come girano i soldi nel mondo di Wikipedia, la grande enciclopedia globale, che compie i 22 anni. Buon compleanno Wikipedia!

JIMMY WALES - FONDATORE WIKIPEDIA Ciao, sono Jimmy Wales, il fondatore di Wikipedia. All’inizio non ero sicuro se sarebbe stata una società profit o no-profit. Era una cosa secondaria.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Jimmy Wales fonda l’enciclopedia online Wikipedia nel 2001. Due anni più tardi, nel 2003, crea la Wikimedia Foundation, una organizzazione no-profit con sede a San Francisco, California, nella quale fa confluire tutti i diritti sulla proprietà intellettuale dell’enciclopedia.

JIMMY WALES - FONDATORE WIKIPEDIA Quando vi chiedo soldi, non li chiedo per me, ma per la fondazione, che è il team che gestisce questa fantastica community.

EMANUELE BELLANO Hey Google, che cos’è il Colosseo? Google Assistant: Dice Wikipedia: il Colosseo, originariamente conosciuto come Anfiteatro Flavio o semplicemente Amphitheatrum, situato nel centro della città di Roma, è il più grande anfiteatro romano del mondo nonché il più imponente monumento dell'antica Roma che sia giunto fino a noi.

ETHAN ZUCKERMAN – PROFESSORE POLITICHE PUBBLICHE E COMUNICAZIONE MASSACHUSSETTS UNIVERSITY - AMHERST La gente finisce per essere informata da Wikipedia anche quando non lo sa. Se chiede a Google chi è il primo ministro in Italia, Google consulta Wikipedia. E questo conferisce a Wikipedia un potere incredibile.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Oltre 260 miliardi di pagine visitate in un anno. Una media di due miliardi di click al mese da computer, telefonini e tablet. Wikipedia è il sito di informazione più guardato al mondo e uno dei primi in assoluto del web.

JOSEPH REAGLE – PROFESSORE ASSOCIATO SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE NORTHEASTERN UNIVERSITY - BOSTON E la particolarità è che l’unico no-profit. Non è come Facebook o Twitter creati per fare soldi. I suoi contenuti sono prodotti da una comunità di volontari.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Sono centinaia di migliaia di volontari in tutto il mondo che dedicano ogni giorno ore di lavoro gratis per arricchire e correggere le informazioni presenti in Wikipedia.

EDITOR 1 I am from Nepal.

EDITOR 2 I am from Iraq.

EDITOR 3 I am coming from India.

EDITOR 4 I am from Bayonne, New Jersey.

EDITOR 5 I am living in Birmingam, England.

EDITOR 6 Chicago, Illinois.

EDITOR 7 La Paz, Bolivia.

EDITOR 8 Nairobi, Kenya.

EDITOR 9 Kuala Lumpur, Malesia.

EDITOR 10 Milano, in Italy.

LANE RASBERRY - MEMBRO WIKIPEDIA COMMUNITY La Community è l’insieme di tutti gli utenti che contribuiscono allo sviluppo dell’enciclopedia Wikipedia ed è separata dalla Wikimedia Foundation, che gestisce il sito web, le questioni amministrative e definisce gli stipendi del suo staff. In pratica, la Community è fatta da volontari, la Fondazione, invece, è composta da personale retribuito.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dopo 20 anni di no-profit, la Wikimedia Foundation ha dato il via a un’attività profit. Ha creato una società di capitali che per la prima volta potrà distribuire ai suoi soci gli utili realizzati vendendo l’enciclopedia che migliaia di volontari hanno creato negli anni giorno dopo giorno.

PETE FORSYTH - MEMBRO WIKIPEDIA COMMUNITY - CREATORE DI WIKI STRATEGIES Questo non ha nulla a che vedere con l’idea originaria. La Wikimedia Foundation purtroppo diventa sempre di più qualcosa che assomiglia a una big tech company, come Google, YouTube o Facebook.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, è una parola composta da un termine hawaiano Wiki che significa “veloce”, e un termine greco paideia, che significa “formazione”. È proprio per l’agilità con cui si utilizza e si può consultare che ha fatto sì che Wikipedia diventasse il primo sito di informazione per numero di click al mondo. Lei stessa dice: ma non consideratemi come una fonte primaria. Tuttavia, lo è diventato un po’ per la nostra pigrizia e un po’ anche suo malgrado. Perché quando noi chiediamo informazioni ad Alexa o a Siri, assistenti vocali, loro consultano Wikipedia. Ma sono sempre attendibili le informazioni che contiene? Ecco, Wikipedia nasce 22 anni fa, il 15 gennaio del 2001 da un’idea di Jimmy Wales, un talentuoso studente di finanza che poi aveva creato, prima un portale, per cercare la musica pop, lui ci aveva messo anche foto pornografiche ed erotiche. Aveva anche inventato Nupedia, un’enciclopedia online in lingua inglese, che però troppo lenta perché si avvaleva dell’ausilio di alcuni esperti che hanno pubblicato in tre anni solo 24 pagine. Ora Wales e il suo socio Larry Sanger hanno ad un certo punto pensato che ci voleva qualcosa di più dinamico e hanno avuto un’intuizione straordinaria: creare un’enciclopedia globale con l’ausilio, il contributo volontario degli utenti della community, un sapere condiviso, ecco. Si realizzava quella che pensava di essere un’utopia. E solo che Wales, ad un certo punto ha uno strumento straordinario tra le mani, ma che non frutta nulla dal punto di vista economico. Così pensa di far gestire la piattaforma Wikipedia da una fondazione no profit: Wikimedia. Attenzione, la fondazione no profit, Wikimedia, e la piattaforma Wikipedia, tenetele ben presente. E Wikimedia, la fondazione, ha accumulato in donazioni che sono state fatte proprio da chi utilizzava il contributo volontario della community di Wikipedia, la bellezza di 350 milioni di dollari. Che cosa ci fa con questi soldi e chi finanzia? Ora siamo ad una svolta dopo 22 anni, Wikimedia sta per vedere alle 4 big tech proprio i contributi che i volontari hanno scritto in questi anni. Il nostro Emanuele Bellano con la collaborazione della nostra Chiara D’Ambros.

WIL FYFORDY - WIL540ART- MEMBRO WIKIPEDIA COMMUNITY Ciao, benvenuti a “Sure We Can”. Siamo in un centro di riciclo a Bushwick, Brooklyn, nella città di New York. È un posto dove le persone portano bottiglie vuote e lattine e in cambio ricevono un compenso garantito dallo Stato.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Per ogni lattina si ottengono in cambio cinque centesimi di dollaro. Una volta divise, pulite e imbustate vengono consegnate alle aziende produttrici di bevande, che provvedono a trasformarle in nuove lattine o contenitori. EMANUELE BELLANO Chi partecipa alla raccolta?

WIL FYFORDY - WIL540ART- MEMBRO WIKIPEDIA COMMUNITY C’è chi abita in questo quartiere, altri che vivono più lontano. Qualcuno recupera le lattine negli appartamenti del suo palazzo, altri le raccolgono per strada, altri ancora cercano nei bidoni della spazzatura per trovare le lattine da riciclare.

EMANUELE BELLANO Indossi una maglietta di Wikipedia. Che rapporto c’è tra quello che fate qui e Wikipedia?

WIL FYFORDY - WIL540ART- MEMBRO WIKIPEDIA COMMUNITY Io sono Will, ma sono anche l’utente Will540art su Wikipedia e ho organizzato in questa struttura il primo evento collegato all’enciclopedia. Con gli ospiti abbiamo parlato di ambiente e abbiamo scritto un articolo su Wikipedia sulle nostre attività. Poi è arrivato il Covid e, visto che mancavano informazioni, abbiamo pensato di continuare descrivendo le situazioni a New York in diverse lingue.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ne è nato il progetto “Sure We Can Covid19 Task Force”, una pagina con informazioni sul Covid a New York in continuo aggiornamento, ma soprattutto tradotta in 23 lingue in modo da permettere anche a chi vive in città ma non legge l’inglese di capire quello che sta succedendo.

WIL FYFORDY - WIL540ART- MEMBRO WIKIPEDIA COMMUNITY Penso che la conoscenza renda le persone più forti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo gruppo di ragazzi incarna perfettamente lo spirito presente nella Community di Wikipedia, quello, cioè, di unire attività no-profit a favore del territorio con la volontà di ampliare la conoscenza collettiva, illuminando quelle zone d’ombra lasciate dall’informazione mainstream. Un sentimento che la Wikimedia Foundation cavalca nelle campagne per raccogliere fondi.

ETHAN ZUCKERMAN – PROFESSORE POLITICHE PUBBLICHE E COMUNICAZIONE MASSACHUSSETTS UNIVERSITY - AMHERST Wikipedia incassa la maggior parte delle sue entrate attraverso le donazioni dei membri della sua Community.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Grazie ai banner che compaiono nelle pagine di Wikipedia, nel 2021 la Wikimedia Foundation ha raccolto donazioni per 150 milioni di dollari.

EMANUELE BELLANO Ma davvero Wikipedia ha bisogno di tutto questo denaro per gestire i propri progetti e restare online?

PETE FORSYTH, MEMBRO WIKIPEDIA COMMUNITY - CREATORE DI WIKI STRATEGIES No. Assolutamente no. Nel 2022 la Wikimedia Foundation avrà raccolto probabilmente 200 milioni di dollari. Nel 2012 aveva raccolto circa 35 milioni di dollari. Che cosa è cambiato? Oggi offre un valore che è tre, quattro volte quello che offriva allora? Direi di no.

LANE RASBERRY - MEMBRO WIKIPEDIA COMMUNITY Wikipedia non è a rischio fallimento né c’è pericolo che il sito di Wikipedia vada offline. Eppure, ogni anno compaiono questi banner che dicono: “Donate per favore, abbiamo bisogno di soldi”, e ogni anno la Community di Wikipedia protesta contro questo modo di guidare la raccolta fondi perché sostiene è inutilmente allarmante. Ma i messaggi mantengono sempre lo stesso tono perché provengono dalla Wikimedia Foundation.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Grazie alle generose donazioni stimolate dai banner allarmistici, la Wikimedia Foundation ha accumulato, nel 2021, riserve per 240 milioni di dollari ai quali si somma un altro fondo chiamato Wikimedia Endowment, dal valore di oltre 100 milioni di dollari. In totale, oggi, la Wikimedia Foundation ha in cassa oltre 350 milioni di dollari. A cosa servono tutte queste donanzioni? Nel 2013, l’allora vicepresidente ingegneria e sviluppo della Wikimedia Foundation, Erik Moller, aveva stimato i costi complessivi per la gestione di Wikipedia in circa dieci milioni di dollari all’anno.

EMANUELE BELLANO È una cifra che è ancora attuale oggi?

PETE FORSYTH - MEMBRO WIKIPEDIA COMMUNITY - CREATORE DI WIKI STRATEGIES Perché oggi dovrebbero essere cambiati in maniera sostanziale i costi?

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Stimando approssimativamente in 15 milioni annui i costi per la gestione del sito, oggi, con i suoi 350 milioni di dollari da parte, la Wikimedia Foundation è in grado di garantire la sopravvivenza della sua enciclopedia online per i prossimi 23 anni senza il bisogno di un solo euro di donazione.

PETE FORSYTH - MEMBRO WIKIPEDIA COMMUNITY - CREATORE DI WIKI STRATEGIES Il denaro è come una droga: quando fare soldi è facile, è davvero difficile smettere di farne sempre di più.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quando un’organizzazione guadagna così facilmente tanto denaro, può permettersi anche di pagare a peso d’oro il suo staff. Uno stipendio da 423mila dollari per l’amministratrice delegata. 355mila dollari per il capo del reparto tecnologico. 350mila per il consigliere generale - segretario della fondazione e così via. Nel 2020, il costo annuo dei top manager della Wikimedia Foundation è stato pari complessivamente a quattro milioni di dollari.

ZACHARY MC DOWELL – RICERCATORE COMUNICAZIONE UNIVERSITY OF ILLINOIS - CHICAGO Per una struttura come Wikipedia che si basa sul lavoro volontario e non retribuito della sua community sono davvero tanti soldi.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il consiglio di amministrazione e la sede della Wikimedia Foundation sono in questo edificio nel centro di San Francisco, California. Da qui partono ogni anno centinaia di migliaia di dollari destinati a finanziare progetti e attività in tutto il mondo. Secondo il documento contabile redatto dalla Fondazione, nel 2020 sono stati distribuiti 23 milioni di dollari.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Di cui non sappiamo niente. Sappiamo solo dove vanno. Perché nel modulo americano si vede l’area geografica dove vengono canalizzati questi denari, che è un’area geografica ampia, non ci sono neanche i paesi, ci sono Sud America, Asia eccetera eccetera.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO All’Europa la fondazione Wikimedia ha destinato 11 milioni 376mila dollari. 478mila dollari, invece, vanno a Medio Oriente e Nord Africa. Oltre due milioni a Canada e Messico. 647mila dollari ai Paesi dell’area sub Sahariana.

EMANUELE BELLANO Quindi non sappiamo chi riceve questi soldi che escono, questo denaro che esce né quali sono i progetti finanziati, e in base a cosa, tra l’altro, vengono assegnati a qualcuno delle associazioni, a delle organizzazioni, a delle persone piuttosto che a delle altre.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO No, lo sanno solo loro e se vogliono lo comunicano nel loro sito.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I dati dovrebbero essere pubblicati su meta-wikipedia.org. Dei 23 milioni di dollari del 2020, non siamo riusciti a trovare nemmeno un progetto. Per il 2021 è possibile ricostruire il percorso di alcuni finanziamenti. Ma spesso i destinatari vengono indicati con il nickname che hanno su Wikipedia. In questo caso, per esempio, il beneficiario è lo user “Sorora e V” Per quest’altro progetto è l’utente chiamato “Juandev”. Ognuno non identificabile con una persona reale e pertanto anonimo.

LANE RASBERRY - MEMBRO WIKIPEDIA COMMUNITY La Community di Wikipedia chiede che la Fondazione sia più chiara sulla gestione del budget: in sostanza non c’è una adeguata trasparenza su dove vanno a finire i soldi.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Degli 11 milioni di dollari destinati nel 2020 all’Europa, per esempio, non siamo riusciti a ricostruire il percorso.

EMANUELE BELLANO Wikimedia Italia riceve anche fondi dalla Wikimedia Foundation di San Francisco?

IOLANDA PENSA - PRESIDENTE WIKIMEDIA ITALIA No, noi siamo indipendenti grazie al 5 per 1000.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Wikimedia Francia nel 2020 ha ricevuto dalla Wikimedia Foundation di San Francisco 425mila euro. Wikimedia Spagna 13mila euro. Sul bilancio di Wikimedia Germania non sono indicati fondi provenienti dalla Wikimedia di San Francisco.

EMANUELE BELLANO Quindi di quegli 11 milioni, per esempio, la Francia ne prende 425mila, l’Italia no, la Spagna 13mila.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO L’Italia no.

EMANUELE BELLANO E non si sa. GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO Eh… non si sa.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nel 2019 la Wikimedia Foundation di San Francisco versa 330mila dollari all’associazione Fractured Atlas, che finanzia cantanti, musicisti e artisti. 35mila dollari vanno al Peace Development Fund, una fondazione che aiuta le comunità locali americane a costruire un mondo più equo. Poi versa 18 milioni 355mila dollari alla Tides Advocacy, un team di esperti che aiuta i movimenti americani per la giustizia sociale e la democrazia. Tutte nobili iniziative, ma che non hanno niente a che vedere con il miglioramento dell’enciclopedia online Wikipedia, cioè con lo scopo per cui gli utenti di tutto il mondo continuano a versare donazioni alla Wikimedia Foundation. Un problema di trasparenza si pone anche con un altro fondo accumulato dalla Fondazione: il Wikimedia Endowment, che ha raggiunto i 113 milioni di dollari. E che a oggi non ha pubblicato alcun bilancio.

EMANUELE BELLANO Che cos’è questo Wikimedia Endowment?

LANE RASBERRY - MEMBRO WIKIPEDIA COMMUNITY È un tesoretto che hanno accantonato su un conto grazie alle donazioni. Permette di mantenere stabile la fondazione da un punto di vista finanziario. Quello che è anomalo è la mancanza di trasparenza su chi lo amministra e come.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dalla sua crezione, avvenuta nel 2016, l’Endowment di Wikipedia è rimasto depositato presso un’altra fondazione, indipendente rispetto alla Wikimedia Foundation, la Tides Foundation.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICLAGGIO Io francamente non l’avevo mai visto che una fondazione canalizza i denari eccedenti alla sua, diciamo i suoi risparmi in un’altra fondazione. Ma perché?

EMANUELE BELLANO Se loro li avessero tenuti presso la Wikimedia Foundation avrebbero dovuto compilare un modulo come quello.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICLAGGIO Sì, certo, avrebbero dovuto indicare questi soldi in quale area geografica andavano.

EMANUELE BELLANO In questa maniera c’è, come dire, una opacità totale...

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICLAGGIO Sì. C’è una esagerata riservatezza che francamente non si comprende, no?

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La Wikimedia Foundation ci scrive che l’Endowment è stato trasferito a una fondazione dedicata pochi mesi fa, nel 2022. Wikipedia per vent’anni è stata una organizzazione no profit. Tuttavia, a gennaio 2020 ha aperto un ramo commerciale attraverso un progetto che si chiama Wikipedia Enterprise.

ZACHARY MCDOWELL – RICERCATORE COMUNICAZIONE UNIVERSITY OF ILLINOIS - CHICAGO Quello che è noto è che la Fondazione ha creato la Wikipedia Enterprise per vendere dati e informazioni alle corporations.

EMANUELE BELLANO Come, per esempio?

ZACHARY MCDOWELL – RICERCATORE COMUNICAZIONE UNIVERSITY OF ILLINOIS - CHICAGO Come Google, Amazon e qualunque società che abbia bisogno di grandi quantità di dati.

EMANUELE BELLANO Come membro della Community di Wikipedia come valuta questo grande cambiamento?

PETE FORSYTH - MEMBRO WIKIPEDIA COMMUNITY - CREATORE DI WIKI STRATEGIES Le informazioni che la Wikimedia Foundation vende sono state scritte da centinaia di migliaia di persone come me che hanno usato il loro tempo senza essere pagate. E il motivo per cui abbiamo scelto Wikipedia è perché doveva diffondere la conoscenza gratis. Se Google prende queste informazioni e le diffonde e possono essere utili ad altre persone, beh, non credo che Google debba dei soldi a me né alla fondazione che sta vendendo ciò che io e altri abbiamo prodotto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO E invece proprio per vendere dati a Google e alle altre corporations, è stata creata la Wikimedia LLC con sede nel paradiso fiscale del Delaware. È una società profit e dunque potrà distribuire gli utili ai soci.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Il Delaware è un paradiso fiscale perfetto. Non c’è non c’è necessità di avere contabilità.

EMANUELE BELLANO Quindi niente bilancio. Non possiamo vedere quanto fattura.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO No. Non c’è necessità di avere un capitale. Non c’è tassazione sugli utili, non c’è tassazione su marchi e brevetti, non c’è tassazione su niente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, ricapitolando, il 21 giugno scorso, Wikimedia Entreprise annuncia: Google è il mio primo cliente. E annuncia la vendita di quel grande patrimonio di conoscenza al quale hanno partecipato i volontari della community. Ora, a parte che ai volontari non è che stia tanto bene questa operazione, però ci sono alcune anomalie. Noi abbiamo la fondazione no profit che crea un ramo commerciale Enterprise e lo pone in pancia ad una società Wikimedia LLC, e la pone in un paradiso fiscale. Questo significa che non conosciamo i soci, non conosciamo chi eventualmente beneficerà dei dividenti. Sul fatto che sia stato posto in un paradiso fiscale e societario del Delaware, Wikimedia ci scrive: è un diritto societario quello del Delaware che ci è utile in caso di controversie legali e il socio unico è Wikimedia, siamo noi. E poi non sono stati presentati i bilanci perché la società è stata costituita da meno di un anno. Gli dobbiamo credere sulla parola. Non abbiamo gli strumenti per conoscere cosa c’è in Delaware. Ora, l’altra anomalia è che ci sono questi continui banner che appaiono in lingua inglese, chiedono di donare 15 dollari, a volte 3, a volte 2, e sulle pagine italiane equivalenti di un caffè, è Wikimedia che li manda e paventa la questione della sopravvivenza di Wikipedia. Ora, a parte che a noi risulta che Wikipedia goda di un’ottima salute, anche perché alla base c’è il contributo volontario della community e poi c’è Wikimedia che ha accumulato grazie alle donazioni 350 milioni di dollari. E in base alle spese che ci risulta sostenere potrebbe campare tranquillamente per 23 anni. Tuttavia, continua a chiedere soldi. E poi c’è l’altra anomalia, quella di Wikimedia Endowment, un fondo con 113 milioni di dollari, che da 6 anni non presenta bilanci e che è stato posto nella pancia di un’altra fondazione, Tides. Perché una fondazione veicola del denaro in un’altra fondazione? Ecco, potrebbe essere per vantaggi fiscali. Tides, infatti, gestisce dei fondi che investono su attività e imprese benefiche e gode di vantaggi fiscali superiori di cui possono godere altre fondazioni private. E poi perché alla fine non sai come investono i soldi. Ora, in merito proprio alla trasparenza della gestione dei finanziamenti vedremo cosa ci ha risposto Wikimedia subito dopo la pubblicità. Golden minute, 30 secondi e stiamo da voi.

GOLDEN MINUTE SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, rieccoci qua, siamo parlando di Wikipedia, l’enciclopedia globale, la cui piattaforma è gestita da Wikimedia, dovrebbe essere una società… una fondazione no profit, ma ha accumulato in donazioni 350 milioni di dollari. Allora, come li fa girare? Nel 2020, ultimo bilancio disponibile, sono stati distribuiti 23 milioni di dollari di finanziamenti. Per fare cosa? Con quali finalità? Wikimedia ci scrive che i finanziamenti servono per raggiungere le comunità nel mondo che non sarebbero altrimenti rappresentate. E che tutte informazioni relative ai finanziamenti, quelle degli ultimi 3 anni, sono online sul portale Wikimedia Meta. Ora noi abbiamo cercato, ma non è stato possibile risalire ai reali beneficiari di questi finanziamenti, né capire per quali finalità sono stati finanziati. Le poche informazioni fanno anche riferimento a dei nickname degli utenti della community che sono poi anonimi. Ora le informazioni che sono sull’enciclopedia globale sono sempre attendibili?

EMANUELE BELLANO, FUORI CAMPO Wikipedia ha oltrepassato i vent’anni. Quanto è affidabile questa enciclopedia? Quanto sono efficaci le regole per evitare distorsioni e imprecisioni?

EMANUELE BELLANO Qual è il vantaggio di avere una voce su Wikipedia?

DANIELE TIGLI – GIORNALISTA ESPERTO DI COMUNITA’ DIGITALI Se è presente come voce su Wiki, sarà il primo risultato che abbiamo sul motore di ricerca, Google per intenderci. E di conseguenza è un vantaggio notevole. E poi ci sono anche dei vantaggi accessori. Per esempio, la famosa spunta blu su twitter. Uno dei criteri per ottenerla è proprio la presenza di una propria voce su Wiki. Tu sei ufficialmente un utente verificato.

SALVATORE ARANZULLA - BLOGGER E DIVULGATORE INFORMATICO Hey Google, chi è Salvatore Aranzulla?

GOOGLE Tradotto da Wikipedia: Salvatore Aranzulla è un blogger e imprenditore italiano. È un noto divulgatore e autore di tutorial per la risoluzione dei problemi per la tecnologia dell’informazione da parte del grande pubblico italiano.

EMANUELE BELLANO Quindi l’assistente di Google dice “tradotto da Wikipedia”: perché?

SALVATORE ARANZULLA - BLOGGER E DIVULGATORE INFORMATICO Sì, la descrizione di chi sono deriva da Wikipedia in lingua inglese, perché dal 2016 la mia pagina su Wikipedia Italia è stata cancellata.

EMANUELE BELLANO Autore di libri di successo su informatica e tecnologia, Salvatore Aranzulla è conosciuto probabilmente da ogni utente italiano di internet.

ARIANNA CIAMPOLI – QUELLE BRAVE RAGAZZE – 19/06/2017 Se voi cominciate a scrivere “come si fa ad aprire un account, come si fa a mandare una mail, come”… Arriva lui: Salvatore Aranzulla! Colui che mi salverà. Eccolo. Benvenuto Salvatore, grazie per essere qui. Ti devono titolare una piazza!

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Oggi il sito conta tra le 500 e le 700mila visite al giorno, è tra i 30 siti più consultati in Italia e la società che lo amministra fattura circa quattro milioni di euro. Queste informazioni, insieme alla sua biografia, sono presenti nella voce Wikipedia su Aranzulla in lingua inglese e tedesca. La pagina, invece, non esiste in italiano, perché Wikipedia Italia ha deciso di eliminarla.

SALVATORE ARANZULLA - BLOGGER E DIVULGATORE INFORMATICO La procedura è stata avvuata da un utente, chiamato TheLazza. Un utente che si è scoperto, poi, essere un blogger consulente informatico. Una persona che pubblicava un sito internet molto, diciamo, simile al mio.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’utente TheLazza, nickname di Andrea Lazzarotto, possiede un blog in cui, proprio come Aranzulla, spiega come risolvere i problemi legati alla tecnologia. E sembra avere un’ossessione per Salvatore Aranzulla.

SALVATORE ARANZULLA - BLOGGER E DIVULGATORE INFORMATICO Se si guardano quelli che sono i contributi che ha effettuato su Wikipedia a livello mondiale, in realtà, direi la metà riguardano la mia pagina in tutte le lingue. Ha addirittura scritto a Wikipedia in lingua tedesca in tedesco diciamo con l’obiettivo in qualche maniera di screditare.

EMANUELE BELLANO Cioè di cancellare la tua pagina anche da queste altre versioni di Wikipedia in queste altra lingue.

SALVATORE ARANZULLA - BLOGGER E DIVULGATORE INFORMATICO Sì. Con la complicità di quelli che sono gli amministratori.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Gli amministratori che dovrebbero garantire su Wikipedia l’imparzialità, alla fine chiudono la pagina di Aranzulla e ne stabiliscono il blocco, che cioè impedisce anche oggi a qualunque utente di crearla di nuovo.

EMANUELE BELLANO Gli amministratori, la community e l’insieme di tutti gli utenti, la stessa fondazione in qualche modo, nessuno è riuscito a garantire che la pagina di Salvatore Aranzulla rimanesse aperta.

IOLANDA PENSA - PRESIDENTE WIKIMEDIA ITALIA Se la comunità decide che questa voce non è sufficientemente enciclopedica, ci sta. È una libertà che la comunità ha di decidere. Si riteneva che è meglio protagonisti consolidati, voci di presidenti delle nazioni, meno possibile biografie che è un po’ la linea di Wikipedia in italiano.

EMANUELE BELLANO Eppure, in Wikipedia in italiano di biografie di persone viventi ce ne sono moltissime. Solo per la categoria “Blogger Italiani” 247 e molti di loro non sono più noti né più titolati di Salvatore Aranzulla.

EMANUELE BELLANO La cosa che colpisce è che l’utente che ha proposto la cancellazione ha un blog che è assimilabile a quello di Salvatore Aranzulla.

IOLANDA PENSA - PRESIDENTE WIKIMEDIA ITALIA Questa è una cosa che può essere segnalata. Cioè, a un certo punto lì c’è un conflitto di interessi e quindi anche quello deve essere preso in considerazione.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Sebbene questo conflitto di interessi sia stato segnalato da un utente nella discussione sulla chiusura della pagina, dal 2016 a oggi nessuno degli amministratori ha ritenuto che la voce su Salvatore Aranzulla andasse sbloccata e ripristinata.

SALVATORE ARANZULLA - BLOGGER E DIVULGATORE INFORMATICO Wikipedia è un punto di riferimento per chi vuole informarsi in buona fede. Per cui, chi vuole creare della disinformazione potrebbe anche utilizzare delle agenzie specializzate nel modificare le pagine per i propri interessi e per la propria parte.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma è davvero possibile agire su una pagina di Wikipedia commissionando a qualcun altro il lavoro, in modo da essere del tutto irrintracciabili? Se lo è chiesto il docente ed esperto di Reputation Management Luca Poma, che un giorno riceve una mail con una segnalazione.

LUCA POMA – DOCENTE DI MANAGEMENT REPUTAZIONALE UNIVERSITA’ LUMSA - ROMA Vado a vedere ed era una scheda che era stata aperta da qualcuno sul mio nominativo, sul mio nome. Quindi con la mia breve biografia. Su Wikipedia oltre alla scheda tu puoi anche seguire la discussione che si sviluppa a lato della scheda e in quel momento era in corso una votazione, come spesse volte succede, per decidere se mantenere in piedi questa scheda o cancellarla. Sono andato a leggere e sono rimasto parecchio colpito perché un luogo che doveva essere in qualche modo nel mio immaginario aperto e inclusivo, fosse invece un luogo dove si svolgeva una specie di guerra per decidere se mantenere o non mantenere questa scheda.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Luca Poma decide di andare a più fondo sulle dinamiche che avevano ispirato quella discussione sul suo conto.

LUCA POMA – DOCENTE DI MANAGEMENT REPUTAZIONALE UNIVERSITA’ LUMSA - ROMA Mi si è accesa come una lampadina, ho detto: “Magari sbaglio ma se ci fosse un interesse di carattere economico dietro tutto questo?” Ho scritto così, a caso, a un’agenzia e con una certa sorpresa ho ricevuto una specie di tariffario.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le tariffe sono per modificare i contenuti di una pagina di Wikipedia, con modi ritenuti, però, dalla Fondazione e dagli amministratori illegali. Nel primo caso l’agenzia mette a disposizione un editor per la voce da modificare. Tempi per la pubblicazione: da 1 a 4 settimane. Costo 500 euro. Se vuoi abbreviare i tempi, devi pagare di più: 660 euro. Le modifiche vengono pubblicate in soli 10 giorni e, se i contenuti vengono cancellati dagli amministratori, il pacchetto offerto dall’agenzia prevede altri due tentativi.

LUCA POMA – DOCENTE DI MANAGEMENT REPUTAZIONALE UNIVERSITA’ LUMSA - ROMA Ho provato a fare questa domanda a un’altra agenzia e ho ricevuto la stessa identica risposta, e a questo punto ho iniziato a collegare un po’ di fili.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Luca Poma fissa un appuntamento con il manager di un’agenzia che offre questi servizi.

LUCA POMA – DOCENTE DI MANAGEMENT REPUTAZIONALE UNIVERSITA’ LUMSA - ROMA Io volevo spendere qualche soldino per sistemare un po’ meglio la mia scheda, quella che c’è su Wikipedia. Io pensavo di fare un po’ di lifting positivo, nel senso di aggiungere dei libri, delle recensioni, articoli di giornale eccetera eccetera che potessero rendere la scheda ancora più, diciamo, completa. WEB EDITOR SU COMMISSIONE Diciamo che di volta in volta, sulla base di quello che c’è da fare, viene stabilito un prezzo forfait, di quelle che possono essere le prestazioni, ecco.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’intermediario spiega che dovrà contattare un utente esperto nelle modifiche di Wikipedia e che il prezzo comprende il compenso per questo editor, più la sua intermediazione.

LUCA POMA – DOCENTE DI MANAGEMENT REPUTAZIONALE UNIVERSITA’ LUMSA - ROMA Se gli diamo 400 euro dovrebbe farlo quel lavoro lì?

WEB EDITOR SU COMMISSIONE Ma… Io direi di sì. Dipende dall’entità delle modifiche.

LUCA POMA – DOCENTE DI MANAGEMENT REPUTAZIONALE UNIVERSITA’ LUMSA - ROMA Quindi diciamo noi, l’iter dovrebbe essere che, una volta che ci accordiamo sul prezzo, io per tuo tramite gli faccio avere, diciamo, gli articoli, le pezze giustificative eccetera eccetera e lui poi modifica la scheda. Più o meno i tempi per capire?

WEB EDITOR SU COMMISSIONE Più o meno siamo nell’ordine di qualche giorno.

LUCA POMA – DOCENTE DI MANAGEMENT REPUTAZIONALE UNIVERSITA’ LUMSA - ROMA E dopo di che cosa gli facciamo un bonifico? Ti mando i soldi a te poi tu glieli giri? Ci pensi tu, insomma.

WEB EDITOR SU COMMISSIONE Eh sì.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Luca Poma scrive e invia le modifiche per la pagina, l’intermediario contatta l’editor e accetta il compenso di 400 euro. Una volta ricevuti i soldi, le modifiche vengono messe online. La pagina in questo caso è su Wikipedia in lingua inglese. L’operazione è visibile nella cronologia e risulta effettuata dall’utente anonimo Apramkush, profilo creato il 21 febbraio 2022, cioè pochi giorni dopo l’incontro avuto da Poma con l’intermediario.

EMANUELE BELLANO Quanto questa cosa va contro le regole di Wikipedia?

JOSEPH REAGLE – PROFESSORE ASSOCIATO SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE NORTHEASTERN UNIVERSITY - BOSTON L’editing su commissione a pagamento è parte di un tema più grande che Wikipedia individua con il concetto di conflitto di interesse.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A spiegare le regole è proprio Wikipedia su una pagina dedicata. Un editor è in conflitto di interessi quando scrive di sé o promuove le proprie attività o il proprio lavoro. Oppure quando è incaricato da qualcun’altro di promuovere un'organizzazione, un prodotto o una persona.

JOSEPH REAGLE – PROFESSORE ASSOCIATO SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE NORTHEASTERN UNIVERSITY - BOSTON Quello che va fatto in questi casi è dichiarare in maniera trasparente che si sta scrivendo per conto di qualcuno che ci paga, perché queste secondo Wikipedia sono le regole. Ci sono scandali ogni tre o quattro anni. Tempo fa, per esempio, Wikipedia ha scoperto che alcune modifiche a delle voci provenivano da computer del Congresso degli Stati Uniti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Era il 2011 e la pagina che è stata modificata era del parlamentare americano Mike Pence. L’utente HouseofRep avrebbe creato un account appositamente per operare un lifting reputazionale. E il pc si trovava all’interno di un ufficio del Congresso americano. Anni prima, Wikipedia aveva scoperto che le modifiche di alcuni contenuti sulla guerra in Iraq e su ciò che avveniva nella prigione di Guantanamo erano state effettuate da computer appartenenti a CIA ed FBI. Nel 2021, invece, 7 editor e 12 amministratori cinesi sono stati espulsi, accusati di manipolare voci su Wikipedia e di voler denunciare alcuni utenti alle autorità cinesi. EMANUELE BELLANO C’è il rischio anche oggi che governi, agenzie di spionaggio e grandi società multinazionali possano influenzare i contenuti di Wikipedia?

ZACHARY MCDOWELL – RICERCATORE COMUNICAZIONE UNIVERSITY OF ILLINOIS - CHICAGO Assolutamente. Wikipedia cerca di ridurre i rischi tracciando gli IP che provengono da strutture governative. Vengono usati strumenti di apprendimento digitale per ricostruire da dove provengono le modifiche.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma è possibile aggirare il tracciamento usando una connessione VPN. Oppure, è sufficiente affidarsi a qualcuno con cui non si ha nessun legame. Abbiamo provato anche noi a creare una pagina Wikipedia promozionale in pieno conflitto di interessi. Chiara D’Ambros è la giornalista che ha collaborato con me alla realizzazione di questo servizio.

CHIARA D’AMBROS Questo è il mio curriculum come videomaker, regista Rai di tv e radio. Poi ci sono altre informazioni di lavori precedenti con altri editori, il mio curriculum accademico.

EMANUELE BELLANO Per quanto riguarda le fonti sono veritiere?

CHIARA D’AMBROS Alcune sono veritiere, altre sono imprecise, altre ancora sono del tutto inesistenti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La prima cosa da fare è registrarsi su un portale che mette in contatto con editor esperti. Compilo una richiesta di lavoro dal titolo “Wikipedia” in cui chiedo di scrivere e pubblicare per mio conto una pagina su Chiara D’Ambros. Le informazioni e le note giustificative - preciso - saranno fornite da me. La risposta è sorprendente. Nel giro di alcune ore arrivano dozzine di proposte: sono editor che operano dal Pakistan, qualcuno dal Kenya, un paio dall’Europa. Sui loro profili mettono in evidenza la loro esperienza su Wikipedia. Questo editor pakistano scrive: “Sono un consulente esperto di Wikipedia su cui ho scritto vari tipi di contenuti”. E mostra il suo portfolio con alcune delle voci su cui ha lavorato. Quest’altro editor, sempre dal Pakistan, si definisce: “Scrittore e creatore di contenuti di Wikipedia a livello professionale”. Entro in contatto con uno di loro.

WEB EDITOR SU COMMISSIONE Puoi inviarmi il soggetto su cui vuoi aprire la pagina Wikipedia?

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dopo aver ricevuto il file l’editor spiega la procedura.

WEB EDITOR SU COMMISSIONE Scriverò la bozza della pagina e te la manderò per l’approvazione. Una volta che l’avrai approvata, la pubblicherò su Wikipedia.

EMANUELE BELLANO Qual è il prezzo per il servizio?

WEB EDITOR SU COMMISSIONE 250 euro in totale, per la scrittura della bozza e per la pubblicazione

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dieci giorni dopo l’editor pakistano invia la bozza. Una volta approvata, ed effettuato il pagamento, la pagina su Chiara D’Ambros è online.

EMANUELE BELLANO Stando alla cronologia, chi risulta aver creato la pagina?

CHIARA D’AMBROS Ma, ce lo dice la stessa Wikipedia. È stato un editor che si chiama GooseChase1.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Lo user GooseChase1 è stato creato dall’editor pakistano appositamente per operare su pagine come quella di Chiara D’Ambros. Ha effettuato su Wikipedia solo 20 edit e oggi è irrintracciabile.

EMANUELE BELLANO Insomma, quello che viene fuori è che si tratta di metodo preciso e organizzato da parte di una persona che invece non si mostra, non è rintracciabile.

IOLANDA PENSA – PRESIDENTE WIKIMEDIA ITALIA È una pratica orribile. Wikipedia è oggetto di questo, è inevitabile perché è aperta. L’unica cosa che possiamo fare è chiedere a tutti di verificare i contenuti. Procedere nel bloccare utenze. È chiaro che poi le utenze tornano con altri nomi utenti. Però, appunto, l’alternativa cos’è? Chiudere il progetto? Cioè, la bellezza di questo progetto è che è aperto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora abbiamo visto che le informazioni su Wikipedia possono essere censurate come nel caso del genio informatico Aranzulla, possono essere usate per screditare come nel caso del professor Poma, possono essere utilizzate per migliorare la propria reputazione. Ecco, basta pagare alcune agenzie o editor nel mondo. Ci è riuscita anche la nostra Chiara D’Ambros che con l’ausilio di un misterioso utente-editor pakistano ha creato la propria pagina inserendo anche dei titoli falsi. L’utente pakistano si è celato dietro un nickname GooseChase1, cioè caccia all’oca. Ora questo utente però ha ricevuto un ammonimento da parte di Wikipedia che ha scritto: la natura delle modifiche da te operate dà l’impressione che tu riceva denaro in cambio della promozione di un argomento. Non ci risulta però che tu abbia dichiarato di operare dietro pagamento. Non potrai più scrivere su Wikipedia se non rispondi a questo messaggio. Ora GooseChase1 ha risposto che non ha nessun collegamento con l’oggetto in questione, falso ovviamente, né si aspetta di ricevere denaro per le modifiche effettuate. Falso anche questo perché ha incassato, poi subito dopo GooseChase ha abbandonato il profilo e il presunto editor pakistano ha aperto un nuovo profilo e continua a fare liberamente il proprio lavoro. Ora tutto questo… anzi poi che cosa è successo? La nostra Chiara D’Ambros, dopo che abbiamo annunciato la nostra inchiesta su Wikipedia, qualche giorno dopo Wikipedia ha cancellato la sua pagina. Si è resa conto che era una nostra giornalista. E però tuttavia, quella pagina è rimasta lì per cinque lunghi mesi. Tutto questo pone un problema: quanto è attendibile il sito di informazione più cliccato al mondo? Wikimedia che gestisce la piattaforma Wikipedia ci scrive che l’enciclopedia ha 55 milioni di pagine che subiscono 350 modifiche al minuto. I casi di disinformazione in questi ultimi 20 anni sono minimi rispetto al volume di queste modifiche. Ora, quello che sicuramente c’è però come problema è quando si tratta di argomenti storico-politici. Allora, in quel caso le pagine di Wikipedia diventano, si trasformano in campi di battaglia.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Mentre le truppe di Mosca il 24 febbraio scorso attraversano il confine ucraino, dando il via a una guerra devastante e prolungata, parallelamente su Wikipedia scoppiano battaglie mediatiche tra fazioni filorusse e filoucraine. La voce “Reggimento Azov”, per esempio, subisce tra il 24 febbraio e il 24 marzo, 98 modifiche, mentre in precedenza non ha mai superato cinque variazioni al mese. Uno degli utenti più attivi su questa voce è l’utente registrato col nome Mhorg.

EMANUELE BELLANO È impossibile risalire alla persona fisica che c’è dietro quel nick name?

FABIO BRAMBILLA - AMMINISTRATORE PAGINE WIKIPEDIA ITALIA Non dovrebbe essere individuabile e non si vuole che sia individuabile fino al riferimento fisico di persona anagrafica. Questo no.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’utente anonimo Mhorg è attivo su numerose voci legate alla Russia e alla guerra in Ucraina. Il 24 febbraio scorso interviene ripetutamente su un’altra voce sensibile: la pagina sull’evento storico noto come incendio di Odessa.

NICOLAI LILIN - SCRITTORE A Odessa si è sparato si sono ammazzate le persone, abbiamo visto le falangi di estrema destra protette dalla polizia, si riprendevano con videocamere, con telefonini. Erano armati.

EMANUELE BELLANO L’episodio, avvenuto nel maggio del 2014, rappresenta un evento simbolo in Ucraina nella lotta tra popolazione filorussa e popolazione fedele a Kiev.

OLGA IGNATIEVA Persone filo Maidan, sostenitori di Maidan, pieni di violenza venivano da noi e quindi abbiamo deciso di scappare, di rifugiarci nel palazzo, nella casa dei sindacati.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Iniziato con uno scontro di piazza tra i due gruppi in lotta, l’evento si trasforma in un assedio con la fazione filorussa chiusa nel palazzo dei sindacati di Odessa e la fazione fedele a Kiev schierata all’esterno.

OLGA IGNATIEVA Erano le sei e mezza, più o meno così, che già cominciava a essere un po’ buio e subito dopo è arrivato il primo cocktail molotov, e cominciavano ad arrivare un fumo nero tossico che chiudeva proprio il respiro.

EMANUELE BELLANO La vicenda si conclude con l’incendio che divampa nel palazzo nel centro di Odessa. Olga Ignatieva, parte in causa negli scontri in quanto membro del gruppo filorusso, alla fine riesce a salvarsi. Oltre 40 che erano con lei, invece, muoiono nel rogo del palazzo. Praticamente non toccata da un anno, la voce Wikipedia sui fatti di Odessa dal 24 febbraio a oggi è stata sottoposta a oltre 400 modifiche.

MICHELE MANFRIN - GIORNALISTA Wikipedia sostanzialmente ha stravolto quello che era il contenuto originario, partendo anche dal nome.

EMANUELE BELLANO Da “Strage di Odessa” la voce diventa “Rogo di Odessa”. Nella cronologia si vede una lunga serie di interventi volti a piegare il racconto a favore dell’una o dell’altra fazione.

MICHELE MANFRIN - GIORNALISTA Poi il 3 maggio la denominazione data all’evento cambia ancora e diventa ancora più anonima se vogliamo perché diventa “Incendio della casa dei sindacati di Odessa”, come se non fosse frutto di un comportamento consapevole.

EMANUELE BELLANO In questo caso l’utente Mhorg interviene insieme ad altri utenti per contrastare le modifiche alla voce, cercando di ripristinare la parola “Strage” al posto del più generico “rogo” o “incendio”. Un altro gruppo di utenti come Trinacriagolem o Dave93b, anche loro impossibili da identificare, controbatte colpo su colpo, annullando le modifiche e scrivendo una versione della pagina in cui le responsabilità degli aggressori ucraini vengono ridimensionate.

MICHELE MANFRIN - GIORNALISTA Praticamente non emerge un chiaro responsabile da questa seconda versione, si lascia intendere che, sostanzialmente, sia stato un po’ il fato.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nella discussione intervengono diversi utenti senza nickname, identificati solo da un numero IP. EMANUELE BELLANO È possibile che alcuni degli utenti che si incontrano in Wikipedia, nelle discussioni, siano in realtà dei fake?

DANIELE TIGLI – GIORNALISTA ESPERTO DI COMUNITA’ DIGITALI Non solo è possibile, ma è una vera e propria piaga della piattaforma.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora nel maggio del 2005 un giornalista americano, John Seigenthaler, su Wikipedia fu accusato di essere uno dei sospetti killer di JF Kennedy. Falso. Nel 2006 Henryk Batuta fu presentato come un rivoluzionario comunista polacco in contatto con Hemingway. Rimase online per oltre un anno salvo poi scoprire che Batuta non esisteva. Nel 2007 Taner Akçam, lo storico turco che parlò tra i primi del genocidio armeno, fu arrestato all’aeroporto di Montréal dalle autorità canadesi che avevano letto sulla biografia pubblicata su Wikipedia che era un pericoloso terrorista. Falso anche questo. Nel 2012 il Consorzio di Giornalismo Investigativo britannico scopre che i parlamentari britannici avevano modificato per ben 10mila volte le loro pagine, per nascondere, celare, togliere i particolari imbarazzanti relativi allo scandalo delle spese pubbliche. Nel 2019 poi il quotidiano israeliano Haaretz rivela che i nazionalisti polacchi avevano indicato un campo di sterminio all’interno di un campo di concentramento a Varsavia per 15 anni. Un fatto che era falso. E questo aveva contribuito a creare una crisi diplomatica tra il governo polacco e israeliano che poi si è risolto attribuendo la colpa della fake ai meccanismi di Wikipedia. Poi c’ è un fatto clamoroso. Quello di una cittadina cinese dal nome Zhemao, nome inventato che sostanzialmente aveva scritto ben 206 articoli sulla storia medievale russa con tanto di personaggi e battaglie. Insomma, questa storia ha retto fino a quando un’altra scrittrice cinese, emigrata negli Stati Uniti Nancy Yi Fan scopre che è tutta una meravigliosa favola. Si scoprirà poi dalle lettere pubblicate sa Zhemao che si trattava di una semplice casalinga che non conosceva neppure le lingue e che una volta detta la prima bugia, come dice il proverbio, è stata costretta a dire tante bugie. Ora che cosa denota tutto questo? Che al di là del fatto che della, diciamo, mancanza di trasparenza, dell’opacità su cui girano i soldi di Wikipedia, insomma quella su Wikipedia non è una verità rivelata. È il frutto di una discussione tra persone che hanno le loro idee, le loro ideologie e che condividono l’idea del sapere condiviso. Chi scrive lo fa attraverso la sua narrazione, citando delle fonti e quella rimane la verità di Wikipedia fino a quando non subentra un’altra persona che porterà le sue fonti. Ne nasce una discussione e alla fine vince chi ha più tempo da investire per scrivere e documentarsi, chi ha una maggiore dialettica, una maggiore capacità relazionali all’interno della community e anche chi ha i migliori rapporti con l’amministratore perché poi è lui che decide qual è l’ultima parola, l’ultima versione da pubblicare. Ecco, tutto questo fa sì che Wikipedia somigli più ad un social network, una piazza virtuale che a un’enciclopedia, anzi definirla un’enciclopedia si aggiunge un elemento di fraintendimento. Tuttavia, rappresenta un unicum da conservare, anche da tutelare se volete, anche perché chi scrive lo fa gratuitamente, lo fa senza un risvolto, senza una rilevanza pubblica, in un’epoca del profitto tutto questo rappresenta un valore, una qualità, un anacronismo, se volete, in questa epoca che è attanagliata dal narcisismo e dell’avidità.

10 cose da sapere. Da wiki.wikimedia.it.

10 cose da sapere su Wikipedia e Wikimedia: vademecum per evitare luoghi comuni ed errori quando parliamo dell’enciclopedia più consultata del web, della fondazione che la sostiene e dell’associazione che ne diffonde la conoscenza in Italia.

Indice

1"Wikipedia" oppure "Wikimedia"?

2Wikimedia Italia NON gestisce Wikipedia

3NON esiste «Wikipedia Italia»; il sito di Wikipedia NON è www.wikipedia.it

4NON esiste solo Wikipedia

5Libera NON vuol dire "posso copiarla come mi pare"

6Libera NON vuol dire "posso scrivere quello che voglio"

7Come posso (ri)scrivere una voce?

8Chi è il responsabile di quanto scritto su Wikipedia?

9Come faccio a contattare la redazione di Wikipedia?

10Wikimedia Italia si occupa SOLO dei progetti WMF?

"Wikipedia" oppure "Wikimedia"?

Wikipedia è l'enciclopedia multilingue collaborativa, online e gratuita che tutti conosciamo; ma naturalmente per esistere ha bisogno di una struttura che la supporti. Insieme ai suoi wiki fratelli, costituisce la galassia dei progetti Wikimedia.

Wikimedia Foundation, Inc. (WMF) è la fondazione senza fini di lucro con sede negli USA che ospita e gestisce i siti Wikimedia e ne sviluppa la piattaforma tecnica.

Wikimedia Italia (WMI) è un'associazione culturale, formata da volontari impegnati a promuovere la conoscenza e l'uso dei progetti a "contenuto aperto" (open content) in Italia, con particolare riguardo ai progetti Wikimedia di cui sopra. Wikimedia Italia è corrispondente italiana ufficiale ("capitolo") di Wikimedia Foundation, avendo per esempio il diritto non esclusivo di uso dei suoi marchi: però le attività di Wikimedia Italia non sono espressione di Wikimedia Foundation né vale il viceversa.

Wikimedia è il nome del "movimento" costituito da quanto sopra: i progetti Wikimedia e i loro volontari; WMF; decine di capitoli come WMI; gli altri progetti che vi si ispirano, come Wiki Loves Monuments; moltissime persone che credono nei progetti collaborativi, nel contenuto aperto, nelle licenze libere (copyleft).

Wikimedia Italia NON gestisce Wikipedia

Molte persone si rivolgono a Wikimedia Italia per chiedere aggiornamenti e modifiche a Wikipedia. L’associazione Wikimedia Italia però non controlla affatto i contenuti di Wikipedia e non ne è in alcun modo responsabile.

I server con la base dati di Wikipedia sono gestiti direttamente dalla Wikimedia Foundation e si trovano negli USA: nessun membro di Wikimedia Italia ha diritti particolari di accesso a essi.

A livello individuale, i soci di Wikimedia Italia sono tra le migliaia di utenti dei vari progetti Wikimedia (tra cui Wikipedia), ma essere iscritti all’associazione non dà alcun diritto né alcuna responsabilità in più rispetto all’enciclopedia. Per essere più chiari, ci sono amministratori di Wikipedia che non sono soci di Wikimedia Italia, e soci di Wikimedia Italia che non sono amministratori di Wikipedia.

Puoi paragonare Wikimedia Italia a un'associazione del tipo "amici del museo civico", con la differenza che i soci di Wikimedia Italia non hanno nemmeno lo sconto sul biglietto d’ingresso... perché usare Wikipedia è gratuito per tutti!

NON esiste «Wikipedia Italia»; il sito di Wikipedia NON è www.wikipedia.it

"Wikipedia Italia" è una dicitura errata che è stata spesso usata per indicare sia l’enciclopedia, sia la controparte italiana di Wikimedia Foundation. In realtà:

Non esiste una "Wikipedia Italia", ma la Wikipedia in lingua italiana (o, se si preferisce, "Wikipedia in italiano" o "Wikipedia italofona"; al massimo, "Wikipedia italiana" che è un calco del termine Italian Wikipedia usato in inglese). Non è solo un gioco di parole: i progetti WMF sono creati su base linguistica, non nazionale. Pensa ad esempio all’edizione inglese: nessuno ne parla come "Wikipedia USA" o "Wikipedia Gran Bretagna". Essendo quella italiana una lingua poco diffusa al di fuori dell’Italia, viene spontaneo associarla all’Italia, ma in realtà è parlata anche altrove (nel Canton Ticino, ad esempio); chiunque parli italiano può dare il suo contributo.

Non si può usare l’espressione "Wikipedia Italia" neppure in riferimento all’associazione Wikimedia Italia, poiché quest’ultima raccoglie utenti provenienti da tutti i progetti Wikimedia, non solo da Wikipedia. A dire il vero esiste un'"Associazione Wikipedia Italia", che ha in uso il dominio wikipedia.it. Però tale associazione non ha nulla a che fare né con Wikimedia Foundation né con Wikimedia Italia. Digitando www.wikipedia.it si arriva effettivamente a consultare Wikipedia in lingua italiana (perché si viene reindirizzati a https://it.wikipedia.org), ma la situazione potrebbe cambiare senza alcun preavviso. Il sito di Wikipedia in lingua italiana è https://it.wikipedia.org - in generale, ogni edizione linguistica è riconoscibile dal codice corrispondente alla lingua (quindi la Wikipedia in inglese è en.wikipedia.org, quella in russo ru.wikipedia.org, e così via).

NON esiste solo Wikipedia

Anche se Wikipedia è di gran lunga il progetto maggiore ospitato da Wikimedia Foundation, è solo uno dei dodici progetti creati fino ad oggi, ciascuno dei quali incarna un aspetto della diffusione della conoscenza.

Gli altri progetti Wikimedia sono:

Commons (risorse multimediali) commons.wikimedia.org

Meta (coordinamento dei progetti) meta.wikimedia.org

Wikibooks (manuali e libri di testo) www.wikibooks.org

Wikidata (base dati per i progetti) www.wikidata.org

Wikinotizie (fonte di notizie) www.wikinews.org

Wikiquote (aforismi e citazioni) www.wikiquote.org

Wikisource (biblioteca digitale) www.wikisource.org

Wikispecies (specie viventi) species.wikimedia.org

Wikiversità (risorse e attività didattiche) www.wikiversity.org

Wikivoyage (guida turistica) www.wikivoyage.org

Wikizionario (dizionario e lessico) www.wiktionary.org

Libera NON vuol dire "posso copiarla come mi pare"

Puoi utilizzare i contenuti di Wikipedia in due modi: usando porzioni ridotte del testo (diritto di citazione), oppure riportandone ampie parti, fino ad arrivare a tutta l'enciclopedia!

Nel caso di una breve citazione, proprio come un qualunque articolo o testo cartaceo dovrebbe riportare i dati relativi alle proprie fonti, occorre indicare che è tratta da Wikipedia e specificare da quale voce. È auspicabile che la citazione comprenda anche la data e ora completa della versione che stai utilizzando o, in alternativa, il suo numero di versione (vedi sotto); le pagine di Wikipedia continuano a venire modificate, e nel momento in cui viene pubblicato il tuo articolo con la citazione la voce potrebbe già apparire diversa! La maggior parte delle convenzioni bibliografiche richiederà l’intero indirizzo internet (URL) della pagina. Meglio ancora, utilizza l'indirizzo che trovi nel box a sinistra di ogni pagina, sotto Strumenti → Link permanente: così la tua citazione farà riferimento ad una precisa versione della voce. Otterrai così un riferimento di questo tipo:

https://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Pagina_principale&oldid=14248928

invece che https://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale.

Se citi più voci, ciascuna dovrebbe venire citata separatamente. Se hai la necessità di un’assoluta brevità, potresti inserire solo il riferimento https://it.wikipedia.org per la versione in lingua italiana, dal momento che l’URL potrà essere dedotto dal titolo della pagina.

Se invece vuoi riportare ampie parti di una o più voci di Wikipedia, ricorda che tutti i testi di Wikipedia non sono nel pubblico dominio, ma hanno una licenza d'uso, la Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0, che ti consente di copiare, riutilizzare, rielaborare e ripubblicare i contenuti (anche tutta l’enciclopedia!), a patto di rispettare tre precise condizioni:

che il tuo testo finale sia a sua volta rilasciato sotto la stessa licenza;

che venga riconosciuta la paternità della voce;

Se usi il materiale di Wikipedia in un altro sito web basta aggiungere alla tua pagina, in posizione chiaramente visibile, un link alla voce originale di Wikipedia e uno alla Creative Commons CC-BY-SA 3.0, https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/deed.it .

Ciò vale anche per gli altri progetti fratelli.

Libera NON vuol dire "posso scrivere quello che voglio"

Anche se chiunque può creare o modificare le voci di Wikipedia, questo non significa che qualunque materiale possa essere inserito. Occorre infatti che gli argomenti siano considerati enciclopedici dalla comunità che opera sull'enciclopedia; sono state definite varie linee guida, e nei casi meno chiari si apre una discussione che porta a una decisione il più possibile condivisa. Inoltre non puoi inserire informazioni create direttamente da te: Wikipedia non è una fonte primaria, cioè non raccoglie "nuova" conoscenza, ma una fonte secondaria o meglio ancora terziaria, cioè organizza la conoscenza già pubblica e meglio ancora già validata da altri. Infine i testi devono essere scritti con un punto di vista neutrale, quindi né esaltatori né denigratori.

Come posso (ri)scrivere una voce?

Mentre è relativamente semplice correggere una voce se si trova un errore - ma consigliamo comunque di specificare una fonte che corrobori il dato corretto, aggiungendola magari nell'oggetto della modifica - spesso se crei o riscrivi una voce ti vedi azzerato tutto il tuo lavoro, anche se sei in buona fede ed effettivamente il tuo testo è più corretto di quello originario. Purtroppo molte persone inseriscono materiale errato oppure pubblicitario; gli utenti che lavorano attivamente sull'enciclopedia sono relativamente pochi, e possono sbagliarsi anch'essi in buona fede. Prima di fare modifiche importanti, ti suggerisco di anticiparle nella pagina di discussione della voce (la raggiungi cliccando sull'etichetta in alto, subito a destra di quella della voce stessa), spiegando i motivi; la comunità è sempre molto meglio disposta quando vede che c'è la volontà di discutere e quindi lavorare per migliorare Wikipedia. Anche le pagine dei Progetti, in genere indicate al termine del testo della voce, possono essere utilmente consultate: sono i posti dove è più facile trovare utenti esperti sia di Wikipedia che del tema della voce stessa.

Chi è il responsabile di quanto scritto su Wikipedia?

Su Wikipedia è presente un avviso per tutti gli autori: "La responsabilità civile e penale su quanto stai per inviare resterà inderogabilmente tua; per ogni modifica effettuata, infatti, resterà registrato pubblicamente il tuo indirizzo IP".

In caso di problemi relativi ad una voce di Wikipedia è possibile contattare l'assistenza di Wikipedia all'indirizzo info-it@wikimedia.org, oppure direttamente Wikimedia Foundation (i contatti sono disponibili nel suo sito). È invece inutile contattare Wikimedia Italia, dato che come scritto sopra l'associazione non ha alcuna autorità sull'enciclopedia; come azione immediata, può essere più utile contattare singoli utenti del progetto, direttamente su Wikipedia.

Come faccio a contattare la redazione di Wikipedia?

Non puoi: Wikipedia non ha una redazione.

Il suo funzionamento si basa su delle linee guida stabilite dalla comunità dagli utenti stessi e su alcuni principi di base non modificabili, noti come i "5 pilastri":

Wikipedia è un’enciclopedia, non una raccolta indiscriminata di informazioni;

Wikipedia ha un punto di vista neutrale;

Wikipedia è libera;

Wikipedia ha un codice di condotta;

Wikipedia non ha regole fisse.

All’interno di Wikipedia puoi contattare i singoli utenti, nelle loro "pagine di discussione" pubbliche oppure (se hanno abilitato tale funzione) inviando loro un messaggio riservato di posta elettronica.

Wikimedia Italia si occupa SOLO dei progetti WMF?

No. L'associazione Wikimedia Italia promuove il sapere libero anche attraverso iniziative slegate dalle attività di Wikimedia Foundation.

Wikimedia Italia sostiene diverse petizioni e campagne di supporto; gestisce la versione italiana del concorso fotografico mondiale Wiki Loves Monuments; partecipa a fiere, manifestazioni, barcamp, conferenze, corsi universitari o lezioni scolastiche per parlare del sapere libero, con il progetto Wikipedia va a scuola.

Inoltre, è capitolo ufficiale italiano di OpenStreetMap foundation, come OpenStreetMap Italia.

 Cultura, Informazione e Società. A proposito di Wikipedia, l’enciclopedia censoria.

Wikipedia, secondo la presentazione contenuta sulla sua home page web, è un'enciclopedia online, collaborativa e gratuita. Disponibile in 280 lingue, Wikipedia affronta sia gli argomenti tipici delle enciclopedie tradizionali sia quelli presenti in almanacchi, dizionari geografici e pubblicazioni specialistiche. Wikipedia, a suo dire, è liberamente modificabile: chiunque può contribuire alle voci esistenti o crearne di nuove. Ogni contenuto è pubblicato sotto licenza Creative Commons CC BY-SA e può pertanto essere copiato e riutilizzato adottando la medesima licenza. La comunità di Wikipedia in lingua italiana è composta da 771.190 utenti registrati, dei quali 8.511 hanno contribuito con almeno una modifica nell'ultimo mese e 105 hanno un ruolo di servizio. Gli utenti costituiscono una comunità collaborativa, in cui tutti i membri, grazie anche ai progetti tematici e ai rispettivi luoghi di discussione, coordinano i propri sforzi nella redazione delle voci. Quello che non si dice di Wikipedia, però, è che, pur lagnandosi essa stessa del pericolo della censura, i suoi utenti con ruolo di servizio svolgono proprio un’attività censoria. Non tutti i contenuti inseriti, nuovi o di rettifica, sono pubblicati sulla cosiddetta enciclopedia libera. Wikipedia ha una serie di regole e di linee guida per la pubblicazione, ma poi ti accorgi che sono puri accorgimenti per censurare contenuti e personaggi non aggradi all’utente di turno con mansioni di servizio. Censura dovuta ad ignoranza o mala fede. Un esempio: provate a cercare Antonio Giangrande, o i suoi 40 libri, o Associazione Contro Tutte le Mafie. Non troverete nessuna pagina a loro dedicata, e si potrebbe capire non reputandoli degni di attenzione, ma non troverete anche alcun riferimento a contenuti attinenti ed esistenti ed inclusi in altre pagine. Per esempio, alla voce mafia tra le associazioni antimafia non vi è l’Associazione Contro Tutte le Mafie. Addirittura hanno tolto il riferimento bibliografico al libro con il titolo “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana.

Il resoconto di un Avetranese”, scritto da Antonio Giangrande ed inserito alla pagina “Il Delitto di Avetrana”. Ognuno, comunque, può verificare da sé con i propri contenuti. Alla fine ti accorgi che, mancando alcune opere, fatti, personaggi o contenuti nuovi o di rettifica, proprio perché vi è impedimento al loro inserimento, Wikipedia proprio un’enciclopedia libera non è.

Tutto ciò è avvalorato da quanto scrive su “Il Giornale” Alessandro Gnocchi. Wikipedia come Mao: fa censura per cercare di riscrivere la storia. La popolare enciclopedia on line cancella gli interventi degli utenti che non si attengono alla "linea politica". «L’egemonia culturale è un concetto che descrive il dominio culturale di un gruppo o di una classe che “sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo”». La definizione, con ampia citazione di Gramsci, è prelevata da Wikipedia, l’enciclopedia on line ormai egemone nel fornire informazioni a navigatori, studenti, giornalisti e perfino studiosi. Nel mondo di Wikipedia le gerarchie sono quasi inesistenti. Chiunque può contribuire a creare o modificare una voce. La garanzia dell’accuratezza poggia su una doppia convinzione: il sapere collettivo è superiore a quello individuale; la quantità, superata una certa soglia di informazioni, si trasforma in qualità. Molto discutibile, e non solo in linea di principio. Infatti in Wikipedia esiste un problema di manipolazione del consenso, in altre parole è attivo un «sistema di controllo» simil-gramsciano (in sedicesimo, si intende). Le posizioni faziose passano quindi per neutrali, e il collaboratore che obietta può andare incontro a sanzioni che vanno dalla sospensione alla radiazione. Di recente, ad esempio, è stato espulso Emanuele Mastrangelo, caporedattore di Storiainrete.com, sito specialistico, e autore di alcuni studi sul fascismo. La pena «all’utente problematico» è stata comminata, dopo processo non troppo regolare, per un «reato» d’opinione gravissimo: aver affermato che in Italia la fine della Seconda guerra mondiale assunse anche il carattere di una «guerra civile». Opinione, quest’ultima, largamente maggioritaria tra gli storici di ogni orientamento, salvo forse quelli che hanno ancora il mitragliatore del nonno sepolto in giardino. «Guerra civile», per Wikipedia.it, non merita neppure una voce a sé: l’espressione è citata di passaggio all’interno di «Resistenza». Stesso trattamento è riservato alle forze armate che rifiutarono di aderire alla Rsi, facendosi deportare dai tedeschi: un accenno e via. Quanto alle «esecuzioni post conflitto» operate dai partigiani, si sfiora il giustificazionismo. Il paragrafo è preceduto da una imparzialissima (si fa per dire) dichiarazione di Ermanno Gorrieri, sociologo attivo nella Resistenza: «I fascisti non hanno titolo per fare le vittime». E accompagnato da una precisazione imparzialissima (si fa per dire) di Luciano Lama: «Nessuno vuole giustificare i delitti del dopoguerra. Prima di giudicare però si deve sapere cosa accadde davvero. Una guerra qualunque può forse finire con il “cessate il fuoco”. Quella no». Ecco, questo si può dire, è super partes al contrario di «guerra civile», definizione «non enciclopedica» solo per caso usata da una tonnellata o due di studiosi e scrittori di sinistra da Pavone a Pansa. Di conseguenza, dopo qualche giorno di discussione on line, arriva la sentenza: «A un utente che è stato bloccato sei mesi e non ha ancora compreso che la comunità non tollera atteggiamenti di questo tipo, è il momento di dire basta. Con tanto dispiacere, ci mancherebbe, né ho “corda e sapone pronta da lunga pezza”». In effetti l’impiccagione sarebbe stato troppo anche per un revisionista come Mastrangelo. «Pertanto - prosegue il giudice - procedo a bloccare per un periodo infinito l’utente». Al di là di questo caso personale, sono parecchie le voci contestate per una certa parzialità. Da quella sulla malga di Porzûs (dove nel febbraio 1945 i partigiani comunisti massacrarono quelli cattolici dell’Osoppo) a quella sull’attentato di via Rasella, che i wikipediani preferiscono chiamare «attacco», piena di lacune, a esempio sulle polemiche scatenate dall’azione gappista anche all’interno del Pci e degli altri partiti del Comitato di Liberazione a Roma. Oggetto di accese discussioni anche Cefalonia, Pio XII, l’Olocausto, la religione cattolica in generale. Anche in voci meno calde come quelle inerenti il liberalismo, il libero mercato, il neoliberismo emerge nettamente una visione assai orientata contro il capitalismo. Nella voce dedicata all’economista Milton Friedman si legge addirittura un giudizio morale: «Pur ricordando che né Milton Friedman né José Piñera sono stati coinvolti con le torture ed i crimini commessi dal governo Pinochet, la loro correità morale non viene per questo diminuita di fronte alla gravità dei crimini commessi contro l’umanità». Non si direbbe una valutazione «enciclopedica». Il sapere «democratico» di Wikipedia sembra un aggiornamento digitale del maoismo.

Wikipedia «blocca» la Raggi: non ha rilevanza se non è eletta. Secondo le regole, i candidati hanno diritto ad una pagina solo se diventano sindaci, scrive Emanuele Buzzi l’11 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Volete consultare la pagina Wikipedia dedicata a Virginia Raggi? Allora qualche nozione di spagnolo, russo o tedesco potrebbe essere fondamentale. Infatti non esiste una voce italiana sulla candidata Cinque Stelle al Campidoglio. Un paradosso del web, contando che Raggi si è conquistata la ribalta sulla stampa di mezzo mondo: dalla Cina alla Russia, dagli Stati Uniti alla Francia. Molti altri candidati, invece, anche di città di molto meno popolose, sono presenti sulla enciclopedia web. Compreso Roberto Giachetti. Sulla Rete c’è chi ha protestato, parlando di «chiara violazione della par condicio e della libertà di informazione» e chiedendo la pubblicazione di una pagina apposita. «Se ne riparla eventualmente dopo il ballottaggio, a seconda del risultato — hanno replicato gli amministratori —. Prima, no. Per inciso: Wikipedia è una enciclopedia e non un servizio giornalistico e in quanto tale non è soggetta alla par condicio». E proprio dai paletti fissati dalla comunità che dà vita alle voci di Wikipedia nasce il paradosso che riguarda Raggi. «Le regole sulla presenza di esponenti politici su Wikipedia risalgono addirittura al 2008, quando l’enciclopedia cominciò a essere famosa e quindi c’era chi voleva sfruttarla a fini elettorali — spiega Maurizio Codogno, wikipediano di lunga data —. La comunità scelse di limitarsi a parlamentari nazionali e sindaci dei capoluoghi di provincia, pensando che i candidati sindaco non avessero rilevanza prima di venire eventualmente eletti. Dopo il 2013, con i casi di Pizzarotti a Parma e Accorinti a Messina, si fece una nuova discussione, ma il consenso finale fu di non cambiare le regole». In altre parole, per ora, Raggi non è politicamente rilevante secondo le norme vigenti per avere una propria pagina. E come lei anche, per citare altri casi, Lucia Borgonzoni (al ballottaggio a Bologna) o Chiara Appendino (a Torino). Lo scopo della comunità è duplice: evitare che la pagina dei candidati venga strumentalizzata durante la campagna elettorale.

Salvatore Aranzulla cancellato da Wikipedia. E lui replica: «Rosiconi». La cancellazione della voce sul noto blogger di informatica dall'enciclopedia online ha scatenato un dibattito e diviso la Rete sulle ragioni che portano alla rimozione, scrive Raffaella Cagnazzo l’11 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un caso che ha aperto una discussione online, ma non solo. La voce Wikipedia su Salvatore Aranzulla è stata cancellata. Una citazione che riguarda uno dei divulgatori di consigli di informatica più conosciuti del web: il suo sito internet è tra i trenta più visitati d’Italia con oltre 400mila visite al giorno, su Facebook ha più di 340.000 follower, un fatturato che supera il milione di euro e chi cerca suggerimenti online su computer, internet e telefonia, difficilmente non si è imbattuto in un suo post. Cosa è successo. «Amici cari, vi dico solo che concorrenti di bassa lega e rosiconi stanno proponendo l’eliminazione della mia voce da Wikipedia» scriveva il 23 maggio scorso Aranzulla sulla sua pagina Facebook. E dopo una lunga discussione sulla piattaforma, la cancellazione è avvenuta. L'accusa mossa ad Aranzulla è di non essere un divulgatore scientifico, in sostanza i detrattori del blogger ritengono non risponda ai criteri di enciclopedicità necessari per essere presente sulla pagina di Wikipedia. Una delle tre ragioni che possono portare alla cancellazione di una voce dalla piattaforma di divulgazione in Rete (le altre sono la forma con cui è scritta una voce e il contenuto quando utile più al soggetto citato che ad un'informazione generale). Per la piattaforma di Wikipedia poco importa che il blogger sia una celebrità online, abbia scritto libri e sia considerato un esperto tanto da essere stato invitato più volte come ospite qualificato in trasmissioni nazionali. La replica di Aranzulla. «Abbiamo fatto scoppiare una bomba: più di 300.000 persone sono venute a conoscenza della cancellazione della mia pagina da Wikipedia. Ho ricevuto migliaia di messaggi di sostegno e centinaia di discussioni sono state avviate e sono in corso in Rete: da Facebook a Twitter, da Reddit a Linkedin. La comunità italiana di Wikipedia è di parte e il mio non è un caso isolato» commenta Aranzulla, spiegando che anche la pagina di Virginia Raggi, al ballottaggio per la poltrona di sindaco di Roma, è stata cancellata. La cancellazione, com'era inevitabile, ha scatenato un dibattito tra chi è un fervido sostenitore del blogger e lo considera un Guru del Web chi, invece, lo accusa di non avere competenze specifiche e di non aver mai programmato. Ma la questione sconfina oltre il singolo caso di Salvatore Aranzulla e apre una disputa sulla scelta delle voci attive su Wikipedia, le cui regole e linee guida sono state stabilite prima del 2004, e dove sono presenti le voci su tronisti di Uomini e Donne, Veline, e più in generale vari personaggi appartenenti alla cultura popolare. Chi è il blogger Aranzulla. Dal suo blog, Salvatore Aranzulla si definisce un divulgatore informatico, con più di 15.000 copie di libri venduti, autore del sito Aranzulla.it, uno dei 30 più visitati in Italia. Offre indicazioni pratiche con post in cui spiega «Come trasformare un Pdf in Jpg» o «Come filmare lo schermo del Pc», «Come cancellare la cronologia di Google» o ancora «Come connettersi ad una rete wireless»: argomenti di uso comune con cui, chi usa la tecnologia, si confronta tutti i giorni.

Wikipedia e la censura su Antonio Giangrande, le sue opere e le sue attività, scrive “Oggi” il 19 luglio 2012. Wikipedia, secondo la presentazione contenuta sulla sua home page web, è un’enciclopedia online, collaborativa e gratuita. Disponibile in 280 lingue, Wikipedia affronta sia gli argomenti tipici delle enciclopedie tradizionali sia quelli presenti in almanacchi, dizionari geografici e pubblicazioni specialistiche. Wikipedia, a suo dire, è liberamente modificabile: chiunque può contribuire alle voci esistenti o crearne di nuove. Ogni contenuto è pubblicato sotto licenza Creative Commons CC BY-SA e può pertanto essere copiato e riutilizzato adottando la medesima licenza. La comunità di Wikipedia in lingua italiana è composta da 771.190 utenti registrati, dei quali 8.511 hanno contribuito con almeno una modifica nell’ultimo mese e 105 hanno un ruolo di servizio. Gli utenti costituiscono una comunità collaborativa, in cui tutti i membri, grazie anche ai progetti tematici e ai rispettivi luoghi di discussione, coordinano i propri sforzi nella redazione delle voci. Quello che non si dice di Wikipedia, però, è che, pur lagnandosi essa stessa del pericolo della censura, i suoi utenti con ruolo di servizio svolgono proprio un’attività censoria. Non tutti i contenuti inseriti, nuovi o di rettifica, sono pubblicati sulla cosiddetta enciclopedia libera. Wikipedia ha una serie di regole e di linee guida per la pubblicazione, ma poi ti accorgi che sono puri accorgimenti per censurare contenuti e personaggi non aggradi all’utente di turno con mansioni di servizio. Censura dovuta ad ignoranza o mala fede. Un esempio: provate a cercare Antonio Giangrande pur avendo 200 mila risultati sui motori di ricerca (siti web che parlano di lui), o cercate i suoi 100 libri, o Associazione Contro Tutte le Mafie. Non troverete nessuna pagina a loro dedicata, e si potrebbe capire non reputandoli degni di attenzione, ma non troverete anche alcun riferimento a contenuti attinenti ed esistenti ed inclusi in altre pagine. Per esempio, alla voce mafia tra le associazioni antimafia non vi è l’Associazione Contro Tutte le Mafie. Addirittura hanno tolto il riferimento bibliografico al libro con il titolo “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese”, scritto da Antonio Giangrande e da tempo inserito alla pagina “Il Delitto di Avetrana”. Ognuno, comunque, può verificare da sé con i propri contenuti. Alla fine ti accorgi che, mancando alcune opere, fatti, personaggi o contenuti nuovi o di rettifica, dovuti al fatto perché vi è impedimento al loro inserimento, Wikipedia proprio un’enciclopedia libera non è.

E poi c'è la massa di frustrati. Il 9 giugno 2016 mi trovo sulla mia pagina Facebook la richiesta di amicizia di un tipo insignificante a da me ignorato. Attingo le sue informazioni: libero pensatore (?) di Milano e con pochi amici. Confermo la richiesta. Facebook lo impedisce. Cerco di eliminarla, idem. Dopo un paio di giorni vedo citato il mio nome a sua firma in un blog sconosciuto. E leggo quanto su di me racconta. Il tipo, sicuramente, lo fa con un certo astio, non avendo letto alcun mio libro. Oppure, avendo letto quello su Milano, ne sia rimasto risentito.  “Lenzuolate. Cercando informazioni sul sempreverde Paglia, al secolo Giancarlo Pagliarini mi sono imbattuto in codesto personaggio, tal Antonio Giangrande. Uno che le mitiche lenzoluate di Uriel Fanelli sono termini delle elementari. Un grafomane assoluto come non ne avevo mai visti. Nu tipo tutto d’un pezzo. Uno che tiene ‘na caterva di siti. Insomma una specie di professionista della neNuNZia civil/penale. Uno che – parole sue: Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate. Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d’informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l’uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. Gli ingredienti del complottista ci sono tutti:

è convinto che gli altri lo taccino di mitomania, calunnie o pazzie (oh, por ninin)

si ritiene ingiustamente maltrattato (oh, pora stela)

ritiene di essere perseguitato per la sua azione “meritoria”. Infatti:

i media lo censurano (oh, por ninin)

le istituzioni lo perseguitano (oh, pora stela)

ma chicca delle chicche, questa missione superiore oh, poffartopo,

gli impedisce di lavorare!

Dico, ma quello che fa a casa mia si chiama “giornalismo”. Tant’è vero che vende i suoi libri su Amazon, su Google libri, e perfino su Lulu o su Create Space. È talmente preso dal bisogno morboso e patologico di scrivere, di dire al mondo che è tutto un’ingiustizia che non si rende nemmeno conto che forse a strillare così come un ossesso sembra davvero fuori di cotenna. Poi capisco la foga di dire al mondo la notizia. Ma diamine scrive come se parlasse alla radio! E ne sà, ma quante ne sà. In lungo e in largo, su ogni tema e su ogni zona di codesto infame paese E son tutti cattivi con lui: non lo sfiora neanche per un attimo che forse è proprio il suo atteggiamento che lo rende poco credibile. Ma no, lui ci ha la CiuSDiZia nelle vene.

Giusto per non farsi mancare niente, leggete come si descrive – in inglese:

THE ASSOCIATION AGAINST ALL THE MAFIAS

INTRODUCES

THE RELATION OF THE JUSTICE IN ITALY

President: Antonio Giangrande been born in Avetrana in the 2nd June 1963.

Professions: entrepreneur, private investigator, lawyer.

he emigrated in Germany when he had 16 years, because he was poor.

today, in Italy, for the threats and the attacks of the Mafia, he is unemployed.

today, in Italy, for the irregular examinations, he is unemployed.

The President with the degree is unemployed.

His wife is unemployed.

His son with the 2 degrees is unemployed.

His daughter with the diploma is unemployed.

They are unemployed because they fight the Mafia.

The judges do not punish the Mafia.

In Italy the environment is polluted;

In Italy the administrators publics do not respect the law;

In Italy the insurance agencies do not respect the law;

In Italy the lawyers do not respect the law;

In Italy the banks do not respect the law;

In Italy all the examinations are irregular, wins who is more cunning.

In Italy the authorities ignore the disabled, the prisoner, the unemployed, the poor people.

In Italy the judges do not respect the law;

In Italy the police does not respect the law;

In Italy the authority does not respect the law;

In Italy the authority misuses its power.

In Italy the authority says to the citizen: you undergo and be quiet!

The Italian citizen is silent.

You can translate the complete relation. It is in Italian.

Nessuno è onesto, son tutti disonesti, farabutti ecceterì ecceterà. Ma se è così un campione di superiore intelligenza….. perché non è andato all’estero a far faville? Mistero….Personalmente io sono una mezza sega, ma almeno sò di esserlo… codesto è il genio dei farlocchi incompresi. O meglio, sembra esserne convinto…”.

Non aspiro al consenso assoluto, comunque grazie per la pubblicità. Oscar Wilde diceva “Bene o male, purchè se ne parli…” Il detto «Nel bene o nel male, purché se ne parli» (e simili) parafrasa un brano de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1890): “... ma attirare l'attenzione delle persone su di te ha due risvolti: il primo è che se non sei indifferente ad esse, e che quindi parlano, anche male, di te, vuol dire che comunque esisti; ma quando a parlare male di te sono persone disperate, derise dal resto del mondo e che passeranno su di esso senza lasciare alcuna traccia, allora è proprio triste...E ancora, se l'unica cosa che meriterebbero queste "persone" sarebbe un Oscar, se ne esistesse uno per la capacità di fingere, per la falsità con cui gestiscono i rapporti anche tra loro, allora è ancora più triste. Il mio errore più grande è stato quello di adeguarmi a frequentare "esseri" i cui neuroni sono pochi e purtroppo anche stanchi... e per adeguarmi intendo dire che ho accettato i loro limiti intellettivi, umani, culturali e sono passato sopra alle cose anche gravi che hanno fatto... così, perchè ho deciso di adottare la filosofia secondo la quale tutti siamo diversi... per intelletto, umanità e cultura... E quando mi sono sentito chiedere: "Come fai a stare con certa gente?" ho risposto che le persone è necessario conoscerle prima di giudicarle. Il problema è che io mi faccio conoscere come sono, ma spesso mi illudo di conoscere chi mi sta intorno. Forse sottovaluto ciò di cui possono essere capaci...Non avevo idea di come potesse essere cattiva la gente, o meglio, non pensavo di poterlo provare sulla pelle, di essere io l'oggetto della cattiveria di qualcuno/a... e mentre mettevo in guardia le persone a cui tengo di più, non mi accorgevo che dovevo stare anche io in guardia....La cosa che questi esseri (scusate ma non so proprio come definirli) non capiscono è che mentre cercano di rovinare la tua reputazione, dispensando giudizi negativi e gratuiti su di te, non si accorgono che la loro è già compromessa, o forse sono solo consapevoli che se si concentrano sui tuoi difetti non vedono i propri... Tu comunque non vieni intaccato, perchè ciò che dicono rimane nel loro piccolo mondo di cacca che si sono costruiti, e fuori da quel mondo di cacca tu sei apprezzato e rispettato, intrecci rapporti lavorativi, sociali, interagisci con persone diverse, mentre loro suscitano ilarità, disprezzo o peggio ancora indifferenza...Ecco perchè dopo tutto ciò non sono deluso, o triste, ma provo solo pietà... perchè io so, e sapevo, di tutta questa ilarità, disprezzo e indifferenza... la leggevo negli occhi di quelle stesse persone alle quali oggi gli esseri dispensano giudizi negativi e gratuiti su di me...Che falsità, che ipocrisia...Finchè nella tua vita non fai niente di "speciale", niente che possa suscitare l'invidia delle persone, passi inosservato, e nessuno si sente in diritto di giudicarti... ma quando eccelli in qualcosa, quando volente o nolente "ti fai notare" allora sei fottuto... e cosa ancora più grave proprio da chi ti diceva - Ma come sei bravo, diventerai un bravo ing., ecc.! . Giuda almeno ci ha guadagnato 30 denari con un bacio...L'importante è avere la stima delle persone a cui tieni di più: la tua famiglia, gli Amici veri, e perchè no, la gente con cui lavori... ma soprattutto il tuo orgoglio, il resto è niente... un tassello da aggiungere ad un puzzle, un pezzo che vorresti perdere ma che comunque fa parte del quadro, e senza mancherebbe sempre qualcosa, ci sarebbe un vuoto. Ben vengano le critiche allora, gli sguardi invidiosi, le maldicenze... sono prove a cui la vita ci sottopone, e ne usciamo più forti. Ci sono due tipi di "invidia": quella "malata", che porta molti a credere che per avere successo bisogna affondare chi è meglio o credi sia meglio di te, e quella "sana" che porta a migliorarti, perchè sai che tu puoi essere meglio di come sei ... che ti stimola a perfezionarti, perchè è così che si ottiene il successo. Purtroppo, come la gramigna, la prima è più diffusa, è insita nella natura umana, e propria di chi non vuole far fatica a mettere a prova sè stesso... è più facile distruggere chi rappresenta una minaccia...Rappresento una minaccia